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Tv, Costituzione e democrazia, politica e pluralismo 3° Seminario Roma, 23 febbraio 2010 Camera dei deputati Senato della Repubblica Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi

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Tv, Costituzione e democrazia, politica e pluralismo3° Seminario Roma, 23 febbraio 2010

Camera dei deputati

Senato della Repubblica

Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi

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Tv, Costituzione e democrazia, politica e pluralismo

3° Seminario Roma, 23 febbraio 2010

Senatodella Repubblica

Camera dei deputati

Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi

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Il presente volume raccoglie gli atti del Seminario promosso dalla Commissione per l’indirizzo generale e lavigilanza dei servizi radiotelevisivi.

La raccolta degli atti è stata curatadall’Ufficio di segreteria della Commissione.

Gli aspetti editoriali sono stati curati dall’Ufficiodelle informazioni parlamentari, dell’archivioe delle pubblicazioni del Senato.

© 2010 Senato della Repubblica

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Terzo Seminario

TV, Costituzione e democrazia.La politica e il pluralismo.

ROMA, 23 FEBBRAIO 2010

SALA CAPITOLARE

CHIOSTRO DEL CONVENTO DI SANTA MARIA SOPRA MINERVA

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IntroduzioneSERGIO ZAVOLI

PARTECIPANTI

PAOLO ARMAROLI

Oridinario di Diritto pubblico comparatoUniversità di Genova

ANTONIO BALDASSARRE

Ordinario di Diritto costituzionaleUniversità LUISS, Roma

DOMENICO FISICHELLA

Ordinario di Dottrina dello Stato e Scienza della PoliticaUniversità di Firenze

PAOLO GARIMBERTI

Presidente della RAI

NICOLÒ LIPARI

Oridinario di Istituzioni di Diritto privatoUniversità di Roma

STEFANO PASSIGLI

Ordinario di Scienza dell’AmministrazioneUniversità di Firenze

GIANFRANCO RAVASI

Arcivescovo e BiblistaCollaboratore de Il Sole-24 ore e de L’Avvenire

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GUSTAVO SELVA

Giornalista e ParlamentareEx Direttore del GR 2

E i componenti della Commissione parlamentareper l’indirizzo generale e la vigilanza

dei servizi radiotelevisivi:

MARCO BELTRANDI, Deputato

GIORGIO MERLO, Deputato

FABRIZIO MORRI, Senatore

GIOVANNA MELANDRI, Deputato

PAOLO GENTILONI. Deputato

VINCENZO MARIA VITA, Senatore

FRANCESCO PARDI, Senatore

LUCIANO MARIA SARDELLI, Deputato

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IL DIBATTITO

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SERGIO ZAVOLI. Illustri ospiti, autorità, colleghi, si-gnore e signori: quando sono nati questi tre seminariho preso l’impegno di mantenerli all’interno di unaquestione che doveva avere caratteristiche particolari,ovvero quella di doversi muovere in un ambito speci-ficamente culturale. Ma la querelle sollevata a propo-sito del regolamento per le trasmissioni televisive nelperiodo elettorale ha riproposto, non solo strumental-mente, la questione della par condicio, di cui in questigiorni si fa un gran parlare e la cui applicazione con-tinua a rimettere in causa addirittura il ruolo di unostrumento che ha estimatori e denigratori distribuiti,quasi equamente, nel mondo della politica e dell’infor-mazione: il Servizio pubblico.

Vengono quindi al pettine, risvegliati dal doverogni giorno sintonizzarli con il mutare degli scenari,lontani problemi irrisolti. Non vorrei ripetermi, maqualcuno dei presenti può non aver partecipato al se-minario precedente, in cui davo conto di una questio-ne grave, che implicava la sorte del Servizio pubblico,immaginando di doverne riordinare la materia alla lu-ce di un criterio affidato a una sua rinnovata e insiemeribadita regolazione: fondata sul principio della libertà

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di stampa e di impresa, tutto garantito dalla legisla-zione sulla concorrenza, il mercato, i diritti e i doveridell’informazione, la competitività, e via così.

Con pari dignità di ragionamento si è continuatoa difendere la natura di Servizio pubblico assegnataalla RAI in nome di un interesse nazionale teso a tute-lare, anzi a incrementare, il patrimonio civile e cultu-rale della comunità, non di rado eluso da interessi ov-viamente particolari. Sotto questo aspetto cito anche ilprocesso dell’omologazione via via accresciuta tra idiversi soggetti televisivi, la quale postula peraltro cheproprio uno speciale presidio di valori non commer-ciabili vada salvaguardato e accresciuto, salvo emen-darne e integrarne le forme secondo le realtà che so-pravvengono. Che fare, insomma, per regolare construmenti di garanzia l’efficacia di un ruolo divenutosempre più delicato e complesso, garantendo al tempostesso l’effettivo esercizio della democrazia, il massi-mo di equità e di trasparenza? Occorre dunque sorve-gliare il confine sfumato e subdolo tra il modo di leg-gere semplicemente i dati della realtà e quello di ad-dentrarsi consapevolmente nella sua essenza, speciequando vi siano coinvolti princìpi civili, valori morali,criteri professionali.

La preferenza non dovrebbe certo andare aun’informazione che, in base al mito dell’oggettività,si esprimesse attraverso un fiscale e asettico compen-dio degli eventi, esaurendosi in questo specifico com-

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pito; ma nemmeno a quella che aspirasse a ridurrel’analisi e a fissarne le conclusioni tramite la sola ga-ranzia di una mediazione che presumesse di rappre-sentare la congerie delle interpretazioni politiche,ideologiche e culturali presenti nelle forme poliedrichedella società.

Ciò è parso chiaro quando ci siamo trovati alcentro di uno scenario imponente e drammatico, cheaveva visto non solo cadere i muri, ma precipitaremontagne di errori, di colpe, di crimini. Di fronte auna questione così complessa, il primo pensiero a farsivivo oggi, nel concludere i nostri seminari, ci è sem-brato quello di richiamare i compiti divenuti crucialidella comunicazione, a cominciare da quella esempla-re forma della garanzia, della trasparenza e, in defini-tiva, dell’equità che abbiamo chiamato pluralismo. IlPresidente Ciampi aveva già sollevato un allarme de-mocratico, non evocando fantasmi, ma richiamandosia un problema sempre in cima al giornalismo e sempreirrisolto, quasi non si riuscisse, chissà per quale nostraignavia o distrazione o dolo, a trovarne il bandolo.

Del resto, la già citata velocità del flusso infor-mativo provoca non solo frustranti sensazioni di im-precisione, incompletezza e parzialità, ma anche fe-nomeni di conformismo, da una parte, e di rifiuto,dall’altra. Si avverte non di rado che sotto i nostri oc-chi non si svolge più nessun continuum, tant’è che ilrapporto causa-effetto sembra essere sostituito dal-

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l’esemplare solitudine dei fatti e conseguentementedal loro diffondersi e prolungarsi secondo la loro na-tura. È un passaggio che può apparire astruso, se ri-dotto a queste poche parole, motivo per il quale vi ri-manderei alla lettura di un bel libro di MarioMorcellini, dal quale ho imparato molte cose. Perquesto occorrerebbe collocare i problemi della comu-nicazione in quella dimensione, ben più ardua, delsentimento collettivo e del suo intrinseco, direi onto-logico, valore democratico.

Il messaggio del Presidente Ciampi sottintende-va, a questo proposito, una domanda: se non fosse percaso entrato in crisi l’assunto democratico secondo cuisocietà libera e pluralità d’informazione sono tutt’uno.Collocando questa realtà nel sistema mediatico, nono-stante gli interventi della Federazione della Stampa edell’Ordine dei giornalisti, la prima a rivelarsi è statala difficoltà di ridisegnare un ruolo dell’informazione,che corrispondesse all’accresciuta complessità civile eculturale del Paese (si potrebbe aggiungere addiritturadel mondo, perché è stato un fenomeno universale).Ed ecco patirne proprio la questione del pluralismo,cui Ciampi si è dedicato con tanta preoccupazione. Neaveva, e ne ha, a mio avviso, mille motivi.

Per questa ragione lo abbiamo pregato di aggior-narci il suo pensiero, al cui centro continua a premereuna delle questioni cruciali di questo tempo erratico,imprevidente, esposto ai gravi rischi provenienti da

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una non governata complessità. Vediamo quindi il vi-deo registrato con il Presidente Ciampi, a questo pro-posito, qualche giorno fa.

Cari amici, desidero innanzitutto ringraziare sen-titamente il Presidente Zavoli per l’invito a parte-cipare, seppure a distanza, a questo incontro, ter-zo di una serie dedicata al rapporto fra la televi-sione, il Servizio pubblico e la comunità naziona-le. I relatori che si avvicenderanno in questa gior-nata recheranno alla riflessione su questo temacontributi di rilievo, all’altezza della loro fama distudiosi e di professionisti dell’informazione.Quanto a me, posso solo portare la testimonianzadi uomo delle istituzioni, ché tale mi consideroavendovi trascorso l’intera mia vita professionale,cui ha fatto seguito l’impegno pubblico.L’incontro di oggi è incentrato sul pluralismo,parola-chiave di ogni discorso sull’informazione,sia essa carta stampata o radio-televisiva. La li-bertà di stampa, classico pilastro delle modernedemocrazie, nell’era della comunicazione globaleassume una fisionomia molto più articolata, unpiù complesso contenuto; e parimenti complessedivengono le forme di garanzia e di tutela dellelibertà e del pluralismo.Il pluralismo dell’informazione e, lasciatemi ag-giungere con una particolare sottolineatura, laqualità di questa, concorrono ad assicurare labuona salute delle istituzioni, direttamente e invia mediata. Nel primo caso esercitando il con-

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trollo – il cane da guardia – sul loro corretto fun-zionamento; nel secondo, contribuendo a forma-re cittadini consapevoli e partecipi, attivamentepartecipi alla vita della cosa pubblica; con sensodi responsabilità, ma anche con quello spirito cri-tico che è il lievito della vita democratica.Mi piace riprendere la felice definizione di KarolWoityla, che considerava i mezzi di comunicazio-ne il moderno areopago dove si forgiano compor-tamenti e dove di fatto va delineandosi una nuo-va cultura. Muovendo da tale considerazione nonv’è chi non veda la mole di responsabilità chegrava sui mezzi di informazione: in primis sullatelevisione, per la capillarità della sua diffusione,per l’immediatezza del suo messaggio.Viviamo il tempo dello smarrimento, del disin-canto. L’uno e l’altro sembrano dare forma a unaspecie di onda anomala che rischia di sommergereil nostro essere comunità. Sì, perché non dovrem-mo mai dimenticare che tali siamo, e dobbiamorestare, nonostante le tante diversità che ne con-notano i membri, individui e gruppi sociali: diver-sità di opinioni, di convinzioni, di orientamenti.Molte di queste diversità hanno radice nella no-stra stessa storia, più o meno recente; altre, vice-versa, nascono, alimentano, riflettono tutta lacomplessità che caratterizza le società contempo-ranee, il cosiddetto mondo postmoderno.La crisi che ha investito l’economia mondiale, de-terminando un diffuso senso di incertezza, ampli-fica quella sensazione di smarrimento, il suo ca-

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rattere epocale imprime segni inequivocabili diuna cesura tra un prima e un dopo. A una infor-mazione pluralistica, libera, intellettualmenteonesta compete di svolgere una parte non irrile-vante nello stendere gli articoli del nostro statutodei cittadini. A tale fine è essenziale approntaretutele e garanzie per la salvaguardia del plurali-smo e della libertà d’informazione; e tuttavia nonbasta. Non bastano i presìdi normativi e regola-mentari.Concludo affidandomi al giudizio sempre lucido,libero, non conformista di Luigi Einaudi, che nellontano 1945 scriveva: «La conclusione è desti-nata a lasciare disillusi coloro i quali credono neirimedi legali ai mali morali. Poiché è certo che asiffatti mali non giovano, anzi nuocciono, queirimedi, giova tentare la via opposta: che è di pro-muovere il volontario ricorso a un rimedio pura-mente morale».

SERGIO ZAVOLI. Non indugiammo abbastanza, al-lora, sul valore di questo messaggio. Fu una imprevi-denza a cui abbiamo pensato di poter porre riparo ri-chiamando una sorta di patto tra politica e comuni-cazione, ma anche tra Parlamento e cittadinanza, uni-versità e saperi, società e mass-media.

La prenderò quindi da lontano. Quella di metterein discussione il Servizio pubblico è una tentazioneche risale agli inizi degli anni ottanta, quando la na-scita della televisione privata sollevò una sorta di pa-

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nico, alimentato dall’idea che il mercato avrebbe, senon travolto, almeno tramortito una RAI che non sifosse subito votata alla logica dei grandi numeri, cioèvolgendo risolutamente le sue energie in direzionedello scontro frontale con la realtà ineludibile dellapartita doppia.

La RAI è una azienda sottoposta a una dinamicatecnologica in evoluzione rapidissima, oltre a essereun organismo assai sensibile al clima di fiducia e disostegno, ma anche di sospetto e disaffezione, che at-torno a essa si determina sia negli ambiti politico-isti-tuzionali sia presso l’opinione pubblica. Mi sento ob-bligato a riferirmi, sia pure brevemente, ai problemipiù specificamente di contenuto dei programmi dispettacolo e della attività informativa. Non potremmofingere di essere solo tecnocrati della comunicazione,al servizio di un megafono privo di identità civile, cul-turale ed etica. Al contrario, crediamo che sul terrenodel rinnovamento nazionale la radio e la televisionedebbano incrementare un “contributo qualitativo dimassa”, corrispondente a una politica editoriale chedeve rispondere a una duplice e integrata lettura deisuoi diritti e dei suoi doveri istituzionali e aziendali.Dunque una linea culturale complessivamente corag-giosa, che il pur importante fattore ascolto, in un cli-ma sempre più competitivo, non deve sottovalutare.

Per ciò che riguarda l’informazione, non possotacere il rilievo che questo comparto assume nell’iden-

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tità del Servizio pubblico. Al Presidente GiorgioNapolitano, che nei giorni scorsi ci ha voluto perso-nalmente testimoniare la sua attenzione, ho confer-mato l’impegno a concepire il nostro mandato nel se-gno di un preciso dovere, quello di consolidare i valoridi unità e di crescita morale e civile dell’intero popoloitaliano. È quanto desidero sottolineare anche in que-sta sede, ricordando che nel nostro lavoro ci accompa-gnerà la ricerca non solo dei consensi, ma anche deiconfronti, al di fuori di ogni supponenza, di qualsiasispirito egemonico e contro ogni uso di parte delServizio pubblico.

Di quanto ho appena detto sono doppiamenteresponsabile: di averlo tratto dalla mia prima audizio-ne come neopresidente della RAI in un’Aula dellaCommissione parlamentare di vigilanza il 2 luglio del1980, e di considerarlo oggi, una trentina di anni piùtardi, un testo che avrei potuto scrivere questa matti-na, a ridosso di questo nostro incontro. Il senso diquelle parole, ancora un po’ prudenti se riascoltate og-gi, è lo stesso al quale, con qualche intenzione in più,ci stiamo dedicando dal giorno in cui, il 23 novembre2009, abbiamo inaugurato questi seminari. Certo, nonè un buon segno, anzi è la prova della vecchiezza diuna realtà che la politica non ha saputo regolare, divolta in volta affrontando e incrementando le misurepiù corrispondenti a nuove logiche. L’incontenibile in-clinazione ad aumentare il grado di interferenza nei

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processi operativi della RAI ha infatti generato feno-meni di disaffezione nella società civile e di perditad’identità nell’azienda.

Quale politica aziendale e istituzionale può darsiuna forma di autoregolamentazione che di fatto riducela forza qualitativa dei suoi programmi? Il mondo del-la comunicazione televisiva, da dover tutelare con-temporaneamente in nome di un intero sistema, sop-porterà ancora il senso in queste domande o le invec-chierà via via fino a renderle incomprensibili? Infine,come si appresterebbe a vivere un salto d’epoca chetravolgesse le regole del comunicare partendo non daiprincìpi, ma dai mercati, dalle tecnologie, dal cumulodegli ascolti e dal potere della pubblicità?

Non sono domande del primo né dell’ultimogiorno e temo che le ragioni per credere ai passi indie-tro della politica e a quelli in avanti del Servizio pub-blico tarderanno a trovare le condizioni per legittima-re rispettive responsabilità. Ma una domanda dovràpur mettere insieme le due volontà, se il rischio è quel-lo di lasciare tutto com’è: possiamo accettare di inol-trarci nelle difficoltà che ci aspettano senza porre ma-no a una motivazione capace di essere ragionevole?

