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Rivista semestrale Anno I, numero 1 Gennaio-giugno 2009 Direttore responsabile: Maria Stella Malafronte Venier Registrazione Tribunale di Trieste di data 16 marzo 2009 n. 1190 Comitato scientifico: Giampaolo Azzoni (Università degli Studi di Pavia) Giuseppe Battelli (Università degli Studi di Trieste) Giliberto Capano (Università degli Studi di Bologna) Michele Cortelazzo (Università degli Studi di Padova) Franco Fileni (Università degli Studi di Trieste) Maurizio Manzin (Università degli Studi di Trento) Comitato di redazione: Eugenio Ambrosi, Gigliola Bridda, Marco Cossutta (direttore scientifico) Danilo Fum, Paolo Moro, Gemma Pastore, Federico Puppo, Gabriele Qualizza Antonella Tafuri (editor), Roberto Toffolutti, Maila Zarattini rivista di scienze della comunicazione TIGOR EDIZIONI UNIVERSITÀ DI TRIESTE

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Rivista semestrale

Anno I, numero 1

Gennaio-giugno 2009

Direttore responsabile:

Maria Stella Malafronte Venier

Registrazione Tribunale di Trieste di data 16 marzo 2009 n. 1190

Comitato scientifico:

Giampaolo Azzoni (Università degli Studi di Pavia)

Giuseppe Battelli (Università degli Studi di Trieste)

Giliberto Capano (Università degli Studi di Bologna)

Michele Cortelazzo (Università degli Studi di Padova)

Franco Fileni (Università degli Studi di Trieste)

Maurizio Manzin (Università degli Studi di Trento)

Comitato di redazione:

Eugenio Ambrosi, Gigliola Bridda, Marco Cossutta (direttore scientifico)

Danilo Fum, Paolo Moro, Gemma Pastore, Federico Puppo, Gabriele Qualizza

Antonella Tafuri (editor), Roberto Toffolutti, Maila Zarattini

rivista di scienze della comunicazione

TIGOR

EDIZIONI UNIVERSITÀDI TRIESTE

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TigorRivista di scienze della comunicazione

A.I (2009), n. 1 (gennaio-giugno)

Direttore responsabile:

Maria Stella Malafronte Venier

Registrazione Tribunale di Trieste di data 16 marzo 2009 n. 1190

Comitato scientifico:

Giampaolo Azzoni(Università degli Studi di Pavia)

Giuseppe Battelli(Università degli Studi di Trieste)

Giliberto Capano(Università degli Studi di Bologna)

Michele Cortelazzo(Università degli Studi di Padova)

Franco Fileni(Università degli Studi di Trieste)

Maurizio Manzin(Università degli Studi di Trento)

Comitato di redazione:

Eugenio AmbrosiGigliola BriddaMarco Cossutta (direttore scientifico)Danilo FumPaolo MoroGemma PastoreFederico PuppoGabriele QualizzaAntonella Tafuri (editor)Roberto ToffoluttiMaila Zarattini

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Tigor: rivista di scienze della comunicazione A.1,n.1 (gennaio-giugno 2009)

TigorRivista di scienze della comunicazione

A.I (2009) n. 1 (gennaio-giugno)

Sommario

4 Presentazione

6 Marco Cossutta

Alcune note introduttive al convegno su La comunicazione giuridica fra enti pubblici e soggetti privati, Trieste, 16-17 ottobre 2008

11 Gemma Pastore

Il valore delle regole di tecnica legislativa nel discorso giuridico del legislatore

31 Maurizio Manzin

L’ordine infranto. Ambiguità e limiti del sillogismo giudiziale nell’età postmoderna

42 Paolo Moro

La formazione retorica del giurista contempo-raneo

47 Damijan Terpin

La comunità linguistica slovena in Italia e la sua percezione dell’ordinamento giuridico italiano

51 Marco Cossutta

Note introduttive alla tavola rotonda su Libertà di informazione e giustizia, tra

lodo Alfano e recenti disegni di legge sulla pubblicità degli atti processuali, Trieste, 18 dicembre 2008

60 Mitja Gialuz

La manovra Alfano: una controriforma che limita in modo irragionevole intercettazioni e diritto di cronaca

69 GianniMartellozzo

Intervento presentato in occasione della Tavola Rotonda su Libertà di informazio-ne e giustizia tra lodo Alfano e recenti disegni di legge sulla pubblicità degli atti processuali

71 Stefano Favaro

L’esperienza giuridica digitale tra teoria e prassi: spunti per una riflessione critica

88 Gabriele Qualizza

Artefatti simbolici e cambiamento organizzativo

107 Eugenio Ambrosi

La comunicazione organizzativa motore di un cambiamento lungo due anni

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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.1 (gennaio-giugno)

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Presentazione

Il primo fascicolo della rivista, conforme-mente ai suoi intenti, raccoglie anzitutto i

contributi presentati a due incontri di studio promossi nel 2008 all’interno del corso di ma-ster di primo livello in Analisi e gestione della comunicazione, attivo presso l’Università degli Studi di Trieste.

Il primo incontro, organizzato a Trieste, in via Tigor, presso l’Aula Magna della Facoltà di Scienze della Formazione il 16 e 17 ottobre dello scorso anno, ha visto come proprio og-getto d’indagine La comunicazione giuridica fra enti pubblici e soggetti privati. Analisi del discorso giuridico fra normazione e retorica forense nelle aree di confine fra Friuli Venezia Giulia, Slovenia e Croazia. Il convegno internazionale di studi, organizzato di concerto con il Cermeg (Centro di Ricerca sulla Metodologia Giuridica), ha go-duto del patrocinio della Conferenza dei Retto-ri di Alpe Adria e dell’Ordine degli Avvocati di Trieste ed a visto la partecipazione di studiosi italiani, sloveni e croati. Qui pubblichiamo le relazioni di Pastore, Manzin, Moro e Terpin.

La seconda iniziativa promossa anch’essa con la collaborazione del Cermeg, che ha vi-sto sempre come propria cornice l’Aula Ma-gna di via Tigor, ha affrontato il tema della Libertà di informazione e giustizia tra «lodo Al-fano» e recenti disegni di legge sulla pubblicità degli atti processuali, e si è svolta il 18 dicembre con il patrocinio della Federazione Naziona-le della Stampa, dell’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia e dell’Ordine degli Avvocati di Trieste. I contributi qui presen-

tati si riferiscono alla relazione di Gialuz ed all’intervento di Martellozzo.

Nello scorso anno accademico il master ha organizzato, assieme al Cermeg, altri due in-contri, il primo, tenutosi il 30 maggio 2008 su I linguaggi del processo. Retorica forense fra comunicazione e formazione ed il secondo, svol-tosi il 30 ottobre dello scorso anno sulla Scrit-tura forense. Il metodo di stesura dell’atto difensi-vo. Entrambe le iniziative si sono svolte con il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Trie-ste. Va altresì rilevato che nell’aprile 2008 si è svolto in incontro su L’evoluzione nella comu-nicazione; dal BtoC al PtoP. La centralità delle per-sone nell’era della trasparenza. Un caso aziendale d’impresa sensibile. Nell’aprile 2009 si è tenuto un seminario sul tema Marketing non conven-zionale. Può essere una scelta etica? Entrambe le iniziative si sono scolte in collaborazione con la Polaris Warm Ideas.

Avuto riguardo alla specificità dei primi due incontri, si è ritenuto di non proporre in que-sta sede le analisi lì sviluppate, riservandosi di presentarle in altro contesto. Si auspica in-vece che le tematiche affrontate assieme agli operatori della Polaris Warm Ideas possano ritrovare quanto prima su queste pagine uno sviluppo teorico.

Ai contributi inerenti ai due convegni orga-nizzati nell’ambito del master si affiancano, in questo primo numero, gli studi di Stefano Favaro su l’esperienza giuridica digitale, che vuo-le condurre il lettore verso un’analisi critica dell’impatto che lo sviluppo tecnologico, esem-

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5Presentazione

plificato dalla tecnologia informatica, ha avuto sul mondo del diritto; di Gabriele Qualizza, il quale indaga gli artefatti simbolici quali pros-simi protagonisti del mondo della comunica-zione e di Eugenio Ambrosi, già Direttore del ERDISU di Trieste, il quale nel suo contributo offre testimonianza di una positiva esperienza di comunicazione che va visto come protago-nisti gli operatori e gli utenti di un ente pub-blico, l’ERDISU per l’appunto, e che ha suscita-to ampli consensi sia in Italia, che all’estero.

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Alcune note introduttive al convegno suLa comunicazione giuridica fra enti pubblicie soggetti privatiTrieste, 16 e 17 ottobre 2008

Marco Cossutta

Abstract

Nell’introdurre il tema dei lavori congressuali, attraver-so la metafora della ricetta culinaria, si tenta di attrarre l’attenzione sul problema sollevato dalla dicotomia di-sposizione/norma, ritenendo che, se per un verso, una tecnica legislativa che riduca, se non addirittura faccia scomparire la distinzione fra le due, tanto da far coin-cidere la norma con la disposizione, produrrebbe una indubbia situazione di certezza del diritto, d’altro canto interverrebbe profondamente sulla divisione dei poteri, riducendo il giurista a servo della legge e impedirebbe un adeguamento, che non promani dal potere legislati-vo, dell’ordinamento giuridico alla realtà sociale.

Parole chiave

interpretazionecertezza del dirittoconcetti giuridici indeterminatiéndoxa

za in cucina e l’arte del mangiar bene, opera che fece nel 1891 la sua timida apparizione in una edizione di mille copie stampate a spese dello stesso Artusi.

Il perché di un richiamo a prima vista così fuorviante da apparire quasi offensivo all’intelligenza di chi ascolta è presto detto. Nell’introduzione dell’opera qui richiamata, Guerrini con veemente sarcasmo si scaglia contro quegli autori di letteratura culinaria i cui libri erano, a parere del nostro, scritti con i piedi, “con uno stile di assassini”. Il bersaglio della polemica è niente meno che Giovanni Vialardi, capocuoco alla corte dei re sabaudi (Carlo Alberto prima, Vittorio Emanuele II poi), autore, con uno stile farraginoso e con-torto, infarcito d’un lessico arcaico, di una rac-colta di ricette, che risultano il più della volte incomprensibili e quindi inutilizzabili.

Olindo Guerrini si fa paladino d’un linguag-

Mi si consenta di introdurre il tema og-getto delle nostre due giornate di lavoro

con una divagazione richiamando la Vostra at-tenzione sulla ristampa di un trattato del pri-mo Novecento. Il testo a cui faccio riferimen-to è L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa, di Olindo Guerrini, pubblicato postumo nel 1918 dall’editore Formaggini in Roma. La ristampa, per i tipi della Franco Muzio editore di Padova, data 1993. Pur correndo il rischio di dire cose fin troppo note, rammento che l’autore del te-sto qui richiamato fu Direttore della Biblioteca Universitaria dell’Ateneo bolognese e autore, fra le altre, celato dallo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, della raccolta di versi Postuma pub-blicata, se non erro, nel 1876. Il romagnolo Guerrini, che si palesa ai suoi lettori anche sot-to le vesti di Argia Sbolenfi, è intimo del suo conterraneo Pellegrino Artusi, insigne lettera-to che raggiunge immortale fama con La scien-

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Alcune note introduttive al convegno su La comunicazione giuridica... 7

proprio antefatto nel contributo presentato a Firenze nel 1950 da Carlo Esposito a Congresso internazionale di diritto processuale, Il control-lo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia4. All’interno di questa prospettiva, “per disposizione […] non si intende la norma (co-munque e da chiunque) formulata, quanto, più propriamente, la formula istituzionalmente rivolta a porre e a rilevare la norma”5.

La differenza fra disposizione e norma, la distanza ed il divario fra fonte di produzione e destinatario, fanno sì che anche la comuni-cazione giuridica possa venire inficiata dal-la presenza di rumori, i quali impediscono la corretta veicolazione al soggetto normativo dell’informazione posta in essere dall’autori-tà normativa sul comportamento da tenersi legittimamente. Anche il processo di comuni-cazione giuridica è, infatti, mediato da quelli che nella teoria della comunicazione6 vengono definiti emittente, canale, ricevitore; si pensi solo all’attività di formulazione linguistica del-la disposizione e alla sua trasposizione nelle fonti di cognizione.

La tecnica di redazione dei documenti giuri-dici e in particolare la tecnica legislativa ritro-va quindi indubbia centralità nella comunica-zione giuridica, nel momento in cui tali tecni-che sono volte alla rimozione d’ogni ostacolo di natura semantica, sintattica e logica7 che si frappone alla corretta comprensione dell’in-formazione veicolata nel testo.

Il corretto utilizzo di tali tecniche influisce direttamente sulla vigenza di valori giuridici fondamentali nella (e costitutivi della) civil-tà occidentale; un testo formulato in modo

di interpretazione della Corte costituzionale nei rapporti con l’interpretazione giudiziaria; entrambi i saggi sono appar-si su “Giurisprudenza Costituzionale”, I (1956), nn. 4-5. Il tema verrà ripreso da Crisafulli nel 1964 nella voce Disposizione (e norma) redatta per l’Enciclopedia del diritto.

4 Ora in C. Esposito, La costituzione italiana. Saggi, Pa-dova, 1954.

5 Ibidem, p. 196.

6 Cfr. C. Shannon, The Matematical Theory of Communi-cation, 1946.

7 Cfr. l’ancora fondamentale contributo di A. Ross, Di-ritto e giustizia, trad. it. Torino, 1965 (ma Copenhagen, 1953).

gio, per riprendere i principi generali per la redazione dei testi normativi1, preciso, chia-ro, uniforme, semplice ed economico; nel far ciò il nostro autore è ben conscio che nessuno né si nutrirà e né si delizierà ingurgitando la ricetta in sé e per sé, ovvero un pezzo di carta imbrattato d’inchiostro, ma, viceversa, ritrove-rà il proprio piacere nel gustare la risultante di un processo di interpretazione ed applicazio-ne del testo culinario. Il quale, nella sua veste di ricetta, può bene essere rappresentato, pari-menti alla regola giuridica, sotto le sembianze di una regola tecnica o di una regola prescrit-tiva2.

Se vogliamo limitarci alla rappresentazione dell’esperienza giuridica come insieme di re-gole poste in essere da una autorità normativa e rivolte da un soggetto normativo per condi-zionarne il comportamento (sia il destinatario ultimo il cittadino oppure un organo o agen-zia istituzionale di controllo, qui poco rileva), appare indubbio che uno dei problemi centrali della ricerca del diritto sia offerto da quel rap-porto fra disposizione e norma magistralmen-te individuato, nella cultura giuridica italiana, già nel 1956, agli albori della attività della Corte Costituzionale, da Massimo Severo Giannini e da Vezio Crisafulli3 e che ritrova idealmente il

1 Il riferimento è alle Regole e suggerimenti per la redazio-ne di testi normativi. Manuale per le Regioni promosso dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, la cui terza edizione, con il supporto scientifico dell’Osservatorio legislativo interregionale, è apparsa nel dicembre 2007 e che sarà oggetto di indagine nelle relazioni che seguiranno.

2 Cfr. in proposito della individuazione e classificazio-ne dei tipi di norme l’ormai classico G. H. von Wright, Norma e azione. Un’analisi logica, trad. it. Bologna, 1989 (ma London, 1963). Non entro qui nel merito delle ar-gomentazioni che la teoria generale del diritto propone che attirare il suo oggetto nell’uno e nell’altro tipo di re-gola; rammento solo, con riguardo alla cultura giuridica italina, che se la rappresentazione della norma giuridi-ca quale proposizione prescrittiva ritrova indubbia cit-tadinanza nel neopositivismo di Norberto Bobbio (cfr. Teoria della norma giuridica, Torino, 1958), la regola tec-nica come tipo a cui attrarre la norma giuridica è teoriz-zata, all’interno delle correnti giuridiche neokantiane, da Alfonso Ravà (cfr. Il diritto come norma tecnica, Padova, 1911).

3 Cfr. M. S. Giannini, Alcuni caratteri della giurisdizione di legittimità delle norme e V. Crisafulli, Questioni in tema

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Alcune note introduttive al convegno su La comunicazione giuridica... 8

della concreta questione da risolversi e senza alcun riferimento questa), la cui scrupolosa e letterale applicazione porti infallibilmente al raggiungimento del risultato corretto11.

All’intero d’un contesto così caratterizzato l’articolo contiene la soluzione del problema, nel duplice senso, per un verso, che l’appli-cazione della regola, dall’autorità prescritta, porta infallibilmente, senza alcuna mediazio-ne da parte del soggetto percipiente e senza il concorso della sua volontà, alla soluzione del-la questione, per altro, che il problema ritrova la propria soluzione prima ancora di sorgere concretamente perché, come è evidente, la so-luzione è pre-iscritta al problema stesso.

Se questa prospettiva appare ben consolida-ta e maggioritaria all’interno delle rappresen-tazioni dell’esperienza giuridica succedutesi nell’arco degli ultimi due secoli (ossia dal mo-mento in cui, era il 1804, il mondo del dritto possiede l’articolo da applicare), pur tuttavia può generare almeno due interrogativi, che spero possano essere di stimolo per il dibattito che seguirà.

Il primo inerisce alla questione della divisio-ne dei poteri; se una disposizione cosiddetta aperta, con molteplici significati e, addirittu-ra, con nessun significato compiuto, rappre-senta di fatto una delega di potere da parte del legislativo ad organi non chiamati istituzio-nalmente a compiti legislativi (da qui tutte le questioni derivanti dalla cosiddetta supplenza legislativa di fatto offerte ad organi che non possiedono per loro natura l’investitura popo-lare), come leggere sempre alla luce della divi-sione dei poteri (che implica in sé il bilancia-mento degli stessi) affermazioni del tipo : “per il giureconsulto, per l’avvocato, per il giurista, un solo diritto esiste, il diritto positivo […]. Lo si definisce: l’insieme della leggi che il legisla-tore ha promulgato per regolare i rapporti tra di loro […]. Dura lex sed lex: il buon magistrato umilia la propria ragione davanti a quella della legge: poiché egli è istituito per giudicare se-condo essa e non per giudicarla. Nulla è al di sopra della legge. L’eluderne le disposizioni

11 Esemplificativa di questa tendenza è la voce Infor-matica giuridica redatta nel 1997 da Renato Borruso per l’Enciclopedia del diritto.

non ambiguo, non vago, non incoerente, e pertanto chiaro, preciso, inequivocabile, non solo elimina quei fenomeni di perversione nell’ordinamento giuridico, di cui è testimo-ne la sin troppe volte richiamata sentenza n. 364 dell’1988 della Corte Costituzionale, ma argina, così come Beccaria e Filangeri avevano indicato in immortali pagine8, l’arbitrio del in-terprete, dell’autorità chiamata a dar vita alla disposizione posta legislatore.

La tecnica di redazione dei documenti giu-ridici e più specificatamente la tecnica legi-slativa, nel ridurre, sino quasi ad eliminare, il divario fra disposizione e norma afferma-no, rendendo effettivi, principi, la cui nega-zione sarebbe esiziale per la contemporanea compagine statuale: la divisione dei poteri, il principio di legalità, la prevedibilità delle conseguenze di una azione9. In definitiva, ciò che viene indicato con l’espressione certezza del diritto appare raggiungibile per mezzo di una interpretazione meccanica della legge10, la quale non può che esplicarsi a fronte di una regola precisa, inequivocabile, analitica, gene-rale ed astratta, formulata ex ante (prima cioè

8 Basti in proposito richiamare Dei delitti e delle pene apparso nel 1764 e, per ciò che concerne l’illuminista partenopeo, alla Scienza della legislazione la cui pubblica-zione copre il lustro dal 1780 al 1785.

9 Esemplificativa è in proposito la perorazione in-torno alla “fedeltà alla legge” effettuata da Uberto Scar-pelli, L’educazione del giurista, in “Rivista di diritto pro-cessuale”, XXIII (1968), n.1, ove possiamo leggere: “ nel momento dello studio e dell’applicazione del diritto stabilito il giurista deve essere fedele e leale verso il di-ritto stabilito, oppure la funzione razionalizzatrice del diritto di dissolve in una varietà di inclinazioni e valuta-zioni non correlate o, peggio, cede al condizionamento ideologico cui il giurista sia sottoposto”, p. 13. Sulla stes-sa falsariga cfr. il L. Ferrajoli, di Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari-Roma, 1990, ma non quello, ad esempio di Magistratura democratica e l’esercizio alterna-tivo della funzione giudiziaria, in P Barcellona (a cura di) L’uso alternativo del diritto. Scienza giuridica e analisi mar-xista, Bari-Roma, 1973. Parimenti critico nei confronti di ingerenze nel campo riservato al legislatore appare Riccardo Guastini nei suoi numerosi scritti in materia di legistica; cfr. Redazione ed interpretazione dei documenti normativi, in S. Bartole (a cura di), Lezioni di tecnica legi-slativa, Padova, 1988 e, più di recente, Il diritto come lin-guaggio, Torino, 2001.

10 L’espressione è utilizzata da Norberto Bobbio ne Il positivismo giuridico, Torino, 1961.

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Alcune note introduttive al convegno su La comunicazione giuridica... 9

guistiche prive di significato univoco16) ritro-vare posto i concetti giuridici indeterminati o clausole generali che dir si voglia (dal prover-biale richiamo al buon padre di famiglia, di cui all’art. 1176 del codice civile, all’idea di ordine pubblico, di cui all’art. 16 della legge n. 218 del 1995, agli interessi meritevoli di tutela richiama-ti dall’art. 1322 del codice civile, per tacer della buona fede che impregna la materia dei con-tratti o della nozione di buon costume che con-dizione l’esercitabilità dei diritti sanciti dagli articoli 19 e 21 del dettato costituzionale).

Le clausole generali, se osservate attraverso lo spettro del rigoroso analista del linguaggio appaiono quanto meno indeterminate, più propriamente vaghe, dato che gli ipotetici con-torni del significato espresso dal significante sono estremamente imprecisi e costantemen-te in evoluzione.

Ciò non di meno, come autorevole e varie-gata dottrina sottolinea17, proprio se raffron-tati con i luoghi comuni o éndoxa, i concetti giuridici indeterminati sono determinanti nel dispiegarsi dell’esperienza giuridica, perché permettono, per così dire, all’esperienza di ar-monizzarsi con il contesto sociale nel quale si colloca sì da evitare che la stessa, se imbrigliata lungo un asse di precostituita autoreferenza-lità, per un verso si anteponga e per l’altro si contrapponga, ovvero si manifesti estranea, alla legalità sociale, al sentimento comune. I concetti giuridici indeterminati rappresenta-no, quindi, degli elementi necessari al fine di poter determinare in un contesto sociale un intervento giuridico, sono proprio questi che permettono all’esperienza, intesa nel senso di ricerca, di dispiegarsi. In loro assenza l’espe-rienza giuridica si rappresenterebbe esclusiva-mente come valutazione formale di un concre-to accadimento secondo astratti criteri, ovvero

16 Su questo problema rimando a T. De Mauro, Prima lezione sul linguaggio, Roma-Bari, 2002.

17 Nell’impossibilità di dar conto del dibattito dottri-nale sviluppatosi intorno a questi temi, mi permetto soltanto di evocare soltanto alcuni nomi da Giuseppe Capograssi a Salvatore Satta e Tullio Ascarelli, ma in un certo qual modo anche i già richiamati di Esposito, Giannini e Crisafulli. In questo ambito si collocano an-che le prospettive di Dworkin e le evoluzione del neoco-stituzionalismo à la Alexy.

sotto il pretesto che l’equità naturale vi contra-sta non è altro che prevaricarle. In giurispru-denza non c’è, né vi può essere ragione più ragionevole, equità più equa, della ragione o dell’equità della legge”12?

Prospettiva, questa, quanto meno legola-trica che permette ad un attento osservatore della storia del diritto di constatare come “i giuristi […] sono convintamente orgogliosi di porsi come servi legum, dominati dalla ma-està indiscutibile di quel prodotto supremo del progresso umano che è il codice”13. In altra opera l’autore qui richiamato è più esplicito (e tagliente) nella sua critica: “temiamo […] una interpretazione come attività puramente logi-ca e [un] interprete come un automa senza vo-lontà e libertà proprie, che constatiamo ancora dominante presso tanti giuristi beatamente e beotamente paghi ancor oggi di riafferma-re entusiasti e inconsapevoli il principio di strettissima legalità e l’immagine dello iudex come servus legis, che la propaganda giuridi-ca borghese da due secoli ha loro istillato nel cervello”14.

La seconda questione è inerente al rapporto fra norma giuridica e valori sociali, in un con-testo in cui la norma non può differire dalla di-sposizione dalla quale è inferita15. Va da sé che all’interno di un processo di inferenza logica della norma dalla disposizione non possono costitutivamente (in quanto espressioni lin-

12 Così il P. Mourlon ripreso da J. Bonnecase, L’école de l’exégèse en droit civil, Paris, 1924.

13 P. Grossi, L’Europa del diritto, Bari-Roma, 2007, p. 154. Già G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Asso-lutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976, aveva evi-denziato il processo di deresponsabilizzazione in senso politico del ceto dei giuristi con l’avvento dell’era della codificazione.

14 P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Bari-Roma, 2006, p. 163.

15 Rimando sul problema dell’inferenza logica, fra i molti possibili, allo studio di L. Gianformaggio, Logi-ca e argomentazione nell’interpretazione giuridica: ovvero i giuristi interpreti presi sul serio, in F. Gentile (a cura di), Interpretazione e decisione. Diritto ed economia. Atti del XVI Congresso nazionale della Società italiana di filosofia giuridi-ca e politica, Milano, 1989. Più di recente è intervenuto in argomento P. Chiassoni, Tecnica dell’interpretazione giuri-dica, Bologna, 2007.

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Alcune note introduttive al convegno su La comunicazione giuridica... 10

produttivo del diritto, il quale invero, da que-sto punto di vista, potrebbe esser visto come un processo sempre più approssimato e deter-minato di traduzione dei giudizi di valore ope-ranti socialmente in giudizi di valore operanti giuridicamente”18.

Marco CossuttaProfessore associato di filosofia del diritto nell’Uni-versità degli Studi di Trieste, direttore del master in Analisi e Gestione della Comunicazione.

18 Così ne I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1954, p. 209 e segg.

secondo parametri impermeabili al concreto svolgersi ed evolversi della vita sociale. È nella ricerca inesauribile di una valutazione del fat-to concreto, che non sia avulsa dal sentimento sociale, ma non sia nemmeno da questo in-dirizzata ed inficiata, così da trasformarsi in pedissequa istituzionalizzazione giuridica del opinione del volgo (demagogia), che si sostan-zia e mai si esaurisce la ricerca della certezza del diritto, esperire che è reso possibile anche dalla apparente indeterminatezza di alcuni as-sunti all’interno delle regole sì da permettere il manifestarsi ed il valutarsi di una regolarità non formalisticamente intesa.

Non appare fuori luogo rammentare come, all’interno della prospettiva processuale del diritto ed in palese polemica con le istanze del positi-vismo logico, che allora andavano affermando-si nel mondo del diritto, nel 1954 Luigi Caiani riconosceva “che, dal punto di vista giuridi-co (come sotto molti aspetti anche da quello scientifico) il linguaggio è un fenomeno tipi-camente sociale, e quindi che l’uso da parte del legislatore di determinati significati linguisti-ci, che si riferiscano a cose, a concetti, a situa-zioni, a bisogni, a interessi o a comportamenti, dipende in ultima analisi dal valore sociale che essi vengono mano a mano assumendo. Valore che pertanto non è affatto così oggettivo e im-mutabile come potrebbe sembrare”. Questo, infatti, seguendo il pensiero del giurista pa-dovano, dipende da molteplici fattori “in cui concorrono vuoi la costitutiva storicità e dia-letticità delle istituzioni e dei rapporti umani, che pertanto si riflette sullo stesso significato dei termini che vi si riferiscono, vuoi, in par-ticolare, tutti quegli altri elementi di carattere sociale ed anche tecnico […] nella quale date parole vengono usate e introdotte”. Da qui de-riva “la modificazione del loro significato in ragione della evoluzione storica della realtà e dei rapporti sociali cui essi si riferiscono”. In questo modo, per l’autore, si coglie “il proces-so di traduzione e recezione delle valutazioni sociali metagiuridiche nell’ambito dell’ordina-mento positivo, cioè in forma giuridicamente valida […]. Vale a dire che è in questo compito fondamentale della giurisprudenza che si può cogliere, in un certo senso, lo stesso processo

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Il valore delle regole di tecnica legislativa nel discorso del legislatore*

Gemma Pastore

Sommario

0. Premessa 1.La tecnica legislativa - 2. Le diret-tive di tecnica legislativa - 3. I principi della progettazione legislativa - 4.Valore politico-istituzionale delle regole di tecnica legisla-tiva - 4.1 Clausola sospensiva e clausola di cedevolezza - 4.2 Principio di autonomia - 4.3 Termini non discriminatori e motivazione degli atti normativi - 5. Valore giuridico del-le regole di tecnica legislativa. Il drafting nella giurisprudenza 5.1 Nozione di articolo - 5.2 Reviviscenza e congiunzione “e” : a) Revivi-scenza b) Congiunzione “e” - 6. Valore comuni-cativo delle regole di tecnica legislativa.

Parole chiave:

Tecnica legislativaPrincipi di progettazione legislativaChiarezza e precisioneNovellazione Clausola sospensivaClausola di cedevolezzaTermini non discriminatoriMotivazione atti normativiDrafting nella giurisprudenzaNozione di articoloReviviscenzaValore comunicativo delle regole di tecnica legislativa

0. Premessa

Le regole di tecnica legislativa hanno valore politico-istituzionale e giuridico, in rela-

zione all’assetto dei poteri e ai principi costi-tuzionali e dell’ordinamento, e valore comu-nicativo, per quanto attiene alla trasparenza e conoscibilità delle decisioni legislative.

Riflettere sul valore delle regole di tecnica legislativa significa indagare le regole forma-li e sostanziali che presidiano la formulazio-ne degli atti normativi. I criteri alla luce dei quali ogni riflessione può essere compiuta sono in ultima analisi tutti legati ai livelli di trasparenza e democrazia realizzati concreta-mente, dal momento che lo stato della legge è inevitabilmente lo specchio dello stato del Paese che la pone.

Concorrono a formare l’oggetto di siffatte indagini, oltre che l’azione dello stesso legi-slatore, l’azione della giurisprudenza, della dottrina e della burocrazia, che fortemente condiziona la produzione normativa.

1. La tecnica legislativa

Le tecniche legislative sono un insieme di principi, metodi e puntuali prescrizioni per la formulazione formale e sostanziale degli atti normativi, la loro strutturazione interna e il loro inserimento nel quadro normativo generale di riferimento 1.

1 Secondo la definizione di G. Amato «La tecnica legi-slativa è l’insieme delle regole che servono a scrivere una legge chiara, semplice, capace di inserirsi nell’ordi-namento e di sfruttarne allo stesso tempo potenzialità e sinergie, applicabile infine in conformità agli scopi di chi l’ha voluta» (G. Amato, Principi di tecnica della Legisla-zione, in M. D’Antonio (a cura di) Corso di studi superiori legislativi, 1988-1989”, Padova, 1990, pp. 48). G.U. Rescigno descrive « Le tecniche legislative... hanno come oggetto e scopo la buona redazione del testo, la migliore possibile nelle condizioni date» (G.U. Rescigno, Tecnica legislativa in “Enc. Giur. Treccani”, 1993, vol. XXX, p. 1). Le due defi-nizioni descrivono diverse impostazioni. La prima defi-nizione considera la tecnica legislativa in senso ampio come scienza della progettazione legislativa, inclusiva sia degli aspetti formali che degli aspetti sostanziali della formulazione dell’atto normativo, mentre la seconda de-finizione focalizza l’attenzione sulla elaborazione e appli-cazione di regole di scrittura dei testi normativi.

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della disci plina legislativa di certe materie (cfr. artt. 70 – 82 Cost.).

Nel nostro ordinamento regole di tecnica le-gislativa sono presenti anche nell’ambito della legislazione ordinaria, quando siano collegate ad evidenti finalità della legge da persegui-re tramite la loro applicazione, come avviene nell’ambito della legge 212/2000, (recante lo Statuto del contribuente), ovvero siano indi-spensabili a determinare un legittimo rappor-to tra livelli istituzionali, come da esempio la legge 11/2005 (recante norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo norma-tivo dell’Unione Europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari).

In tutti gli ordinamenti sono poi emanate direttive di drafting legislativo, al fine di af-frontare e risolvere i difetti delle legislazioni moderne conclamati in termini di oscurità del singolo atto e del sistema legislativo comples-sivo.

Nel nostro ordinamento la sede propria nella quale le regole di drafting sono organicamen-te formulate è quella costituita da atti ammini-strativi generali (circolari, atti di direttiva e di indirizzo) emanati dallo Stato e dalle Regioni.

A partire dal 2008 le Regioni stanno proce-dendo all’adozione della terza edizione aggior-nata del 2007 del Manuale regionale di tecnica legislativa elaborato dall’Osservatorio legisla-tivo interregionale, recante “Regole e sugge-rimenti per la redazione dei testi normativi”, indispensabile strumento per la chiara e preci-sa strutturazione e formulazione dei testi nor-mativi regionali.

A livello statale sono applicate le “Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi”, adottate con tre identi-che circolari emanate contestualmente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dalle Presidenze delle due Camere e quindi frutto di un’intesa e collaborazione tra le istituzioni che esercitano il potere esecutivo e quelle che esercitano il potere legislativo.

La rilevanza delle regole di tecnica statali e re-gionali è rappresentata anche nell’ambito dell’ “Accordo tra Governo, Regioni e Autonomie locali in materia di semplificazione e miglio-ramento della qualità della regolamentazio-

Il loro fine è quello della migliore redazione delle norme sotto il profilo della chiarezza e precisione, della sinteticità, non contraddit-torietà, applicabilità, verificabilità. Il prodotto del loro corretto utilizzo dovrebbe essere un insieme sistematico di norme razionalmente funzionali agli obiettivi generali dell’ordina-mento e agli obiettivi particolari del singolo provvedimento normativo 2.

In tutti gli Stati contemporanei esistono re-gole relative alla formazione delle leggi. Tale regolamentazione è generalmente stabilita, nei suoi tratti fondamentali, con norme costi-tuzionali vin colanti lo stesso legislatore ordi-nario e riguarda essenzialmente l’attribuzione della competenza legislativa e relativi limiti, il procedimento di esame ed approvazione delle leggi, la fissazione di principi o linee direttive

2 Le tecniche legislative comprendono complessiva-mente: le regole di redazione e scrittura dei testi normativi, relative al linguaggio normativo, alle modalità di scrittu-ra, alla struttura dell’atto normativo, alla dinamica nor-mativa (termine comprendente abrogazioni, modifiche, rinvii, deroghe, sospensioni, proroghe); la valutazione ex ante degli effetti di una normativa attraverso l’analisi tecnico-normativa, che valuta l’incidenza dell’atto nor-mativo sull’assetto giuridico della regolamentazione di un determinato settore, l’analisi di impatto della regola-mentazione, che pone a raffronto diverse opzioni rego-lativa attraverso l’analisi costi-benefici, e l’analisi di fat-tibilità che indaga l’impatto amministrativo della futura regolazione; la valutazione ex post degli effetti prodotti dalla regolamentazione. In questa sede ci dedichiamo all’indagine del valore nel discorso del legislatore delle regole di redazione e scrittura degli atti normativi, le quali prendono convenzionalmente il nome di tecnica legislativa, al singolare, spesso sostituito dal termine le-gistica (G.U. Rescigno, ibidem, p. 1 ss).Altra accezione del termine legistica ha un significato più ampio (comprensivo sostanzialmente delle regole di redazione e scrittura) come disciplina che studia l’at-tività di produzione normativa al fine di migliorarne i metodi di elaborazione, di redazione, di approvazione e di applicazione. Secondo la dottrina che la propone la legistica è distinta in due settori: la legistica formale o co-municazionale, che si occupa della trasmissione dei mes-saggi linguistici, e la legistica sostanziale, che si interessa della genesi e dell’impatto delle leggi e che costituisce l’oggetto proprio della valutazione legislativa. Ogni di-stinzione tuttavia è puramente classificatoria, poiché nella realtà forma e sostanza non sono scindibili e ope-razione sul testo linguistico incide in qualche misura sulla sostanza normativa (Ch. A. Morand, L’évaluation législative ou l’irrésistible ascension d’un quatrième pouvoir, in “Contrôle parlementaire et évaluation”, Paris, 1995).

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Allora se l’attuazione della volontà del legi-slatore dipende dall’interpretazione che gli or-gani dell’applicazione danno alle disposizioni ricevute, è evidente che essa dipende priorita-riamente dalla qualità della tecnica legislativa utilizzata.

Risulta evidente la connessione tra la tecni-ca di scrittura degli atti e l’interpretazione che essi ricevono. Nel momento in cui ci si accinge all’utilizzo della lingua per la formulazione di disposizioni normative, è necessario calcolare con ragionevole approssimazione le conse-guenze probabili delle parole e della sintassi utilizzate, alla luce dei metodi comunemente usati per interpretare, integrare, correggere ed eventualmente anche eludere il diritto.

Si può allora conclusivamente affermare che la finalità centrale dell’applicazione delle re-gole di tecnica legislativa è quella di limitare quanto più possibile risultati interpretativi di-versi da quelli voluti dal legislatore, riducendo il divario naturale esistente tra enunciato lin-guistico e significato ad esso attribuito.

2. Le direttive di tecnica legislativa

L’emanazione di direttive di tecnica legisla-tiva è possibile in quanto sui prodotti collet-tivi, quali le leggi, si può intervenire autorita-riamente, azione invece preclusa sui prodotti individuali, caratterizzati dallo stile personale del loro autore.

Tali direttive sono qualificabili come atti di pianificazione linguistica, al pari delle diretti-ve sulla semplificazione del linguaggio ammi-nistrativo emanate dal Ministro della funzione pubblica nel 2002 e nel 2005, le quali perseguo-no l’obiettivo della maggiore comprensibilità del linguaggio con cui le pubbliche ammini-strazioni comunicano con i cittadini.

Si ha pianificazione linguistica qualora un soggetto, legittimato a tale attività in virtù del proprio ruolo istituzionale, adotta degli inter-venti miranti a orientare un comportamento linguistico e comunicativo di determinati at-tori per renderlo conforme a obiettivi ritenuti socialmente e politicamente desiderabili.

Nel caso delle direttive sulla semplificazio-

ne”, previsto dall’ articolo 20 ter della legge 59/1997 e siglato il 29 marzo 2007, in sede di Conferenza unificata.

L’articolo 14 dell’Accordo sancisce l’impegno dello Stato, delle Regioni e delle Province auto-nome “ad unificare i manuali statali e regionali in materia di drafting di testi normativi, preve-dendo, altresì, idonei sistemi di monitoraggio degli stessi mediante la creazione di un indice di qualità, nonché l’utilizzo di formule standard riferite a fattispecie normative tipiche”.

Vengono così ribaditi impegni già assun-ti in precedenza a livello interistituzionale, nella consapevolezza che la composizione del quadro legislativo generale dell’ordinamento italiano, composto da leggi statali e regionali, mediante l’applicazione di regole omogenee di redazione e scrittura degli atti conduce ad un aumento del valore comunicativo dell’operato dei legislatori a tutto vantaggio della compren-sibilità delle leggi.

L’importanza delle regole di scrittura degli atti normativi risiede nell’essere la legislazione un fenomeno linguistico e nel fatto conseguen-te che gli atti normativi siano atti linguistici.

La legge è un discorso, è il discorso del le-gislatore, composto da una serie infinita di enunciati. Tuttavia l’insieme degli enunciati linguistici non corrisponde all’insieme delle norme che su di essi si fondano. Gli enunciati contenuti in una fonte di diritto costituiscono le disposizioni che compongono l’atto norma-tivo, le norme sono invece i significati ad essi attribuiti mediante interpretazione. Per tale motivo si afferma che il diritto oggettivo non è costituito dall’insieme delle disposizioni ema-nate, bensì dall’insieme dei significati ad esse attribuiti 3.

Allora emerge in tutta la sua evidenza l’impor-tanza della migliore formulazione linguistica della legge, la quale è costantemente soggetta a interpretazione in sede di applicazione e quin-di pone l’insopprimibile problema della corri-spondenza del significato attribuito alle dispo-sizioni dal legislatore, con il significato ad esse attribuito dagli organi dell’applicazione.

3 R. Guastini, Il diritto come linguaggio. Lezioni, Torino 2001, p. 7 e 27 e ss.

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ca della loro formulazione tecnica; la cronica inadeguatezza di personale di cui soffrono gli uffici legislativi; l’irrigidimento del testo con il progredire dell’iter di approvazione; fatti o de cisioni politiche contingenti; la decisione legislativa non di rado frutto di compromessi, per cui ad esempio l’ambiguità del testo può ri-sultare determinante per l’approvazione della legge, potendo ogni parte politica riconoscersi in un testo in più sensi interpretabile, appun-to perché ambiguo 5.

Il piano teorico prospetta quindi una relazio-ne tra soggetto istituzionale e destinatari del-la direttiva che nella pratica non si rinviene. Basti pensare che mentre sul piano teorico la violazione di una direttiva, ove ingiustificata, inficia l’atto adottato di eccesso di potere, nel caso di violazione delle direttive sul linguag-gio amministrativo non si configura affatto l’ipotesi di un atto viziato da eccesso di potere in quanto oscuro. Parimenti la violazione delle direttive di tecnica legislativa non costituisce diretto parametro di valutazione della legitti-mità di una legge. Il valore di queste direttive è quindi più politico che giuridico.

Per quanto attiene alla legge appare quindi necessario appellarsi all’autoeducazione del le-gislatore e alle procedure di approvazione de-gli atti normativi poste a presidio della qualità della legislazione.

In ogni caso l’inosservanza di buone regole di tecnica legislativa è insufficiente spiegare la cattiva qualità della produzione nor mativa. Oc corre risalire a cause più profonde che con-dizionano l’applicazione delle regole stesse, in quanto l’uso delle tecniche legislative è condizionato da elementi strutturali del si-stema politico-costituzionale e da specifi che scelte politiche.

3. I principi della progettazione legislativa

La nuova edizione del Manuale interre-gionale contiene un’importante novità: l’enunciazione dei principi che sottendono la redazione dei testi normativi.

Sono i principi di chiarezza, precisione, uni-

5 R. Pagano, Introduzione alla legistica. L’arte di preparare le leggi, Milano, 2004, p. 69 - 70.

ne del linguaggio amministrativo i destina-tari sono un gruppo sociale specifico, quale è quello dei dipendenti pubblici. Un soggetto istituzionale, quale il Ministro della funzione pubblica, competente ad esercitare il relativo potere, ha assunto la decisione politica di con-dizionare il comportamento linguistico della pubblica amministrazione al fine di favorire la partecipazione attiva e consapevole dei cit-tadini alla vita civile, di attuare il principio di uguaglianza, facendo si che persone dotate di diversi gradi di competenza linguistica abbia-no uguali possibilità di accedere al significato degli atti dei pubblici poteri.

Nel caso delle direttive di drafting il riferi-mento è immediato alle strutture che coadiu-vano l’azione del legislatore, e sicuramente esse si rivolgono al legislatore stesso, ma va considerato anche il riferimento diretto alle burocrazie, dal momento che esse sono, in tut-ti i Paesi, il maggiore produttore di norme 4.

L’obiettivo della maggiore comprensibili-tà del linguaggio con cui i pubblici poteri co-municano coi cittadini è socialmente e poli-ticamente desiderabile ai fini della riduzione della distanza tra cittadini e istituzioni, del miglioramento dell’efficienza amministrativa e della democraticità delle azioni pubbliche, in ossequio ai principi costituzionali di buon an-damento e imparzialità dell’amministrazione. Tutto questo vale in modo particolare anche per il legislatore, il quale parla attraverso i pro-pri atti normativi.

La costruzione di regole scritte di drafting le-gislativo difficile e complessa, sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista della nego-ziazione che esse inevitabilmente presuppon-gono, ma il problema più profondo è quello della loro concreta applicazione. Nonostante il valore precettivo che le direttive sicuramente hanno sul piano giuridico generale, la reale co-genza di questo tipo di direttive appare debole.

Sulla efficacia delle direttive di drafting in-fluiscono vari fattori: esse non sono poste ge-neralmente da una fonte cogente; le situazioni di urgenza nelle quali spesso vengono formu-late le disposizioni non permettono la verifi-

4 S. Cassese, Introduzione allo studio della normazione, in “Riv. Trim. Dir. Pubbl.”, 1992, p. 311.

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manda di usare negli atti normativi l’indicati-vo presente, il quale nel linguaggio normativo assume valore imperativo e di usare altri modi o tempi solo nei contesti in cui è grammatical-mente impossibile usare l’indicativo presente.

La chiarezza sostanziale è stata invece bene definita quale “chiarezza di parole conseguen-te a chiarezza di idee” 7.

Il principio di chiarezza non trova infatti attuazione soltanto nell’uso appropriato dei termini linguistici. Esso nella sua portata so-stanziale richiede linearità di ragionamento e si collega all’esigenza di semplicità della leg-ge. Una norma è chiara quando, ad esempio, enuncia con poche e semplici parole un con-cetto generale, indica senza incertezza i desti-natari della norma stessa o gli organi preposti all’attuazione e le relative competenze, le con-seguenze in caso di inosservanza di un ordine o un divieto, se un elenco di condizioni o di fattispecie è tassativo o esemplificativo, se le condizioni debbano essere intese in senso cu-mulativo od alternativo 8.

La dottrina evidenzia come la chiarezza del testo si confronti in modo recessivo con la sua precisione. Questo avviene in quanto i testi normativi appartengono alla categoria dei te-sti fortemente vincolanti per i loro destinatari, al pari dei testi tecnici e scientifici, e a differen-za per esempio di quelli letterari. Tale funzio-ne condiziona le modalità di scrittura del testo, che deve essere preciso, ed è questo il motivo per il quale in una legge non si trovano mai metafore, esemplificazioni, frasi interrogative o esclamative, e tutti gli artifici del linguaggio che servono a rafforzarne l’efficacia, rendendo-lo al contempo meglio comprensibile 9.

D’altra parte, ove fosse del tutto incerto il comportamento prescritto dalla legge, essa tradirebbe la sua funzione peculiare, che è quella di orientare le azioni umane

7 G. Amato, ibidem, p. pp. 48 – 53.

8 R. Pagano, ibidem, p. 34 e ss..

9 F. Sabatini F., Analisi del linguaggio giuridico. Il testo nor-mativo in una tipologia generale dei testi”, in M. D’Antonio (a cura di) Corso di studi superiori legislativi. 1988-1989, Pa-dova, 1990, p. 694-696; M. Ainis, Linguisti e giuristi per il miglioramento del linguaggio normativo, in “Parlamenti regionali”, 12/2005, pp. 68 – 74.

formità, semplicità, economia. Tali principi, si afferma nel preambolo, “non sono espressione di ideali estetici o di modelli formali, ma sono strumenti per garantire la qualità della legisla-zione e con essa il fondamentale principio del-la certezza del diritto”.

Particolarmente pregnanti sono il principio di chiarezza e il principio di precisione 6.

La chiarezza ha un aspetto formale e uno so-stanziale.

La chiarezza formale riguarda le modalità di formulazione degli enunciati e di strutturazio-ne generale del testo (articolazione dei commi, rinvii, partizioni) ed implica il rispetto delle regole di drafting.

Un preciso riferimento alla chiarezza forma-le della legge si ritrova nella sentenza 95/2007 della Corte Costituzionale, con la quale è stata dichiarata legittima la norma della legge fi-nanziaria 2006, che ha imposto alle pubbliche amministrazioni, anche regionali, la soppres-sione dell’indennità di trasferta. In particolare, alla luce di interpretazione letterale, teleolo-gica e sistematica, la Corte ha rigettato la tesi delle Regioni ricorrenti che sostenevano che la disposizione impugnata, lungi dall’imporre uno specifico obbligo, sarebbe stata indicativa di una facoltà.

La Corte in particolare, sul piano letterale, sottolineava che il precetto contenuto nella di-sposizione era formulato all’indicativo presen-te, cioè nel modo e nel tempo verbale idonei ad esprimere il comando secondo il consueto uso linguistico del legislatore. Il presente in-dicativo (“adottano”) è, dunque, sicuro indice della prescrizione di un obbligo (“devono adot-tare”), piuttosto che dell’attribuzione di una fa-coltà (“possono adottare”).

Ha avuto quindi riconoscimento dalla giuri-sprudenza costituzionale la regola che racco-

6 Le direttive di drafting interregionali dedicano al principio di chiarezza tutta la prima parte di regole rela-tive al linguaggio normativo riguardanti: la brevità del periodo, lo stile, gli avverbi di negazione, l’omogeneità terminologica, i neologismi, la ripetizione di termini, i tempi e modi dei verbi, i verbi servili, la forma passiva dei verbi. Sono invece dedicate alla precisione le regole relative alla scelta e uso dei termini, ai termini giuridici o tecnici, ai termini con significato diverso nel linguag-gio giuridico e in quello corrente.

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ra), anche quando si tratta di modificare una sin-gola parola o un insieme di parole.” (Par. 72). In sostanza, si tratta del suggerimento di sostituire in ogni caso l’intera partizione normativa, anche se la modifica riguarda solo alcune parole, allo scopo di rendere meglio comprensibile il conte-nuto complessivo della disposizione risultante dalla modifica.

In questo caso si pone continuamente un pro-blema di scelta tra la riscrittura e conseguente so-stituzione dell’intera partizione, o la sua modifi-ca a frammenti. L’opportunità della novellazione non va data per scontata, poiché la sostituzione integrale della disposizione modificata diminui-sce la trasparenza della legge, in quanto non per-mette di cogliere in cosa consista l’innovazione, e sottopone anche le parti normative non modi-ficate a nuova votazione, rimettendo in termini su di esse le decisioni politiche dell’assemblea, il conseguente controllo governativo e l’eventuale controllo di costituzionalità in via principale.

La considerazione di tali aspetti deve bilanciare l’esigenza di chiarezza sulla nuova versione della disposizione modificata, anche considerando che le leggi, sia statali che regionali, sono pubbli-cate con le note illustrative nelle quali è riportato il testo delle disposizioni risultante dalle modifi-che apportate.

In ogni caso il rispetto della tecnica della no-vellazione è oggetto anche della direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 settembre 2008 relativa ai “Tempi e modalità di effettuazione dell’analisi tecnico normativa (ATN)”, ove essa nella griglia metodologica per la stesura della relazione prescrive che sia illustrato il ricorso alla tecnica della novella legislativa per introdurre modificazioni ed integrazioni a di-sposizioni vigenti.

In relazione alle modifiche della legge tale di-rettiva opera in sostanza una scelta a favore della chiarezza rispetto l’antitetico principio della pre-cisione.

4. Valore politico-istituzionale delle re-gole di tecnica legislativa

La legge è oggetto di diverse operazioni qua-li: progettazione, valutazione, approvazione ed emanazione, comunicazione, interpretazione,

in base a valori generalmente condivisi.Da qui l’istanza verso la precisione che riduce

gli spazi dell’interpretazione e da sempre condi-ziona la produzione delle leggi, imponendo tut-tavia l’uso di un lessico giuridico o tecnico talvol-ta incomprensibile ai non addetti ai lavori.

L’ideale di rendere ogni enunciato normati-vo comprensibile a chiunque è di fatto irrea-lizzabile, dal momento che è la precisione, più della chiarezza, che deve connotare la legge. Basti pensare alla precisione della legge ri-chiesta dal principio di tassatività del diritto penale, la quale in ragione dei valori in gioco risponde a un’esigenza di certezza avvertita in modo molto più energico che in altri settori dell’esperienza normativa.

Tuttavia è chiaro che il diritto dei destinatari della legge alla fruibilità della stessa non può es-sere in alcun modo compresso e va comunque raggiunto l’obiettivo di rendere a tutti perfetta-mente comprensibili i contenuti della decisione legislativa. Deve allora concludersi che se la pre-cisione diminuisce la chiarezza della norma, essa conseguentemente impone particolari doveri di traduzione/comunicazione del dettato normati-vo sul piano della comunicazione legislativa.

L’enunciazione dei principi generali per la redazione dei tesi normativi è un elemento di qualità del Manuale interregionale poiché esso contiene regole, che dovrebbero essere cogenti, e suggerimenti, che invece richiedono valutazio-ne e adattamento al caso concreto.

Tutta l’attività tecnica di formulazione della legge è in realtà altamente discrezionale nella scelta delle soluzioni tecniche nei casi concreti e per questo motivo è bene che essa sia orientata da chiari principi. Del resto i Manuali di tecnica legislativa non vanno meccanicamente applica-ti, bensì utilizzati con intelligenza, al fine di fare nel caso concreto scelte tecniche coerenti con gli obiettivi che l’atto persegue e i fini generali della legislazione.

La tecnica della novellazione offre un chiaro esempio delle scelte discrezionali che in concre-to spesso si impongono.

Il Manuale interregionale raccomanda che “L’unità minima del testo da sostituire è preferi-bilmente il comma (o una lettera di un comma, o un numero di un elenco contenuto in una lette-

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con univocità, sicuramente sul piano istituzio-nale il compito più arduo che esse hanno oggi è l’interazione tra i diversi livelli normativi.

Il legislatore ormai è molto lontano dal mon-do caratterizzato da poche regole semplici, chiare e stabili, poste in genere dal medesimo soggetto e con lo stesso ambito di vigenza, in genere coincidente con i confini dello Stato-Nazione.

Questa realtà oggi non esiste più, ci trovia-mo di fronte ad un mondo fortemente inter-connesso, in cui i legislatori sono tanti, sono tutti in movimento e agiscono contemporane-amente, con ambiti territoriali di riferimento anche sovrapposti.

E tutti i soggetti dotati di poteri normativi sono pesantemente condizionati dall’azione degli altri, oltre che da scelte di tipo tecnico-scientifico, compiute cioè da soggetti diversi da quelli politicamente responsabili.

Il legislatore oggi non parla da solo. E’ del tutto in crisi la statualità del diritto e l’identificazione del diritto nella legge dello Stato sovrano. Ogni centro di produzione normativa partecipa a un discorso corale, che compone la complessità di un mondo tecnologico e globalizzato.

Oggi i sistemi normativi sono caratterizzati fortemente dal fenomeno imponente della “le-gislazione complessa” 11.

Si parla propriamente di “leggi complesse”, per indicare quelle leggi che sono finalizzate a organizzare e programmare interventi di-versi, unificati da grandi finalità, e che non hanno tanto contenuto normativo sostan-ziale, quanto presentano definizione di fini, indirizzi, metodi e procedure capaci di uni-ficare politiche generali. Esse sono frutto di un procedimento che prende atto della com-plessità della realtà, sulla quale è possibile intervenire solo considerando e mettendo in relazione i rapporti tra i diversi livelli isti-tuzionali del Paese, i quali si estrinsecano a loro volta inevitabilmente in una pluralità di livelli di fonti di normazione. Casi di legisla-zione complessa sono le leggi finanziarie, i “collegati”, le leggi di semplificazione, le leg-

11 A. Palanza, Un caso di legislazione complessa tra Stato e Regioni; la legge n. 59 del 1997 (Bassanini 1), in Iter Legis 1999, p. 41 e ss.

applicazione. Il rapporto tra queste operazioni non è di natura tecnica. Esse infatti si fonda-no sui rapporti sostanziali sottostanti, i quali sono, per quanto attiene ai rapporti tra pubbli-ci poteri, di natura politica e istituzionale. Gli atti amministrativi illegittimi per violazione di legge, i regolamenti illegittimi in quanto violativi della legge che lo prevede, la violazio-ne da parte di una legge di disposizioni e prin-cipi costituzionali, rappresentano l’invasione dei poteri illegittimamente esercitati nell’area di decisione e regolazione attribuita a organi diversi, concretizzano uno spostamento di po-tere non autorizzato dalle regole del sistema giuridico-istituzionale, regole che in ultima analisi, nel momento in cui regolano e distin-guono l’azione dei soggetti istituzionali, fon-dano il tipo di democrazia adottata.

E’ stato da tempo autorevolmente sottolinea-to come la tecnica di redazione delle leggi inci-de sulla distribuzione del potere tra legislatore e organi dell’applicazione, nel senso che una legge redatta « male », oltre a non garantire uniformità di applica zione (che è condizione necessaria di certezza del diritto), conferisce poteri normativi agli organi dell’applicazione e agli interpreti. Si afferma che le leggi equi-voche sono attentati al vigente sistema delle fonti del diritto e perciò al principio di legalità nella giurisdizione e nell’ammini strazione 10.

La tecnica di redazione delle leggi è di grande rilievo per la distribuzione del potere tra legi-slatore e organi dell’applicazione, nel senso che i difetti redazionali della legge, nel momento in cui obbligano all’intervento dell’interprete per la ricostruzione della norma, costituisco-no una delega di potere normativo agli organi chiamati ad applicare la legge e l’interprete as-sume la veste di legislatore di seconda istanza.

Scrivere bene una legge tuttavia oggi è diffi-cile sotto ogni aspetto.

Se è vero che le tecniche legislative sono fina-lizzate, in sostanza, a rendere la legge applicabile

10 L’affermazione è di R. Guastini, Redazione e interpreta-zione dei documenti normativi, in S. Bartole (a cura di) Le-zioni di tecnica legislativa, Padova, 1988, p. 39. Tale pensie-ro è ripreso da M. Ainis, La legge oscura. Come e perché non funziona, Bari, 1997, ove appare di particolare interesse la sintesi dell’evoluzione storica del rapporto tra i poteri di fronte all’interpretazione della legge .

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gi di conferimento di funzioni ad ulteriori livelli istituzionali, le leggi finanziarie.

La progettazione e la tecnica legislativa allora non possono essere riferite ad un singolo atto, in quanto ad essa partecipano spesso una plu-ralità di soggetti istituzionali e non, i quali con-corrono alla composizione generale del quadro normativo. Nelle leggi complesse si riduce la rilevanza della singola norma o del singolo atto normativo; le tecniche legislative, orientate di solito a lavorare su singoli testi normativi, de-vono invece essere proiezione della comples-sità istituzionale; la semplificazione normati-va deve tenere conto di un sistema costituito da catene di atti normativi e non normativi in continua trasformazione, in relazione ai qua-li acquista assoluta importanza la conoscenza globale dei processi. Le catene normative infatti possono partire dal livello comunitario e lega-re in un’azione normativa condivisa legislatore statale e regionale, attività normativa di autori-tà indipendenti, di enti locali.

In questo contesto, il legislatore deve costan-temente rispettare una serie di regole sul ri-parto della competenza legislativa, molte delle quali aventi rango costituzionale, pena il falli-mento dello scopo che si prefigge e il rischio che la legge approvata venga dichiarata costituzio-nalmente illegittima o venga disapplicata.

In sostanza, il legislatore non è un soggetto libero, ma incontra vincoli di livello costitu-zionale, comunitario e internazionale .

In particolare i rapporti tra diritto comuni-tario, legge statale e legge regionale offrono spunti di riflessione, in quanto l’assetto dei rapporti tra i diversi livelli normativi viene tradotto dal punto di vista tecnico in precisi schemi e standard normativi 12.

12 Per quanto riguarda il rapporto tra legge regionale e diritto comunitario, non può dimenticarsi che con la sentenza n. 384/1994, la Corte costituzionale ha per la prima volta affermato che l’esigenza di depurare l’ordi-namento nazionale da norme incompatibili con quelle comunitarie è ancorata ai principi di chiarezza norma-tiva e certezza del diritto e può essere soddisfatto anche con una dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nei giudizi di legittimità in via principale sarebbe con-trario agli obblighi comunitari, nonché alla certezza del diritto, consentire che siano immesse nell’ordinamento norme contrarie al diritto comunitario, le quali dovreb-bero comunque essere disapplicate dai giudici e dalla

4.1 Clausola sospensiva e clausola di ce-devolezza

Il rispetto dei principi posti dall’articolo 88 del Trattato CE in materia di aiuti di Stato, nell’ambito di leggi regionali che prevedono aiuti di Stato non notificati o in pendenza di esame prima della conclusione dell’iter le-gislativo, è spesso sancito con l’inserimento della clausola sospensiva degli effetti delle di-sposizioni ad essi relative sino all’esito positi-vo del controllo della Commissione europea. Tale clausola rappresenta una tecnica legisla-tiva che difende la legge regionale da censure di violazione del diritto comunitario e conse-guentemente anche di limiti costituzionali.

I rapporti con l’Unione europea condiziona-no anche il rapporto tra legislazione statale e regionale dal punto di vista sostanziale e for-male, dal momento che il riconoscimento del-la competenza delle Regioni all’attuazione del diritto comunitario è bilanciato da disposizio-ni strumentali alla tutela della responsabilità unicamente dello Stato in ordine all’adempi-mento degli obblighi comunitari.

Il riferimento è alle disposizioni della legge 11/2005 che, in attuazione dell’art. 117, quinto comma, disciplinano l’intervento sostitutivo statale in caso di inadempienza regionale.

E’ stabilito che lo Stato possa adottare atti so-stitutivi nelle materie di competenza legislati-va delle Regioni e delle Province autonome al fine di porre rimedio alla loro eventuale inerzia a fronte di norme comunitarie da attuare. Gli atti sostitutivi statali sono di immediata appli-cazione, ma hanno natura cedevole a fronte del successivo intervento regionale. Infatti essi: a) si applicano per le Regioni e le Province autono-me nelle quali non sia ancora in vigore la pro-pria normativa di attuazione, a decorrere dalla scadenza del termine stabilito per l’attuazione della rispettiva normativa comunitaria, b) per-dono comunque efficacia dalla data di entrata in vigore della normativa regionale o provincia-

pubblica amministrazione. Cfr A. Celotto, Dalla «non applicazione» alla «disapplicazione» del diritto interno in-compatibile con il diritto comunitario, nota alla sentenza della Corte costituzionale 10 novembre 1994, n. 384, in Giu-risprudenza Italiana, 1995, I, p. 341 ss.