Servizio pubblico, politica del sistema, plurali-smo: tre problemi da dover risolvere insieme, con unaresponsabilità più avvertita per il destino di una delletre componenti, cioè il Servizio pubblico assegnato al-la RAI, che non può non essere un fattore di garanzia

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per tutto il sistema e tutto il Paese. Guai se l’omologa-zione, apparsa fino a ieri un successo, dovesse seppel-lire la diversità. Il giorno in cui la RAI del Serviziopubblico, non soltanto quindi l’azienda radiotelevisi-va, dimenticasse di essere la TV che ha fatto parlare gliitaliani, ha mostrato il volto del loro Paese generandoforme di integrazione in cui non sono riusciti la scuo-la, la cultura, l’economia e tutti gli altri media messiinsieme, che ha dato un respiro sociale a una Patriacelebrata solo dai monumenti, dando un’immagine disé visibile in tutta la sua complessità, quel giorno siimpoverirebbero l’intero Paese con tutto il suo sistematelevisivo!

L’informazione di cui ci stiamo occupando non èsolo un problema specifico, riconducibile agli aspettitecnici del mestiere, ma il frutto delle politiche delPaese. Se qualcosa le va addebitato, è la progressivacomparsa di una sorta di duttilità pratica e contingen-te, conferitale dall’avere accettato un generico prag-matismo proprio quando un grande rivolgimento cul-turale esigeva che il giornalismo si facesse mediatoreconsapevole di elementi, princìpi, criteri e valori maiprima d’oggi tanto intrecciati e tra loro così dialettici.

A questo punto chiedo la libertà di rivolgerviuna domanda fuori contesto, ma non estranea alla na-tura delle nostre più insorgenti e inusuali interroga-zioni. Se, cioè, quello che stiamo vivendo sia un tem-po da dover abbandonare a un praticismo quotidiano,

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lucido e utilitario, mentre appena ieri il nostro mag-gior filosofo vivente, Emanuele Severino, riproponevale questioni estreme: se, e quanto, il mondo e l’uomodebbano corrispondersi, e quali responsabilità impli-chi la risposta a un dilemma che sovrasta la stessa esi-stenza dell’universo.

Come può l’informazione influire in un tale di-battito e, per giunta allargarlo, nutrirlo? Come distri-carsi in un dilemma cui stenta a star dietro la culturadei nuovi saperi? Quello delle scienze naturali è dav-vero divenuto più maturo, dinamico e credibile dellostatico e virtuoso sapere umanistico? Eppure, se lascienza sta approssimandosi ai moduli dell’umanesi-mo, diventando cioè più argomentativa, problematicae indeterministica, non viviamo per ciò stesso una ri-voluzione culturale che va a toccare una congerie diquestioni essenziali per il nostro sentire quotidiano?Come non chiedersi quanto il problema comunicativoincida sulla nostra vita, coinvolgendo la politica e laricerca, nel medesimo tempo interpretando i valoridell’etica, a iniziare dal principio della responsabilità?Si potrà ancora rimandare un confronto finalmenteesplicito tra pensiero laico e consenso interiore, checreano un numero crescente di dilemmi in un’epocaimmersa nelle straordinarie opportunità della scienzae della tecnologia, così influenti sulle scelte ormaiquotidiane della nostra vita?

Non dovremmo porci, qui, le regole di un’educa-

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zione anche mediatica, in grado di percepire e comu-nicare i volti via via cangianti di un’esperienza sotto-posta a una crescita culturale sempre più veloce? Stadavvero affacciandosi, nella sensibilità e nella culturadi massa, un pensiero anche metafisico, in grado di bi-lanciare la pretesa secondo cui solo il razionale è rea-le? Non dovremo attrezzarci per filtrare correttamentegli infiniti effetti di tale rivolgimento, che investono einquietano un’umanità provocata dai tanti problemiche i nuovi saperi le vanno ponendo?

Azzardo ancora qualche esempio. Non ci serviràconoscere meglio la questione religiosa nei suoi aspet-ti più universali per affrontare le cronache dell’inte-gralismo? E il pensiero positivista per parlare con piùavvedutezza, del nostro percorso genetico dall’originea oggi? E l’economia, per capire i meccanismi dellaglobalizzazione; e la sociologia, per approfondire il si-gnificato di “poltiglia sociale”, un giudizio che investeil Paese erompendo da un’analisi tra le più severe delCENSIS? O ancora, l’ambientalismo, con i costumi chelo riguardano, se riflettiamo che ci viene assegnatouno dei primi posti al mondo nella classifica dei nemi-ci della natura? O la politica, per capire che la cosapubblica è noi stessi? E persino la teologia, quandonon si limiti a essere la scienza di Dio, ma sia ancheorientata dal magistero verso la morale sociale, daiproblemi della legislazione secolare alla condotta so-cialmente rilevante persino di quegli uomini della

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Chiesa che cadono, per così dire, in tentazione, e nondi rado si abbandonano a ignominiose trasgressioni?

E che dire del criterio della responsabilità giuri-dica ed etica, quando in un anno muoiono solo neicantieri 984 operai, ponendo la tremenda questionedel lavoro come mezzo per garantirsi la vita senza do-versi difendere addirittura dal rischio di perderla? Eche cosa si fa, altresì, di fronte ai malesseri provocatidalle incertezze del diritto, non di rado gestite senza ildovuto riserbo, ma dovendosi guardare da mezzi eobiettivi politicanti? Come non contrastare, d’altraparte, quel giornalismo che si fa portavoce zelante dichi ha più potere e intende conservarlo, anche dispo-nendo di un diretto ed efficace supporto mediatico?Come difendere una TV incaricata di Servizio pubbli-co, che non sappia interpretare il vincolo esercitato dauna Commissione parlamentare, la quale ne indirizzae vigila i contenuti, e si offra alle sanzioni diun’Authority? Ma come colmarne il bilancio economi-co, disponendo di un canone accresciuto con una par-simonia che non ha riscontri nel capitolo della finanzapubblica? Lucia Annunziata, già Presidente della RAI,citò la sentenza della Corte Costituzionale sul pericoloche la televisione «inaridendo una tradizionale fontedi finanziamento, la pubblicità, rechi grave pregiudi-zio a una libertà che la Costituzione fa oggetto dienergetica tutela».

Se dunque si vuole evitare che la televisione del

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Servizio pubblico veda inaridirsi le fonti pubblicitarie,non è lecito e addirittura doveroso che il canone tornia essere uno strumento di importanza strategica, ve-nendo progressivamente portato al livello delle grandidemocrazie europee? E in un Paese dove si ripiananobilanci anche civili e morali, non è doveroso pretende-re uno strumento per sgominare l’evasione del canonestesso? A ciò si aggiunga la domanda iniziale: non è apartire da questo passato che occorre impegnarsi nelladifesa del pluralismo come condizione di libertà?

Se a individuare e a interpretare progressiva-mente le mutevoli e profonde necessità dell’uomo edel cittadino non intervenisse un criterio insieme me-diatico e professionale, politico ed etico, avrebbe an-cora un senso parlare di informazione libera e demo-cratica? Il giorno in cui tutto fosse devoluto a unosterminato servizio da dover rendere ai nuovi miti del-l’utilitarismo e del “convenientismo”, della facilità edell’effimero, della spettacolarizzazione e dell’audien-ce, a chi resterebbe il compito di tutelare non solo ivalori, ma anche i bisogni civili, sociali, culturali emorali della cittadinanza? Un pluralismo che si limi-tasse a sommare le faziosità, le deficienze e persino isilenzi o a esprimere gli interessi separati del cittadinoe della società, cioè a distribuire esigenze corporativesulla base di regole economicistiche, non risolverebbenessuno dei problemi che abbiamo di fronte.

Il sistema mediatico deve disporre di uno stru-

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mento giuridico costituzionale, ma anche – consenti-temelo – di una mentalità, di uno scopo, di princìpi,di linguaggi, proprio perché una logica comunicativaprincipalmente fondata sul criterio dei grandi numerinon può non determinare stereotipi sociali di compor-tamento, l’adeguamento al modello comune, la neces-sità di essere visibili singolarmente, anche quando lalibertà di espressione postula una riconoscibilità col-lettiva a salvaguardia dei diritti alla diversità.

Solo una comunicazione che sappia interpretarequeste esigenze diventa uno strumento che garantisceil vero primato della politica. In caso contrario, puòesserne soltanto un interprete più o meno servile.Dobbiamo essere consapevoli che domani si potrà an-cora cambiare questo mondo cambiato, ma come?Rispondendo agli interrogativi posti dal cambiamento.D’ora in poi, se c’è una virtù civile e politica che ab-biamo il diritto-dovere di osservare, credo possa essereletta così: la verità dev’essere prima una virtù colletti-va, poi una passione personale. È tempo di far conflui-re nell’opinione pubblica i dubbi e le richieste, gli sde-gni e la speranza di ciascuno. Ormai – e questo valeper tutto e per tutti – è proprio la storia a insegnarciche si cresce, e persino si vince, in virtù dei problemiche siamo costretti a risolvere. Ci basterebbe vederliinsieme, e insieme volerli affrontare.

Spero francamente che non ci si debba più chie-dere se questo tempo ha bisogno di giornalisti o di fi-

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losofi della scienza, di maestri della morale, di studiosidella società, di esperti della politica e del sindacato;siamo certi che si tratti di argomenti estranei alla co-municazione? Devono essere i detentori dei saperi ac-cademici, e gli opinionisti con i loro giudizi più sottili,perentori o duttili, a gestire mediaticamente un’infor-mazione in grado di addentrarsi e influire su problemie valori che interpellano in ogni momento ragione edetica, senza più ignorarle o dividerle? Siamo certi cheessa, così com’è, valuti a sufficienza lo stato dei dirittiumani, sapendo dar conto, senza enfasi, dei malesseriche attraversano il corpo e l’animo di una società?

Una democrazia si ammala anche di rassegna-zione, di pigrizia, di ignavia, ma chi si indigna, oggiper chi discrimina le diversità? Per chi ha un’altra et-nia, un’altra religione, un’altra identità civile, sociale,sessuale? Diventa così sempre più fragile il confine trala percezione del reale e la certezza della realtà: quelconfine va presidiato. Fate caso a queste parole virgo-lettate: «Mai come in questi ultimi tempi i comporta-menti umani, segnati da un profondo individualismo,feriscono la vita sociale. Non pagare le tasse e farseneun vanto, frodare nel commercio, non rispettare glielementari diritti dei lavoratori per ottenere profittisempre maggiori, e cento altre trasgressioni, non sonosoltanto singoli comportamenti da dover censurare,ma anche dei veri e propri attentati alla società nel suoinsieme». Parrebbe un’invettiva di altri tempi, presa da

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un agitatore appassionato, sono invece parole estratteda un’omelia pronunciata dall’Arcivescovo di Milano.Non può dirsi un tempo qualunque quello che mette inbocca a un cardinale una protesta di questa forza enatura, né può accettarsi un’informazione che non ap-profondisca, a seconda dei punti di vista, cioè con spi-rito plurale, le tante, sottintese questioni che attraver-sano il tessuto civile e morale di un Paese.

Da allora sono accadute tante cose, non tutte de-stinate a migliorare la qualità del Servizio pubblico.Era nata per esempio un’inedita confidenza tra l’infor-mazione e le sue fonti e stava maturando una singola-re familiarità persino linguistica con vari aspetti dellapolitica, anche la più nobile, non solo quella politi-cante. C’è chi risolverebbe alla svelta il problema: glibasterebbe ridurre la politica al minimo, opponendolediffidenza e disinteresse, e magari adottando qualcheangusta misura normativa, o avventurandosi in inde-bite minacce personali contro un giornalismo cheonori, non che ometta, i suoi doveri deontologici. Èuna vecchia tentazione che torna a galla a ogni ma-reggiata illiberale o, più grossolanamente, qualunqui-sta. Ne abbiamo un esempio quando qualcuno ha en-fatizzato un fenomeno parapolitico che schieraval’opinione pubblica in senso antipartitico e populista,come se fosse ragionevole credere che lo scopo da at-tribuire agli strumenti comunicativi possa essere im-maginato al di fuori della politica, cioè dell’unica pos-

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sibilità pratica e concettuale di ricercare e trovare so-luzioni ai problemi da cui sono investite una società euna nazione. È come se, rifiutando di occuparci dellapolitica, essa non continuasse a occuparsi di noi. È unmotivo in più per chiedere una democrazia più garan-tita dal pluralismo e non così incerta e spaesata, mossidal principio secondo cui non c’è mai tanto bisogno dipolitica come quando essa stessa sembra autorizzarcia voltarle le spalle.

Per questo va respinto il subdolo tentativo di im-poverirne l’immagine con le semplificazioni e i reper-tori del giorno per giorno, che inducono al disincanto,al discredito, alla disaffezione. Certo, molta TV si pre-sta a un giudizio severo di fronte alla corrività del vo-yeurismo, della prurigine, del gossip. Un Servizio pub-blico non può permettersi l’uso e l’abuso di temi chevanno a toccare la sensibilità delle famiglie, in parti-colare degli adolescenti.

La libertà di espressione deve tendere a promuo-vere il confronto pubblico e la responsabilità persona-le, a tutelare i diritti di ciascuno e di tutti, a contrasta-re l’invadenza dei potenti, a difendere la comunitàdalle intolleranze occulte e dalle aggressioni fin trop-po palesi. Forse, per comprendere che cosa è davveroin gioco, vale la pena di ricordare quanto ha dettoEnzensberger: «Ai giornalisti di oggi spetta, se non ildovere, certamente il compito di fare chiarezza su tut-to quanto per loro merito e demerito ci coinvolge». La

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questione dunque è sapere se l’invito di Enzensbergerha un concreto e profondo rapporto con l’informazio-ne di cui disponiamo. Una cosa sembra certa e urgen-te: decisi a difendere la libertà democratica, va chiestoal sistema comunicativo di partecipare alla definizionedi una cultura delle regole, cioè del dovere pubblico,una cultura oggi malintesa, reticente e negletta.

In un’intervista destinata a un libro, verso la finedella sua gloriosa carriera, Indro Montanelli mi disse:«È facilissimo dir male del giornalismo e lo fanno so-prattutto i giornalisti. Siamo ormai abituati a questianatemi o se vuoi a queste contumelie. Ogni tanto –devo dirlo – do il mio contributo. A volte mi vergognodi appartenere a una corporazione che offre anchespettacoli miserandi e che in tante cose andate male, etuttora non andate, ha la sua parte di responsabilità.Spesso tradiamo quella che non chiamerò una missio-ne, perché la decenza mi vieta di pronunciare parolecosì virtuose, ma che è pur sempre una professionefondata sul sentire civile e la consapevolezza morale.Certo l’errore è sempre lì, inseparabile dall’avere idee edal sostenerle, ma la regola vuole che, una volta com-messo, lo si riconosca. Persino quel po’ di democraziache pratichiamo lo si deve, nel bene e nel male, ancheai giornalisti. Non lo avevo mai creduto tanto come inquesti ultimi tempi».

Così Montanelli, che non amava alzare il tonoquando sfiorava i temi della deontologia. Una norma

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costituzionale ci ricorda che il libero esercizio dell’in-formazione è uno dei diritti primari in una società de-mocratica. Non è solo questione di voler partecipare aciò che cambia, ma anche di sentirsi eticamente capacidi adeguare le scelte ai princìpi. Conosco tanti colleghiche anche in circostanze difficili ne sono stati capaci,colleghi che hanno tenuto la schiena dritta, sia cheavessero l’ambizione di praticare non l’equidistanzaneutrale ma l’imparzialità, sia che scegliessero di esse-re di parte, restando però immuni da ogni faziosità eservilismo. Essi rappresentano l’onore del giornalismoe vengono subito dopo coloro che l’hanno pagato conla vita.

La RAI ha anche questo primato. Non c’è ragionedi arrendersi. La democrazia non ha mai nulla di im-modificabile e definitivo: è una prova ininterrotta dipazienza e coraggio. Non saranno le parvenze e le il-lusioni a farci diversi, ma la percezione e la coscienzadi ciò che cambiando ci cambia, sapendo che domanisi potrà ancora cambiare questo mondo cambiato,cambiato anche dai cosiddetti comunicatori.

Aiutare a vivere il proprio ruolo con le dovero-sità incluse negli atti istituzionali, oltre che nei dirittie nei doveri professionali, è ciò che la Commissioneparlamentare deve porsi tra i suoi compiti primari, edè ciò cui ha teso questo breve ciclo di incontri. Unanovità, spero, non indegna rispetto ai soggetti e ai va-lori che si volevano chiamare in causa.

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La parola, adesso, al professor Paolo Armaroli.

PAOLO ARMAROLI. Signor Presidente, il tema diquesto terzo seminario è molto suggestivo, ma anchemolto ampio, e quindi si presta a un vantaggio, a unosvantaggio o a un rischio.

Riformulerei il tema di questo seminario nel mo-do seguente: «Scuola, RAI TV, Costituzione e identitànazionale». La RAI TV è infatti la più importante istitu-zione culturale del nostro Paese, laddove alla culturapossiamo dare il significato più vasto possibile, men-tre utilizzerei la definizione di identità nazionale pro-prio come omaggio al Presidente Ciampi. Come stabi-lito dalla Costituzione, il Presidente della Repubblicarappresenta l’unità nazionale, e forse nessuno dei no-stri Presidenti ha insistito sull’identità nazionale comeil Presidente Ciampi nel suo settennato, nel suo conti-nuo magistero a ricordare i fili spezzati della storiapatria, i simboli dello Stato e della Repubblica, la lin-gua, la bandiera, le radici risorgimentali.

Approfitto dell’occasione per ricordare come, daquest’anno scolastico, in tutte le scuole di ogni ordinee grado sia stata introdotta una nuova materia,“Cittadinanza e democrazia”, che poi è la vecchia“Educazione civica” riveduta e corretta, in quanto cisarà un voto specifico e almeno un’ora alla settimanasarà ad essa dedicata. Proprio su questo tema c’è stataun’interessante polemica tra Ernesto Galli della

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Loggia, che originariamente doveva essere qui tra noi,e Valerio Onida. La tesi di Galli della Loggia è una cri-tica a questa nuova disciplina, perché il rischio sareb-be quello di passare dalla cultura all’educazione, ter-mini secondo me non antitetici. Ernesto Galli dellaLoggia evidenzia il rischio di un catechismo costitu-zionale non solo inutile, ma addirittura pericoloso.Cito una frase: «Ci si può chiedere: che male c’è, sel’obiettivo sacrosanto dell’educazione viene perseguitodi per sé autonomamente, senza passare attraverso lacultura, cioè attraverso l’istruzione, attraverso l’ap-prendimento della storia, della letteratura, della mate-matica e quant’altro?» La risposta è che l’educazione èun male perché sarebbe propria degli Stati totalitari.

A Ernesto Galli della Loggia, in un articolo delnovembre dell’anno scorso, si contrappone ValerioOnida, che sostiene la materia e l’importanza della ma-teria, giacché si tratta di nozioni non solo di educazio-ne civica e di diritto costituzionale, ma anche di storiacostituzionale. Se il diritto ci insegna il «che cosa», lastoria risponde ai nostri tanti «perché». Dice ValerioOnida: «Vorrei solo osservare che insegnare laCostituzione, cosa che nella scuola italiana si fa ancoratroppo poco, è compito tutt’altro che estraneo alla fun-zione essenziale della scuola. Cosa vuol dire insegnarela Costituzione? Prima di tutto leggerla e farla leggerenelle classi di ogni ordine e grado, dando seguito allavolontà dei costituenti, che, quando la scrissero, la in-

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dirizzarono anzitutto ai cittadini». E ancora: «I conte-nuti della Costituzione sono anzitutto storia, la storiadel nostro Paese, dell’Europa e del mondo, di un cam-mino pieno di contraddizioni e di travagli, ma anche diidee, forze e di processi volte ad affermare e tradurrenella realtà, in un mondo spesso assai distante da essi,valori essenziali che fondano la convivenza civile».

La tesi di Galli della Loggia vuole solo épater lebourgeois, mentre personalmente condivido le tesi diValerio Onida, anche perché, come lui, sono un costi-tuzionalista.

A mio avviso la RAI, proprio in quanto istituzio-ne culturale più importante del Paese, dovrebbe avereanche una funzione pedagogica, non pesante e nonprofessorale, in tema di lingua, in tema di storia e intema di Costituzione. La lingua – vi parlo come inse-gnante, da oltre quaranta anni a contatto con gli stu-denti – sta diventando balorda. Ormai non si parla piùl’italiano, non solo per i troppi anglismi, ma anche perle frasi fatte o, come diceva Ettore Petroni, le «frasisfatte». Ad esempio, un tempo si diceva, dal Vangelo inpoi, «sì, sì; no, no». Oggi, si dice «assolutamente sì o as-solutamente no». Invito i miei studenti a fare attenzio-ne, perché, se una bella ragazza dice loro di sì e le sal-tano addosso, rischiano una denuncia; se invece dice«assolutamente sì», possono fare tutto quello che vo-gliono. È una cretinata, ma questo è l’uso della linguaitaliana.

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Ormai da tempo si levano moniti. Ad esempio, inun recente concorso di avvocati, gli strafalcioni sonostati enormi: «habbiamo» con l’acca, «violenza dellenorme» anziché «violazione delle norme», «correzzio-ne» con due zeta, e altro ancora. La Zanichelli ha lan-ciato addirittura un premio per le scuole dal titolo«Salva la parola», perché centinaia di parole italianenon sono più in uso.

Per quanto riguarda il Risorgimento, AndreaRomano in un recente articolo sul Sole24Ore dice chenei libri pubblicati negli ultimi due anni solo l’1,3% èdedicato al Risorgimento, contro l’11,6 alla Roma an-tica, il 7,3 al fascismo, il 3,8 al Medioevo. Ultima è laCostituzione. La RAI può fare molto da questo puntodi vista, forse più la radio che la televisione, perché latelevisione si vede. Molti di noi vengono fermati daamici e conoscenti che dicono di averci visto alla tele-visione, ma senza ricordare a quale proposito, mentrela radio si deve ascoltare e non si possono dire coseazzardate.

La mia proposta è quella di impegnarsi sulla lin-gua, sulla storia patria, sulla Costituzione, ma non insenso catechistico. Ogni parola della nostra Costi -tuzione, come ricordava Calamandrei all’AssembleaCostituente, ha dietro di sé una grande storia, spessouna tragica storia. L’invito è appunto quello di impe-gnare la televisione, ovvero l’istituzione culturale piùdiffusa, proprio a questo scopo.

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SERGIO ZAVOLI. Grazie, professor Armaroli. La pa-rola al professor Antonio Baldassarre.

ANTONIO BALDASSARRE. Cercherò di stare in cinqueminuti, anche perché, nel ringraziare il presidenteZavoli per l’invito, mi complimento con lui per la rela-zione che ha svolto all’inizio, rispetto alla quale vorreisottolineare soltanto due punti ovvero il problema delServizio pubblico e il problema del pluralismo.

Si fa un gran parlare, fra i tecnici, di convergen-za dei mezzi di comunicazione. La convergenza indicaun processo che è in corso, ma spesso questa defini-zione racchiude un significato erroneo, cioè che i me-dia siano già identici l’uno all’altro e che quindi il di-scorso debba essere fatto in modo globale. Consideroquesto un grave errore, perché c’è ancora una grandis-sima differenza tra il mezzo televisivo o radiofonico eil mezzo internet, ovvero il chatting e altre attività chesi svolgono grazie a internet. Ovviamente, quando in-ternet trasmette programmi della televisione rientria-mo nella tipologia tout court del mezzo radiotelevisi-vo.

Il chatting crea sicuramente una comunità, e unacondivisione, che la televisione non crea affatto.L’interattività è marginale, è debole, ed è ancora una ti-pologia unilaterale di messaggio, da un punto agli altri,dove il telespettatore è prevalentemente passivo. E’l’idea del broadcasting. Alla televisione è sempre legata

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una capacità di influenzare i sentimenti, i valori, i prin-cìpi delle persone che ascoltano, senza poter disporredell’interattività di internet, sebbene questa sia una in-terattività molto povera. Ricordo a tutti il bellissimo li-bro, pubblicato ormai da una quindicina di anni, diBenjamin Barber, che fa un’analisi spietata delle chattra giovani americani e dell’impoverimento concettualee di valori presente in questi dialoghi legati anche allanatura del mezzo di trasmissione del pensiero.

Per sua natura la televisione comporta una fun-zione pedagogica. Quando si parla di funzione peda-gogica – la parità di significati di questa parola è an-che alla base del dibattito tra Onida e Galli dellaLoggia – non s’intende però una catechizzazione dellemasse. Nel 1800, un grande costituzionalista ingleseparlava di funzione pedagogica del Parlamento, giac-ché riconosceva al Parlamento, nella sua attività, unafunzione pedagogica per le masse. Così avviene oggiper la televisione. Anzi di più, perché invia messaggi econtenuti precisi. Se fosse vera la tesi di Galli dellaLoggia – anche io sono dalla parte di Onida, perchécredo che sia la più corretta – dovremmo dire che lasocietà americana è la più catechizzata del mondo,perché essa è la società nella quale più si fa studiare aigiovani la Costituzione e più si parla di Costituzionenei mass media. E da ciò forse si evince che c’è unequivoco alla base della posizione di Galli dellaLoggia.

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Il presidente Zavoli si domanda giustamente checosa abbiano a che fare con il Servizio pubblico vo-yeurismo, pettegolezzi e gossip. Il Servizio pubblico –ripeto le parole del presidente Zavoli – «ha inevitabil-mente un ruolo di miglioramento qualitativo dellemasse», ed è quindi, inevitabilmente. il luogo in cui sirichiamano princìpi e valori. Ciò mi induce a fare unacritica alla RAI degli ultimi 15-20 anni. Essa non puòmettersi sullo stesso piano di Mediaset e in concorren-za con essa in quanto Servizio pubblico. La Corte co-stituzionale ha giustificato il canone come impostaproprio perché lo considera Servizio pubblico. Se peròla RAI fa le stesse cose di Mediaset, si mette in concor-renza con essa, e addirittura «patteggia» con Mediasetgrandi fette di mercato, ci chiediamo se si giustifichiancora quella impostazione della Corte costituzionalesul canone. A mio parere, non si giustifica più; si giu-stifica solo se c’è un vero Servizio pubblico.

Viviamo in un’epoca in cui non è più valida lasentenza della Corte Costituzionale – scritta dal miomaestro Sandulli, quindi lo rilevo con rammarico –che dà luogo a un’interpretazione del pluralismo mu-tuato soltanto da quello dei partiti politici. Ma siamosicuri che oggi il pluralismo dei partiti sia lo specchiodel pluralismo del Paese? Io sono convinto esattamen-te del contrario. Oggi la distanza è ampia anche per-ché non sappiamo più che cosa siano divenuti i partiti.Penserei quindi a un pluralismo di tipo culturale per

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salvaguardare il Servizio pubblico e anche una com-posizione degli amministratori tale da garantire unpluralismo culturale piuttosto che politico.

Mi fa piacere, Presidente, che nella sua relazionelei abbia citato la sentenza della Corte Costituzionalen. 826 attraverso il riferimento di Lucia Annunziata,perché voglio ricordare il ruolo importantissimo avutoin quella sentenza da Ugo Spagnoli. Non perché è ilmio più caro amico – oggi imprigionato nella suamente e nel suo corpo a causa di una malattia terribile– ma perché su quella sentenza si è impegnato conuna forza e una capacità che mi piace ricordare. È unricordo sempre vivo. Egli è stato uno dei più impor-tanti giudici costituzionali, oltre che parlamentari, cheabbiamo avuto. E credo che dovremmo tutti rendergliomaggio.

SERGIO ZAVOLI. Penso che non avrebbe potuto es-serci miglior conclusione di questa per introdurre l’in-tervento del professor Domenico Fisichella, al qualecedo la parola.

DOMENICO FISICHELLA. La ringrazio, Presidente. Inrealtà le questioni sono moltissime. E, visto che parlia-mo di Costituzione, inizio con il ritenere altamentepericoloso il concetto di sovranità del popolo, che sipresta a interpretazioni inquietanti, come stiamo ve-dendo anche in questa fase recente. Non avrei quindi

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usato in Costituzione un concetto che – pur se riferitosoltanto alla titolarità, mentre l’esercizio è demandatoa terzi – per chi abbia letto Rousseau è pericoloso, vi-sto che la volontà generale può essere interpretata dauna sola persona. Insomma, in Costituzione avreiomesso questo riferimento.

Del resto, la storia delle istituzioni politiche e ildibattito costituzionale che c’è stato durante laRivoluzione francese si sono concentrati su questaquestione: se si dovesse parlare di sovranità popolareo si dovesse parlare di sovranità nazionale. Più corret-tamente si è parlato poi di sovranità nazionale, perchéle istituzioni rappresentative sono fondate sulla sovra-nità della nazione, ove ciascun parlamentare senzavincolo di mandato esprime le sue libere valutazioni.

Il concetto di sovranità popolare si prestava aforzature di cui il corso della storia, fino anche ad og-gi, ci sta facendo vedere gli esiti. La democrazia checosa dice? C’è una avvertenza fondamentale nelFederalist: date tutto il potere ai pochi ed essi oppri-meranno i molti, date tutto il potere ai molti ed essiopprimeranno i pochi. È la tirannide della maggioran-za di cui parla Tocqueville. Questo, dunque, è un altrocriterio al quale dobbiamo rivolgere attenzione.

Ciò significa che la democrazia è fondata su unprincipio maggioritario temperato, non assoluto, equindi ci sono una serie di garanzie che devono valerein primo luogo per le opposizioni, perché la specificità

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della democrazia non è la presenza del governo, chec’è in tutti i regimi, ma la presenza di un’opposizioneche va garantita, nel corso delle elezioni e fra un’ele-zione e l’altra, all’interno delle istituzioni rappresenta-tive.

Ciò significa riuscire ad evitare l’eccesso di con-centrazione potestativa. Naturalmente, il discorso del-la democrazia, come lo stiamo svolgendo adesso, è ildiscorso della prima modernità della democrazia, odella società europea; è il discorso della tripartizionedei poteri e degli equilibri. La seconda modernità hapoi drammaticamente modificato i termini del rappor-to tra le potestà, perché le forze attive economiche, fi-nanziarie, bancocratiche, tecnocratiche, operanti epresenti nella società, sono intervenute in manieramassiccia, fino al punto da vulnerare il principio stes-so del primato della politica, che è un primato non in-terventista, ma regolativo. Guai, infatti, a immaginareche la politica possa tutto, perché questo è il fonda-mento dei regimi totalitari!

Il primato è regolativo e sta nella dimensionetemporale; non investe tutte le dimensioni dell’espe-rienza. Nel primato regolativo della politica una delleprime regole è l’autonomia del sistema sociale, del si-stema economico, del sistema culturale e religioso.Sono in seguito venute in gioco nuove realtà: la realtàdella potenza finanziaria, la realtà della potenza me-diatica, che è largamente intrecciata con la potenza fi-

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nanziaria; e, quando potere politico, potere finanzia-rio, potere mediatico convergono, diventa estrema-mente difficile far funzionare secondo certe caratteri-stiche il sistema mediatico. E quindi, nel nostro caso,anche il sistema radiotelevisivo pubblico.

Che cos’è il popolo oggi? È sufficiente leggere lericerche di Tullio De Mauro sull’analfabetismo di ritor-no, per rendersi conto che il cosiddetto «popolo» oggiè una cosa di una straordinaria inconsistenza culturalee intellettuale: è una società di massa peggiorata dal-l’analfabetismo di ritorno e da spinte individualistichemolto marcate.

La relazione del presidente Zavoli è bella, egli èun signore di stampo antico che immagina la realtàche vorremmo. Ma la democrazia non ha mai nulla diimmodificabile e di definitivo. Come tutti i regimi po-litici la democrazia ha delle soglie di disfunzionalità,superate le quali il regime cambia o crolla. Il regimecrolla, se la disfunzionalità raggiunge certi livelli;cambia, se gli attori del sistema vengono modificati daun insieme di altre realtà come quelle che abbiamo vi-sto entrare sulla scena della seconda modernità.

La verità come virtù collettiva oggi mi sembrauna di quelle cose che non riesco nemmeno a immagi-nare. Oggi, e non soltanto in Italia, viviamo in unastagione nella quale la istituzionalizzazione dellamenzogna (il tema era già in Platone) è diventata unconnotato così plateale che un pubblico attento se ne

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potrebbe accorgere; ma un pubblico non adeguato –divenuto tale perché la scuola non insegna più certecose, ma anche perché il sistema mediatico e della co-municazione è fatto in un certo modo – non riuscireb-be a percepire.

La televisione pubblica è quindi il vaso di cocciotra i vasi di ferro, perché dovrebbe rispondere a unaserie di precetti e svolgere funzioni e ruoli che le sonopreclusi dal quadro complessivo nel quale deve opera-re. Il ruolo della televisione pubblica potrebbe esserealtamente meritorio, ma dobbiamo avere contezza del-la sua capacità di operare in autonomia rispetto a uncerto costume. Le parole conclusive di un grande con-servatore come Luigi Einaudi, secondo cui la leggenon può sostituire la morale, dicono quasi tutto. Il co-stume presuppone un popolo strutturato in un certomodo, con certe caratteristiche valoriali, con una me-moria storica, con una serie di elementi che non esi-stono più.

È una lotta che noi “reperti archeologici” di unarealtà che ci è piaciuta, e che non c’è quasi più, dob-biamo combattere, al pari di quelle isole di resistenza,che permanevano ancora quando c’erano certe espe-rienze politiche. Dobbiamo affrontare questo compitoall’interno delle nostre isole di resistenza, ben sapendoche il sistema televisivo pubblico è assediato da unamolteplicità di forze private, politiche, economiche,che tendono a minare le sue specifiche funzioni, in ra-

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gione delle quali dovrebbe operare come sistema cul-turale con tutte quelle caratteristiche che, con tantaricchezza intellettuale e con tanta passione, il nostroPresidente ha espresso.