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le di attuazione, c) recano l’esplicita indicazione della natura sostitutiva del potere esercitato e del carattere cedevole delle disposizioni in essi contenute. E’ questa la specifica formula della “clausola di cedevolezza”, prevista dall’articolo 11, comma 8, della legge 11/2005.

La clausola di cedevolezza attesta quindi la necessità per lo Stato di adempiere in via so-stitutiva ad obblighi regionali di attuazione comunitaria, a fronte dell’inerzia regionale, regola il rapporto e la successione tra la fonte statale e le fonti regionali ricollegandola agli esiti della procedura di esame degli atti previ-sta in sede di Conferenza Stato Regioni.

La soluzione è del tutto rispettosa dal punto di vista sostanziale delle ripartizioni di com-petenze legislative tra Stato e Regioni, tutta-via la tecnica adottata a tale fine non appare di fatto rispettosa del principio di precisione e chiarezza delle norme.

La formula standard con la quale lo Stato in-serisce le clausole di cedevolezza di solito fa generico riferimento alle “disposizioni dell’at-to sostitutivo riguardanti ambiti di competen-za legislativa delle regioni e delle province au-tonome”. Si tratta di una dizione non precisa, in quanto non indica quali siano tali disposi-zioni. Spesso poi l’articolo relativo non è nep-pure rubricato quale clausola di cedevolezza, rendendo gli interventi sostitutivi dello Stato irreperibili nelle banche dati. Sono state anche emanate clausole di cedevolezza inserite in norme transitorie e quindi introvabili.

Del resto la legge 11/2005 disciplina la ma-teria solo dal punto di vista sostanziale, men-tre la formulazione tecnica della clausola di cedevolezza dovrebbe essere propriamente oggetto delle regole di tecnica legislativa, le quali in questo caso sarebbero importantis-sime, dal momento che la clausola è un ele-mento sintomatico di competenze regionali e quindi dovrebbe essere stabilito che essa sia contestuale, espressa, precisa e omogenea nel testo e nella rubrica.

4.2 Principio di autonomia

In riferimento al rapporto tra livelli territo-riali, e in particolare tra livello statale, livello

regionale e livello comunale emerge come le tecniche della legislazione siano in real-tà una delle forme attraverso cui dare attua-zione ad uno dei principi fondamentali della Costituzione: il riferimento è all’articolo 5 del-la Costituzione, allorquando richiede l’adozio-ne, in tutta la Repubblica, di principi e di “me-todi” della legislazione adeguati “alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

I manuali di tecnica legislativa stabilisco-no regole dirette ad assicurare il rispetto del principio di autonomia, ora ribadito e preci-sato all’interno del nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione. In particolare il sesto comma del nuovo articolo 117 della Costituzione riserva alla potestà regolamenta-re degli enti locali la disciplina dell’organizza-zione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Il rispetto di tale principio condiziona la pro-gettazione legislativa regionale e dà ragione della regola inserita nel Manuale interregiona-le (par. 34), secondo la quale le disposizioni che prevedono adempimenti a carico di enti locali e quelle che trasferiscono o conferiscono compi-ti ad essi non individuano l’organo competen-te ad adempiere, né il tipo di atto da emanare. Parimenti quando si fa riferimento a organi oppure a strutture regolate da una fonte di un altro ordinamento o di grado diverso, è stabi-lito che sia preferibile indicarli genericamente come organi competenti nella materia. Analoga prescrizione è contenuta nelle circolari statali sulla formulazione tecnica dei testi legislativi.

Appartiene peraltro alla stessa giurispru-denza costituzionale l’affermazione pacifica che lo Stato non possa individuare esso stesso nei propri atti legislativi gli organi o gli uffici regionali competenti o destinatari di adempi-menti, essendo tale individuazione riservata alle regioni nell’esercizio della loro potestà in tema di organizzazione interna (es. sent. n. 355/1992 e n. 74/2001).

4.3 Termini non discriminatori e motiva-zione degli atti normativi

Hanno sicuramente significato politico le regole che riguardano i termini non discrimi-

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natori e la motivazione degli atti normativi.Per quanto riguarda i primi il Manuale in-

terregionale stabilisce che vanno evitate le formulazioni discriminatorie e stabilisce la preferenza per le “espressioni che consentano di evitare l’uso del maschile come neutro uni-versale” (Par. 14).

La tematica del linguaggio sessistico della legge è sempre più presente tra gli obiettivi del legislatore, anche regionale, ma le tecniche le-gislative non sono ancora padrone della tema-tica e sussistono diverse soluzioni adottate.

L’articolo 79 della legge 18/2005 della Regione Friuli Venezia Giulia (Norme regionali per l’occupazione, la tutela e la qualità del lavoro) stabilisce che “L’uso, nella presente legge, del genere maschile per indicare i soggetti titolari di diritti e di incarichi pubblici è da intendersi riferito ad entrambi i generi e risponde solo ad esigenze di semplicità del testo”. La stessa nor-ma si ritrova all’articolo 82 dello Statuto della Regione Toscana.

La legge della Provincia autonoma di Bolzano 4/2003 (Disposizioni sull’elezione del Consiglio della Provincia Autonoma di Bolzano per l’anno 2003) fornisce un diverso esempio di tecnica di redazione, poiché in essa ogni sostantivo, aggettivo, articolo o pronome è stato riportato sia al maschile che al femminile, con innegabili problemi di leggibilità del testo.

Per quanto riguarda la motivazione delle leg-gi, superate autorevoli posizioni in origine del tutto contrarie a tale eventualità, oggi viene sempre più auspicata tale soluzione positiva alla richiesta di chiarezza in merito alle ragio-ni degli interventi del legislatore 13.

Lo statuto della Regione Toscana all’articolo 39 ha previsto che “Le leggi e i regolamenti

13 La Corte Costituzionale con la sentenza 14/1964 af-fermava che di norma, non è necessario che l’atto legi-slativo sia motivato, recando la legge in sè, nel sistema che costituisce, nel contenuto e nel carattere dei suoi co-mandi, la giustificazione e le ragioni della propria appa-rizione nel mondo del diritto. (Nella specie, l’art. 1 della legge 6 dicembre 1962, n. 1643, mostrava chiaramente gli intendimenti e gli scopi, ai quali essa vuole rispon-dere, e i mezzi che vuole adoperare per soddisfare le esi-genze di sviluppo, di coordinamento e di equilibrio del settore elettrico). Vedi anche M. Rosini, Considerazioni in tema di motivazione degli atti legislativi, in M. Carli (a cura di) Materiali sulla qualità della normazione, Firenze, 2007.

sono motivati, nei modi previsti dalla legge”. In sua applicazione è stata approvata dalla Regione la legge regionale 55/2008 sulla qua-lità della normazione.

Essa accentua la responsabilità del legislatore regionale e consente ai cittadini di esercitare un vero e proprio controllo sulla “ragione delle leggi”, prevedendo che le leggi ed i regolamenti debbano essere motivati e dotati di strumenti per valutarne gli effetti. Nel preambolo di una legge devono essere indicati il quadro giuridi-co di riferimento, le fasi essenziali del proce-dimento, le ragioni per cui i pareri obbligatori non sono stati accolti, o lo sono stati solo in parte. La motivazione delle leggi è posta in vo-tazione prima del voto finale.

Le regole di tecnica legislativa inserite nel Manuale interregionale sono state aggiornate anticipatamente in vista di tali rilevanti muta-menti ordinamentali. Infatti nell’edizione 2007 è stata superata la precedente prescrizione che prevedeva semplicemente la premessa o il pre-ambolo per gli atti non legislativi ed è stato sta-bilito che tra gli elementi dell’atto, quando l’or-dinamento lo prevede, è presente un preambo-lo o premessa, in cui sono ricordate le basi giu-ridiche dell’atto (“visto …”) e le sue motivazioni (“considerato …”). Quindi non si fa riferimento solo ai regolamenti e si rimette la decisione del-la necessità della motivazione degli atti legisla-tivi al legislatore regionale (par. 40).

A fronte della portata sostanziale delle que-stioni solo accennate, appare del tutto condi-visibile l’opinione di chi ritiene che la tecnica legislativa vada inclusa nell’ambito della poli-tica della legislazione e intesa come opportu-nità e strumento essenziale per il legislatore contemporaneo, mentre invece la difficoltà di percepire che le tecniche legislative costi-tuiscano opportunità per il legislatore deri-va dal fatto che esse riguardano questioni sia complesse sia minute 14. Al contrario dovrebbe

14 N. Lupo, Le tecniche (e la politica) della legislazione come strumenti essenziali per il legislatore contemporaneo, in www.cahiers.org/new/htm/articoli/lupocahiers.htm Si veda anche: Di Ciolo, La progettazione legislativa in Ita-lia, Milano, 2002 e R. Dickmann, Il drafting come meto-do della legislazione, in Rassegna parlamentare, A. 39, n. 1 (gennaio-marzo 1997), pp. 214-237; M. Ruotolo, La pro-gettazione legislativa. Un’esigenza di rilievo costituzionale?,

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caratteristiche di omogeneità e completezza 15, sino ad arrivare agli ultimi anni nei quali non è infrequente assistere ai rilievi della Corte in merito alla qualità redazionale dei testi 16.

In determinate sentenze della Corte costi-tuzionale l’accertamento dei presunti vizi di legittimità costituzionale è stato collegato alle modalità di redazione del testo legislativo. Richiamiamo esempi noti.

Con la sentenza 292/1984 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della L. 703/1952, art. 39, comma 1, limitatamente alle parole «e successive modificazioni» sulla base del moti-vo che in conseguenza anche solo del generico richiamo ad imprecise successive modificazio-ni possono nascere dubbi interpretativi che nei rapporti tra fisco e contribuenti nuocciono alla loro certezza e speditezza. Il Manuale in-terregionale è conforme a tali indirizzi.

Tuttavia si osserva che il ricorso a siffatto rinvio è senza dubbio tanto consolidato e fre-quente da sembrare un metodo di legislazione. Esso è entrato nella tecnica legislativa a fini di chiarezza per indicare con precisione la natura dinamica del rinvio normativo al quale esso si riferisce. Basti per tutti l’esempio dell’articolo 6 del disegno di legge comunitaria 2009 stata-le, il quale dispone l’inserimento delle parole “e successive modificazioni” al comma 3 dell’arti-colo 306 del decreto legislativo 81/2008.

Inevitabile è poi il richiamo alla sentenza 364/1988, con cui la Corte ha dichiarato l’il-legittimità costituzionale dell’articolo 5 del codice penale nella parte in cui non «esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile». E’ stato rileva-to come questa decisione, che ha sicuramente rappresentato un punto di svolta, mostri tut-tavia – ai fini dell’argomento che qui interessa – un limite importante: oltre ad essere circo-scritta alla normativa penale, essa non postula una relazione “patologica” diretta tra principi costituzionali e cattiva redazione delle leggi, bensì si limita a prevedere una sorta di “inef-

15 L. Pegoraro, Linguaggio e certezza della legge nella giuri-sprudenza della Corte costituzionale, Milano, 1988, p. 15.

16 E. Longo, Il contributo della Corte Costituzionale alla qualità della normazione, in P. Caretti (a cura di) Osserva-torio sulle fonti 2007. La qualità della regolazione, p. 51 e ss..

sempre esistere la piena consapevolezza che il loro rispetto incide sulla capacità della legge di perseguire i suoi scopi.

In tale senso non sussiste distinzione tra drafting formale e drafting sostanziale, tra regole che hanno rilevanza esclusivamente tecnica e regole che hanno rilevanza politico-istituzionale. In senso lato tutte le regole di tecnica legislativa hanno rilevanza politica, a volte di più e a volte di meno a seconda del tipo di regola, ma anche della delicatezza politica del testo a cui esse devono essere applicate.

E si osserva che il passaggio dalla tecnica alla politica della legislazione è stato esemplifica-to, nell’ordinamento italiano, dall’istituzione del Comitato della Legislazione presso la Camera dei deputati: se la questione della legislazione non avesse rilievo politico, non avrebbe sen-so alcuno l’istituzione di un organo composto solo da parlamentari, in numero paritario ap-partenenti alla maggioranza e all’opposizione, incaricato di esprimere parere sulla qualità dei testi, con riguardo alla loro omogeneità, chia-rezza e proprietà della loro formulazione, non-ché all’efficacia di essi per la semplificazione e il riordinamento della legislazione vigente (art. 16 bis, Reg. Camera).

5. Valore giuridico delle regole di tecni-ca legislativa. Il drafting nella giurispru-denza

La progettazione legislativa deve svolgersi nel rispetto del quadro costituzionale. Oltre i principi della progettazione legislativa tesi a garantire la certezza del diritto, di cui già si è detto, vincolano la redazione dei testi norma-tivi principi giuridici quali il principio di legit-timità, di eguaglianza, di irretroattività, di sus-sidiarietà. Le regole di tecnica e progettazione legislativa sono correlate al rispetto di tutti i principi che si impongono al legislatore ed è bene quindi indagare la rilevanza che accorda ad esse la giurisprudenza.

A partire dagli anni ‘80 la Corte costituziona-le si focalizza sui problemi generali della leg-ge, esortando a razionalizzare e sistematizza-re la normativa esistente e a conferire ad essa

in “Giur. It.”, 2000, n. 12, p. 2442.

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La Corte ha utilizzato il principio della chia-rezza per giungere a pronunce di accoglimento relative a violazioni dei principi di autonomia regionale, in termini di mancanza di precisa-zione delle competenze spettanti alle Province autonome (sent. 31/1983); di necessità di disci-pline coerenti e destinate a durare nel tempo per assicurare chiarezza delle competenze, certezza del diritto ed buon andamento delle pubbliche amministrazioni dove sono in gioco funzioni e diritti costituzionalmente previsti e garantiti (sent. 245/1984); esclusione di forme espressive analitiche e dettagliate nell’ambito dell’indirizzo e coordinamento da non lasciare alle Regioni (e Province autonome) un neces-sario spazio di autonomia entro il quale poter legittimamente svolgere la propria competen-za legislativa e/o la propria azione ammini-strativa, mentre l’interesse nazionale non può essere evocato dal legislatore statale per legit-timare qualsivoglia intervento e deve essere sotto posto in sede di giudizio di costituziona-lità ad un controllo particolarmente severo. Se così non fosse la variabilità e la vaghezza del suo contenuto semantico potrebbe tradursi in un’intollerabile incertezza e in un’assoluta im-prendibilità dei confini che la Costituzione ha voluto porre a garanzia delle autonomie regio-nali (sent. 177/1988).

La sent. 303/2003 ribadisce l’orientamen-to della Corte costituzionale (sentenze n. 85/1999, n. 94/1995 e n. 384/1994), secondo il quale il valore costituzionale della certezza e della chiarezza normativa deve fare aggio su ogni altra considerazione. In tale modo quan-do il giudizio di legittimità costituzionale si confronta con la tecnica legislativa e con la chiarezza normativa ad essa collegata, le consi-derazioni in materia di tecnica legislativa sono un aspetto rilevante della motivazione.

Nonostante la rilevanza della chiarezza della legge, la quale dipende direttamente dalle re-gole adottate, non derivano vizi di legittimità costituzionale dalla violazione delle regole di tecnica legislativa.

Esse infatti non costituiscono nel nostro or-dinamento un complesso di norme giuridica-

niello, Il drafting delle leggi nella giurisprudenza costituzionale, in Riv. Trim. Sc. Amm., 1999, n. 1.

ficacia relativa” della norma che sia oggetti-vamente non conoscibile, anche a causa della qualità del drafting.

In alcuni casi la Corte è giunta a dichiarare l’incostituzionalità della singola norma affetta da patologie redazionali, ma tali decisioni, pe-raltro, si sono sempre fondate o sulla necessità di correggere errori materiali, o su violazioni di principi costituzionali del diritto penale perpetrate da una cattiva tecnica redazionale (sent. n. 185 del 1992 e n. 34 del 1995). E’ stato poi eccepito l’incompleto ricorso alla tecnica della novellazione, (sent. 52/1996); contrad-dizioni presenti nella tecnica legislativa varia-mente adoperata (sent. 312/1996); eccessiva ampiezza di norme descrittive di più fattispe-cie (sent. 364/1996); difetto di coordinamen-to tra distinte disposizioni legislative (ord. n. 388/1996) 17; rivolto auspicio al legislatore di utilizzare nelle deleghe in materia penale cri-teri configurati in modo più preciso al fine di assicurare il massimo della chiarezza della leg-ge e la certezza del diritto (sent. 53/1997) 18.

17 Così pure: Cassazione penale , sez. I, 12 dicembre 2007 , n. 2120 “La circostanza aggravante del delitto di omicidio prevista dall’art. 576, comma 1, n. 5 c.p. (avere commesso il fatto nell’atto di commettere taluno dei de-litti previsti dagli art. 519, 520 e 521, che contemplavano, rispettivamente, la violenza carnale, la congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale e gli atti di libidine violenti) è configurabile con riferimento a tutti i delitti di violenza sessuale di cui agli art. 609 bis e ss. stesso codice, come introdotti dalla l. 15 febbraio 1996 n. 66 (recante norme contro la violenza sessuale), a nulla rilevando che tale legge abbia disposto l’espressa abrogazione dei citati art. 519, 520 e 521, in quanto il richiamo a questi ultimi nell’art. 576 rientra nella figura del rinvio formale e non di quello recettizio, sicché quella abrogazione non ha comporta-to una “abolitio criminis”, ma solo un ordinario feno-meno di successione di leggi penali incriminatrici nel tempo, e il mancato adeguamento della formulazione di quest’ultima norma è ascrivibile a mero difetto di coor-dinamento legislativo.”

18 Cfr. P. Costanzo, Il fondamento costituzionale della qua-lità della normazione (con riferimenti comparati e all’UE), Lezione del 18 gennaio 2008 al Corso di perfezionamento e specializzazione in La qualità della normazione e in parti-colare la formazione e la valutazione delle leggi. Università degli studi di Firenze, Facoltà di Giurisprudenza, in www.consiglio.regione.toscana.it/leggi-e-banche-dati/oli/Corso-qualita-normaz-UNIFI/CORSO%202008/02-LEZ-01-feb-08/fondamento-cost-qual-normazione.pdf; V. Caia-

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5.1 Nozione di articolo

Il 16 dicembre 2004 il Presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la legge di delega in materia di ordinamento giudiziario. Dopo aver sintetizzato i vizi sostanziali della legge-delega, il Presidente si sofferma anche sulla tecnica redazionale adottata, così argo-mentando: «Con l’occasione ritengo opportuno rilevare quanto l’analisi del testo sia resa difficile dal fatto che le disposizioni in esso contenute sono condensate in due soli articoli, il secondo dei quali consta di 49 commi ed occupa 38 delle 40 pagine di cui si compone il messaggio legislativo. A tale pro-posito, ritengo che questa possa essere la sede pro-pria per richiamare l’attenzione del Parlamento su un modo di legiferare – invalso da tempo – che non appare coerente con la ratio delle norme costituzio-nali che disciplinano il procedimento legislativo e, segnatamente, con l’articolo 72 della Costituzione, secondo cui ogni legge deve essere approvata “arti-colo per articolo e con votazione finale”» 20.

Precedentemente il drafting legislativo, in re-lazione alla chiarezza e conoscibilità normati-va, aveva trovato spazio nel rinvio del 29 marzo 2002, relativo alla legge di conversione di un decreto-legge in tema di zootecnica, per la di-somogeneità dei contenuti del decreto stesso. Scriveva allora il Presidente che «Un testo ag-gravato da tante norme disomogenee dà vita, come rilevato nel parere del Comitato per la legislazione della Camera dei deputati formulato il 19 marzo 2002, ad un provvedimento di “difficile conoscibili-tà del complesso della normativa applicabile”».

Tali messaggi ripropongono il problema della tecnica di redazione degli atti normativi quale causa di illegittimità costituzionale. È peral-tro innegabile che il “discorso del legislatore”

stessi precetti costituzionali non riescono ad entrare. F. Sorrentino, Esperienze e prospettive della giustizia italiana, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/convegni/roma20021114/sorrentino.html.

20 Nel rinvio in tema di ordinamento giudiziario il ri-chiamo alle tecniche di drafting è chiaro, ma è successivo alla “formula” di rinvio. La dottrina spiega che in un me-desimo atto formale il Presidente assomma due distinte attività: una prima, che consiste nell’esercizio del potere di rinvio; e un’altra che consiste nell’esercizio del distin-to e autonomo potere di inviare messaggi alle Camere,. L. Cuocolo, ibidem.

mente vincolanti. Un giudizio di costituziona-lità ristretto alla tecnica legislativa, in assenza di parametri costituzionali predeterminati e giuridicamente vincolanti costituirebbe un’inammissibile lesione della sfera discrezio-nale del potere legislativo e così viene rilevato che la Corte Costituzionale a giustificazione di decisioni concernenti contraddizioni, lacune, sviste presenti nel dettato legislativo, richiama piuttosto il principio di razionalità o ragione-volezza della legge dedotto dall’articolo 3 della Costituzione ed essenzialmente inteso come razionalità interna al testo legislativo.

La dottrina rileva come questa impostazio-ne sia in fondo uno dei precipitati della giuri-sprudenza sugli interna corporis. In altre paro-le, essendo le norme sull’iter legis contenute nei regolamenti parlamentari (salvo i principi contenuti nell’articolo 72 Cost.), le eventuali violazioni delle regole di buona legislazione debbono essere sanzionate all’interno di cia-scuna delle due Assemblee, essendo il canone di riferimento una norma regolamentare e non una norma costituzionale 19.19 L. Cuocolo, Le osservazioni del Presidente della Repubbli-ca sul drafting legislativo tra rinvio della legge e messaggio alle Camere, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/dibattiti/magistratura/cuocolo.html. Successivamente alla sentenza 9/1959 della Corte Costi-tuzionale, che aveva ammesso il sindacato della Corte stessa sul procedimento legislativo, limitatamente però al rispetto delle norme costituzionali e con esclusione della verifica del rispetto dei regolamenti parlamentari, non si registra alcun progresso nel superamento dell’in-sindacabilità degli interna corporis acta delle Camere. Al contrario la dottrina rileva la conferma e l’ampliamento dell’impostazione affermatasi nel 1959 ad opera della sentenza 154/1985, con la quale la Corte costituzionale ha affermato l’insindacabilità assoluta dei regolamenti parlamentari (quindi anche da parte del giudice comu-ne), la loro idoneità ad interpretare liberamente le norme costituzionali sulle maggioranze (così è stato possibile alla Camera considerare assenti coloro che esprimono un voto di astensione: sentenza 78/1984), e soprattutto ad opera della sentenza 379/1996, con la quale la Corte ha affermato l’esistenza di un’area, attinente ai diritti del parlamentare in quanto tale, in cui il principio di legalità e la giurisdizione dello Stato non possono pene-trare a causa dell’ “esaustiva capacità qualificatoria del regolamento”. Con la sentenza del 1996 l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari viene legittimata: non c’è dubbio, infatti, che, intesa come giurisdizione interna alle Camere, essa s’inserisca in quell’area di esaustiva qualificazione del regolamento parlamentare in cui gli

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merosi altri maggiormente dettagliati, che di-spongono in ordine alla nozione di articolo, al suo contenuto, alla sua lunghezza e ad altro an-cora. Questi sono contenuti da un lato nei re-golamenti parlamentari, dall’altro nei Manuali di drafting legislativo statali e regionali.

Si deduce in termini generali che l’articolo è la quantità di materia che si vuole sottomette-re tutta in una volta ad una stessa votazione, la quale per tale motivo dovrebbe essere omo-genea. In altre parole, l’articolo è la partizio-ne minima di ogni enunciato normativo. Per questo motivo è tutt’altro che casuale il riferi-mento costituzionale alla votazione «articolo per articolo», che serve proprio a consentire ai rappresentanti di esprimere la propria volontà su un singolo contenuto precettivo alla volta.

È dunque evidente che la suddivisione in ar-ticoli nell’ambito della legge del discorso del legislatore ha una doppia funzione: da un lato mira ad assicurare una più agevole conoscibili-tà delle norme ai destinatari, che possono iso-lare i singoli concetti dal discorso complessivo; dall’altro lato mira a garantire una più precisa corrispondenza tra il prodotto normativo e la volontà del legislatore, consentendo ai parla-mentari di esprimersi disgiuntamente su ogni singolo contenuto precettivo. La “volontà d’in-sieme” è poi garantita dalla «votazione finale» prevista dall’articolo 72 della Costituzione.

Si conclude che l’articolo 72 è posto alla pro-tezione degli interessi sostanziali della cono-scibilità delle norme e della decisione raziona-le del legislatore.

Contrarie a tali prospettazioni sono l’eccezio-ne che la strutturazione del testo non sempre costituisce un ostacolo alla conoscibilità delle leggi e dunque un autonomo vizio di legitti-mità costituzionale, e l’eccezione che esiste una rilevabile differenza concettuale tra le pre-visioni costituzionali di un progetto «redatto in articoli» e di una votazione «articolo per ar-ticolo» ed uno specifico limite alla estensione degli articoli 24.24 Infatti, successivamente al rinvio del 2005, il Capo dello Stato ha comunque promulgato la legge finanzia-ria 2005 costituita da 572 commi, e il maxiemendamen-to del Governo che la costituiva era stato dichiarato am-missibile dai presidenti di Camera e Senato, nonostante le norme regolamentari che imporrebbero l’omogenei-

si è fatto sempre più complesso, oltre che per motivi oggettivi dipendenti dalla complessità degli oggetti della normazione, anche a causa delle violazioni alle regole della buona tecnica redazionale.

Le leggi composte da pochi articoli e centi-naia commi, anche come frutto di una scelta consapevole, sacrificano i principi di buona le-gislazione ad obiettivi antiostruzionistici. E’ il caso di tutte le recenti leggi finanziarie statali, alle quali si omologano spesso anche le leggi finanziarie regionali, che giungono anch’esse a contenere nell’ambito di un medesimo arti-colo centinaia di commi 21.

A favore delle prime va tuttavia rilevata la loro pubblicazione con la rubricazione dei commi, che costituisce un obiettivo strumento di recu-pero di conoscibilità del testo, strumento non adottato dalle Regioni 22.

Alcuni richiamano l’esistenza di una nozio-ne costituzionale di “articolo”, e quindi la con-clusione che le corrette tecniche di drafting le-gislativo possano a certe condizioni costituire un parametro autonomo di legittimità costitu-zionale 23 .

Le disposizioni costituzionali non offrono sul punto appoggi specifici e l’articolo 72 Cost. prevede che l’iter legis sia disciplinato da ogni Assemblea «secondo le norme del suo regola-mento». Tuttavia, secondo la tesi che si illustra, vi sono due riferimenti che possono costituire il fondamento costituzionale del buon drafting.

Il secondo comma dell’articolo 71 prevede che i progetti di legge siano redatti in articoli (principio ritenuto applicabile a qualsiasi pro-getto, non solo a quelli di iniziativa popolare). Il già citato articolo 72, inoltre, dispone al pri-mo comma che ogni disegno di legge esamina-to da una Camera sia approvato «articolo per articolo e con votazione finale».

A questi riferimenti se ne aggiungono nu-

21 Ad esempio l’articolo 5 della legge finanziaria 2005 della Regione Friuli Venezia Giulia reca 266 commi.

22 Per le leggi statali la legge 127/1997 (“Legge Bassa-nini”) ha introdotto la possibilità di rubricare i singoli commi, inserendo la rubrica al margine destro del testo. Tale rubricazione è aggiunta in fase di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

23 L. Cuocolo, ibidem; N. Lupo, ibidem.

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di una legge. Gli studi relativi alla legistica hanno acquisito in pochi anni un altissimo grado di completezza e approfondimento e ciononostante la qualità della legge non regi-sta incrementi. Infatti è insufficiente spiegare la cattiva qualità della produzione nor mativa con l’inosservanza di buone regole di tecnica legislativa. Sono determinanti al contrario le cause profonde che condizionano l’applica-zione delle regole stesse, in quanto l’adozione di una determinata tecnica legislativa è con-dizionata da elementi strutturali del sistema politico-costituzionale o da specifi che scelte politiche 26. Siamo dunque del tutto lontani dall’area disponibile all’intervento tecnico in sede di progettazione legislativa. E poi è del tutto evidente che a fronte della debolezza di un sistema politico che trova difficili i proces-si decisionali affidati alle aule parlamentari o consiliari, è necessario arrendersi alla conside-razione che disposizioni legislative opportune possano trovare accoglimento solo attraverso la loro formulazione e strutturazione non con-forme alle regole di tecnica legislativa.

Appare attualmente insuperabile l’osserva-zione di coloro che, pure a fronte dell’auspicabi-le qualità redazionale dei testi legislativi, come appunto richiamata anche dal Capo dello Stato nel rinvio avente ad oggetto la riforma dell’or-dinamento giudiziario, osservano che prodotti legislativi quali la legge finanziaria statale sono frutto di un processo concertativo di inusitata complessità, rispetto alla quale non risulta pen-sabile una dichiarazione di illegittimità costi-tuzionale per violazione dell’articolo 72 della Costituzione 27, né ritengono possibile risolve-re il problema della qualità della legislazione fi-

26 Documento sulla “Complessità normativa e ruolo dei Parlamenti nell’epoca della globalizzazione” predi-sposto dal Gruppo di lavoro costituito a Helsinki nel giugno 1997 tra i Presidenti dei Parlamenti europei sui problemi della qualità della legislazione e presentato alla conferenza plenaria di Lisbona del maggio 1999.

27 R. Romboli, La natura della Corte costituzionale alla luce della sua giurisprudenza più recente, Relazione tenuta alla giornata di studi “Dalla giurisdizione come applica-zione della legge alla giurisdizione come creazione del diritto” (Modena 18 gennaio 2007), destinata al volume “I confini della separazione dei poteri”, a cura di A. Vi-gnudelli, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/dottrina/giustizia_costituzionale/romboli.html.

La stessa Corte costituzionale non ha trat-to profili d’incostituzionalità dall’eccessiva lunghezza degli articoli eccepita dalle regioni Lombardia e Veneto, in riferimento alla nor-mativa statale delle “quote latte” contenuta nell’articolo 2, commi da 166 a 174, della legge 23 dicembre 1996 n. 662 (Misure di razionaliz-zazione della finanza pubblica).

Essa rilevava che dal fatto che, a seguito della questione di fiducia, si è proceduto con vota-zione unica sulla molteplicità di commi che tale articolo conteneva, non può farsi discen-dere quella violazione o menomazione di com-petenze che è condizione necessaria perché le Regioni possano ricorrere in via principale contro le leggi dello Stato, e neppure una le-sione di competenza conseguente ad una non chiarezza o più difficoltosa conoscibilità della legge, che dal modo in cui il suddetto articolo è stato approvato sarebbe a sua volta derivata, atteso che le Regioni, dotate come sono di ap-parati istituzionalmente preposti all’esame, anche sotto il profilo tecnico, della produzione legislativa dello Stato, non possono allegare la non conoscenza delle leggi statali, né invocare i parametri dai quali la Corte costituzionale, nella sentenza 364/1998, ebbe a desumere il principio secondo il quale solo leggi conosci-bili possono essere osservate e rispettate (sen-tenza 398/1998).

In merito alle violazioni dell’articolo 72 Cost. è stato prospettato che il ristabilimento della cor-rettezza istituzionale possa richiedere l’intervento della Corte costituzionale, come accadde nel ‘96, quando la prassi allora invalsa, anch’essa incosti-tuzionale, della reiterazione ad infinitum dei de-creti legge non convertiti tempestivamente dalle Camere dovette essere stroncata da una decisione dell’organo di garanzia costituzionale 25.

A questo punto però è doveroso chiedersi quale sia il limite dei ragionamenti finalizza-ti a rendere migliore la produzione legislativa attraverso le regole del processo di scrittura

tà dei testi normativi.

25 V. Onida, Incostituzionale concentrare tutto in un solo articolo, in Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2006. M. Carli, Come garantire il rispetto delle regole sulla “buona qualità” delle leggi dello Stato, in P. Caretti (a cura di) “Osservatorio sul-le fonti 2007. La qualità della regolazione”, p. 3 e ss..

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Il valore delle regole di tecnica legislativa nel discorso del legislatore 26

idoneo a rimuovere l’eliminazione anteceden-te comunque avvenuta validamente.

In linea con questa impostazione il Manuale interregionale opportunamente precisa che l’abrogazione di disposizioni abrogative non fa rivivere le disposizioni da esse abrogate, e stabilisce anche che qualora sia necessario ridare vigenza ad una disposizione abrogata, è necessario affermare espressamente in via legislativa la reviviscenza della disposizione abrogata, chiarendo altresì se essa opera ex nunc o ex tunc.

Analogamente, l’abrogazione di disposizio-ni modificative non fa rivivere il testo nella versione antecedente la modifica ed anche in questo caso tale abrogazione deve essere ac-compagnata dalla disposizione espressa della reviviscenza del testo nella versione preceden-te la modifica.

Tali regole di tecnica legislativa rendono ono-re al principio di chiarezza e precisione della legge e perseguono la finalità di escludere spa-zi discrezionali relativi all’interpretazione del-la portata applicativa delle norme abrogatrici.

Tali regole sono quanto mai opportune a fronte dei dibattiti non univoci della dottrina sul tema della reviviscenza e delle impostazio-ni della giurisprudenza, la quale, a fronte del silenzio della legge, espande nei casi concreti le proprie analisi interpretative ricostruendo gli effetti della norma abrogativa e quindi rin-venendo eventualmente la reviviscenza delle norme originarie. In tale caso vanno tenuti presenti i caratteri dell’effetto ripristinato-rio, il quale si presenta come: non ordinario, non automatico, rimesso alla discrezionalità dell’interprete.

Secondo una linea interpretativa quando l’abrogazione espressa di disposizione abro-gativa (e salvo che l’abrogazione si accompa-gni con l’emanazione di una nuova e diversa disciplina), non sia accompagnata da altre statuizioni, la possibilità della reviviscenza della legge abrogata viene ritenuta ammissibi-le, presupponendo che, in questo caso, scopo precipuo che il legislatore intende conseguire altro non può essere che quello di richiamare in vita la disposizione precedentemente abro-gata. La legge abrogatrice di una precedente

nanziaria con le sole regole di drafting 28.

5.2 Reviviscenza e congiunzione “e”

La prospettiva interpretativa della legge che i giudici adottano spesso si svolge con tecniche di analisi che considerano il testo normativo con metodi affatto diversi rispetto a quelli che devono essere utilizzati nella progettazione legislativa. Bastino solo due esempi: la giuri-sprudenza in tema di reviviscenza e in tema di congiunzione “e”.

a) Reviviscenza

L’istituto della reviviscenza è il rimedio che il sistema offre nel caso in cui sia stata abro-gata una disposizione per errore, ovvero sia-no mutate le valutazioni che tale abrogazione avevano fatto ritenere opportuna. L’istituto della reviviscenza non ha riferimenti positivi, dimodochè va affrontato alla luce delle regole di tecnica legislativa ed eventualmente in sede di interpretazione alla luce degli orientamenti della giurisprudenza e della dottrina 29.

Il problema deriva dalla necessità di definire gli effetti dell’abrogazione di norme abrogati-ve, poi a loro volta abrogate, quando il legisla-tore stesso non chiarisca le sue finalità, nulla dicendo in merito alla reviviscenza delle di-sposizioni abrogate dalla norma abrogativa a sua volta abrogata: quando cioè la norma sia tecnicamente incompleta e debba farsi ricorso al’interpretazione successiva per ricostruirne il suo completo contenuto.

La dottrina e parte della giurisprudenza sono prevalentemente orientate nel senso di ritene-re che l’abrogazione di una norma abrogativa non ha l’effetto di ripristinare la vigenza della norma abrogata da quest’ultima. Al riguardo si pone in evidenza che l’effetto abrogativo, di re-gola, non ha portata retroattiva e quindi non è

28 R. Dickmann, Legge finanziaria e qualità della normazione, in www.federalismi.it/federalismi/applMostraDoc.cfm?Artid=9006&edoc=09012008092859.pdf&tit=Legge%20finanziaria%20e%20qualit%C3%A0%20della%20normazione

29 Cfr. A. Celotto, voce Reviviscenza degli atti normativi, in Enc. Giur. Treccani, XXVII, 1998.

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Il valore delle regole di tecnica legislativa nel discorso del legislatore 27

to l’uso della congiunzione disgiuntiva “o”.La congiunzione “e” è oggetto di motivazioni

giurisprudenziali, dal momento che condizio-na fortemente l’interpretazione della valen-za applicativa di elenchi di oggetti o qualità e quindi la configurazione degli elementi di una fattispecie alla quale la legge ricollega effetti giuridici. La giurisprudenza si è espressa per lo più nel senso del significato cumulativo degli elementi enumerati, piuttosto che alternativo delle condizioni richieste e quindi in relazione a fattispecie concrete essa generalmente con-ferma l’uso grammaticale della congiunzione “e”; tuttavia in alcuni casi afferma pure che la congiunzione “e” può essere usata con valore coordinativo e non aggiuntivo 30.

La questione è solo apparentemente si lieve portata, come dimostra la rilevanza che l’in-terpretazione della congiunzione “e” ha avuto nell’ambito dei procedimenti elettorali relativi alle elezioni 2003 della Regione Friuli Venezia Giulia.

Brevemente, con l’articolo 5, comma 3, del-la L. Cost. 2/2001 il legislatore costituzionale ha stabilito che, nel caso in cui la Regione non avesse emanato la propria legge statutaria per disciplinare l’elezione del Consiglio regionale e del Presidente della Regione, si sarebbero ap-plicate, in quanto compatibili, le leggi 108/1968 e 43/1995 che disciplinano le elezione dei Consigli delle Regioni a Statuto ordinario.

La prima contiene la disciplina organica dell’elezione dei Consigli regionali delle regio-ni a statuto normale; la seconda contiene nuo-ve norme finalizzate ad introdurre il sistema maggioritario (parziale), nonché ad adattare a quest’ultimo la legge 108/1968. Al fine di age-volare l’impatto con la nuova normativa, essa prevedeva l’applicazione della deroga riguar-dante il numero delle sottoscrizioni, ridotto alla metà, in caso di: scioglimento del Consiglio regionale anticipato di oltre centoventi giorni rispetto la scadenza naturale “e” il trovarsi in sede di prima applicazione della legge stessa .30 cfr. Consiglio Stato , sez. VI, 30 settembre 2008 , n. 4694; Consiglio Stato , sez. VI, 07 agosto 2008 , n. 3899; Cass. pen., sez. III, 10 ottobre 2002, n. 38072; TAR TAA, 31 maggio 2000, n. 165, Cass. pen., sez. III, 5 febbraio 198, n. 2703; contra Cass. pen., sez. I, 17 febbraio 1998, n. 3158; Cass. pen., sez. VI, 20 gennaio 1992.

norma abrogatrice conterrebbe, quindi, una norma che, da un lato, ha funzione abrogati-va, dall’altro assumerebbe, per relationem, il contenuto normativo della norma precedente-mente abrogata.

La recente Cassazione penale , sez. III, 18 apri-le 2007 , n. 19037 ha in tal senso ribadito che “Soltanto in presenza di una dichiarazione di incostituzionalità che caduchi interamente una disposizione avente come contenuto uni-camente quello di abrogare altra precedente disposizione, è ipotizzabile la reviviscenza di quest’ultima, poiché la pronuncia caducatoria fa venir meno l’unico contenuto normativo del-la disposizione caducata, producendo l’effetto di far rivivere la previgente disposizione.”

Un orientamento decisamente favorevole alla reviviscenza è rinvenibile nella giurispru-denza della Corte Costituzionale, che dispone il ripristino della situazione normativa abro-gata a seguito della declaratoria di incostitu-zionalità della norma abrogante. Vale a questo proposito ricordare in particolare le sentenze 43/1960, 107/1974, 408/1998.

Un caso particolare di reviviscenza è quella di norme abrogate con decreto legge.

La Cassazione civile , sez. III, 26 maggio 2005 n. 11186 ha sintetizzato la questione afferman-do che il principio secondo cui un decreto legge parzialmente non convertito, se conteneva nor-me abrogatrici di precedenti disposizioni legi-slative, queste riprendono automaticamente vi-gore, in quanto il decreto legge non convertito è da ritenersi anche per il passato irreversibil-mente inesistente anche in caso di caducazione soltanto parziale del decreto stesso.

b) Congiunzione “e”

Dal punto di vista grammaticale la con-giunzione “e” collega due espressioni con significato aggiuntivo e secondo le regole di tecnica legislativa le congiunzioni vanno usate secondo il loro valore grammaticale. La congiunzione “e” va quindi usata per espri-mere una relazione congiuntiva, per cui la fattispecie si realizza quando tutti gli ele-menti correlati si avverano. Se si vuole espri-mere una relazione di alternatività, è indica-

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ge sostanzialmente chiara e violano quella che appare la prima regola della chiarezza sostanziale: la regola che vieta di far subire al lettore del testo le fasi di ragionamento che servono a mettere a fuoco le idee e che impone invece di formulare i concetti solo dopo che essi siano stati esattamente indivi-duati, precisati e organizzati teoricamente.

La chiarezza sostanziale della legge, così in-tesa, permette di estendere la nostra indagine oltre le questioni relative alla legittima appli-cazione dei canoni di diritto e del corretto uti-lizzo di regole di drafting nella progettazione legislativa e di richiamare (ovvero essere tra-dotta ne-), gli aspetti etici della comunicazione che investono qualsiasi “parlante” nei confron-ti di un ascoltatore e non esentano quindi il pubblico potere nella sua veste di legislatore.

Il linguaggio normativo non sfugge alle que-stioni etiche proprie di qualsiasi comunicazio-ne, nei confronti delle quali è del tutto irrile-vante la sua particolare funzione prescrittiva, in relazione alla quale anzi tali questioni assu-mono pregnanza.

Ogni tipo di linguaggio può contenere, anche inconsapevolmente, elementi di violenza e non rispetto dell’altro, nella misura in cui impone uno sforzo (evitabile) per comprendere il mes-saggio veicolato e nella misura in cui comunica un significato che va individuato anche oltre il tenore testuale del messaggio stesso.

Il primo dovere etico del parlante è diminu-ire lo sforzo che l’ascoltatore deve fare per in-tendere il senso di ciò che viene letteralmente detto: esiste il dovere etico di farsi carico della capacità di comprensione dell’ascoltatore.

Tale dovere va assolto con particolare at-tenzione quando esiste una differenza di po-tere tra il parlante e l’ascoltatore, in quanto quest’ultimo, quando gode di minor potere, non può negoziare la chiarezza del discorso e dei fatti enunciati. Se il parlante non tiene con-to di questo, la comunicazione diventa sostan-zialmente violenta nella misura in cui non è chiara e sottomette il destinatario all’incertez-za di quanto compreso.

Si comprende come tutto ciò sia delicato all’interno delle organizzazioni, dove esiste oggettivamente tra soggetti appartenenti a di-

Essendo le due situazioni legate dalla con-giunzione “e”, e non da quella disgiuntiva “o”, la Regione accoglieva la tesi della cumulabilità delle condizioni e riteneva che la deroga fosse possibile nel caso contemporaneo di sciogli-mento anticipato del Consiglio regionale e di prima applicazione della legge.

Pertanto veniva esclusa l’applicazione della deroga negandosi oggettivamente nel 2003 la prima applicazione della legge 43/1995. Tale interpretazione veniva condivisa dagli Uffici centrali circoscrizionali Trieste, Gorizia e Tolmezzo, invece quelli di Udine e Pordenone seguivano l’interpretazione opposta e quin-di ammettevano liste con un numero di sot-toscrizioni ridotto della metà alla luce della sussistenza della sola condizione dello scio-glimento anticipato del Consiglio regionale. A fronte di questo inammissibile contrasto in-terpretativo, e accogliendo la tesi della cumula-bilità delle condizioni, il Presidente dell’Ufficio centrale regionale presso la Corte d’Appello di Trieste invitava gli uffici centrali circoscrizio-nali “a considerare la possibilità di riesamina-re nel merito le proprie decisioni ammissive, ripensamento che appare possibile sulla base del principio generale di autotutela applicabi-le anche agli Uffici elettorali”.

Conseguentemente gli Uffici centrali circo-scrizionali di Udine e Pordenone hanno rifor-mato in via di autotutela le precedenti decisio-ni non conformi all’indirizzo interpretativo dell’Ufficio centrale regionale.

6. Valore comunicativo delle regole di tecnica legislativa

Le regole di tecnica legislativa presidiano anche il valore comunicativo dei testi norma-tivi, valore che va tenuto presente nel corso del processo di scrittura.

Tale valore deve essere collegato al prin-cipio di chiarezza sostanziale della legge, il quale può essere onorato solo attraverso la chiarezza delle idee e del ragionamento 31, che poi condizionano l’idea e la formulazio-ne testuale della legge. Idee ingiustificate, disordinate, non possono produrre una leg-

31 G. Amato, ibidem, pp. 48 – 53.

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sa strutturazione e grafica del testo legislati-vo32. Appartengono a questa categoria di stru-menti anche i documenti accompagnatori dei disegni di legge, i preamboli e le motivazioni;

- strumenti comunicativi testuali interni agli enunciati sono tutte le regole generali sulla semplicità e chiarezza del linguaggio e regole specifiche, quali le regole di citazione degli atti normativi (il Manuale interregionale ha adot-tato ad esempio la regola della citazione del ti-tolo degli atti ai quali si rinvia, al fine di dare un immediato significato al rinvio normativo, il quale altrimenti appare muto).

La regola aurea della comunicazione efficace prescrive poi che il testo sia elaborato in rela-zione alla capacità di comprensione dei suoi destinatari.

Tale regola nei confronti di un testo normati-vo necessita di valutazione attenta e il più delle volte è di difficile applicazione anche teorica. Infatti è noto il problema di individuare i de-stinatari della legge sui quali calibrare il mes-saggio legislativo.

La legge si rivolge in ultima istanza sempre a un pubblico generale, coincidente con la to-talità della popolazione, composta da persone insuscettibili di qualsiasi classificazione in ra-gione della loro diversità secondo tutti i para-metri: età, condizioni socioeconomiche, com-petenza linguistica, conoscenze. Pertanto ove il testo non possa derogare a esigenze di pre-cisione, e quindi non possa essere evitata una difficoltà di comprensione, esso va spiegato nell’ambito della comunicazione legislativa.

Queste notazioni attengono a una dimen-sione fisiologica del problema. E’ patologico invece assistere all’annullamento dell’ effica-cia comunicativa della legge di fronte alla sua oscurità strutturale e linguistica.

I cittadini hanno il diritto di capire il discor-so del legislatore, un diritto sul quale si in-nesta l’effettività di un sistema democratico, nell’ambito del quale la stessa giustizia non

32 Tale è l’importanza di tali strumenti che la leg-ge 15/2005, nel modificare sostanzialmente la legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, ha prov-veduto specificamente anche ad introdurre le rubriche agli articoli, i quali ne erano sprovvisti essendo state disattese nella loro formulazione originale le regole di drafting statali.

versi livelli di gerarchia una differenza di po-tere e chi ha maggiore potere tende ad avere sempre, come emittente, una comunicazione/negoziazione competitiva, nei confronti del ri-cevente. Questa componente di maggiore po-tere deve essere consapevolmente controllata da chi la possiede, perché l’altra parte subisce il rapporto comunicativo, come appunto avvie-ne per i destinatari della legge. D’altra parte, poiché una comunicazione tra soggetto emit-tente e soggetto ricevente si realizza solo se il messaggio veicolato tra i due è comprensibile, è interesse primario di chi comunica che essa si realizzi e questo vale anche per il legislatore, che ha interesse alla comprensione e all’appli-cazione delle norme emanate.

Se rapportiamo questi presupposti al tema in discussione possiamo affermare che se è vero che per realizzare una comunicazione l’emittente e il ricevente devono condividere un codice, è anche vero che questo è il proble-ma della comunicazione delle leggi, in quanto esse non hanno un codice comune ai destina-tari, i quali però devono applicarle.

Il destinatario del messaggio legislativo ne-cessita quindi di un’attività di comunicazione/traduzione, in quanto non conosce il linguag-gio tecnico-giuridico utilizzato dalle leggi, at-tività tanto più importante in quanto egli ha, dal punto di vista emotivo, un atteggiamento di chiusura nei confronti del testo normativo.

E’ la differenza di maggiore potere tra il le-gislatore/emittente e i destinatari/riceventi, oggettivamente esistente, che deve imporre al legislatore stesso l’obbligo etico di controllo del codice usato per diffondere messaggi nor-mativi e il conseguente dovere di adattamento della propria comunicazione, con strumenti interni ed esterni alla legge, alle capacità recet-tive del destinatario.

La comunicazione legislativa interna alla legge, si svolge sul piano testuale e attiene all’obiettivo di massima leggibilità e compren-sibilità possibile nel rispetto della precisione.

Le regole di drafting statali e interregionali recano una parte di prescrizioni specificamen-te dedicate a tale finalità e prevedono:

- strumenti comunicativi testuali esterni agli enunciati, quali titoli, indici, rubriche e la stes-

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può funzionare se il rapporto tra i cittadini e le regole è segnato dall’incomunicabilità e tali conclusioni sono la premessa per focalizzare l’attenzione sulla necessità che si comprenda il valore delle regole della progettazione e tecni-ca legislativa, nella consapevolezza dei valori costituzionali ed etici che sottendono ad esse.

Elaborazione dell’intervento svolto al convegno “La comunicazione giuridica fra enti pubblici e soggetti privati. Analisi del discorso giuridico fra normazione e retorica forense nelle aree di confine fra Friuli Venezia Giulia, Slovenia e Croazia”. Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della formazione, Master di primo livello in “Analisi e gestione della comunicazio-ne”, Trieste, 16 – 17 ottobre 2008.

Gemma PastoreDirettore del Servizio Qualità della Legislazione e Semplificazione della Presidenza della Regione Friuli Venezia Giulia, docente nel master in Analisi e Gestione della Comunicazione.

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L’ordine infranto.Ambiguità e limiti delle narrazioni formalinel diritto dell’età post-moderna

Maurizio Manzin

Abstract

L’età moderna fu caratterizzata dal trionfo del pensiero sistematico, capace di descrivere il mondo mediante nar-razioni dotate di continuità e corenza. Ordine causale nel mondo fisico e ordine formale nei sistemi assiomatizzati sono stati per secoli i modelli dominanti in campo scien-tifico. Ad essi si ispirarono gli stessi giuristi teorici per produrre le loro narrazioni sul diritto (es. codificazione, dogmatica giuridica, normativismo). L’esigenza di con-tinuità narrativa si tradusse, in campo giudiziale, nella figura del sillogismo: strumento offerto al giudice per congiungere la legge con il fatto nella decisione. Ma si

Parole chiave:

logica giuridica; retorica; sillogismo;positivismo giuridico; post-modernità;formalismo; nichilismo;proceduralismo; discontinuità.

trattava di uno strumento totalmente astratto, e non ap-pena le epistemologie della post-modernità hanno svelato l’invincibile complessità del reale rispetto alle descrizioni possibili, esso è entrato in crisi assieme al giuspositivismo formalista. Le attuali tendenze proceduraliste e nichiliste mostrano la rassegnazione ad un diritto in-fondato, con-segnato al mutare dei poteri situazionali, e incoraggiano un atteggiamento scettico venato talvolta di cinismo. Re-centi studi, tuttavia, indicano la possibilità di governare la discontinuità delle situazioni processuali con lo stru-mento logico della retorica forense di matrice classica.

Sommario:

1. L’ordine e le piramidi - 2. Josef perde il suo cognome - 3. Il mito del sillogismo4. Dall’ordine agli ordini - 5. I buchi sono for-maggio? - 6. Le due facce della medaglia7. Apologia della retorica forense

1 - L’ordine e le piramidi

Scrive Milan Kundera, richiamandosi espli-citamente a Friedrich Nietzsche: “colui che

pensa è automaticamente portato a sistematiz-zare; la sua tentazione costante (…): descrivere tutte le conseguenze delle sue idee; prevenire tutte le obiezioni e confutarle in anticipo; co-struire un baluardo inespugnabile attorno alle proprie idee”1. Le parole dello scrittore boemo si riferiscono alla forma del romanzo moder-no ed al suo avvicinarsi alla filosofia: alla ne-cessità, che esso finisce per condividere con

1 M. Kundera, I testamenti traditi, trad. di E. Marchi, Milano, 1994, pp. 168s.

quest’ultima, di convincere attraverso l’inde-fettibile regolarità del sistema. Egli vede, dun-que, totalmente estricate la finalità descrittiva (com’è il mondo? perché è in questo modo? Come mai l’azione x nella trama del romanzo conduce a questi esiti?) e la finalità persuasiva (convincere l’uditorio dei lettori, conferire cer-tezza alla narrazione).

Quest’esigenza ordinativa e sistematica dei romanzieri ottocenteschi è, peraltro, del tutto affine al paradigma gnoseologico e culturale che ha dominato l’intera età moderna (e l’Eu-ropa con essa): quello dell’ordine istituito dal-la causalità. Un modo di vedere il mondo, e di ragionare, utilizzando il reticolo delle cause e

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degli effetti, ispirato alla nozione humiana di causalità (p è causa di q se entrambi compaio-no assieme nell’esperienza e p precede costan-temente q nella serie)2, che trova singolare corrispondenza nell’idea, anch’essa moderna, di progresso. La somma delle scoperte uma-ne circa le cause e gli effetti nel mondo fisico è, infatti, immaginata come la produzione per tappe successive di una mappa dell’esistente sempre più completa3, e nella quale ogni nuo-va acquisizione costituisce un ‘passo avanti’ derivato da quelli precedenti; in sostanza, una narrazione a cui la continuità (la sua coerenza, l’esser priva di ‘salti logici’, di ‘buchi’) conferi-sce potere di convinzione. Il progresso delle scienze comporta dunque la celebrazione del-la forza persuasiva di una narrazione che non conosce interruzioni od ostacoli invincibili, che riempie (o riempirà) ogni spazio di ciò che è esperibile. L’occidente disegna la modernità in funzione del suo sorgivo horror vacui.

Tale persuasione, poi, è rafforzata dall’effica-cia delle descrizioni prodotte. Queste, infatti, sono funzionali ad una tecnica capace di in-tervenire sul mondo (o meglio, sui fenomeni), interrompendo o alterando processi causativi secondo le intenzioni soggettive, manipolan-do la ‘natura’ onde ottenere gli effetti di volta in volta desiderati. Nella modernità, il pensiero tecnico assurge a forma suprema, a idolo della conoscenza: un sapere-agire. Alla certezza di una descrizione illacunosa, si aggiunge la cer-tezza dei risultati concretamente conseguibili: ‘funziona, dunque è vero’.

Non è un caso che Goethe metta in bocca al suo Faust, poco prima dell’incontro con Mefistofele, le parole: “Am Anfang war die Tat”4. L’origine

2 Com’è noto, nel suo Trattato sulla natura umana (1739-1740), Hume individua la connessione fra causa ed effet-to come il risultato di un’associazione percettiva della mente umana fra fenomeni contigui in modo ricorren-te nello spazio e nel tempo.3 La metafora ‘cartografica’ come origine della scienza moderna è stata messa efficacemente in luce, tra gli al-tri, da K. mendelssHon, La scienza e il dominio dell’Occiden-te, trad. di P. Ludovici, Roma, 1981.4 GoetHe, Faust, Erster Teil: Studierzimmer, trad. di G.V. Amoretti, Faust e Urfaust, Milano, 1991, p. 67.

ed il fondamento di tutte le cose non è più un “logos” (traspare chiaramente, in questo passo del Faust, il sovvertimento del giovanneo – e classico – “en arche en o logos”)5: è un agire. Esso esprime la tentazione del potere, quella a cui è più difficile sfuggire; fare, obliando il pro-blema dell’essere (l’Urproblem).

L’ordine della causalità è, dunque, caratteriz-zato dalla figura della sequenza (della regola-rità): stanno in ordine il prima e il dopo; e così il primo, il secondo, il terzo… e infine l’ultimo degli elementi che compongono la sequenza. La sequenza regolare, poi, sottintende un cri-terio sulla base del quale gli elementi della ca-tena si dispongono tra loro; ordine, infatti, si-gnifica anche gerarchia6. E gerarchiche sono le narrazioni con le quali la modernità descrive la ‘natura’: le classificazioni di Linneo, la tavo-la periodica degli elementi, l’evoluzione delle specie, il Big Bang…

Al fascino di questo modello non poteva sfug-gire il giurista, il quale, sin dal costituirsi della modernità, ha iniziato a reclamare una ‘natura’ ben ordinata e priva di ‘buchi’ sulla quale poter intervenire manipolando, con un sapere ‘fun-zionante’, assistito da certezza, attributivo di potere. In sostanza, anche il giurista ha prete-so la sua narrazione continua. E l’ha trovata nella legge.

Si rifletta su questo (siamo agli esordî della codificazione):

«Le juge qui refusera de juger, sous prétexte du silence, de l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi, pourra être poursuivi comme coupa-ble de déni de justice».

Si tratta del celebre art. 4 Titre préliminaire del Code Napoleon, la cui genesi aveva fatico-samente impegnato i civilisti francesi: nel suo enunciato luccicano la negazione, assio-

5 Su cui v. F. Cavalla, La verità dimenticata, Padova, 1996, pp. 167-182.6 Della questione ordine-gerarchia mi sono occupato in più luoghi. In questa sede mi sia consentito il riman-do al solo M. manzin, Ordo iuris. La nascita del pensiero sistematico, Milano, 2008 (nel quale è più estesamente tematizzata).

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matica, della presenza di ‘buchi’ nell’ordina-mento normativo e l’affermazione, anch’essa assiomatica, dell’univocità e completezza della legge. Finalmente il giurista possiede la sua ta-vola periodica degli elementi! Con la capacità di organizzazione del pensiero tipica di quel popolo, la dottrina tedesca saprà afferrare l’as-sioma napoleonico e tematizzarlo all’interno della sua stratificata tradizione giuridica: la narrazione continua verrà cercata addirittura in assenza di codici, sulla semplice base di una

“chimica” degli istituti normativi7. G.F. Puchta, ad esempio, riteneva che si potesse disegnare una mappa del diritto al modo di una costru-zione piramidale – la “piramide concettuale”

– fortemente gerarchizzata8. In attesa di una nazione unificata (1871) e di una codificazione (che non arriverà prima del 1900), la grande scienza giuridica tedesca prepara già il suo ‘ro-manzo’ in forma di sistema.

Sarà – come sappiamo – Hans Kelsen, suddi-to di una “Kakania” abitata da “uomini senza qualità” e da “soldati Švejk”9, a dare il tocco fi-nale alla narratologia dei giuristi, con l’intro-nazione del sovrano onnipotente ed invisibi-le di questo regno della certezza formale: la Grundnorm.

2 - Josef perde il suo cognome

Sì: Musil, Hašek, e soprattutto Kafka, descri-vono da par loro una stagione della cultura eu-ropea in cui la “crisi delle scienze” rivelò l’esito del processo di ordinazione sistematica che aveva lungamente attanagliato la conoscenza. Inseguendo le chimere della continuità, della prevedibilità, del potere sul mondo fenomeni-

7 Sarebbe interessante uno studio comparativo sul lessico della scienza giuridico -politica del tempo: fisi-ca, chimica, aritmetica, geometria, medicina… Quan-te sono le scienze, formali ed empiriche, che hanno prestato i loro lemmi alla terminologia dei teorici del diritto e della politica?8 Cfr. per questo spc. il suo Corso delle istituzioni [Kursus der Institutionen: Leipzig, 1841-1847], tr. di C. Poli, Mila-no-Verona, 1858.9 L’allusione, superfluo precisare, è alle opere di Musil ed Hašek.

co (chimere cartesiane: l’uomo “maître et pos-sesseur de la nature”), l’intellettuale europeo – e il giurista fra questi – ha indotto la conoscen-za nell’unico luogo in cui poter dimorare salva dalla minaccia del “silence”, dell’’“obscurité” e dell’“insuffisance”; salva dai buchi e dalle trappole dell’imprevedibile: l’astratto luogo della teoria, il regno galileiano “dei triangoli, cerchi ed altre figure geometriche”, in cui il nitore della forma salva dalla dubitosa sostan-za. Triangoli e cerchi, in effetti, propriamente non “accadono” mai10, nessuno ne incontra per la strada; stanno nel Begriffshimmel – allietati, forse, dalla compagnia dei dogmi giuridici ela-borati dalla dottrina. In quel regno e in quel cielo nessun elemento è fonte di disordine, il castigo dell’entropia è risparmiato11 ed ogni azione si compone in una sequela regolare e prevedibile.

Noi oggi sappiamo cosa verrà a turbare l’idilliaca pace di quel regno e del suo cielo: i tuoni possenti della meccanica quantistica, i fulmini della relatività einsteiniana, la tem-pesta di grandine dell’indecidibilità gödeliana. Nell’ambito dell’esperienza giuridica, se voglia-mo, il paradosso del processo di Norimberga (come fa il diritto a giudicare se stesso? non sono dunque inviolabili le mura della cittadel-la del legalismo giuspositivistico? vi sono, ol-tre a regole, anche principii?).

Ma il povero Josef K., nella sua Kakania, non lo sa ancora. Egli è chiamato a rispondere di col-pe inesistenti da un ‘ordine’ che non vede mai concretamente, ma nella cui trama è irretito, al punto da non avere più ‘diritto’ ad alcuna indi-vidualità. Egli non merita, infatti, neppure un cognome: il suo Familienname, ciò che lo costi-tuisce in una relazione concreta con il mondo

10 “Ciò che è significato dalle scienze – specie se espres-so con un linguaggio artificiale – è sempre frutto di un’astrazione, non accade propriamente mai. Un triango-lo non accade (…)” (F. Cavalla, Retorica giudiziale, logica e verità in: id., a cura. di, Retorica processo verità. Principî di filosofia forense, Milano, 2007, p. 33. Cs. dell’A.).11 Su ordine ed entropia nella teoria giuridico - politica, v. M. manzin, Ordine politico e verità in Sant’Agostino. Riflessio-ni sulla crisi della scienza moderna, Padova, 1998, pp. 17-27.

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(lo spazio e il tempo delle generazioni da cui è discendente), è ridotto a un’anonima lettera dell’alfabeto: un qualunque Josef segnato da una qualunque K; la a e la b di un’operazione algebrica. Josef è costretto a vivere nel mondo delle lettere e dei numeri, dei triangoli e dei cerchi, della teoria insomma. L’unico mondo in cui tutto funziona ‘come si deve’. Josef lo ca-pisce bene, e infatti cerca con pervicacia la sua colpa, perché, in quel mondo, nessun castigo può essere ingiustificato o ‘illogico’12.

Come è potuto accadere tutto ciò, come ci sia-mo arrivati? Semplicemente, perché l’ordine sistematico delle descrizioni della realtà non è la realtà. Nella realtà, come dicevo, nessuno in-contra triangoli o cerchi; certo, quando voglia-mo manipolarla in un certo modo, ci appoggia-mo alle teorie: ma questo non è conoscere (“lo-gos”), è agire (“Tat”). O meglio: è conoscere in modo oggettivo. Cioè: disincarnando il soggetto dalla conoscenza. La conoscenza del mondo come un oggetto ha provocato la riduzione del soggetto ad oggetto fra altri, privandolo della sua individualità, del suo ‘accadere’ pieno di

“silenzî”, “oscurità” ed “insufficienze”.E poiché si dà il caso che l’ambito intellettua-

le e professionale a cui appartiene l’autore di quest’articolo è, bene o male, quello dei giuri-sti, egli non può non notare, con incerta soddi-sfazione, che Josef K. eterna la tragicommedia dell’oggettivismo moderno proprio nel corso di un processo.

3 - Il mito del sillogismo

Formalismo e primato dell’astrazione sono una temperie che la dottrina giuridica ha lun-gamente conosciuto, ma verso la quale essa si pone ormai (quasi sempre) in maniera critica. Purtroppo, però, non si tratta semplicemente di un problema della dottrina. Esiste, infatti, un

12 Si v. al riguardo il bel parallelo tracciato da Milan Kundera fra Josef K. e Raskol’nikov (ne L’arte del roman-zo, tr. di E. Marchi, Milano, 1988, pp. 145-150). Mentre il protagonista di Delitto e castigo personifica “la colpa che cerca il castigo”, in quello del Processo “il castigo cerca la colpa”: segno paradossale del dominio della formalità.

pendant dell’accademismo e del Professorenrecht che trova preciso riscontro nella pratica: mi ri-ferisco, segnatamente, all’idea per la quale il di-scorso che più di ogni altro interessa il giurista pratico – quello compendiato nella decisione giudiziale – dovrebbe essere governato secon-do un ordine che assomiglia alquanto a quello delle sequenze causali: dato p, allora q.

Se Tizio ha (o non ha) compiuto una certa azione p, ed esiste una norma giuridica che qualifica tale azione p ascrivendo ad essa una certa conseguenza q, allora, ‘a causa’ di p e del-la norma che la qualifica, Tizio ‘deve’ (o non ‘deve’) subire q.

Questa formulazione simil-causalistica, come si vede anche ad una rapida occhiata, è tutt’altro che nitida e priva di ambiguità (lo stesso Kelsen, nella sua teoria “nomostatica”, sottolineava tutta la problematicità di quel ‘deve’); ciò nonostante essa è divenuta la stel-la polare della logica giuridica di stampo lega-lista. Un vero mito, che affonda le sue origini nell’empirismo sei-settecentesco e nei reitera-ti tentativi di adeguare i processi razionali del diritto a quelli delle scienze formali.

Ed i mitografi del sillogismo giuridico – Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di Montesquieu, e, assieme a lui, Cesare Beccaria – erano indubbiamente abbagliati dal modello epistemologico cartesiano (perfetta-mente oggettivistico: è con costoro che dovreb-be prendersela il povero Josef K.!). Entrambi ritenevano che, essendo il sillogismo una concatenazione logica che conferisce validità formale e persuasività alle sue conclusioni, e disponendo il decisore – grazie alla codifica-zione – degli elementi atti a costituire la sua premessa maggiore, fosse possibile ‘derivare’ un discorso normativo a seguito di una mera ricognizione del fatto e della sua “sussunzione”. La riduzione del ragionamento processuale a sillogismo rappresentava per essi la possibili-tà di chiudere per sempre la porta all’arbitrio interpretativo dei giudici, trasformandoli in rassicuranti automi della deduzione.

Ma davvero questo tipo di narrazione giuri-

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dica è conforme alle procedure scientifiche? E davvero si tratta di una narrazione dotata di continuità?13

Quelle scienze che si occupano della nar-razione dei fenomeni, e che si suole definire empiriche, intessono i loro discorsi a partire da una serie di stipulazioni. Lo scienziato em-pirico comincia il suo lavoro utilizzando, per comunicare, parole dal campo semantico ben definito e noto ai membri della sua comunità. Con esse delimita il suo campo d’indagine, in-dica i suoi strumenti e le modalità del loro uti-lizzo. Così attrezzato, egli procede all’osserva-zione e alla descrizione dei fenomeni: in tutti i casi a, b, c… che costellano lo spazio/tempo della sua osservazione, egli rileva la frequenza di talune ricorrenze (ancora Hume); le descri-ve; ne trae – per induzione – una regola genera-le di connessione fra le cause e gli effetti.

Similmente il teorico, lo scienziato che ope-ra mediante formalizzazioni, dispone di un proprio metodo per conferire continuità alla narrazione. Anch’egli procede da stipulazioni condivise: quando dice “punto”, o “numero”, o altro, i membri della sua comunità sanno di cosa sta parlando, senza ambiguità o reticenze. Il suo metodo gli consente di collegare gli ele-menti del discorso in sequenze logicamente necessitate, traendone inferenze e costruendo dimostrazioni.

Avviene così anche nell’elaborazione del sil-logismo giudiziale?

Invero, nel processo, gli elementi che con-corrono a formare le premesse del sillogismo non sono il frutto di stipulazioni. La premessa maggiore – la norma giuridica – dev’essere tro-vata dal giudice; elucidata nel suo contenuto semantico (la norma è scritta in un linguaggio naturale, epperò vago); eventualmente combi-nata con altre (quali? sarà ancora il giudice a deciderlo). La premessa minore – il fatto – cor-risponde alle risultanze di una serie di proces-si ricostruttivi vincolati al regime probatorio

13 Si perdoni, per le considerazioni che immediata-mente seguono in corpo di testo, l’inevitabile schema-ticità imposta dalle circostanze.

e limitati al materiale reso disponibile in con-traddittorio (così ex-art. 111 Cost. sul “giusto processo”, di natura accusatoria, stabilito dalla novazione del 2001).

Detto così, tutto sembra avvalorare la tesi del-la continuità narrativa, possibile tanto nei di-scorsi della teoria giuridica (in quanto descri-zioni del sistema normativo), quanto in quelli della prassi giudiziale (in quanto applicazioni meccaniche della sussunzione). Atteniamoci ai secondi: davvero, in questo modo, sono evi-tati i problemi dell’interpretazione con le sue oscillazioni semantiche, giusta la prescrizione dell’art. 12 disp. prel. CC14 (premessa maggio-re)? Davvero la ricostruzione in fatto median-te la formazione della prova si risolve nella mutuazione di procedure empiriche dal cam-po tecnico-scientifico15 (premessa minore)?

Questi interrogativi suonano oggi – il primo in particolare – addirittura banali: nella tempe-rie del “post-positivismo” i giuristi concedono (quasi sempre) che la composizione delle pre-messe è tutt’altro che ferrea: trovare la norma e dirne il significato è solo il punto d’arrivo di una stratificazione complessa di atti linguisti-ci, sorretti in ogni punto da scelte (implican-ti, dunque, criterî selettivi tratti dall’universo di conoscenze, esperienze, aspirazioni, valori ecc. del narratore); quanto all’oggettività e uni-vocità delle ricostruzioni scientifiche del fatto, basterà un minimo di esperienza forense (non occorre neppure scomodare la giurispruden-za della Cassazione, voglio dire) per rendersi conto che il ricorso a testimoni, esperti e periti raramente restringe, e più spesso amplifica, le possibili trame della narrazione processuale.

14 “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato pro-prio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” (Art.12 c.1 disp. prel. CC).15 Sull’uso della prova scientifica nel processo cfr. S. Fuselli, Apparenze. Accertamento giudiziale e prova scientifica, Milano, 2008; F. PuPPo, La ‘nuova’ prova scientifica nel processo penale. Alcune riflessioni sul rapporto tra retorica e scienza in: G. Ferrari, m. man-zin (a cura di), La retorica tra scienza e professione lega-le. Questioni di metodo, Milano, 2004, pp. 355-372;

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L’approdo del giuspositivismo al normativi-smo kelseniano ricorda, per certi versi, il so-gno di Hilbert: la riduzione (nel suo caso, della logica matematica) a sistema coerente come risposta ai problemi conoscitivi. Ma la realtà mostrerà esiti ben diversi. Si vedano, ad esem-pio, i processi di costituzionalizzazione dei valori socialmenti condivisi (sottoposti, dun-que, alle complesse dinamiche della società contemporanea); l’internazionalizzazione dei diritti umani; la scomparsa delle ideologie; la porosità degli ordinamenti nazionali; la glo-balizzazione, ecc. Tutti fenomeni che sfuggo-no a qualsiasi possibilità di riduzione forma-le e riconduzione a un ordine sistematico e gerarchico.

Per tutti (per la scienza, per la filosofia, per la politica, per il diritto, per l’economia) la con-clusione sarà: non crediamo più all’esistenza di un ordine in senso assoluto, poiché ci tro-viamo sempre al cospetto di un numero inde-finito di ordini in condizione fluttuante; di una varietà indefinita di situazioni in cui il criterio atto ad organizzare i fenomeni che singolar-mente le contraddistinguono varia di volta in volta, senza poter essere sussunto entro un cri-terio generale e “trans-situazionale”17.

Con un’espressione che ha goduto di largo successo, Natalino Irti ha qualificato la post-modernità giuridica come “l’età della decodifi-cazione” e del “nichilismo”, segnata dal trionfo della tecnica e dei proceduralismi18.

17 Uso il termine nel senso esplicitato soprattutto da G. vattimo (fra i molti luoghi possibili, v. p. es. La società trasparente, Milano, 2000 [nuova ed. accresciuta]).18 Mi riferisco soprattutto a N. irti L’età della decodifi-cazione, Milano, 1999 e id., Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2005. Il proceduralismo è stato uno dei temi prin-cipali discussi al XXII Congresso nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica (Trieste: 27-30 settembre 2000), i cui atti sono raccolti in M. BasCiu (a cura di), Giustizia e procedure, Milano, 2002. Da qui traggo una significativa espressione pronunciata da vattimo nella sua relazione d’apertura (Il procedurali-smo (i proceduralismi) come contrassegno della modernità, pp. 27-36: 35): “Il rapporto proceduralismo-modernità, letto in tutto il suo significato, vuol dire che (…) esso si legittima non in relazione a una qualche struttura data e normativa della ragione umana, ma in corrisponden-

Certa – allora – è solo l’auctoritas che suggel-la le conclusioni in diritto e in fatto, poiché è garantita dalle istituzioni al giudice. In altri termini: certo è solo il fatto del potere che le-gittima il decisore.

La narrazione non è continua. L’aura del mito si dilegua.

4 - Dall’ordine agli ordini

Il pensiero “forte” che più duramente ha patito nel corso del Novecento un indeboli-mento, è stato probabilmente quello della fi-sica classica, a causa della teoria quantistica. Questa dimostrò che la materia stessa non era continua, bensì interrotta da ‘pacchetti quan-tici’ che insinuavano aree di non conoscenza nell’osservazione dei fenomeni. A seguire, in campo logico-matematico, la formulazione del teorema di Gödel sull’indecidibilità dei sistemi formali stroncò le aspettative hilber-tiane di una formalizzazione deduttivistica capace di rappresentare in modo risolutivo qualunque problema teorico. Parallelamente, gli studî sul secondo principio della termodi-namica (Prigogine) introducevano il concetto di “fluttuazione” dell’ordine nei sistemi fisici16, scuotendo dalle fondamenta l’idea di stabilità e prevedibilità che aveva connotato la cosmo-logia classica galileo-newtoniana.

Sono esempî macroscopici, i quali mostrano la vera e propria rivoluzione gnoseologica che nel XX secolo travolge la percezione dell’uni-verso come ordine dotato di continuità, osser-vabile e spiegabile attraverso le narrazioni (a loro volta continue) assicurate dalla scienza.

In filosofia, l’eco di questo irreversibile “inde-bolimento” del pensiero di matrice cartesiana è visibile soprattutto nelle scuole continentali che in varia modalità si richiamano a Martin Heidegger e ai suoi epigoni; nei seguaci della linguistic turn e nelle correnti ispirate dal “se-condo” Wittgenstein; nei cultori dell’erme-neutica, ecc.

E in diritto?

16 M. manzin, Ordine politico ecc., loc. cit.

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A tutto ciò potremmo aggiungere, nel cer-chio della nostra specifica esperienza, tutte quelle vicende istituzionali, politiche e di co-stume che, a partire dai primi anni Novanta, hanno evidenziato la profonda crisi del siste-ma-giustizia in Italia: esso stesso non più un ordine criteriato da un principio durevole, né solidale all’ordine più ampio dello Stato, bensì frazionato e diviso (financo nella sua autopercezione) in situazioni localizzate di poteri, interessi, finalità, tra loro distinti e talvolta confliggenti19.

5 - I buchi sono formaggio?

La frantumazione dell’ordine che contraddi-stingue l’epistemologia post-moderna ha, ov-viamente, le sue conseguenze – e pesanti – in ambito di teoria e fenomenologia del processo. Ne accennerò tra breve. Ma, intanto, si rifletta sul (quasi sempre) sopravvenuto riconosci-mento della discontinuità, in quanto struttu-rale a qualsiasi narrazione.

Vorrei affrontare questo problema, in sé va-stissimo, con una metafora ‘casearia’ che, un po’ per celia e un po’ per non morir, propongo talvolta agli studenti del mio corso di filosofia del diritto (nobilitandola con un’etimologia ri-ferita ai frammenti eraclitei)20. Eccola. Quando

za a una condizione, più ancora post-moderna che mo-derna, nella quale la metafisica, cioè il fondazionalismo, ha perso di credibilità”. Cioè – chioso – nella condizione della rinuncia da parte “della ragione umana” a cercare un fondamento che giustifichi le diverse forme (proce-dure) cui siamo sottoposti.19 Valgano come esempio il frazionamento in correnti ideologicamente connotate dell’Associazione Naziona-le Magistrati, gli aspri contrasti fra potere politico e ma-gistratura, le interposizioni imbarazzanti nell’azione inquirente delle diverse Procure, e altri fatti ancora che costituiscono, ormai, materia di cronaca quotidiana.20 “Tutte le leggi umane, invero, vengono nutrite (tre-phontai) da una sola legge, quella divina” (tr. Colli: fr. 14 [A 11] = DK 22B114 in G. Colli, La sapienza greca. III: Eracli-to, Milano, 1993, p. 29) Tra i suoi significati, trephein in-dica, anche, l’azione di coagulo del formaggio successiva alla cagliatura del latte: metaforicamente, il costituirsi di una forma attuale (non l’unica possibile) entro una potenza non ancora determinata (foriera di molte pos-sibili determinazioni). Per un’interpretazione diversa

acquistiamo, che so, della gruyère, siamo irri-tati dal fatto di trovarvi dei buchi? Potremmo definire quei buchi come ‘non-formaggio’, oppure, al contrario, essi sono ‘strutturali’ a quel formaggio, e c’irriterebbe piuttosto il non trovarne?

Se dessimo retta a Zenone e alla sua interpre-tazione estrema e dualizzante di Parmenide, nessuna collusione sarebbe possibile tra ‘for-maggio’ e ‘non-formaggio’: l’essere è, il non-es-sere non è; tertium non datur. Su questo parme-nidismo si è costituita la nozione moderna di individuo e la sua primazia giuridico-politica21 (non diversamente, in campo fisico e cosmo-logico, la teoria classica aveva inteso come polarmente opposti l’ordine della natura ed il caos). Ma, oggi, la post-modernità ci pone di fronte all’esigenza di reiterare il “parricidio” invocato da Platone, proclamando che “l’esse-re in certo modo non è, il non-essere in certo modo è”22. In altre parole, l’identità fondata solo su se stessa (quella che ha dato origine alle storiche battaglie per l’egalité), assoluta ed astratta, non resiste alle contraddizioni che logica ed esperienza frappongono al suo cam-mino. Qualsiasi processo di determinazione dell’identità (A=A) implica il riconoscimento della differenza (A≠non-A), epperò l’apertura di qualsiasi gnoseologia a campi non omogenei del sapere (sotto questo profilo, la crisi d’iden-tità che attanaglia l’Europa e la sua cultura – il problema delle “radici” – è innanzitutto crisi della nozione d’identità, nozione che essa ha ereditato dall’illuminismo razionalista).

Di ciò sta a lampante esempio la tendenza in atto nel mondo scientifico alla contami-nazione fra le discipline (converging sciences), ovvia conseguenza della crescente diffusio-

(ma concettualmente affine) del trephein eracliteo, v.F. Cavalla, Verità dimenticata, cit., pp. 152-156).21 Su ciò diffus. M. manzin, La barba di Solženicyn e la frammentazione dei diritti umani, «Persona y Derecho», 58: 2008, pp. 455-472.22 “Ciò che non è, in certo senso, è esso pure e ciò che è, a sua volta in certo senso non è” (Platone, Sofista, xxxix 241d. Trad. di A. Zadro in Opere complete, 2, Roma-Bari, 1980, p. 223).

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vibile o inutile, elevando la coerenza espressa dalla forma a criterio massimo di validità. Il proceduralista è addirittura ironico verso la dualizzazione forma/sostanza, poiché in essa rimarrebbe ancora una traccia di “pensiero forte”. Razionalità e sostanza, per lui, sono con-cetti antitetici; porsi il problema della sostanza, della sua distinzione dalla forma, è un atto let-teralmente privo di senso). Il proceduralista è un ‘nichilista positivo’, un bon vivant che rifug-ge le posizioni estreme ed ha a cuore il destino del mondo; sicché, congedatosi con un sorriso benevolente dall’età in cui i filosofi cercavano di conferire certezza alle loro narrazioni del mondo (con la religione, la ragione, l’ideologia o la forma ordinata e gerarchica), accoglie sen-za drammi l’idea che non esiste alcun criterio (fondamento, principio, senso) capace di ordi-nare la vastità dei fenomeni che s’incontrano nell’esperienza. Per esempio, nel caso del dirit-to, non esiste alcuna giustizia. Esistono, appun-to, solo irrelati, puntiformi fenomeni, che di volta in volta il pensiero accomuna sulla base di criterî fuggevoli e totalmente situazionali. A questo radicale scetticismo sulla questione del fondamento, il benevolo proceduralista congiunge tuttavia l’ottimismo del rito, esal-tando quegli standard formali di trattamento fissati dalle norme giuridiche, i quali – benché in-fondati – non mutano per tutti i casi per cui sono stati previsti, garantendo in questo modo la sola uguaglianza concretamente possibile. Il bicchiere del nichilismo, per lui, è mezzo pieno.

Il secondo atteggiamento indotto dalla con-sapevolezza della discontinuità è quello (meno nobilmente intellettuale ma, a mio avviso, po-tenzialmente molto più pericoloso) che si ri-scontra in certa prassi forense, e che tende a comunicarsi ai praticanti ed ai giovani avvoca-ti. Si tratta di un vero e proprio indurimento della coscienza professionale, che altrove ho definito “cinismo giudiziario”24, nel quale si

24 V. in prop. M. manzin, Il cinismo giudiziario e le virtù del meto-do in: P. moro (a cura di), Scrittura forense. Manuale di redazione del parere motivato e dell’atto giudiziale, Torino, 2008, pp. 1-3..

ne delle epistemologie della discontinuità.Dei buchi nel formaggio groviera si dirà,

dunque, che sono essi stessi groviera, poiché l’identità di quel saporito prodotto non è di-sgiungibile da quella dell’apparentemente altro da esso: i buchi, appunto. Né delle anti-nomie, delle lacune, dei processi d’integrazio-ne dei principî nelle regole, delle oscillazioni interpretative, dell’indole probabilistica e fal-sificabile delle rappresentazioni probatorie, ecc. potrà dirsi che siano (normativisticamen-te, kelsenianamente parlando) ‘non-diritto’: esse stanno al diritto tanto quanto i buchi alla gruyère. Sono le possibilità preziose del suo continuo sviluppo.

6 - Le due facce della medaglia

Ho dato per assodato che le dinamiche (qua-si sempre) in atto nei diversi campi dell’espe-rienza e della teoria, avvalorino la tesi per cui nessuna narrazione può aspirare alla con-tinuità, sicché l’ordine sistematico, inteso come paradigma concettuale consegnatoci dalla modernità, apparirebbe ormai irrime-diabilmente infranto, e i suoi dispersi fram-menti brillerebbero sotto la luce indagatrice della conoscenza come i cocci di uno specchio (quello cartesiano del sapere: res cogitans che ‘riflette’ la res extensa) che rifrangono una mi-riade caleidoscopica di bagliori, di colori, di forme, in apparenza irriducibili fra loro.

Vorrei ora mostrare come questa presa d’atto – talvolta consapevole, talaltra meno – da parte dei giuristi, abbia condotto a due esiti distin-ti. O meglio: a due atteggiamenti che, a ben guardare, costituiscono le facce di una stessa medaglia.

Del primo già abbiamo detto: è l’atteggia-mento del proceduralista, di colui che s’appiglia al “salvagente della forma”23 (ma attenzione, costui non è propriamente un formalista: il for-malista prende congedo dalla sostanza, o dal problema della sostanza, che giudica irresol-

23 Cfr. N. irti, Il salvagente della forma, Roma-Bari, 2007.

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distinguono due livelli susseguenti nel tempo. In un primo tempo, ad un livello conoscitivo,

il professionista esordiente constata che tutte le lezioni apprese nel corso della sua formazio-ne universitaria e tramite le pubblicazioni che normalmente utilizza per il suo tirocinio di pre-parazione all’esame di Stato d’avvocato, si ap-plicano poco o punto alla pratica. Quest’ultima sembra costituita piuttosto da una congerie di consuetudini invalse, di usi caratteristici del foro in cui egli opera, e relativi ai soggetti con cui ha a che fare quotidianamente (magistrati, funzionarî del Tribunale, colleghi ecc.) – lon-tani, com’è lontano l’iperuranio, dall’idea di continuità formale rappresentata dal modello sillogistico del ragionamento giudiziale.

In un secondo tempo, a livello psicologico-comportamentale, l’esordiente finisce per imi-tare, soffocando qualsiasi patema teorico (se mai vi fosse stato), il cipiglio del mestieran-te: cinico e disincantato verso le raffinatezze della dottrina, e teso piuttosto a introiettare le astuzie e le disinvolture dei colleghi più esperti e consumati. Egli interpreta la sua for-mazione forense come il risveglio all’età adul-ta, al ‘mondo reale’, così diverso dai lirismi del Professorenrecht, e fatto di diuturne battaglie con la schizofrenia del legislatore, la volubilità dei giudici, la pervicacia dei clienti, gli sgam-betti dei colleghi di controparte, le disfunzioni delle cancellerie, ecc. Problemi che non hanno proprio nulla di logico, anzi: la mancanza di qualsiasi logica è esattamente la ragione della loro essenza problematica.

Ecco dunque le due facce della stessa meda-glia: quale medaglia? Quella del potere. Potere, ovvero poteri, che stabiliscono i riti e le pro-cedure, gli usi e le astuzie, ma che non hanno

– ricordiamolo – per il nichilista alcun fonda-mento (principio, senso) durevole. Poteri che rendono cinico il mestierante del foro, indu-cendolo ad una rinculante sottomissione (l’av-vocaticchio) o ad una roboanza priva di scru-poli (l’avvocatone)25. E allora – shakespeariana-

25 Su queste figure, che costellano da secoli la letteratu-ra e le altre forme di espressione artistica dell’occidente

mente – Let’s kill all the lawyers! (sarebbe, d’altra parte, possibile concludere diversamente?).

7 - Apologia della retorica forense

Senonché, proprio perché la medaglia è unica, potremmo forse permetterci di rifiutarla in toto, opponendo al segno del (mero) potere, quello della (ricerca della) verità, di cui il processo è virtualmente “un formidabile laboratorio”26. Alla medaglia sulle cui facce sta scritto: aucto-ritas non veritas facit legem, appuntata sul petto di tutti coloro che ritengono la logica estranea ai processi decisionali che si realizzano nel foro, potremmo obiettare che la logica ch’essi hanno in mente è solo quella del sillogismo e della sussunzione, buona per i discorsi dota-ti di continuità (i quali sono sempre astratti), ma inapplicabile alle situazioni concrete e ai discorsi discontinui che le caratterizzano.

Spieghiamoci meglio. Esiste, certamente, una verità che connota tutte le conclusioni coerentemente dedotte dalle premesse del ragionamento: la verità intesa come validità formale – che si consegue, appunto, entro una forma, un ordine di tipo continuo, un sistema. La logica della matematica ne rappresenta l’espressione sicuramente più rilevante. Essa, come ho detto per brevi cenni, abbisogna di un contesto nel quale siano fissate le premes-se mediante un linguaggio artificiale e univo-co. Tale contesto è però introvabile nelle aule dei tribunali, dove si confrontano e si scon-trano discorsi molteplici, in un linguaggio naturale, e senza alcun accordo sulle ‘premes-se’. L’atto finale di codesti discorsi è, come sappiamo, destinato al suggello dell’auctoritas giurisdizionale, ma in sé ciò non dovrebbe

(e su cui oggi indagano gli studiosi di law and literature), v. le taglienti osservazioni di Cavalla, in chiusa al suo Re-torica giudiziale ecc., cit., p. 84 ed – eventualmente – la mia nota esplicativa in: Del contraddittorio come princi-pio e come metodo (M. manzin - F. PuPPo [a cura di], Au-diatur et altera pars. Il contraddittorio fra principio e regola, Milano, 2008, pp. 3-21: 12, nt. 26).26 L’espressione è di Cavalla, nella sua Prefazione alla se-conda edizione di Retorica processo verità, cit., p. 15.

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impedire di tentarne il governo attraverso opportuni strumenti logici (diversamente, lo stesso obbligo di motivazione della senten-za apparirebbe privo di senso). E ‘opportuni’ significa ‘adeguati alle circostanze’: alla poli-vocità, controversialità, asimmetria, transito-rietà, perfettibilità del contesto forense.

Esiste una verità che si attagli a quest’ordine discontinuo? Qualcosa che sia capace di collega-re in modo razionalmente approvabile gli ele-menti eterogenei della narrazione processuale (e senza la quale l’espressione ‘ordine disconti-nuo’ sarebbe null’altro che un ossimoro)? Una rotta, insomma, sulla quale la navicella del ra-gionamento possa giungere al porto della san-zione giudiziale?

Citerò ancora Kundera: “A mano a mano che si affonda nell’avvenire, l’eredità del «moderni-smo antimoderno» acquista grandezza”27. Vale a dire che per essere, come voleva Rimbaud,

“absolumment moderne” (cioè adeguati all’av-venire, disposti a lottare contro il destino di

“uniformità senza pari” che attende la fine del-la modernità)28, bisogna diventare capaci di porsi in maniera critica verso la modernità e i suoi miti. Capaci di attraversarne i prodotti concettuali più caratteristici (l’individualismo, l’egualitarismo, la tecnica) sino ad individuar-ne l’origine: quei dilemmi fondamentali cui essi volevano dare soluzione. Se il bagliore ras-sicurante delle soluzioni moderne si sta oscu-rando, quei dilemmi rimangono però autentici e degni di essere ancora (e sempre) affrontati.

Uno di tali dilemmi, radicato al sorgere del-la civiltà europea (la Grecia), era il seguente: il giudizio delle azioni umane è inevitabilmente affidato al destino (e alle forze cui esso con-sente di farsi valere), o tali azioni si possono misurare e pesare sulla base della capacità di dirne le ragioni? L’usignolo perirà sempre di fronte allo sparviero (Esiodo)? Davide di fron-te a Golia? (Israele: anch’esso alle origini della civiltà europea). Il mite seguace del Galileo di fronte all’onnipotente Cesare? (Infine Roma,

27 Kundera, L’arte del romanzo, cit., p. 196.28 Ibid. p. 209.

la cristianità: ancora radici, ancora Europa). Conosciamo la risposta della classicità a que-sto dilemma: è il costante tentativo di applica-re la ragione ai problemi dell’esperienza. Per esempio: di difendersi da un’accusa, spiegando; di giudicare, motivando.

Una ragione che sia capace di governare il dia-logo, di comporre i conflitti, di sottrarre spazio alla forza, distinguendo ed unendo (mostran-do il diverso e il comune), secondo l’espressio-ne che è propria del “logos” stesso29. E poiché il “logos” è insieme luce ed ombra, pienezza e vacuità, identità e differenza – è discontinuo – anche le capacità della ragione mostreranno quest’ambivalenza, questo destino di pieno e di vuoto, di ricordo e di oblio. Essa narrerà, sì, ma in modo discontinuo.

Lungi dal rinunciare alla ragione – alla logica – l’ordine infranto della modernità dovrebbe spingerci a rinnovare i nostri sforzi per ope-rare sul terreno dei “silenzî”, delle “oscurità” e delle “insufficienze” nel modo già sperimenta-to dalla classicità, approfondendolo e adattan-dolo alle nuove circostanze. Il che significa in primo luogo, e concretamente: smettendo di pensare alla verità processuale come all’esito di un procedimento logico-formale (inscritto nella forma-ordinamento) e di riscontri empi-rici obiettivi, per pensarla, invece, come l’ap-provabilità su base razionale di proposizioni che non trovano, in quel preciso luogo e mo-mento, opposizioni altrettanto razionalmente approvabili30. Proposizioni determinate in un contesto (quello forense) dialogico, controver-siale, linguisticamente vago, privo di premes-se assiomatiche.

Determinate in che modo?Qui, soccorre il patrimonio di tecniche logi-

29 Si v. nel merito le profonde riflessioni di Cavalla in tutta la Parte Terza del suo La verità dimenticata, cit.30 Quanto qui esposto sulla “verità retorica” è lunga-mente illustrato e motivato da Cavalla nel cit. Retori-ca giudiziale, logica e verità. Ad esso doverosamente si rimanda per una visione approfondita di quanto, in questa breve ‘apologia della retorica forense’, si è inteso proporre come alternativa all’ordine infranto dei proce-duralismi privi di fondamento (su cui v. supra nota 18).

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l’espressione fiduciosa di un “modernismo antimoderno”, capace di agire in modo antici-clico sulla frantumazione proceduralista e sul cinismo metodologico.

Prima che ci sommerga l’“uniformità senza pari”.

Maurizio ManzinProfessore ordinario di filosofia del diritto nell’Università degli Studi di Trento, direttore del Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica.

co-discorsive che, antecedentemente alla sepa-razione cartesiana fra i saperi, erano compen-diate nel simbolo del trivium (ben note ai giu-risti dell’età classica e del diritto comune, cioè ai teorici e ai pratici di un ius percepito senza drammi come ordo discontinuo)31: gramma-tica, dialettica, retorica; procedimenti razio-nali sorgenti da, operanti con, e destinati alla, pratica concreta (ossia: artes), e mai da questa avulsi. In breve, strumenti di una “razionalità pratica” (fronesis), secondo l’insuperata defini-zione di Aristotile.

Dobbiamo, oggi, soprattutto a Francesco Cavalla il merito di aver riportato nell’orbi-ta degli studî di filosofia del diritto questo patrimonio, che rappresenta, a un tempo, la cifra del nostro poter essere originariamen-te europei e la possibilità di affrontare posi-tivamente i rischi della modernità esplosa (almeno per quanto attiene le tematiche del ragionamento processuale e di quella che egli chiama la “filosofia forense”)32. Dalla sua in-tuizione e dai prodotti scientifici della sua ricerca è nato il CERMEG, Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica: società di giuri-sti d’accademia e di foro che coltiva, fra le sue finalità, quella dello studio e della diffusione (in ambito formativo, professionale e deonto-logico) della retorica forense.

Questo mio breve scritto – frutto di un in-contro con l’avvocatura triestina e con i par-tecipanti al “Master in analisi e gestione della comunicazione (modulo di comunicazione giuridica)” dell’Università di Trieste33 – vo-leva essere soltanto un protrettico a questa prospettiva; una sorvegliata apologia della ra-zionalità entimematica applicata al processo;

31 Per un’analisi del rapporto fra i giuristi dell’età clas-sica e la retorica, si v. i diversi contributi di M. miGlietta, G. santuCCi e U. vinCenti in: G. Ferrari - M. manzin (a cura di), La retorica fra scienza e professione legale, Milano, 2004, pp. 207- 288 (Parte Seconda: “La retorica nelle fonti giu-ridiche classiche”).32 Titolo che qualifica specificamente alcuni volumi della Collana “Filosofia del Diritto” diretta dal Maestro padovano e pubblicata per FrancoAngeli, Milano.33 Incontro svoltosi presso la Facoltà di Scienze della Formazione il 16-17 ottobre 2008.

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La formazione retorica del giurista contemporaneo

Paolo Moro

Abstract

Negli studi di giurisprudenza, la didattica si cristallizza nell’esposizione del diritto positivo o di una logica pura, distante dalla vita forense, oppure si limita alla divulga-zione d’una particolare abilità tecnica.La mediazione unificante tra teoria e prassi può essere offerta da una metodologia didattica non solo informa-tiva, ma anche performativa: l’insegnamento del diritto non può limitarsi al trasferimento al discente delle cono-scenze della normativa e della sua interpretazione, ma deve estendersi al coinvolgimento del medesimo nell’ap-prendimento pratico delle tecniche di soluzione del caso controverso.La metodologia che consente di sviluppare nell’insegna-mento del diritto gli elementi performativi della dialettica

Parole chiave:

Didattica processuale - Educazione giuridica Scuola forense - Retorica - Metodologia Argomentazione - Formazione - Cooperative learning - Problem solving - Role playing Simulazione processuale - Avvocato

1 - La formazione deL giurista

Non pare azzardato affermare che gli stu-di accademici di giurisprudenza in Italia

siano tutt’oggi incapaci di offrire a chi conse-gue la laurea magistrale un’adeguata compe-tenza pratica per affrontare il tirocinio nello specifico campo professionale dell’avvocatura, della magistratura e del notariato.

Per converso, non risulta temerario aggiun-gere che la formazione e l’aggiornamento dei giuristi pratici organizzate dai diversi ordini professionali appare esclusivamente orientata alla soluzione empirica di problemi contin-genti e non è in grado di completare la prepa-razione professionale con un adeguato appro-fondimento culturale.

Questa situazione di disorientamento è tutt’oggi accentuata dal distacco tra formazio-

ne nozionistica ed istituzionale, di regola or-ganizzata dalle università, e apprendimento pratico e utilitaristico, di regola controllato dalle corporazioni professionali.

La denunciata frattura culturale deriva dal duplice modello di formazione degli studi di giurisprudenza che si è sviluppato in Europa nell’età moderna e che appare ancora larga-mente influente nel paradigma didattico delle università1.

Infatti, pur conservando le reciproche di-versità storiche e organizzative delle distinte

1 Sulle origini storiche e sui problemi metodologici dell’insegnamento del diritto in Europa, cfr. , A. Giuliani e N. Picardi (a cura di) L’educazione giuridica. 1. Modelli di università e progetti di riforma; 2. L’ educazione giuridica da Giustiniano a Mao: profili storici e comparativi, Perugia, 1979 (seconda edizione a cura di N. Picardi e R. Martino, Bari, 2008).

processuale è la retorica forense, che permette di superare il razionalismo normocentrico della dogmatica ottocentesca e l’empirismo tecnocratico dell’utilitarismo postmoderno, ripercorrendo con gli strumenti tecnici della civiltà contem-poranea l’antica riflessione filosofica sul valore didattico dell’argomentazione e della discussione nel diritto.

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accademie nazionali, l’educazione giuridica in Europa presenta obiettivi e metodi di forma-zione prevalentemente concettuale e teorica in Germania e in Italia, mentre appare precipua-mente orientata alla preparazione professio-nalizzante e pratica in Francia e in Inghilterra: è importante notare che entrambi questi mo-delli hanno un’origine comune nel prototipo didattico, ad un tempo razionalista ed empiri-sta, dell’Illuminismo giuridico e dell’universi-tà statuale dell’Ottocento2.

Questo modello di privilegio della formazio-ne teorica del giurista è ripreso in Italia dalla legge Casati del 1859 ma soprattutto dalla ri-forma Gentile del 1933, che accentua la prefe-renza per la promozione della cultura giuridi-ca e della ricerca scientifica che ancor oggi si svolge solo nelle università e condiziona l’in-segnamento accademico del diritto.

Pertanto, la formazione scientifica di carattere prevalentemente teorico-culturale organizzata in Italia (confermata dal corso quinquennale di laurea magistrale delle facoltà di giurispruden-za disciplinato dal D.M. 22 ottobre 2004, n.270) conduce il giurista ad essere interprete ed elabo-ratore della norma positiva e, dunque, a diventa-re essenzialmente un diligente studioso oppure un impegnato consulente.

Nella formazione giuridica universitaria post lauream, che in Italia si svolge nelle scuo-le di specializzazione per le professioni legali istituite con D.M. 27 dicembre 1999 n. 531, la mancanza di abilitazione pratica si accentua perché costituisce ripetizione dell’antitesi so-pra delineata, con prevalenza della trasmissio-ne del sapere dogmatico-istituzionale durante il corso di laurea e dell’addestramento dell’abi-lità professionale nel percorso specializzante successivo.

Nel modello italiano, peraltro, la preferenza per la ricerca e il disinteresse per la didattica, pur essendo totalmente incompatibili con l’università di massa, si evincono dal taglio co-munemente dato ai corsi e dall’analisi dei libri di testo adottati, sebbene sia evidente l’esigen-za di indicare prospettive di rinnovo della me-

2 Cfr. N. Picardi, L’educazione giuridica, oggi, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 3, 2008, p. 365 e sg.

todologia d’insegnamento3 riconsiderando il profilo pratico e professionalizzante della pre-parazione giuridica dello studente.

Invero, nella definizione della classe del cor-so di laurea magistrale in giurisprudenza (de-liberata con D.M. 25 novembre 2005 n. 27703), il legislatore italiano ha rinnovato l’ordina-mento didattico delle Facoltà giuridiche indi-cando alcuni obiettivi formativi qualificanti che tengono conto dell’opportunità di coniu-gare approfondimento teorico e addestramen-to pratico.

In particolare, si è stabilito che i laureati in giurisprudenza devono:

- aver conseguito elementi di approfondi-mento della cultura giuridica di base naziona-le ed europea, anche con tecniche e metodolo-gie casistiche, in rapporto a tematiche utili alla comprensione e alla valutazione di principi o istituti del diritto positivo;

- possedere capacità di produrre testi giuri-dici (normativi e/o negoziali e/o processuali) chiari, pertinenti ed efficaci in rapporto ai con-testi di impiego, ben argomentati, anche con l’uso di strumenti informatici;

- possedere in modo approfondito le capacità interpretative, di analisi casistica, di qualifica-zione giuridica (rapportando fatti a fattispecie), di comprensione, di rappresentazione, di valu-tazione e di consapevolezza per affrontare pro-blemi interpretativi ed applicativi del diritto.

Questa separazione tra teoria e prassi costitu-isce il riflesso di un’aporia teoretica, tipica del materialismo razionalistico dell’età contem-poranea o postmoderna, nella quale si preten-de dogmaticamente che tutto sia contingente e si assolutizzano l’efficienza e l’utilità della decisione giuridica4, generando nel praticante e nel giovane avvocato un autentico cinismo giudiziario5.

3 Cfr. F. Lombardi, Prospettive per una nuova metodologia nella didattica, in G. Rebuffa e G. Visintini (a cura di) L’insegnamento del diritto oggi, Milano, 1996, p. 246.4 Cfr. F. cavaLLa, Pena e riparazione. Oltre la concezione liberale dello stato: per una teoria radicale della pena, in F. Cavalla e F. Todescan (a cura di)., Pena e riparazione, Padova, 2000; F. d’agostiNo, La giustizia tra moderno e postmoderno, in Filosofia del diritto, Torino, 2000, p. 141.5 Cfr. m. maNziN, Il cinismo giudiziario e le virtù del me-todo, in P. moro (a cura di), Scrittura forense. Manuale di

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Infatti, entrambi i modelli formativi (che talora contrappongono gli studiosi dell’acca-demia da una parte e i professionisti del foro dall’altra) si pretendono apodittici ed esclusivi e sono il frutto di un doppio eccesso, poiché escludono di considerare che la formazione culturale e l’avviamento alla professione del giurista debbono essere unificate in un per-corso comune di apprendimento conoscitivo e di addestramento pratico perché costituiscono due facce della stessa medaglia.

Il dogmatismo di questa visione degli studi di giurisprudenza si manifesta anche nella di-dattica che, da un lato, si cristallizza nell’espo-sizione del diritto positivo o di una logica pura, distante dalla vita forense, e che, dall’altro lato, si limita alla divulgazione d’una particolare abilità tecnica diretta a formare autentici «in-gegneri» del diritto.

Questa situazione di evidente crisi del mo-dello formativo italiano, che presuppone la centralità della legislazione statuale, è accen-tuata dalla progressiva formazione di ordina-menti giuridici effettivi non tanto sovranazio-nali, come quello comunitario europeo, ma so-prattutto transnazionali o, meglio, trasversali, come la lex mercatoria prodotta da contratti e arbitrati coordinati dalle migliori law firms, con conseguente «sconfinamento» dalle tra-dizionali frontiere del diritto moderno6.

2 - La didattica normocentrica

Nell’insegnamento istituzionale il diritto è concepito e insegnato come un insieme di norme secondo un percorso formativo che si assume possa essere organizzato secondo i ca-noni della logica formale e del ragionamento deduttivo.

Anzitutto, questo equivoco nasce dall’acco-glimento nella metodologia didattica della concezione normativista del positivismo giu-ridico formalistico. Appare sul punto perti-nente riproporre anche in questa sede un’acuta ma sempre attuale osservazione formulata da Sergio Cotta, secondo il quale «di fronte alle in-

redazione del parere motivato e dell’atto giudiziale, Torino, 2008, p. 1 e sg.6 Cfr. m.r. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Roma-Bari, 2007.

quietudini attuali dei giuristi e alla vastità delle trasformazioni in atto nella società, c’è chi, per strano che ciò possa sembrare, resta fermo alla ottocentesca concezione giuspositivistica»7.

Poi, a questa visione «normocentrica» della didattica giuridica si accompagna il pregiudi-zio che il percorso formativo debba essere con-trollato dai canoni della logica formale di ma-trice analitica (dal greco analýo, scompongo o divido) e che, pertanto, la docenza del diritto debba procedere da una premessa indiscussa (la norma positiva) per giungere ad un risul-tato ad essa logicamente coerente (l’interpre-tazione dottrinale) oppure empiricamente verificabile (la massima giurisprudenziale), secondo il tipico schema sillogistico del meto-do scientifico.

Questa prospettiva presuppone una didat-tica informativa, diretta alla trasmissione se-quenziale di contenuti concettuali al discente, che subisce passivamente le cognizioni espo-ste dal docente.

Pertanto, la didattica del diritto si presenta in una forma:

- concettuale, perché basata sull’illustrazione astratta delle norme positive e della loro inter-pretazione dottrinale e giudiziale;

- sistematica, perché fondata sulla struttura gerarchica e formalistica delle norme apparte-nenti all’ordinamento giuridico;

- sequenziale, perché articolata in fasi esposi-tive scandite da una classificazione formalisti-ca che presuppone un’apodittica preminenza delle norme sulla loro applicazione forense;

- descrittiva, perché puramente narrativa de-gli istituti giuridici che disciplinano fattispecie prestabilite, apparentemente astratte dall’espe-rienza conflittuale dei rapporti sociali.

3 - La didattica processuaLe

Per superare la concezione normocentrica e informativa della formazione giuridica, ten-tando di mediare le indispensabili esigenze dello studio teorico e dell’addestramento pra-tico, occorre trovare un paradigma metodolo-gico che consenta di coniugare sapere giuridi-co e abilità forense.

7 Cfr. s. cotta, La sfida tecnologica, Bologna, 1968, p. 153.

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La formazione retorica del giurista contemporaneo 45

La mediazione unificante tra teoria e prassi può essere offerta da una metodologia didatti-ca non solo informativa, ma anche performati-va: l’insegnamento del diritto non può limitar-si al trasferimento al discente delle conoscen-ze della normativa e della sua interpretazione, ma deve estendersi al coinvolgimento del me-desimo nell’apprendimento pratico delle tec-niche di soluzione del caso controverso.

Una metodologia didattica performativa8 impone la partecipazione attenta dell’udito-re all’attività di comunicazione del sapere in quanto non costituisce attività il cui scopo è esterno al suo prodursi come fare (poieín), ma realizza il proprio fine nello stesso atto in cui si propone come agire (práttein)9.

Questa impostazione consente di persegui-re negli studi di giurisprudenza almeno due obiettivi formativi, che caratterizzano anche l’identità didattica della filosofia del diritto10: la natura interdisciplinare dell’ordinamento giuridico sul piano teorico; la proiezione pro-fessionale del sapere giuridico sul piano pra-tico.

Pertanto, in questa prospettiva, la didattica forense si presenta in una forma:

- problematica e non concettuale, perché ba-sata sulla discussione interrogativa;

- casistica e non sistematica, perché fondata sulla questione controversa;

- discontinua e non sequenziale, perché arti-colata su fattispecie imprevedibili;

- argomentativa e non descrittiva, perché ca-ratterizzata da opinioni criticabili.

In particolare, gli obiettivi cognitivi della di-dattica giuridica potranno così essere raggiun-ti non mediante una logica didattica lineare, che prevede fasi progressive di apprendimen-to degli istituti giuridici secondo uno schema continuo e preordinato (come quello indicato nei codici), ma secondo una logica circolare, che procede per approssimazioni successi-

8 Cfr. J.L. austiN, Come fare cose con le parole, Genova, 1987.9 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 4, 1140 a 1-23.10 Cfr. b. moNtaNari, Filosofia del diritto: identificazione scientifica e didattica, oggi, in B. Montanari (a cura di) Filosofia del diritto: identità scientifica e didattica, oggi (Atti del Seminario di Studio - Catania, 8-10 maggio 1992), Milano, 1994, p. 139 e sg.

ve all’indagine di singoli problemi secondo un programma discontinuo e indeterminato (come quello proposto dai casi controversi).

Il fenomeno giuridico più adeguato per me-diare didattica teorica e formazione pratica e per garantire la funzione formativa interdisci-plinare (essendo presente in tutti i rami del di-ritto) e professionalizzante (essendo determi-nante per l’addestramento del giurista pratico) è il processo.

Invero, l’accoglimento critico di una metodo-logia didattica performativa conduce a consi-derare meglio difendibile nella formazione del giurista una prospettiva processuale del diritto, secondo cui momento specifico ed irrinuncia-bile dell’esperienza giuridica è la controversia giudiziale, che si manifesta come fenomeno ontologicamente (anche se non cronologica-mente) originario rispetto alla regola legale la quale, appunto, soltanto nel processo trova la propria applicazione e interpretazione11.

Infatti, l’efficacia pedagogica di una meto-dologia didattica attiva può manifestarsi in molteplici procedimenti di apprendimento cognitivo basati sull’esperienza sociale, valo-rizzando la relazionalità del singolo all’inter-no del gruppo, come accade nell’analisi teorica e nella discussione pratica della controversia giuridica.

Fra i vari processi cognitivi che caratterizza-no un’esperienza didattica attiva e che imitano lo studio preliminare del caso controverso e il dibattito giudiziale del medesimo favorendo l’apprendimento cooperativo (cooperative lear-ning) si segnalano la discussione interattiva (brainstorming), la soluzione del conflitto co-gnitivo (problem solving), il lavoro di gruppo (workshop), il gioco di ruolo (role playing)12.

L’utilizzo di pratiche dialogiche nella espo-sizione e nella discussione di temi e problemi intrinsecamente controversi ha natura origi-nariamente filosofica ed implica la costituzio-ne nel gruppo discente di una comunità di-scorsiva che non si limita soltanto all’appren-

11 Chi scrive si è soffermato su questa prospettiva in La via della giustizia. Il fondamento dialettico del processo. Con l’«Apologia di Socrate» di Platone, Pordenone, 20042.12 Cfr. E. Nigris, S.C. Negri e F. Zuccoli (a cura di), Esperienza e didattica. Le metodologie attive, Roma, 2007.

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La formazione retorica del giurista contemporaneo 46

dimento passivo di un sapere e di una tecnica, ma che collabora attivamente all’indagine del problema controverso ed alla ricerca della sua soluzione13.

3 - didattica e retorica forense

La metodologia che consente di sviluppare nell’insegnamento del diritto forense gli ele-menti performativi della dialettica processua-le è la retorica14.

In questa prospettiva, che attinge ai fonda-menti culturali della logica giudiziaria, l’argo-mentazione retorica è analoga all’argomenta-zione dialettica e si svolge necessariamente nel quadro di un dialogo tra due interlocutori, ciascuno dei quali sostenga una tesi opposta rispetto a quella dell’altro non in una semplice conversazione, ma (similmente a quanto ac-cade nel processo) nella discussione e nel con-fronto di posizioni contrastanti 15.

Questa connotazione processuale e dialetti-ca della retorica forense rimarca l’efficacia pe-dagogica di questa metodologia per la forma-zione e l’apprendistato del giurista.

Nella mentalità classica, la retorica forense è un’attività (téchne o ars) che presuppone una particolare abilità soggettiva (ingenium) in chi la pratica e che è organizzata da una metodolo-gia argomentativa, non da uno schema di rego-le da applicare secondo un modello precostitu-ito. Aristotele precisa che, diversamente dalla sofistica, la retorica deve insegnare l’arte (per esempio, il metodo di concreta stesura dell’atto difensivo) e non il prodotto dell’arte (per esem-pio, il formulario standard) (Retorica, 1355 b).

13 Cfr. m. saNti, Fare filosofia in classe. Un approccio dialo-gico ispirato alla teoria dell’attività, in L. Illetterati (a cura di), Insegnare filosofia. Modelli di pensiero e pratiche didat-tiche, Torino, 2007, p. 94 e sg.14 Sull’importanza della retorica nell’insegnamento del diritto in una prospettiva processuale, cfr. c. PereLmaN, La réforme de l’enseignement du droit et la nouvelle rhétori-que, in N. Picardi e R. Martino (a cura di), L’educazione giuridica. 1. Modelli di università e progetti di riforma, Bari, 2008, p. 3 e sg.; a. giuLiaNi, The influence of Rhetoric on the Law of Evidence and Pleading, , in N. Picardi e R. Martino (a cura di), L’educazione giuridica. 1. Modelli di università e progetti di riforma, Bari, 2008, p. 217 e sg.15 Cfr. e. berti, Logo e dialogo, in Studia Patavina, 42, 1995.

Sicché, essendo il più adatto metodo di ana-lisi del caso giuridico e di produzione della persuasione giudiziaria, la retorica forense si può insegnare ed apprendere compiutamente soltanto con l’esercizio (práxis) e con lo studio e l’applicazione della dialettica che il giurista sperimenta costantemente prima e durante il processo.

Invero, riorganizzare oggi una scuola di re-torica forense per preparare i giuristi significa superare il razionalismo normocentrico della dogmatica ottocentesca e l’empirismo tecno-cratico dell’utilitarismo postmoderno, riper-correndo con gli strumenti tecnici della civiltà contemporanea l’antica riflessione filosofica sul valore dialettico dell’argomentazione e del-la discussione.

In questa visione, che unifica istruzione concettuale e formazione operativa, la didat-tica forense diventa un aspetto fondamentale nell’educazione del retore, chiamato a rispon-dere alla vocazione che gli è più propria e con-geniale e che consiste nella difesa della libertà e della dignità umana16, in attuazione di un percorso culturale tramandato dai Greci con la nozione di paideía e dai Latini con il concetto di humanitas.

Paolo MoroAvvocato, direttore della Scuola Forense di Pordenone, docente nell’Università degli Studi Padova (sede di Treviso) e nel master in Analisi e Gestione della Comunicazione.

16 Cfr. F. cavaLLa, Retorica giudiziale, logica e verità, in Retorica, processo, verità, Milano, 2007.

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La comunità linguistica slovena in Italia e la sua percezione dell’ordinamento giuridico italiano

Damijan Terpin

Occorre premettere che la comunità lin-guistica slovena in Italia (di seguito: mi-

noranza slovena) appare, dal punto di vista lin-guistico, perfettamente integrata: si tratta di una comunità, che è completamente bilingue, in grado di intendere e percepire tutto quan-to viene espresso nella lingua maggioritaria (italiana), né più né meno della maggioranza italiana, pur essendo la lingua madre dei suoi appartenenti appunto lo sloveno.

Anzi, si pone per la minoranza slovena un problema inverso. Pur sussistendo un sistema scolastico in lingua slovena idoneo a prepa-rare, ad esempio, gli studenti della minoran-za slovena ad affrontare qualsivoglia facoltà universitaria così in Italia come in Slovenia, nel senso di prepararli linguisticamente, sì da metterli in condizione di seguire un percorso accademico sia in lingua slovena che in lingua italiana, per quanto concerne il linguaggio giu-ridico sloveno, o meglio, la percezione di un insieme normativo in lingua slovena, la situa-zione attuale si presenta nettamente diversa.

Mentre, quindi, gli appartenenti alla mino-

ranza slovena, frequentando scuole elemen-tari, medie inferiori e superiori con lingua d’insegnamento slovena (licei, istituti tecnici e quant’altro) acquistano una conoscenza lin-guistica dell’italiano, come evidenziato, idonea ad affrontare qualsivoglia studio universitario in lingua italiana, vivendo in una realtà sociale maggioritariamente italiana, dimostrano cer-tamente, come sopra evidenziato, una mag-giore facilità di percezione di un ordinamento in lingua italiana rispetto a un ordinamento in lingua slovena.

Paradossalmente quindi, la minoranza slo-vena, pur avendo una propria lingua madre di-versa da quella italiana, è ormai, giunta ad un livello di integrazione che, purtroppo, sarebbe più corretto definire ormai di assimilazione, tale da percepire un complesso normativo nel-la lingua italiana con una facilità nettamente maggiore, rispetto ad un complesso di norme espresso in lingua slovena.

Non si tratta, in verità, solamente di perce-pire ed intendere due sistemi giuridici diversi – quello italiano rispetto a quello sloveno - che

Relazione presentata in occasione del convegno inter-nazionale di studi su La comunicazione giuridica fra enti pubblici e soggetti privati. Analisi del discorso giuridico fra normazione e retorica forense nelle aree di confine fra Friuli Venezia Giulia, Slovenia e Croazia.

Parole chiave:

BilinguismoMinoranza slovena in ItaliaTutela della minoranzeTraduzione giuridica

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La comunità linguistica slovena in Italia e la sua percezione ... 48

care in tutti i campi nella propria madre lin-gua, comincia a non essere più una comunità linguistica.

Nel campo giuridico, per quanto io possa averlo percepito, la situazione è quindi netta-mente più difficile. Mi sento di affermare che l’ordinamento giuridico italiano è percepito – dal punto di vista della chiarezza o meno di percezione o comprensione - dalla comunità linguistica slovena allo stesso identico modo di come lo può percepire la maggioranza ita-liana. La pressoché identica conoscenza e/o padronanza della lingua italiana, da parte de-gli appartenenti alla comunità slovena rispet-to alla maggioranza italiana sopra evidenziata, mi consente di affermare che differenze di percezione, in questo campo, non ve ne siano. Stante il titolo del mio intervento, potrei quin-di chiudere qui.

Credo però – anche sé a questo punto dovrei quindi modificare il titolo del mio intervento, oppure, più semplicemente sto andando fuori tema - utile analizzare invece l’aspetto “reale” della norma astratta, come essa si “cala” nella realtà quotidiana, oppure, questione ancor più importante, come la previsione normati-va astratta viene a raggiungere o meno la ratio, per la quale è stata pensata, e ciò per quanto concerne la normativa italiana di tutela del-la minoranza linguistica slovena del Friuli Venezia Giulia.

Quanto sopra evidenziato, in tema di moda-lità di percezione dell’ordinamento italiano dagli appartenenti alla minoranza slovena, non vale certamente più nel momento in cui si tratta, per loro, di esercitare, di mettere in pra-tica, in sostanza, di “vivere e rendere reali” quei propri diritti linguistici, che le normative di tutela - ed in particolare la legge n. 38/2001 per la tutela della minoranza linguistica slovena, oltre ad esempio la legge n. 482/1999 di tutela delle 12 minoranze cosiddette storiche, i dirit-ti riconducibili ai vari trattati internazionali (Trattato di Osimo, Memorandum di Londra ed allegato Statuto Speciale del 1954) le nume-rosissime sentenza delle Corte Costituzionale, norme speciali sull’ordinamento scolastico sloveno, trattati europei in tema di tutela delle minoranze e quant’altro) - loro riconoscono.

hanno tradizioni naturalmente diverse, condi-zionate, all’evidenza, da passati sistemi politi-co economici nettamente diversi – basti pen-sare a 50 anni di sistema socialista monopar-titico e di economia statale rispetto ai 50 anni, post-guerra, di un sistema democratico, pluri-partitico e di economia di mercato in Italia. Si tratta soprattutto quindi di un’assoluta man-canza, nella media degli sloveni in Italia, di ca-pacità linguistiche riferite al campo giuridico, che probabilmente non trova paragoni in altri campi o nelle altre scienze.

Non è solamente, credo, un problema di padronanza della mera terminologia tecni-co giuridica, ma ritengo sia soprattutto un problema di assimilazione linguistica della minoranza, la quale per troppo tempo non ha trovato, e non trova tuttora, soddisfazione concreta e riconoscimento concreto di quei strumenti giuridici – una legge di tutela seria, ma soprattutto la sua attuazione – che avreb-bero consentito alla minoranza di bloccare, o quantomeno frenare, l’inesorabile processo di assimilazione, che colpisce tutte le minoranze linguistiche.

È del tutto evidente che una minoranza et-nica o linguistica slovena, come la vogliamo chiamare, un tanto sussiste in quanto i suoi membri, oltre a sentirsi appartenenti ad un determinato popolo - nel qual caso il popolo sloveno - hanno la caratteristica di esprimersi, e di considerare quindi come propria lingua madre, appunto in sloveno. Orbene, quando questa capacità espressiva, che così intima-mente denota la caratteristica etnica, nazio-nale o linguistica, che dir si voglia, di una plu-ralità di soggetti che si caratterizzano proprio per il modo con il quale questi comunicano, ovvero per la lingua nella quale si sprimono, viene a mancare o comincia a “scricchiolare” l’elemento determinante di questa apparte-nenza, e cioè l’elemento fondamentale che li caratterizza – la lingua – è del tutto evidente che comincia ad affievolirsi se non addirittura a disperdersi proprio ciò che più intimamen-te li denota: la loro appartenenza linguistica od etnica.

Detta in parole semplici, quando una comu-nità linguistica non è più in grado di comuni-

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La comunità linguistica slovena in Italia e la sua percezione ... 49

L’esempio più eclatante è il concetto di “tran-sazione”, che sistematicamente, in tutti i mez-zi di informazione in lingua slovena stampati o prodotti in Italia, viene tradotto con la parola “tranzakcija”, che invece nel linguaggio tecnico (giuridico o commerciale o bancario) slove-no invece vuol dire tutt’altra cosa (operazione commerciale, operazione bancaria, pagamento o similari). Un tanto si protrae e si ripete ormai da anni, e sembra quasi che l’abbia notato solo il sottoscritto, il quale, avendo la fortuna di segui-re, studiare ed applicare pressoché quotidiana-mente anche l’ordinamento della Repubblica di Slovenia, ritiene di essere in grado di distingue-re i concetti giuridici in lingua slovena in modo del tutto diverso.

Tornando al campo dell’esercizio dei diritti, soprattutto quelli linguistici, previsti dalle cita-te fonti normative, ho accennato ai rapporti con la P.A.