SERGIO ZAVOLI. Prenderà ora la parola il presidentedella RAI, che sottopongo a un esercizio difficile, dalmomento che egli è anche un grande giornalista: nonso come riuscirà a sdoppiarsi. Per quello che rappresen-ta, e per quello che dice la sua anagrafe, lei è un talentospendibile in nome di una modernità che sta cambian-do molte cose, ruoli e responsabilità. Non appartiene aireperti, e quindi si può prendere la libertà di parlare co-me un giornalista di lunga esperienza e comunicare,con pari credibilità, le sue impressioni di neopresiden-te. Questo non la deve spingere ad aumentare il nume-ro dei minuti a sua disposizione, ma nemmeno a pri-varsi, ovviamente, del tempo che le occorrerà!

PAOLO GARIMBERTI. Grazie, Presidente. Speravoche le sue parole portassero a una certa indulgenza sultempo. Anche perché, come recita un vecchio afori-sma del nostro mestiere, non ho avuto il tempo perscrivere un articolo breve! Ci vuole molto tempo perscrivere poco…

SERGIO ZAVOLI. Ci provi! In genere l’articolo mi-gliora se non si va per le lunghe… Ed è pur vero che, amio rischio, non ho certo dato un buon esempio...

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PAOLO GARIMBERTI. Questi seminari sono moltoutili e hanno evidenziato come centrare la questionedel Servizio pubblico. I due precedenti hanno fornitoindicazioni assai ricche almeno su tre temi, che cercodi riassumere in tre domande. La prima è se il Serviziopubblico in Italia sia necessario. La risposta è assolu-tamente affermativa, come direbbe il mio amico PaoloArmaroli. La seconda domanda è cosa esso debba of-frire. La risposta è pluralismo, qualità, completezza eautorevolezza. La terza domanda è come debba essererealizzato. Ovviamente con professionalità e secondouna logica da Servizio pubblico, ossia fuori dalle logi-che commerciali, dall’ossessione dell’Auditel, pur con-tinuando a stare sul mercato.

Da queste risposte emerge la questione centrale,ricordata dal presidente emerito Ciampi: quella delpluralismo. Mi ha colpito quando egli ha affermatoche la qualità del pluralismo concorre alla buona sa-lute delle istituzioni. Definizione che condivido in pie-no, sposandola al concetto di pluralismo inteso come«cane da guardia» – watchdog come dicono gli anglo-sassoni – del corretto funzionamento delle istituzioni.

Lei, Presidente, mi ha chiesto di parlare della miaesperienza da presidente della RAI. Non è la prima vol-ta che lavoro in RAI. Circa quindici anni fa, sia pureper un breve periodo, sono stato direttore del TG2.L’idea che mi sono fatto dell’azienda è quella di un or-ganismo al quale non manca né una visione, né un

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progetto d’insieme, né soprattutto ambizioni a medio elungo termine. Tutto questo non manca alla RAI. Bastipensare che cosa significa oggi il passaggio al digitale.

Ma il punto qui in discussione non è il saper fa-re o il cosa fare. Il punto è che per fare bisogna poterfare, ed è questa la questione capitale sulla quale ciconfrontiamo oggi. Con tutta la schiettezza di ungiornalista – che si è sempre sentito libero di scriverequello che voleva scrivere e che da presidente dellaRAI si permette di continuare a dire quello che ritienedi poter dire – noto che oggi il rischio maggiore perl’azienda sia un certo suo soffocamento, il rischio diuna morte per asfissia dopo una lunga e dolorosaagonia.

I lacci che sentiamo sempre di più stringersi in-torno al collo e che rischiano di uccidere l’azienda so-no tre: la mancanza di risorse certe, una natura giuri-dica che non ci consente di stare sul mercato, una nonrisolta questione della governance. Potrei anche fer-marmi qui, perché in estrema sintesi ho detto tuttoquello che c’era da dire. Forse, però, questi tre punti ri-chiedono ulteriori chiarimenti. Quando parlo di risor-se certe mi riferisco al canone e all’evasione del cano-ne. Ma prima lasciatemi dire una parola sulla inva-denza, o invasione, della politica nella RAI.Recentemente è stata rilasciata un’intervista alCorriere della Sera dall’ex Direttore generale della RAI,Biagio Agnes, la cui arguzia è nota. Ricordando la fa-

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mosa lottizzazione da lui vissuta, ha dichiarato alCorriere della Sera: «Non era una cosa volgare. Noi di-cevamo che dovevamo nominare un direttore del TG1e che volevamo una rosa di cinque giornalisti bravi divostra fiducia, che a scegliere il più bravo ci pensiamonoi».

Oggi una prassi di questo genere è impossibile:nella mia recente esperienza mai è stata presentatauna rosa quando si è trattato di fare delle nomine.Questo complica enormemente la nostra libertà di ge-stire un’impresa. Come presidente della RAI, per la pri-ma volta nella mia vita mi sento infatti anche un im-prenditore. Ma, come tale, non penso di essere liberodi gestire al meglio l’azienda che devo amministrare,insieme con il Direttore generale e con il Consiglio diamministrazione.

Per quanto riguarda le risorse certe, permettete-mi qualche paragone. Com’è possibile realizzare icompiti che ci vengono assegnati, anche dal contrattodi servizio – che tra l’altro sta per essere concluso eufficializzato – con un canone di 109 euro, contro i161 della BBC, i 215 delle televisioni pubbliche tede-sche, i 274 della Norvegia? Come facciamo a gestirebene la RAI con un’evasione al 27-29%? Come pensateche il Servizio pubblico possa dare, in queste condi-zioni, il meglio e il massimo di se stesso? Mantenere laRAI in perenne incertezza economica significa desti-narla al piccolo cabotaggio, alla navigazione del gior-

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no per giorno, vicino alla costa, tanto per usare unaimmagine; in qualche modo sicura perché, se affon-diamo, ci salviamo (forse) a nuoto, ma senza che vi siala possibilità di poterci dare obiettivi di medio e lungotermine. E’ un problema grave.

Sorvolo su un tema cui il presidente Zavoli haaccennato all’inizio, una questione di queste ore chenon voglio toccare perché non sarebbe corretto inquesta fase. Ma, attenzione, sul Corriere della Sera holetto un articolo, assolutamente condivisibile, che siconcludeva così: «Accettare che una TV che fa infor-mazione pluralista sia così impossibile da doverlastringere in gabbie arzigogolate e assurde non è lasconfitta più grande per una democrazia?». È firmatoRoberto Gressi, ma potrei sottoscriverlo anche io e,penso, molti dei presenti.

Il secondo tema riguarda la natura e il ruolo del-la RAI. Che ha una natura bifronte: è al tempo stessopubblica e privata, ha il canone e la pubblicità. Cosache non accade alla mitica BBC, sempre citata, talvoltaanche a torto. Alcune recenti e autorevoli pronuncegiurisprudenziali vorrebbero però attrarre sempre piùla RAI nell’area pubblica. Questo creerebbe per noienormi difficoltà a competere; sarebbe come imbri-gliare un cavallo al punto di impedirgli di galoppare etrottare.

Voi sapete benissimo che è in buona parte dellapubblicità che troviamo le risorse per finanziare i no-

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stri obblighi di Servizio pubblico; obblighi che oggi uncanone non rivalutato, e in presenza di una fortissimaevasione, non ci consentirebbe di finanziare.Ribadisco quindi per la centesima volta una richiestaalla politica, al Parlamento, affinché accolga il nostroappello per una nuova normativa che impediscaun’evasione del canone di livello straordinario inEuropa. In Inghilterra è il 5%, in Francia meno del10%, in Germania ancora meno. Questo è un appelloche la politica dovrebbe ascoltare.

L’ultimo tema, Presidente, è quello della gover-nance della RAI. Non parlo per me, perché escludo diavere il tempo, nel mio mandato, di contribuire a met-tere mano a un nuovo sistema di governance del-l’azienda. L’attuale sistema oggi funziona malissimo.Sono stato definito un presidente di garanzia. Certo,posso usare la mia moral suasion per convincere incerti casi il direttore generale e le strutture della RAI afare certe cose, ma sono così limitato nei miei poteriche, se vedo andare in onda qualcosa che va contro ladecenza alle 17,00, in fascia protetta, non ho il poteredi chiamare il direttore della rete e invitarlo a interve-nire. A norma di regolamento, devo chiamare il diret-tore generale, il quale deve chiamare il direttore dellarete. Non posso chiamare il conduttore di una trasmis-sione per dirgli che ha sbagliato, ma devo scrivere unalettera al direttore generale. E se il direttore generale siarrabbia, sono io nel torto. Tutto è rimesso quindi ai

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rapporti personali. C’è poco da fare: queste sono le re-gole.

Cito un altro esempio relativo al tema delle no-mine. Ho ricordato Agnes perché ai suoi tempi c’erauna rosa di cinque nomi da cui scegliere. Ai tempi diGarimberti, ma anche prima, questo non accade: nonposso proporre un direttore di una testata giornalisti-ca, anche se ritengo che sia il più bravo al mondo, an-che se so che è disposto a venire, perché andrei oltre ilmio mandato. Spetta al direttore generale proporre eal Consiglio valutare le proposte. In questo modo,posso io controbilanciare, come presidente di garan-zia, una tendenza che ritengo sbagliata? Non lo possofare.

Ritengo quindi che sia oltremodo opportuno ri-considerare il tema della governance della RAI, inquanto la RAI è Servizio pubblico e deve garantire atutti un’informazione completa, pluralistica, fair, so-prattutto in momenti come questo. Spesso, i giornalistimi chiamano per chiedermi che cosa pensi di un servi-zio del telegiornale. Non rispondo nulla, perché potreial massimo limitarmi a scrivere una lettera al direttoregenerale. Mi sento come quando ero a Mosca e ognivolta che sottolineavo la necessità di fare benzina erocostretto a scrivere una lettera al ministero degliEsteri. Se volevo uscire di quaranta chilometri daMosca, i russi mi rispondevano di scrivere una lettera,cosa che mi rendeva pazzo. Sono qui presenti alcuni

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dei miei più stretti collaboratori, amici ormai, che san-no bene quante lettere scriva al direttore ogni giorno…

SERGIO ZAVOLI. Certo, la chiarezza non fa difetto aPaolo Garimberti e di ciò gli siamo grati. Ora la parolaa Nicolò Lipari, un costituzionalista che non ha biso-gno di presentazioni..

NICOLÒ LIPARI. Di fronte alla Commissione parla-mentare di vigilanza, cioè all’istituzione collocata, nelnostro sistema, allo snodo tra il Parlamento, organodeputato a dettare enunciati con forza di legislazione,e il Servizio pubblico radiotelevisivo, massimo stru-mento di formazione dei modelli culturali prevalenti,mi sembra opportuno limitarsi a porre un interrogati-vo di questo tipo: qual è il concetto di democrazia cheemerge dal Servizio pubblico televisivo. Se avessitempo, potrei fare un’infinità di esempi, che affido in-vece alla conoscenza e alla sensibilità dei presenti.

In termini di sintesi riassuntiva affermo con for-za, e perentoriamente, che si tratta di un concetto as-solutamente sbagliato di democrazia. Se oggi si effet-tuasse un sondaggio tra gli utenti della televisione persapere cosa intendano per democrazia, in relazione aciò che viene loro comunicato dal mezzo televisivo, siavrebbe un risultato assimilabile a quello che UmbertoEco ebbe, alla fine degli anni sessanta, quando fece unsondaggio fra gli studenti universitari sul concetto di

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laicità, scoprendo che la massima parte degli studenticonsiderava «laico» qualcuno che ha a che fare con ipreti, per la semplice ragione che normalmente il ter-mine veniva, e viene, inserito in un contesto in cui c’èspesso un richiamo al momento ecclesiale.

Se oggi si chiedesse a casalinghe e studenti qua-le concetto di democrazia ricevano dalla televisione,se ne evincerebbe un messaggio sostanzialmente ri-conducibile all’idea che la democrazia si ricollega almomento dell’investitura e si risolve quindi nel perio-dico appuntamento elettorale. In altri termini, un’ideadi democrazia tutta esaurita nella ossessiva afferma-zione del principio di maggioranza. Questo è un con-cetto sbagliato di democrazia, e continuare a ribadirlosignifica sostanzialmente concorrere a formare unasocietà sbagliata.

Lo studio più consistente e significativo che sisia avuto, in questi ultimi anni, su questo tema è rap-presentato dai tre corposi volumi di Luigi Ferrajoli(due cartacei e uno telematico) che si intitolanoPrincipia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia(Laterza, 2007). Ferrajoli chiarisce che la democrazianon può degradare a mera procedura. Nel momento incui si riduce la democrazia ad un semplice meccani-smo procedimentale si risolve il diritto nel buco nerodel nichilismo giuridico, che finisce per negare l’ideastessa di giuridicità, svuotata da ogni possibile conte-nuto in chiave di valori condivisi.

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Poiché ci chiedete di portare qui le nostre com-petenze professionali, ricordo che i giuristi hanno tutticontraddetto questo, oggi martellante, postulato. Eliae Zagrebelsky hanno chiarito che bisogna distingueretra democrazia di investitura e democrazia di indiriz-zo: la prima è essenziale, ma quella che conta effetti-vamente è la seconda. Bartole afferma che regole pereleggere e regole per decidere devono confluire in vi-sta dell’ottenimento di un risultato effettivamente par-tecipato, sul quale si appunta l’essenza della democra-zia.

Dobbiamo cercare di far capire alla gente che lademocrazia non è forma, ma contenuto. Se la demo-crazia non è periodica registrazione della differenzatra le valutazioni che ciascuno di noi sarebbe chiama-to a fare in forza di una sorta di somma algebrica deisuoi giudizi sui vari atteggiamenti resi dal Governonella politica economica, scolastica o familiare, checosa è allora? Rispondo che essa è comprensione diposizioni diverse nella ricerca della loro componibilitàe convivenza. E’ questa componibilità che va ricerca-ta, è questa convivenza che va coltivata.

Il concetto di democrazia non può dunque essereassunto come presupposto, restando impregiudicatociò che poi sta a valle, ma esso va considerato solo co-me risultato. Qui apro una parentesi che mi imbarazzadi fronte a un cultore di questi problemi come il col-lega Fisichella, ma raccomando di non commettere

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l’errore di ritenere che la democrazia appartenga aquelle alternative per le quali o c’è o non c’è, perché,come è stato acutamente spiegato dai cultori di questitemi, oggi non dobbiamo ritenere che il principio ari-stotelico del terzo escluso valga per questo tipo di va-lori. Tale principio si può utilizzare solo per quelleclassi che si definiscono per esclusione, tipo essere vi-vo o morto, sposato o no; non per un valore, come lademocrazia, rispetto al quale si possono pensare gradidiversi di realizzazione storica: una semi-democraziao una semi-dittatura! Sono questi i postulati che devo-no essere valutati e giudicati in un contesto culturale.

Mi si potrebbe opporre che, tutto sommato, nellagestione del potere il problema è di scelte, e le sceltevanno compiute da qualcuno. Il problema allora è dicome queste scelte possano essere compiute. Soccorreilluminante una frase di Martin Buber: «Le scelte si co-niugano con il principio democratico e non vi con-traddicono quando risulti evidente che chi le compieconvoglia nel fare dell’uno l’intera forza dell’altro, la-scia entrare nel farsi realtà di ciò che è stato sceltol’inesauribile sofferenza di ciò che non è stato scelto».Vi sembra che ciò oggi accada in Italia, quando addi-rittura si qualifica l’interlocutore come appartenentead una antropologia diversa?

Mi domando se ci sia una sola trasmissione tele-visiva in cui appaia questo modello, in cui risulti que-sta capacità di ciascuno di farsi carico delle posizioni

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diverse e pur non condivisibili dell’altro. Se io fossiconduttore di un talk show televisivo compirei questogiochetto: inviterei ciascun esponente di una parte po-litica a esprimere le ragioni dell’altro. Solo in questomodo si può capire quali di queste ragioni sono con-vogliabili nella mia posizione.

Ci sono sempre ragioni non condivise che tutta-via possono essere coltivate e fatte proprie. Se io, chepur sono un feroce avversario del cosiddetto «processobreve» (da civilista non capisco perché debba essere ri-ferito soltanto al processo penale e non anche al pro-cesso civile), venissi sollecitato a spiegare le ragioniche possono giustificarne l’introduzione, credo che sa-rei capace di farlo e forse con qualche motivazione piùpenetrante di quelle dei suoi sostenitori, perché è asso-lutamente ragionevole che un giudice che cominciauna fase di giudizio sapendo che la sua scadenza ètriennale stabilisca che, in funzione di questa cadenzatriennale, vengano cadenzati i rinvii, i tempi da desti-nare alle difese, i tempi da assegnare ai consulenti tec-nici. Ma se mi si dice di spiegare la ragione per la qualequesto principio di programmazione di un giudizio neltriennio dovrebbe applicarsi anche ad un giudizio cheè già arrivato a due anni e dieci mesi dalla scadenza diquesto triennio, non sarei in grado di spiegarlo: perchénon è spiegabile, perché è privo di razionalità, perchénon si tratta più della ragionevole durata di un proces-so, ma di una sua irragionevole interruzione. È sconta-

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to che la Corte Costituzionale, ove questa diventasselegge e fosse investita del problema di costituzionalità,sanzionerebbe inevitabilmente una simile previsione.