Mi domando, a distanza di sette anni dall’ap-provazione della citata L. 38/2001, quanti ap-partenenti alla minoranza slovena hanno pre-sentato domanda alla P.A. per una concessione edilizia o più semplicemente un autorizzazione amministrativa qualsiasi nella propria lingua. La mia domanda non pone solo una questione di coscienza nazionale, cioè di sentire un pro-prio diritto e non aver paura ad esercitarlo, ma-gari perché si teme che l’autorizzazione, ambita ed attesa, possa venir negata poiché redatta nel-la lingua minoritaria – tale timore è ancora pre-sente, non ce lo possiamo nascondere, anche se l’atteggiamento generale della maggioranza nei confronti di chi esercita anche pubblicamente un proprio diritto linguistico e nettamente cam-biato, soprattutto a seguito della democratizza-zione della Slovenia, del suo ingresso nell’UE, della caduta del confine e l’allargamento a Est dell’area Schengen, come anche a seguito della crescita economica registrata negli ultimi anni in Slovenia e tutto ciò, nel complesso , ha cer-tamente reso più positivo il generale concetto di “sloveno” – ma pone anche e soprattutto un problema di capacità di esprimere concetti giu-ridici, riferiti ad istituti del diritto amministra-tivo, civile o penale che sia, dell’ordinamento giuridico italiano in lingua slovena. Questo è il nocciolo della questione.

L’esercizio dei diritti linguistici, sopratutto per quanto concerne l’uso della lingua minoritaria nei rapporti con la Pubblica Amministrazione, diventa complesso per il semplice motivo, che il bagaglio linguistico nel campo delle espressio-ni giuridiche è nella comunità slovena assoluta-mente limitato.

Posso affermare con certezza un tanto, poiché dalla mia, seppur relativamente breve, esperien-za professionale ho potuto dedurne le prove:

Mi è capitato, ad esempio, di dover redige-re un atto – un semplicissimo ricorso avverso un verbale di una contravvenzione stradale – in lingua slovena, ai sensi della legge 482 che consente agli appartenenti alle 12 minoranze riconosciute dalla suddetta legge, tra le quali c’è anche quella slovena, di ricorrere al Giudice di Pace nella propria madre lingua.

Certamente, anche un qualsiasi cittadino, ap-partenente alla maggioranza italiana, non sarà in grado di redigere un ricorso al Giudice di Pace con un linguaggio tecnico, proprio del pro-fessionista – avvocato o giurista che sia. Ma le difficoltà incontrate dal sottoscritto nel caso di specie, mi portano a concludere come sopra.

Se un avvocato, e parlo per esperienza perso-nale, nel redigere un atto nella propria lingua madre, lo sloveno, quale è un ricorso al Giudice di Pace, che invece in lingua italiana non può certamente rappresentare un problema, trova le difficoltà che ho incontrato io, allora mi do-mando, quali enormi problemi incontra un cit-tadino qualsiasi, nel dover redigere un ricorso del genere in lingua slovena, rispetto alle nor-mali difficoltà che invece incontra un apparte-nente alla maggioranza italiana nel redigere un atto analogo.

Altro esempio in cui si nota questa enorme difficoltà è dato dalla lettura degli organi di in-formazione in lingua slovena. Nell’affrontare questioni che in qualche modo sono collegate al diritto – soprattutto ad esempio nel riporta-re informazioni in ordine a processi penali, o controversie civili, a questioni di diritto ammi-nistrativo dei singoli comuni, regioni ecc. o rap-porti con gli organi suddetti, i mezzi di infor-mazione in lingua slovena si trovano a scrivere ed usare terminologie che poco o nulla hanno a che fare con il linguaggio giuridico.

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La comunità linguistica slovena in Italia e la sua percezione ... 50

zi pubblici (Poste). Ma si tratta, per la maggiore, di “mosche bianche”, che si moltiplicano e ri-generano con estrema fatica. Paradossalmente, l’attuazione della normativa di tutela minorita-ria dipende dalla volontà politica, ed il concetto la legalità quindi si traduce in quello di volontà, il che rappresenta, per me, la morte del diritto. Il tutto per il semplice fatto che la tutela minori-taria, o meglio, la mancata attuazione di questa tutela, prevalentemente, non conosce sanzioni, salvo rarissime eccezioni, come ad es. l’appli-cazione dell’art. 109 del c.p.p. in ordine all’uso della lingua minoritaria nel processo penale, previsto appunto, a pena di nullità.

Il secondo presupposto per poter parlare di una vera comunicazione giuridica tra enti pub-blici e soggetti privati appartenenti alla mi-noranza slovena è la dotazione, da parte della P.A. di strumenti che le consentano di eserci-tare questa comunicazione: si presuppongono quindi finanziamenti che allo stato la P.A. non ha, pur previsti nella L. 38/2001, ma mai messi a bilancio o mai utilizzati, siccome inattuate ri-sultano, a livello sublegislativo ed attuativo/re-golamentare le disposizioni delle stessa legge. Strumenti di traduzione, assunzione e forma-zione di interpreti specializzati, predisposizio-ni di modulistiche, divulgazione dei diritti del-la minoranza e delle opportunità ad esercitarli, tutto ciò allo stato, non sussiste.

Il terzo presupposto, a mio avviso, è rap-presentato poi dalla possibilità o capacità, dei soggetti privati di esercitare ancora questa co-municazione in lingua minoritaria, possibilità o capacità condizionata, come abbiamo visto, dalla padronanza linguistica in campo giuri-dico che, temo, non sussita a sufficienza. Dico esercitare “ancora” volendo sottolineare il fat-tore temporale, che per la mancata attuazione, sino ad oggi, dei due presupposti anzidetti, ha portato la minoranza slovena nella condizione, oggi più volte esposta, di non essere, quasi, più in grado di svolgere una comunicazione giuri-dica nella propria madre lingua.

Avv./Odv. Damijan TerpinForo di Gorizia e Foro di Ljubljana

Più che un problema di percezione, è quindi un problema di espressione. L’assimilazione linguistica è evidentemente progredita sino ad una fase tale, da non consentire più ai benefi-ciari delle normative di tutela, di poterle nem-meno più utilizzare. Paradossalmente, quindi, ottenute finalmente le norme – seppure con un ritardo di oltre 60 anni, se si considera la data di entrata in vigore dell’ art. 6 della Costituzione – non siamo più in grado di utilizzarle.

Non mi addentro quì nell’esame, tutto socio-logico - non è il mio campo - di quanto un’ap-partenente alla minoranza slovena percepisca come “proprio” l’ordinamento italiano. Mi do-mando invece quanto in più potrebbe percepir-lo come proprio, di quanto non lo percepisca già oggi, ove tale ordinamento fosse tradotto, a cura e spese dello Stato, anche nella lingua mi-noritaria. Non tutto il complesso normativo, s’intende – quello italiano ha peraltro la carat-teristica di essere gigantescamente sproporzio-nato, per numero di leggi in vigore, rispetto a numerosissimi ordinamenti degli altri Stati – ma almeno la scarna normativa di tutela delle minoranze, od almeno, in estremo subordine, quella specifica, riferita alla comunità slovena. Non sussiste, allo stato, a distanza di 7 anni dal-la sua approvazione, né una traduzione ufficiale né una ufficiosa della L. 38/2001. Non sussiste una benché minima modulistica, presso la P.A., nella lingua minoritaria, salvo rare eccezioni, tra le quali, devo sottolinearlo, i modelli per la dichiarazione dei redditi. Per il resto il nulla quasi assoluto.

In sintesi, non credo si possa proprio parlare di comunicazione giuridica tra enti pubblici e soggetti privati appartenenti alla minoranza slovena. Una “comunicazione” in tal senso pre-supporrebbe, nei fatti, innanzitutto un minimo di disponibilità, il che appartiene però alla sfera della volontà politica, e che, allo stato, si registra solamente nelle amministrazioni pubbliche rette dagli stessi appartenenti alla minoranza slovena, come ad es. alcuni piccoli comuni. Ci sono delle eccezioni assolutamente pregevoli: la Prefettura di Gorizia, ad esempio, ma anche alcuni segnali incoraggianti provenienti da cer-ti singoli organi periferici dello Stato (Agenzia delle Entrate) o da alcuni concessionari di servi-

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Note introduttive alla tavola rotonda su Libertà di informazione e giustizia tra Lodo Alfano e recentidisegni di legge sulla pubblicità degli atti processualiTrieste, 18 dicembre 2008

Marco Cossutta

Dopo essersi richiamato al pensiero politico di Aristo-tele, il contributo tende ad evidenziare le tendenze de-magogiche presenti all’interno di proposte legislative ricomprese nel cosiddetto “lodo Alfano”, in particolare si esamina la recente legge sulla sospensione del pro-

cesso penale nei confronti delle alte cariche dello stato e la proposta di legge in materia di intercettazioni tele-foniche, ritenendo necessario un equo bilanciamento dei beni giuridicamente protetti, che pare non trasparire dall’analisi dei testi.

Abstract

Sommario

1. Il “lodo Alfano” fra demagogia e demo-crazia. Alcune considerazioni preliminari; 2. Sereno funzionamento versus serenità personale. Alcune considerazioni a margine della legge n. 124 del 23 luglio 2008; 3. Tute-la della privacy e diritto/dovere all’infor-mazione fra interesse pubblico e pubblica curiosità. Note sul disegno di legge n. 1415.

Parole chiave:

democrazia/demagogialodo Alfanobilanciamento costituzionale dei dirittilibertà di stampadiritto dovere di cronaca

1 - Il “lodo Alfano” fra demagogia e demo-crazia. Alcune considerazioni preliminari

Tra i vari difetti e le molte critiche, un in-dubbio merito va riconosciuto, a parere di

chi scrive, alla legge n. 124 del 23 luglio 2008 e, più in generale, ai disegni di legge accomu-nati sotto la dizione di “lodo Alfano”, fra i qua-li spicca, per l’autorevolezza istituzionale del suo presentatore, il Ministro della Giustizia, quello del 30 giugno 2008 contrassegnato dal numero 1415 (Camera dei Deputati); il disegno riceve approvazione dal Consiglio dei Ministri in data 13 giugno.

Queste iniziative legislative, alcune già giun-te a conclusione, altre in fase di discussione, si inseriscono a pieno titolo in quella felice sta-gione, che, iniziatasi nella primavera del 2008,

all’approssimarsi dell’inverno, culminò con la (ennesima e vaga) proposta di una inderogabi-le riforma costituzionale.

A ben vedere, la assoluta positività di questo processo apparentemente inarrestabile non sta tanto nei suoi possibili esiti pratici, i qua-li possono essere condivisi od osteggiati ed il giudizio sui quali ci appare, per l’appunto, vin-colato da opzioni e scelte valoriali soggettive, tanto da dover riconoscere che questi esiti ine-vitabilmente saranno di parte.

La positività di questo processo, che anche in questa sede andiamo ad indagare, sta nel ri-chiedere strumenti di analisi in vero particola-ri, così desueti da non comparire quasi più fra gli strumenti prioritari (per lo meno a detta dei promotori del processo stesso) in dotazione ad enti preposti alla riflessione scientifica ed alla

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fronti delle alte cariche dello Stato”, poi (di cui alla legge 124 dello scorso anno), sia non solo pienamente riconducibile, ma anzi domina-bile soltanto per tramite delle intuizioni del-lo Stagirita ci viene con chiarezza indicato in un autorevole commento della sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 2004, la quale, come noto, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l’articolo primo della sopra richia-mata legge 140 del 2003, rende l’ordinamento giuridico italiano orbo del cosiddetto “lodo Schifani”.

Sergio Stammati, sulle pagine di “Giustizia costituzionale”, inserisce la richiamata legge del 2003 e la pronuncia della Suprema Corte, all’interno di una più generale “questione rap-presentata dal conflitto fra una concezione solo maggioritaria e una più complessa e inclusiva concezione costituzionale della democrazia”2.

Qui l’Autore utilizza un significante unico (la democrazia), il quale si declina e si specifica in due diverse accezioni (maggioritaria e costi-tuzionale), tanto da far apparire i significati dei due sintagmi (democrazia maggioritaria, da un lato, democrazia costituzionale, dall’altro) come due specie dello stesso genere che, come tali, pur nella loro precipuità, non appaiono con-figgenti e contraddittore l’un l’altra.

Ma ancora una volta, sia pur indirettamente, Schifani prima, Alfano poi, ci inducono a spin-gerci, pur non rinnegandole, oltre alle tre i, ed a ritornare ad Aristotele, il quale, sia pur per bocca di Laurentini, non usa lo stesso sostan-tivo per designare i due regimi in cui “la mas-sa regge lo stato” (Politica, III, 7, 1279a, 38). Da un lato egli individua la politia, in cui il regime popolare bada all’interesse comune, dall’altro la democrazia, regime che non opera conforme-mente “al vantaggio della comunità” (Politica, III, 7, 1279b, 10).

Al di là della questione terminologica, acu-ita dai problemi di traduzione del sostantivi δημοκρατία e πολιτεία, la sostanziale dif-ferenza è data nel pensiero di Aristotele3 fra

2 S. Stammati, Una decisione condivisibile messa in forse da un impianto argomentativo perplesso e non persuasivo, in “Giustizia costituzionale”, XLVIII (2004), n. 1, p. 399.

3 Vedi anche l’Etica Nicomachea, VIII, 10, 1160a, 31- 1160b, 25.

educazione alla critica, i quali, senza questa inaspettata necessità di indagare ciò che per comodità chiamiamo “lodo Alfano”, certamen-te di qui a poco si sarebbero arroccati intorno alle tre i di impresa, di inglese, di informatica.

Ed ecco un primo esito indiretto e forse pa-radossale date certe politiche sull’istruzione: il “lodo” non può essere scientificamente inda-gato e compreso per mezzo dei soli strumenti che i promotori dello stesso vorrebbero asse-gnare alle istituzioni educative. L’indagine sul nostro oggetto non può venire affrontata pro-ficuamente all’interno di una struttura attratta dalla ineludibile ed esclusiva modernità delle tre i e, nel contempo, fortemente ipotecata dal rapporto costi-ricavi.

Il “lodo Alfano”, sia pure involontariamente, ci fa riscoprire l’utile inutilità dei classici per-mettendoci di riconoscere la assoluta centrali-tà del pensiero politico e giuridico classico, che non è riducibile all’esaltazione incondizionata dell’impresa, dell’inglese, dell’informatica, an-che se, a ben vedere, li ricomprende problema-ticamente al suo interno.

Nella traduzione curata da Renato Laurentini per i tipi della Laterza1, possiamo leggere nel-la Politica di Aristotele il seguente passo, che, forse, senza la felice stagione di cui sopra, sareb-be ricaduto nell’oblio in attesa di un novello Averroè.

Il passaggio è il seguente: “quante costituzio-ni mirano all’interesse comune sono giuste in rapporto al giusto in assoluto, quante, invece, mirano solo all’interesse personale dei capi sono sbagliate tutte e rappresentano una deviazione dalle rette costituzioni: sono pervase da spirito di despotismo, mentre lo stato è comunità di li-beri” (Politica, III, 6, 1279a, 18-23).

Il passo aristotelico qui richiamato appare indi-spensabile per poter avviare una seria (in quanto scientifica ed oggettiva) riflessione anche sulla specifica portata di alcune proposte legislative e della legge 124 del 2008 in particolare.

Che il problema centrale in materia “di proce-dimenti penali nei confronti delle alte cariche dello Stato”, prima (vedi legge n. 140 del 2003), o “di sospensione del processo penale nei con-

1 Aristotele, Opere, vol. 9, Politica, Trattato sull’economia, trad. it di R. Laurentini, Roma-Bari, 1989.

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mati storici o priorità logiche. [… La sua] uni-tà è garantita, per un lato, dal carattere rigido delle norme costituzionali, e, per un altro, dal-la capacità delle classi dominanti di prevenire particolarismi e rifiutare privilegi”5.

Nuovamente, ed ora su suggerimento dell’in-signe civilista, siamo indotti ad ancorare le ri-flessioni, che hanno preso l’avvio dal contin-gente “lodo Alfano”, al pensiero classico e ri-scoprire il concetto di giusta misura (μεσότης), anche questo presente nella (e fondante la) speculazione pratica aristotelica.

Come apprendiamo dalla lettura del libro secondo della Etica Nicomachea, l’attività etica (“essa riguarda le passioni e le azioni, ed è in esse che s’incontrano l’eccesso, il difetto e la po-sizione di mezzo”, Etica Nicomachea, II, 6, 1106b, 16) è l’arte dell’intuizione dei rapporti umani, siamo quindi nell’ambito dell’attività della po-lis; è la capacità, derivante dall’esercizio prati-co, di cogliere nei rapporti la giusta misura tra il difetto e l’eccesso, ma questa misura “non è unica né uguale per tutti”, non essendo misura matematica (Etica Nicomachea, II, 6, 1106a, 30-35), e difatti per Aristotele “la virtù è quindi la disposizione ad un proponimento consistente nella medietà rispetto a noi stessi, definita dalla ragione e come l’uomo saggio la determinereb-be” (Etica Nicomachea, II, 6, 1107a, 36).

Nonostante la sua apparente vacuità, è la co-stante ricerca della giusta misura che permette ai rapporti umani di qualificarsi come rappor-ti politici e non come rapporti dispostici, nei quali l’uomo “è oggetto di proprietà animato e ogni servitore è come uno strumento” (Politica, I, 4, 1253b, 31) finalizzato agli obiettivi del pa-drone (Politica, I, 3, 1253b, 1-23). Ma l’autorità padronale non è eguale all’autorità politica né può manifestarsi con le stesse modalità; “l’autorità del padrone e dell’uomo di stato non sono la stessa cosa e neppure tutte le altre forme di dominio sono uguali tra loro, come pretendono taluni: l’una si esercita su uomini per natura liberi, l’altra su schiavi: inoltre l’am-ministrazione della casa è comando d’uno solo mentre l’autorità dell’uomo di stato si esercita su liberi ed eguali” (Politica, I, 7, 1255b, 16-23).

L’inesauribile ricerca della giusta misura

5 N. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1979, p. 37.

forme di regime che, a prescindere dalla loro conformazione, perseguono l’interesse della comunità (queste sono, nella traduzione di Laurentini4, la monarchia, l’aristocrazia, la po-litia), e quelle che, invece, badano all’interesse particolare (la tirannide, l’oligarchia e la de-mocrazia). Pertanto possiamo riconoscere due generi declinati entrambi in tre specie; il pri-mo genere, al quale si riconnettono le specie appartenenti alla prima triade, si caratterizza attraverso il perseguimento del bene della co-munità, il secondo genere, al quale apparten-gono le specie della seconda triade, si connota per perseguire l’utile di colui o coloro che de-tengono il dominio.

In questa accezione, riprendendo il contribu-to di Stammati, la democrazia maggioritaria e la democrazia costituzionale non sarebbero specie dello stesso genere, ma costituirebbe-ro due generi diversi e, pertanto, offrirebbero all’osservatore caratteristiche configgenti e fra loro contraddittorie.

Avuto riguardo alle definizioni lessicali corren-ti potremmo rinominare i due ambiti di espe-rienza con il sostantivo demagogia il primo e con il sostantivo democrazia il secondo.

Nella prima, la demagogia, la particolare pre-tesa si oppone e si sovrappone ai diritti di tutti, sicché l’utile individuale, istituzionalizzato sotto forma di legge, prevale sul bene della comunità; nella seconda, la democrazia, i diritti dei cittadi-ni ritrovano vigenza all’interno di una tassologia valoriale pur sempre in ridefinizione, ma in ogni caso informata dal bene comune.

Volendo usare un lessico meno legato alla grecità classica possiamo prendere a prestito il pensiero di Natalino Irti, il quale nel 1978, scri-vendo di decodificazione, annotava come allora ci si trovasse di fronte ad “un sistema [politico e giuridico] policentrico, che non riconosce pri-

4 Laurentini riprende la consolidata tradizione risa-lente a Costanzi e Viano, che traducono πολιτεια con politia; Armando Plebe, nel tradurre, sempre per i tipi della Laterza, l’Etica Nicomachea (Aristotele, Opere, vol. 7, Etica Nicomachea, Roma-Bari, 1988), preferisce usare il termine governo, perché “così si rende evidente anche in italiano l’ambiguità del termine greco”. Sulle varie accezioni di πολιτεία cfr. F. Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, Padova, 1983, pp. 137 e segg.

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ria di sospensione del processo penale nei confron-ti della alte cariche dello Stato) e del disegno di legge 1415 (Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. Modifica del-la disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione della discipli-na sulla responsabilità amministrativa delle per-sone giuridiche) emerge con evidenza un dato. Entrambe le disposizioni, l’una già entrata in vigore, l’altra, magari in virtù della democrazia maggioritaria di cui sopra, prossima all’appro-vazione, inducono a porre l’accento su una ricognizione, valutazione e bilanciamento di diritti costituzionalmente protetti.

La legge 124 del 2008, che solo apparente-mente ricalca la parte della legge 140 del 2003 abrogata per illegittimità costituzionale, si incentra, per riprendere l’espressione usata della Corte costituzionale nella sentenza 24 del 2004, sul diritto “al sereno svolgimento delle rilevanti funzioni” inerenti alle alte ca-riche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidente del Senato, Presidente della Camera dei Deputati e Presidente del Consiglio dei Ministri), che potrebbe venire inficiato dal proseguimento di processi penali, in cui i ti-tolari delle stesse cariche siano imputati per reati extrafunzionali, ovvero per ogni reato che non sia espressamente previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione. Tale diritto, sempre a detta della Suprema corte, inerisce, come ben rimarca la relazione illustrativa del ministro Alfano, ad “un interesse apprezzabile”.

Va ribadito come la Corte rilevi che il diritto delle alte cariche dello Stato al sereno svolgi-mento delle loro funzioni a fronte di accuse penali, possa sì essere tutelato, ma tale tutela deve avvenire in “armonia con i principi fon-damentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale”. In tal senso, potrà palesarsi una sospensione del processo penale solo se questa appare fun-zionale non soltanto al mantenimento, ma anche al consolidamento dello Stato di diritto, che risulterebbe l’entità da tutelare anche at-traverso questo tipo di provvedimento legisla-tivo.

Sicché il bene giuridico tutelato sarebbe il pubblico interesse alla piena efficienza degli

all’interno dei rapporti politici fa sì che gli stessi avvengano fra uomini ugualmente libe-ri pur nella loro diversità (“se per qualcuno il mangiare dieci mine è troppo e il mangiarne due è poco, il maestro di ginnastica non per questo ordinerà di mangiare sei mine; infatti per chi deve ricevere questa razione, essa può essere pure molta oppure poca: per Milone in-fatti è poca, per un principiante di ginnastica è molta”, (Etica Nicomachea, II, 6, 1106a, 35 – 1106b, 5).

Fuor di metafora, l’aristotelica giusta misura permette di compenetrare dialetticamente esi-genze diverse, di soppesare e valutare, come è ac-caduto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del gennaio 2004, diritti costituzionalmen-te protetti di modo tale che le pretese dell’uno non prevarichino i diritti di tutti.

In questo senso ritengo utile concludere questa parte introduttiva e prodromica all’esa-me delle disposizioni comprese nel cosiddetto “lodo Alfano”, prendendo a prestito le parole del mio Maestro: “quale intelligenza della giu-sta misura, la politica costituisce la condizio-ne del formarsi di ogni società particolare; è garanzia dell’adeguatezza di ciascuna di esse alla ragione particolare in funzione della quale si è formata, è disciplina dei loro rapporti re-ciproci e quindi degli spazi a ciascuna conve-nienti; è fattore d’equilibrio in vista del Bene. Portando alle estreme conseguenze il discorso, Aristotele può dire che «la polis è condizione per la vita di ciascuno» come l’essere padrone di se stesso è condizione della sua libertà. Solo l’intelligenza politica, infatti, impedisce alla solidarietà familiare di trasformarsi in nepoti-smo, alla onorabilità del commerciante di pro-porsi come legge morale, alle regole militari di imporsi come modello educativo, al singolo di credersi l’unico al mondo”6.

2 - Sereno funzionamento versus serenità personale. Alcune considerazioni a mar-gine della legge n. 124 del 23 luglio 2008

Sia pur da una sommaria sincronica lettura della legge 124 del 2008 (Disposizioni in mate-

6 F. Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, cit., pp. 38-39.

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promana dalla volontà popolare” della alte ca-riche dello Stato coinvolte nel provvedimento, ben evidenziata nella relazione illustrativa del disegno di legge del 2 luglio 2008, la Corte co-stituzionale, nella sua composizione integra-ta, prevista al comma settimo dell’articolo 135 della Costituzione, potrebbe assolvere a tale delicato compito di mediazione politica.

Va da sé che tale ultima e specifica prospetti-va non può essere percorsa attraverso il ricorso al legislatore ordinario e, quindi, alla maggio-ranza semplice.

Pare invece dalla lettura del testo legislativo approvato dal Parlamento e dalla relazione il-lustrativa che tale non sia la ratio dello stesso. Pare, infatti, che l’asse della disposizione legi-slativa in oggetto sia sbilanciata, per così dire, verso la serenità personale del funzionario più che verso la tutela dell’interesse pubblico. Nel supporre aprioristicamente un oggettivo im-pedimento dell’alto funzionario ad accostarsi al processo penale, da cui la sua sospensione, il testo legislativo prevede, al comma secondo dell’articolo primo: “l’imputato o il suo difen-sore munito di procura speciale può rinuncia-re in ogni momento alla sospensione”, di cui al richiamato comma primo.

Se tale innovazione rispetto alla legge 140, soddisfa sicuramente il diritto di difesa dell’im-putato, che invece appariva leso dalla disposi-zione del 2003 qui richiamata, pone in tutta evidenza come l’artefice della valutazione sul possibile o meno, per riprendere le parole del-la Corte costituzionale, “sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quel-le cariche” sia l’incaricato stesso, che, imputato in un processo penale, valuta e decide in totale autonomia se il suo comparire o meno nello stesso sia conforme alla salvaguardia dell’inte-resse pubblico supremo: dello Stato di diritto.

Sicché, ad un impedimento oggettivo ed au-tomatico corrisponde, nella normativa vigen-te, una soggettiva valutazione (sic volo) di sog-gettivo non impedimento.

Il problema è presto detto: o si valuta, di volta in volta, l’impatto che un procedimento pena-le, che vede come imputato una delle massime cariche dello Stato, implica per la conservazio-ne ed il consolidamento dello Stato di dirit-

organi dello Stato, che potrebbe venire meno-mata da una chiamata in giudizio di una alta carica dello Stato in uno Stato di diritto, non cer-tamente la serenità personale del singolo sog-getto ricoprente tale carica. Infatti, come viene sottolineato nella sentenza del gennaio 2004, “sotto questo aspetto la misura appare diretta alla protezione della funzione”, non dell’alto funzionario.

Posta la questione in altri termini, si può af-fermare che ulteriori tipologie di sospensione del processo penale possano introdursi nell’or-dinamento, anche per tramite di legge ordina-ria, soltanto se la non sospensione del, ovvero-sia il procedere con il, processo penale, porti nocumento ad un regime basato sullo Stato di diritto, avuto riguardo al quale la funzione as-solta dall’organo monocratico è strumentale.

In questa ottica l’impedimento a comparire non può considerarsi oggettivo; la constata-zione dell’impedimento legittimo sarà la ri-sultante di una procedura di accertamento, la quale non potrà che venire informata dal ri-chiamo al bene tutelato, che è, per l’appunto, il sereno funzionamento dello Stato di diritto e non, lo ribadiamo, la serenità personale del fun-zionario.

Se la questione è fin qui correttamente posta, allora di volta in volta dovrà essere sostanzial-mente accerta la rilevanza dell’impedimento avuto riguardo al bene protetto, e non for-malmente presupposta in una disposizione legislativa caratterizzata da quella generalità ed astrattezza che pervade il comma primo dell’unico articolo della legge 124 del luglio 2008: “salvo i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei con-fronti dei soggetti […] sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione”.

Se si ritiene, ed a ragione, che la norma deriva-bile da tale disposizione, la previsione non au-tomatica della sospensione del processo penale per le alte cariche dello Stato per reati extrafun-zionali, tuteli un interesse pubblico rilevante, allora la sospensione dovrà essere stabilita da un organo dotato di terzietà ed indipendenza rispetto a quelli richiamati nella legge 124. In considerazione “alla fonte di investitura, che

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litico ed amministrativo”.Sicché, in questa prospettiva, la serenità perso-

nale di questo alto funzionario ha finalità, sia pur sottilmente, diverse da quella degli altri; alla prima è direttamente connessa “la politi-ca generale del Governo”, ovvero gli interessi della maggioranza che sorregge la compagine governativa, che sono ben diversi dall’interes-se pubblico o, per richiamare una espressione ricavabile dal dettato Costituzionale ed in par-ticolare dall’articolo 98, primo comma, dall’in-teresse della Nazione.

Se ciò è vero, a maggior ragione la disposizio-ne legislativa in oggetto necessita di profonda revisione e di recepire nella sua interezza le in-dicazioni contenute nella sentenza n. 24 della Suprema Corte.

3 - Tutela della privacy e diritto/dovere all’informazione fra interesse pubblico e pubblica curiosità. Note sul disegno di leg-ge n. 1415

Il disegno di legge Norme in materia di inter-cettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. Modifica della disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione del-la disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, presentato dal Ministro della Giustizia il 30 giugno dello scorso anno, presenta, anch’esso, una comparazione fra beni giuridicamente tutelati.

Come si evince dalla Analisi tecnico-norma-tiva, che accompagna la relazione illustrativa alla proposta di legge, “l’intervento normativo proposto incide sulla delicata materia delle in-tercettazioni telefoniche e ambientali, al preci-puo fine di contemperare in maniera più ade-guata rispetto all’attuale disciplina le necessità investigative e la libertà dei cittadini di essere informati in ordine alle vicende giudiziarie di pubblico interesse, nonché il diritto degli stes-si a vedere tutelata la loro riservatezza”.

Pur non volendo entrare nei particolari del disegno di legge, preme anzitutto rilevare come lo stesso, nel ridefinire le norme relative ai presupposti per autorizzare le intercettazio-ni telefoniche7 , escluda in via di principio una

7 Per brevità non darà qui conto delle singole tipolo-

to, da cui il sereno funzionamento dello stesso, e tale valutazione viene presa da un organo terzo ed indipendente dalle cariche richiama-te, in modo tale, come indica la sentenza del gennaio 2004, che la sospensione del proces-so sia strumentale al miglior assetto dello Stato di diritto, oppure, di converso ed in palese violazione dell’articolo 3, comma primo della Costituzione, si individua come bene tutelato la serenità personale dell’alto funzionario, il qua-le, per meglio svolgere le sue funzioni, di fatto usufruisce della sospensione del processo pe-nale che lo vede coinvolto come imputato.

Che la prospettiva della legge in questione sia indirizzata in questo senso, ovvero in una direzione distinta da quella tratteggiata dalla sentenza della Corte costituzionale, a cui la re-lazione illustrativa pur si richiama, è bene evi-denziato da un passo della stessa a commento del comma secondo dell’articolo primo della legge 124. Per l’incaricato del dicastero della Giustizia “sotto il profilo della ragionevolezza, inoltre, va evidenziato che la disposizione con-tenuta nel comma 2 è conforme alla ratio legis, in quanto la rinuncia alla sospensione assume un valore obiettivo, dimostrando che, nel caso concreto, lo svolgimento del processo non in-terferisce con il «sereno svolgimento della ca-rica», alla cui esclusiva tutela è preordinato il meccanismo della sospensione”.

Il “valore obiettivo” della rinuncia alla so-spensione del procedimento penale a carico in realtà assume nella concretezza il valore di una valutazione prettamente soggettiva, che pre-varica la tutela del interesse pubblico; e ciò a maggior ragione per una della quattro cariche istituzionali investite da tale prerogativa.

Se, di fatti, pur possedendo “natura eminen-temente politica”, come evidenzia la relazione illustrativa più volte richiamata, il Presidente della Repubblica, ex articolo 87, comma primo, “rappresenta [pur sempre] l’unità nazionale”, ed i Presidenti dei due rami del Parlamento hanno una funzione notarile e di coordinamento dei lavori parlamentari, al Presidente del Consiglio dei Ministri spettano, fra l’altro, i compiti asse-gnatigli dall’articolo 95 della Costituzione: egli “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo po-

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di procedura penale, preferisco soffermare bre-vemente l’attenzione su sugli altri due aspetti della manovra tutelatrice della privacy.

Per quanto concerne l’acquisizione indebi-ta di notizie relativa ad procedimento penale, riscontriamo anzitutto, per tramite delle pro-poste di modifica dell’articolo 114 del Codice di procedura penale, contenute all’articolo 2 del disegno di legge, un restringimento della possibilità di informare il pubblico sull’anda-mento di inchieste giudiziarie; infatti, ai sensi della nuova formulazione del comma secondo sarebbe impedita la pubblicazione di “atti di indagine preliminare nonché di quanto acqui-sito nel fascicolo del pubblico ministero e del difensore, anche se non sussiste più il segreto, fino a che non siano concluse le indagini preli-minari ovvero fino al termine dell’udienza pre-liminare”; viene anche riformulato in senso restrittivo il comma settimo, che attualmente consente la pubblicazione di atti non coperti dal segreto. In questo senso, ogni inchiesta verrebbe secretata alla opinione pubblica, per-lomeno sino al termine delle indagini prelimi-nari.

A questo proposito, si rileva una proposta di innalzamento della pena editale prevista per il reato di cui all’articolo 379 bis (Rilevazione di segreti inerenti a un procedimento penale) del Codice penale; l’articolo 13 del disegno di legge propone di innalzare la sanzione comminata, attualmente prevista con un massimo editale di un anno, da uno a cinque anni di reclusione; lo stesso articolo prevede l’introduzione del nuovo reato di Accesso abusivo ad atti del proce-dimento penale, che dovrebbe numerarsi come 617 septies, ai sensi del quale, “chiunque me-diante modalità o attività illecita prende diret-ta cognizione di atti del procedimento penale coperti dal segreto è punito con la pena della reclusione da uno a tre anni”.

A queste indicazioni si somma per il profes-sionista dell’informazione quanto disposto dalla modifica dell’articolo 115 del Codice di procedura penale; ai sensi del comma terzo dell’articolo 2 della proposta di legge, il pro-fessionista iscritto al registro degli indagati per violazione del divieto di pubblicazione va segnalato dal Procuratore della Repubblica

serie di comportamenti posti in atto dagli inda-gati che potrebbero dar vita a dei reati. Infatti, la proposta, all’articolo 3, comma primo, offre un catalogo di reati per i quali è consentita l’in-tercettazione telefonica.

Ciò che balza con evidenza agli occhi e il ten-tativo di stornare dall’ambito delle intercetta-zioni telefoniche i cosiddetti reati dei colletti bianchi, o per lo meno gran parte di questi. Se il punto c) del primo comma dell’articolo 3 prevede l’intercettazione telefonica per “delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferio-re nel massimo a cinque anni”, a titolo d’esem-pio, appare evidente che una Malversazione ai danni dello Stato, ex articolo 316-bis del Codice penale, non potrà essere oggetto di siffatte in-dagini, parimenti all’Indebita percezione di ero-gazioni a danni dello Stato, di cui all’articolo suc-cessivo del Codice penale, e ad una semplice Corruzione per atti d’ufficio, ex articolo 318.

Al di là di tutto ciò, all’allargamento della pro-tezione dei dati personali, e, più in generale della riservatezza personale (la cosiddetta pri-vacy, che ritrova attualmente il proprio fulcro nel d. ls. n. 196 del 30 giugno 2003), corrispon-de un restringimento degli spazi di circolazio-ne dell’informazione, che va da incidere sia sul diritto dei cittadini ad essere informati, che sul diritto ad informare, di cui all’articolo 21 del dettato costituzionale. Nel caso in specie, la libertà d’informazione si esplica su un oggetto molto particolare e sensibile quale è la cronaca giudiziaria.

Tre solo le linee che vengono perseguite: ri-duzione delle intercettazioni (e con queste le acquisizioni di elementi probatori per loro tramite) e aumento del controllo sulle stesse; inasprimento delle sanzione per le cosiddette fughe di notizie; ampliamento delle sanzioni per coloro che divulgano attraverso i canali mediatici notizie riservate, sia nella figura del professionista, che in quella dell’editore.

Non essendo di mia competenza le proposte di modifica degli articoli 266 e 267 del Codice

gie di acquisizione di dati da parte delle autorità inqui-renti, limitandosi ad utilizzare tale espressione, che è entrata nel lessico comune e che ricomprende tutte le diverse tipologie specificatamente previste nel codice di procedura penale.

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tazione telefonica. A soli fini esemplificativi, rileviamo che la pena massima per un editore, che pubblichi sulla sua testata notizie proibite verrebbe, con l’approvazione del disegno di legge, aumentata di trentacinque volte rispet-to a quella attualmente erogabile.

La proposta di legge vorrebbe incidere ul-teriormente sulle scelte editoriali preveden-do l’inserimento di un articolo, il 25 novies (Responsabilità per il reato di cui all’articolo 684 del codice penale), all’interno delle disposizio-ni del d. ls. n. 231 del 8 giugno 2001 in mate-ria di Disciplina della responsabilità amministra-tiva delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica. Stante la proposta di legge “in relazione alla commissione del reato previsto dall’articolo 684 del codice penale, si applica all’ente la san-zione pecuniaria da cento a trecento quote”. Or bene, avuto riguardo agli articoli 10 e 11 del predetto d.ls. n. 231, qualora l’ente in questio-ne fosse una società editrice con una rilevante consistenza economico-patrimoniale, la san-zione pecuniaria andrebbe da un minimo di euro 154.900 ad un massimo di euro 464.700 (l’editore di un foglio artigianale potrebbe ve-dersi erogata una sanzione pecuniaria da un minimo di euro 25.800 ad un massimo di euro 77.400; il valore della quote varia da euro 258 ad euro 1.549 a seconda delle “condizioni eco-nomiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’efficacia della sanzione”, così all’ar-ticolo 10 del richiamato d. ls.).

Dall’ammontare delle cifre qui prodotte pare indubbio che, se la proposta di legge dovesse venire approvata, l’interesse dell’editore per talune delicate questioni, per quanto le stesse possano avere una rilevanza essenziale per l’interesse nazionale, potrebbe essergli esizia-le. Tutto questo ovviamente potrà avere delle fortissime ripercussioni sulle scelte editoriali e sulla loro incidenza sulla libertà della scelte redazionali.

Una discussione su tale proposta di legge non può non tener conto della necessità di un equo bilanciamento dei beni giuridicamente protetti; da una parte il diritto del cittadino a partecipare alla determinazione della politica nazionale sulla base di obiettive informazioni,

competente all’Ordine professionale di riferi-mento, il quale “può disporre la sospensione cautelare dal servizio o dall’esercizio della pro-fessione fino a tre mesi”.

Va qui rilevato come le norme relative all’or-dinamento della professione giornalistica, di cui alla legge n. 69 del 1963, inibiscano l’Ordi-ne dall’adozione di provvedimenti disciplinari (avvertimento, censura, sospensione, radia-zione) prima della conclusione del processo. Se applicassimo all’antinomia qui riportata il criterio lex posterior derogat priori, prevarreb-be la norma innovativa; se, invece, volessimo argomentare attraverso il criterio lex posterior generalis non derogat priori speciali, postulata ovviamente la natura di legge speciale della 69/1963, si porrebbe un problema di non fa-cile soluzione intorno alla legittima applica-zione dell’una norma o dell’altra. Quale che sia l’esito della questione, appare certo che l’atti-vità informativa del professionista ne risulta inibita anche e soprattutto a fronte di notizie essenziali per l’interesse pubblico.

L’idea di interesse pubblico qui è da non con-fondersi con il malvezzo della pubblica curio-sità; sicché qui, per riaffermare l’essere i dati personali un bene costituzionalmente pro-tetto, la cui protezione ritrova vigenza anche all’interno del d. ls. n. 196 del 30 giugno 2003, si corre il rischio di privare l’opinione pubblica di informazioni rilevanti per l’interesse pub-blico, per la formazione, in definitiva, di indi-rizzi di politica nazionale, di cui all’articolo 49 della stessa Costituzione.

Va riconosciuto, infine, che il disegno di leg-ge prevede un notevole inasprimento delle sanzioni erogate a coloro che violino i divieti di pubblicazione ivi previsti. A tale proposito si assiste ad un inasprimento della sanzione comminata nell’articolo 684 (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale) del Codice penale; il disegno prevede, infatti, che il reo possa essere punito con “l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da euro 250 a euro 750”, la disposizione attualmente in vigore prevede l’arresto fino a trenta giorni e l’ammenda mas-sima pari ad euro 258. La pena dell’arresto sali-rebbe sino a tre anni e l’ammenda a euro 1.032, se la pubblicazione riguardasse una intercet-

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dall’altra parte il suo diritto alla tutela dei dati personali. A fronte di tutto ciò, come nel caso della legge 124 del luglio del 2008, il diritto del singolo a far sì che le indagini ed il conseguen-te accertamento giudiziario sulle sue presunte marachelle rimangano riservate o sospeso pas-sa in secondo piano.

Marco CossuttaProfessore associato di filosofia del diritto nell’Uni-versità degli Studi di Trieste, direttore del master in Analisi e Gestione della Comunicazione.

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La manovra Alfano: una controriformache limita in modo irragionevoleintercettazioni e diritto di cronaca

Mitja Gialuz

Abstract

Nel presente saggio si analizza la proposta di riforma della disciplina delle intercettazioni telefoniche e del divieto di pubblicazione degli atti processuali avan-zata dal Ministro della giustizia Angelino Alfano, attualmente in discussione alla Camera dei deputati.

L’Autore giunge a conclusioni critiche, in particolare con riguardo alla prevista estensione del segreto ester-no e alla conseguente restrizione del diritto di crona-ca giudiziaria: essa appare al contempo irrealistica e irragionevole.

vo qualche eccezione, nel pieno rispetto delle norme stabilite dal codice di rito penale.

Il codice di procedura penale del 1988, nel dare attuazione al principio costituzionale e convenzionale della libertà di informazione, ha riconosciuto ampio spazio al diritto di cro-naca giudiziaria, circoscrivendo notevolmente l’area del segreto esterno. Nella piena consape-volezza che, in una società democratica, sulle questioni dibattute nei tribunali gli organi di stampa debbono informare i cittadini e che, per altro verso, i cittadini hanno diritto a rice-vere tali notizie1, il legislatore del 1988 ha pre-visto un duplice divieto di pubblicazione.

1 In tal senso è la costante giurisprudenza della Corte europea, secondo la quale la stampa svolge la funzione essenziale di “watchdog of democracy”: v., da ultimo, Cor-te e.d.u., sez. III, 7 giugno 2007, Dupuis c. Francia, § 35, 46, in “Cassazione penale”, 2007, p. 4795. In particolare, sul diritto dei cittadini a ricevere le informazioni, Corte e.d.u., 23 maggio 1991, Oberschlick c. Austria, § 58; Corte e.d.u., 8 luglio 1986, Lingens c. Austria, § 42.

Sommario:

1. Occorre intervenire sulla disciplina delle intercettazioni telefoniche? – 2. Il disegno di legge Alfano: depotenziate le intercettazioni e ridotta la libertà di informazione. – 3. Una disciplina irrealistica e irragionevole.

Parole chiave:

IntercettazioniSegretezza comunicazioniRiservatezzaDiritto-dovere di informazioneProcesso penale

1. Occorre intervenire sulla disciplina del-le intercettazioni telefoniche?

Se si dovesse tentare di spiegare ai pronipoti dei viaggiatori persiani di Montesquieu in

visita all’Italia del 2009 i contorni del dibattito in corso sulla riforma delle intercettazioni te-lefoniche e del divieto di pubblicazione degli atti del procedimento penale, si dovrebbe par-tire da una domanda preliminare: che c’entra-no le intercettazioni telefoniche e il regime di pubblicazione degli atti processuali?

Per chi ha vissuto la cronaca italiana degli ul-timi anni l’interrogativo suona quasi retorico. Il nesso tra un mezzo invasivo di ricerca del-la prova e la libertà di informazione si è posto all’attenzione dell’opinione pubblica perché i giornali e, più in generale, i mezzi di comuni-cazione di massa hanno dato ampia diffusione delle conversazioni intercettate nell’ambito di procedimenti penali. Ciò è avvenuto, sal-

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tenzialmente tutte le conversazioni, sia quelle rilevanti per l’accertamento del reato, sia quel-le irrilevanti. Ciò per due ragioni. La prima dipende dalla scelta normativa di collocare il filtro tra conversazioni rilevanti e irrilevanti a valle del momento in cui viene meno il segre-to: il pubblico ministero, infatti, è tenuto a de-positare tutte le intercettazioni e solo successi-vamente al deposito e alla conseguente caduta del segreto investigativo – e, con questo, del divieto assoluto di pubblicazione – si tiene un’udienza di stralcio, nella quale le parti indi-cano le conversazioni che vogliono acquisire e il giudice esclude le registrazioni inutilizzabi-li e quelle «manifestamente irrilevanti» (art. 268, comma 6, c.p.p.). La seconda ragione attie-ne alla circostanza (di fatto) che questo mecca-nismo di filtro non funziona: com’è stato auto-revolmente rilevato, nella prassi accade che «il pubblico ministero richiede e il giudice dispo-ne, con il consenso almeno implicito dei difen-sori, l’acquisizione e la trascrizione di tutte le registrazioni [corsivo mio]»2. Ciò si verifica, sia perché la selezione costa fatica per le par-ti e il giudice, sia perché vi è spesso interesse di entrambe le parti coinvolte a far trascrivere tutte le informazioni. Vi è da considerare, in-fatti, che nello stralcio non vengono coinvolti i reali controinteressati, ossia i soggetti estra-nei al procedimento penale la cui voce è stata occasionalmente captata3.

Da queste considerazioni emerge chiara-mente che le informazioni acquisite nel pro-cedimento penale mediante la restrizione del valore fondamentale della segretezza delle comunicazioni – tutelato dall’art. 15 Cost. – vengono poste integralmente a disposizio-ne dei mezzi di comunicazione. Spetta poi al giornalista effettuare una cernita tra le notizie strettamente private – che non potranno mai essere pubblicate – e quelle dotate di rilevanza sul piano penale o sociale. In tale operazione, il giornalista dovrebbe essere guidato (tra l’altro) dalle norme del Codice di deontologia relativo

2 Così, A. NAppi, Sull’abuso delle intercettazioni, in “Cas-sazione penale”, 2009, p. 472.

3 Cfr. F. RuggieRi, Il disegno di legge governativo sulle in-tercettazioni: poche note positive e molte perplessità, in “Cas-sazione penale”, 2008, p. 2245.

Da un lato, l’art. 114, comma 1, c.p.p. sancisce un divieto di pubblicazione assoluto a tutela del segreto investigativo: fino a che gli atti di indagine sono coperti dal segreto, non possono venir in alcuna forma pubblicati, dal momen-to che la loro diffusione finirebbe per arreca-re nocumento alle indagini stesse. Una volta venuto meno il segreto investigativo – il che si verifica quando l’imputato può avere cono-scenza degli atti e, comunque, al termine delle indagini preliminari (art. 329 c.p.p.) – è sem-pre possibile pubblicare il contenuto dell’atto (art. 114, comma 7, c.p.p.).

Dall’altro lato, il codice contempla due divie-ti di pubblicazione relativi, ossia riguardanti la testualità dell’atto e non il contenuto, al fine di salvaguardare la “verginità cognitiva” del giudice del dibattimento. Dapprima, si preve-de che gli atti di indagine non più coperti dal segreto non possano essere pubblicati testual-mente – neanche in parte – fino alla chiusura delle indagini preliminari o, se c’è, fino al ter-mine dell’udienza preliminare (art. 114, com-ma 2, c.p.p.). Successivamente, se si procede al dibattimento, si impedisce di dare diffusione agli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, ossia agli atti che il giudice non può conoscere direttamente (art. 114, comma 3, c.p.p.).

Alla luce delle scelte effettuate dal legislatore del 1988, il giornalista ha pertanto un’ampia libertà di diffondere le conversazioni intercet-tate. Per quel che riguarda la fase preliminare, esse possono essere pubblicate nel contenuto – mai nella loro testualità – dopo che il pub-blico ministero ha depositato in segreteria le registrazioni oppure quando vengono inserite in un’ordinanza cautelare. Nel primo caso, con il deposito viene meno il segreto investigativo – e, quindi, il divieto di pubblicazione – perché la persona sottoposta alle indagini può averne conoscenza; nel secondo caso, non sussiste al-cun segreto perché l’ordinanza cautelare non è considerata un “atto di indagine”. Nella fase successiva all’udienza preliminare, il giornali-sta può pubblicare – anche nella loro testualità – le intercettazioni che sono state trascritte e inserite nel fascicolo per il dibattimento.

Oggetto di pubblicazione possono essere po-

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della conversazione; non può pertanto preclu-dere la pubblicazione di quelle conversazioni che, pur non avendo rilievo per l’accertamento di un reato, abbiano una rilevanza sociale (o ultraindividuale), sia per il loro contenuto, che per la posizione del soggetto coinvolto o citato nel colloquio6.

Pare, invece, più corretto ricondurre l’inte-resse alla non divulgazione al valore della se-gretezza delle comunicazioni e conversazioni: ciò è evidente se si abbraccia la tesi secondo la quale l’art. 15 Cost. tutelerebbe, sia la segretez-za che il segreto delle comunicazioni, e viete-rebbe, quindi, sia l’ingerenza nella comunica-zione, sia la divulgazione delle notizie con essa apprese7. Ma il risultato non muta neanche concependo in termini restrittivi la garanzia dell’art. 15 Cost., ossia intendendola come mero divieto di indebita percezione della comuni-cazione riservata8. Infatti, se il codice ammet-te un limite alla segretezza, consentendo (ex ante) la captazione della conversazione riser-vata soltanto per fini di accertamento penale, dovrà prevedere (ex post) la divulgazione delle sole notizie rilevanti ai fini dell’accertamento penale. Detta diversamente: se la legge – in at-

6 Questo è l’equivoco sul quale fanno leva anche i rap-presentanti dei giornalisti. A tal fine, appare assai signi-ficativo quanto dichiarato nel corso di un’audizione al Senato – resa nel corso di un’indagine conoscitiva sul fenomeno delle intercettazioni telefoniche – dal presi-dente dell’Ordine dei giornalisti: il dottor Del Boca rile-vò che la necessità di garantire il diritto di informazione «implica che i giornalisti non possano essere obbliga-ti a pubblicare unicamente fatti che abbiano rilevanza penale, dal momento che, ad esempio, può essere inte-resse dei cittadini conoscere fatti che non sono penal-mente rilevanti, ma la cui pubblicità rende possibile un controllo della pubblica opinione sulla correttezza dei comportamenti di soggetti investiti di funzioni pubbli-che o posizioni di potere» (così si legge nel Documento approvato dalla 2a Commissione permanente nella se-duta del 29 novembre 2006 a conclusione dell’indagine conoscitiva sul fenomeno delle intercettazioni telefoni-che (Atti Senato, XV Leg., Doc. XVII, n. 2, p. 9).

7 Cfr., per siffatta distinzione, F. BRicolA, Prospettive e li-miti della tutela penale della riservatezza, in “Rivista italia-na di diritto e procedura penale”, 1967, p. 1088; G. illumi-NAti, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1983, pp. 3-4.

8 Cfr. F. cApRioli, Colloqui riservati e prova penale, Torino, 2000, p. 55.

al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il cui art. 6 consente la divulgazione di notizie di rilevante interes-se pubblico o sociale quando l’informazione sia «indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti»; al contrario, stabilisce che la «sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non han-no alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica»4.

Ebbene, nella prassi si è registrata spesso la pubblicazione, sia delle comunicazioni pri-ve di rilevanza penale ma dotate di rilevanza sociale, sia delle conversazioni strettamente private e, quindi, assolutamente prive di rile-vanza pubblica.

Questa ampia diffusione del contenuto delle conversazioni intercettate nell’ambito di un procedimento penale è dipesa (in gran parte) da una scelta normativa di carattere generale e da una lacuna con riguardo alle intercettazioni. La scelta di consentire la pubblicabilità degli atti di indagine non più segreti avrebbe dovu-to, infatti, essere accompagnata da un mecca-nismo di tutela di un interesse fondamentale, che viene in rilievo proprio con riguardo alle intercettazioni: si tratta dell’interesse alla non divulgazione delle conversazioni non rilevanti ai fini dell’accertamento penale. Generalmen-te, sia a livello dottrinale, che nel dibattito par-lamentare si fa coincidere tale interesse con il diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti nelle intercettazioni5. A ben considerare, però, il riferimento alla riservatezza è fuorviante: questa, infatti, postula la necessità di impe-dire solo la diffusione delle notizie attinenti alla sfera strettamente privata e va modulata a seconda della qualificazione del protagonista

4 Il codice, approvato con Provvedimento del Garante del 29 luglio 1998, è pubblicato in G.U., 3 agosto 1998, n. 179.

5 Cfr., per tutti, P. FeRRuA, “Privacy e riservatezza nella riforma delle intercettazioni”, in Studi sul processo pena-le, vol. III, Torino, 1997, p. 119. A livello parlamentare, è sufficiente leggere le relazioni introduttive dei disegni di legge C/1415 (Alfano); C/1510 (Veltroni, Tenaglia) e C/1555 (Vietti, Rao), presentati nel corso del 2008.

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di intercettazioni. Sarebbe auspicabile un in-tervento mirato – verrebbe da dire chirurgico – sul profilo relativo alla selezione delle regi-strazioni, al fine di tutelare l’interesse alla non divulgazione delle comunicazioni penalmen-te non rilevanti (riconducibile, giova ribadir-lo, alla stessa segretezza della comunicazione). Occorerebbe prevedere un primo filtro di rile-vanza da parte del pubblico ministero e stabi-lire un secondo vaglio delle parti e del giudi-ce. Entrambe le operazioni dovrebbero essere coperte dal segreto e si dovrebbe stabilire – e rendere effettiva, anche mediante la previsio-ne di sanzioni adeguate – la segretazione del-le comunicazioni stralciate. Analogamente, si dovrebbe prevedere un’estensione del segreto per le intercettazioni utilizzate, senza preven-tiva selezione, per adottare un provvedimento (quale l’ordinanza cautelare) destinato a esse-re portato a conoscenza dell’imputato10. In tal modo, si realizzerebbe l’obiettivo di rendere pienamente divulgabili le sole informazioni per la cui acquisizione vi è stata autorizzazio-ne normativa, mentre si sancirebbe il rispetto della segretezza delle informazioni che – per quanto socialmente rilevanti – non si sarebbe potuto captare.

2. Il disegno di legge Alfano: depotenziate le intercettazioni e ridotta la libertà di informazione

Con riguardo alle intercettazioni vi è pertan-to un problema effettivo originato dal difetto di tutela del diritto alla non divulgazione di informazioni penalmente non rilevanti. Que-sta lacuna ha consentito il consolidarsi di un rapporto patologico tra media e processo pena-le, nel quale i primi, in nome di un malinteso diritto a pubblicare tutto e subito, attingono (e pretendono di attingere) al processo pena-le come a una fertile sorgente di informazioni che nulla hanno a che fare con la responsabi-lità penale. Su quella lacuna nella disciplina delle intercettazioni sarebbe opportuno inter-venire in modo mirato, nei termini indicati. In

10 Cfr., per tutti, g. SpANgheR, Linee guida per una rifor-ma delle intercettazioni telefoniche, in “Diritto penale e processo”, 2008, p. 1210.

tuazione della riserva di cui al secondo comma dell’art. 15 Cost. – prevede la possibilità di get-tare una rete per pescare soltanto pesci rossi, deve consentire che vengano effettivamente presi a bordo solo i pesci rossi; pertanto, lad-dove vengano presi anche pesci gialli, dovrà prescrivere che questi vengano subito gettati a mare. Non potrà, invece, consentire che la cernita sia effettuata una volta che la barca sia giunta in porto. Fuor di metafora: se il codice ammette a monte l’impiego di un mezzo insi-dioso come le intercettazioni per cercare ele-menti conoscitivi ai fini della prova di un rea-to9, dovrebbe prevedere a valle dei meccanismi che consentano di operare una selezione tra i colloqui rilevanti nell’ottica dell’accertamento penale e quelli non rilevanti.

Questo vaglio dovrebbe essere effettuato in via riservata – dai soggetti direttamente in-teressati nel processo e, possibilmente, dai soggetti coinvolti nelle intercettazioni – una volta terminate le operazioni di ascolto. Ove così non fosse e si consentisse di effettuare la selezione agli organi di informazione – come accade oggi – si dovrebbe prender atto che, nel nostro ordinamento, la restrizione della se-gretezza delle conversazioni è consentita, non solo per finalità di prevenzione e repressione dei reati, ma anche per l’esercizio del diritto di cronaca. In tal modo, insomma, un mezzo di ricerca della prova penale finirebbe per assu-mere i connotati dello strumento di indagine giornalistica.

All’esito di queste considerazioni, è possibile fornire una risposta alla domanda sulla neces-sità di un intervento del legislatore in materia

9 Si badi: con riguardo alle intercettazioni, il codice afferma il principio di finalità limitata in modo assai stringente, ricollegandolo allo specifico reato per cui si procede. Viene infatti esclusa la possibilità che i risulta-ti delle intercettazioni disposte nel procedimento a per l’accertamento del reato A possano essere utilizzate nel procedimento b, perché rilevanti ai fini dell’accertamen-to del reato B, a meno che essi risultino addirittura in-dispensabili per l’accertamento di B e che questo sia un delitto per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza (art. 270 c.p.p.). A questa stregua, appare davvero para-dossale che le conversazioni disposte nel procedimento a e irrilevanti per l’accertamento di A possano però esse-re utilizzate e diffuse dai mezzi di informazione perché socialmente rilevanti.

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limitare sensibilmente la possibilità di inter-cettare. Nel testo del disegno di legge Alfano, tale obiettivo era perseguito essenzialmente mediante l’elevazione a dieci anni del tetto di pena al di sopra del quale sarebbe consentita l’intercettazione (nuovo art. 266, comma 1, lett. a, c.p.p.), nonché attraverso la definizione di presupposti più stringenti per l’autorizzazio-ne e la riduzione del periodo massimo di ascol-to (nuovo art. 267 c.p.p.)16. Nel testo licenziato dalla Commissione giustizia della Camera, si è riportato a cinque anni il tetto di pena, ma si è inserito tra i presupposti in presenza dei quali può essere autorizzata l’intercettazione un inedito riferimento ai “gravi indizi di col-pevolezza”: si tratta di un’indicazione assurda, poiché, nel nostro ordinamento, i “gravi indizi di colpevolezza” corrispondono alla ragione-vole probabilità di condanna che consente di disporre la restrizione della libertà personale nei confronti della persona (art. 273 c.p.p.). Ove davvero la manovra fosse approvata in questi termini, si renderebbe impossibile utilizzare questo fondamentale strumento investigati-vo per il suo fine naturale, ossia per la ricerca della prova: da indispensabile mezzo di ricerca della prova esso verrebbe trasformato in inu-tile mezzo di consolidamento di una prova già esistente.

La seconda dorsale su cui incide la manovra Alfano – che rileva direttamente ai nostri fini – è quella dell’allargamento dello scudo rappre-sentato dal divieto di pubblicazione degli atti del procedimento penale.

L’occasio legis è costituita, come si è detto, dalla sistematica divulgazione sulla stampa di notizie non rilevanti a fini procedimentali. Lo scopo di impedire tale prassi viene perseguito attraverso tre norme. La prima – che riprende una proposta risalente e condivisa – consiste nella previsione di un archivio riservato, te-nuto presso il pubblico ministero, e destinato a conservare i verbali e i supporti contenenti le intercettazioni (nuovo art. 269 c.p.p.). La seconda riguarda il divieto di riportare il con-tenuto dei colloqui intercettati nell’ordinanza

puto, in “Questione giustizia”, 2006, p. 1208.

16 Al riguardo, si rinvia alle analisi di M.L. Di BitoNto, op. cit., pp. 18 sgg.; F. RuggieRi, op. cit., pp. 2239 sgg.

tal modo, si creerebbero le condizioni per rico-struire – almeno sotto questo profilo – un rap-porto fisiologico in cui il processo penale e le informazioni raccolte tramite i mezzi invasivi di ricerca della prova costituiscono l’oggetto su cui si esercita il diritto di cronaca e il control-lo da parte dei cittadini e non lo strumento da utilizzare per esercitare il diritto di cronaca su temi o vicende che nulla hanno a che fare con il procedimento penale in corso. Non è inutile notare che su una riforma di questa natura vi è accordo sostanzialmente unanime11.

Purtroppo, l’approccio del disegno di legge Alfano è del tutto antitetico12. L’intendimen-to di fondo è chiaramente quello di sfruttare la patologia per ridurre drasticamente, da un lato, la possibilità di utilizzare lo strumento investigativo delle intercettazioni e, dall’altro, lo spazio di esercizio del diritto di cronaca. Si realizza pertanto una duplice controriforma13.

Sotto il primo profilo, il disegno di legge in-terviene sulla disciplina dei presupposti delle intercettazioni telefoniche con l’intento di de-potenziare considerevolmente questo prezio-so mezzo di ricerca della prova. Prendendo le mosse dall’assunto – privo di riscontri ogget-tivi, ma assai diffuso – dell’eccessiva diffusio-ne delle intercettazioni telefoniche nel nostro Paese14 e della crescita esponenziale dei costi delle stesse15, si adottano diversi correttivi per

11 Come rileva G. gioStRA, Intercettazioni e informazione, in “Cassazione penale”, 2006, p. 2753, «a parte le preve-dibili resistenze provenienti dal mondo dell’informa-zione, è ormai pressoché unanime la consapevolezza della necessità di inibire la diffusione di notizie acci-dentalmente ‘origliate’ dagli organi inquirenti».

12 Si allude al disegno di legge presentato dal Ministro della giustizia Alfano il 30 giugno 2008 (C/1415).

13 Va segnalato che il tema della riforma delle inter-cettazioni è stato oggetto di proposte governative anche nelle passate legislature: per limitarsi alle ultime due, vanno segnalati il disegno di legge n. 1638/C, presen-tato dal Ministro della giustizia il 14 settembre 2006 e approvato dalla Camera il 17 aprile 2007.

14 Cfr., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, M.L. Di BitoNto, Lungo la strada per la riforma della discipli-na delle intercettazioni, in “Cassazione penale”, 2009, p.

15 Sulle effettive ragioni della lievitazione dei co-sti – riconducibili principalmente a inerzie ammini-strative – cfr. G. leo, in Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni telefoniche. Forum, a cura di A. Ca-

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intercettate18; ma, in termini generali, sul di-vieto di pubblicazione di tutti gli atti proces-suali.

Invero, il nuovo art. 114, comma 2, c.p.p. – rimasto immutato nel testo approvato dalla Commissione giustizia – sancisce il divieto di pubblicazione assoluta – ossia «anche parziale o per riassunto o del relativo contenuto» – degli «atti di indagine preliminare, nonché di quan-to acquisito al fascicolo del pubblico ministero o del difensore, anche se non sussiste più il se-greto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udien-za preliminare». Se approvata, la disposizione – che riprende, per la verità, il testo contenuto in precedenti progetti di legge19 – produrrebbe una vera e propria controriforma rispetto alla scelta del legislatore del 1988. Da un lato, essa finirebbe per ampliare il novero degli atti non pubblicabili: non sarebbero più solo gli “atti di indagine”, ma tutti gli atti inseriti nel fasci-colo del pubblico ministero20. Dall’altro lato, il divieto assoluto di fornire informazioni sul procedimento penale sarebbe prorogato sino al momento della conclusione delle indagini o, addirittura, dell’udienza preliminare. Il che significa che, visti i tempi medi dei nostri pro-cedimenti, i cittadini verrebbero privati del loro diritto a essere informati sull’andamento delle indagini penali per un periodo irragione-volmente lungo.

Va segnalato, inoltre, che tale segreto esterno verrebbe presidiato anzitutto da un cospicuo inasprimento delle sanzioni penali commina-te al giornalista che pubblichi atti o documenti di cui sia vietata la diffusione: la (per la verità, ridicola) pena pecuniaria prevista dall’art. 684 c.p. (da 51 a 258 euro) verrebbe, infatti, portata a un ammontare minimo di 1000 euro e mas-simo di 5000 euro. In secondo luogo, verrebbe

18 In tal senso, invece, va il nuovo art. 114, comma 2, c.p.p. previsto dal disegno di legge C/1510.

19 Il testo è pressoché identico a quello dell’art. 2 del disegno di legge S/664 presentato al Senato dall’on. Ca-stelli il 20 giugno 2006; ed è assai simile a quello dell’art. 1 del disegno di legge C/1638 approvato dalla Camera dei deputati nella scorsa Legislatura.

20 In termini critici, sia pure con riferimento all’ana-loga norma del disegno di legge Mastella, G. gioStRA, In-tercettazioni e informazione, cit., p. 2753.

cautelare: il nuovo comma 2-quater dell’art. 292 c.p.p. inserito dall’art. 9 del disegno di legge stabilisce, infatti, che, «nell’ordinanza le inter-cettazioni di conversazioni, comunicazioni te-lefoniche o telematiche possono essere richia-mate soltanto nel contenuto e sono inserite in un apposito fascicolo allegato agli atti». La terza novità è introdotta nel comma 7 dell’art. 114 c.p.p. e riguarda il divieto di pubblicazione delle intercettazioni irrilevanti a seguito dello stralcio: secondo la nuova previsione, sarebbe «in ogni caso vietata la pubblicazione anche parziale o per riassunto, della documentazio-ne, degli atti e dei contenuti relativi a conversa-zioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distru-zione ai sensi degli articoli 269 e 271», nonché di quelli «relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni telematiche riguardanti fatti, circostanze e persone estranee alle indagini, di cui sia stata disposta l’espunzione ai sensi dell’articolo 268, comma 7-bis». Quest’ultima norma contempla, infatti, il divieto di trascri-vere «le parti di conversazioni riguardanti fat-ti, circostanze e persone estranee alle indagi-ni» e prescrive al tribunale di disporre che «i nomi o i riferimenti identificativi di soggetti estranei alle indagini siano espunti dalle tra-scrizioni delle conversazioni».

Il legislatore non apporta però significative modifiche al meccanismo della selezione del materiale rilevante. In particolare, non viene previsto un vaglio preliminare di rilevanza delle intercettazioni da parte del pubblico mi-nistero, che sarebbe assai utile per escludere a monte le registrazioni del tutto estranee all’ac-certamento penale17.

E, allora, al fine di scongiurare il rischio della diffusione dei colloqui non rilevanti, che ri-marrebbe immutato in assenza del vaglio pre-liminare, il disegno di legge governativo in-terviene proprio sul divieto di pubblicazione. Non, però, come sarebbe ragionevole, sul solo divieto di pubblicazione delle comunicazioni

17 Si badi che un tale filtro era previsto, sia nell’art. 11 della proposta di legge C/1510 presentata il 21 luglio 2008 dagli onorevoli Tenaglia, Veltroni e Ferranti, sia nell’art. 4 della proposta di legge C/1555 presentata il 29 luglio 2008 dagli onorevoli Vietti e Rao.

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La manovra Alfano: una controriforma... 66

di migliaia di euro24. Ad ogni modo, qualche dubbio sull’effettività delle sanzioni rimane. Non sfuggirà, infatti, che, per irrogare concre-tamente siffatte sanzioni, deve essere attivato un procedimento penale che, non solo ha po-che possibilità di arrivare in porto, dati i tempi di prescrizione, ma che si è generalmente poco propensi ad attivare per questo reato. Per con-tro, ove la sanzione fosse effettiva, si finireb-be per consentire di fatto l’esercizio del diritto di cronaca sulla fase preliminare del procedi-mento penale a quei soli mezzi di comunica-zione che, disponendo di una certa dotazione finanziaria, potrebbero assumersi il rischio di una violazione del divieto di pubblicazione.

Oltre che irrealistica, la scelta del legislatore appare irragionevole, in quanto comprime il diritto di cronaca senza che ciò sia necessario per salvaguardare alcun interesse meritevole di tutela. Non v’è dubbio che il diritto di crona-ca, sancito dall’art. 21 Cost. e dall’art. 10 C.e.d.u., possa essere limitato: la norma convenzionale – che integra il parametro costituzionale – sta-bilisce espressamente nel secondo paragrafo che l’esercizio di questa libertà, «comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti mi-sure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute e della mo-rale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di infor-mazioni confidenziali o per garantire l’autorità e la imparzialità del potere giudiziario»25.

Ora, l’estensione del divieto di pubblicazione

24 Secondo la versione approvata dalla Commissio-ne giustizia della Camera, la sanzione minima sarebbe di duecentocinquanta quote, ossia pari (al minimo) a 64.500 euro (artt. 17 del disegno di legge e 10, comma 3, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231). La sanzione massima po-trebbe, invece, arrivare a trecento quote e, quindi, a ben 464.700 euro.

25 Cfr., da ultimo, L. Filippi, La sentenza Dupuis c. Fran-cia: la stampa “watchdog” della democrazia tra esigenze di giustizia, presunzione di innocenza e privacy, in “Cassazio-ne penale”, 2008,p. 822, secondo il quale «la regola è la libertà di stampa […] che può subire compressioni solo di fronte a valori (costituzionali o convenzionali) altret-tanto rilevanti».

prevista una forma di responsabilità per l’edi-tore: questi verrebbe chiamato a rispondere dello stesso reato di cui all’art. 684 c.p., come ente.

3. Una disciplina irrealistica e irragionevole

Il sistema che il legislatore si accinge a intro-durre e che mira a occultare all’opinione pubbli-ca la fase preliminare del procedimento penale è al contempo irrealistico e irragionevole.

È irrealistico perché, com’è emerso da un’ac-curata analisi comparata dei principali sistemi europei, nell’attuale società è impossibile man-tenere un segreto assoluto su una vicenda giu-diziaria – magari di primario interesse – per anni e anni21. Il che significa che è probabile che le informazioni continueranno a circolare, ma con il rischio che si tratti di notizie spurie: è stato felicemente notato che «il proibizioni-smo ha sempre propiziato il mercato nero, e il contrabbando della notizia giudiziaria porta fatalmente con sé una grave degenerazione del costume giudiziario e giornalistico»22. In fondo, basta pensare a quel che accadeva sotto la vigenza del codice Rocco: anch’esso estende-va il segreto esterno a tutta la fase istruttoria (art. 164 c.p.p. 1930), eppure si assisteva a tan-te e tali violazioni da indurre la dottrina quasi unanime a parlare del reato di cui all’art. 684 c.p. come di «un inutile relitto»23. Certo, non si ignora che il legislatore si accinge a presidiare il fortino del procedimento penale preveden-do sanzioni che appaiono potenzialmente do-tate di un certo effetto deterrente: in partico-lare, potrebbe scoraggiare alla pubblicazione soprattutto la sanzione comminata all’editore, che ammonta ipoteticamente a diverse decine

21 Cfr. M. lemoNDe, “Media e giustizia: tra informazio-ne e spettacolo”, in Procedure penali d’Europa, a cura di M. Chiavario e M. Delmas-Marty, Padova, 2001,p. 667, secondo il quale nella materia in questione «non sono praticamente configurabili soluzioni radicali».

22 Così, G. gioStRA, Intercettazioni fra indagini e privacy. Primo, evitare soluzioni improvvisate, in “Diritto e giusti-zia”, 2006, n. 31, p. 100.

23 Testualmente, P. NuvoloNe, Libertà di stampa e segre-to d’ufficio, in “Indice penale”, 1979, p. 303. Sul punto, v. ampiamente g. gioStRA, Processo penale e informazione, Milano, 1989, p. 232.

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La manovra Alfano: una controriforma... 67

La tesi non può essere condivisa, per un’unica ragione. L’esigenza di tutela della presunzione di innocenza e quella di evitare che il processo sui media influenzi il processo davanti al giu-dice sembrano attenere non alla possibilità in sé di esercitare il diritto di cronaca, ma al modo in cui esso viene concretamente esercitato28. In altri termini, esse sono tali da giustificare non un limite esterno assoluto, ma soltanto dei vincoli interni alla libertà di informazione: vincoli che sono stati puntualmente tradotti in quel documento, tanto importante, quanto di-satteso dagli operatori nostrani, che è la Racco-mandazione R(2003)13, contenente i “principi relativi alle informazioni fornite attraverso i mezzi di comunicazione in rapporto a procedi-menti penali”. Pertanto, una restrizione totale della libertà di informazione estesa in termi-ni abnormi sino alla conclusione dell’udienza preliminare appare del tutto sproporzionata; si persegue uno scopo legittimo sul piano teorico – la protezione del diritto alla presunzione di innocenza e a un giudice imparziale – ma attra-verso uno strumento – quale la negazione del diritto di cronaca – chiaramente inadeguato29.

Alla luce di tale sintetica analisi emerge chia-ramente come la norma proposta dal disegno di legge in discussione al Parlamento sia vellei-taria e priva di una giustificazione ragionevo-le. Peraltro, dato il margine di discrezionalità sotteso al parametro di riferimento è assai im-probabile che essa possa venir censurata dagli organi di garanzia interni chiamati a vegliare sulla compatibilità costituzionale delle leggi30.

Ciò non significa, però, che il diritto di forni-

chiami delle Authority, in “Guida al diritto”, 2008, n. 31, p. 12.

28 In termini parzialmente diversi, M. mASSA, Sulla le-gittimità costituzionale degli artt. 684 c.p. e 164 c.p.p., in “Rivi-sta italiana di diritto e procedura penale”, 1964, p. 308.

29 È stato rilevato che «sarebbe illegittima ogni nor-ma che ponesse generalizzate restrizioni alla libertà di cronaca per prevenire possibili abusi del suo esercizio, anche se questi abusi fossero tali da ledere interessi di rango costituzionale» (così, g. gioStRA, Processo penale e informazione, cit., p. 95).

30 A suffragare tale prognosi è anche Corte cost., 10 febbraio 1981, n. 18: in tale pronuncia, infatti, la Corte ha riconosciuto che «la disciplina dei rapporti tra giustizia e informazione non può che essere in via di principio rimessa alla discrezionalità del legislatore».

agli atti non più coperti dal segreto, contem-plata dal nuovo art. 114, comma 2, c.p.p., sem-bra difficilmente riconducibile a uno dei valori fondamentali indicati da tale norma.

È evidente che non potrebbe essere giustifi-cata con l’esigenza di compimento delle inve-stigazioni, la quale è indissolubilmente legata al segreto interno: una volta venuto meno que-sto, non ha più senso nascondere all’opinione pubblica un’indagine che si ritiene non possa più essere ostacolata.

Per quel che riguarda la necessità di tutelare l’imparzialità del giudice, occorre distinguere. Se si fa riferimento a una nozione ristretta – ricollegabile alla cosiddetta “verginità cogniti-va” del giudice – non si può non rilevare che il problema della sua tutela non si pone in rela-zione al giudice per le indagini preliminari o al giudice dell’udienza preliminare. Entrambi, infatti, possono avere cognizione diretta degli atti. Con riguardo al giudice del dibattimento, è stato osservato che il divieto di pubblicazio-ne appare del tutto inidoneo in quanto anche il giudice dibattimentale ha diverse occasioni per prendere visione degli atti di indagine26. Se inteso in senso più lato, ossia come garanzia della stessa funzione giurisdizionale rispetto alle interferenze che provengono dal trial by newspaper, il discorso è più complesso e si ri-allaccia in qualche misura alla stessa esigenza collegata alla «protezione della reputazione o dei diritti altrui»: tra i diritti fondamentali da proteggere attraverso la limitazione della libertà di informazione va infatti annoverato il diritto alla presunzione di innocenza e, più in generale, il diritto al fair trial riconosciuto dall’art. 6 C.e.d.u.

Non sono mancate voci che hanno caldeggia-to la previsione di uno sbarramento informa-tivo effettivo sino alla chiusura delle indagini proprio per meglio tutelare il diritto al fair trial delle persone coinvolte nel procedimento27.

26 Cfr. G. gioStRA, Intercettazioni, cit., p. 2754, al quale il «divieto di pubblicare atti non più segreti appare ormai un’inutile barriera di cartapesta». In effetti, il progetto di legge C/1510 prevedeva l’abrogazione del comma 3 dell’art. 114 c.p.p. e limitava il divieto di pubblicazione del comma 2 alle sole intercettazioni telefoniche.

27 Si allude, da ultimo, a F. giANARiA – A. mittoNe, Per con-trastare gli eccessi dell’informazione non possono bastare i ri-

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La manovra Alfano: una controriforma... 68

re e di ricevere l’informazione non possa essere fatto valere – sia pure nelle diverse forme con-template nel sistema convenzionale – davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la qua-le ha mostrato di saper andar oltre il dato for-male del segreto istruttorio. Nel recente caso Dupuis c. Francia, ha infatti rilevato una viola-zione dell’art. 10 C.e.d.u. nel caso di condanna del giornalista che, nel pubblicare documenti coperti dal segreto istruttorio, non aveva arre-cato un effettivo pregiudizio, né all’ammini-strazione della giustizia, né alla presunzione di innocenza dell’interessato31. Se dunque non dovesse prevalere la ragionevolezza nell’iter parlamentare e dovesse mancare un interven-to censorio degli organi di garanzia, si potrà sempre confidare in un giudice a Strasburgo.

Mitja Gialuz è ricercatore di procedura penale presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Universi-tà di Trieste. È autore di una quarantina di saggi e di una monografia su Il ricorso straordinario per cassazione.

31 Si allude a Corte e.d.u., sez. III, 7 giugno 2007, Dupuis c. Francia, cit., p. 4790. Al riguardo, A. BAlSAmo – S. RecchioNe, Il difficile bilanciamento tra libertà di informazione e tutela del segreto istruttorio: la valorizzazione del parametro della concreta offensività nel nuovo orientamento della Corte europea, in “Cas-sazione penale”, 2007, pp. 4799 sgg.

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Tigor: rivista di scienze della comunicazione A.I (2009) n.1 (gennaio-giugno)

Intervento presentato in occasione della Tavola Rotonda su Libertà di informazione e giustizia tra lodo Alfano e recenti disegni di legge sulla pubblicità degli atti processuali, tenutasi a Trieste il 18 dicembre 2008

Gianni Martellozzo

Parole chiave:

DemocraziaDeontologiaGiornalismoDiritto-dovere di informazione

Io credo che stiamo attraversando un mo-mento difficile proprio sul piano delle rego-

le della democrazia. si avverte infatti una diffu-sa volontà di mettere in riga e di normalizzare categorie o settori che proprio per definizione hanno il compito di formare, informare e veri-ficare, ed eventualmente sanzionare, compor-tamenti illeciti anzitutto nella pubblica ammi-nistrazione e nel suo rapporto con i cittadini.

In particolare la crisi economica che stiamo attraversando viene talvolta utilizzata come pretesto per decisioni che cambiano le regole del gioco. Non si colpisce infatti in maniera ge-neralizzata e indistinta, ma alcuni interventi sono mirati ad obbiettivi precisi ed accompa-gnati da proposte o leggi di riforma che tendo-no a modificare strutturalmente settori vitali per la democrazia.

Qualche cenno: risulta difficile comprende-re come, con la motivazione di salvare il pae-se dal disastro economico, si decidano tagli di qualche centinaio in alcuni settori , quando per l’Alitalia ad esempio, una operazione giu-dicata pessima anche sul piano finanziario da

tutti gli esperti , si buttano dalla finestra alcuni miliardi di euro e si garantiscono ai lavoratori in esubero sette anni di cassa integrazione. E ancora: si promettono importanti investimen-ti ai settori in crisi, per salvare l’occupazione, mentre sulla scuola si fanno tagli che lasceran-no sulla strada decine di migliaia di persone.

Sulla giustizia e sulle riforme in cantiere hanno già parlato i relatori. Si può solo sotto-lineare come i recenti conflitti fra le procure siano presi a pretesto per interventi pesanti nei confronti di tutta la magistratura.

Non c’è stato un esame dei fatti, nessun impe-gno a distinguere le responsabilità (fra chi vuole bloccare i processi e chi vorrebbe andare avan-ti), solo una reazione generale di fastidio verso la categoria che va pertanto messa in riga.

Il richiamo al rispetto della deontologia è dove-roso, e tante responsabilità abbiamo, in questo campo, anche noi giornalisti. Ma eventuali viola-zioni che dovrebbero essere sanzionate anzitut-to dagli ordini professionali, non possono essere prese a pretesto per misure che limitano il potere di indagine e il diritto-dovere all’informazione.

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Relazione Tavola Rotonda “Libertà di informazione e giustizia...” 70

Tigor: rivista di scienze della comunicazione A.I (2009) n.1 (gennaio-giugno)

Su noi giornalisti cosa dire? Siamo Una cate-goria ormai senza interlocutori, senza contrat-to da quattro anni, in una situazione di debo-lezza come forse mai nel recente passato. Ed i tagli del governo ai fondi all’editoria, per ora solo congelati, rafforzano la linea dura degli editori, la chiusura alle richieste economiche e la pretesa di totale mano libera nella gestione delle redazioni.

Anche qui la crisi alimenta la voglia di cam-biare le regole: si avanza la proposta di preve-dere nel contratto la mobilità dei giornalisti all’interno del gruppo editoriale, si chiede di po-ter licenziare capiredattori, vice, non si accetta alcun vincolo su durata e retribuzione del pre-cariato e la categoria, stretta fra la necessità di avere un contratto, la crescente disoccupazione, i crescenti vincoli al diritto/dovere di cronaca, rischia la frantumazione o l’impotenza.

Preoccupante anche la tendenza diffusa a de-nunciare non chi il crimine lo commette ma chi lo denuncia.

Torniamo sulla scuola, i tagli della riforma Gelmini hanno risparmiato le scuole private, quasi tutte cattoliche, dopo la protesta dei ve-scovi il governo si è impegnato a non togliere fondi. Restano i tagli alla scuola pubblica, attua-ti nonostante la grande ed intelligente mobi-litazione di studenti ed insegnanti, che hanno spalancato la prospettiva della disoccupazione a vita per laureati specializzati precari o in attesa di lavoro. Nei fatti si costringe alla marginalizza-zione una intera categoria di giovani, e quando questa generazione sarà uscita definitivamente dal mercato del lavoro, si scriveranno forse nuo-ve regole, nuovi programmi e si procederà ad un ricambio culturale degli insegnanti. Diceva Calamandrei: se volete far tornare il fascismo, senza colpi di stato, distruggete la scuola pub-blica, il resto verrà da sé.

Se poi si mettono sotto tutela anche la giusti-zia e l’informazione diventeremo soltanto la caricatura di una democrazia.

Gianni MartellozzoSegretario dell’Assostampa FVG

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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.1 (gennaio-giugno)

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L’esperienza giuridica digitale tra teoria e prassi:spunti per una riflessione critica

Stefano Favaro

Abstract

La rivoluzione giuridico-informatica del terzo millennio, sia sotto il profilo del diritto positivo dell’informatica che sotto il versante documentario e cognitivo, tratteggia l’esperienza giuridica digitale contemporanea come quel-la dimensione “computercentrica” le cui aporie, peraltro, sono superabili solo attraverso il recupero – paradossale ma imprescindibile – proprio della centralità, filosofica-mente classica, dell’uomo.

Parole chiave:

Banca dati - SELConvenzionalitàAmministrazione digitaleDati personaliComputer crimes

1. Premessa. La rivoluzione informatica e il diritto

È indubbio che l’uomo del terzo millennio si trovi irrimediabilmente “gettato”, nella

contemporanea società del progresso tecno-logico, dell’informazione digitale e dell’abuso del computer1, in una dimensione profonda-mente rivoluzionaria e in divenire, in cui stan-no scomparendo finanche i capisaldi spaziali e temporali sui quali l’esperienza tutta si è fino-ra radicata.

L’elaboratore elettronico costituisce oggi, in-fatti, con evidenza macroscopica, l’elemento innovatore dell’intera esistenza dell’uomo, sia come singolo sia come membro della società, al punto tale che non si può non avere la con-1 Si rinvia, per una esaustiva trattazione della strut-tura e del funzionamento del computer, nonché per la disamina delle singole specifiche tecniche delle sue componenti, alla manualistica di settore (di cui si se-gnalano, tra i numerosi contributi, i seguenti testi: G. Taddei elmi, Corso di informatica giuridica, Napoli, 2003; G. Caridi, Metodologia e tecniche dell’informatica giuridica, Milano, 1989; m. CossuTTa, Questioni sull’informatica giu-ridica, Torino, 2003).

sapevolezza del fatto che «l’avvento dell’infor-matica rappresenta […] nella storia dell’uma-nità un turning point paragonabile a quello che cinquemila anni or sono si determinò con l’in-venzione della scrittura»2.

Tale carattere rivoluzionario della computer’s

2 e. PaTTaro, Diritto, scrittura, informatica, in e. PaTTaro (a cura di), Codice di diritto dell’informatica, Padova, 2005, p. 30. In effetti, non si può non concordare con chi af-ferma che «il nuovo oggi è rappresentato da un mondo in cui non c’è campo di attività che non sia regolato da un computer; non c’è persona che non venga in contatto quasi quotidiano con un computer; non c’è più ufficio dove un impiegato non abbia davanti a sé un video e una tastiera, non c’è ragazzo che non faccia su Internet ciò che noi vecchi facevamo in cento luoghi diversi» (r. Zallone, Elementi di diritto dell’informatica, Milano, 2007, p. 9). Sottolinea con particolare efficacia la rilevanza del-la rivoluzione informatica che la nostra società sta vi-vendo anche r. Borruso, il quale sostiene che è doveroso riconoscere «che l’informatica è una conquista irrinun-ciabile della nostra civiltà», e «che chi non si mette al passo col proprio tempo viene fatalmente travolto» (cfr. r. Borruso, sub voce Informatica giuridica, in Enciclopedia del diritto, aggiornamenti, Milano, 1998, p. 676). Si veda anche, al riguardo, l’introduzione al testo di G. Frosio, Guida al Codice della Pubblica Amministrazione Digitale, Napoli, 2005.

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Tigor: rivista di scienze della comunicazione A.I (2009) n.1 (gennaio-giugno)

L’esperienza giuridica digitale fra teoria e prassi 72

science, che trova ulteriore conferma nel mo-mento in cui – se si passa dal piano eminen-temente ricognitivo-descrittivo a quello più marcatamente teorico – è necessario constata-re che la tecnologia informatica «piega a sé»3 e così facendo «ricurva i contenuti del proprio messaggio»4, così che la “tecnica” informati-ca, quale nuovo metodo radicato anche nello sviluppo del pensiero dell’uomo, non solo ne modifica “esternamente” le concrete modali-tà di estrinsecazione, ma addirittura ne altera “internamente” la sostanza più profonda, po-nendosi come primario fattore di un suo con-dizionamento strutturale, non può non coin-volgere, fino a modificarlo profondamente, anche l’operato dei giuristi e, correlativamen-te, l’esperienza giuridica nel suo complesso.

In primo luogo, infatti, e da un punto di vista operativo, da più parti si osserva che in un fu-turo che non sembra neppure troppo remoto «tutto il diritto sarà informatico, perché, come già la scrittura, così l’informatica, oltre che modalità espressiva del diritto, diverrà l’ogget-to precipuo del diritto»5, che «il rapporto tra diritto e computer è profondamente diverso da quello profilabile tra il diritto e tutte le altre macchine sino ad ora inventate»6, e che «per-tanto l’uso del computer appare destinato ad aprire un capitolo completamente nuovo nella storia del diritto: sul modo stesso di concepire la legge, su come prepararla e scriverla, su come e da chi farla applicare»7.

In secondo luogo, e da un punto di vista spe-culativo e teorico, è altrettanto indubbio che l’indicata “non neutralità” della tecnologia in-formatica, ove riferita specificamente alla con-figurazione dell’esperienza giuridica, non può non essere un fattore in grado di condizionare, nelle sue radici filosofiche e metodologiche, anche la struttura della conformazione menta-le di ogni giurista, delle ragioni delle sue scel-te, delle modalità del suo concreto operare.

3 u. PaGallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giu-ridica, Padova, 2003, p. 13.4 Ibidem.5 e. PaTTaro, Diritto, scrittura, informatica, in e. PaTTaro (a cura di), Codice di diritto dell’informatica, cit., pp. 30-31.6 r. Borruso, sub voce Informatica giuridica, in Enciclopedia del diritto, cit., p. 676.7 Ibidem.

Quanto si viene affermando è tanto più vero ove si consideri che, allo stato dell’arte e se-condo le prospettive del suo futuro perfezio-narsi, l’utilizzo del computer in ambito giuridi-co riverbera la propria cifra applicativa e me-todologica in ogni ramo del “farsi” del diritto: sia, seguendo la scansione propria di uno dei possibili inquadramenti della disciplina8, con riferimento al diritto dell’informatica, in cui l’informatica diviene oggetto di regolamenta-zione normativa da parte del diritto positivo, sia con riferimento all’informatica del diritto, in cui è il diritto a farsi oggetto dell’informati-ca, dando vita, in particolare, ai due sottoinsie-mi dell’informatica giuridica documentaristi-ca, avente la funzione di consentire al giurista il rapido reperimento delle fonti, e dell’infor-matica giuridica cognitiva, la quale costituisce un ausilio per quanto riguarda ogni attività “altra” rispetto alla ricerca documentaria.

Il “contagio” informatico dell’esperienza giu-ridica, tuttavia, per il proprio carattere protei-forme ed incessantemente in fieri, e, nello stes-so tempo, per la propria capacità di snaturare, prima ancora che il sistema si sia ri-adattato ad esso, gli istituti giuridici e la forma mentis del giurista, non è scevro da rischi di ordine operativo-applicativo e teorico-metodologico: la ratio ispiratrice e i correlativi tratti essenzia-li di alcune delle principali innovazioni della computer’s science, infatti, evidenziano come alle enormi potenzialità alla stessa sottese si

8 In materia, si rinvia, a titolo esemplificativo, tra gli altri, alla classificazione operata da G. Taddei elmi nel volume Corso di informatica giuridica, cit., pp. 20-21, in cui l’Autore opera una pentapartizione dei sistemi informatici, distinguendo, a seconda della funzione specifica: sistemi informativi, sistemi cognitivi, sistemi redazionali, sistemi manageriali, sistemi didattici; non-ché alla suddivisione operata da m. CossuTTa in Questioni sull’informatica giuridica, cit., pp. 15 ss, in cui l’Autore, una volta chiarita la nozione di diritto dell’informatica, suddivide l’informatica del diritto in quattro ulterio-ri settori: quella consistente nella raccolta delle fonti; quella consistente nel supportare elettronicamente il compimento di operazioni materiali che producono effetti giuridici; quella consistente nello «studio di si-stemi esperti a supporto della istituzionalizzazione giu-ridica di operazioni» giuridiche più complesse; quella consistente nella «riflessione sul linguaggio e sul ragio-namento giuridico e sulla loro compatibilità con il lin-guaggio ed il ragionamento informatico».

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accompagnino, in un rapporto di reciprocità di difficile decifrazione, i limiti, le difficoltà e le aporie dell’era dell’informazione digitale.

2. Il diritto positivo dell’informatica

Quanto si viene affermando trova riscon-tro, innanzitutto, con riferimento al diritto positivo dell’informatica, che – nello stesso modo in cui, in generale, tutto «il diritto è una necessità»9, è ormai divenuto, nell’ipertecno-logico sistema giuridico continentale, un’esi-genza insopprimibile per la regolamentazione delle “nuove” relazioni intersoggettive “digi-tali”, siano esse riferibili all’ambito del diritto civile, del diritto penale o, ancora, del diritto amministrativo10.

Sotto il versante strettamente civilistico, sulla base dell’indiscutibile presupposto per cui il progressivamente crescente impiego del computer e di Internet, soprattutto per finalità commerciali, è il più rilevante fattore di inno-vazione della disciplina normativa giuspriva-tistica contemporanea, ma anche il principale mezzo per il veicolarsi, nel sistema sociale e giuridico, di nuove patologie relazionali e di vuoti normativi affatto rilevanti, appare op-portuno segnalare, fra i numerosissimi inter-venti normativi in materia11, il D. Lgs. 196/03, 9 F. GaZZoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, p. 3.10 Al riguardo, si osserva che prontamente il Legislatore del terzo millennio, inseguendo e talvolta precedendo la tecnologia informatica, è intervenuto attivamente sulla tessitura normativa vigente, dando così vita ad un corpus normativo amplissimo e irriduci-bile ad unità, perennemente in fieri, in parte di origine comunitaria, in parte frutto dello specifico operato del Legislatore italiano, che tocca ogni ramo dell’esperienza giuridica. Per un’indicazione di massima dei principali interventi normativi in materia di diritto dell’informa-tica, si veda: m. CossuTTa, Questioni sull’informatica giuri-dica, cit., pp. 25-30. Per la disamina, invece, dell’intero corpo legislativo che, oggi, in Italia, regolamenta i nu-merosissimi istituti giuridici di diritto positivo dell’in-formatica, si veda l’aggiornatissima elencazione del vo-lume curato da e. Tosi, Il codice del diritto dell’informatica e di Internet, Piacenza, 2007.11 Tra tali interventi si indicano, a titolo meramente esemplificativo della varietà e dell’ampiezza dello spet-tro di copertura della nuova legislazione civilistica di diritto dell’informatica, quelli relativi alla conclusio-ne del contratto virtuale, alla firma digitale, alla tutela

intitolato Codice in materia di protezione dei dati personali (che di seguito, per comodità, sarà in-dicato solo come Codice), il quale, costituendo il frutto dell’acquisita consapevolezza, da parte del Legislatore, del fatto che la protezione dei dati personali è diventata, nel mondo del com-mercio elettronico e dell’identità informatica e digitale, un imprescindibile patrimonio – da tutelare adeguatamente – per il pieno mante-nimento e sviluppo della personalità indivi-duale e per l’esercizio dei diritti fondamentali di ogni cittadino, è un imponente testo unico che raccoglie, disciplinandole organicamen-te in un solo corpus legislativo – abrogando i precedenti testi legislativi che le contenevano – tutte le disposizioni vigenti in materia di tu-tela della privacy e dell’identità personale12.

della proprietà intellettuale e industriale, alla tutela dei consumatori, alla legge applicabile alle transazioni transnazionali, al processo telematico, al cosiddetto e-commerce in generale, in ordine al quale, in modo parti-colare, si condividono le parole di T. Ballarino, che, nella Prefazione al volume Trattato Breve di diritto della rete, Rimini, 2001, afferma: «nel commercio internazionale, come nel commercio elettronico, […] il compito del giu-rista, oggi, è di adattare il fenomeno Internet alle rego-lamentazioni statali che sopravvivono».12 La ratio sottesa all’emanazione del Codice risiede, in particolar modo, nella constatazione del fatto che, nella nuova dimensione del commercio elettronico nel cosiddetto cyberspazio, le sempre più frequenti cam-pagne imprenditoriali pubblicitarie di direct marketing, presupponendo, da parte delle ditte produttrici, una prodromica attività di profilazione dei caratteri perso-nali dei potenziali clienti che siano compatibili con il bene o il servizio oggetto della campagna pubblicitaria stessa, conducono alla formazione di raccolte elettroni-che di dati personali altrui sempre più ampie e nel con-tempo parziali e fuorvianti; per questa via, infatti, at-traverso una vera e propria amputazione-ricostruzione informativa sulla persona campionata, l’unità dell’indi-viduo nella sua originaria identità personale viene let-teralmente spezzata e «sostituita da tante persone elet-troniche, tante persone create dal mercato quanti sono gli interessi che spingono alla raccolta delle informazio-ni», ossia da una nuova «identità digitale che rischia di ingenerare nei consociati un’immagine profondamente distorta della persona» (cfr. s. rodoTà, Persona, riservatez-za, identità. Prime note sistematiche sulla protezione dei dati personali, in Rivista critica di diritto privato, 1997, pp. 583 ss.). E il Codice della privacy risponde proprio all’esigen-za di tutelare l’identità personale dell’individuo a fronte della sua scomposizione nell’identità digitale, nonché il diritto di ognuno a non subire ingerenze nel manteni-mento di quel minimo di riservatezza e di veridicità, in

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Si tratta di un codice consistente in un coa-cervo di indispensabili tecnicismi anche ter-minologici i quali, peraltro, confluiscono in disposizioni spesso eccessivamente ampie e meramente programmatiche che, piuttosto che garantire una concreta forma di tutela, lasciano solo intuire quale sia la ratio ispira-trice del Legislatore13. L’intelaiatura generale del principale meccanismo di trattamento dei dati personali che emerge dal testo in questio-ne è incardinata, in generale, su di una serie di principi cui deve uniformarsi qualsiasi for-ma di trattamento14, e, in particolare, sui due istituti dell’informativa all’interessato e del consenso dell’interessato, in virtù dei quali, da un lato, chiunque intenda utilizzare i dati per-sonali dell’interessato deve preventivamente informarlo delle proprie intenzioni, indican-do con chiarezza modalità e scopi di utilizzo di tali dati, e, dall’altro, in alcuni casi15 l’interessa-

ordine alla propria caratterizzante individualità, che è presupposto ineliminabile del nostro comune carattere di esseri sociali.13 Si veda, al riguardo, l’art. 4 del Codice, che definisce «dato personale» qualsiasi informazione riferibile ad un determinato soggetto, e «trattamento» qualsiasi utilizzo di dati personali da chiunque posto in essere, chiarendo anche che i soggetti più direttamente coinvolti nell’ope-razione di trattamento dei dati sono il «titolare», cioè il soggetto, persona fisica o giuridica, nel cui interesse o a favore del quale i dati personali di un altro soggetto, detto “interessato”, sono assoggettati a trattamento, e sul quale, correlativamente, grava l’obbligo di trattare i dati personali nel rispetto delle disposizioni del Codice, nonché l’«interessato» stesso, cioè il soggetto i cui dati personali sono oggetto di trattamento e, dunque, og-getto di tutela. Ebbene, è indubbio che tali definizioni si mantengono – volutamente – entro un alveo di gene-ricità terminologica tale da non poter non ingenerare, per il prossimo futuro, intricate questioni ermeneuti-co-applicative della normativa di riferimento.14 Tra tali principi generali si indicano, a norma degli artt. 1-3 del Codice: il principio del diritto al trattamento dei dati personali tanto per le persone fisiche quanto per le persone giuridiche; il principio per cui il trattamento deve assicurare un elevato livello di tutela nel rispet-to dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità degli interessati; il principio di necessità, secondo cui i dati personali devono essere sottoposti a trattamento esclusivamente qualora sia strettamente necessario.15 Le situazioni in presenza delle quali il consenso dell’interessato non è richiesto sono indicate, anch’esse tassativamente, nell’art. 24 del Codice: si tratta, in so-stanza, di casi in cui il Legislatore ha ritenuto inopportu-

to – previamente informato – al quale si riferi-scono i dati che il titolare del trattamento e il suo personale intendono sfruttare, deve dare, affinché i dati stessi siano concretamente uti-lizzabili, il proprio consenso al trattamento16.

Quanto agli strumenti di tutela predisposti, dalla Parte III del Codice, per il caso di viola-zione, da parte del titolare, della normativa sul trattamento dei dati personali, è prevista la possibilità, per l’interessato, di rivolgersi sia al Garante17, al fine di ottenere tutela in via amministrativa attraverso il triplice regime del reclamo circostanziato, della mera segna-lazione, e del vero e proprio ricorso, sia, ma in via rigorosamente alternativa rispetto al ricorso al Garante, all’Autorità giurisdizionale ordinaria18.

Per quanto riguarda, inoltre, il versante pe-nalistico, anch’esso sconvolto dall’avvento delle tecnologie informatiche, che hanno let-teralmente spalancato le porte a nuove possi-bili frontiere per la criminalità, il Legislatore è stato obbligato ad intervenire prontamente sul tessuto normativo vigente, per apportarvi

no subordinare al consenso il trattamento, in presenza di particolari modalità di raccolta dei dati personali tali da rendere il consenso stesso, oltre che imposto aliunde, inesigibile in relazione alla preminenza di determinati interessi di matrice pubblicistica, oppure implicito in taluni comportamenti o richieste dell’interessato.16 Il consenso, per essere valido, deve rispettare i requisiti tassativamente indicati dall’art. 23 comma 1 del Codice, e cioè deve essere espresso, validamente e liberamente prestato, nonché specifico, ossia riferito separatamente ad ogni singola e differente tipologia di trattamento richiesta dal titolare.17 Il Garante, a norma dell’art. 4 lett. q) del Codice, è l’autorità pubblica, autonoma ed indipendente, colle-giale (composta da quattro membri), titolare di compiti generali di controllo della regolarità delle operazioni di trattamento dei dati personali, nonché del potere di irrogare, in presenza di determinate situazioni, an-che sanzioni a carico dei violatori della disciplina del Codice.18 Con riferimento, infine, alla disciplina dell’appa-rato sanzionatorio, capillarmente disciplinato dagli artt. 161-172 del Codice, va osservato, rimandando alla normativa per ogni ulteriore dettaglio, che il legislato-re opera, mantenendo inalterato quanto era preceden-temente disposto dalla L. 675/96, una ripartizione tra sanzioni di carattere amministrativo e sanzioni, più se-vere, di carattere penale.

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gli opportuni adeguamenti19, attraverso l’in-troduzione nel sistema dei cosiddetti “reati informatici”, e ciò sia effettuando un’integra-zione modernizzante di previgenti disposi-zioni incriminatici, sia creando ex novo inedi-te fattispecie delittuose.

Tra i computer crimes del primo tipo si ri-cordano: il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” di cui all’art. 392 c.p., il cui aspetto maggiormente interessante riposa nella lettura del terzo comma, aggiunto dalla L. 547/93, il quale, ampliando i termini e la portata della nozione di “violenza sulle cose”, cioè della modalità di condotta integrante il reato in analisi, prevede che «si ha, altresì, vio-lenza sulle cose allorché un programma informa-tico viene alterato, modificato o cancellato in tutto o in parte ovvero viene impedito o turbato il fun-zionamento di un sistema informatico o telemati-co»; nonché il reato di “violazione, sottrazio-ne e soppressione di corrispondenza” di cui all’art. 616 c.p., il cui contenuto più rilevante risiede nel quarto comma, inserito nel 1993, che, ampliando il concetto di corrispondenza sino a farvi rientrare anche la corrispondenza telematica, ha di fatto esteso il ventaglio delle posizioni tutelate dalla norma in questione anche al flusso, ormai ciclopico ed ininterrot-to, delle informazioni circolanti anche on line nella Rete20.

19 Tale compito, peraltro, è risultato, e risulta tuttora, assai difficile, e ciò sia a causa dell’eterogeneità delle fat-tispecie sussumibili nella definizione di quelli che sono comunemente denominati computer crimes, sia a causa del velocissimo evolversi delle fattispecie criminali in maniera direttamente proporzionale all’incremento della diffusione e delle potenzialità delle tecnologie informatiche, sia, anche, a causa dell’ormai consolida-to carattere transfrontaliero, nell’era della globalizza-zione, della contemporanea criminalità informatica e telematica.20 L’indicato ampliamento della nozione di corri-spondenza è, tra l’altro, tale da consentire la configu-rabilità, relativamente all’ipotesi di corrispondenza telematica, anche delle ulteriori fattispecie criminose previste dagli artt. 618, 619 e 620 c.p., rispettivamente concernenti la rivelazione del contenuto di corrispon-denza, la violazione, sottrazione e soppressione di cor-rispondenza commesse da persona addetta al servizio delle poste, dei telegrafi e dei telefoni, e la rivelazione del contenuto di corrispondenza commessa da per-sona addetta al servizio delle poste, dei telegrafi e dei

Tra i computer crimes di nuova formulazione si segnalano, invece, gli artt. 615 ter, quater e quinquies c.p. Essi, rispettivamente delineanti i reati di “accesso abusivo ad un sistema in-formatico o telematico”, di “detenzione e dif-fusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici e telematici”, e di “diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrom-pere un sistema informatico”, sono stati inse-riti nel Titolo XII c.p, dedicato ai delitti contro l’inviolabilità del domicilio, allo scopo di tute-lare, alla pari di quanto già avviene per il do-micilio tradizionalmente inteso nella sua ac-cezione di sede dei principali affari e interessi della persona, anche il nuovo e rivoluzionario domicilio informatico, esprimente l’idea di uno spazio immateriale in cui affari, interessi, dati, informazioni dei singoli navigatori della Rete, si proiettano in una dimensione tecno-logica affatto nuova e, sotto molteplici aspetti, ancora ignota e pericolosa21.

Con riferimento, poi, al diritto amministra-tivo dell’informatica, è opportuno segnalare il D. Lgs. 82/05, recentemente modificato dal D. Lgs. 159/06, intitolato Codice dell’Amministra-zione Digitale, ma da più parti suggestivamen-te ribattezzato come “Magna Charta dell’Am-ministrazione Digitale”, il quale costituisce lo strumento normativo destinato a veicolare il sistema verso la realizzazione del graduale ma necessario processo di tecnologizzazione informatica della P. A che, ormai, è esigenza in-sopprimibile per la compiutezza dei rapporti tra il privato e pubblico22. Trattasi di un corpus telefoni.21 Tali reati sono, in sostanza, la palese dimostrazione della maturata consapevolezza, acquisita dal Legislatore, del fatto che, nell’era della computer’s science, rilevanti porzioni della vita dell’individuo trascorrono ormai in una dimensione – quella dei sistemi informatici e tele-matici – costituente la proiezione dell’agire umano nel-la sfera digitale, che si trova a cavallo tra il mondo reale e il cosiddetto ciberspazio e necessita di un’opportuna protezione anche sotto il profilo penalistico.22 Non si può che convenire, in effetti, con chi sostie-ne che «nel terzo millennio la pubblica amministrazio-ne deve tendere alla semplificazione dei rapporti tra Stato e cittadini», e che il computer, in quanto strutturalmente caratterizzato da quella trasparenza, certezza, assenza di discrezionalità e neutralità che sono una risorsa po-tenzialmente utilissima alla realizzazione del progetto di cui all’art. 97 Cost., sia lo strumento deputato a risol-

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comma 1)26; e, in secondo luogo, di una parte dedicata, invece, agli aspetti tecnici di maggio-re rilievo propri della nuova P. A. digitale, tra cui spiccano senza dubbio la firma elettroni-ca (art. 1 lettere q, r, s), di cui sono delineate le tre differenti tipologie della firma elettronica pura e semplice, della firma elettronica quali-ficata e della firma digitale27, e i documenti in-formatici (artt. 20 e ss.), la rilevanza della cui disciplina risiede nel fatto che l’intera esisten-za di qualsiasi cittadino, nei suoi rapporti sia con i privati che con le strutture pubbliche, è oggi sempre scandita dalla compilazione, dalla firma e dalla spedizione di documentazione in formato elettronico28.

26 Si tratta di un diritto che per il proprio contenu-to, nel porre un principio fondamentale applicabile a ciascuno degli altri principi espressi nella normativa in esame, assurge a vera e propria norma di chiusura della Sezione II del Capo I del D. Lgs. 82/05. Anche con rife-rimento a tale norma, peraltro, non si può sottacere il pericolo che il principio da essa affermato rimanga let-tera morta, a fronte dell’assenza totale di stanziamenti di bilancio e di coperture finanziarie idonee a rendere potenzialmente eseguibile il suo contenuto, e a fronte, anche e soprattutto, della riottosa lentezza della mac-china burocratica amministrativa nazionale, spesso ele-fantiaca e mossa da dipendenti pubblici ancora lontani dallo spirito di cura e di attenzione verso il cittadino che è proprio della riforma in esame. L’effettiva attuazione del principio di cui all’art. 7, e con esso della riforma in-tegrale della P. A. delineata dal Codice, pertanto, dovrà passare necessariamente anche attraverso una preven-tiva rivoluzione della tradizione e del retroterra cultura-le del personale della P. A.27 Atecnicamente, si può dire che la firma elettro-nica è un genere di cui la firma elettronica qualificata è una specie, a sua volta contenente la specie ulteriore della firma digitale. In particolare, la firma digitale è, allo stato, l’unico standard generalmente riconosciuto in grado di assicurare l’autenticità, l’integrità e la non ripu-diabilità delle dichiarazioni giuridicamente rilevanti in formato “digitale”. Essa è strutturata, come è noto, sul cosiddetto sistema a crittografia asimmetrica basato su chiavi, ossia su di un sistema che, sfruttando due nume-ri, conosciuti come coppia di chiavi, di cui uno, la chiave privata, è segreto, e l’altro, la chiave pubblica, è divulga-to anche a terzi, garantisce certezza in ordine all’iden-tità di chi ha apposto la firma al documento trasmesso elettronicamente. Per una chiarissima esemplificazio-ne del funzionamento di tale sistema, vedasi r. Zallone, Elementi di diritto dell’informatica, cit., pp. 125-126.28 Per quanto riguarda, in particolare, i rapporti tra il documento informatico e la firma digitale, anche ai fini della rilevanza probatoria del documento stesso, il

normativo, costituito da 91 articoli, complesso e di difficile decifrazione, ma di estrema rile-vanza, la cui finalità è bene espressa dall’art. 2, che scolpisce a chiare lettere il diritto inviola-bile dei cittadini, verso la P. A., al documento e all’informazione digitale, e il correlativo dove-re della P. A. di informatizzarsi e tecnologizzar-si per i cittadini. Esso consta, in primo luogo, di una parte in cui sono espressamente rico-nosciuti al cittadino “digitale” una lunga se-rie di “nuovi diritti informatici” nei confronti della P. A., enunciati analiticamente, ma assai genericamente, quali: il diritto all’uso delle tecnologie (art. 3)23; il diritto al procedimento amministrativo informatico (art. 4); il dirit-to ai pagamenti elettronici (art. 5)24; il diritto alla comunicazione tramite posta elettronica certificata (art. 6); il diritto all’alfabetizzazione informatica e alla democrazia elettronica (artt. 8 e 9)25; il diritto alla qualità dei servizi (art. 7

vere in senso positivo l’equazione informatica = traspa-renza = efficienza = buon governo. La citazione è tratta da G. Frosio, Guida al Codice della Pubblica Amministrazione Digitale, cit., p. 11.23 La ferma dichiarazione di principio con cui l’art. 3 sancisce perentoriamente il descritto diritto all’e-gover-nment, peraltro, deve accompagnarsi al rilievo critico per cui essa si risolve in una dichiarazione program-matica che, tuttavia, non è immediatamente attuabile, stante l’assenza di una previsione relativa agli effetti giuridicamente rilevanti per le pubbliche amministra-zioni in caso di inerzia o di inadempimento della nuova disciplina. Il rischio sotteso ad una simile situazione, è, pertanto, che il diritto all’uso delle tecnologie resti lette-ra morta nei propri potenziali risvolti applicativi.24 Tale diritto si inserisce all’interno del più ampio progetto relativo ai servizi informatici messi a disposi-zione dei cittadini dalla nuova P. A., di cui fanno parte an-che la Carta di Identità Elettronica e la Carta Nazionale dei Servizi: queste ultime sono, dal punto di vista strut-turale, delle smart card dotate di microchip in grado di contenere e di conservare i dati relativi ai cittadini che ne sono titolari, e in grado, altresì, di permettere ad essi l’espletamento, tanto nel mondo fisico quanto, anche e soprattutto, nel mondo virtuale della Rete, di varie at-tività (tra le quali, appunto, il pagamento elettronico) nelle relazioni con le P. A.25 È opportuno segnalare che anche tali principi, alla pari di quanto accade con il diritto all’e-government, sono totalmente privi di contenuto precettivo e si risolvono in mere dichiarazioni di intenti, così che non si può che rinviare a quanto già sopra evidenziato (cfr. supra, sub nota 23).

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Ebbene, la breve rassegna, or ora sintetica-mente effettuata, di alcuni dei principali inter-venti legislativi di diritto positivo dell’infor-matica, consente di sottolineare, unitamente alla positiva valutazione della prontezza con cui il Legislatore ha risposto all’irruzione del “digitale” nell’esperienza giuridica, le notevo-li difficoltà tuttavia incontrate, dal Legislatore medesimo, nel fornire un’adeguata regola-mentazione, calibrata con i tempi, agli istituti giuridici di vecchia e nuova formulazione che sono stati travolti dall’impetuosa tempesta della computer’s science.

Costretto ad intervenire spesso fretto-losamente dal prorompere degli eventi, il Legislatore infatti, come si è visto, si è trova-to spesso nella condizione di dover procedere, prima ancora che alla statuizione della disci-plina specifica dei diversi istituti di riferimen-to, alla fissazione di una serie di principi gene-rali che fungessero da connettore teorico alle singole normative di dettaglio, delineando, così, “dall’alto”, i tratti essenziali della nuova dimensione giuridica digitale. Per l’effetto, ne è emersa una lunga serie di disposizioni mera-mente programmatiche e di principio le quali, se da un lato non possono essere accolte che con favore, manifestandosi come un inequivo-co segnale della sensibilità del Legislatore nei confronti dei mutamenti cui il sistema deve sempre prontamente reagire, dall’altro lato ri-schiano però di rivelarsi, se non supportate da un idoneo apparato finanziario e normativo di

Legislatore ha graduato il valore da attribuire ai docu-menti informatici sulla base della presenza o meno, in calce ad essi, di una firma elettronica, e, in particolare, sulla base della presenza di una particolare tipologia di firma elettronica piuttosto che di un’altra. La disciplina normativa implica, in sostanza, che il requisito della forma scritta sia ascrivibile al solo documento infor-matico cui sia apposta una firma elettronica qualifica-ta o, addirittura, digitale, con l’effetto che tutto il resto è da considerarsi mera riproduzione meccanica ex art. 2712 c.c. Si tratta di una scelta assai infelice, posto che essa, così facendo, equipara il valore e l’efficacia dei do-cumenti informatici non sottoscritti a quelli dei docu-menti informatici sottoscritti con firma elettronica non qualificata, omettendo di considerare che, in realtà, le firme elettroniche non qualificate, seppure non “sicure” al massimo grado, costituiscono in ogni caso un metodo di autenticazione informatica più elevato rispetto alla totale mancanza di sottoscrizione elettronica.

dettaglio in grado di attuarle, mero flatus vocis, e, di fatto, sostanzialmente inutili.

Nel contempo, peraltro, i titolari del potere normativo hanno anche dovuto necessaria-mente predisporre, nei diversi settori di riferi-mento, un corpus normativo quantomai com-plesso dal punto di vista tecnico, legiferando in settori profondamente specialistici che, se da una parte richiedono una notevolissima e lucida competenza, oltre che tecnica, anche terminologica, dall’altra parte rischiano, nel momento stesso in cui siano stati cristallizzati nei propri caratteri in una struttura normati-va compiuta, di essere superati da un nuovo, imprevedibile, sviluppo della tecnologia digi-tale che, rendendo desuete ed anacronistiche le leggi ad essi riferibili, può vanificare radical-mente la portata delle medesime leggi.

La presa d’atto della sussistenza di tali osta-coli relativi alla tecnica normativa sul diritto dell’informatica, che la dimensione perenne-mente in fieri della rivoluzione digitale incre-menta senza posa, non può esimere dall’au-spicare che la sempre maggiore dimestichezza informatica che tutti, con il passare del tempo, non potranno non acquisire si traduca, anche, proprio nel miglioramento della capacità degli organi competenti di legiferare in materia.

Nello stesso tempo, si osserva che il compu-ter stesso non potrà costituire, come invece da più parti si auspica, il veicolo idoneo a condur-re in via esclusiva al perfezionamento della tec-nica legislativa in materia informatica. Come si dirà meglio in seguito, parte della dottrina, manifestando un eccessivo entusiasmo nei confronti della purezza del linguaggio binario in cui si esprime, e tramite cui tutto compren-de, l’elaboratore, profila in effetti un futuro in cui l’ideale illuministico della tripartizione dei poteri, comprensivo del correlativo corollario della necessità di legiferare impiegando un linguaggio talmente puro da non dare adito ad alcuna questione interpretativa e da condurre, così, all’automatica applicazione della legge, potrà trovare collocazione nella contempora-neità attraverso la formulazione delle leggi in linguaggio-macchina, cioè nel linguaggio del computer, invece che nel linguaggio ordinario dell’uomo: il traguardo di tale “rivoluzione nel-

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no quotidianamente raffrontarsi, nello svolgi-mento delle proprie mansioni, col labirintico ed immenso mare magnum del corpus norma-tivo, dottrinale e giurisprudenziale vigente29, si erge a disciplina che, nell’occuparsi delle tecniche di utilizzo dell’elaboratore ai fini dell’automatizzazione dei processi di ricerca dei dati giuridici, e ciò attraverso la tecnica di ricerca automatica di documentazione giuri-dica raccolta in forma sistematica nelle ban-che-dati elettroniche, ha il compito di agevo-lare il giurista proprio nel reperimento delle fonti normative, giurisprudenziali e dottrina-li, apportando al suo lavoro uno straordinario risparmio di energie e di tempo.

Allo stato attuale della tecnica30 lo strumen-to informatico di maggiore utilizzo per il giurista che si avvalga del computer per il re-perimento della documentazione giuridica è, dunque, la banca-dati, che può definirsi come «un insieme di informazioni esaurienti e non ridondanti su un certo argomento, gesti-to da un apposito insieme di programmi»31. Più specificamente, si tratta di un sistema automatico per la raccolta, la conservazione,

29 Per rendersi conto di quanto sia sterminato il complesso normativo vigente, si vedano, al riguardo, le parole di r. Borruso, sub voce Informatica giuridica, in Enciclopedia del diritto, cit., pp. 653-654: «Ricercare le leggi da applicare al caso concreto […] diventa in Italia […] sempre più difficile, persino per i magistrati e per gli avvocati, innanzitutto a causa dell’enorme numero di leggi […] accumulatesi col passar del tempo: oltre cen-tosessantamila dal 1861 ad oggi. Il nostro ordinamento non è più a dimensione d’uomo».30 Per un approccio, invece, di tipo storico alla mate-ria, e per una descrizione dei diversi, e sempre più evo-luti, sistemi informativi degli ultimi decenni, si veda il già ricordato testo di G. Taddei elmi, Corso di informatica giuridica, cit., pp. 25 ss.31 m. G. losano, Informatica per le scienze sociali, Torino, 1985, p. 316. Anche il Legislatore ha elaborato a più ri-prese una definizione tecnica di banca-dati: per esem-pio l’art. 1, comma 2, lett. a, della L. 31 dicembre 1996, n. 675, stabilisce che la banca-dati è «qualsiasi complesso di dati personali, ripartito in una o più unità dislocate in uno o più siti, secondo una pluralità di criteri determinati tali da facilitarne il trattamento»; mentre l’art. 2, n. 9, della L. 22 aprile 1941 n. 633, così come modificato dall’art. 2 del D. Lgs. 6 maggio 1999, n. 169, stabilisce che le banche-dati sono «raccolte di opere, dati o altri elementi indipendenti si-stematicamente o metodicamente disposti ed individualmen-te accessibili mediante mezzi elettronici o in altro modo».

la rivoluzione informatica” dovrebbe essere, secondo una simile concezione, una perfetta, non necessitante alcuna interpretazione, leg-ge-algoritmo, creata direttamente da un com-puter nel momento stesso della sua automatica applicazione ai casi prospettati all’elaboratore, senza l’ausilio di altre persone all’infuori degli analisti programmatori.

Ebbene, un simile entusiasmo, allo stato dell’arte, non solo non è giustificato, ma si pa-lesa anche, con riferimento al diritto positivo dell’informatica, manifestamente illogico: non si vede, infatti, a prescindere dal rilievo per cui anche la redazione di una legge-algo-ritmo dovrà sempre necessariamente presup-porre la presenza di un programmatore e di un giurista a monte della propria formulazione, come lo strumento informatico, del cui fun-zionamento nessun uomo di diritto, tra l’altro, domina ancora pienamente i profondi segre-ti tecnici, possa addirittura autonomamente, grazie al proprio linguaggio binario, non solo regolamentare con estrema chiarezza esposi-tiva tutti i settori del diritto, ma, addirittura, regolamentare dal proprio interno il proprio stesso impiego. La “legislazione informati-ca”, in altri termini, non potrà mai risolvere definitivamente, espungendoli dal panora-ma dell’esperienza giuridica, i problemi della “legislazione sull’informatica”, perché vi sarà sempre, comunque, all’ombra del computer, la necessità ineludibile di fare riferimento alla presenza, comprensiva anche delle sue fisiolo-giche, perfettibili ma mai completamente eli-minabili, limitatezze, dell’uomo.

3. L’informatica giuridica documentari-stica e informatica giuridica cognitiva

Non meno esenti da rischi, d’altro canto, sono l’informatica giuridica documentaristi-ca e l’informatica giuridica cognitiva, in cui il computer, da mero strumento, diviene sogget-to attivo del rapido lavorio di erosione delle vecchie metodologie di approccio alla dimen-sione del “giuridico”.

Per quanto concerne l’informatica giuridica documentaristica, si ricorda che essa, in un panorama in cui gli operatori del diritto devo-

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la ricerca e l’elaborazione di dati, gestito da un software che, interrogato dall’utente con la formulazione di una richiesta di estrazione di un dato documento – o di una data serie di documenti – detta stringa di ricerca, mette a sua disposizione i testi richiesti dopo averli individuati tra quelli, memorizzati e classifi-cati in un archivio di base, di cui dispone. Il programma di gestione della banca-dati, dota-to di strumenti tecnici sempre più evoluti e in grado di accorciare i tempi di ricerca e di repe-rimento del documento da parte dell’utente32, si caratterizza soprattutto per una particolare metodologia operativa che prende il nome di indicizzazione della memoria di base: indi-cizzare, più specificamente, «significa rap-presentare un’informazione attraverso i suoi elementi»33, ossia mediante «l’individuazio-ne di tutte le parole significative contenute nell’unità informativa inserita nell’archivio principale, e la memorizzazione delle mede-sime in un archivio parallelo chiamato “indi-ce inverso” (o inverted file). Questo può esse-re immaginato come una “matrice” che, per ogni termine indicizzato, presenta la lista di tutti i documenti che lo contengono, ovvero […] la loro allocazione all’interno dell’archivio principale»34. Nel momento in cui l’utente interroga il computer chiedendo l’estrazione dall’archivio generale dei documenti che pre-sentino i termini di ricerca indicati, il sistema non compie un controllo in sequenza di tutti

32 Si segnalano, al riguardo: la libertà di scelta del dato di ricerca; la libertà di combinazione delle chiavi di ricerca; la possibilità di ottenere dei risultati nonostan-te il parziale mascheramento dei dati di ricerca; la liber-tà di estrazione automatica di informazioni mediante prospettazioni in chiave sintetica; il carattere conversa-zionale e interattivo della ricerca; le cosiddette tecniche di espansione o di restrizione (per una ricerca assistita da parte del software in aiuto dell’utente inesperto); il thesaurus (un particolare vocabolario semantico in cui i termini del linguaggio sono organizzati in relazioni tali che, a partire da un determinato termine, si possa estendere la ricerca ad altri termini collegati, e in cui le principali relazioni utilizzate per collegare le parole del linguaggio sono la sinonimia, la gerarchia semantica e la vicinanza di senso); Internet.33 G. Taddei elmi, Corso di informatica giuridica, cit., p. 36.34 Cfr. a. CaPelli, Introduzione alle banche-dati giuridi-che, Bologna, 1991, pp. 13 ss.

i documenti contenuti nell’archivio, ma pro-cede in via immediata e diretta alla verifica del contenuto dell’indice inverso: «qualora il confronto fra il termine di ricerca e una parola indicizzata abbia successo, il sistema otterrà contestualmente anche il numero di tutti i do-cumenti associati a quel termine (fornendolo in output) e le posizioni degli stessi all’interno dell’archivio»35.