Questo è un esempio di cosa si potrebbe fare sedavvero la televisione volesse rendersi veicolo di unconcetto di democrazia partecipata e della capacità diciascuno di farsi carico delle ragioni dell’altro.

SERGIO ZAVOLI. Nicolò Lipari, che è stato anche unindimenticabile consigliere della RAI ai tempi dellamia presidenza, ha detto una cosa che mi riconciliacon un’idea che ho del mio mestiere. Non solo eroconvinto che fare questo mestiere significasse dare laparola all’altro, come lei proponeva di poter fare du-rante i talk show, ma pensavo che l’intervista stessadovesse essere lo strumento attraverso il quale rag-giungere una ragionevole trasparenza tra due soggettiche si uniscono per integrarsi, non per competere, onascondersi, o fare esercizio di bravura. Ho detto spes-so che mi piace fare interviste perché non si esce maicompletamente indenni dal confronto con un’altrapersona. Trovo che l’intervista, se libera, se trasparen-te, ha in sé un aspetto persino democratico.

La parola a Stefano Passigli, un costituzionalistadi rango, sul quale non ho bisogno di spendere molteparole.

STEFANO PASSIGLI. Prima degli interventi diFisichella e Lipari non avrei affrontato il tema della

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democrazia ma credo che, per comprendere in cosaconsista una libera informazione e quali ne siano i re-quisiti e i presupposti irrinunciabili, sia opportuno sot-tolineare che la democrazia è fondata su alcuni assun-ti. Il primo è quello dei limiti della politica. Qualsiasisistema democratico è infatti fondato sul principio chela politica deve incontrare dei limiti: l’autonomia deisotto-sistemi economico e sociale, e l’autonomia delleistituzioni che presiedono alla formazione dei valori(chiese, scuola, famiglia), elementi che nelle concretefattispecie si coniugano in varie maniere, ma che inogni caso limitano la discrezionalità del potere.

Il secondo grande principio su cui si fonda la de-mocrazia è il principio di eguaglianza. E qui entra ingioco la libera informazione, perché la democrazia habisogno di procedure che ne assicurino una capacitàdi output: un sistema democratico deve poter produr-re decisioni, ma in un sistema democratico queste nonpossono non essere fondate su un assunto, che è quel-lo del pari status di tutti i partecipanti al processo de-cisionale. Questo assunto, però, è fondato su di un’ul-teriore ipotesi: quella della razionalità umana, perchéla regola della maggioranza che presiede al meccani-smo di formazione delle decisioni vale solo in quantosi riconosca che il parere dei più ha più valore del pa-rere dei meno, tutti i soggetti essendo parimenti razio-nali. Tale riconoscimento si fonda sulla fiducia nelcommon man. Non a caso, nelle democrazie anglosas-

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soni si è affermato il principio: «One man one vote»;ogni uomo, cioè, vale nella stessa misura di qualsiasialtro, principio che si fonda appunto sulla fiducia nel-la razionalità umana. Posso però credere davvero nel-la razionalità dell’uomo se l’uomo non è liberamenteinformato? La concorrenza in economia e in politica sifonda sulla razionalità degli attori, ma gli attori pos-sono avere uguale peso ed essere egualmente razionalisolo se si presume che abbiano un minimo di egualeinformazione. La libera informazione è quindi conna-turata all’essenza di un sistema democratico.

Come garantisco questa libera informazione? Lanostra Costituzione risponde in maniera molto chiara:attraverso il pluralismo. A mia volta devo chiedermiquale assetto del sistema dell’informazione garantiscail pluralismo. Sottolineo un paradosso. A mio avviso,se il sistema dell’informazione fosse stato sufficiente-mente pluralista – finora non lo è stato, forse lo sta di-ventando grazie al progresso tecnologico, ma certo fi-no ad oggi non lo è stato in maniera sufficiente – nonvi sarebbe stato bisogno di un Servizio pubblico, per-ché il sistema stesso lo avrebbe assicurato, mentre vi ètanto più bisogno di Servizio pubblico quanto più ilsistema non è pluralista.

In assenza di sufficiente pluralismo, il problemadiventa quindi come garantire un Servizio pubblicoadeguato. La risposta nel caso italiano è stata il tenta-tivo di superare un’egemonia che si voleva esistente (e

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in parte sicuramente lo era) attraverso la riforma dellaRAI e la conseguente lottizzazione tra le principali for-ze e culture politiche. Da un male ad un altro, a miogiudizio, per approdare infine ad un pessimo presente.Credo infatti che l’attuale legge di sistema sia pessima,perché continua a comportarne la politicizzazione. Sele nomine vengono fatte dal Parlamento e dalGoverno, è inevitabile che nel Consiglio, e poi a casca-ta nelle direzioni delle reti e delle testate, il criterio sial’appartenenza politica: la politicizzazione del Serviziopubblico resta così inevitabile.

Vi è stato un tentativo di ipotizzare una RAI

Fondazione, i cui massimi livelli fossero espressi nonsolo dal Parlamento, ma anche da vari corpi interme-di: le università, le grandi forze sociali. Ma il tentati-vo non ha avuto successo. Certo, se vi fosse una di-versa maniera di nominare gli organi che presiedonoalla governance della RAI sicuramente avremmo unServizio pubblico diverso. Mi sembra che questo di-venti il problema. Se vogliamo una libera informa-zione, e questa deve esserci, dobbiamo riformare ilsistema delle nomine per avere un sistema quantopiù pluralista possibile e slegato dalla volontà dellesegreterie di partito, arbitre – anche in articulo mor-tis – della composizione del Consiglio e delle princi-pali cariche aziendali. È questo il compito delParlamento e della politica: assicurare il pluralismodel sistema.

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Avere un Servizio pubblico sarà sempre necessa-rio, perché il mercato non farà mai alcune cose essen-ziali: l’integrazione linguistica ricordata dal presidenteZavoli, i grandi meriti che ha avuto la televisione nelcostruire e diffondere un senso di identità nazionale,quella coesione sociale che l’Italia liberale prima dellaprima guerra mondiale, ma anche l’Italia dell’imme-diato dopoguerra, sicuramente non conosceva. La te-levisione pubblica ha avuto grandi meriti e sicura-mente esiste un lavoro di formazione che il Serviziopubblico può fare, ma l’informazione sicuramente ri-chiede un assetto pluralistico del sistema oggi ancorainadeguato. In conclusione, considero sicuramente er-rato mantenere l’attuale assetto della RAI e non rifor-mare l’attuale legge Gasparri.

SERGIO ZAVOLI. Gianfranco Ravasi. Spero di nonfarle un torto privandola della specificazione che ac-compagna la figura di un sacerdote. Ho usato sempli-cemente il suo nome. Lei ha molti titoli, Monsignore,ma la sua storia ci esime da qualche riverenza, dicia-mo, canonica…

GIANFRANCO RAVASI. Dovendo parlare per ultimo,dopo aver ascoltato la bellissima relazione del senato-re Zavoli, e tutti gli altri interventi, continuo dentro dime a ricordare un proverbio arabo che dice: «Chi parlaper ultimo nel consiglio dei sapienti è meglio che si al-zi, taccia ed esca». Ormai tutto il possibile è stato det-

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to, e detto in maniera particolarmente appassionata eintensa.

D’altra parte, anche con l’incubo della presenzadel presidente che ci costringe in un arco di tempomolto limitato, risento l’obiezione di Voltaire, che ave-va il dente avvelenato nei confronti di noi ecclesiasticiquando diceva: «L’eloquenza sacra è simile alla spadadi Carlo Magno: lunga e piatta, perché i predicatori ciòche non sanno darti in profondità te lo danno in lun-ghezza». Cercherò di evitare questi due rischi, tacere oparlare troppo, facendo solo due delle tre considera-zioni che avevo in mente.

Una la scarto subito, perché è in assoluto la piùcomplessa, la più delicata e la più sofisticata, soprat-tutto per chi lavora nell’ambito della filosofia, dellateologia o comunque del pensiero in senso più genera-le: il rapporto tra democrazia e verità, che rappresentauna delle connessioni più delicate in assoluto.

Vorrei sviluppare solo due temi. Il primo è quelloche ha come punto di partenza una frase proprio delpresidente Zavoli, quando parla della televisione comedi «un megafono privo di identità civile, culturale e ci-vica». La parola «megafono» mi fa venire in mente unafrase che si trova nel diario di Kierkegaard il quale,rappresentando la società danese di allora, affermava:«La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che tra-smette il megafono del comandante non è più la rotta,ma ciò che mangeremo domani». Questo è uno dei

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grandi problemi della televisione, e non c’è bisogno dicitare Popper per ricordarlo. Il presidente Zavoli dice-va che è indispensabile, anche per questo straordina-rio strumento di comunicazione, partire dai princìpi,non dai mercati e dalle tecnologie, né dal cumulo de-gli ascolti o dal potere della pubblicità.

È necessario tentare di ricordare che è possibilefare una televisione che pervada ampi settori attraver-so il ritorno non soltanto alle mode e agli stili di vita,non soltanto a ciò che mangeremo domani, ma anchea qualche domanda ultima, a qualche questione estre-ma. Qui ritorna il tema dell’etica.

È stato ricordato giustamente che la scienza at-tualmente ha abbandonato la pura tecnica. In que-st’ultimo periodo, per la mia funzione, ho molto a chefare con gli scienziati e devo dire che, per esempio, illoro linguaggio è tendenzialmente simbolico: amanoricorrere non più soltanto al «come», ma anche al«perché», superando perimetri troppo ristretti.

In merito a questa osservazione, vorrei rifarmia cioò che disse Eliot, il grande poeta inglese, inun’intervista rilasciata al New York Post nel 1955: «LaTV è un mezzo di intrattenimento, che permette a mi-lioni di persone di ascoltare contemporaneamente lastessa barzelletta e rimanere ugualmente sole». Non sitratta di democrazia, quindi, ma di grande solitudine.I giovani soprattutto stanno abbandonando la televi-sione e amano molto di più internet, perché lì c’è la

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possibilità di chattare; però questo è un altro rapportoestremamente pericoloso, sul quale bisognerebbe ri-flettere, perché è freddo: non è più il rapporto del co-lore, dell’odore, del sapore, del dialogo immediato,ma è il rapporto con uno schermo.

La seconda considerazione riguarda il termine«pluralismo», questione estremamente complessa sullaquale sono state espresse opinioni molto significativee suggestive. Per poter costruire il pluralismo, bisognaavere prima di tutto chiara la propria identità, essereun soggetto. A causa del frastorno causato da tantimezzi di comunicazione, abbiamo sempre più formesimili alla mucillagine, ossia forme confuse. Quindi, ènecessario innanzitutto avere un’identità, senza fon-damentalismo e senza sincretismo, vale a direun’identità non usata come un cristallo o una spada dighiaccio, ma neanche dissolta in un generico, inconsi-stente vuoto.

La mia considerazione elementare e scontata ri-guarda anche i rapporti tra le grandi culture. Esse or-mai entrano in contrasto e in connessione tra loro e fi-nora il rapporto ritenuto più incisivo – è molto bella laproposta del professor Lipari della sostituzione deiruoli per riuscire a costruire il rapporto – è quello delduello: i due sono fortemente identificati e si scontra-no, estraggono le loro ragioni a mo’ di spada. Sarebbeinvece opportuno costruire il duetto, tenendo ferma lapropria identità senza stemperarla.

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Al duetto musicale possono partecipare un so-prano e un basso, ovvero le due voci antitetiche nellascala cromatica dei suoni, che però costruiscono ar-monia. Per quanto riguarda le società e le grandi cul-ture, ricostruire questa capacità di armonia nella di-versità è un esercizio che dovrebbe partire dalla scuo-la, dalle chiese e dalle famiglie, ma purtroppo vediamoche la via più semplice del duello fa cancellare l’armo-nia del duetto.

SERGIO ZAVOLI. L’intervento di Gianfranco Ravasievoca una sorta di metafora che coincide con moltiproblemi della vita reale. L’assunto è che un corpograsso può anche avere un’anima. E ciò non è solo diuna straordinaria semplicità.

Vorrei ora iniziare la serie delle interrogazionicon un problema. Un nostro collega ha qualche do-manda da fare in ordine a una circostanza che assumeun significato anche politico. Onorevole Beltrandi,tocca a lei…

MARCO BELTRANDI. Avendo il compito di porre unadomanda non sono materialmente in grado di potercorrispondere a tutte le questioni che sono state postesul tappeto, tutte meritevoli di riflessione, ma devo oc-cuparmi di qualcosa di più immediatamente legatoall’attualità.

Conoscendo il ruolo centrale della RAI per la de-mocrazia italiana, vorrei rivolgere una domanda al

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presidente della RAI, Paolo Garimberti. Vorrei saperese, quando si parla di tutela delle minoranze, quindianche delle opposizioni, di libertà del giornalismo, ilfatto che una trasmissione come Annozero negli ultimisette mesi abbia riservato il 70% delle presenze a duepartiti, il 95% delle presenze a quattro partiti comples-sivamente intesi, e il restante 5% a tutto il resto delpanorama politico italiano; e il fatto che un’altra tra-smissione, Ballarò, successivamente alle elezioni euro-pee e prima dell’inizio del periodo elettorale, abbia de-dicato il 73% delle presenze a due partiti, non dimo-strino un modello discutibile del pluralismo. E’ que-sta la libertà giornalistica che viene tutelata e difesadalla RAI, anche negli ultimi trenta giorni della cam-pagna elettorale?

Crede, Presidente, che un’azienda come la RAI, laquale produce una campagna informativa contro unprovvedimento deliberato dal Parlamento utilizzandopersino le sedi televisive più importanti, senza con-traddittorio, sia la stessa azienda che può venire qui aparlare del problema del canone e chiedere alParlamento di intervenire?

Mi scusi, ma penso che siano questioni moltoattinenti al tema di cui discutiamo oggi.

SERGIO ZAVOLI. Le sue domande, onorevoleBeltrandi, in sé legittime, esulano dal contesto di que-sto seminario. E’ il motivo per il quale accediamo ora

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a un’altra deroga alla norma secondo cui le domandedovrebbero essere poste soltanto dai membri dellaCommissione parlamentare. La parola quindi aGustavo Selva, ex direttore del GR 2, ex senatore dellaRepubblica.

GUSTAVO SELVA. Sono molto grato a Sergio Zavoli,che fa un’eccezione per me. Non conoscevo queste re-gole, ma, avendo lavorato in RAI per trentacinque an-ni, credo che qualche esperienza possa essere utile.

Credo che una Commissione parlamentare che sioccupa del Servizio pubblico radiotelevisivo ormaiesista solo in Italia, perché il pluralismo, l’obiettività ela completezza sono assicurati da un sistema radiote-levisivo misto pubblico/privato, e quindi esistono re-gole diverse. In Francia la norma che riguarda le tra-smissioni politiche, ad esempio, svolte in campagnaelettorale chiede solo un comportamento di équité.

Ringrazio in modo particolare il direttore gene-rale Bernabei, che mi ha consentito di iniziare al-l’estero la mia carriera alla RAI. Oggi sono conosciutoemblematicamente come Radio Belva, ma ho comin-ciato a fare il corrispondente della televisione e dellaradio a Bruxelles nel 1960-1963, poi a Vienna perl’est europeo (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria,Romania, Bulgaria, Jugoslavia) nel momento in cuic’erano i maggiori fermenti di autonomia rispetto aMosca, e poi a Bonn dove ho potuto seguire l’evolver-si di quella Ostpolitik di Willy Brandt, che probabil-

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mente ha determinato la caduta del Muro di Berlino. E’ mancato poco che venissi indicato come diret-

tore del TG1 ma, per una battaglia interna fra correntidemocristiane, fu scelto il bravissimo Emilio Rossi e iofui dirottato alla direzione del GR2, cui ho dato un’im-pronta di novità. Tutta la storia del GR2 è contenuta inLa moglie di Cesare, in cui si legge: «Non credo chefosse dovuto solo al fatto che volavamo a quota 8.000metri tra Washington e New York nell’aprile 1982, do-po la presentazione del Marco Polo, quando SergioZavoli – allora presidente della RAI – mi disse che nel-la storia del dopoguerra nessun giornalista italianoaveva raggiunto un grado di incidenza politica pari almio». Questa lode mi lusingò dall’amarezza di aver do-vuto lasciare il GR2.