Per quanto concerne le principali banche-dati giuridiche italiane36, che possono essere a supporto ottico37 ovvero telematiche38, è op-portuno segnalare il CED (Centro Elettronico di Documentazione) della Corte di Cassazione: si tratta di un’immensa banca-dati, operativa dal 1970, in cui sono raccolti milioni di docu-menti giuridici, a loro volta accorpati in sva-riati archivi (più di quaranta) che si distinguo-no sia a seconda della tipologia dei documenti raccolti – leggi, dottrina, giurisprudenza, di-ritto comunitario – sia a seconda della singola materia di riferimento. I documenti in essa immagazzinati sono così numerosi e aggior-nati che si può affermare che oggi il CED «co-35 Ibidem.36 Si vedano, per una disamina relativa alle origi-ni delle banche-dati giuridiche italiane: r. Borruso, l. maTTioli, Computer e documentazione giuridica. Teoria e pratica della ricerca, Giuffrè, Milano, 1999, e G. PasCuZZi, Cyberdiritto: guida alle banche-dati italiane e straniere, alla rete Internet, e all’apprendimento assistito da calcolatore, Bologna, 1995.37 Con riferimento a tale tipologia di banche-dati, si accenna solo al fatto che esse, realizzate e distribuite da diverse case editrici italiane, e sottoposte a periodico aggiornamento, presentano il carattere della “fissità”, in quanto bloccano le informazioni in un “magazzino”, il CD-ROM, che non entra in rete e rimane ancorato allo spazio operativo del personal computer dell’utente che lo possiede. Tra le principali banche-dati a supporto ottico diffuse nel nostro paese spiccano, in particolare: la rac-colta “Le leggi d’Italia”, prodotta dall’Istituto De Agostini, che raggruppa tutti i provvedimenti legislativi vigenti in Italia dal 1945 ad oggi; il repertorio legislativo, giuri-sprudenziale e bibliografico del Foro Italiano 1981-1988, prodotto dalla Casa Editrice Zanichelli; l’archivio “Juris Data”, distribuito dalla A. Giuffrè Editore, che riporta i dati tratti dalle edizioni 1979-1988 del “Repertorio an-nuale generale di Giustizia Civile”, i riferimenti alla le-gislazione vigente, nonché le massime delle decisioni dei principali organi giurisdizionali italiani dagli anni Settanta ad oggi.38 Queste ultime si caratterizzano per il fatto di esse-re accessibili anche on line tramite Internet.

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stituisce la fonte di cognizione più tempestiva e al tempo stesso più completa della legislazio-ne e della giurisprudenza italiana»39.

Ebbene, a fronte degli indubbi e notevolissi-mi benefici che l’informatica giuridica docu-mentaristica è in grado di fornire al giurista, non si può, tuttavia, sottacere la contempo-ranea sussistenza di un aspetto problematico di matrice teorica ad essa sotteso, e relativo all’approccio metodologico del giurista che sia utente informatico.

È opportuno osservare, infatti, che frequen-temente il computer fornisce in output – nel lasso temporale di qualche decina di secondi – un’enorme quantità di dati che, a causa della genericità della stringa di ricerca composta, è addirittura superiore ai risultati che l’utente ambiva ad ottenere. Tale surplus di informa-zioni impone dunque al giurista di effettuare ex post, per giungere all’oggetto specifico della propria ricerca, un’attenta selezione ragionata e critica del materiale raccolto. Si può pertan-to affermare che quanto più precisa e medita-ta ex ante sarà la stringa di ricerca compilata nell’interrogazione del sistema informativo, tanto meno necessario sarà tale vaglio ex post; all’opposto, ad una maggiore genericità della “domanda” di estrazione di dati rivolta al com-puter dovrà seguire, in una sorta di compensa-zione riequilibratrice, una maggiore selezio-ne ex post dei dati stessi. Ora, è proprio questo rilievo che spesso tende ad essere dimenticato da chi, utilizzando quotidianamente l’elabo-ratore, ripone ciecamente una fiducia acritica nei confronti dello strumento informatico. Il comportamento dell’utente medio che richie-

39 r. Borruso, sub voce Centro Elaborazione Dati della Corte di Cassazione, in Enciclopedia del diritto, cit., p. 200. Si segnalano, tra le altre banche-dati telematiche esistenti oltre al CED: la banca-dati della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, il G.U.R.I. Tel. (l’archivio in linea del Poligrafico dello Stato), nonché, a livello eu-ropeo, ma di fondamentale rilievo anche per l’Italia, il CELEX, un sistema per la ricerca automatica del diritto comunitario. Cfr., per i dettagli, fra gli altri, F. BruGaleTTa, Cercare diritto in Internet: leggi, norme e sentenze a portata di mouse, Napoli, 2004; r. Borruso, Computer e documenta-zione giuridica: teoria e pratica della ricerca: guida alla con-sultazione delle banche dati istituzionali: Corte suprema di cassazione, Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Istituto poligrafico dello Stato, Milano, 1999.

da al sistema il reperimento di una determi-nata informazione spesso si risolve, infatti, nella scelta, effettuata per pigrizia o per co-modità, del dato che il sistema offre per primo in output nell’elenco delle voci contenenti gli elementi-chiave segnalati nella stringa di ri-cerca, e nell’abbandono delle altre voci segna-late; come se il computer sapesse che la prima voce da visualizzare è quella che interessa il giurista-utente; come se, all’opposto, il giurista avesse la certezza che il primo dato indicato dal sistema sia effettivamente la risposta più confacente alle sue aspettative.

Inoltre, altrettanto spesso l’utente perde di vista la considerazione che il computer è in grado di riconoscere, inevitabilmente, solo i dati che sono stati immagazzinati nella sua memoria, e che pertanto il grado di precisione con cui l’elaboratore fornisce la risposta all’in-terrogazione è direttamente proporzionale, oltre che alla precisione nella formulazione della stringa di ricerca, anche all’accuratez-za con cui è stato programmato il software di gestione della banca dati e con cui sono state inserite nella stessa le conoscenze archiviate elettronicamente.

L’alternativa, pertanto, è la seguente: se il giurista che si avvale del computer è anche sufficientemente esperto di informatica ed è nel contempo così accorto, nella consapevo-lezza della parzialità dei dati memorizzati nel software, da costruire una stringa di ricerca sufficientemente precisa, egli saprà perfet-tamente quale voce scegliere, ai propri fini, tra tutte quelle – già numericamente ridotte in virtù della precisione dell’interrogazione rivolta al sistema – che il computer visualizze-rà in output all’esito della ricerca; se invece il giurista, senza possedere adeguate conoscen-ze informatiche, riponendo estrema “fiducia” nella capacità del computer di fornire in tempi brevi la risposta esattamente conforme alla sua richiesta, e senza le ricerche e gli studi preliminari necessari per la compilazione di una stringa di ricerca ristretta e circoscritta, accetta come valida la prima risposta indicata in output, allora, laddove il risultato di una si-mile ricerca non abbia un seguito in un’atten-ta valutazione-comparazione critica di tutte

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che dei risultati raggiunti dagli studi relativi all’intelligenza artificiale42, e che mira a che un elaboratore “intelligente” possa giungere a sostituirsi all’essere umano nella soluzione di questioni giuridiche complesse, è necessario specificare che le fondamenta sulle quali gra-vita, sempre, la concezione di intelligenza ar-tificiale, sono la capacità dell’elaboratore elet-tronico di apprendere e di sviluppare autono-mamente quanto appreso nella produzione di comportamenti e conclusioni “altre” rispetto ai dati e alle informazioni immagazzinate, e la sua capacità di risolvere, altrettanto auto-nomamente, problemi nuovi a fronte di situa-zioni nuove: in una parola, l’apprendimento per la produzione di nuova conoscenza43.

Un computer “intelligente” che sia in grado, “ragionando”, di svolgere compiti e affronta-re problematiche giuridiche, prende il nome di sistema esperto legale (SEL). Esso, nella propria conformazione idealtipica, è struttu-rato in due moduli, «uno rappresentativo in cui viene definita la conoscenza (giuridica) e uno elaborativo in cui la conoscenza viene utilizzata per estrarre nuova conoscenza dal modulo rappresentativo di base»44: il primo di essi si chiama “base di conoscenza”, il se-condo “motore inferenziale”. Perché il siste-ma esperto così strutturato possa operare, è

42 Quest’ultima, da cinquant’anni oggetto di ampio interesse in settori extragiuridici, può definirsi come «la disciplina che […] si propone di realizzare strumenti informatici in grado di compiere attività che, se fossero svolte da uomini, sarebbero attribuite alla loro intelli-genza» (cfr. G. sarTor, Le applicazioni giuridiche dell’intel-ligenza artificiale, Milano, 1990, p. 15). Per un approccio storico e descrittivo della scienza cognitiva, dalle sue origini ad oggi, si rimanda a F. Casa, Dalle scienze cogniti-ve alle applicazioni giuridiche dell’intelligenza artificiale, in u. PaGallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giuridica, cit., pp. 74 ss.43 In altri termini, una simile forma di “intelligenza” si estrinseca nella capacità del computer di trarre nuova conoscenza, nella formulazione di soluzioni ai problemi che gli sono prospettati, a partire da “nozioni”, idonee a rappresentare – tramite simboli – la realtà, espresse in un linguaggio compatibile con la sua struttura, prelimi-narmente immagazzinate nel sistema informatico. Per un approfondimento sull’intelligenza artificiale, si veda r. BeTTi, sub voce Intelligenza artificiale, in Enciclopedia, Einaudi, Torino, p. 834).44 G. Taddei elmi, Corso di informatica giuridica, cit., p. 52.

le altre voci segnalate dal sistema, finalizzata all’evidenziazione di quella che maggiormen-te si allinea alle sue esigenze, egli corre il ri-schio di ottenere un esito non soddisfacente, trovandosi ad essere succube del computer, e perdendo così di vista il vero, specifico ogget-to della propria ricerca.

Il rischio, in altri termini, è che la “comodi-tà” propria dell’uso dell’elaboratore a fini do-cumentaristici si traduca in esiti fuorvianti, e che per questa via l’informatizzazione del lavo-ro del giurista produca «una minore riflessio-ne sul processo di formazione del prodotto»40 giuridico finale di cui la ricerca documentari-stica è solo un passaggio obbligato: il rischio, in altri termini ancora, è che l’informatica giu-ridica documentaristica possa condurre, spe-cialmente ove si faccia riferimento alla figura del giudice41, ad una potenziale distorsione della purezza e della trasparenza metodologi-ca che sono necessarie per l’efficiente gestione di ogni questione giuridica.

Per quanto riguarda, in secondo luogo, l’in-formatica giuridica cognitiva, ossia la disci-plina che si occupa dell’informatizzazione dei processi conoscitivi e di ragionamento del giurista attraverso applicazioni giuridi-

40 G. Taddei elmi, Corso di informatica giuridica, cit., p. 110.41 Va osservato infatti, che spesso, nella prassi pro-cessuale, accade che i giudici si indirizzino verso una certa soluzione della causa in base ad un atteggiamento aprioristicamente orientato verso il reperimento di cer-te leggi da applicare piuttosto che di altre, ovvero verso un’interpretazione piuttosto che verso un’altra. Per que-sta via essi “distorcono” ai propri scopi la verità dei fatti, facendone rientrare gli accadimenti, e la soluzione, en-tro i confini delle norme e dei precedenti giurispruden-ziali che meglio garantiscono la coerenza della propria preconcetta impostazione mentale. Attualmente è forte il pericolo che l’informatica giuridica documentaristica possa acuire proprio una simile disfunzione: in pratica, quanto più veloce sarà il tempo di reperimento, da parte del giudice, della specifica legge da lui ricercata al fine esclusivo di interpretarla proprio nello specifico modo che gli consenta di raggiungere i propri obiettivi, tanto più forte sarà, per effetto di un simile azzeramento dei suoi tempi di riflessione, il rischio che egli non ritorni più sui propri passi, e “legga” il fatto controverso, dal momento dell’individuazione della legge da interpreta-re alla sua applicazione, solo alla luce dei propri fini e non allo scopo di dare la migliore risoluzione alla con-troversia di riferimento.

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il tramite di un’idonea interfaccia grafica ela-boratore-utente, i risultati dell’operazione di ragionamento del SEL devono essere forniti in output affinché l’utente possa adeguatamente sfruttarli.

Dal punto di vista funzionale, a prescindere dalle più importanti e meglio riuscite realizza-zioni concrete di SEL realizzate, o quantomeno iniziate, all’estero e in Italia, negli ultimi qua-rant’anni48, l’aspetto operativo più rilevante e, allo stesso tempo, più problematico, della loro applicazione giuridica, risiede nel fatto che essi, quali softwares intelligenti, possono pre-

prospetta l’utente, e verificherà se gli elementi che gli sono forniti dall’esterno siano o meno riconducibili alle entità che “conosce”. In caso affermativo ne uscirà au-tomaticamente la conclusione, in caso negativo il siste-ma indagherà se sia possibile ricondurre i dati forniti dall’utente in un altro ambito di conoscenza a lui noto. Volendo esemplificare ulteriormente, data la formaliz-zazione della regola “gli animali non possono entrare” sottoforma dell’enunciato “se gli animali non possono entrare e x è un animale, allora x non può entrare”, il computer, incaricato di indagare se il divieto di ingres-so sussista nei confronti dell’essere vivente y indicato dall’utente, una volta appurato, sempre sulla base della propria conoscenza, che quell’essere vivente è un ani-male, concluderà che “se gli animali non possono entra-re e y è un animale, allora y non può entrare”.48 In questa sede ci si limita ad indicare, tra i softwa-res intelligenti più diffusi: il progetto TAXMAN, risalen-te al 1972, che consiste in un sistema che sarebbe dovu-to riuscire a individuare, data una descrizione di fatti rilevanti, in presenza di quali trasformazioni di una società di capitali ci si trovasse di fronte ad un’ipotesi di tassazione o di esenzione dalla tassazione; il sistema PROLOG dell’Imperial College di Londra, dell’inizio de-gli anni Ottanta, che era invece un sistema cui l’utente avrebbe dovuto rivolgersi per ottenere risposte in or-dine a questioni prevalentemente di diritto pubblico e previdenziale; il progetto HYPO, anch’esso dei primi anni Ottanta, che avrebbe dovuto ricevere applicazione in materia di tutela del software e dei regolamenti con-trattuali. Con riferimento alla più recente esperienza italiana, è opportuno rilevare che a Milano si è svilup-pato il progetto NOEMI, destinato agli studi notarili, e che la casa editrice Giuffrè ha diffuso di recente il siste-ma REMIDA, in materia di rivalutazione monetaria e di interessi. Per una brevissima bibliografia in materia si rinvia a: G. sarTor, Le applicazioni giuridiche dell’intelli-genza artificiale, cit., pp. 72-105; G. sarTor, Intelligenza ar-tificiale e diritto. Un’introduzione, Milano, 1996, pp. 29-56; a. marTino (a cura di), Sistemi esperti nel diritto, Padova, 1989; C. CiamPi, F. soCCi naTali, G. Taddei elmi, Verso un sistema esperto giuridico integrale. Esempi scelti dal diritto dell’ambiente e della salute, Padova, 1995.

necessario innanzitutto un intervento esclu-sivamente umano di individuazione della base di conoscenza da immettere nel computer (indi-viduazione del dominio)45; in secondo luogo la conoscenza così individuata deve essere for-malizzata, ossia rappresentata in un linguag-gio-macchina che sia compatibile con la speci-fica capacità di comprensione ed elaborazione dello strumento informatico46; in terzo luogo il motore inferenziale deve utilizzare, attra-verso l’impiego del metodo logico sillogistico-deduttivo, la conoscenza di base, individuata e formalizzata, per il conseguimento del risul-tato richiesto al sistema47; in quarto luogo, per

45 Tale scelta della base di conoscenza dipenderà sia dalla concezione del diritto adottata dall’analista e dall’operatore di diritto che si deve avvalere del si-stema, sia dallo scopo pratico che il SEL è deputato a perseguire.46 Si tratta dell’operazione più complessa nella co-struzione di un SEL, ma anche del passaggio indispen-sabile perché il sistema sia in grado di sfruttare efficace-mente la base di conoscenza di cui è stato dotato. Infatti, poiché il sistema informatico «richiede [sempre] un lin-guaggio formalizzato, un linguaggio simbolico al fine di poter operare, [e] gli stessi programmi sono svolti in un linguaggio simbolico (il cosiddetto linguaggio macchi-na)» (m. CossuTTa, Questioni sull’informatica giuridica, cit., p. 76), una volta individuato il dominio di conoscenza è necessario «rappresentarlo in modo formale così da renderlo sfruttabile da un programma di calcolatore che, come è noto, è una macchina algoritmica che lavora con un linguaggio binario» (G. Taddei elmi, Corso di in-formatica giuridica, cit., p. 54). La formalizzazione della base di conoscenza individuata, all’esito della quale si giungerà ad aver “riscritto” la base di conoscenza stessa in un linguaggio artificiale-simbolico in cui la sintassi sarà regolare e invariabile, si articola a sua volta su due livelli successivi: in primo luogo la normalizzazione della base di conoscenza, cioè la riduzione del linguaggio giu-ridico della base di conoscenza in proposizioni elemen-tari o atomiche di significato univoco che siano o vere o false; in secondo luogo la rappresentazione della base di conoscenza normalizzata attraverso strumenti tecnici ad hoc, quali la programmazione logica, le reti semanti-che, i frames, le regole di produzione.47 Il motore inferenziale, in sostanza, funziona, nella maggior parte dei casi, secondo un procedimento che può essere così sintetizzato ed esemplificato: data una base di conoscenza espressa secondo la formula “A se B e C”, ove A, B, C, sono singoli elementi della base di co-noscenza variamente collegati tra di loro, il motore infe-renziale, per risolvere il quesito A, deve prima risolvere i sottoproblemi B e C. Per far ciò opererà, relativamente ad ogni sottoproblema, una sostituzione: sostituirà cioè all’entità della propria base di conoscenza l’entità che gli

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Con la seconda espressione – uso predittivo – ci si riferisce invece alla possibilità che il SEL fornisca un ausilio in ordine all’anticipazione di determinate decisioni giuridiche future: in questi casi il sistema è in grado di prevedere, «mediante metodi di ragionamento analogi-co ed estendendo al nuovo caso la soluzione adottata nei precedenti divenuti rilevanti, il contenuto delle decisioni giudiziali a parti-re dall’analisi di casi simili»51, cioè il futuro comportamento di una determinata autorità rispetto a un dato caso concreto52.

La funzione e la modalità di funzionamen-to dei SEL, ed in particolar modo la funzione e la modalità di funzionamento dei SEL ad uso decisionale e predittivo, permettono di affer-mare che, ad uscire massimamente “sconfit-to”, nella nuova dimensione digitale “intelli-gente”, è, evidentemente e paradossalmente, il ruolo del giurista-interprete-applicatore delle leggi, che si vede sostituire, nel compi-mento delle operazioni di interpretazione e applicazione del diritto a lui affidate da una secolare tradizione giuridica, dall’impiego, nell’era dell’informatica, del computer divenu-to “esperto legale”. Si può dunque legittima-mente affermare che, allo stato attuale della tecnica, l’utilizzo presumibilmente sempre

51 F. Casa, Dalle scienze cognitive alle applicazioni giuri-diche dell’intelligenza artificiale, in u. PaGallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giuridica, cit., p. 123.52 Dal punto di vista metodologico, è evidente che i SEL ad uso predittivo, in virtù della propria specifica funzione volta ad “indovinare” il futuro operato dei giu-dici, sono da ritenersi allineati, secondo modalità attua-lizzanti, alle istanze delle tesi giusrealistiche: ricordato, in particolare, che il giusrealismo italiano – che annove-ra in Giovanni Tarello (per la cui bibliografia si veda m. CaserTa, Giovanni Tarello. Teoria, ideologie e metagiurispru-denza, Napoli, 2001, pp. 131-145) il principale esponen-te – si concentra non più sulla legge e sul suo dettato linguistico, ma sul giudice e sulla sua attività concreta di interpretazione del diritto, dal momento che il diritto è considerato non come un “dato” staticamente”fissato” in una serie di disposizioni, ma “creato” dagli operatori di giustizia con la progressiva stratificazione dei prov-vedimenti giurisdizionali, si osserva che, come per il giusrealismo il diritto è un fatto concreto in cui la nor-ma costituisce solo il passaggio indispensabile perché il diritto stesso viva e si innovi nella decisione del giudice, così un SEL basato su casi “conosce” proprio la giurispru-denza e la dottrina che ad essa si riferisce, “bypassando” le norme che la giurisprudenza stessa applica.

starsi, nella risoluzione di questioni giuridi-che, tanto ad un uso decisionale quanto ad un uso predittivo.

Con la prima espressione – uso decisiona-le – si fa riferimento alla possibilità che un sistema esperto legale fornisca all’utente una risposta in ordine al quesito relativo al tratta-mento giuridico di una determinata fattispe-cie concreta: in situazioni simili «la funzione assegnata all’elaboratore è quella di individua-re la norma giuridica nella quale sussumere la fattispecie concreta, per poi, attraverso quan-to comunemente viene denominato il sillogi-smo giuridico, determinare il trattamento della fattispecie stessa»49: si tratta, in altri termini, di sistemi informatici “intelligenti”, in grado di segnalare a chi li interroghi la soluzione di una specifica controversia giuridica attraver-so l’indicazione della legge che deve applicarsi al caso concreto50.

49 F. Casa, Dalle scienze cognitive alle applicazioni giuri-diche dell’intelligenza artificiale, in u. PaGallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giuridica, cit., p. 111.50 I SEL ad uso predittivo risultano in maniera evi-dente, dal punto di vista teorico-metodologico, perfet-tamente allineati alla concezione “scientifica” del dirit-to propria dell’odierno “normativismo” giuridico, che costituisce l’esito delle riflessioni sviluppate in Italia dalla Scuola di Torino, e che, come è noto, ambisce alla ricostruzione dell’esperienza giuridica secondo un di-segno in cui la legge deve esprimersi in un linguaggio strettamente rigoroso in modo da poter essere applica-ta automaticamente, proprio in virtù della rigorosità e della precisione della propria formulazione espressiva, in base alle regole logiche del sillogismo. Si vedano più ampiamente, al riguardo, le osservazioni di m. CossuTTa (Questioni sull’informatica giuridica, cit., p. 77), il quale afferma la necessità di «riconoscere la presenza di una indubbia matrice del neopositivismo logico non solo, come è ovvio, nella idea di formalizzazione del linguag-gio giuridico ad uso del sistema informatico ma, più in generale, nell’utilizzo stesso del sistema informatico nell’ambito della formazione dell’atto giuridico e della soluzione dei problemi ad esso connessi». Sottolinea la continuità logica tra la modalità di funzionamento dei sistemi esperti legali ad uso decisionale e le istanze del “normativismo giuridico” anche F. Casa (cfr. Dalle scienze cognitive alle applicazioni giuridiche dell’intelligenza artifi-ciale, in u. PaGallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giuridica, cit., pp.117-118), che così scrive: «La perfetta adattabilità dell’elaboratore alle operazioni logiche pre-scritte dallo scienziato giuridico normativista, corri-sponde alla possibilità di simulare con l’elaboratore il metodo del sillogismo giuridico o giudiziale».

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più massiccio dell’informatica, e, soprattutto, dei sistemi esperti, in settori giuridici, è desti-nato a produrre un graduale ma sempre mag-giore impoverimento, fino alla sua potenziale astratta scomparsa, della figura del giurista, sostituibile dalla nuova “macchina” informa-tica divenuta vero e proprio “automa”53.

Ebbene, tutto ciò consente di osservare che agli indubbi vantaggi, per l’esperienza e la prassi giuridica, connessi alle immense po-tenzialità operative dei softwares giuridici in-telligenti, si accompagnano anche una non ir-rilevante problematicità e un’altrettanto forte contraddittorietà.

Infatti, a prescindere dal rilievo per cui sia la tecnica di redazione delle leggi che quella di individuazione della legge applicabile, non-ché quella di applicazione della stessa, sono azioni eminentemente umane (e, dunque, imperfette), sia che vengano effettuate con gli strumenti tradizionali sia che, moderna-mente, vengano realizzate al computer con la contemporanea partecipazione dell’esperto giurista e dell’analista programmatore54, va 53 Si vedano, con riferimento a quanto si viene af-fermando, le osservazioni entusiastiche di R. Borruso: questi, ipotizzando l’avvento della legge-algoritmo, di una legge, cioè, espressa in via esclusiva in linguaggio-macchina, e ipotizzando, così, la scomparsa della scrit-tura tradizionale in favore del “nuovo latino” costituito dal linguaggio puro dell’elaboratore, non solo prevede la possibilità che la legge riceva applicazione automatica per opera del computer, ma, in una prospettiva ancora più estrema, giunge a prevedere che la legge-algoritmo po-trebbe essere sostituita a sua volta da un software appli-cativo grazie al quale il computer sarà in grado di richie-dere al cittadino determinati dati specifici e, sulla base di essi, di indicare al cittadino stesso la soluzione della questione prospettata. Profeticamente, Borruso afferma che se ciò accadrà, «la legge finirà di essere formulata come previsione ipotetica generale ed astratta da appli-carsi poi – ad opera di altri – alle fattispecie concrete, ma si convertirà, fin dalla sua origine e ad opera dello stesso legislatore, in un responso concreto»: sarà, per tale via, completamente superata la figura del giudice (le citazio-ni sono tratte da r. Borruso, C. TiBeri, L’informatica per il giurista. Dal bit a internet, Milano, 2001, p. 389).54 La presenza irrinunciabile dell’essere umano, a monte del “lavoro” autonomo del sistema esperto, indu-ce in effetti a ritenere che la fisiologica fallibilità uma-na non possa non trasferire la propria finitezza, e così i propri congeniti difetti, per quanto essa possa essere parzialmente mediata e corretta dal modo di “ragiona-re” dell’elaboratore, anche nel linguaggio “rigoroso” in

innanzitutto osservato, più specificamente, che l’attività interpretativo-applicativa, cioè il vero cuore pulsante dell’esperienza giuridica, è sempre irrimediabilmente necessaria, in-dipendentemente dal maggiore o minore ri-gore della tecnica legislativa, a causa dell’ine-liminabile scarto sussistente tra la generalità e astrattezza di ogni comando legislativo e la specifica particolarità e concretezza di ogni singolo caso sussumibile nella sua fattispecie astratta.

Inoltre i SEL presentano, per le proprie mo-dalità di funzionamento, una limitatezza ope-rativa “congenita”, strutturale e tecnica, di ra-gionamento, che finisce per frustrarne le vel-leità funzionali stesse. Infatti è evidente come la necessaria normalizzazione della base di conoscenza di cui un SEL deve essere dotato per poter operare, e lo stretto rigore sillogisti-co con cui il motore inferenziale estrae dalla questione prospettata le conclusioni richieste, realizzino una profonda e radicale “selezione”, convenzionale ed operativa, della realtà, che è indispensabile proprio a causa dei limiti for-mali caratterizzanti la struttura della “mente” del computer55. Ma poiché ogni convenzione,

cui le disposizioni legislative sono espresse, normaliz-zate e immesse nella base di conoscenza di un SEL.55 In pratica, una volta stabilito – convenzionalmen-te – che la base di conoscenza deve essere costituita dai dati di riferimento, perché un SEL funzioni risulta ne-cessario scegliere – convenzionalmente – solo quella specifica porzione della realtà concreta che sia suscet-tibile di essere espressa nel linguaggio binario con cui l’elaboratore conosce e manipola i dati; tale realtà, già parzialmente selezionata, deve poi tradursi effettiva-mente, attraverso la – convenzionale – opera di forma-lizzazione della base di conoscenza, in linguaggio nor-malizzato, cioè nell’unico linguaggio comprensibile per lo strumento informatico; infine, la base di conoscenza (determinata attraverso tale stratificazione di conven-zioni selettive della complessa totalità del reale) costi-tuisce la premessa maggiore in cui il sistema cognitivo effettuerà la sussunzione del caso su cui viene interro-gato dall’utente, per effettuare – convenzionalmente – il sillogismo che lo condurrà a fornire la soluzione alla questione prospettata. Cfr., al riguardo, le parole di F. Casa, (Dalle scienze cognitive alle applicazioni giuri-diche dell’intelligenza artificiale, in u. PaGallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giuridica, cit., p. 120), secondo cui le teorie dell’informatica giuridica relative all’intelli-genza artificiale, costruite, sul presupposto del normati-vismo kelseniano e del giusrealismo, al fine di garantire

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in quanto tale, è portatrice di una scelta selet-tiva del materiale giuridico di riferimento, è inevitabile concludere che la profonda strut-tura del funzionamento di un sistema esperto presuppone una “fuga” radicale dalla realtà56, in maniera tale che «l’elaboratore è chiamato a regolamentare un fatto che, così come gli è stato sottoposto, ha ormai perso ogni rappor-to con quanto realmente accaduto. La rappre-sentazione prescelta non è, infatti, quella che regola più opportunamente il caso, ma quel-la che appare […] formalmente corretta »57. L’esito di una simile situazione è così che, non essendovi più alcun legame tra il fatto reale e quello analizzato dal sistema esperto, «la so-luzione giuridica prescelta non sarà quella più aderente a quanto concretamente verificatosi, ma quella che convenzionalmente consen-te una procedura di controllo, o, comunque, l’adeguamento ad una ideologia prescelta, che finisce per essere quella dominante»58. La realtà della concreta vita giuridica, dunque, è cosa ben diversa dalla realtà parziale e tronca che si immette nel computer per far funziona-re un sistema esperto: nell’era della computer’s science ci si trova così di fronte alla parados-sale aporia per cui un sistema esperto, creato al fine di operare nella dinamica del diritto e di fornire in tempi rapidi precise soluzioni ai casi concreti effettivamente realizzatisi e sot-toposti al suo vaglio, fornisce in realtà solu-zione a questioni virtuali, che altro non sono se non traduzioni in linguaggio-macchina di situazioni concrete, rese in una forma che sia comprensibile per il computer ma, per questa

la sostituzione del computer all’uomo, vanno respinte, «dato che finiscono per accentuare il carattere non solo ipotetico della giurisprudenza, ma aggiungono addirit-tura ulteriori livelli di convenzionalità».56 Va infatti rilevato che «il fatto giuridico che l’ela-boratore conosce non è solo quella porzione del fatto che risulta informatizzabile, il che basterebbe già solo a renderlo parziale; ma è anche il risultato della selezione, frutto di una fattispecie astratta costruita in modo con-venzionale, poiché espressa attraverso simboli mate-matici, tenuti insieme da connettori logici (cfr. F. Casa, Dalle scienze cognitive alle applicazioni giuridiche dell’intel-ligenza artificiale, in u. PaGallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giuridica, cit., p. 120).57 Ibidem, p. 121.58 Ibidem.

imprescindibile esigenza, “amputate” e tra-sformate in altro da sé.

4. Conclusione

Dai rilievi critici effettuati nelle pagine che precedono, relativamente a tutti i rami dell’in-formatica giuridica, risultano quantomeno in-crinate le certezze che parte della dottrina ri-pone nella possibilità di avvalersi del computer senza alcuna ripercussione operativa e meto-dologica in ambito giuridico. Ne emerge, dun-que, a fronte della descritta potenziale scom-parsa dell’«umano» dall’esperienza giuridica, un quadro in cui diviene indispensabile, per recuperare la piena consapevolezza della se-parazione tra la realtà “parziale”, convenzio-nalmente ricostruibile al computer, e la realtà effettiva della dinamica giuridica concreta, e per completare la possibile “regolamentazio-ne informatica” dei casi della vita con gli in-terventi necessari a ricondurre la stessa verso una maggiore connessione con i fatti storici concretamente accaduti e con i dati giuridici effettivamente rilevanti, l’intervento inelimi-nabile, chiarificatore e “terapeutico”, proprio dell’uomo.

In effetti, una corretta comprensione criti-ca e problematizzante tanto del diritto posi-tivo dell’informatica, quanto dell’informatica giuridica documentaristica, quanto, ancora, dell’informatica giuridica cognitiva, impone, a partire proprio dai contorni caratterizzanti il manifestarsi di ciascuna di esse nell’espe-rienza giuridica come nuovo travolgente fat-tore di rivoluzione, un radicale ritorno, para-dossalmente, alla tradizione: in una parola, un ritorno alla – e un’evidenziazione della – con-siderazione dell’assoluta imprescindibilità, anche nell’era della computer’s science, dell’uo-mo, “classicamente” inteso quale insostituibi-le punto di riferimento di qualsiasi dinamica esistenziale, e, pertanto, anche di quella giu-ridica.

Si è fermamente convinti, al riguardo, che l’unico veicolo che possa consentire una ri-costruzione del “giuridico” capace di far co-esistere tanto la presenza umana del giurista quanto il ricorso al computer quale strumento

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l’uomo come un essere eticamente orientato al Bene e all’autoregolamentazione, cioè come quella «straordinaria creatura a cui il Creatore non ha plasmato soltanto il corpo materiale ma con l’anima ha infuso il suo Spirito»62. Una simile impostazione vede, poi, nella legge po-sitiva una – sempre indiscussa ed imprescin-dibile – disposizione di condotta che però, una volta posta, e considerata così nella propria “fattualità” oggettivamente data, «non esauri-sce le modalità dell’ordine nei rapporti tra sog-getti […] ma consente di attuare l’ordinamento della controversia, che è ordine emergente dal disordine, mediante fluttuazione dialettica tra le due divergenti vedute dell’ordine che la costituiscono»63; e individua, infine, nella pro-cessualità la dimensione perfetta per il concre-to comporsi delle interferenze intersoggettive secondo i principi di cui le leggi sono positi-vizzazione, così che, nelle aule di tribunale, «il disordine si manifesta come divergenza tra due vedute dell’ordine. E l’ordinamento si re-alizza se e in quanto fra queste si stabilisca un rapporto dialettico. […] Dialetticamente la con-troversia si risolve mediante il riconoscimento […] di ciò che è proprio delle parti in causa»64.

L’atteggiamento filosofico descritto sfocia pertanto nella decisa rivendicazione di una dimensione eminentemente processuale dell’esperienza giuridica in cui non può essere che l’uomo il centro del sistema, ossia il pun-to di riferimento, sia finale sia concretamente operante in prima persona, di tutto ciò che af-ferisce alla sfera del “giuridico”.

È dunque l’uomo, grazie alla propria inelimi-nabile ed infaticabile opera di perenne inter-pretazione e problematizzazione del Tutto, che costituisce il tramite attraverso il quale, secon-do il “miracolo” ermeneutico che Carnelutti definiva «arte del diritto»65, la controversia si

mente ed aprioristicamente scientifiche dell’esperienza giuridica di stampo “geometrico”, di Francesco Gentile.62 F. GenTile, Ordinamento giuridico tra virtualità e real-tà, cit., p. 65.63 F. GenTile, Politicità e positività nell’ordinamento giuri-dico. L’opera del legislatore, Padova, 1992, p. 27.64 F. GenTile, Ordinamento giuridico tra virtualità e real-tà, cit., p. 50.65 Cfr. F. CarneluTTi, sub voce Arte del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, Utet, Torino, 1959, p. 545.

efficacissimo per la risoluzione di questioni giuridiche, sia la forma mentis “aperta” di chi si occupa non solo di scienza, ma anche di dialet-tica59 e, più in generale, di Filosofia60. La filoso-fia classica si traduce, in generale, in una rap-presentazione dell’esperienza giuridica che, seguendo gli insegnamenti di alcuni tra i mas-simi esponenti della dottrina giusfilosofica del ventesimo secolo61, considera innanzitutto 59 La dialettica può definirsi, sulla scorta dell’insegna-mento del Politico di Platone (cfr. F. GenTile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Padova, 2005, p. 50), come ciò che chiarifica i caratteri fondamentali dello svolgi-mento del rapporto dialogico sussistente tra domanda e risposta: in quanto continuo passaggio dal “genere” alla “specie” e viceversa, il dialogare dialettico si dipana dinamicamente sulla base del principio per cui non si vuole predicare l’identità di due cose solo perché esse presentano qualche caratteristica comune a entrambe, ma neppure si vuole predicare la reciproca estraneità di due cose solo perché esse si diversificano in qualche aspetto.60 Per Filosofia si fa riferimento, in questa sede, a quell’atteggiamento mentale, suscettibile di “tagliare” trasversalmente – in ogni epoca – tutto ciò che vie-ne fatto passare sotto la “lente” della sua analisi, che è caratterizzato da una profonda e mai sopita apertura al “nuovo”, e che si sostanzia in una forma di perenne problematicità nei confronti dell’esperienza, per la qua-le tutto è sempre, anzi, deve essere sempre messo in di-scussione per poter essere compreso nella sua essenza. In tale processo di approfondimento problematico di ogni questione riveste un ruolo fondamentale la capa-cità, da parte del filosofo, di calarsi dialogicamente nel contesto più profondo dell’opinione che analizza, di saper “domandare”, e, soprattutto, di saper domandare “dialetticamente”, cioè, in sostanza, senza pregiudizi aprioristicamente ancorati ad una limitata prospettiva (e, perciò, già parziali e fuorvianti). Lungo questo per-corso, accade che chi sia genuinamente filosofo giunga a cogliere la Verità sulle cose più profondamente di quan-to non sia stato compiuto attraverso la manifestazione in sé delle cose stesse.61 Si fa cenno, al riguardo, tra i tanti possibili rife-rimenti, alla concezione processuale dell’esperienza giuridica di Enrico Opocher (di cui si veda soprattutto il testo Il diritto nell’esperienza pratica. La processualità nel diritto, in Lezioni di filosofia del diritto, Cedam, Padova, 1986, pp. 265 ss.); alla filosofia del diritto dai presuppo-sti esistenzialistici di tipo positivo di G. Capograssi (di cui si segnala, in particolare, Il problema della scienza del diritto, Milano, 1962, e su cui vedansi anche e. oPoCher, Giuseppe Capograssi filosofo del nostro tempo, Milano, 1991, nonché le pagine di Marco Cossutta nel volume curato da P. moro, Etica, informatica, diritto, Milano, 2008); alla filosofia “classica”, ma lucidamente rivolta al presente, e critica nei confronti delle rappresentazioni rigorosa-

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compone, sempre nuova a se stessa, mediante l’applicazione della legge al caso singolo, tra-sformando così l’astratto in concreto.

In definitiva, alla luce di simili presupposti è possibile sostenere che se certamente la tec-nica informatica non è “neutra”, se, cioè, essa non solo modifica le modalità di svolgimento della vita anche relazionale dell’uomo, ma ne altera altresì la struttura più profonda, purtut-tavia essa non è, comunque, in grado di modi-ficare così radicalmente la realtà da snaturare l’essenza prima dell’uomo, la sua natura che “partecipa” del divino, il suo darsi concreta-mente, e innatamente, in società secondo lo sviluppo di rapporti giuridici sottesi da valori e principi, immanenti alla natura umana, ri-volti di per se stessi al bene comune e alla giu-sta misura, che sono la costante di ogni epoca della storia del consorzio umano.

È, dunque, doveroso concludere, in primo luogo, che l’informatica giuridica, pur essen-do in grado di incidere profondamente su ta-luni aspetti dell’”umano”, ma facendo anche emergere prepotentemente dal proprio stesso interno l’imprescindibilità del giurista-uomo anche laddove invece questi, inghiottito dal-la tecnica digitale, sembrerebbe destinato a scomparire, è fortunatamente ben lontana dal poter essere qualificata come un’innovazio-ne suscettibile di alterare nella sua totalità il concreto darsi dell’uomo nell’esperienza giu-ridica, fino ad annullarlo; in secondo luogo, che solo nel caso in cui, bandito ogni eccesso scientista intriso di aprioristico ottimismo verso il computer, l’informatica giuridica venga affrontata secondo l’inquadramento filosofico e metodologico classico e, così, correttamente “inquadrata” nel panorama culturale contem-poraneo, essa può essere – e può continuare ad essere – utilizzata come un efficacissimo strumento a disposizione dei giuristi contem-poranei.

Sembra questa, in definitiva, la via da segui-re per comprendere nei suoi tratti caratteriz-zanti ed in fieri, e nel contempo per proble-matizzare, l’attualissima portata rivoluziona-ria dell’età del bit; per tentare di fornire uno spunto di orientamento a quanti, vivendo il presente, si domandano se il diritto, oggi, ri-

esca ad essere ancora ciò che è sempre stato, ossia esperienza di natura sia normativa che fattuale che interpretativo-giudiziale, ma rie-sca nel contempo anche ad essere ciò che sino ad ora non era mai stato, ossia esperienza, or-mai, anche irrimediabilmente informatica; per “saldare”, in una parola, «la formazione umanistica del giurista con la conoscenza tec-nica dell’informatico»66, e poter così cogliere il senso più compiuto dell’apparente inconci-liabilità ossimorica dei due termini saldanti-si nel sintagma “informatica giuridica”67: è la via della considerazione dell’uomo come ine-ludibile punto di riferimento dell’esperienza giuridica, posto tra il diritto e l’informatica, ma nel contempo profondamente gettato in ognuna di esse.

Stefano Favaro esercita in Padova la professio-ne forense in materia civile, ed è dottorando di ricerca in Filosofia del Diritto e Teoria Generale del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova.

66 Cfr. F. Casa, Dalle scienze cognitive alle applicazioni giuridiche dell’intelligenza artificiale, in u. PaGallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giuridica, cit., p. 69.67 Cfr. m. CossuTTa, Questioni sull’informatica giuridica, cit., p. 21, in cui l’Autore si sofferma sulla «problemati-cità di legare assieme una disciplina ascritta nelle cosid-dette scienze esatte, l’informatica per appunto, all’espe-rienza giuridica, che, anche nelle sue rappresentazioni più geometriche, è pur sempre, se non altro per la que-stione dell’interpretazione della disposizione normati-va, difficilmente riconducibile all’alveo delle discipline fisico-matematiche». Si veda anche G. Taddei elmi (Corso di informatica giuridica, cit., p. 89): «Il nomen informatica giuridica costituisce già in partenza un binomio tratto da due discipline diverse […]. La prima appartiene alle scienze cosiddette esatte, mentre la seconda appartiene alla classe delle scienze umane».

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Artefatti simbolici e cambiamento organizzativo

Gabriele Qualizza

Abstract

Superando i limiti insiti nel concetto di “corporate culture”, l’attenzione per gli artefatti simbolici pone le premesse per una visione dinamica dell’organiz-zazione. I simboli evocano infatti una struttura di significati sempre aperta, mai definitivamente con-clusa, capace di congiungere, per il tramite dell’im-maginazione, il principio di realtà al progetto del domani.

Parole chiave:

corporate culture, artefatti simbolici,estetica organizzativa,comunicazione, cambiamento

ad accertare con metodi quantitativi sempre più sofisticati le connessioni “dure” e neces-sitate tra tecnologia e turbolenze ambientali, dimensioni e strutture2. Nel mentre cresce-va la precisione e la mole dei dati raccolti, sembravano progressivamente attenuarsi la significatività e la forza concettuale di tali ricerche, che oltretutto finivano per discono-scere la rilevanza della soggettività umana nella vita delle organizzazioni: si avvertiva dunque l’esigenza di tornare a studiare temi troppo a lungo trascurati, come le scelte stra-tegiche del management, la cultura, le idee, i progetti, le esperienze delle persone, il senso che i soggetti attribuiscono al proprio agire. Questa esigenza si saldava con il crescente in-teresse per i filoni di ricerca dell’antropologia culturale e dell’etnografia, fino ad allora con-siderati estranei al discorso organizzativo;• in secondo luogo, il desiderio dei manager e degli studiosi di organizzazione di trova-re una chiave interpretativa per spiegare la competitività del modello di produzione

2 G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo, Milano, 2002, pp. 392-397.

1. L’impatto dei fattori soft nell’ambito degli studi organizzativi

Gli studi organizzativi si sono caratterizza-ti negli ultimi trent’anni per un crescente

interesse nei confronti degli approcci soft, in contrapposizione agli approcci hard adottati nel passato: di conseguenza, il rilievo tradizio-nalmente accordato alla struttura sociale, alla tecnologia, all’ambiente e alla strategia ha ce-duto il passo ad una maggiore attenzione per le risorse espressive e simboliche di cui ogni organizzazione dispone1.

Alla base di questa svolta si possono identifi-care due motivazioni:

• innanzitutto, la crescente insofferenza degli studiosi per gli orientamenti contin-gentisti, che nel corso degli anni Sessanta e Settanta erano diventati il paradigma domi-nante, facendo proliferare le ricerche volte

1 Il dibattito sul tema della cultura organizzativa pren-de le mosse da un articolo di Pettigrew, pubblicato nel 1979. Cfr. A.M. Pettigrew, On studying organizational cultures, in “Administrative Science Quarterly”, n. 24 (1979), pp. 570-581.

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Artefatti simbolici e cambiamento organizzativo 89

giapponese: le soluzioni gestionali adottate dalle imprese del Sol levante (kanban e just in time, kaizen, circoli di qualità, simultaneous engineering, azienda orizzontale, etc.) sem-bravano trovare il loro punto di forza nel con-cetto di “azienda comunità”, basata sul coin-volgimento e sulla responsabilizzazione del-le risorse umane, a partire dalla condivisione del medesimo linguaggio e della medesima cultura a tutti i livelli dell’organizzazione. Superata la fase degli ingenui entusiasmi, la

tensione per il tema della cultura si è mante-nuta costantemente elevata, anche in connes-sione con le molteplici – e talvolta indecifrabili - traiettorie che contrassegnano la transizione dal fordismo al postfordismo.

Il dibattito è alimentato da due ordini di esi-genze: da un lato, un genuino interesse teori-co, nato nel contesto della comunità scientifica degli studiosi di organizzazione, mossi dal de-siderio di sperimentare nuove direzioni di ri-cerca e nuove metodologie d’indagine; dall’al-tro lato, un interesse molto più concreto per le immediate ricadute applicative della cono-scenza organizzativa, un’istanza che viene dal mondo manageriale, suggestionato dall’idea che una “forte cultura” possa trasformarsi in un più evoluto strumento di gestione, sosti-tuendo le tradizionali forme di controllo co-ercitivo e remunerativo con sottili e raffinati meccanismi di controllo normativo3.

Il risultato è che il tema della cultura orga-nizzativa diventa un crocevia, un luogo d’in-contro e di confronto tra istanze e motivazioni diverse, dove la riflessione teorica si confon-de a volte con le “istruzioni per l’uso”. Anche una rapida occhiata agli scaffali delle librerie dedicati a questi temi restituisce la fotografia di un territorio in continua “ebollizione”, cer-tamente molto vivo e dinamico, ma nel quale l’entusiasmo acritico – e a volte improvvisato - di intere legioni di professionisti e consulenti rischia di togliere spazio alla riflessione critica e al contributo meditato.

Ci proponiamo dunque di offrire una chiave di lettura per la comprensione di questi temi, introducendo alcune indicazioni relative ai

3 P. Gagliardi, “Introduzione” a G. Kunda, L’ingegneria della cultura, trad. di E.Recchia, Torino, 2000, pp. VII-XV.

percorsi di studio emergenti. Si segnala infatti un progressivo spostamento del focus dell’at-tenzione, sempre meno concentrata sui pro-blemi di coerenza interna e integrazione della corporate culture, e sempre più orientata ad esaminare l’interazione tra gli artefatti orga-nizzativi e i loro fruitori nel contesto di espe-rienze d’uso concrete. Da ciò deriva il crescente interesse per la struttura fisica degli ambienti di lavoro, non più intesa come mero contenito-re e “quinta di palcoscenico”, ma come elemen-to chiave per la comprensione delle dinamiche organizzative4.

2. Due diverse prospettive

Come notano Alvesson e Berg, autori di una ponderosa rassegna della letteratura dedicata a questo tema, il concetto di cultura racchiude due significati potenzialmente contradditori: per un verso, può essere intesa come elemento di ordine, capace di introdurre stabilizzazione e controllo nella realtà sociale; per un altro ver-so, può essere associata al significato origina-rio di coltivazione (dal latino “colere”), sotto-lineandone il potenziale evolutivo, in quanto «forza trainante dello sviluppo sociale»5.

In coerenza con la duplice valenza semantica

4 L’attenzione per questi temi ha condotto allo sviluppo di specifici indirizzi di ricerca, designati con l’etichetta di workplace studies e caratterizzati da una forte attenzio-ne per le componenti estetiche della vita organizzativa. Cfr. P. Gagliardi (a cura di), Symbols and artifacts. Views of the corporate landscape, Berlin-New York, 1990; Id., “Ex-ploring the aesthetic side of organizational life”, in S.R. Clegg, C. Hardy, W.R. Nord (a cura di), Handbook of or-ganization studies, London, 1996, pp. 565-580; A. Strati, Aesthetic understanding of organizational life, in “Academy of management review”, n. 17 (1992), pp. 568-581; L. Biggiero, “Lo spazio”, in G. Costa, R. Nacamulli (a cura di), Manuale di organizzazione aziendale, Vol. 2, La proget-tazione organizzativa, Milano, 1997, pp. 113-133; F. Carma-gnola, “L’estetica”, in G. Costa, R. Nacamulli (a cura di), Manuale di organizzazione aziendale, Vol. 2, La progettazio-ne organizzativa, cit., pp. 357-380; S. Linstead, H. Höpfl (a cura di), The Aesthetics of Organization, London, 2000; M. Barone, A. Fontana, “Ambiente e people caring. Per un’ecologia del lavoro”, in G. Del Mare (a cura di), Pro-spettive per la comunicazione interna e il benessere organiz-zativo, Milano, 2005; A. Strati, Estetica e organizzazione, Milano, 2008.

5 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simboli, trad. di M.Colombo, Milano, 1993, p. 78.

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del termine, il dibattito su questo tema ha vi-sto l’emergere di due diversi filoni di studio6, di due distinte “sottoculture”, che utilizzano differenti regimi discorsivi, uno “culturalista”, fin da subito orientato alla pratica professiona-le, l’altro “simbolico - interpretativo”, almeno in origine più legato al mondo accademico7.

2.1. L’approccio culturalista

Il primo approccio, di impronta funziona-lista, sottende un evidente modello causale, fondato sull’ipotesi che l’integrazione sociale garantita dal riferimento ad una cultura con-divisa si traduca in sostanziali incrementi di rendimento e di produttività8. Il presupposto implicito è che per ogni organizzazione sia possibile identificare una cultura, che dunque può essere portata alla luce e “obiettivata”, per essere descritta, valutata e consapevolmen-te manipolata dal management. A partire da questo assunto, si fa strada l’idea che gestire

6 Cfr. S.R. Barley, G.W. Meyer, D.C. Gash, Cultures of cul-ture: academics, practitioners and the pragmatics of norma-tive control, in “Administrative Science Quarterly”, n. 33 (1988), pp. 24-60.

7 P. Gagliardi, “Il movimento culturale verso l’istituzio-nalizzazione”, in Id. (a cura di), Le imprese come culture. Nuove prospettive di analisi organizzativa, nuova ed. ag-giornata Torino, 1995, pp. 23-30, p. 25. Tra i due approc-ci si è alla fine consolidata la posizione intermedia dei “pragmatisti-accademici”, sulla quale convergono stu-diosi di entrambi gli orientamenti, interessanti alla fer-tilizzazione incrociata tra teoria e pratica organizzativa. Cfr. P. Gagliardi, M. Monaci, “La cultura”, in G. Costa, R. Nacamulli (a cura di), Manuale di organizzazione azienda-le, Vol. 2, La progettazione organizzativa, cit., pp. 189-226, p. 191.

8 Un’impostazione di questo tipo si può trovare, ad esempio, nel best seller di Th.J. Peters, R.H. Waterman, Alla ricerca dell’eccellenza, trad. di E. Angelini, E. Ferrara e G. Salinas, Milano, 1984. Altri collegano la condivisione dei valori all’idea del clan, una forma di governo delle transazioni, che si rivela più efficace per fronteggia-re situazioni ambigue e complesse: cfr. A.Wilkins, W. Ouchi, Efficient cultures: exploring the relationship between culture and organizational performance, in “Administrati-ve Science Quarterly”, n. 24 (1983), pp. 468-481. Ad un approccio culturalista sono chiaramente riconducibili – pur con gli opportuni distinguo – anche gli scritti di Edgar Schein e di Pasquale Gagliardi, che certamente sottendono uno sguardo più attento e più articolato, non appiattito sulle logiche manageriali.

un’azienda non significhi soltanto occuparsi di pianificazione e strategia, ma anche svilup-pare l’identità dell’organizzazione.

In questa prospettiva, la “cultura” si propone come “collante”, strumento per creare coesio-ne e ordine sociale9. Il risultato è una forma di meta-management, che punta a influenzare i membri dell’organizzazione mediante valori, norme, opinioni e atteggiamenti. Non a caso, il concetto di commitment, uno dei più utilizzati nell’ambito della gestione delle risorse umane, soppianta gradualmente quello di motivazio-ne: mentre quest’ultimo è legato a sistemi di remunerazione che fanno esclusivo riferimen-to ai compiti svolti, la nozione di commitment presuppone l’identificazione con il sistema di norme e di valori sostenuti dall’impresa10. Come notano Alvesson e Berg,

ormai non basta più che un dipendente svolga il compito che gli è stato assegnato o che obbedisca agli ordini, occorre che “creda” nell’azienda e in tut-to ciò che l’azienda rappresenta, che “senta” quello che sta facendo11.

Più in generale, l’attività di ricerca degli stu-diosi orientati alla pratica professionale è ca-ratterizzata da un prevalente «interesse tecni-co al controllo del mondo sociale, alla genera-lizzazione e alla predittività»12. Un interesse che presuppone come base un’epistemologia positivistica, sostanziata nel distacco scientifi-co dall’oggetto di studio e nella preferenza ac-cordata a metodologie quantitative - questio-nari e sondaggi - con l’obiettivo di acquisire conoscenze di carattere generale, che possano essere applicate in contesti diversi13.

Il punto di forza di questa approccio è lo sviluppo di una visione globale dell’organiz-zazione, intesa come totalità, all’interno della quale la cultura si dimostra in grado di spie-gare una serie di comportamenti che non de-rivano direttamente dalla struttura, dal “chi

9 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simboli, cit., p. 145.

10 Op.cit., p. 148.

11 Op.cit., p. 166.

12 P. Gagliardi, “Il movimento culturale verso l’istituzio-nalizzazione”, cit., p. 26.

13 M.J. Hatch, Teoria dell’organizzazione, trad. di A.Visentin, Bologna, 1999, p. 226.

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fa che cosa”14. Come notano Alvesson e Berg,

Il maggior vantaggio del concetto di cultura orga-nizzativa consiste nel fatto che ci permette di trattare i sistemi sociali più importanti come sistemi colletti-vi – e non come semplici aggregazioni di caratteristi-che o azioni individuali15.

Quanti si riconoscono in questo filone sot-tolineano pertanto gli aspetti integratori e il carattere olistico del nuovo paradigma: come spiega Gagliardi, «la cultura rappresenta la chiave unitaria di attribuzione di senso sia agli aspetti cosiddetti informali che agli aspetti co-siddetti formali dell’organizzazione reale»16. Anche se è vero che in questa prospettiva si riscontra un’oscillazione tra quanti intendono la cultura come una semplice variabile, cioè come una caratteristica, un “fattore di contin-genza”, un avere da utilizzare per migliorare le prestazioni organizzative, e quanti vedono la cultura come un modo di essere dell’organiz-zazione, una condizione costitutiva con cui fare i conti17, l’obiettivo comune a quanti si ri-chiamano a questo indirizzo di studi rimane quello di identificare le norme base utilizzate da una collettività, la forma sottostante alla mol-teplicità di manifestazioni in cui un’organiz-zazione si esprime. Cambiano le intonazioni e gli accenti, ma la cultura ha sempre a che fare con un nucleo fondante, e oggettivamente dato, di premesse, priorità, significati e valori comuni, principi cognitivi (Schein), conoscen-ze prescientifiche e mitiche (Gagliardi), che i membri dell’organizzazione sono portati ad

14 M. Ferrante, S. Zan, Il fenomeno organizzativo, Roma, 1994, p. 103.

15 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simboli, cit., p. 64.

16 P. Gagliardi, “Teoria dell’organizzazione e analisi cultura-le”, in Id. (a cura di), Le imprese come culture, cit., pp. 3-22, p. 17.

17 Cfr. L. Smircich, Cfr. L. Smircich, Concepts of culture and organization-al analysis, in “Administrative science quarterly”, n. 3 (1983), pp. 339-358. Non è una differenza di poco conto, perché trattare la cultura come una “variabile” organizzativa, e non come chiave unitaria di attribuzione di senso, significa pre-supporre che al di là della cultura esista una razionalità tecnica oggettiva, che prescinde da ogni considerazione di valore ed esclude per principio che la stessa raziona-lità tecnica possa essere, a sua volta, culturalmente de-terminata. P. Gagliardi, “Il movimento culturale verso l’istituzionalizzazione”, cit., p. 27.

accettare come indiscutibili. Consideriamo la definizione di Schein. Egli

intende la cultura come

l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato im-parando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno fun-zionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da essere insegnati ai nuovi mem-bri come il modo corretto di percepire, pensare e sen-tire in relazione a questi problemi18.

In questa definizione si segnala innanzitut-to l’accento posto sull’esistenza di un gruppo stabile, che in virtù di un processo di appren-dimento organizzativo ha imparato a dare ri-sposte efficaci alle sfide, tanto interne quanto esterne, che si è trovato ad affrontare. L’insieme di queste risposte viene interiorizzato da tutti i membri dell’organizzazione e trasmesso ai nuovi entrati attraverso i processi di socializza-zione. Alla luce di questa definizione, la cultu-ra non può essere confusa con gli schemi com-portamentali attraverso i quali essa si esprime: «la cultura non è visibile; visibili sono le sue manifestazioni»19. La cultura si articola infat-ti in una pluralità di livelli - artefatti, norme e valori dichiarati, credenze e assunti di base – ove i primi due sono da intendersi come semplici “emanazioni” del terzo. Più precisamente:

• gli artefatti rappresentano le espressioni visibili, tangibili e udibili – anche se spesso non decifrabili - della cultura. Essi compren-dono oggetti fisici, espressioni verbali e ma-nifestazioni comportamentali;• i valori dichiarati definiscono ciò che sta a cuore ai membri di un’organizzazione e costi-tuiscono la base del giudizio riguardo ciò che è giusto o sbagliato. Strettamente collegate ai valori, le norme permettono ai membri di una cultura di sapere che tipo di comportamento ci si aspetta da loro in una determinata situa-zione, specificando che cosa bisogna fare per essere considerati normali o anormali20;

18 E. Schein, “Verso una nuova consapevolezza della cultura organizzativa”, in P. Gagliardi (a cura di), Le im-prese come culture, cit., pp. 395-415, p. 397.

19 E. Schein, Cultura d’azienda e leadership, Milano, 1990, p. 35.

20 Possiamo attribuire a questo livello i documenti in cui le organizzazioni giustificano la propria ragion d’es-

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• le credenze e gli assunti fondamentali costitu-iscono la base della cultura di un’organizza-zione. Convinzioni inconsce e date per scon-tate, percezioni, pensieri di base, sentimen-ti: nel loro insieme rappresentano ciò che i membri di una cultura considerano come verità indiscussa e condivisa, anche se spes-so accettata in modo inconsapevole21.

Fig. 1 - Livelli di cultura secondo Schein

Come si evince da questo schema, l’attenzione degli studiosi di impron-ta manageriale può estendersi anche alle componenti espres-sive, simboliche ed emozionali, che però ricevono significato, solo nella misura in cui si raccordano al nucleo fondante di una specifica cultura. In questo senso, gli artefatti simbolici (es.: ar-chitettura degli edifici, logo e identità visiva, cerimonie e rituali, racconti, ecc.) non sono in grado, in quanto tali, di introdurre nuovi

sere e il proprio operato: guidebooks con esplicitazione di vision, mission e key values, dichiarazioni relative a strategie, obiettivi e filosofie. Nel loro insieme queste enunciazioni alimentano un vasto repertorio di mate-riali e di strumenti, solitamente utilizzati per la comu-nicazione istituzionale con gli stakeholders, cioè con i “portatori di interesse” nei confronti dell’organizzazio-ne: si tratta di un pubblico assai vasto, che comprende azionisti, banche, analisti finanziari, giornalisti econo-mici, fornitori, sindacati, autorità politiche, pubblica amministrazione, clienti e dipendenti, ecc. Cfr. T. Muzi Falconi, “Le relazioni pubbliche”, in G.P. Fabris (a cura di), La comunicazione d’impresa, Milano, 2003, pp. 65-88.

21 Credenze ed assunti rispondono a problemi di senso fondamentali: riguardano i rapporti del genere umano con l’ambiente, la natura dell’uomo, la natura delle rela-zioni umane, la natura della realtà e della verità, il rap-porto degli esseri umani con il tempo e con lo spazio. Rappresentano, per così dire, l’aria che si respira all’in-terno di un’organizzazione: essi offrono senso e signifi-cato alla vita delle persone, orientando i comportamen-ti quotidiani. Cfr. E. Schein, Culture d’impresa, trad. di G. Picco, Milano, 2000, pp. 52-60.

significati e nuove comprensioni della realtà all’interno di un determinato contesto orga-nizzativo, in quanto le loro capacità espressive restano sempre subordinate all’unità inscindi-bile del paradigma culturale adottato dall’im-presa. L’imperativo è insomma la coerenza. Eventuali discrepanze tra gli artefatti e i va-lori vengono diagnosticate come “sintomi” di un disagio più profondo, che vede in conflitto

dimensione mani-festa e dimensione latente della cultura organizzativa: una situazione che ri-chiede un interven-to “terapeutico”, vol-to a riassorbire in un quadro omogeneo ed unitario le note disssonanti e gli ele-menti di attrito22.

In base a queste indicazioni, si in-tuisce che non è del

tutto estranea agli studiosi orientati alla prati-ca professionale un’ideologia “conservatrice”, tesa a difendere lo status quo e a proteggere gli interessi della proprietà e del management23. Tale ideologia si manifesta a due diversi livelli: per un verso, ci si sforza di proporre una let-tura oggettivante. In questo modo, si rischia però di “reificare” ancora una volta la cultura, astraendola dai gruppi sociali e dagli indivi-dui concreti, e considerandola come qualcosa di “dato”, di non modificabile, fino a ricadere in una sorta di “determinismo culturale”, che porta a vedere le azioni non come prodotto degli uomini e delle loro scelte personali, ma come effetto dell’energia intrinseca ai model-li culturali che informano i contesti in cui le organizzazioni si trovano a operare24. Per un

22 Op.cit.

23 P. Gagliardi, “Il movimento culturale verso l’istitu-zionalizzazione”, cit., p. 26.

24 E’ il caso di Fukuyama, che collega lo sviluppo delle formule organizzative alla presenza di differenti codici etici, implicati da diverse culture della famiglia: in que-sto senso, la grande corporation trova il suo terreno cul-turale di elezione in paesi come gli Stati Uniti, il Giap-pone e la Germania, dove la famiglia non ostacola forme

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altro verso, nonostante le raccomandazioni di Schein, nella pratica manageriale si finisce per confondere la cultura con le enunciazio-ni formali (“carta dei valori”, “filosofia”, “credo aziendale”), presumendo in maniera piuttosto affrettata che la cultura promossa dai vertici dell’organizzazione (ossia quella dell’elite o del gruppo egemone) coincida con la cultura dell’impresa nel suo complesso, comune a tut-to il personale25. In questo caso, l’idea è che sia possibile controllare e influenzare la cultura, allo scopo di ottenere comportamenti coerenti con i valori propugnati dal management26. Il risultato di questo approccio “ingegneristico” è però paradossale: la cultura diventa il più del-le volte «la bandiera di campagne propagandi-stiche e di mobilitazione emotiva che non mo-dificano nella sostanza l’ordine organizzativo esistente»27. Come nella celebre espressione di Tomasi di Lampedusa, l’obiettivo sembra esse-re quello di «cambiare tutto, per non cambia-re niente»: mentre in azienda si introduce un lessico inconsueto e apparentemente innova-tivo, intessuto di termini come “mito”, “saga”, “storia d’impresa”, “rituale”, che esulano dalle tradizionali pratiche discorsive del manage-ment, si avverte sullo sfondo la persistenza di un approccio meccanicistico e strumentale alla gestione dell’impresa.

Insomma, al di là dei facili ed ingenui en-tusiasmi suscitati dalla prospettiva culturali-sta, il confronto con le concrete applicazioni del modello evidenzia numerose situazioni problematiche:

• va innanzitutto osservato che l’esistenza di un rapporto di causalità tra le caratteristiche di una cultura e i comportamenti concreti delle persone non è affatto assodata. Come la psicologia sociale ha da tempo dimostra-

associative allargate, mentre il modello della piccola im-presa distrettuale, tipico del Nordest dell’Italia, fa leva sul familismo esteso alla comunità locale. Tale cultura è però di ostacolo allo sviluppo di formule organizzative più complesse. Cfr. F. Fukuyama, Fiducia, trad. di A. La-vazza, Milano, 1996.

25 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simbo-li, cit., p. 72.

26 Op.cit., p. 103.

27 P. Gagliardi, “Il movimento culturale verso l’istitu-zionalizzazione”, cit., p. 28.

to, l’influenza dei valori sul comportamento non si esplica in maniera diretta28. Analoghe considerazioni si possono fare in merito alle caratteristiche fisiche degli artefatti architet-tonici. Anche se si dà per scontato che possa-no diventare l’espressione visibile di un nuo-vo modo di intendere il lavoro29, la relazione tra corporate culture e design degli edifici non è deterministica: in questo percorso in-tervengono anche altri fattori, di carattere economico, oltre che caratteristiche geogra-fiche, degli individui e fattori non-cultura-li30. Più in generale, si segnala una manifesta difficoltà a valutare l’impatto di una cultura sul maggiore o minore grado di efficienza di un’impresa. Non a caso, i tentativi di misu-rare la “forza culturale” di un’organizzazione si scontrano con l’assenza di una chiara base scientifica per definire le variabili da mettere in correlazione31; in assenza di conferme em-piriche, questi presupposti vanno dunque considerati alla stregua dei numerosi “miti istituzionali”, diffusi nell’attuale ambiente del business: un insieme di prescrizioni e di attese, a cui le aziende cercano di conformar-si, per assicurare consenso e legittimità alle proprie azioni;• a volte si ha la sensazione che gli argomen-ti portati a favore di un maggiore interesse delle imprese per la cultura siano di natura preventiva e “difensiva”: si sviluppano pro-grammi per gestire valori, opinioni e sen-timenti del personale, in quanto si teme che la turbolenza della nuova economica informazionale, che ha come conseguenza

28 L. Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva, Milano, 1973.

29 Th. H. Davenport, Il mestiere di pensare, Migliorare le performance e i risultati dei knowledge worker, trad. di G. Chizzoli e C. Manzoni, Milano, 2006, p. 180.

30 Th. van der Voordt, J. van Meel, F. Smulders, S. Teurl- Th. van der Voordt, J. van Meel, F. Smulders, S. Teurl-ing, Corporate culture and design, in “Environments by design”, n. 2, inverno 2002/03, pp. 23-43.

31 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simboli, cit., p. 153.Non è affatto univoca nemmeno la definizione di “for-za culturale” di un’organizzazione: Peters e Waterman la intendono come condivisione dei “valori di base” da parte dei membri dell’organizzazione, Schein insiste in-vece sulla “coerenza interna” degli assunti taciti, tale da identificare un preciso paradigma.

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la frammentazione dei percorsi professio-nali32, porti ad allentare i legami tra indi-vidui e organizzazioni. Analoga struttura ha il rapporto con il tema del cambiamento organizzativo: in questo caso, il concetto di cultura viene evocato, non per esaltarne la valenza propositiva, ma esclusivamente per spiegare le resistenze psicologiche degli at-tori33. In effetti, alla luce dell’orientamento culturalista, l’unico cambiamento possibile è quello che si verifica entro vincoli precisi e a partire da premesse date, definite dalla sfera d’azione di una determinata cultura organiz-zativa. Il breaktrough, il “salto paradigmatico”

presuppone invece una crisi, determinata dall’intervento di circostanze esterne34. Data l’ideologia della trasparenza assoluta, che so-stiene questo impianto manageriale, sembra infatti impensabile che all’interno dell’orga-nizzazione si annidino scarti, linee di frattu-ra, tensioni non risolte e istanze inespresse, capaci di attivare autonomamente percorsi di cambiamento;

32 R. Sennet, L’uomo flessibile, trad. di M. Tavosanis, Mi-lano,1999.

33 Eloquente in proposito è il saggio di P. Gagliardi, “Creazione e cambiamento delle culture organizzative: uno schema concettuale di riferimento”, in Id. (a cura di), Le imprese come culture, cit., pp. 417-438.

34 In pratica, l’accento sulla cultura e la standardizza-zione delle norme trasformano l’organizzazione in una burocrazia, cioè in un sistema che – come suggerito a suo tempo da Crozier – non dispone al proprio interno di strumenti per potersi correggere e dunque incapace di mutamento, se non in forza di crisi, sussulti dram-matici e improvvisi che lo investono dall’esterno. Cfr. M. Crozier, Il fenomeno burocratico, Milano, 1969.

• e invece, paradossalmente, proprio la pro-spettiva del management della cultura, svi-luppata con coerenza fino alle estreme con-seguenze, porta a scoprire che all’interno del-la medesima organizzazione non si sviluppa un’unica cultura, ma convivono una pluralità di sotto-culture35 ed eventualmente anche di contro-culture36: è la situazione che si veri-fica quando gruppi distinti di membri della stessa organizzazione condividono al loro interno problemi e soluzioni, facendo riferi-mento a una visione che appartiene esclusi-vamente al singolo gruppo e che lo differen-zia da tutti gli altri.

Fig. 2 - Dall’integrazione alla differenziazione culturale

Si definisce in questo modo un continuum che va dall’unità alla disintegrazione, pas-sando attraverso una molteplicità di stazioni intermedie. Viene meno dunque il punto di forza della prospettiva manageriale, cioè la possibilità di gestire strategicamente una col-lettività invece che una somma di individui, abbracciando con un unico sguardo la totalità delle risorse umane. E diventa a questo pun-to problematico stabilire se le organizzazioni hanno effettivamente “una” cultura, capace di definirne le caratteristiche complessive37.

35 cfr, J. Van Maanen, S.R. Barley, “L’organizzazione cul-turale: frammenti di una teoria”, in P. Gagliardi (a cura di), Le imprese come culture, cit., pp. 151-176.

36 J. Martin, C. Siehl, “Cultura e controcultura nelle or-ganizzazioni: una difficile simbiosi”, in op.cit., pp. 177-194.

37 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simbo-

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2.2. L’approccio simbolico-interpretativo

L’orientamento alternativo ribalta l’angolo vi-suale con cui guardare alla “cultura”: essa non designa più un’entità o un modo di essere, ma assume semplicemente valore di metafora, capace di gettare la luce su uno dei molteplici punti di prospettiva con cui un’impresa può essere osservata. Come ogni metafora, «essa produce sempre una rappresentazione parzia-le. Nel mentre evidenzia certe interpretazioni, tende a respingere nel sottofondo altre possibi-li spiegazioni»38. A partire da queste premesse, si rinuncia dunque ad una definizione olistica e globalizzante, fino a guardare l’organizzazione da una prospettiva simbolica, indipendentemen-te dal fatto che i diversi fenomeni si inseriscano o meno in un coerente sistema di valori39. Come notano Alvesson e Berg,

i simbolisti non si basano sul presupposto che in azienda esista una cultura, studiano invece le orga-nizzazioni da una prospettiva simbolica. Non è quin-di assolutamente necessario che i simboli debbano essere condivisi da tutti i membri dell’organizzazio-ne o dalla maggior parte di essi o che esista un siste-ma di simboli ben definito e inequivocabile40.

Si potrebbe piuttosto parlare di una costella-zione o di una rete di significati, richiamando la nota espressione dell’antropologo Clifford Geertz:

l’uomo è un animale sospeso in una rete di signifi-cati che egli stesso ha tessuto. La cultura è una di que-ste reti e la sua analisi, pertanto, non è una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza inter-pretativa in cerca di significati41.

E’ evidente inoltre il riferimento alla teoria dell’enactment proposta da Weick: gli ambienti

li, cit., p. 70.

38 G. Morgan, Images. Le metafore dell’organizzazione, trad. di M. Balducci, Milano, 1994, p. 17.

39 Ad un’impostazione di questo tipo si possono ricon-durre, sia pure con diversità di sfumature e di accenti, gli scritti di Gareth Morgan, Karl Weick, Mary Hatch, Fulvio Carmagnola, Antonio Strati, Ota de Leonardis. Anche Alvesson e Berg sembrano accordare una mag-giore credibilità agli approcci di questo tipo.

40 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simbo-li, cit., p. 123.

41 C. Geertz, Interpretazione di culture, trad. di E.Bona, Bologna, 1998.

organizzativi e le “culture” sono costruiti dal-le persone che li abitano, ma - una volta “co-struiti” - questi stessi ambienti condizionano le scelte e i comportamenti delle persone42. La cultura va dunque vista «come un processo – continuativo e attivo – di costruzione della realtà [… ] Un fenomeno attivo e vivo attraver-so il quale la gente crea e ricrea i mondi in cui vive»43. In ogni caso, se le “reti di significati” sono realtà socialmente costruite, l’attenzione degli studiosi che aderiscono a questo secondo indirizzo si sposta dalla cultura, intesa come oggetto da valutare, misurare, manipolare, allo sguardo soggettivo delle persone che interagisco-no in un determinato contesto organizzativo: in altri termini, la cultura viene vista dall’interno, nel suo farsi, a partire da un approccio rigorosa-mente interpretativo44, che comporta l’utilizza-zione di metodi qualitativi come l’osservazione partecipante, l’analisi testuale e l’intervista in profondità. La ricerca è dunque guidata da un interesse pratico, orientato alla comprensione di situazioni specifiche e concrete, con l’obietti-vo di restituire autonomia e responsabilità alle persone che operano all’interno delle organiz-zazioni, ad esempio svelando i presupposti ide-ologici impliciti nel linguaggio manageriale. Questo interesse si congiunge dunque ad una visione emancipatoria sul piano delle respon-sabilità etiche e politiche.

La prospettiva simbolica mette inoltre in luce l’importanza delle componenti espres-sive e della dimensione affettiva nella vita delle organizzazioni45. L’implicazione più im-

42 K.E. Weick, “Processi di attivazione nelle organizza-zioni”, trad. di C. Bazzani, in S. Zan (a cura di), Logiche di azione organizzativa, Bologna, 1988, pp. 267-301; Id., Senso e significato nell’organizzazione, trad. di L.Formenti, Milano, 1997.

43 G. Morgan, Images. Le metafore dell’organizzazione, cit., p. 161.

44 Come nota Meryl Reis Louis, «l’idea di cultura si fon-da sulla premessa che il significato pieno delle cose non è dato a priori nelle cose stesse, ma dall’interpretazione […] In un’ottica culturale, il significato si produce attra-verso un processo interpretativo in situ». Cfr. M. Reis Louis, “Le organizzazioni come ambiti di produzione culturale”, in S. Zan (a cura di), Logiche di azione organiz-zativa, cit., pp. 251-265, p. 253.

45 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simbo-li, cit., p. 222.

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portante è che gli artefatti non devono essere analizzati in quanto espressioni superficiali di valori e assunti sottostanti, come previsto dall’approccio manageriale, ma possono es-sere compresi nei loro propri termini, anche quando si caratterizzino in maniera confusa e contraddittoria46. L’obiettivo non è sussu-mere le singole manifestazioni entro quadri concettuali e schemi cognitivi perfettamente coerenti e già “dati”, ma comprendere quali re-pertori di significati possono essere associati - mediante un processo di interpretazione - ai diversi artefatti simbolici utilizzati da un’orga-nizzazione, nella consapevolezza che gli stessi simboli possono sostenere «significati diversi e persino contrastanti»47. I simboli sono in-fatti forme intermedie tra l’uomo e il mondo, espressioni in cui «la funzione del significare implica un rapporto di rinvio reciproco tra si-gnificante e significato»48. Essi assumono «il carattere della densità, della pregnanza e della concrezione del senso», in cui si condensa e si trasmette l’intensità percettiva della nostra esperienza49. I simboli non si limitano insom-ma a descrivere la realtà, ma esprimono anche un pathos, un’insopprimibile componente af-fettiva, in virtù della quale fanno accadere del-le cose e spingono all’azione le persone. Essi evocano inoltre una struttura di significati sempre aperta, mai de-finitivamente conclusa, capace di congiungere, per il tramite dell’im-maginazione, il principio di realtà al progetto del domani. In questo contesto, vanno infine considerati i gap tra significati attesi e signi-ficati percepiti, come il fatto che i processi di simbolizzazione sfuggono spesso alle previ-sioni del management: questi scollamenti, lungi dal denunciare una condizione patologi-ca e “disfunzionale”, una debolezza intrinseca della cultura, consentono di evidenziare la ric-chezza dei flussi interpretativi volti a valutare

46 J. Larsen, M. Schultz, “Artifacts in a bureaucratic J. Larsen, M. Schultz, “Artifacts in a bureaucratic monastery”, in P. Gagliardi (a cura di), Symbols and arti-facts, cit., pp. 281-302, p. 301.

47 M.J. Hatch, Teoria dell’organizzazione, cit., p. 212.

48 B. Bolognini, “Il mito come espressione dei valori or-ganizzativi e come fattore strutturale”, in P. Gagliardi (a cura di), Le imprese come culture, cit., pp. 79-102, p. 88.

49 F. Carmagnola, “L’estetica”, cit., pp. 357-380, p. 369.

lo scarto tra ciò che viene recepito dall’interlo-cutore e quanto auspicato dall’autore della co-municazione. Rappresentano dunque il “sale” dell’innovazione e del cambiamento50, perché sollecitano i partecipanti all’interazione dialo-gica ad assumere un diverso punto di prospet-tiva, adottando una nuova definizione della realtà51.

50 Come suggeriscono Hatch e Schultz, l’analisi dei gap, degli scarti esistenti, porta al superamento di un concet-to statico dell’identità organizzativa. A titolo di esempio, gli autori citano il caso della Lego, ove il processo di cam-biamento è partito dal riconoscimento di uno iato tra l’immagine percepita dagli stakeholders, che considera-vano Lego in senso olistico come fornitore di soluzioni per la creatività e l’apprendimento, e le strategie mana-geriali adottate fino a quel momento, che ponevano l’ac-cento sulle singole e diversificate linee di prodotto. Un altro esempio è offerto da Bang & Olufsen, ove il ricono-scimento della distanza tra la retorica dell’innovazione, utilizzata dal management nelle dichiarazioni ufficiali, e la realtà di una molteplicità di subculture azienda-li in conflitto tra loro, ha spinto l’azienda ad unificare le disparate forze lavorative attorno ad un concetto di semplicità, ispirato alla tradizione del Bauhaus, che ha trovato un importante riferimento simbolico nel nuovo centro direzionale, costruito nel 1998, per disegnare il quale l’architetto Jan Søndergaard ha preso ispirazione dalle fattorie isolate nel verde della Danimarca occiden-tale, creando un’esperienza spaziale che riecheggia l’at-tenzione per l’ambiente e il raffinato design dei prodotti della stessa azienda. Cfr. M.J. Hatch, M. Schultz, Are the strategic stars aligned for your corporate brand?, in “Harvard Business Review”, febbraio 2001, pp. 129-134; M. Schultz, M.J. Hatch, The Cycles of Corporate Branding: The Case of the Lego Company, in “California Management Review”, Vol. 46, n. 1 (2003), pp. 6-26.

51 Aggiungiamo che la spinta al cambiamento può venire anche dall’esigenza di risignificare le pieghe, gli scarti, gli “spazi vuoti” generati dalla frantumazione dei vecchi apparati burocratici. In ogni percorso trasforma-tivo rimangono infatti sul tappeto nodi irrisolti e resi-dui problematici: luoghi cui non viene attribuito alcun significato esplicito e dunque incapaci di “negoziare” la loro differenza, perché – semplicemente – non vengono visti, riconosciuti come tali. In un certo senso, rappre-sentano degli scarti di lavorazione: “ciò che resta”, una volta terminata la ristrutturazione degli spazi più appe-tibili. Apparentemente, sprechi inevitabili nel processo di costruzione delle nuove “architetture” organizzative: in realtà, elementi che potrebbero diventare nodi vi-tali, ingredienti necessari all’interno di un processo di cambiamento culturale. Per queste considerazioni, cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, trad. di S. Minucci, Roma-Bari, 2002, pp. 114-116; analoghe considerazioni si trova-no in O. de Leonardis, Le istituzioni. Come e perché perlar-ne, Roma, 2001, pp. 134-140.

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Nel loro complesso, queste considerazioni sug-geriscono che è proprio attraverso l’ulteriorità di senso introdotta dagli artefatti simbolici che rie-

sce a dischiudersi il potenziale evolutivo di una de-terminata cultura, mentre l’esclusivo riferimento a sistemi normativi e a schemi cognitivi dati non può che enfatizzarne la funzione stabilizzatrice e ordinatrice.

Ciò richiede che la cultura non venga più conce-pita come un’entità, uno strumento a disposizione del manager, ma come una piattaforma, un dispo-sitivo per la creazione di significati e di interpre-tazioni52. In coerenza con questa logica, l’orga-nizzazione va vista come «il terreno o l’ambiente nel quale, e attraverso il quale, le culture possono

52 M.J. Hatch, Teoria dell’organizzazione, cit., p. 229.

svilupparsi»: di qui la definizione delle organizza-zioni come «ambiti di produzione culturale»53.

Tab. 1 – Approccio culturalista e approcciosimbolico-interpretativo a confronto

3. Simboli e artefatti

Nel confronto tra approccio culturalista e approccio simbolico-interpretativo la posta in gioco più importante, dal punto di vista teori-co, si gioca sul terreno degli artefatti, cioè dei fenomeni sensibili e osservabili, e sul ruolo che questi svolgono nei processi di cambiamento.

53 M. Reis Louis, “Le organizzazioni come ambiti di produzione culturale”, cit., p. 259.

Approccio culturalista Approccio simbolico-interpretativo

Cultura come oggetto d’indagine Cultura interpretata nel suo farsi

Cultura come elemento di ordine e stabilità Enfasi sul potenziale evolutivo della cultura

Metodo quantitativo/sperimentale Metodo qualitativo/ermeneutico

Interesse tecnico Interesse pratico

L’ambiente è “dato” L’ambiente è “attivato”

Organizzazione come globalità Organizzazione come pluralità

Identificare la forma sottostante alla molteplicitàdi manifestazioni sensibili

Processi di simbolizzazione entro reti di significati continuamente cangianti

Enfasi sul valore della coerenza I gap, le pieghe e gli scarti come leve dell’innovazione

Il collante dell’organizzazione sono gli elementi intangibili (norme, valori, assunti di base)

Il collante dell’organizzazione sono gli oggetti tangibili (spazi, artefatti, strutture fisiche, ecc.)

Approccio ingegneristico per vincere le resistenze al cambiamento: “inculcare” i valori nelle persone

Cambiamento come ridefinizione di mappe concettuali e sensoriali

Risorse umane: destinatari passivi della comunicazione

Persone: co-autori di un universo dialogico e relazionale

Struttura fisica come “quinta di palcoscenico” Struttura fisica come spazio di relazione

Design come “styling”, decorazione, elemento superficiale di attrazione

Design come componente strutturale di un più evoluto modello di business

Corporate landscape Living experience

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Abbiamo già notato come l’approccio cultura-lista non escluda, per principio, uno sguardo sulla vita delle organizzazioni più ampio e multiforme di quello classico: come sottolinea Gagliardi, alla tradizionale riflessione riguar-dante il logos, cioè la componente astratta e cognitiva, deve affiancarsi oggi l’interesse per l’ethos, cioè per la dimensione pratica, e l’at-tenzione per il pathos, cioè per la componente estetico-sensibile. In particolare, la lettura de-gli artefatti fisici consente di rinvenire sentie-ri e tracce dell’identità, dato che «le forme con-crete possono incorporare strutture mentali e valoriali»54. Il risultato cui giunge Gagliardi appare tuttavia insoddisfacente, in quanto «lo specifico momento estetico rimane su-bordinato, come in altre forme di conoscenza scientifica, a un obiettivo cognitivo»55. E’ un momento, un primo gradino di un percorso ascensionale, teso a conoscere e comprende-re un sistema complesso di relazioni e di si-gnificati: lo sguardo dei culturalisti si accosta alla componente estetica in chiave puramen-te strumentale, considerandola come mezzo in vista di un fine, transito mediante il quale giungere a «comporre una mappa dei valori che caratterizzano l’identità organizzativa e guidano i comportamenti»56.

In altri termini, il “collante” che tiene insieme

54 P. Gagliardi, “Artifacts as Pathways and Remains of P. Gagliardi, “Artifacts as Pathways and Remains of Organizational Life”, in Id. (a cura di), Symbols and Arti-facts: Views of the Corporate Landscape, cit., pp. 3-38, p. 28.

55 F. Carmagnola, “L’estetica”, cit., p. 369.

56 Ibidem.La differenza tra i due autori può a nostro parere essere chiarita in questi termini: Gagliardi vede il linguaggio logico-razionale e il linguaggio estetico-intuitivo come forme diverse della conoscenza, collegate alla distinzio-ne del cervello in due emisferi, quello destro impegnato a sintetizzare le percezioni in immagini olistiche, quel-lo sinistro orientato a codificare le informazioni verba-li, processandole in maniera seriale mediante categorie gerarchiche. Cfr. P. Gagliardi, “Exploring the aesthetic side of organizational life”, cit. , p. 574.Carmagnola sottolinea invece l’indebolimento della distinzione tra le due forme di conoscenza: nei nuovi modelli del sapere si avverte infatti una crescente atten-zione per le componenti simboliche, sensibili e mate-riali, che trasforma il momento estetico in nodo cogni-tivo fondamentale anche per i processi di scoperta e di elaborazione del sapere scientifico. Cfr. F. Carmagnola, “L’estetica”, cit., pp. 360-362.

l’organizzazione si identifica, di volta in volta, con strutture invarianti di significato, forme sottostanti, principi astratti, assunti e valori: tutte entità che appartengono alla dimensio-ne dell’intangibile57. Gli artefatti mantengono invece una posizione subordinata, chiamati a rappresentare visivamente la filosofia mana-geriale adottata dall’azienda. Di conseguenza, il design degli artefatti rischia sempre di ri-dursi a mero “styling”, puro rivestimento, for-ma che si adatta alla funzione, secondo l’impe-rativo dell’architettura razionalista.

Alla luce di questa prospettiva, le forme piat-te e poco slanciate del quartier generale della SAS Airlines, costruito a Stoccolma negli anni Novanta, possono essere intese come tradu-zione quasi letterale dell’impegno a demolire la piramide organizzativa, portato avanti da Jan Carlzon, all’epoca amministratore delega-to dell’azienda. Balza evidente agli occhi, in-fatti, la distanza tra questo approccio e quello utilizzato dalla compagnia di assicurazioni ARAG-Allgemeine Rechtschutz AG per la sede di Düsseldorf, costruita negli anni Settanta: un edificio a gradini, che si propone di incorag-giare l’ambizione dei dipendenti, offrendo una rappresentazione visiva della struttura organizzativa58.

Nel complesso, l’occhio con cui l’approc-cio culturalista guarda ai fenomeni sensibi-li ci sembra affine a quello della semiologia. L’attenzione si focalizza sugli artefatti, intesi come segni, che vengono piegati ad una de-codifica univoca e costantemente “sorveglia-ta” dai codici linguistici e normativi definiti dall’organizzazione: il risultato è un impianto formale che si propone di raccordare in ma-niera puntuale ed immediata un significante

57 Il termine “intangibile” offre lo spunto per un dupli-ce percorso di lettura: per un verso, è intangibile tutto ciò che non ha natura materiale (norme, valori, ideali); per un altro verso, l’intangibilità caratterizza tutto ciò che non può essere toccato, e dunque non può nemme-no essere cambiato. Suggestione che riprendiamo da J.N. Kapferer, Re-inventare la marca, trad. di A. Mortara, Milano, 2002, p. 169.

58 Per questo confronto, cfr. P.O. Berg, K. Kreiner, “Cor- Per questo confronto, cfr. P.O. Berg, K. Kreiner, “Cor-porate architecture: turning physical settings into sym-bolic resources”, in P. Gagliardi (a cura di), Symbols and artifacts, cit., pp. 52-55.

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al suo significato letterale59. Considerato in questa prospettiva, l’artefatto diventa l’equi-valente di un segnale stradale. Esso esaurisce la sua funzione espressiva nell’atto di rinviare alla meta indicata: è come un’etichetta senza spessore, utilizzata per rendere accessibili i valori che è chiamata a rappresentare.

Fig. 3 - Confronto tra le sedi di SAS Airlines e di ARAG Insurances

La difficoltà sorge al cospetto di artefatti ma-nifestamente plurivoci ed ambigui: con quale chiave possiamo “leggere” il lungo tavolo da lavoro (150 metri) introdotto nell’ufficio ope-rativo di Uniflair?

E’ un’espressione di orizzontalità organizza-tiva o la trasposizione di un sofisticato taylo-rismo all’interno degli uffici? E’ una soluzione per favorire l’incontro e la relazione fra le per-sone o un perfetto meccanismo di controllo, che espone ad un campo di piena visibilità ogni gesto, ogni parola, ogni movimento degli attori?

Anche per risolvere impasse di questo tipo, nell’approccio simbolico-interpretativo diven-ta fondamentale la distinzione tra simboli e artefatti. Come spiega Mary Hatch, anche se tutti gli artefatti sono portatori di un poten-ziale simbolico, non tutti diventano necessaria-mente simboli. In altri termini, considerando la situazione da un punto di vista puramente

59 Questa conclusione ci sempre perfettamente giusti-ficata nel caso di Schein. Per correttezza, dobbiamo in-vece riconoscere che Gagliardi respinge una soluzione di questo tipo, enfatizzando lo spessore simbolico degli artefatti. Cfr. Id., “Exploring the aesthetic side of organi-Cfr. Id., “Exploring the aesthetic side of organi-zational life”, cit., p. 577.

materiale, artefatti e simboli non sono distin-guibili, ma, nel momento in cui il ricercatore si pone all’interno di una prospettiva interpre-tativa, il focus deve per forza di cose spostarsi dall’aspetto fisico degli artefatti alla maniera in cui queste forme sono prodotte e utilizzate dai membri di un’organizzazione. In pratica,

si passa dalla fredda e distaccata analisi delle caratteristiche tecniche e prestazionali ai pro-cessi di attribuzione di senso che si verificano nel contesto di un’esperienza d’uso concreta.

Fig. 4 - Ufficio operativo di Uniflair

Il simbolo - inteso come componente chia-ve del processo di creazione del senso - nasce infatti dall’interazione tra un individuo (o una collettività) e un artefatto60. Da qui ha origine

60 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simboli, cit., p. 89. Come notano i due autori, si possono rintrac-ciare quattro aspetti chiave che ricorrono nelle diverse modalità di trattare il tema del simbolismo: il potere di combinare vari elementi, ordinandoli in un unico con-cetto (simbolo deriva dal greco sun-ballein, che significa combinare, mettere insieme); la funzione rappresenta-tiva, l’alludere a qualcosa di diverso da sé o di superio-

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un processo interpretativo aperto ad una mol-teplicità di risultati possibili e dal quale deriva un surplus di significati, che eccede ogni for-ma di pianificazione e controllo operata dal management.

E’ bene sottolineare che gli artefatti giungo-no ad incorporare una dimensione simbolica non in conseguenza di specifiche ed intrinse-che caratteristiche, ma in virtù del potenziale comunicativo ad essi attribuito dai membri di una determinata cultura61: il surplus di si-gnificazione si genera infatti quando oggetti, parole e comportamenti possono essere messi in relazione con altri artefatti e con la memoria del surplus di significati ad essi associati62. E’ insomma l’inserimento in un contesto di rela-zioni e in una costellazione dinamica di signi-ficati che trasforma in simbolo un semplice e generico artefatto63. Ne consegue che i signifi-cati di un simbolo non sono mai stabiliti una volta per tutte, ma presuppongono un proces-so di interpretazione, attraverso il quale i sim-boli vengono messi in rapporto con l’insieme di pre-comprensioni e aspettative, caratteri-stiche di una determinata cultura organizza-tiva. L’interpretazione è dunque un processo aperto, in costante tensione tra il già dato e le nuove comprensioni dischiuse dal potenziale simbolico degli artefatti.

In altri termini, non basta introdurre nuo-vi artefatti per generare il cambiamento64: la possibilità che questo si verifichi è connessa all’introduzione di artefatti che acquistino una valenza simbolica, andando a sfidare le struttu-re cognitive e le definizioni esistenti mediante

re a sé; l’attitudine a seguire una logica propria, che si esprime nella forma di metafore e metonimie; l’origine da un’interazione tra individui ed oggetti, che dà luogo ad un processo interpretativo. Op.cit., pp. 88-89.

61 M.J. Hatch, Teoria dell’organizzazione, cit., p. 212.

62 Come nota de Leonardis, in ogni organizzazione «sono condensati repertori per la conoscenza e per l’azio-ne. Repertori in cui si è andata accumulando e fissando l’esperienza pregressa della vita sociale, nel suo carattere intersoggettivo: una sorta di messa in memoria colletti-va». Cfr. O. de Leonardis, Le istituzioni, cit., p. 151.

63 M.J. Hatch, M.J. Hatch, The dynamics of organizational culture, in “Academy of management review”, Vol.18, n. 4 (1993), pp. 657-693, p. 673.

64 Op.cit., p. 675.

un processo di interpretazione65. E’ dunque ne-cessario che l’oggetto, l’artefatto, «sia attivato in discorsi che ne mettano in funzione la por-tata simbolica, susciti un campo d’azione e de-gli attori sociali che si definiscono in rapporto ad esso, e sia tradotto in pratiche sociali»66.

In effetti, indipendentemente dalle loro ca-ratteristiche funzionali e dalle loro prestazio-ni, i beni con cui quotidianamente ci confron-tiamo servono a creare e conservare rapporti sociali67. Non sono tanto chiamati a risponde-re ad esigenze pratiche (vestirsi, nutrirsi, ripa-rarsi), quanto a marcare la trama delle relazio-ni, fungendo da mezzi di comunicazione non verbale68. Il problema fondamentale della vita sociale è infatti riuscire ad “inchiodare” il flus-so indistinto degli eventi in significati dotati di un minimo di stabilità69: in questo senso, gli artefatti svolgono il ruolo di accessori nel contesto di rituali, che hanno come principale obiettivo la costruzione di un universo intelli-gibile, mediante lo scambio di servizi di identi-ficazione, che si propongono di attribuire agli oggetti un valore condiviso70. In altri termini,

65 M.J. Hatch, Teoria dell’organizzazione, cit., p. 300.

66 O. de Leonardis, Le istituzioni, cit., p. 144.Per intenderci: il semplice gesto di togliersi il camice, da parte del medico che opera all’interno dell’ospedale psichiatrico, non modifica il carattere violento del con-trollo esercitato dall’istituzione, finché questo gesto, questo “artefatto”, non riesce ad attivare un processo interpretativo, orientato alla ridefinizione dei rapporti tra le persone e del significato della cura. Op.cit., p. 141. In maniera analoga, la politica della “porta aperta”, adot-tata da molti dirigenti, può rappresentare un semplice restyling di facciata, che non altera minimamente il tradizionale modo di concepire le relazioni tra capo e collaboratori.

67 M.Douglas, B.Isherwood, Il mondo delle cose, trad. di G. Maggioni, Bologna, 1984, p. 67.

68 Op.cit., p. 69.

69 Op.cit., p. 72.

70 Op.cit., pp. 82-84. A supporto di queste considerazio-ni, si veda anche l’etimologia della parola italiana “cosa”, che deriva dal latino causa, termine con cui si indica un affare, cioè una relazione tra soggetti diversi. Come nota La Cecla, anche l’inglese thing e il tedesco Ding indica-no un’assemblea, una riunione di persone. Dunque la “cosa” sta sempre tra due o più persone, ed è destinata a raccogliere attorno a sé la convergenza di un’attenzione. Cfr. F. La Cecla, Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti, Mila-no, 1998, pp. 17-21.

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gli artefatti fisici – anche i più ovvi e i più bana-li – contengono sempre “grani di verità” sulle istituzioni, in quanto fissano e trasmettono i significati da attribuire alle pratiche e alle rela-zioni di cui sono mediatori71.

Ne consegue che nell’approccio simbolico-interpretativo il ruolo di “materiali adden-santi” viene riconosciuto proprio agli artefat-ti simbolici e non più agli assunti e ai valori dichiarati.

Alla luce di queste considerazioni, l’approccio simbolico-interpretativo pone le premesse per una visione estetica dell’organizzazione, sof-fermandosi «sull’apparenza e sul piacere del-la fruizione dell’apparenza, in quanto tale»72, senza subordinare il mondo delle espressio-ni simboliche a modelli e schemi concettuali astratti e aprioristicamente definiti. Tale pia-cere non è il risultato di una contemplazione muta e passiva, ma di una partecipazione inte-rattiva del fruitore, che assume le vesti del co-autore, partecipando alla «costruzione di un universo dialogico e relazionale»73. In altri ter-mini, anche un artefatto, così come ogni opera d’arte, viene portato a “compimento” soltanto mediante l’interazione con il suo fruitore.

In questa prospettiva, Strati sottolinea non solo l’importanza che l’estetica riveste per il materializzarsi dell’organizzazione, ma anche la centralità che essa assume per la comprensione dei processi organizzativi74. Ovviamente, il termine estetica non è più in-teso nel significato di “scienza del bello”, ma come teoria della conoscenza sensibile, ap-plicata dunque alle qualità secondarie e non misurabili (colori, profumi, sensazioni tattili e gustative) dell’esperienza, impropriamente relegate in secondo piano dalla “matematizza-zione della natura”, che è alla base del pensiero moderno: il risultato non è il trionfo dell’irra-zionale, ma un sapere basato sul corto circuito della mente e dei sensi, ove il “pensare con i sensi” e il “sentire con la mente” si danno con-vegno. In questo contesto l’attenzione per le

71 O. de Leonardis, Le istituzioni, cit., pp. 104-105.

72 F. Carmagnola, “L’estetica”, cit., p. 369.

73 Op.cit., p. 367.

74 A. Strati, A. Strati, Aesthetic understanding of organizational life, cit.

problematiche organizzative può a nostro pa-rere saldarsi in maniera innovativa ad interes-si emergenti nell’ambito della comunicazione e del marketing, a loro volta ridefiniti secondo un approccio costruzionistico e relazionale75. Sulla base di queste premesse, anche il design è chiamato ad uscire dal ruolo ambiguo in cui lo confina l’approccio culturalista: non può limitarsi ad “abbellire” gli artefatti (prodotti, spazi di lavoro, etc.), ma deve diventare com-ponente strutturale di un diverso modello di business, capace di mettere in luce il valore or-ganizzativo dei diversi aspetti (piacere, densi-tà percettiva, capacità di ascolto, modello co-gnitivo non sequenziale, relazionalità, etc.) dell’esperienza estetica76.

4. Artefatti simbolici e cambiamento

Quale ruolo sono chiamati a svolgere gli arte-fatti nei processi di cambiamento? Le risposte variano a seconda della prospettiva adottata.

L’approccio culturalista ripropone acriticamen-te la visione enunciata dalle teorie classiche del mutamento sociale: lo schema presuppone l’esistenza di un attore – individuale o colletti-vo – dotato dei requisiti di intenzionalità e di razionalità, che interviene su un aggregato so-ciale considerato come oggetto. Ritroviamo in questa impostazione la rigida separazione tra soggetto e oggetto, che contrassegna il pensiero cartesiano: l’organizzazione è vista come sem-plice materia, res extensa, entità statica ed inerte, su cui va ad imprimersi una spinta al cambia-mento che proviene da un soggetto esterno, il quale opera secondo una logica lineare e se-quenziale, a partire da una prima fase di pia-nificazione strategica, che si traduce successi-vamente in decisioni dotate di potere cogente, dalle quali scaturiscono infine azioni orientate alla concreta implementazione del progetto77.

I risultati che derivano dall’applicazione di questo schema si rivelano spesso deludenti e

75 cfr. R. Grandinetti, Reti di marketing. Dal marketing delle merci al marketing delle relazioni, Milano, 1993; G. Gerken, Addio al marketing, trad. di A. Cascelli, Torino, 1994.

76 F. Carmagnola, “L’estetica”, cit., pp. 368 ss

77 Cfr. O. de Leonardis, Le istituzioni, cit., pp. 125-126.

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di prendere consapevolezza dei cambiamenti intervenuti nell’ambiente esterno e della ne-cessità di elaborare nuove risposte. La cultura diventa un limite per la strategia.

Anche al di fuori dei momenti di crisi, le scel-te devono comunque confrontarsi con i vincoli imposti da un preciso “ventaglio di opzioni”81: in altri termini, le sole strategie possibili per un’organizzazione sono quelle prodotte all’in-terno del paradigma culturale esistente. Una strategia di cambiamento culturale può dun-que essere sviluppata seguendo due fonda-mentali direttrici:

• come sviluppo delle premesse contenute nel nucleo fondante, ma restando entro i vincoli definiti dalla sfera d’azione della cultura (cam-biamento apparente), o al massimo prevedendo l’integrazione nel sistema di valori “satellita-ri”, diversi ma non antagonisti rispetto a quel-li già esistenti (cambiamento incrementale);• inserendo nel nucleo fondante nuovi valori, estranei ed antagonisti rispetto a quelli tradi-zionali. In questo caso l’imperativo è cambia-re tutto, partendo dalle radici (cambiamento rivoluzionario). Come notano Ferrante e Zan, «gli avvenimenti che fanno da forza trainan-te a questi processi sono spesso drammatici e altamente vincolanti»82: una crisi finanzia-ria, un drastica riduzione della quota di mer-cato, una riconversione del ciclo produttivo. Il cambiamento presuppone dunque un urto traumatico, proveniente dall’esterno, che rende necessario rifondare l’organizzazione attraverso un processo di rigenerazione, dal quale ci si attende che essa esca completa-mente trasformata. Una soluzione di questo tipo ha però costi altissimi e rischia di far tabula rasa di persone, simboli, idee, investi-menti, progetti. E, al termine del percorso, è difficile decidere se la vecchia azienda è davvero “cambiata”, in quanto ci troviamo di fronte ad una nuova realtà, che con la prece-dente ha ben poco da spartire. L’approccio simbolico-interpretativo propone

invece di cambiare il modo con cui si pensa al cambiamento, a partire da una visione dina-

81 Op.cit., p. 429.

82 M. Ferrante, S. Zan, Il fenomeno organizzativo, cit., p. 120.

inferiori alle attese: in realtà, la metafora mec-canicistica sottesa da questo approccio non tie-ne conto del fatto che le organizzazioni – come ricorda Ota de Leonardis – non sono entità inerti, ma “macchine non banali”, per cui non è mai possibile prevedere quale output uscirà dall’introduzione di un determinato input in una macchina che è già in funzione e in movi-mento78. I sostenitori dell’approccio cultura-lista imputano invece l’incommensurabilità tra attese e risultati alle “resistenze” che ven-gono da una cultura “disfunzionale”, non più all’altezza delle sfide imposte dall’ambiente esterno.

Considerata in una prospettiva diacronica, la cultura è infatti il risultato di un processo di apprendimento79, innescato dal confronto del gruppo con una situazione potenzialmente critica, fonte di ansia e di preoccupazione, che viene superata, grazie alla visione proposta dal leader, mediante la condivisione di un’espe-rienza collettiva di successo. Tale esperienza viene successivamente trasfigurata emotivamen-te e idealizzata, fino a diventare il fondamento “mitico” per la risoluzione dei problemi e l’ela-borazione delle strategie: un riferimento indi-scusso e dato per scontato. A questo punto, «la dicotomia sacro-profano sostituisce la dicoto-mia vero-falso e l’accettazione razionale delle credenze cede il passo all’identificazione emo-tiva con i valori»80: da un punto di vista psico-logico, questo spiega come mai le organizza-zioni siano spesso incapaci di disapprendere un insieme di pratiche e di conoscenze obsole-te, anche quando queste risultino ampiamente contraddette dai fatti. Così, posti di fronte ad una situazione caratterizzata dall’ambiguità e dall’incertezza, gli attori tendono a rifugiarsi nella riproposizione di schemi, modelli, regole di comportamento già collaudati, allo scopo di ridurre l’ansia legata alla prospettiva del cam-biamento. Paradossalmente, proprio la cultura che aveva posto le premesse del successo im-pedisce ai membri della stessa organizzazione

78 Ibidem.

79 E. Schein, Culture d’impresa, cit., p. 29.

80 P. Gagliardi, “Creazione e cambiamento delle culture organizzative: uno schema concettuale di riferimento”, cit., p. 425.

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Artefatti simbolici e cambiamento organizzativo 103

cachemire, si trova negli anni a fronteggiare la sempre più aggressiva concorrenza prove-niente da produttori di paesi diversi, capaci di incrementare i volumi di produzione, con una parallela riduzione dei costi, grazie all’introdu-zione di nuove tecnologie. Nonostante questa minaccia, la disponibilità di manodopera qua-lificata induce le aziende scozzesi a persistere nei tradizionali metodi di lavorazione, basati sulla rifinitura manuale. Tutto resta a prima vista immutato: la tecnologia, le caratteristiche delle risorse umane, il tradizionale focus sul prodotto. Di fronte all’impossibilità di cambia-re, l’uso ininterrotto della rifinitura manuale viene però reinterpretato dai manager come strategia intenzionale, focalizzata sulla produ-zione e distribuzione di capi di taglio classico e di elevata qualità. In altri termini, i manager a posteriori ri-significano come cambiamento di ambiente e di strategia una situazione posta nel segno della continuità87.

Superando l’approccio di tipo adattivo pro-posto dai tradizionali modelli manageriali, l’esempio suggerisce che le aziende non si li-mitano a reagire di volta in volta alle sollecita-zioni provenienti dall’esterno, ma costruiscono attivamente il proprio ambiente, selezionando e valorizzando le informazioni coerenti con le proprie definizioni. Va per altro osservato che il cambiamento di prospettiva non agisce esclusivamente a livello di rappresentazio-ni mentali e di immagini, ma si realizza in contesti e modalità eminentemente concreti e pratici: il risultato è che, in base alla nuova definizione dell’ambiente, i produttori scozze-si di maglioni in cachemire riposizionano la propria offerta, sintonizzandosi con un target di consumatori ad alto reddito e proponendo il prodotto attraverso il canale distributivo del-le boutique e dei negozi specializzati, dedicati all’abbigliamento di lusso.

E’ bene sottolineare che il continuo proces-so di costruzione e ri-costruzione della realtà, in cui le organizzazioni sono coinvolte, è sì cognitivo, ma al tempo stesso anche pratico e materiale: come nota Ota de Leonardis, «un sentiero deve essere praticato, calpestato, per

87 K.E. Weick, Senso e significato nell’organizzazione, cit., pp. 82-89.

mica e processuale della cultura, che – intesa come rete di simboli pronti a caricarsi di nuo-ve significazioni - è un costrutto mai definiti-vamente concluso e sempre in divenire.

A partire dall’assunto che la realtà è attivata, inventata, costruita dagli attori, il cambiamen-to organizzativo può essere considerato come un processo simbolico di trasformazione, in virtù del quale vengono alterati i modelli simbolici più profondi delle organizzazioni, imponendo nuovi significati ai fenomeni d’impresa. In questo senso, il cambiamento organizzativo diventa un problema di ride-finizione del significato attribuito a concetti, oggetti, persone presenti all’interno di un de-terminato campo simbolico o di ristrutturazio-ne della forma dello stesso campo, in modo da mettere i soggetti in condizione di considera-re i fatti che esperiscono da un nuovo punto di prospettiva, che muta il senso dei fenome-ni osservati e consente di affrontare meglio la situazione invece di eluderla83.

In altri termini, il cambiamento non con-siste nell’inserire nuovi oggetti, nuove espe-rienze, nuovi valori, nel contesto di una realtà consolidata, ma nel “costruire” una nuova real-tà84, ricombinando in maniera creativa mate-riali già conosciuti, che ora vengono utilizzati diversamente dagli attori. Del resto, anche il salto paradigmatico, la “rivoluzione scientifi-ca” nella concezione di Kuhn, non è altro che una ri-definizione di ciò che è familiare: «sono gli stessi oggetti, gli stessi fenomeni, gli stes-si materiali, spesso anche gli stessi strumenti, che cambiano posto, gerarchia d’importanza e combinazioni»85.

Viene spontaneo a questo proposito riferir-si all’esempio portato da Porac e collaborato-ri86: un pool di aziende scozzesi, specializzate nella produzione artigianale di maglioni in 83 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi sim-boli, cit., p. 173. Su questi temi cfr. anche P.Watzlawick, J.H.Weakland, R.Fisch, Change, trad. di M. Ferretti, Roma, 1974.

84 O. de Leonardis, Le istituzioni, cit., p. 134.

85 Op.cit., p. 133.

86 J.F. Porac, H. Thomas, C. Baden-Fuller, J.F. Porac, H. Thomas, C. Baden-Fuller, Competitive groups as cognitive communities: the case of Scottish knit-wear manufacturers, in “Journal of Management Stud-ies”, n. 26 (1989), pp. 397-416.

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Artefatti simbolici e cambiamento organizzativo 105

circondano – luci, arredamento, tappeti – con la conseguenza che diventa opportuno ridise-gnare ciascuno di questi a sua volta, per met-terlo in relazione con una presenza che parla il linguaggio del gioco, della casa e del tempo libero, piuttosto che quello del grigio e ripeti-tivo lavoro d’ufficio.

Conclusioni

Sulla base di queste considerazioni è possi-bile pensare a un diverso ruolo del manager, chiamato a gestisce consapevolmente l’effetto moltiplicatore del cambiamento, insito nella portata simbolica di oggetti d’uso quotidiano, artefatti architettonici, spazi di lavoro, riti e cerimoniali. Egli non può più lasciare al caso questi aspetti, ma non può nemmeno impor-re soluzioni univoche e predeterminate: deve piuttosto proporre delle cornici di senso (co-gnitive e materiali insieme), che fungano da base per l’azione, garantendo agli attori un’am-pia libertà di movimento, nella consapevolez-za che i processi di simbolizzazione attivati da questa prospettiva mettono capo a significati e a ridefinizioni, che sfuggono, del tutto o in parte, alle previsioni iniziali.

Al di là delle molteplici suggestioni presenti nell’approccio simbolico-interpretativo, ci sem-bra tuttavia opportuno segnalare due criticità:• come suggerisce Ota de Leonardis, all’in-terno delle organizzazioni «le ridefinizioni implicano un qualche potere di definizione, un potere istituzionalmente riconosciuto»93. In altri termini, è pur sempre il dirigente che, decidendo di lasciare aperta la porta del suo ufficio, pone le premesse per una diversa e più informale definizione del rap-porto tra capo e collaboratori. Il rischio è che - se il potere di definizione non è distri-buito, diffuso (ma ciò richiede lo sviluppo di una struttura reticolare) - la linea di de-marcazione tra il management simbolico e la manipolazione o la seduzione organiz-zativa sia molto sottile e difficile da indivi-duare94. Per evitare questo rischio, bisogna

93 O de Leonardis, Le istituzioni, cit., p. 133.

94 M. Alvesson, P.O. Berg, L’organizzazione e i suoi simboli, cit., p. 181.

esser tale»88. Ma soprattutto: c’è un “carattere generativo” dell’agire89, che porta ad attivare nuove e diverse realtà a partire da azioni ed esperienze concrete, a prescindere dall’espli-cita formulazione di piani e strategie. In que-sto senso, va respinta la tendenza dell’approc-cio culturalista a riportare le manifestazioni sensibili delle organizzazioni ad un nucleo fondante, che ha esistenza soltanto sul piano mentale delle idee, delle cognizioni, delle rap-presentazioni. Le organizzazioni sono invece «un composto chimico di cognizioni e azioni, di menti degli attori e di oggetti materiali»90. Per essere efficace, il cambiamento deve dun-que “addensarsi” in oggetti, «che cambiano posto, uso, significati», suscitando un campo d’azione, nel quale convergono un insieme di attori, pronti a tradurre il nuovo in comporta-menti concreti91.

Un’implicazione che si può ricollegare a que-sto approccio è che gli artefatti simbolici non vengono recepiti isolatamente, ma come parte di una costellazione di significati92: il sempli-ce spostamento di un oggetto al di fuori del suo contesto abituale spinge le persone a ri-definire le “cornici” che danno senso all’azione quotidiana, per cui anche gli altri oggetti com-presi nella medesima costellazione vengono investiti da questo cambiamento. Ad esempio, l’introduzione di un iMac – in luogo di un vec-chio Pc - all’interno di un ambiente di lavoro strutturato in maniera formale può alterare il senso di appropriatezza degli oggetti che lo

88 O. de Leonardis, Le istituzioni, cit., p. 38.Come nota Weick, l’azione, la percezione e la creazione di senso sono strettamente legate tra loro in un proces-so circolare. Cfr. Id., “Processi di attivazione nelle orga-nizzazioni”, cit., p. 290.

89 O. de Leonardis, Le istituzioni, cit., pp. 71-72.

90 Op.cit., p. 130.

91 Op.cit., p. 142.In questo senso, bisognerebbe portare allo scoperto il “potenziale generativo” dell’agire, che – anche in con-testi completamente destrutturati - è capace di creare la realtà circostante, conferendole una struttura e dei significati nuovi. Op.cit. pp. 134-135. Il riferimento è a G.F. Lanzara, “Le organizzazioni effimere in ambienti estremi: genesi e strategie d’intervento”, in Id., Capacità negativa, Bologna, 1993, pp. 143-181.

92 Cfr. E. Di Nallo, Valori e stili di vita, in “Sociologia della comunicazione”, n. 21 (1994), pp. 7-15.

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riconoscere il carattere relazionale del potere, rinunciando a considerarlo come un attribu-to degli attori, né tanto meno una “cosa”, una merce che si possa acquistare, misurare, con-dividere, perdere, trattenere, trasferire95. Il potere non si esercita infatti al di fuori di una relazione: non dipende dalla stratificazione gerarchica, ma dall’esistenza di un reciproco riconoscimento. La gestione del potere non può identificarsi allora con l’esercizio dell’au-torità formale, ma va intesa come «il risul-tato di un complesso iter di negoziazione e di scambio, del farsi e disfarsi di coalizioni e alleanze»96;• la prospettiva simbolico-interpretativa col-lega il tema del cambiamento allo sviluppo di una modalità di pensiero e di azione non li-neare. Il nuovo non è pianificabile: e dunque la possibilità di una diversa definizione del campo d’azione emerge spesso all’improvvi-so, in modo imprevisto e inaspettato. Perché ciò accada è necessario però sviluppare in tut-ta l’organizzazione un atteggiamento esplo-rativo. Ciò richiede «la presenza di risorse in eccesso»97, non direttamente collegate agli obiettivi di business dell’impresa: decisioni decentrate, attività di formazione, laboratori sperimentali, possibilità di coltivare l’ambi-guità, per fare emergere visioni alternative della realtà. Il guaio è che le logiche di just in time, connesse alla visione per processi e al modello dell’azienda snella, si propongono al contrario di eliminare proprio le ambiguità e le ridondanze, i margini di discrezionalità e di errore, le risorse in eccesso.

Anche per questi motivi, nei contesti orga-nizzativi sembra opportuno introdurre il rife-rimento alla dinamica del dono e alla bellezza seducente di quanto libera dall’unilateralità del pensiero sequenziale, implicando la pro-messa di felicità che è connessa a tutto ciò che è nuovo, curioso, incompiuto98. L’obiettivo è

95 C. Piccardo, Empowerment. Strategie di sviluppo orga-nizzativo centrate sulla persona, Milano, 1995, p. 38.

96 D.F. Romano, R.P. Felicioli, Comunicazione interna e processo organizzativo, Milano, 1992 p. 103.

97 F. Carmagnola, “L’estetica”, cit., p. 375.

98 Sul tema del dono cfr. J. T. Godbout, Il linguaggio del

evitare l’effetto “Truman show”: il rischio cioè che l’esperienza della corporate culture prevalga sull’esperienza di vita, finendo per apparire come un mondo chiuso e limitato, sordo e, in definitiva, poco credibile agli occhi di un inter-locutore sempre più maturo ed esigente.

Gabriele Qualizza

Docente a contratto Area Marketinge Comunicazione d’Impresa, Università di Trieste.

dono, trad. di A. Salsano, Torino, 1998; interessanti con-siderazioni sulla rilevanza del dono negli ambienti di lavoro si trovano anche in G. Bonazzi, Il tubo di cristallo, Bologna, 1993, p. 140.

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La comunicazione organizzativamotore di un cambiamentolungo due anni

Eugenio Ambrosi

Abstract

Nel biennio 2007/2008 l’ERDISU di Trieste è stato og-getto di un processo di cambiamento sviluppato su 4 principi-cardine: Condivisione di valori; Controllo dei comportamenti; Comunicazione organizzativa; Decen-tramento di competenze. Un processo che ha destato l’interesse del progetto “Premiare la qualità” del Diparti-mento Funzione Pubblica - Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ne ha estratto due best practices per l’elenco proposto in autunno all’opinione pubblica a conferma del fatto che nel pubblico impiego lavorano “Non Solo Fannulloni”; ha avuto inoltre una menzione d’onore alla Creative Graz 2008 ed ha conquistato un 2° premio nazionale al COMPA 2008.

Parole chiave:

Comunicazione istituzionale Comunicazione organizzativaPiano di comunicazioneBilancio socialeCarta dei serviziHouse organNewsletter

tegici dell’Ente attraverso incontri con la strut-tura dirigente (24), il personale (3), circolari, documenti; il Controllo è partito dall’indagi-ne sul benessere organizzativo, proseguito con l’analisi dei procedimenti e dei proces-si, il controllo dei carichi di lavoro e dell’ora-rio di lavoro, la partecipazione al progetto FP Cantieri – Circolo dell’ascolto, i consumi de-gli studenti ed una customer satisfaction; si è diffuso attraverso il Piano di Comunicazione organizzativa, anche partecipando al GdL Funzione Pubblica - Comunicazione interna, (dal sito web bilingue alla Newsletter online (12 numeri), dalla rubrica sul quotidiano locale (41) all’Houseorgan cartaceo (2), dalla Carta dei servizi al Bilancio sociale); il Decentramento si è sviluppato attraverso l’esternalizzazione di servizi in global service e la revisione delle posizioni organizzative e dei coordinamenti inserendo i preposti in ambiti locali di colla-borazione extraistituzionale.

Premessa

L’Erdisu di Trieste è l’ente regionale per il diritto allo studio universitario presso

l’Ateneo triestino: 67 dipendenti ed un bilan-cio di circa 33M€ nel 2008.

Nel biennio 2007/2008 abbiamo avviato un cambiamento incentrato su 4 principi-cardi-ne:

Condivisione di valori, obiettivi, innovazio-ni, buone prassi, conoscenze;

Controllo organico dei comportamenti e del-le attività del personale e degli studenti bene-ficiari;

Comunicazione organizzativa per coinvol-gere e convincere motivando i dipendenti e gli studenti;

Decentramento di competenze ed individua-zione di compiti sfidanti per i collaboratori.

Il processo si è sviluppato partendo dalla Condivisione dei valori e degli obiettivi stra-

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La comunicazione organizzativa motore di un cambiamento lungo due anni 108

che sono diventati in qualche modo il leit mo-tiv dell’azione di riorganizzazione dell’Ente, subito premiata con variazioni percentuali po-sitive di alcuni indici rilevati:

chiarezza obiettivi + 0,30•circolazione informazioni + 0,23•aumento della conoscenza del piano stra-•tegico + 0,25aumento della facilità di comunicazione •con i propri dirigenti + 0,35.

Attraverso la proposta di un Piano di Comunicazione organizzativa si è cercato da subito da un verso di migliorare la proiezione esterna dell’immagine dell’Ente sia, dall’altro ed ancora prima, di contribuire alla ridefinizio-ne dell’identità aziendale ed alla sua totale con-divisione da parte dei dipendenti. Il re-styling del sito web, il lancio del quindicinale on line ErdisuNews, la preparazione di alcune brochu-re informative, la ridefinizione delle attività di sportello (il cosiddetto front line), la semplifi-cazione di linguaggio e procedure sono state solo le prime iniziative volte proprio a creare le premesse per una migliore circolazione del-le informazioni anche all’interno dell’Ente e tra i suoi dipendenti;

1.1 Le premesse ad una nuova politica di comunicazione dell’Ente

Si è dunque avviato subito a marzo la pre-disposizione del primo Piano di comunica-zione dell’Ente che in breve ha assunto la connotazione, definitiva, di Piano di comu-nicazione organizzativa – PdCo.

E poiché è ormai universalmente accettato che una buona comunicazione presuppone una grande ed attenta capacità di ascolto, si è ottenuto, per lo specifico dell’Erdisu Trieste, di affiancare alla predisposizione del PdCo due ulteriori strumenti innovativi per l’Am-ministrazione regionale, nella prospettiva condivisa dalla competente Direzione centra-le della Organizzazione, Personale Sistemi informativi – DCOPSI, di sperimentazione per conto dell’intera Amministrazione di so-luzioni innovative per affrontare problemi consolidati: una analisi dei procedimenti e dei processi amministrativi e la partecipa-

Quasi a dire: “CoCoCoDe: ecce ovo”.Il fattore catalizzatore di tutto il processo di

cambiamento è stato individuato nel Piano di comunicazione organizzativa, strettamente connesso alla funzione di management di-rezionale, che ha permesso di sviluppare ap-pieno quale elemento trainante innanzitutto la condivisione di valori ed obiettivi: chi non ha inteso farli propri ha potuto trasferirsi ad altre sedi dell’Ente Regione; chi, rimanendo, non ha accettato di fare squadra (l’organico è sceso dello 7,5%, lo straordinario dell’89,61%, le ore di assenza del 18,00%), è stato invitato ad adeguarsi e perseguito nei modi consentiti (in un caso, dopo 7 procedimenti disciplinare si è giunti al licenziamento).

Tutto ciò è stato reso possibile anche dal fat-to che per la prima volta alla guida di un ente regionale è stato chiamato un dirigente che, oltre ad avere esperienza e titoli (tra l’altro, un master biennale alla SDA Bocconi), da anni in-segna Comunicazione istituzionale come do-cente a contratto all’Ateneo triestino.