Lo lasciai perché avevo forse commesso degli er-rori? Può darsi. Ma non furono denunciati. Lo lasciaiperché forse non avevo rispettato obiettività, indipen-denza e pluralismo? No. Venni cacciato dal GR2 con lafalsa accusa di far parte della P2. Falsa perché è statogiuridicamente dimostrato che non ne ho mai fattoparte. Ma dato che, allora, il Partito comunista erapiuttosto forte, ottenne che venissi cacciato dal GR2.

È bene che di Radio Belva si conosca almenoquesta storia, perché altrimenti finiamo per caderenell’equivoco. Si può dire che la mia carriera politicasuccessiva sia dovuta proprio a questo, perché sonostato largamente premiato quando L’Unità cominciò

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con il definire il GR2 Radio Selva, con allusioni ad unuso personalistico del microfono; definizione che inseguito Lotta Continua modificò in Radio Belva. Daquesto punto di vista ne ho ricavato un vantaggio, maè bene che si sappia la vera ragione per la quale, dopootto mesi di sospensione, fui costretto a lasciare la di-rezione del GR2. Quella esperienza nasceva dal lavoroche avevo fatto fuori dall’Italia, dove i giornalisti, an-che quando lavorano nei cosiddetti servizi pubblici,fanno i giornalisti e non solo i portavoce, con paroledirette o indirette. Ecco la ragione per la quale proba-bilmente anch’io ho lasciato qualcosa di moderno e dieuropeo nello stile della RAI.

Scusate, forse alla mia età qualche volta s’inducetroppo nel facile autocompiacimento, ma di questo so-no orgoglioso.

SERGIO ZAVOLI. Ringrazio Gustavo Selva e passola parola all’onorevole Giorgio Merlo.

GIORGIO MERLO1. Non faccio né commenti néavanzo valutazioni sulle relazioni svolte, peraltro digrande livello. Mi limito a rivolgere una domanda alpresidente Garimberti e al professor Lipari. Per quantoriguarda il pluralismo, di cui abbiamo già parlato nei

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1 Vicepresidente della Commissione parlamentare di vigilanza.

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precedenti seminari, la sua definizione nei regolamen-ti parlamentari e nei vari atti di indirizzo è eccellente epertinente. Il richiamo nei vari documenti che neglianni abbiamo varato in Commissione di Vigilanza èinequivoco e chiaro su come lo si debba declinare nel-la variegata programmazione del Servizio pubblico ra-diotelevisivo. Alcune trasmissioni, però – e non mi ri-ferisco solo ad Annozero – con il tempo si sono pro-gressivamente trasformate in straordinari ed efficacimessaggi di partigianeria politica conditi anche da ac-cuse personali, persino imbarazzanti da ascoltare. Hol’impressione che a volte ci sia una sorta di “zonafranca” all’interno del Servizio pubblico dove quei re-golamenti, quelle regole, quei principi e quegli atti diindirizzo, di fatto, si riducono ad essere richiami deltutto pleonastici e inascoltati.

Questa deriva, purtroppo, rischia di certificarela sconfitta del giornalismo di inchiesta, la scomparsadi un sano confronto tra opinioni – monsignor Ravasiparlava del duello e del duetto – , della conoscenza deifatti, della stessa informazione resa al cittadino e deglistessi doveri del Servizio pubblico. Concetti, del resto,richiamati nell’introduzione dal presidente Zavoli.Ora, non vorrei arrivare alla conclusione di intendereil pluralismo come condizione essenziale di libertà maanche come scontro tra faziosità, secondo una logicaspeculare. Se diventa uno scontro tra faziosità politi-che, ideologiche e anche personali, chiedo se tutto ciò

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non significhi la fine del pluralismo in nome del plu-ralismo.

PAOLO GARIMBERTI. Prima di rispondere alla do-manda dell’onorevole Merlo, permettetemi di rispon-dere velocemente a una domanda dell’onorevoleBeltrandi. Egli ha chiesto testualmente: «Questa è la li-bertà giornalistica tutelata dalla RAI?». Rispondo di sì,nel senso che il mio dovere, nei limiti in cui esso mi èpossibile per la citata questione delle lettere, è far sìche i conduttori delle singole trasmissioni siano liberidi scegliere gli ospiti che vogliono, al fine di discuterel’argomento che hanno scelto. Questa è una libertàgiornalistica tutelata in tutti i servizi pubblici delmondo, e sfido chiunque a contestarla.

In certi periodi devono essere rispettate le regoleimposte dalla legge n. 28 del 2000 e dal regolamentoche porterà il suo nome. A questo punto, non faremopiù approfondimento informativo perché non lo po-tremo più fare. Faremo tante belle tribune politiche.Chiamiamo le cose con il loro nome, non facciamofinta di niente. Questa è la verità.

In secondo luogo, lei mi ha chiesto con che dirit-to parlo del canone. Intanto con il diritto della libertàdi parola, che lei non mi può togliere, per cui lo eser-cito. Sono stato invitato, parlo e dico quello che pen-so. Se lei non è d’accordo, lo dica e siamo pari. In se-condo luogo, con il fatto che l’adeguamento del cano-

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ne è previsto dalla legge e la legge non sempre vienerispettata da chi dovrebbe farla rispettare, quindi pro-testo per questo.

Per quanto riguarda le norme che regolano letrasmissioni politiche, Gustavo Selva nella sua espe-rienza internazionale ha detto una cosa giustissima. InFrancia la norma che riguarda le trasmissioni politichein periodo elettorale richiede équité e basta. In GranBretagna se qualcuno si permette di discutere le sceltefatte nelle trasmissioni politiche della BBC si solleva unpolverone senza fine.

Al vicepresidente Merlo rispondo che è vero chesi rischia di avere zone franche. Torniamo al discorsodella governance: in certi casi bisognerebbe poter in-tervenire per dire che così non va bene. Ritengo che,considerando l’insieme della programmazione dellaRAI, complessivamente vi siano equilibrio e plurali-smo, ma indubbiamente anche io certe volte, guardan-do la televisione a casa, ho degli scoppi di bile, perchénon mi piace la faziosità di un certo modo di fare tele-visione, sia da una parte come dall’altra. Non appar-tiene al mio DNA giornalistico, e però – qui è il punto– non posso intervenire.

Potrei mostrarle tutte le lettere che ho inviato aldirettore generale. Forse non lo posso fare, ma mi pia-cerebbe che le leggesse. Ne ho inviate tante. Spesso te-lefono ai direttori, magari grazie a rapporti di vecchiaamicizia per aver lavorato insieme. Molte volte dico lo-

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ro che così non va bene. Ma il vero potere sanzionato-rio non c’è. E quand’anche tale potere sanzionatoriovenisse esercitato, le rimostranze si scatenerebbero daogni parte, perché viene violata la libertà di informa-zione.

Gridare contro la RAI è facile. Esserci dentro è unaltro discorso…

NICOLÒ LIPARI. …il problema del pluralismo è undiscorso sconfinato, che non si può consegnare a po-che battute. Venticinque anni fa, quando facevo partedella Commissione parlamentare di vigilanza, composiun documento, che poi fu approvato, sulle modalità disvolgimento dell’informazione giornalistica. Se oggifossi membro della Commissione parlamentare, non lorifarei in quei medesimi termini, perché mi sono con-vinto, e credo che questo ormai risponda a un convin-cimento comune, che il modello culturale non si formiaffatto attraverso le trasmissioni di tipo politico e che,anzi, queste ne compromettano la formazione.

In salotto, con mia moglie facciamo spesso que-sto gioco: quando viene data la parola a uno degli in-vitati a un talk show anticipiamo rapidamente, tra dinoi, quello che dirà. E puntualmente indoviniamo: di-ce ciò che è scontato, perché non parla mai per sé, main quanto appartenente ad una parte politica.

Oggi, i modelli culturali non si formano nelletrasmissioni politiche, ma nelle altre trasmissioni.

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Oggi, la cultura diffusa in questo Paese, che è la cultu-ra del voyeurismo, del gossip, con tutti gli interrogati-vi posti dal presidente Zavoli, ha modelli scombinatiche non nascono dall’informazione e rischiano dicompromettere il pluralismo, perché omologano tuttosulla base di questi schemi. Dobbiamo quindi indivi-duare la via d’uscita da tutto questo.

Non è la preoccupazione di un monitoraggio apercentuali, come è stato qui osservato da un rappre-sentante del Partito radicale. Per richiamarmi alla suaparte politica, la cultura radicale è stata vincente inquesto Paese nel momento in cui ha formato modelliculturali che sono entrati comunque (nel segno dellacondivisione o della contrapposizione) nel dibattitoculturale diffuso, in forza non di una percentuale pre-sente, ma di una forte innervatura nel sistema cultura-le. Di questo dobbiamo liberarci: non pensare al plura-lismo come a una percentuale, non pensare alla demo-crazia in base al solo principio di maggioranza, mapensare a tutti e due questi modelli, in forza di unmeccanismo culturale del quale ciascuno di noi devefarsi carico.

Io, che sono di una certa cultura o di una certaparte politica, non posso realizzare integralmentequello che è il valore della mia cultura e della mia par-te politica, se non mi faccio carico in qualche modoanche di ciò che non mi appartiene. Questo è plurali-smo. E non, quindi, solo una questione di percentuali.

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SERGIO ZAVOLI. La parola al senatore Morri.

FABRIZIO MORRI2. Faccio uno sforzo per tenermialmeno in parte all’altezza dei temi che il Presidenteha posto e che il contributo autorevolissimo dei nostriospiti ci permette, con una sola premessa.

Con tutta probabilità, per la prima volta nellastoria italiana, che pure presenta tutti i difetti e i limitiche sono stati denunciati, da domani avremo un qual-cosa in più. Mi rivolgo al Presidente della RAI, ma an-che al professor Baldassarre e al professore Lipari. Noiavremo una norma3 che, se non viene modificata, ob-bligherà la RAI e, dopo il regolamento che vareràl’Autorità, anche le altre imprese private di carattereeditoriale, nell’ultimo mese a non poter avere autono-me trasmissioni di approfondimento giornalistico le-gate all’attualità, a temi politico-sociali, cosa che lalegge della par condicio – qualunque opinione se neabbia -, non ha mai chiesto in questi dieci anni.

Considero privare la RAI come le aziende priva -te dell’autonomia editoriale propria, perché c’è unacampagna elettorale in tredici regioni per le regionali,

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2 Capogruppo del PD in seno alla commissione.2 Si tratta della mozione varata in vista delle elezioni regionali

nella primavera del 2010.

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ancorché sia un voto diffuso, profondamente antico-stituzionale, ingiusto, impoverente di tutti i citati con-cetti di democrazia. Credo che, se l’Autorità farà unregolamento simile a quello che in maniera scelleratala Commissione di vigilanza ha inteso votare su que-sto punto, partirà un contenzioso giustificato da partedelle aziende private, che potranno procedere con pro-cedure assai più spedite nell’impugnare un regolamen-to parlamentare applicativo che va oltre la legge chepretende di applicare, e si aprirà una pagina nerissimaper la democrazia italiana. È profondamente sbagliato.

Affermo questo non da persona convinta chetutte le trasmissioni di approfondimento cui noi assi-stiamo siano belle e ancor meno pensando che sia ob-bligatorio condividerle per difenderle. Pongo un pro-blema di principio: è pensabile che negli anni 2000,poiché c’è la campagna elettorale, le aziende possanoessere private di autonome trasmissioni, belle o brutteche siano? Questa decisione proviene dal mondo dellapolitica – lo dico in termini anche autocritici e moltoumili –, ma non lo chiede nessuna legge, non c’è innessun Paese occidentale.

Se una trasmissione viola princìpi di pluralismo,il Presidente della RAI non ha gli strumenti per inter-venire, ma di sicuro sulla base delle leggi vigenti ce l’-ha il direttore generale: l’organo di governo della RAI

ha a disposizione questi strumenti. Allora, da dove na-sce la voglia di mettere un bavaglio preventivo perché

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si vota in tredici regioni alla RAI e si sceglie di fare undanno alle aziende, pubbliche o private che siano, innome di cosa, davvero di una battaglia di pluralismo?Ritengo che siamo di fronte a uno snodo decisivo evorrei sentire da voi, a partire dal Presidente della RAI,se l’organo di governo della RAI, che già ci ha dettomolte cose in questi giorni, possa affrontare una que-stione di tale delicatezza senza mettere sul tavolo an-che gesti clamorosi, anche una presa di posizione uni-laterale dei vertici.

Per questa pagina mi vergogno del ruolo che haavuto la politica, ma è ora che anche gli opinionisti, igiuristi, i vertici delle aziende facciano sentire che nonsi scherza su un punto del genere, perché, se non po-niamo rimedio a quello che considero un vulnus anchecostituzionale – ricordo la sentenza n. 155 del 2002 –e priviamo le aziende editoriali di un loro autonomo elegittimo punto di vista, credo che il futuro che prepa-riamo non è migliore, bensì peggiore del presente chestiamo denunciando.

SERGIO ZAVOLI. È chiamato direttamente in causail presidente della RAI. Naturalmente, può risponderechiunque abbia argomenti da sviluppare a questo pro-posito.

PAOLO GARIMBERTI. Certo, potrei incatenarmi alcavallo di Viale Mazzini, ma sarebbe un gesto che

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compirei da solo. Io non posso agire da solo, ma de-vo agire d’accordo con il Consiglio di amministra-zione.

Per quanto riguarda la domanda posta dal vice-presidente Morri, ritengo che come RAI abbiamo giàdato una risposta, perché per due volte il Consiglio diamministrazione mi ha dato mandato unanime a rap-presentare il disagio – per usare un’espressione morbi-da – che la RAI prova di fronte all’ipotesi appena de-scritta.

Sul piano giuridico esistono obiezioni fattibili,che abbiamo mosso. D’altra parte sono quelle dellasentenza del 2002 della Corte costituzionale, che in-terpreta un articolo della legge n. 28 del 2000. Dubbidi non aderenza del regolamento alla normativa vi-gente sono stati espressi perfino dal presidente diAGCOM, Calabrò, in modo molto chiaro: ha detto ditrovarsi di fronte al dilemma se applicare anche alletelevisioni private una norma che sospetta fortementenon essere legittima, oppure creare, non applicandola,una forte disparità con la RAI. Si tratta di un dilemmanon semplice, che francamente ignoro come possa es-sere risolto.

Considero ad ogni modo significativa la posizio-ne di Calabrò, poiché di fatto dà ragione ai rilievi cheabbiamo posto. In questa sede tralascio completamen-te gli altri aspetti: il danno economico che pure esiste,la difficoltà di rifare palinsesti che sono già previsti,

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perché tutto questo si può superare. Il problema vero èquello che lei hai esposto: chiedersi se i temi che oggidibattiamo siano democrazia, siano pluralismo. La ri-sposta mi pare che sia no.

In precedenza, il relatore del regolamento mi hachiesto se questa sia la libertà giornalistica. Sono sor-preso di questa domanda, perché non solo in quantogiornalista, ma anche se esercitassi un’altra professio-ne – molti dei giuristi in questo tavolo saranno d’ac-cordo – la riterrei una domanda improponibile in unPaese libero, democratico e con una libera stampa,perché chi fa una trasmissione televisiva ha il dirittodi decidere l’argomento e di scegliere i suoi ospiti. Nonha il diritto di offendere o di usare toni sbagliati, masul punto chiave della scelta degli argomenti e degliospiti non si discute, almeno fino a quando non si en-tra nel periodo della par condicio, che prevede normegià largamente sufficienti.

So che è un argomento delicato, di cui non vole-vo parlare. Ma mi avete indotto a farlo e questa è lamia opinione. Mi piacerebbe conoscere anche l’opi-nione dei giuristi su questo aspetto, perché questa nor-ma ha avuto una chiara sentenza della CorteCostituzionale e quindi richiederebbe un’interpretazio-ne anche sul piano costituzionale.

SERGIO ZAVOLI. Il professor Antonio Baldassarreha tutti i titoli per intervenire di nuovo.

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ANTONIO BALDASSARRE. Avevo già seri dubbi di co-stituzionalità sulla disciplina precedente. Ma questa invigore oggi mi appare veramente una palese violazio-ne della Costituzione. Morri ha ragione nel sostenereche siamo l’unico Paese dove, in un periodo in cuil’informazione del cittadino dovrebbe essere massima,perché egli deve decidere a chi dare il voto, si arrivaesattamente al contrario. Il silenzio non è mai amicodella democrazia, perché, come numerosi studi testi-moniano, la democrazia non è solo libera discussione,ma prima di tutto è discussione. Amartya Sen l’ha li-mitata a questo concetto: forse la questione è piùcomplessa, ma è sicuramente discussione. Ribadiscoanch’io come giurista che nel periodo elettorale c’è bi-sogno di una disciplina. Del resto, l’espressione parcondicio non significa silenzio, ma significa garantireche l’esponente di un partito sia messo nella stessacondizione dell’esponente del partito opposto. Solo inItalia par condicio significa silenzio. E’ quindi un pro-blema lessicale, oltre che un problema di diritto costi-tuzionale.

SERGIO ZAVOLI. Adesso ascoltiamo le domande didue personalità che non hanno certo bisogno di pre-sentazione, Giovanna Melandri e Paolo Gentiloni.