1 L’analisi del Benessere organizzativo alla base della nuova proposta gestionale

L’analisi del benessere organizzativo, propo-sta dall’Amministrazione regionale come uno strumento di ascolto periodico per confron-tarsi con i propri dipendenti, coglierne sen-sazioni, aspettative, osservazioni, proposte e, quindi, identificare le possibili aree di miglio-ramento è stata utilizzata, nel caso dell’ERDI-SU TS, per delineare le azioni da compiere per aumentare il livello complessivo di benessere. Ciò nella convinzione che sia l’individuo che l’organizzazione concorrono insieme al rag-giungimento di una migliore qualità della re-lazione esistente tra le persone e il contesto di lavoro.

La rilevazione 2006 come pure quella del gennaio 2007 hanno individuato alcune aree che necessitavano un concreto miglioramento, nel più ampio contesto dell’Amministrazione regionale come pure dell’Erdisu; tra queste di particolare valore, ai fini del presente lavoro:

la chiarezza degli obiettivi e la circola-zione delle informazioni

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La comunicazione organizzativa motore di un cambiamento lungo due anni 109

Allocare gli FTE sui singoli servizi/processi4. Individuare eccellenze e criticità dei servi-5. zi/processiDefinire indicatori e parametri di misura-6. zione per il monitoraggio dei processi.

Ne sono emerse alcune linee di riflessione sulla dimensione di tali processi, il cui peso sicuramente è apparso talora eccessivo e so-vradimensionato rispetto ad una loro gestione ottimale:

17 processi su 49 (pari al 34%) assorbono •l’80% delle risorse uomo dell’Ente, 9 di questi (18%) assorbono complessivamen-te il 60% e solo 4 processi (8%) assorbono il 40% delle risorse;i primi 6 processi (pari al 12%) comples-•sivamente assorbono circa il 50% delle ore erogate. Di essi 2 sono ad erogazio-ne diretta (Portierato e Guardaroba per complessivi 26%) e 4 sono di supporto (manutenzioni degli immobili 7,4%, pro-tocollazione e spedizione 4,7%, supporto agli organi collegiali e istituzionali 4,5%, acquisti e forniture di servizi 4,7% per complessivi 21,3%);il processo con maggiore assorbimento •di ore (pari a 22,2%) è costituito dal por-tierato.

La ricerca ha permesso di trarre anche alcuni elementi di riflessione di carattere generale in materia di

Struttura organizzativa1. Personale e procedure organizzative2. Sistemi informatici3. Comunicazione4.

Per quanto concerne, in particolare, quest’ul-timo punto, preso atto delle azioni di migliora-mento avviate nel corso del 2007, tese ad una più rapida ed efficace comunicazione con l’am-biente esterno (enti, istituzioni e studenti), al fine di strutturare una serie di interventi orga-nizzativi volti al potenziamento della comuni-cazione dell’Ente e della concentrazione degli sforzi in merito, gli analisti hanno ritenuto opportuno proporre di impostare una serie di interventi:

a. Opportunità di definire uno specifico assetto funzionale per la gestio-

zione al Circolo dell’Ascolto.Contemporaneamente, ci si è posti il pro-

blema di farsi ascoltare all’esterno, atteso che l’immagine di cui godeva l’Ente all’interno dell’Amministrazione regionale come pure tra studenti e docenti era quella di una tipica pubblica amministrazione inefficiente, inca-pace di reggere alle sfide del cambiamento or-ganizzativo ed istituzionale che la casa-madre Regione andava invece promuovendo e soste-nendo a 360°. Da qui l’idea, subito concretizza-ta, di creare un primo canale di dialogo con la comunità territoriale di riferimento attraverso il principale organo di informazione disponi-bile, il quotidiano Il Piccolo di Trieste, che già ospitava l’inserto settimanale Università cura-to dall’Ufficio stampa dell’Ateneo.

1.1.1 L’analisi dei processi e procedimenti organizzativi

Il primo strumento è stato reso possibile dal-la messa a disposizione a marzo, da parte della DCOPSI, di una società esterna di consulenza alla quale è stato dato l’incarico di realizzare uno studio sui processi e procedimenti ed in particolare di ovviare agli squilibri gestionali riscontrati nei servizi di portierato e guardaro-ba, di protocollo-archivio-segreteria, nell’uti-lizzo delle tecnologie per migliorare i flussi informatici ed informativi.

I risultati finali sono stati consegnati a di-cembre ed a gennaio sono stati oggetti di discussione ed analisi con i referenti di pro-getto, gli analisti Quasar ed i responsabili DCOPSI, e, quindi, dell’ERDISU TS, Consiglio di Amministrazione e nucleo dirigente azien-dale.

Con l’intervento si intendeva contribuire ad una maggior attitudine alla gestione per pro-cessi, alla definizione di obiettivi ed alla misu-razione dei risultati di processo.

Tra gli obiettivi e risultati dell’intervento c’erano:

Definire i Full Time Equivalent (FTE*) per 1. singola struttura stabileDefinire servizi e processi da mappare2. Associare servizi/processi e strutture 3. stabili

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condo le fasi del ciclo di Deming (PDCA):Pianificazione e Programmazione strate-•gica della comunicazione istituzionale;Deployment sulla struttura in termini di •risultati obiettivo;Controllo dei risultati obiettivo (tramite •gli indicatori);ri-programmazione delle Attività.•

I risultati e le proposte sono stati poi utiliz-zati per predisporre una proposta di revisione della struttura organizzativa dell’Ente e per la definizione del bando per l’appalto, innovativo per l’Ente, a global service di 10 servizi econo-mali sino ad allora gestiti individualmente.

1.1.2 Il Circolo dell’ascolto organizzativo

Nell’aprile 2007 l’ERDISU è stato proposto per partecipare, insieme ad un centinaio di enti pubblici italiani, al “Circolo dell’ascolto organizzativo”, un innovativo progetto atti-vato nell’ambito della sperimentazione del Programma Cantieri del Dipartimento della Funzione pubblica.

Il Progetto era volto a creare negli ambienti di lavoro pubblici un luogo e un metodo di in-contro in cui persone provenienti da ambiti e funzioni diverse abbiano l’occasione di condi-videre esperienze, analisi, ipotesi di migliora-mento e progetti di sviluppo. Scopo precipuo del circolo dell’ascolto è stato quello di genera-re un aumento nel livello di partecipazione di tutta l’organizzazione verso una nuova visione relazionale del lavoro.

Due “facilitatori” della DCOPSI, responsabili dell’attività, hanno collaborato con un grup-po di 13 dipendenti del Servizio interventi e opportunità allo studio universitario, vero e proprio focus group di analisi e valutazione, attraverso un ciclo di dieci incontri, iniziati già a maggio, con diverse tematiche operative: dal circolo di ascolto organizzativo alla valo-rizzazione del lavoro e delle persone, dalle di-namiche dell’ascolto alla mappa di valori e dei comportamenti per lo sviluppo, dai progetti di sviluppo e valutazione alle competenze per l’ascolto organizzativo.

Le sessioni di lavoro, concluse a dicembre,

ne dei processi in materia comunicativa attraverso:

Costituzione di una funzione di •supporto alla direzione per la pro-grammazione, implementazione e controllo delle attività comunicati-ve dell’Ente. All’interno di tale fun-zione è stata indicata l’opportunità della partecipazione costante delle funzioni apicali della struttura;Definizione di obiettivi strategici •da assegnare e strumenti di control-lo dei risultati attraverso indicatori opportunamente scelti e calati non solo per il processo di comunicazio-ne ma anche nei vari processi che utilizzano la comunicazione e l’in-formazione;Potenziamento dei processi di co-•municazione in capo agli studenti attraverso una più strutturata at-tività informativa, veicolata da un ufficio di front office che possa da un lato fungere da erogante infor-mazioni e dall’altro come primo elemento di risposta alle problema-tiche che si possano presentare. Si è fatto riferimento ad una sorta di URP all’interno del quale possano essere inserite delle persone con competenze adeguate al fine di au-mentare l’efficacia del servizio.Potenziamento degli strumenti di •comunicazione integrata (sito WEB in primis) al fine di automatizzare l’erogazione della comunicazione (e quindi eventualmente scaricare l’at-tività di sportello) e la presentazio-ne delle domande. Si è specificato che uno strumento del genere deve essere posto sotto la responsabilità di un unico referente che funga da interfaccia con l’ambiente esterno e gestisca le problematiche di aggior-namento dei contenuti comunica-tivi e tecnici (anche in merito alle problematiche normative).

b. La dinamica e l’approccio co-municativo potrebbero svilupparsi se-

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La comunicazione organizzativa motore di un cambiamento lungo due anni 111

aiutare il collaboratore a migliorare i propri “ comportamenti organizzativi”,

della conoscenza dei corsi specialistici c) utili al miglioramento della qualità del lavoro del collaboratore o a farlo crescere professio-nalmente, anche per quanto riguarda il rag-giungimento dei suoi obiettivi individuali,

della conoscenza dei corsi dell’area infor-d) matica;

della pertinenza del corso con le attività e) del collaboratore,

della personalizzazione del piano forma-f) tivo in base alla condivisione dell’offerta for-mativa con il collaboratore.

Oltre due terzi del personale ha concordato di inserire nel Piano di formazione almeno un corso, di livello più o meno avanzato, in tecni-che di comunicazione.

1.3 La pagina Università de Il Piccolo di Trieste

Con una veloce variazione di bilancio il Consiglio di Amministrazione ha autorizza-to l’individuazione del budget necessario per entrare nella Redazione, curata dall’Ufficio stampa dell’Ateneo, della pagina settimanale Università ospitata dal quotidiano locale.

La pagina, essendo curata all’esterno della redazione del quotidiano, garantiva la possi-bilità di pubblicare integralmente, e quindi senza intermediazioni giornalistiche, i pezzi che di volta in volta venivano concordati con il referente giornalistico dell’ateneo: è stato così possibile articolare nel tempo la presen-tazione di tutti gli eventi, grandi e piccoli, presenti e futuri, che interessavano l’ente ed il suo interagire con gli studenti, l’università, le istituzioni, il territorio. Talora introducendo temi che erano ancora in via di impostazione e discussione all’interno dell’ente e che, proprio attraverso quello spazio mediatico, attivavano meccanismi di confronto che permettevano di recepire sensazioni ed umori, condivisioni e ripulse delle idee che all’interno dell’ERDISU andavano maturando.

E’ attraverso quella pagina che si è comu-nicato alla città che l’Ente stava cambiando; è attraverso quei contributi proposti in chiave

hanno permesso di individuare ed analizzare le criticità che possono impedire la realizza-zione di prospettive future, prima lavorando a livello generale, poi andandole a mappare in base alle aree di afferenza (area dell’orga-nizzazione, della dirigenza e della persona). Attraverso tecniche del problem solving è sta-to predisposto il piano per aumentare la con-divisione tra il personale delle procedure or-dinarie di raccolta delle domande per i diversi bandi: l’attività è stata suddivisa per priorità, per azioni e sottoazioni, individuando il pro-dotto atteso, le risorse impegnate ed i tempi di realizzazione.

Conclusa la prima parte della sperimentazio-ne si è passati ad analizzare come l’atteggia-mento personale possa concretamente trasfor-marsi in un metodo per elaborare soluzioni di miglioramento, coniugando la centralità della persona e l’efficacia organizzativa.

E’ stato analizzato un set di 15 competenze centrali per lo sviluppo delle risorse umane all’interno dei contesti organizzativi, ad ognu-na delle quali corrispondono specifici compor-tamenti che costituiscono gli indicatori per considerare il livello di possesso della stessa. Cinque di queste sono state identificate come strategiche per l’Ente, in ordine di importan-za: Organizzazione dei processi di lavoro, Comunicazione efficace, Gestione delle risor-se umane, Problem solving, Decision making. In tale ambito sono state anche ipotizzate le possibili azioni concrete per lo sviluppo di tali competenze, non ultima la possibilità di legare gli obiettivi individuali dei funzionari e quelli collettivi degli uffici alle proposte avanzate dal Circolo dell’ascolto a metà febbraio.

1.2 Il Piano di Formazione 2008/2009

In maniera innovativa anche per l’Ente Regione, a fine primavera 2008 con un de-creto organico è stato approvato il Piano di Formazione 2008/9, redatto sulla base di quan-to emerso dall’analisi Quasar e dai focus group del Circolo dell’Ascolto e tenendo conto:

dell’utilità del corso considerato rispetto a) al collaboratore,

della conoscenza dei corsi che possono b)

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trale dell’attività dell’Ente. La comunicazione, mettendo ordine nei processi e nelle attività, può così far fare il salto di qualità all’ammini-strazione che vuole fare luce su se stessa.

Il PdCo è lo strumento principe e come tale è stato pensato anche per l’Erdisu TS.

Formalmente, l’ERDISU di Trieste, indivi-duando per la prima volta nella primavera 2007 un PdCo, ha inteso programmare le attività di informazione e comunicazione istituzionale rivolte agli studenti, ai dipendenti, ai cittadi-ni e ai soggetti pubblici e privati al fine di pro-muovere e garantire la trasparenza dell’azione amministrativa, attivare forme d’ascolto per-manenti finalizzate all’individuazione dei bi-sogni e al miglioramento della qualità dei ser-vizi e delle prestazioni, promuovere le attività di comunicazione interna quale strumento di sviluppo organizzativo, garantire il diritto all’informazione anche attraverso la semplifi-cazione di atti, linguaggio e procedure.

L’attività di comunicazione e informazione è stata così considerata propria dell’Ente nel suo complesso e quindi tutti i servizi svolti sono stati chiamati ad agire di concerto e ad essere partecipi dei processi di informazione e comu-nicazione verso il cittadino, in osservanza del principio generale di omogeneità ed unitarietà della comunicazione integrata e multicanale.

Le attività di informazione e comunicazione del PdCo comprendevano, ed hanno compreso anche nel successivo 2008:

l’informazione attuata mediante l’uso dei •media;la comunicazione esterna rivolta a studen-•ti, cittadini, Enti e soggetti pubblici e pri-vati;la comunicazione interna realizzata •nell’ambito dell’Ente;la comunicazione agli interessati in rete •con altri Enti che gestiscono servizi pub-blici.

Le attività di informazione e di comunicazio-ne, in particolare, sono state finalizzate a:

illustrare e favorire la conoscenza delle de-•cisioni dell’Ente;illustrare e promuovere le attività dell’En-•te, il suo funzionamento, le sue finalità e strutture, nonché il quadro di riferimento

giornalistica che si è affermata una nuova im-magine dell’Ente; è attraverso quell’essere in cronaca locale finalmente per le buone notizie che ci riguardavano che è stato possibile rifini-re l’identità dell’Ente.

Nel tempo, la credibilità del comunicare si è trasferita alla credibilità del comunicatore che, avendo nella pagina Università una indispen-sabile cassa di risonanza, si è visto riconoscere una nuova reputazione, fondata sulle informa-zioni che si davano, sulle conferme gestionali che seguivano agli annunci, sul riconoscimen-to pubblico che ci veniva da chi entrava in con-tatto con l’Ente.

Come suggeriva Aristotele, la probabilità di essere creduti era cresciuta e noi eravamo cre-dibili.

2 Il Piano di Comunicazione organizzati-va per coinvolgere e convincere motivan-do i dipendenti e gli studenti

Grazie a questa cornice organizzativa il PdCo, la cui realizzazione è stata avviata come detto a marzo 2007, è stato in grado di svilupparsi come il motore trainante del processo di rior-ganizzazione dell’Ente.

E’ ormai assodato che la comunicazione di un Ente pubblico costringe a due operazioni separate ma, allo stesso tempo, legate da tratti comuni, al punto che riesce difficile indicare quale venga prima e quale dopo:

a. strutturarsi, organizzarsi, darsi una forma: per una efficace comunicazione bisogna che tutte le attività siano strutturate ed organizzate, il che vuol dire poter assegnare a ciascun compito un riferimento (e vicever-sa), avere chiaro l’obiettivo, poter contare su certezze di budget, di strategia, di risorse uma-ne (con diversi orientamenti professionali) e strumentali, di poter pianificare per tempo le attività e di poter definire un coordinamento certo;

b. pensare alla propria identita’, a cosa si fa, a come lo si fa, al perché, a chi deve fare cosa, a come fare meglio: capire chi si è e cosa si vuole fare è propedeutico per riuscire a fare della comunicazione una funzione cen-

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fine aprile 2008 il Tavolo di lavoro “Comunicare dentro l’amministrazione”.

Sono state invitate a parteciparvi 22 enti iden-tificati come “esperti” sulla base dell’attività di comunicazione istituzionale svolta negli ulti-mi tempi: tra gli altri l’Agenzia delle Entrate e l’INAIL, i Comuni di Roma e Prato, Udine e Trento, le Province di Rimini e Parma, le Regioni Campania e Veneto, il Consiglio regio-nale FVG, le ASL di Bologna ed Aosta, la CCIAA di Bergamo. E l’ERDISU di Trieste. Attraverso 3 incontri tra amministrazioni esperte e con il supporto di una figura esterna la cui com-petenza ha consentito di guidare il confronto e la riflessione sulle esperienze condotte, si è giunti alla produzione di documenti che sono stati condivisi e quindi messi a disposizione dell’intera comunità dei comunicatori pubbli-ci italiani.

Il tema della comunicazione interna costitu-isce tradizionalmente un vero elemento di de-bolezza delle organizzazioni pubbliche, poco abituate e scarsamente preparate a considerare la comunicazione interna come una variabile strategica della gestione dell’organizzazione. Per la comunicazione inoltre essa costituisce una vera e propria pre-condizione: senza una buona circolazione delle informazioni tra i diversi settori dell’organizzazione, si fatica a gestire i propri strumenti di comunicazione, a realizzare la propria attività, ad esercitare una regia coordinata dei messaggi veicolati ai di-versi pubblici di riferimento.

Concetti, questi, come precedentemente riportato, che erano puntualmente emersi in occasione delle rilevazioni del Benessere Organizzativo 2006 e 2007 anche per l’Erdisu TS.

Su questi concetti sono stati individuati al-cuni grandi temi di lavoro, discussione e con-fronto:

la dimensione della comunicazione inter-1. na intesa come “facilità di circolazione del-le informazioni fra i diversi attori di un’or-ganizzazione;la dimensione “strategica” della comunica-2. zione interna;gli strumenti utilizzati e le risorse possibi-3. li;

normativo in cui opera;favorire la conoscenza e l’accesso ai servizi •pubblici, alle informazioni e ai documenti, attraverso una pluralità di strumenti e mo-dalità operative;promuovere conoscenze allargate e appro-•fondite sui temi del DSUfavorire la semplificazione delle procedure •e la modernizzazione degli apparati, non-ché garantire la possibilità ai destinatari e agli interessati di accesso e partecipazione al procedimento;promuovere l’identità dell’Ente•garantire l’ascolto degli studenti per mi-•gliorare la qualità dei servizi;favorire la circolazione delle informazio-•ni su strategia, obiettivi e organizzazione dell’Ente tra dipendenti per accrescerne il senso di appartenenza

Le professionalità della comunicazione e dell’informazione istituzionale sono state organizzate in un coordinamento flessibile facente capo al Direttore dell’Ente. Il coordi-namento ha recepito le priorità e l’indirizzo dell’Ente, garantendo il raccordo operativo delle varie attività e strutture di comunicazio-ne ed elaborando il PdCo nell’ambito dell’at-tuazione dei programmi dell’Ente, secondo le direzioni strategiche delineate dal Consiglio di amministrazione. Ciò ha garantito la pro-grammazione unitaria e uniforme delle attivi-tà di comunicazione esterna ed interna.

Il coordinamento, l’organizzazione e la cir-colazione delle informazioni interne sono ri-sultate anche nel l’esperienza dell’Erdisu TS il presupposto essenziale dell’attività di comu-nicazione integrata dell’Ente e dell’efficacia operativa degli sportelli fisici e telematici che erogano servizi agli studenti e dei canali infor-mativi dell’Ente.

2.1 La Comunicazione interna

URP degli URP (dove URP sta per Ufficio Relazioni con il Pubblico), il progetto del Dipartimento della Funzione Pubblica curato dal FORMEZ a sostegno della comunicazione nelle Pubbliche Amministrazioni, ha avviato a

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notizie che riguardano l’Ente.A tal fine le due funzioni principali dell’hou-

se organ sono state individuate nel favorire la circolazione e quindi la condivisione delle in-formazioni tra i vari uffici, in senso verticale dall’alto al basso e viceversa ma anche orizzon-tale, tra strutture parallele che spesso dialoga-no poco tra di loro; e nello stimolare il coinvol-gimento e la partecipazione dei dipendenti, tenendoli aggiornati e contribuendo a costru-ire il senso di appartenenza all’Erdisu dei suoi funzionari.

2.3 Il sito web parla inglese

Grazie ad uno stage di laurea di una studen-tessa in Scienze della Comunicazione è stato possibile fare

Su www.erdisu.trieste.it le informazioni vengono autogestite dai nostri funzionari, ga-rantendo così una più immediata attenzione alle esigenze degli studenti anche attraverso l’uso di un linguaggio semplice e pulito, in grado di agevolare la lettura e la comprensione anche agli studenti stranieri, per i quali si sta pensando di realizzare anche qualche pagina in inglese. Una serie di facili link permettono di navigare con facilità nel mondo Erdisu: così la bacheca alloggi on-line, i bandi, la mobilità internazionale MOVE, la card Trieste universi-taria, la sicurezza e prevenzione negli ambien-ti Erdisu, l’organizzazione degli uffici e dei singoli referenti per le pratiche, lo Sportello disabili in collegamento con l’Università così come la Rassegna stampa.

Nell’inverno 2007 è stata realizzata, con una tesi di laurea in Scienza della comunicazione, l’analisi dell’utilizzo del web da parte degli Erdisu italiani e, all’interno di questa, è stato sviluppato un ampio benchmarking tra il no-stro sito e gli altri esistenti, individuandone pregi e difetti e delineando una possibile stra-tegia di re-styling del sito medesimo.

Sulla base di tale analisi è stato messo on line, in collaborazione con il Dipartimento di matematica e informatica, dal 25 giugno 2007 il rinnovato sito dell’Ente, che facilita gli stu-denti nel conoscere tutte le strutture e le attivi-tà utili per la loro vita studentesca, nel trovare

la partecipazione del personale;4. a chi si rivolge la comunicazione interna;5. la comunicazione interna, punto critico 6. nelle organizzazioni;il piano di comunicazione interna;7. il disegno organizzativo e le competenze8. ; l’adozione di linee guida comuni. 9.

I tre mesi di lavoro hanno permesso di con-frontare quanto in corso d’opera a Trieste con le esperienze degli altri partecipanti, alcune delle quali di assoluto rilievo come quelle dell’Agen-zia delle Entrate e del Comune di Roma.

Anche grazie a questo scambio professionale alla fine del progetto l’Ente è giunto alla pub-blicazione dell’house organ CasaErdisu,

2.2 Un house organ per la casaerdisu

A giugno è stato in effetti diffuso, esclusi-vamente tra i dipendenti dell’Erdisu, il pri-mo numero dell’house organ casaerdisu, una pubblicazione ad uso interno realizzata per aggiornare il personale dell’Ente sulle attività e gli obiettivi a medio termine da raggiungere. La diffusione in tutti gli uffici avviene in via cartacea, come strumento di lavoro da tenere a portata di mano.

L’house organ, distribuito a fine mese come compendio informativo dell’attività svolta, è stato progettato per contenere spunti e infor-mazioni sulla vita dell’Ente: dall’organizzazio-ne, attraverso le sue attività, alle principali no-vità che riguardano le attività stesse per l’im-mediato futuro, dalla gestione del personale alle notizie utili, dalle novità contrattuali fino ai concorsi interni.

La pubblicazione si configura come uno stru-mento formato A3, su cartoncino bianco, im-possibile da “insabbiare” accidentalmente tra le altre carte della scrivania, e porta sul retro una serie di informazioni utili al lavoro quo-tidiano: l’organigramma dell’Ente; i principali referenti di lavoro dell’ateneo triestino, l’elen-co degli erdisu italiani , tutti con indirizzo mail e, dove possibile, numero di telefono.

Obiettivo dell’house organ: realizzare un giusto equilibrio tra aggiornamenti infor-mativi e commenti/dibattiti, a partire dalle

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accesso corrispondono ai periodi di apertura dei bandi per i benefici economici ed alla pub-blicazione delle relative graduatorie.

Tendenza delle visite

Riepilogo delle visite

Visitatori 109.860

Visite 174.133

Visitatori che hanno visitato una volta

94.865

Media per giorno 477

Visitatori con più di una visita 14.995

Durata media delle visite 00:08:59

Media delle visite per visitatore 1,59

Visite internazionali 28,32%

Tendenza delle visualizzazioni di pagina

Tendenza della durata media delle visite

tutte le informazioni utili su agevolazioni e bandi come pure nel reperire le ultime notizie sull’attività dell’ERDISU TS.

Il sito è stato poi configurato, nelle parti fondamentali, anche nella versione inglese, questa volta in collaborazione con la Scuola Superiore di Lingue moderne, Interpretariato e Traduzione - SSLMIT, nell’ambito del Protocollo d’intesa 2007.

In questo modo si è connotato in una dimen-sione ancor più internazionale il servizio reso dall’Ente, tenuto conto che sono centinaia e centinaia gli studenti stranieri che ogni anno fanno domanda per gli assegni, le borse di stu-dio e in generale i servizi erogati dall’Erdisu e che spesso necessitano delle opportune infor-mazioni in una lingua veicolare, nella fattispe-cie l’inglese.

Senza ripercorrere tutte le innovazioni intro-dotte, a partire dall’impianto grafico ai nuovi servizi interattivi e transattivi introdotti (que-sti ultimi per la presentazione delle domande di accesso ai bandi), piace ricordare che è stata avviata una rubrica dedicata alle domande ri-correnti poste dagli studenti, dando risposta direttamente sul sito web dell’Erdisu (http://www.erdisu.trieste.it) attraverso l’apposita se-zione delle FAQ (Frequently asked questions) introdotta nella home page.

Un modo per semplificare la vita agli studen-ti universitari, evitando loro di dover spendere soldi al telefono per avere risposte su quesiti abbastanza frequenti. Ma anche un modo per snellire l’attività dell’Ente ed evitare disservi-zi: una recentissima analisi sull’universo delle domande di contributo ha fatto emergere che una domanda su tre contiene errori e compor-ta un supplemento di istruttoria con perdita di tempo sia per gli studenti che per i dipendenti dell’Ente con l’immediata conseguenza di un concreto aumento del costo amministrativo di ogni singola pratica.

L’intervento sul sito è stato importante, in chiave organizzativa, anche perché, in collabo-razione con il Servizio Informativo Regionale - SIR, c’era la possibilità di monitorare gior-nalmente gli accessi al sito web e, quindi, di verificare le modalità di utilizzo del sito dell’Er-disu da parte dell’utenza. Non a caso i picchi di

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di informazione e comunicazione dell’Ente, puntualmente distribuita all’inizio del mese per diffondere tra studenti e stakeholder no-vità e contenuti dell’attività istituzionale dell’Ente. Nel panorama del DSU italiano non ha paragoni, essendo solo l’Ente di Firenze at-tualmente presente nel panorama editoriale del settore con un prodotto diffuso tre/quattro volte l’anno in formato monopagina.

Si presenta con un formato grafico moderno, pulito, un po’ fumettistico che strizza l’occhio alla nostra utenza studentesca e viene diffuso via mail ad un indirizzario di circa 3.000 stake-holder ed utenti, in via di progressivo aumen-to, ed è disponibile, anche con gli arretrati, sul sito istituzionale. E’ interamente realizzato in proprio, con risorse professionali dell’Ente, a costo sostanzialmente nullo, quantomeno a bilancio, atteso che dal direttore al caporedat-tore, dal grafico all’esperto web sono tutti di-pendenti regionali in forza all’Ente.

Ha partecipato al concorso Comunicare on line promosso da COM.PA. 2008, ove è stato classificato 2° su 93 partecipanti.

2.5 Seminari e Convegni

In questo biennio si sono tenute nella Sala convegni 5 iniziative pubbliche promosse dall’Ente:

- un convegno incentrato sulle opportunità di ripristino ambientale attraverso metodi biologici;

- un convegno sul tema dei giovani e della società del benessere

ambedue in collaborazione con il Lions Host Trieste;

- un seminario sul diritto allo studio univer-sitario con gli assessori competenti di Regione, Provincia e Comune e le rappresentanze stu-dentesche;

- una Serata Africa, in collaborazione con le organizzazioni degli studenti africani

- una giornata di studi sulla sicurezza ac-cessibile in collaborazione con l’Ateneo ed il Comando provinciale Vigili del Fuoco

A settembre 2007 l’Ente è stato invitato a portare a Klagenfurt la propria esperienza al seminario europeo “Knowledge Region -

Riepilogo delle visualizzazioni di pagina

Visualizzazioni di pagina 1.140.265

Media del giorno 3.124

Media delle visualizzazioni di pagina per visita

6,55

2.3.1 Il progetto Sportello Abitativo

Attraverso il sito è stato dato vita ad uno Sportello abitativo informativo, da tempo meta ambita dell’Ente, con l’obiettivo principale di facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta di alloggi per studenti tramite anche l’utilizzo di una nuova bacheca on-line che permette di verificare in tempo reale le stanze libere (in appartamenti condivisi) offerte a studenti in città, fornendo, in un unico elenco, gli annun-ci provenienti da fonti tradizionali (bacheche, supermercati...) e gli annunci inseriti on line.

Il servizio è stato reso possibile con una con-venzione non onerosa stipulata con la società di Trento che svolge analogo servizio per l’Ope-ra universitaria di quella città, è stato imposta-to per essere attivo 24 ore su 24 e consultabile da qualunque computer collegato ad internet per verificare costantemente le disponibilità di alloggio. I vantaggi per gli utenti sono evi-denti: confrontare facilmente tutte le offerte e mettere bene in evidenza il prezzo, distingue-re l’offerta privata da quella di agenzia, avere a disposizione una banca dati aggiornata, offrire la possibilità di rivolgersi ad uno sportello mu-nito di personale con competenze linguistiche, formato per svolgere un servizio di assistenza e consulenza per la corretta stipula e registra-zione dei contratti ma anche per fornire tutte le informazioni relative agli sgravi fiscali pre-visti per proprietari ed inquilini (ICI ed Irpef). E magari contribuire così facendo ad una ri-duzione dei costi di mediazione delle agenzie immobiliari.

2.4 ErdisuNews

La newsletter, nata nel giugno 2007, si confi-gura ormai come un punto fermo nell’attività

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larghezza, entra facilmente in un taschino del-la camicia o dei pantaloni ed è caratterizzata da un aspetto decisamente moderno e giovanile, in coordinato d’immagine con la Newsletter, la Tessera Mensa, i manifesti promozionali dell’Università 2008/2009.

La Carta dei Servizi non dà prestazioni dirette ma si configura come un vero e proprio patto tra l’Erdisu e gli studenti. Un patto per offrire loro i servizi legati al diritto allo studio (posti letto nelle Case dello Studente, contributi al-loggio, pasti a prezzo ridotto, borse di studio e sussidi di varia natura) con un standard di qualità garantito.

I principi cardine della Carta sono qualità, partecipazione e miglioramento continuo, nell’ottica di garantire un costante quanto ele-vato livello di offerta di servizi.

La Carta dei Servizi si caratterizza per l’obiet-tivo di prospettare un patto con gli studenti per una continua verifica degli standard qualitati-vi dei singoli servizi e rientra nell’ambito del Piano di Comunicazione organizzativa dell’En-te, ruotando attorno all’articolazione puntuale delle modalità di erogazione dei servizi: dalle borse di studio alle mense, dai posti alloggio ai premi per le tesi migliori, dalla mobilità in-ternazionale ai servizi di ambito culturale. Ed anno dopo anno attraverso appositi indicatori verrà monitorata la congruenza degli standard qualitativi offerti e, se necessario, ne verrà pro-posta la modifica.

La Carta dei Servizi diviene così un riferimen-to puntuale, sia come canale di informazione istituzionale verso gli utenti e la comunità di riferimento sia come strumento di promozio-ne e marketing.

2.7 La rete wireless

Grazie ad un contributo della Regione è sta-ta avviata la definizione di un progetto di rete wireless a servizio dell’utenza studentesca che vive e studia nelle Case dello Studente, a Trieste come a Gorizia.

Si trattava di recepire l’esigenza, ormai espressa da parecchi anni, degli studenti ospi-ti nelle residenze gestite dall’Ente e degli stu-denti che, pur non risiedendo nelle strutture,

The Alps-AdriaticChallenges”.Inoltre, nel maggio 2008 alla Stazione

Marittima di Trieste l’ERDISU è stato tra i promotori del seminario “Cross-border coo-peration of universities and research centres. Contribution to regional development”, orga-nizzato dalla Comunità di lavoro delle Regioni europee di confine (Association of European Border Regions – AEBR) in collaborazione con la Regione Friuli Venezia Giulia. Tema centrale è stato quello della cooperazione tra le univer-sità e i centri di ricerca delle regioni di confine come motore di sviluppo economico e sociale con un occhio attento alle proposte del DSU.

L’ERDISU ha partecipato al “I° Forum euro-peo sul diritto allo studio e la formazione uni-versitaria” tenutosi a Perugia dal 5 al 7 giugno ed organizzato dall’Associazione nazionale de-gli organismi per il diritto allo studio univer-sitario (Andisu) con il patrocinio dell’Unione Europea, il contributo del Ministero dell’Uni-versità e della Ricerca e la stretta collaborazio-ne dell’Adisu di Perugia. Nell’occasione ha pro-posto anche uno stand informativo in comune con l’Ateneo triestino.

A metà ottobre l’ERDISU è stata invitata a presentare al Creative Graz Award 2008 la pro-pria esperienza di Piano di comunicazione or-ganizzativa: scopo è quello di proporre ai par-tecipanti il ritmo delle varie fasi che, nell’ottica di una modernizzazione dell’ERDISU, hanno portato dal piano di comunicazione a newslet-ter, nuovo sito, sito in inglese, carta dei servi-zi, articoli sulla pagina settimanale Università del quotidiano locale Il Piccolo, collaborazione con Ufficio Stampa e URP dell’Università, Casa Erdisu, Bilancio sociale 2007 e, in un prossimo futuro, Web radio e wireless internet connec-tion.

2.6 La Carta dei Servizi

A settembre 2007 è stata approvata la Carte dei Servizi dell’Erdisu TS e subito messa on line sul sito web affinché tutti gli studenti ne potessero disporre per offrire suggerimenti e pareri, ed è stata poi distribuita a giugno in for-mato tascabile. La Carta dei Servizi, in formato pocket, misura 14,5 cm in altezza e 10 cm in

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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.1 (gennaio-giugno)

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pare un libro riepilogativo della esperienza di mobilità internazionale MOVE maturata dall’ERDISU.

La pubblicazione, corredata da una sezione documentaria e di testimonianze, ha tracciato un bilancio dei risultati così conseguiti dall’ini-zio delle attività del progetto nel 2000 fino a fine giugno 2007 ed ha offerto l’occasione per riflettere sul processo di realizzazione della società della conoscenza, sensibile all’innova-zione, alla ricerca scientifica, allo scambio di esperienze e best practices. E su quanto siano preziose le iniziative di orientamento, di for-mazione e di tirocini organizzati presso enti e imprese di altri paesi dell’Unione Europea, pro-poste ai giovani laureati, quale rafforzamento delle azioni per la mobilità internazionale, in cui sia possibile far colloquiare in maniera or-ganica e costruttiva tutti gli attori coinvolti, dalle Istituzioni (Università, Enti Pubblici) alle realtà produttive.

La pubblicazione ha permesso di portare a conoscenza della comunità regionale e nazio-nale un’esperienza, quella condotta a partire dal 2000 con il Progetto MOVE, particolar-mente significativa perché rappresenta una spinta importante per la realtà regionale, tra-dizionalmente di confine, verso l’innovazione e l’eccellenza in un più ampio movimento di conoscenza e di scambio in una dimensione europea.

2.9 Il Bilancio Sociale

Uno degli obiettivi prioritari dell’azione re-gionale è quello di un uso efficiente delle risor-se destinate ai servizi per il diritto allo studio universitario-DSU, che sono finalizzate ad un miglioramento delle prestazioni degli studen-ti ed al sostegno degli studenti capaci e merite-voli, anche se privi di mezzi (articolo 34 della Costituzione).

Nell’autunno 2007 è parso opportuno elabo-rare delle linee guida per un modello di analisi dell’efficacia della spesa con specifico riferi-mento alle attività del DSU.

Ciò al fine di poter comparare le prestazioni ed i costi sostenuti dall’Erdisu per le sue fina-lità istitutive, linee guida approvate con dal

fanno un uso quotidiano dei servizi messi a disposizione (mensa, biblioteca, spazi comu-ni, ecc.) di poter disporre di connettività senza fili. Questo servizio viene già loro offerto dalle strutture di Ateneo in quasi tutto il compren-sorio del campus universitario sotto forma di rete tradizionale, con aule informatizzate e chioschi, ma più capillarmente dalla rete wire-less di Ateneo.

La scelta di adottare capillarmente una solu-zione wireless ha due fondamentali vantaggi: il primo è costituito dalla scelta di confluire fisicamente nella rete dell’Ateneo. Considerata la diversa dislocazione degli edifici esistenti presso il campus della sede centrale dell’Uni-versità, ove esiste già, fin dal 1989, un colle-gamento fisico in fibra ottica con tale rete in-formatica, ciò renderà possibile un servizio di buona qualità a costi notevolmente inferiori rispetto ai cablaggi tradizionali. Tale scelta di-venta l’unica soluzione percorribile nell’ambi-to delle strutture abitative presenti nel centro cittadino, in particolare nel complesso “Urban”, ove la scelta wireless diveniva obbligata anche per il collegamento alla rete di Ateneo tramite un ponte wireless hyperlan, considerato che il più alto degli edifici presenti nel complesso “Urban” è in portata ottica con l’edificio cen-trale dell’Ateneo.

Il secondo fondamentale vantaggio è dato dall’efficiente servizio che la rete di Ateneo offre già attualmente all’utenza studentesca. In questo modo, infatti, verrà globalizzato il modo di approccio alla rete da parte dello stu-dente, che si troverà ad utilizzare, con le mede-sime credenziali, la stessa quantità e qualità di servizi (accesso ad Internet, ai servizi di por-tale, alle reti bibliotecarie, ecc.) di cui già oggi dispone nelle aree del campus direttamente servite dall’Ateneo. Inoltre, in questo modo, sarà unificato il controllo di sicurezza, con tut-ti i risvolti legati alla legislazione vigente, in particolare alle vigenti norme antiterrorismo.

2.8 La Relazione sull’attività MOVE 2000-2007

Nell’autunno 2007, grazie ad un contributo della Fondazione CRT, è stato possibile stam-

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di periodo, prudenza, comparabilità, compren-sibilità, chiarezza ed intelligibilità, periodicità e ricorrenza, omogeneità, utilità, significativi-tà e rilevanza, verificabilità dell’informazione, attendibilità e fedele rappresentazione, auto-nomia delle Parti terze.

Seguendo il percorso tracciato dalla program-mazione, l’ERDISU è così in grado di orientare la propria azione e di esplicare gli indirizzi che intende perseguire e le priorità di intervento, dando conto del proprio operato nelle diverse aree di intervento e dei risultati conseguiti in relazione agli obiettivi dichiarati, mettendo in evidenza le risorse utilizzate, le azioni poste in essere e i risultati gestionali conseguiti.

In questa prima esperienza l’ERDISU ha in-teso:

a) rielaborare i dati del triennio 2005 – 2007 per offrire una visione completa dei risultati raggiunti,

b) comunicare gli obiettivi fissati con la pro-grammazione dell’anno 2008.

Il Bilancio Sociale 2007 dell’ERDISU TS è sta-to distribuito a settembre 2008 in un elegante formato quadrotta, copertina bianca minima-lista con sovraimpressi titolo e logo.

2.10 Premi comunicazione

Al fine di valorizzare la propria attività di comunicazione istituzionale l’Ente ha parteci-pato ad alcuni concorsi volti ad identificare le best practices pubbliche, premiarle e promuo-verle come modelli da seguire

Così abbiamo partecipato fuori concor-so al Premio innovazione 2007, ideato dalla Regione, che mirava a stimolare da parte di aziende pubbliche e private la pratica della ri-cerca e dell’innovazione, proponendo il nostro Piano di Comunicazione organizzativa, carat-terizzato dallo sviluppo di diversi progetti tesi ad accrescere la trasparenza dell’azione ammi-nistrativa ed a migliorare il livello di comuni-cazione istituzionale.

Abbiamo analogamente partecipato fuori concorso con il nostro Piano di comunicazio-ne organizzativa al Premio Creative Region Graz 2008, che si è celebrato ad ottobre nel capoluogo stiriano; la giuria ha valutato posi-

Consiglio di Amministrazione a fine novem-bre.

Nel quadro degli indirizzi di modernizza-zione delle amministrazioni pubbliche, par-ticolare rilevanza assume ormai da anni l’ado-zione di iniziative e strumenti di trasparenza, relazione, comunicazione ed informazione volti a costruire un rapporto aperto e proficuo con cittadini ed utenti. Molte disposizioni, dalla legge 7.8.1990 n. 241 alla legge 7.6.2000 n. 150, si ispirano a questo concetto ed hanno introdotto a tal fine istituti giuridici, princi-pi operativi e strutture organizzative. Tra le iniziative che le amministrazioni, proprio in questa logica, hanno iniziato ad adottare e che si stanno sempre più diffondendo, quella dell’utilizzo di tecniche di rendicontazione so-ciale (accountability) ha particolare rilevanza e specifiche potenzialità.

Il Piano regionale degli interventi per il dirit-to e le opportunità allo studio universitario per l’anno 2007 -triennio 2006/2008- prevedeva che nell’ambito del nuovo sistema di rilevazio-ne dei costi, gli enti individuassero soluzioni organizzative finalizzate ad introdurre ade-guati sistemi di programmazione di bilancio e di controllo di gestione. Il tutto avrebbe dovuto avvenire anche in previsione dell’adozione del bilancio sociale, il quale, oltre ad essere uno strumento volto a delineare un quadro omo-geneo, puntuale, completo e trasparente della complessa interdipendenza tra fattori econo-mici e socio politici connaturati e conseguenti alle scelte fatte, si configura come un mezzo per migliorare l’organizzazione, la gestione e la comunicazione interna

Stante l’assenza di normative che statuisca-no principi formali di redazione per il bilan-cio sociale, eccezion fatta per la Direttiva della Presidenza del Dipartimento FP del Consiglio dei Ministri 17.2. 2006 “Rendicontazione so-ciale nelle Amministrazioni pubbliche”, il CdA dell’Ente ha ritenuto di adottare ed esplicitare, in sede di recepimento degli indirizzi regio-nali in materia, i principi ritenuti rispondenti alle esigenze dell’Ente che, in via sperimentale, sono stati così individuati:

responsabilità, identificazione, trasparenza, inclusione, coerenza, neutralità, competenza

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dichiara studente borsista e solo il 7% dimora al campus universitario, mentre il 21% ha do-micilio fuori città. Uno studente su 4 mangia a casa o in bar esterni all’università.

I tre motivi che stanno alla base del non uso delle mense sono principalmente i menù pro-posti, la lontananza e soprattutto la coda per accedervi. Anche se poi la coda nell’opinione rilevata è solo per il 25 % superiore ai 15 minu-ti. Metà degli studenti si presenta peraltro in mensa nell’ora centrale (12.30 – 13.15 e, gene-ralmente, si tratta di studenti che solo nell’8% dei casi hanno a disposizione più di un’ora per la pausa pranzo.

Un terzo degli studenti appartiene alla prima fascia tariffaria, alla quale il pasto intero costa 1,55 euro; un quinto alla seconda (3,10 euro), il 37% alla terza (4,00 euro). L’8 % della quarta fascia paga invece il prezzo pieno che da fine giugno, avendo l’Ente esaurito il rimborso alla ditta appaltatrice di alcuni lavori edilizi, po-trebbe diminuire di 0,42 centesimi.

Ed ancora numerosi outputs, che non è il caso di riportare in questa sede, come pure sono emerse alcune idee di migliorie da appor-tare al servizio: l’inserimento in mensa delle macchine per il caffè, di un apparecchio per la ricarica automatica delle tessere mensa, la pro-posizione di un calendario mensile dei menù (in sostituzione di quello settimanale già on line); proposte avanzate dagli studenti che, nel 73% dei casi, hanno affermato di non aver avu-to in precedenza alla customer satisfaction la possibilità di fare osservazioni o dare suggeri-menti.

Le risposte all’ultima condensano il senso del questionario e del servizio reso: l’84% degli studenti consiglierebbe ad un amico di man-giare nelle mense dell’ERDISU.

2.12 L’Ente e la comunicazione 2.0

Il web 2.0 è la nuova frontiera e non solo per l’ERDISU TS, che si voleva mettere dalla parte degli studenti, che voleva cercare di stabilire con loro una relazione bidirezionale, che era consapevole che nessuno meglio di loro può valutare servizi e progetti, segnalare criticità, manifestare esigenze, fare proposte. E’ questa

tivamente il progetto proposto dall’Erdisu TS, ritenendolo degno di menzione e di pubblica-zione sul sito del Premio (http://www.creati-ve.graz.at/cms/beitrag/10106341/2076717/)

Abbiamo partecipato al premio XIV COMPA 2007 ed in quella occasione siamo stati invita-ti a Bologna a presentare ad una tavola roton-da tematica la nostra esperienza in materia di Comunicazione organizzativa.

L’anno successivo siamo arrivati secondi su 93 partecipanti al Premio per la migliore Newsletter di un ente pubblico, la cerimonia di premiazione ha avuto luogo ad ottobre a Milano in una splendida cornice di folla.

2.11 Customer satisfaction e controllo della qualità dei servizi

Se nel 2007 era stata dedicata attenzione all’esigenza di ascoltare le voci interne all’Ente, nel 2008 è stata realizzata una analisi di custo-mer satisfaction per verificare il gradimento della ristorazione proposta dall’Ente.

Sono stati raccolti e decodificati 813 questio-nari dei 1000 somministrati a maggio agli stu-denti dell’Università di Trieste; i questionari sono stati predisposti, distribuiti e analizza-ti da un focus group di 11 studenti del Corso di Comunicazione degli enti territoriali di Scienze della Formazione, avvalendosi della collaborazione di un docente a contratto della Facoltà di economia.

I dati raccolti sono stati disaggregati e ri-composti, anche se purtroppo è venuta meno la prevista analisi di regressione che avrebbe dato più precise indicazioni su eventuali inter-venti migliorativi gestionali da proporre, quali menù, tariffe, servizi integrativi.

Ma le linee di tendenza sono emerse chiara-mente e la riproposizione periodica della rile-vazione potrà permettere di conoscere meglio i clienti/studenti, di individuare correttivi pri-ma e di riprogettare la proposta gestionale e verificarne l’attuazione poi.

Innanzitutto, si è avuta indicazione sull’uten-te tipo che frequenta le 2 mense in appalto: sono studenti con leggera prevalenza maschi (52%) della triennale e della specialistica, con una buona presenza di fuori corso; solo il 6% si

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topo.L’occasione è stata peraltro fonte di ripensa-

mento sui rischi che quotidianamente si cor-rono di finire non più solo o non tanto nelle pagine di cronaca della stampa locale ma, at-traverso i canali mediatici, in una dimensione nazionale se non internazionale. L’utilizzo da parte di giovani e studenti di videotelefoni-ni per riprendere ed al limite creare per poi diffondere sul web eventi più o meno scan-dalistici supera quelle che sono le ordinarie previsioni di censura e reclamo nei confronti dell’operato del singolo dipendente o dell’am-ministrazione pubblica di riferimento, come quasi quotidianamente ormai la stampa ripor-ta in chiave spesso scandalistica.

Da notare che tra i commenti apparsi su YouTube in merito al video-topolino ce n’era uno che richiamava proprio la necessità di fare rimbalzare la notizia sui quotidiani: la qual cosa apre una pagina molto complessa sul non facile incontro-confronto-scontro che un Ente pubblico deve agire nell’ambito della comuni-cazione 2.0, nei cui circuiti mediatici chiun-que può creare e mettere in condivisione con-tenuti potenzialmente destabilizzanti per una pubblica amministrazione ed i suoi ammini-stratori, dirigenti, funzionari.

2.12.2 … e Second Life

Nell’ambito della collaborazione con il Corso di laurea in Comunicazione una stagista ha sviluppato presso l’Erdisu TS la tesi “Second life: comunicazione pubblica nel mondo vir-tuale”: l’esperienza con YouTube non era an-cora archiviata che già cercavamo di anticipa-re i tempi dell’impatto con l’emergente social network, andando ad analizzare i risvolti delle applicazioni della realtà virtuale che possono essere sviluppati anche nell’ambito di una P. A.

Second Life è un mondo virtuale, creato da programmatori informatici e accessibile su Internet attraverso un personal computer, nel quale i residenti possono creare il mondo in cui amerebbero vivere ovvero una versione on-line del mondo che conosciamo e che cerca di replicare molti degli elementi fondamentali della vita reale. E’ per questo che le applicazio-

un’amministrazione che decide di improntare i suoi processi, anche quelli interni, sui prin-cipi della condivisione e della collaborazione, coinvolgendo tutte le risorse a disposizione per migliorare la gestione interna e l’efficien-za dei servizi offerti, sfruttando a tal fine le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dagli strumenti del web 2.0. A volte la scelta è obbligata, a volte è strategica, a volte un mix di situazioni.

D’altronde, il Web 2.0 è un fenomeno com-plesso, al crocevia fra la privatizzazione della sfera pubblica e la pubblicizzazione di quella privata, tipico della post-modernità delle so-cietà occidentali. Siamo partiti dal website, utilizziamo Google a piene mani, abbiamo ra-gionato con i nostri studenti di un possibile blog, siamo finiti nostro malgrado in YouTube ed abbiamo buttato l’occhio su Second Life, cer-cando in tempi e modi diversi di capire il ruo-lo dei nostri stakeholder ma anche dell’Ente su questo nuovo palcoscenico multimediale, tra vita privata-intima e sfera pubblica-politica, che sarebbe poi esploso con Facebook.

2.12.1 Tra YouTube …

Il 10 marzo 2008 un topo di campagna ha fatto capolino in messa centrale. Il 16 marzo il topo ha fatto capolino su YouTube, e con lui l’Erdisu TS.

La società gestore della mensa ce ne aveva dato comunicazione dopo 15 minuti dall’av-vistamento del topo, confermandoci subito dopo che erano state prese tutte le misure ne-cessarie per evitare il ripetersi di simili episo-di, tra le altre una completa derattizzazione ed una pulizia straordinaria di locali, utensili e at-trezzature, secondo le procedure dell’apposito Codice di Autocontrollo.

I funzionari dell’Ente hanno anticipato il pe-riodico sopraluogo sulle aree di competenza ed il consulente tecnologo alimentare ha ve-rificato le condizioni igieniche della mensa, peraltro già sottoposta al controllo dell’ASL. Si è presentata una comunicazione sul merito al CdA e, nell’elaborazione allora in corso della customer satisfaction sulla mensa, abbiamo chiesto esplicitamente agli studenti anche del

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compimento e che mira ad ampliare la coo-perazione transfrontaliera, l’ERDISU TS ha ottenuto un primo contributo da parte della Direzione centrale per le relazioni internazio-nali, comunitarie e autonomie locali per creare una vera e propria biblioteca dell’Euroregione.

La Biblioteca è stata così arricchita e munita di pubblicazioni, libri e riviste delle diverse re-gioni che fanno parte dell’Euroregione (Veneto, Carinzia, Slovenia, Contea litoraneo montana e Contea istriana in Croazia) e dell’Euroregione Adriatica (quindi, l’intero bacino, sino a Grecia e Puglia) nell’ottica di rafforzare la coesione territoriale e dovrebbe contemplare in futuro rassegne, testi e magazines a carattere territo-riale in altre lingue parlate dagli assegnatari di posto alloggio presenti alla casa dello studente come tedesco, sloveno, serbo, croato, albanese.

L’obiettivo, volto a rivitalizza una biblioteca sin qui inutilizzata se non inutile, è stato de-finito per mettere a disposizione libri, quoti-diani e riviste caratterizzati da contenuti di attuale e diretto interesse per gli studenti, as-segnando alla Biblioteca dell’Euroregione un ruolo di punto di riferimento, di aggregazione e di interscambio culturale. Un modo per avvi-cinare quanti studiano a Trieste, futura classe dirigente delle rispettive comunità, alla com-prensione della propria realtà di provenienza nel più ampio contesto euro regionale.

2.14 La web radio

Nell’ambito del PdCo si è fatta strada l’idea di ospitare al pianoterra della mensa centrale la nuova Web Radio, denominata “RadioInCorso” e promossa dagli studenti di Scienze della Formazione.

L’idea, buttata lì ancora nel 2007, aveva su-scitato l’interesse dell’Ente ed ancor più quello della Facoltà di Formazione, una delle Facoltà che hanno sottoscritto nel 2007 un Protocollo di collaborazione didattico-formativa con l’ER-DISU, ma poi si era incagliata. Chiariti alcuni aspetti organizzativi di fondo con la Facoltà e l’Ateneo, gli studenti hanno dapprima ottenu-to un contributo dalla Facoltà per sostenere le prime spese, hanno poi partecipato ad alcuni corsi di formazione organizzati da Radio 24, la

ni di Second Life ci sono sembrate allora assai interessanti. D’altronde, non siamo stati i pri-mi: sono molte le amministrazioni pubbliche che hanno cominciato a considerare Second Life come spazio nel quale sviluppare servizi per la collettività, istituendo strutture virtuali e rendendo possibili percorsi di e-government anche nello spazio virtuale della comunità.

In questa prospettiva Second Life si qualifica come ulteriore opportunità di avvicinamento tra l’utenza e l’amministrazione pubblica.

L’interesse dell’Erdisu TS per Second Life tro-vava dunque illustri precedenti in realtà qua-li la Provincia di Vicenza, la Regione Toscana o il Ministero degli Affari Esteri, che si sono cimentati in piattaforme virtuali per comuni-care e promuoversi o anche solo per fare speri-mentazioni prima del passaggio al reale.

Anche se dopo il boom mediatico dei primi mesi del 2007 l’interesse per Second Life era in parte calato, l’approccio dell’Ente era importan-te perché gli utenti del web 2.0, quello caratte-rizzato dalla capacità di costruire e proporre contenuti personali in un contesto di socia-lizzazione sempre più articolato, rimangono comunque sempre più numerosi e nella geo-grafia di quel mondo nascono nuove isole con una frequenza vertiginosa: aziende, politici, noti brand, divi dello spettacolo non resistono all’impulso di creare una filiale di se stessi in Second Life. L’enfasi posta sul fenomeno anco-ra non accenna a placarsi ed è difficile ad oggi predire il futuro di SL. Per quanto riguardava l’ERDISU TS, si era ipotizzata una sua presenta-zione virtuale, magari in unione con l’Univer-sità, per spiegare agli studenti di ogni dove i vantaggi di studiare a Trieste ed i servizi offerti per agevolarli nel loro percorso di studio; ma si era anche pensato di tenere lezioni virtuali di prevenzione e sicurezza antincendio in colla-borazione con il Comando dei Vigili del Fuoco, andando ad integrare le lezioni e le esercitazio-ni pratiche fatte a Trieste e Gorizia. Insomma, le prospettive di lavoro non mancavano.

2.13 La Biblioteca dell’Euroregione

Nel contesto dell’ampio progetto di Euroregione, che la Regione sta portando a

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Il Call Center integrato, detto appunto contact center, utilizza anche altri canali di comunica-zione ed erogazione del servizio (e-mail, wap-umts, web, posta, sportelli, operatori sul terri-torio), si avvale di innovazione tecnologica e procedure di lavoro ben definite e permette un approccio completo con l’utente.

Un contact center di I° livello fornisce assi-stenza di tipo informativo e l’accesso ai servi-zi, la sua evoluzione di II° livello costituisce il primo contatto fra amministrazione e utente e fornisce informazioni oppure inoltra la richie-sta al II° livello specializzato. Esso è suddivisi-bile in:

contact center/specialistico verticale: di •solito utilizzato dalle organizzazioni che erogano un solo servizio specifico (ad es.: area tributi di un Comune);contact center specializzato/orizzontale: •utilizzato nelle organizzazioni che offro-no una pluralità di servizi ad una utenza differenziata;contact center come rete di nodi specia-•lizzati: instaura un meccanismo di colla-borazione fra strutture o Enti diversi, per fornire, servizi diversi (ad es.: le informa-zioni relative all’iscrizione alla scuola dei figli, i trasporti, la mensa, etc.

Creare un contact center significa investire sulle relazioni dell’organizzazione con i propri utilizzatori, rispondere alle esigenze, offrire fiducia e soluzione ai problemi: in una parola, Citizen Relationship Management (nel caso ci si riferisca ad una PA). La creazione di un con-tact center impatta in modo notevole sull’orga-nizzazione, risulta fondamentale che l’intera organizzazione si orienti all’utente, il cambia-mento deve essere di tipo culturale.

Difficoltà economiche e culturali ne hanno poi impedito la realizzazione.

Conclusioni

È opinione diffusa che l’agire delle Amministrazioni sia un modo di procedere vincolato sia nei fini che nei mezzi: nei fini, per perseguire gli obiettivi che rispondono agli interessi generali; nei mezzi in quanto il modo in cui tali obiettivi vengono perse-

radio del Sole 24 ore, ed hanno infine ricevuto un finanziamento dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste per far fronte all’acquisto delle prime apparecchiature (in particolare computer e mixer).

In via provvisoria la sede della Web Radio “RadioInCorso” è stata individuata nell’edifi-cio H3 dell’Università, nel frattempo l’ERDISU ha trovato i fondi per la sistemazione degli ambienti al piano terra della Mensa centrale destinati a fornire alla sua definitiva sistema-zione.

2.15 Il Contact center

Uno dei progetti più ambiziosi del Piano era certamente la strutturazione di un moderno Contact center: la rete telefonica dell’Ente non funziona, necessita di un intervento urgente di ristrutturazione. L’occasione si prestava quin-di per ripensare l’uso del telefono al servizio dell’attività istituzionale, in linea con quanto fanno numerose pubbliche amministrazioni, un progetto è in via di definizione.

Il telefono si offre oggi come strumento utile per fornire sempre più servizi integrati e sod-disfare il bisogno di fare in modo che tali servi-zi siano sempre più personalizzati, tarati sulle esigenze e le richieste dei destinatari. Non è il mezzo più tecnologicamente avanzato, ma rappresenta una prima fase di comunicazione e di relazione di servizio, alla quale può segui-re uno sviluppo multimediale che completa il percorso della PA verso la realizzazione di un Contact center che rappresenta uno degli stru-menti di innovazione auspicati dal piano di e-government e dalle norme relative alla digita-lizzazione della PA.

Le attività (e le chiamate) gestite da un Contact Center sono suddivisibili in due grandi gruppi: chiamate in entrata o inbound ricevute dagli operatori e che provengono dal cittadi-no/cliente e riguardano l’assistenza ai clienti, l’erogazione di informazioni o la fornitura di determinati servizi (ad es.: numeri verdi, help desk); chiamate in uscita o outbound, ovvero quelle fatte dagli operatori con vari obiettivi (ricerche di mercato, reperimento di informa-zioni, vendita, recupero crediti, etc).

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ratori pubblici; dalla rassegna internazionale Innovative Graz Award 2008, che ha dato una menzione d’onore al Piano di comunicazione organizzativa dell’Ente; dal 2° premio assoluto conquistato dalla newsletter Erdisu News al COM.PA. 2008, il salone europeo della comu-nicazione pubblica giunto ormai alla quindi-cesima edizione.

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C. PASCOTTO, Dal marketing territoriale alla

guiti è assolutamente rilevante.Come che sia, le decisioni amministrative

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La comunicazione organizzativa, grazie an-che alle nuove tecnologie informatiche e digi-tali, è lo strumento aggiunto che permette la realizzazione di quel cambiamento organizza-tivo che le norme possono prefigurare ma che la cultura burocratica può ostacolare se non impedire e vanificare. In un Ente di servizio quale è l’ERDISU TS la specificità della funzio-ne comunicativa è essenziale, strettamente connessa alla responsabilità sociale di cui esso è portatore.

L’ERDISU TS produce outputs immediata-mente visibili, non solo politiche astratte, atti e provvedimenti amministrativi; esso assegna borse di studio, gestisce posti alloggio, distri-buisce pasti ed organizza altri servizi alla per-sona.

La comunicazione istituzionale garantisce che alla prestazione di tutto ciò si affianchi l’innovazione organizzativa, la certezza dei di-ritti e l’informazione agli studenti attraverso un mix molto variegato di canali e strumenti. Tutto ciò non accade spontaneamente: perché processi di comunicazione virtuosi all’interno e con l’esterno di un Ente si mettano in moto ci vuole una rivisitazione dei ruoli di manage-ment che, partendo dalla responsabilità, dal controllo, dalla condivisione di valori, strate-gie, programmi obiettivi si ponga come obiet-tivo primario il cambiamento.

Questo è quello che all’ERDISU TS è stato fat-to, facendo della comunicazione organizzativa leva e grimaldello per il cambiamento.

Ne sono conferma i riconoscimenti ve-nuti dal Dipartimento Funzione Pubblica – Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ha inserito due delle iniziative qui richiamate tra le 200 best practices proposte all’opinione pubblica italiana con il concorso “Premiare la qualità”, ideato dal Ministro Brunetta nell’am-bito del progetto “Non solo fannulloni”, volto a combattere e rovesciare la ricorrente e spesso motivata rappresentazione negativa dei lavo-

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Eugenio Ambrosidocente a contratto di Comunicazione istitu-zionale degli enti territoriali; dirigente Regione Friuli Venezia Giulia.