GIOVANNA MELANDRI. Grazie, Presidente. Non tornosul regolamento, sul quale Fabrizio Morri ha espressola posizione del gruppo del Pd. Uso i termini che il pro-

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fessor Lipari ha usato per parlare della democrazia de-gradata a procedura. Questo regolamento è democra-zia, che è stata degradata a procedura, violandola.

Vorrei porre tre quesiti. Primo quesito. Avendoascoltato l’appassionata perorazione del presidentedella RAI per un diverso sistema di governance dellamedesima, credo che vi sia un’emergenza legata alruolo della più grande impresa culturale del nostroPaese, che non è più capace di stare al passo delle tra-sformazioni istituzionali sociale e politiche. La demo-crazia, infatti, degrada a procedura, anche perché ilServizio pubblico, oggi, non è più al passo di un siste-ma che tendenzialmente si sta bi polarizzando. Il temadi fondo di questa discussione è un sistema tenden-zialmente bipolarizzato, non bipartitico, in cui c’èl’esigenza di dare voce a personalità e a opinioni di-verse.

Questo sistema televisivo rappresenta invece unmondo che non c’è più. Ed è anche per questo – e nonsolo per le competenze russe dell’aneddoto raccontatodal presidente Garimberti sul meccanismo di funzio-namento di governance della RAI – che è necessariovoltare pagina. Sottolineo, senza polemica, che intan-to non è un bel segno che non ci siano parlamentaridella maggioranza a questo seminario, e credo che og-gi il ruolo dell’opposizione sia quello di sollecitare e dirichiamare la maggioranza che governa nel nostroPaese a questo passo.

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Il ministro Gentiloni, nella scorsa legislatura,aveva avanzato una proposta. Il Partito democraticoall’inizio di questa legislatura ha dato ampia disponi-bilità a partire da quella, rivedendola e lavorando persuperare questo meccanismo di governo dell’azienda.Su questo ho sentito il presidente della RAI, ma vorreianche ascoltare l’opinione degli autorevolissimi giuri-sti che sono attorno a questo tavolo.

Secondo flash: è stato utilizzato il termine «mu-cillagine». Credo che la mucillagine in RAI si trovi so-prattutto in quella fascia oraria, con delle eccezioninaturalmente, tra le 15.00 e le 18.00 che non è quellaattorno a cui si infiammano i dibattiti politici e istitu-zionali, ma quella che, più di altre, definisce quel mo-dello culturale che, come giustamente evidenziato daLipari, non si forma nelle trasmissioni in cui i campisono già chiaramente profilati.

Quella fascia oraria è una mucillagine estetica,in cui ci sono la destrutturazione della personalità del-l’individuo, voyeurismo, gossip, un’insopportabilerappresentazione dell’universo femminile di questoPaese. Vi chiedo qualche riflessione su quella forma diofferta televisiva che arriva all’Italia profonda, allapancia del nostro Paese, che lo forma culturalmenteprima ancora che politicamente.

Il terzo «piccolo» interrogativo, che rivolgo amonsignor Ravasi, è una domanda che avrebbe biso-gno di un altro seminario. Credo che l’identità religio-

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sa, l’interrogativo religioso e spirituale sia un forman-te della personalità anche dal punto di vista civile, aldi là dell’approdo confessionale o ateo che può pro-durre. Vorrei sapere come questo interrogativo, cheemerge con maggior forza nelle giovani generazioni,oggi si intrecci con questa nostra discussione sullaqualità della democrazia in un Paese che sempre piùscopre al proprio interno altre confessioni, altre iden-tità. Questo esigerebbe un lungo approfondimento, manon potevo non approfittare della sua presenza,Monsignore, per rivolgerle questa parola.

SERGIO ZAVOLI. Se Giovanna Melandri e monsi-gnor Ravasi me lo consentono, rimanderei a dopo ilquesito proposto e riprenderei invece la discussionesulle procedure della democrazia, in merito alle qualiil professor Fisichella sembra avere molto da dire.

DOMENICO FISICHELLA. Grazie, Presidente. Soltantodue piccole osservazioni. Non vorrei che si immagi-nasse che la democrazia non abbia delle procedure. Lademocrazia non è solo procedurale, ma è anche proce-durale. Attenzione quindi a come interpretare, leggeree recepire le parole del professor Lipari. Esistono pro-cedure per la formazione delle norme e procedure perla formazione delle decisioni. Se ci mettiamo nella lo-gica che non c’è procedura, allora tutto diventa rap-porto di forza. Senza le procedure – che non escludo-

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no la possibilità che vi siano dei rapporti di forza masono un vincolo ai rapporti di forza – corriamo il ri-schio che la democrazia diventi qualche altra cosa.

Inoltre, se il sistema pubblico deve fare control-lo e formazione, è singolare che alla vigilia delle ele-zioni si chiuda il canale sia del controllo che della for-mazione. Mi pare che ci sia un capovolgimento di unodei princìpi generali dell’ordinamento giuridico, che èil principio di buona fede. Si sospendono le trasmis-sioni di approfondimento in base al principio di mala-fede, cioè si presume che coloro che le guidano e leorientano si comporteranno in cattiva fede. Questo pe-rò deve essere provato, perché altrimenti la presunzio-ne diventa assoluta, cioè non ammette prova contra-ria. Si affermerà che la presunzione sia stata provataprecedentemente, nel senso che coloro che conduconole trasmissioni di approfondimento prima si sonocomportati in malafede, ma allora ci dovevano esseredelle regole perché questo fosse bloccato. Se questeregole non sono state applicate o non c’erano, so-spendendo certe trasmissioni si vulnera il principio dibuona fede.

SERGIO ZAVOLI. Non prendo le parti di nessuno,non ne ho titolo e il mio ruolo, oggi, è comunque diuna natura completamente diversa. Credo, però, cheGiovanna Melandri non volesse porre una distinzio-ne di carattere scientifico o tecnico. Quando parlava

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di procedure, credo che cercasse una metafora poli-tica…

DOMENICO FISICHELLA. …mi riferivo soprattutto aciò che diceva il professor Lipari.

PAOLO GENTILONI. Sono un difensore della leggesulla par condicio e – chiedendo scusa a Sergio Zavoliche ci ha invitato a non buttarla troppo in politica –credo che sia in corso un’evidentissima operazione ditipo politico: attraverso questo regolamento svergo-gnare la par condicio, per poi abolirla.

Si tratta di una delle leggi meno conosciute dal-l’opinione pubblica e dagli stessi politici. In un recentedibattito, ospitato nella trasmissione di Santoro, se n‘èparlato con scarsa conoscenza di causa. Durante tuttiquesti anni, si è verificato uno slittamento tra la di-scussione sulla legge della par condicio e la discussionesui regolamenti attuativi, che nel corso del tempo laCommissione di vigilanza e l’Authority hanno fatto.

La legge in realtà stabiliva alcuni principi essen-ziali in merito al rapporto tra televisione e campagneelettorali. Il primo è il divieto di spot, che è comune aquasi tutti i Paesi europei ed è sacrosanto in Italia. Ilsecondo è il divieto di pubblicazione dei sondaggi ne-gli ultimi 15 giorni di campagna elettorale: un princi-pio sacrosanto, anche se non sempre applicato. Il terzoè l’obbligo per le televisioni di mettere in onda le tri-

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bune elettorali, programmi di comunicazione politica.Il quarto (e qui è il tema delicato) : tre garanzie che iprogrammi di informazione (nella legge non c’è unadistinzione tra telegiornali e altri programmi di infor-mazione) devono assicurare. Siamo quasi a livellodell’équité, anche più dettagliato (penso alla parità ditrattamento). Ovviamente, tali principi possono esserestiracchiati e lo sono stati. Lo dico autocriticamente,visto che sono stato presidente della Commissione divigilanza.

Nei regolamenti della Commissione e del -l’Authority, prima ancora dello stravolgimento totaledel regolamento di questi giorni, c’è un abuso del det-taglio perché si passa, dai princìpi di cui sopra, a in-dicare i programmi in cui si può andare ospiti, l’atteg-giamento che devono tenere i conduttori, il tipo di ri-prese che devono essere fatte. Siamo infine arrivatiall’assurdo dell’ultimo regolamento, in base al quale leregole delle tribune devono essere applicate ai pro-grammi di informazione.

Considero doveroso salvare la legge e sfrondarequesti regolamenti, non solo tornando a quelli prece-denti, ma anche un po’ più indietro. La famosa senten-za n. 155 della Corte Costituzionale rispondeva al que-sito che le era stato rivolto: la legge sulla par condiciolede l’articolo 21 della Costituzione? La Corte risposedi no, perché c’è una chiara distinzione tra comunica-zione politica e programmi di informazione.

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Con il passare degli anni questa netta distinzioneaffermata dalla Corte è stata incisa da questi regola-menti, sia della vigilanza sia dell’Authority, al puntoda essere addirittura cancellata dall’ultimo regolamen-to. Suggerirei pertanto di metterci al lavoro per sfron-dare tutta questa mteria, basandoci su una convinzio-ne sulla quale vorrei conoscere la vostra opinione. Sitratta di una discussione sulla legislazione antitrust eil dibattito tra regolazione ex ante e regolazione expost, che non si può estendere al pluralismo in modoautomatico. Ma vorrei sapere fino a che punto in untema come questo ci si possa affidare a regole ex post,ovvero affidare il rispetto dei princìpi generali fissatidalla legge a una sorta di common law, in cui sono leregole della professione giornalistica, la responsabilitàeditoriale degli editori e le autorità indipendenti, che,di fronte a violazioni particolarmente gravi, interven-gono d’ufficio.

Un altro incredibile meccanismo dell’attuale si-stema è che l’autorità indipendente di norma non in-terviene d’ufficio, ma interviene su denuncia, per cuile forze politiche o i soggetti che vengono tutelati nonsono quelli più gravemente colpiti, ma quelli che nelcorso del tempo sono diventati dei formidabili specia-listi nell’arte del ricorso all’AGCOM, visto che questa in-terviene su esposti di parte.

Mi chiedo se, in una materia del genere, ci sipossa affidare alle leggi che regolano la professione

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giornalistica, alla responsabilità degli editori, che difronte a violazioni particolari devono intervenire, e algiudizio di un’autorità indipendente. Penso di sì epenso che, in un sistema che funzioni, dovremmo ave-re le regole di base della legge, che sono infatti lequattro che difendo, attuate e sorvegliate in questomodo. Può darsi, però, che stia immaginando un mon-do diverso da quello in cui ci troviamo.

SERGIO ZAVOLI. Questo è un argomento di quelliche il senatore Vita predilige. Ascoltiamolo.

VINCENZO MARIA VITA. Vorrei porre alcuni quesiti,soprattutto al professor Armaroli. Sono lieto della suapresenza, perché forse ricorderà che in un’altra fun-zione capeggiò l’opposizione al disegno di legge, chepoi divenne legge n. 28 del 2000, la legge sulla parcondicio: oggi parzialmente riabilitata.

Avevo già rivolto la mia domanda ad altri suoicolleghi giuristi, anche di parte politica diversa dallamia, nella speranza di una moral suasion.Effettivamente, quel comma dell’ultimo regolamentodella Commissione di vigilanza è contraddittorio ri-spetto alla sentenza della Corte, ma anche nei riguardidella legge del febbraio 2000. Non vi è dubbio alcuno:al comma 4 dell’articolo n. 6 c’è una plateale contrad-dizione, che rende imbarazzante, presidente Zavoli,partecipare a una discussione quando sembra, in que-ste ore, che tutto sia già pre-definito, quando anche

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l’interpretazione di un comma rispetto a una legge èdiventata una questione politica: solo ed esclusiva-mente politica, dato che l’intenzione è dare unoschiaffo a chi la pensa in modo diverso. C’è un utilizzodel potere molto disordinato – lo dico a persone cosìautorevoli, come quelle che siedono qui –. E’ un utiliz-zo del potere da regime, che non sta mai bene, perchépoi diventa foriero di controversie.

Vorrei chiedere, quindi, se si ritiene che il plura-lismo – termine piuttosto ambiguo che fu coniato dal-la CISL molti anni fa in un sistema politico e socialeassai più semplice, molto diverso dalla post-modernitào iper-modernità di oggi – sia completamente scon-volto. Siamo di fronte, nel sistema della comunicazio-ne e in una parte almeno del sistema culturale, a unaforma inquietante di pensiero unico, come dicono ifrancesi. È legittimo pensarla nei modi più diversi: ev-viva la democrazia, evviva il pensiero più libero! Mifarei impiccare per chi la pensa diversamente da me,per difendere i suoi diritti. Tuttavia, quando rispettoalla questione della protezione civile si assiste aun’ondata da vero e proprio regime mediatico, per cuinulla si può eccepire e il dissenso sembra ormai messoai margini, sono indotto a chiedervi cosa sia oggi ilpluralismo.

Concludo con una domanda riguardante un te-ma accennato da monsignor Ravasi, parlando delduetto e del duello. Anche a me piacerebbe un duetto.

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Lei ha parlato del soprano e del basso, ma la musicadodecafonica ha in parte cambiato i termini. Siamo inuna stagione in cui anche trovare le armonie è menosemplice. Nel provarci tutti insieme, però, non do-vremmo riscrivere – il presidente Zavoli ne ha accen-nato in più punti, implicitamente ed esplicitamente –il concetto stesso di pluralismo, togliendo di mezzol’equazione univoca, ormai impropria e anche grotte-sca, tra pluralismo e tutela delle parti politiche? Taleequazione ormai è completamente desueta, appartienea un sistema novecentesco, o persino pre-novecente-sco, in cui era più semplice classificare le parti. Oggi, iltema del pluralismo è culturale e sociale, è politico insenso più ampio. La politica può avere una versionealta e una versione mediocre; oggi stiamo incorrendoin quella sub-mediocre. La versione più alta della po-litica è una sintesi superiore. La fine delle ideologie delNovecento non ci porta però a disarmarci.

Vi chiedo, quindi, se possiamo ancora riabilitarequesto termine in una chiave nuova, sconfiggendo,con un impegno di militanza culturale e non politica,l’attuale tentazione alla semplificazione, all’omologa-zione culturale, che alla fine distrugge anche i suoicontraddittori. Se, infatti, si riduce tutto alla sopraffa-zione delle proprie idee sulle altre, il concetto di de-mocrazia si spegne lentamente e porta a conseguenzenefaste anche per chi, per un attimo, ne è stato il be-neficiario.

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Questo è un tema enorme della democrazia, è iltema dei temi, perché la questione culturale oggi è laquestione del secolo. Le altre vengono dopo. Tutto ilresto ne discende, perché siamo alla ricerca di nuoveidentificazioni culturali, morali ed etiche. Se vienemeno il pluralismo in questa chiave, a cosa si riduce ilsistema della comunicazione? È un aggeggio imbaraz-zante, quello dei televoti, dove il range sta fra la partealta di qualche rotocalco e la parte bassa dei realityshow.

Se questo è il tema, allora che si spenga la tele-visione, perché davvero quell’aggeggio non ha piùsenso.

SERGIO ZAVOLI. Intorno a ragionamenti come que-sti credo sia utile ascoltare di nuovo Stefano Passigli.

STEFANO PASSIGLI. Sono innanzitutto molto lietoche autorevoli giuristi, come il presidente emerito del-la Corte Costituzionale, concordino con quanti di noiritengono che si sia fatta un’applicazione della leggesulla par condicio che viola il principio stesso che eraalla base della legge. Mi sembra che ciò possa giustifi-care il sospetto cui dava voce Gentiloni, che si vogliacioè costruire una tale visione della par condicio darenderla talmente impalatabile da riproporne di nuovoil tema della sua soppressione.

C’è un altro aspetto, che mi sembra importante:

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che cosa farà l’AGCOM? Veniva evidenziata un’ovviadifficoltà, cui il presidente Calabrò aveva già dato vo-ce, ma immagino che si andrà in direzione dell’armo-nizzazione delle due decisioni. A questo punto emergeil paradosso che, contro la decisione dell’AGCOM, la te-levisione commerciale può opporre ricorso e ha unasede dove farlo (la giustizia amministrativa). I tempipotrebbero comunque non consentire una decisione,ma ci sono anche le sospensioni, e comunque esiste unforo a cui potersi appellare.

Non è così nei confronti delle decisioni dellaCommissione, cosa che conferma oggi l’eccessiva sud-ditanza della RAI nei confronti della politica o, meglio,della maggioranza di turno. Il sistema è cambiato ecerti poteri quali quelli della Commissione di vigilan-za, che erano forse adeguati in un sistema proporzio-nale e multipartitico, non lo sono necessariamente nelmaggioritario, dove la maggioranza parlamentare puònon essere la maggioranza del Paese, perché i sistemimaggioritari hanno la caratteristica di produrre spessomaggioranze parlamentari che non sono la maggio-ranza del Paese.

Penso che il quadro complessivo renda ancorapiù pericoloso – laddove esiste una legge elettoraleche consente di nominare i parlamentari e non di farlieleggere dai cittadini – affidare la scelta a un organi-smo che esprime una maggioranza precostituita intutti i sensi, perché la scelta di chi mandare in

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Parlamento, o nella Commissione di vigilanza, è effet-tuata da parte del capo di una ampia coalizione. Ciòsignifica consegnare a una maggioranza precostituitapoteri molto delicati che, in momenti cruciali comequelli di una campagna elettorale, possono ledere inprofondità la libertà di informazione.

SERGIO ZAVOLI. Ora possiamo riprendere l’argo-mento che stava a cuore a Giovanna Melandri e darela parola a monsignor Ravasi, il quale probabilmenteavrà colto anche altri suggerimenti da chi l’ha prece-duto.

GIANFRANCO RAVASI. Vorrei rispondere iniziandocon una battuta di Oscar Wilde, il quale diceva che adare le risposte sono capaci tutti, ma a fare le vere do-mande ci vuole un genio. Il senatore Vita ha fatto unadomanda veramente geniale, che ha già la risposta.Dare risposte in maniera un po’ scontata può esseredel tutto inutile, però io mi associo alla sua domanda,non potendo fare altro nel perimetro di questo spazioche ci è riservato: la vera riflessione da fare, quando sipone sul tappeto la parola pluralismo, è a livello cul-turale.

Come si sa, il termine «cultura» è stato inventatodall’illuminismo tedesco nel Settecento, ma la culturaclassica usava due altri termini: il greco paideia e il la-tino humanitas, che sono una visione d’insieme, non

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soltanto l’elaborazione di un’aristocrazia intellettualeo politica, ma un fenomeno più complesso. Sarebbeinteressante capire come dovrebbe essere un concettodi pluralismo che permettesse quell’altra realtà chesempre più si sta sdilinquendo: il dialogos, l’incontrotra argomentazioni e parole differenti.

Il senatore Vita ha citato la dodecafonia, che pe-rò è sempre musica, sempre armonia pur nella tensio-ne. In pratica non rispondo, ma ripropongo la stessadomanda, che ripetutamente trovo nel confronto conorizzonti molto diversi a cui sono condotto sponta-neamente dalla mia attuale funzione, cioè sentendo lasensibilità di culture differenti.

Vorrei poi riconnettermi a quanto giustamenteosservava l’onorevole Giovanna Melandri, fermo re-stando che anche in questo caso vale il principio delladomanda, perché rispondere vorrebbe dire vagamenteargomentare nell’arco di questo spazio così limitato.Ritorno al concetto di mucillagine, perché questa im-magine è particolarmente significativa e rappresentauna variante di quella di Bauman sulla società liqui-da, cioè sull’inconsistenza: non esistono più punti diriferimento e quindi siamo di fronte a un percorso im-merso nella nebbia. Anche le religioni purtroppo sistanno progressivamente stingendo, non hanno più ilcoraggio di proporre i temi ultimi fondamentali, mapropongono sempre temi penultimi, che sono sì im-portanti, ma di spessore solo sociale.

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Quello che lei dice a proposito della religione,che potrebbe eventualmente avere la capacità – mi ri-ferisco alla religione autentica, non, ad esempio, allaNew age – di proporre queste punte che nella nebbiapermettono di muoversi, è talmente significativo cheadesso citerò un solo piccolo esempio che, però, è ab-bastanza sconcertante. Dieci giorni fa, ho ricevuto unadelegazione scozzese della Pagan Foundation, unafondazione pagana che sta facendo un’operazione conil Governo scozzese per poter essere riconosciuta congli stessi diritti delle religioni. Non vogliono esserechiamati “non credenti“, perché affermano – ed è que-sta, secondo me, una grande perdita anche per l’atei-smo contemporaneo – di non avere una visione tra-scendente, ma una concezione antropologica generaleseria, dove c’è anche una dimensione etica, valori cheprescindono da normative di tipo assoluto, ma ricono-scono, però, normative non meramente situazioniste odi pura convenienza.

Proprio in questa prospettiva sarebbe quindipossibile che credenti e pagani facessero sorgere unaluce all’interno di quella nebbia, e vorrei suggerire agliatei di ribellarsi alla concezione offerta da certi pam-phlet cosiddetti atei, che propongono invece semplice-mente lo sberleffo delle religioni, l’ironia, la banaliz-zazione. I nomi li conosciamo tutti, perché sono saggidi Onfray, di Odifreddi, Hitchens, Dawkins. Sono ba-nalizzazioni dell’autentico concetto di ateismo, che

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potrebbe invece lasciare una traccia in questa mucilla-gine, che potrebbe essere definita anche con un altrotermine purtroppo imperante.

Ho incontrato una sola volta il grande autore deIl Mulino del Po, Riccardo Bacchelli. Dopo essere statiinsieme un pomeriggio, mi disse soltanto questa frase,non so perché: «Reverendo, si ricordi comunque diuna cosa, che gli stupidi impressionano non foss’altroche per il numero.» Di per sé, infatti, non dovrebberoimpressionare. Ma è quanto le trasmissioni, cui si fa-ceva cenno, forse trasmettono.

SERGIO ZAVOLI. Francesco Pardi è un senatore col-to e polemico, battagliero e leale. Ed è, in più, ancheun intellettuale…

FRANCESCO PARDI. Uso pochissime parole per so-stenere anch’io che il regolamento così modificato haseri profili di incostituzionalità, però aggiungo unacosa che non è stata detta ancora da nessuno: se nonincostituzionalità, c’è una profonda ingiustizia in que-sto regolamento nel punto in cui di fatto esclude i pic-coli dalla prima parte della campagna elettorale, con-fina la loro presenza a una forma più limitata, in ar-monia con un punto di vista che sta ormai dilagando,che forse è imbattibile, ma che è necessario combatte-re, ovvero l’idea che la politica diventi sempre più ef-ficace quanto meno la rappresentanza politica corri-sponde al sentimento dei cittadini. Ci sono molti citta-

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dini che continuano a votare partiti piccoli sempremeno presenti nella scena pubblica. Trovo che questosia terribile e sia in armonia con il punto di vista gui-da incardinato sul ragionamento del professorFisichella, questa idea della volontà generale imperso-nata nella volontà di una persona sola o al massimo didue che duellano. Con lo svilimento del concetto delruolo delle minoranze si assiste quindi a uno scadi-mento del concetto di democrazia.

Quanto alla televisione, alla comunicazione e alpluralismo, sono costretto a fare riferimento a una no-ta triviale involontaria, perché non posso evitare dicogliere la contraddizione che c’è tra il tono alto che ilpresidente Zavoli ha utilizzato nella sua relazione e ilgrottesco telegiornale dei TG1 di ieri sera, che, dopoaver celebrato con i suoi mezzi un po’ arraffati l’apo-logetica del Governo e della Protezione civile, si è pro-dotto in una seconda parte in cui si è parlato, nell’or-dine, dell’opportunità che i bambini stiano nel lettodei genitori, della chirurgia delle sopracciglia, del canepiù grosso del mondo, di Sanremo formato famiglia. Aquel punto, un ingenuo avrebbe pensato che era finita,mentre invece c’era un sottofinale a suo modo paesag-gistico con il pilota di Formula 1 Vettel, che scalava ilVesuvio per allenarsi, con tutto il corredo di visionipaesistiche del Monte Somma e del vulcano.

Sulla base di questa attitudine mi è difficile im-maginare che lo stesso TG1 nei prossimi giorni riesca a

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dedicare un secondo di servizio alla notizia, oggi giàpubblicata dai giornali, di una pessima legge che ilSenato si appresta a esaminare, che verte su una sortadi obbligatorietà del tutor sulle autostrade, e che riguar-da direttamente un’impresa del fratello del Presidentedel Consiglio, che produrrà tutor e si arricchirà esatta-mente come si è arricchito sui decoder qualche anno fa.Immagino che il TG1 riuscirà a non parlarne.

Riprendo anche il problema sollevato da varioratori tra canone e qualità. Sono convinto che il ca-none attuale sia insufficiente, che sia molto difficilefare televisione in questa maniera; sostenere però ilcanone ha senso per i cittadini che vedono, ascoltanoe fruiscono della televisione quando il servizio è all’al-tezza del canone. Se la RAI indulge nelle schifezze, èdifficile pensare che il canone abbia fondamento. È laquestione del Servizio pubblico. Se il campione del-l’interesse privato ha il controllo fondamentale sulServizio pubblico, credo sia un servizio non pubblico,ma privato.

In questa logica, diventa molto difficile sostene-re la posizione giusta, che vorrebbe che si adottasseromisure per contrastare l’evasione del canone. Qualchecollega ha concesso qualcosa alla polemica contro iprogrammi faziosi. Tutti sono liberi, ma oggi sarebbefondamentale rendersi conto che nella RAI esiste unafaziosità ontologica. Indipendentemente da quello chedicono i programmi, dalle musiche, dalle scene e da

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tutto quello che viene detto, perfino dalla qualità in-trinseca delle trasmissioni, la RAI di fatto è la personi-ficazione di una faziosità ontologica perché il campio-ne dell’interesse privato controlla la sede del Serviziopubblico.

In questo senso la par condicio è una legge ine-vitabile, sarà la meno bella del mondo, ma sono con-vinto che ha ragione Gentiloni a difenderla. È una leg-ge inevitabile perché fronteggia con armi scarse unpotere preponderante. Rilevo anch’io che ilduello/duetto con la maggioranza oggi non c’è stato.Sarebbe desiderabile, però è curioso che in un dibatti-to su democrazia, pluralismo, Costituzione e RAI lamaggioranza sia assente. Devo infine avanzare unapiccola, irriverente domanda a monsignor Ravasi, alquale chiedo se la Chiesa, nella sua infinita saggezza,non potrebbe forse esercitare un po’ meno di indul-genza nei confronti del campione dell’interesse priva-to.

SERGIO ZAVOLI. Chiede di intervenire il professorLipari…

NICOLÒ LIPARI. Mi rendo perfettamente conto chechi svolge il ruolo di parlamentare è forzato dalle con-tingenze, quindi è preoccupato di come risolvere alcu-ni problemi nell’immediatezza.

Sarebbe tardi, e comunque improprio, da parte

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mia interloquire su ciò. Vorrei limitarmi a fornirvi dueindicatori, che ciascuno gestirà al meglio. Il primo in-dicatore è che le elezioni sono volte a formare la strut-tura di Governo, che riguarda non soltanto gli elettori,ma l’intero popolo, anche quelli che non vanno a vo-tare, anche coloro che, pur non essendo cittadini, sonopresenti in una comunità e fanno parte di una colletti-vità che va disciplinata.

Vi prego di riflettere su questo, perché laCommissione parlamentare di vigilanza non è soltantol’espressione dei partiti politici che vi sono rappresen-tati, ma anche il riflesso di una collettività. Se ne po-trebbero trarre alcune conseguenze, però non mi com-pete.

La seconda è un’indicazione di contenuto, cheintegra e ribatte a quanto sostenuto dal professorFisichella. L’esercizio del potere non è esclusivamentelegato al fatto di essere investiti del potere: è sottopo-sto a un giudizio, che è esterno a quel potere.

Se avessi potuto svolgere tutta la riflessione chemi ero preparato, avrei richiamato una citazione chetraggo dalla ciclopica opera di Kantorowicz suFederico II di Svevia. C’è un passaggio di una riflessio-ne di Federico II di Svevia che dice: «Quantunque lanostra Maestà sia sciolta da ogni legge, non si levatuttavia essa al di sopra del giudizio della ragione, cheè la madre del diritto».

Che cosa c’è in ciò di diverso da ciò che la nostra

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Corte Costituzionale dice quando costantemente ri-chiama il principio di ragionevolezza? Ma il principiodi ragionevolezza, se è al di sopra della legge, competesoltanto nella sua applicazione alla Corte Costi -tuzionale o invece spetta come dovere a tutti coloroche sono chiamati in un certo contesto ad applicareuna legge? A voi la risposta.

SERGIO ZAVOLI. Onorevole Sardelli, lei ha pazien-tato finora, e di questo la ringrazio. Ma ora tocca a lei.

LUCIANO MARIO SARDELLI. Signor Presidente, ri-spondo alla sollecitazione del senatore Pardi in meritoa una maggioranza più presente. Avendo votato que-sto regolamento, che è al centro della discussione e al-la fine mette in dubbio anche la validità complessivadella legge sulla par condicio, ho solo una considera-zione da fare.

In questo momento della storia di questo Paesenon esistono più i partiti così come li abbiamo pensatinella prima Repubblica, non esistono più strutture diconsenso sul territorio e c’è un’opinione pubblica chesi determina nel confronto passivo con il mezzo tele-visivo: la televisione ha uno straordinario potere diorientamento politico. Non c’è altro sistema. Pensareche siano le tribune elettorali il momento della parcondicio è assolutamente improprio. Le tribune eletto-rali sono infatti programmi seguiti da una parte mini-

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male della popolazione, per lo più già orientata politi-camente, e non rappresentano certo il momento in cuiun soggetto si fa un convincimento politico.

Sicuramente, i programmi di approfondimentohanno un valore straordinario, centrale, però non èconcepibile che, in un Paese che dovrebbe essere de-mocratico, un programma di approfondimento vengaspesso guidato da chi ha un passato anche recentissi-mo di militanza o è un militante politico a tutti gli ef-fetti. Ricordo le parole di Montanelli citate dal presi-dente: il limite fra la professione delle proprie idee e illavoro di giornalista, fatto nel rispetto degli altri equindi della correttezza dell’informazione, è estrema-mente fragile.

Tutto nasce da questa parzialità, da questo erroredi fondo: chi fa un programma politico, cosiddettoprogramma di approfondimento, che serve a orientaree, dal punto di vista elettorale, far riflettere milioni dicittadini dovrebbe avere almeno una professionalità eun distacco dalla politica, che gli permetta di esserecredibile. Abbiamo infatti una serie di programmi po-litici sulla TV cosiddetta di Stato che sono chiaramentedi parte e gestiti da militanti della politica, che quindigiustificano una serie di reazioni contro questo siste-ma di informazione.

Desidero infine esprimere una valutazione. Mirendo conto che la Vigilanza questa volta ha avuto unruolo di indirizzo, ha preso una posizione, ha rotto una

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prassi e ha creato scandalo, tuttavia riaffermo il ruoloche compete alla politica: se sia o non sia giusto il si-stema delle elezioni, dei nominati o degli eletti diretta-mente con il voto di preferenza. Non c’è nessun organosuperiore o indipendente che possa sopraffare questafunzione che compete alla politica, funzione di con-trollo, di indirizzo e di rappresentanza democratica.

Purtroppo, il problema più forte di questo Paese,la debolezza che in questi anni ha caratterizzato la po-litica, è l’invasione di una parte del sistema giudizia-rio, addirittura la formazione di un partito di magi-strati o anche di poteri forti che hanno indebolito for-temente questa realtà. Vorrei che fossero rispettati laprimazìa e il ruolo della politica e che si riflettesse sulfatto che forse questa è stata una forzatura, ma corri-sponde alla reazione ad una serie di forzature, chiareed evidenti, che sulla cosiddetta TV pubblica avvengo-no regolarmente.

Si è parlato delle minoranze. Noi abbiamo unproblema fondamentale in questo Paese: non esistesoltanto una cultura romanocentrica, esistono le peri-ferie, esiste l’Italia della provincia, esistono milioni dipersone che hanno valori e comportamenti che nonriescono assolutamente ad arrivare alla TV di Stato.Molto spesso, purtroppo, la TV di Stato è autocelebra-tiva, chiusa, lontana dalla realtà di un Paese che si statrasformando sempre di più.

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SERGIO ZAVOLI. Siamo al termine dell’incontro. I treseminari hanno rappresentato una novità, e come talisono andati incontro anche a fenomeni di imprecisione,a qualche velleità, a qualche tiro balisticamente pococalcolato. In un anno, la Commissione parlamentare divigilanza ha agito in un clima non di mero unanimi-smo, tanto per cavarsela in fretta, ma di reale unanimitàintorno a princìpi nei quali si finiva per trovare un’as-sonanza di fondo, pur conservando riserve mentali eproponendosi di rilanciarle.

Se ci si mette insieme con la volontà di raggiun-gere qualcosa che fino a un attimo prima non c’era, lalusinga è forte e, forse, perdonabile. Mi pare dunqueimportante la spontaneità, per così dire, delle doman-de di questa mattina; alcune persino uscite dalloschema dei seminari, per le quali mi vorrò scusare,avendo dichiarato che il ciclo avrebbe avuto una to-nalità principalmente culturale. Devo in effetti ricono-scere che talvolta, per primo, non ho rispettato il miostesso proponimento. Ma anche le sonorità dissonantipossono dare dei frutti.

Il mio grazie è rivolto a tutti voi.

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Tv, Costituzione e democrazia, politica e pluralismo3° Seminario Roma, 23 febbraio 2010

Camera dei deputati

Senato della Repubblica

Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi