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1 Gianni Tucci K A R A T E Marziale e Sportivo Formativo, Educativo, Culturale e Sociale

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Gianni Tucci

K A R A T E

Marziale e Sportivo

Formativo, Educativo, Culturale e Sociale

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Indice Introduzione pag. 3 *Giovani a rischio pag. 4 *Prevenire ed educare pag. 6 *Una nuova coerenza educativa pag. 8 *Lo sport come training educativo formativo pag. 10 *Emozione e ritualizzazione pag. 12 *Attività ludico formativa e competizione pag. 13 *Lo sport come disciplina pag. 14 *La capacità di saper soffrire pag. 15 *L’amicizia pag. 16 *Il perfezionamento del gesto tecnico pag. 16 *Saper vincere e saper perdere pag. 17 *I rischi del troppo agonismo pag. 17 *L’attenzione alla salute pag. 18 *Ruolo dello sport nella società civile pag. 20 *Breve storia dello sport pag. 20 *Sport e società contemporanea pag. 22 *Sport in età evolutiva pag. 24 *L’esercizio fisico fa bene pag. 26 *Qualità fisiche allenabili in età evolutiva pag. 28 *Caratteristiche del programma di allenamento in età evolutiva pag. 30 *Avviamento alla pratica sportiva pag. 31 *Discipline sportive per l’età evolutiva pag. 33 *La disciplina del karate per uno sviluppo psicofisico globale pag. 34 *Prospettive scolastiche pag. 38 *Metodologia di base per una corretta pedagogia del karate pag. 39 *Bambini e fasce d’età pag. 42 *Karate educativo pag. 49 Conclusione pag. 50 Bibliografia pag. 51

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Introduzione.

In qualsiasi ottica lo si guardi: biologica, medica, pedagogica, psicologica, ecologica o economica, è indiscusso che lo sport svolge un ruolo preponderante nella società d’oggi. Il fattore essenziale della nozione di sport è la sua pluridimensionalità, con un ampio spettro che va dalla ginnastica svolta in solitario all’interno delle mura domestiche e dalla rapida camminata o pedalata quotidiana, fino ai tanto mediatizzati campioni olimpici, ai detentori di record mondiali e ai cultori degli sport estremi. I differenti sport devono promuovere un certo tipo di mentalità e di comportamento, e devono incoraggiare l’integrazione sociale e l’acculturazione, ottenendo nel contempo effetti psicoregolatori per avvalersene a scopo preventivo. Con la ricerca scientifica rivolta allo studio e all’approfondimento delle tematiche proprie dell’attività motoria, si devono acquisire conoscenze idonee per migliorare l’efficacia e l’efficienza dei programmi di promozione del movimento. Di notevole importanza risultano anche le conoscenze approfondite della relazione “dosaggio – effetto“ nel rapporto tra attività fisica, salute e la migliore prevenzione degli infortuni. Vanno inoltre oculatamente valutate prestazioni e impegni nello sport giovanile, la facoltà di adattamento dell’organismo agli stimoli dell’allenamento e la sua eventuale applicazione negli sport di ampio spettro (sport di massa) o di riabilitazione. Alle problematiche legate allo sport in senso lato, non può sottrarsi il karate, considerato nella sua duplice veste di arte marziale e sport di combattimento.

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Giovani a rischio. Oggigiorno non è raro incontrare in ambito giovanile, ma non solo, un disagio di fondo, fino al punto di spingere non pochi adolescenti ad arroccarsi su posizioni di aperta rivolta al vivere civile, in cui la povertà, il più delle volte, gioca un ruolo preponderante. La famiglia e la scuola, oltre al ritardo che palesano rispetto all’evoluzione dei tempi, devono confrontarsi con un ambiente “culturale“ aperto a tutti gli stimoli e con potenti concorrenti mediatici che propongono modelli, messaggi e forme di vita alternativa di forte richiamo. Il disorientamento e le devianze sono dunque in agguato. Esistono attualmente svariate forme di povertà. Alcune di esse sono antiche come l’uomo, ma si palesano sotto forme nuove; altre invece sono recenti, legate al costume e allo stile di vita imperante nella nostra società. Tutte, indistintamente, a seconda della loro gravità, impediscono una reale evoluzione e possono arrivare a cancellare completamente i potenziale e le possibilità educative delle persone. La povertà giovanile, intesa non solo a livello economico, in una visione globale, ha come causa l’indigenza economica a volte estrema, la precarietà familiare, le carenze educative elementari, l’inadeguatezza per il lavoro, lo sfruttamento da parte di terze persone, la discriminazione sia etnica sia sociale, il lavoro nero, l’appiattimento delle prospettive di vita e, non ultima, la solitudine affettiva. Fortunatamente oggi l’emarginazione e il disagio giovanile sono più conosciuti e vengono seguiti con maggiore attenzione: le loro manifestazioni sono meglio comprese e si è più attenti alle eventuali cause scatenanti. È intenzione unanime, infatti, di dare risposte creative e, a seconda del contesto sociale di provenienza, esse devono mirare a raggiungere i giovani che vivono prevalentemente in strada, in zone urbane di miseria generalizzata, per poter risolvere anche i problemi dell’abbandono scolastico con percorsi alternativi, in cui la componente sportiva gioca un ruolo di grande rilevanza, operando anche nell’ambito della tossicodipendenza, con forme di prevenzione, di accoglienza e di accompagnamento. Si stanno però diffondendo nuove forme di “povertà“, e quindi è indispensabile prenderne coscienza prima di poterle affrontare con la dovuta efficacia, ed infondere nei soggetti in crisi nuova fiducia, risvegliandone contemporaneamente l’entusiasmo e la creatività.

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La realtà del disagio giovanile e il rischio dell’emarginazione, vanno prese in seria considerazione e valutate opportunamente in tutte le loro più intime manifestazioni. L’estensione della povertà ha radici profonde; ci sono quelle personali, che appartengono a colui che soffre il disagio e l’emarginazione, e a coloro che sono più strettamente legati alla sua vita e alla sua crescita. Non è raro notare, anche nelle condizioni economicamente agiate, almeno all’apparenza, che i presupposti favorevoli di sviluppo vengono vanificati quando le disposizioni personali risultano carenti. Difatti non tutti i giovani disadattati che “frequentano la strada“, sono sprovvisti di mezzi economici adeguati. In quest’ottica appare quindi corretto rafforzare le risorse insite nelle persone, per permetter loro di aprirsi un varco in ambienti fortemente condizionanti, e quindi poter produrre in essi trasformazioni significative in relazione ai rapporti interpersonali, alla socialità, nonché alla condivisione degli aspetti più significativi del vivere civile. Puntare sulle persone e sulle loro motivazioni, sarà quindi un’indicazione sempre valida. Per sanare il tessuto sociale e renderlo più umano e vivibile per tutti, sarà indispensabile un impegno fattivo per far crescere una cultura che riconosca la dignità di ogni persona, rafforzi la solidarietà in tutti gli ambienti e in tutte le forme, assicuri il bene e il diritto all’educazione per tutti, non ceda mentalmente a pregiudizi o valutazioni di comodo, e non soccomba all’insidia dell’individualismo e del consumismo. Inoltre sarà d’uopo possedere strumenti giuridici validi e il controllo della situazione, per il tramite di una giustizia che funzioni veramente. Individuare le carenze ed agire su di esse, senza per questo disattendere l’assistenza immediata, significa svolgere un’ampia azione di prevenzione, che si connoterà come caratteristica imperante di ogni qualsivoglia forma educativa.

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Prevenire ed educare. La prevenzione è senz’altro il modo più efficace e di minor costo economico ed umano, per poter togliere il maggior numero di soggetti dall’emarginazione; dove prevenire significa giocare d’anticipo, per bloccare sul nascere i prodromi dell’emarginazione, intervenendo direttamente sulle cause che l’hanno generata. Questo risultato si può ottenere al primo insorgere dei fenomeni di emarginazione, agendo in modo incisivo sulle cause che possono generarli. Attualmente la forma migliore e più efficace di prevenzione è l’educazione, in grado di sviluppare quelle energie che abilitano la persona a emergere dai condizionamenti che la quotidianità impone. Un’educazione cioè capace di distogliere da esperienze gravemente negative, e in cui verrebbero compromesse le risorse psicofisiche del soggetto, con un dispendio inutile e doloroso di energie. La prevenzione viene quindi concepita con anticipazione, ma anche e soprattutto come un aiuto per far affiorare le risorse latenti, per far riaffiorare i tratti che possono sembrare cancellati, fino al punto di portare i giovani ad un livello soddisfacente d’impegno personale per la propria crescita. L’educazione, in ultima analisi, è quindi la carta vincente per la prevenzione del disagio giovanile e per il suo superamento, in cui educazione, in senso olistico, significa accogliere, ridare la parola, accettare e sforzarsi di comprendere. Vuol dire anche aiutare le singole persone a ritrovarsi: accompagnarle con pazienza in un cammino di recupero di valori e di fiducia in se stesse. E in questo campo lo sport, seriamente praticato e inteso nella sua più vasta accezione di attività ludico – amatoriale – agonistica, può fare “miracoli“. L’insegnamento sistematico e il monitoraggio costante dei risultati agonistici, è una via importante per la prevenzione e per il superamento della povertà e del disagio latu senso, ma a condizione che possa condurre ad un intimo contatto con l’integralità della persona: l’anonimato istituzionale o il solo apporto di conoscenze teoriche, non realizza né garantisce i fini dell’educazione. La volontà di educare richiede quindi una rinnovata capacità propositiva, in cui coinvolgere i giovani in esperienze che li aiutino a cogliere il senso della quotidianità e che risvegli ed arricchisca i loro interessi, offrendo quegli strumenti idonei a reinserirli nella società, rendendoli capaci di agire da soggetti responsabili in ogni circostanza. Queste funzioni richiedono di radicare, attraverso rapporti, condivisioni ed esperienze, il valore della persona al di là dei beni materiali e di ogni struttura od

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organizzazione, per abilitare il soggetto a far scelte autonome di fronte ai meccanismi di manipolazione. È richiesta inoltre la facoltà di orientare i giovani alla conoscenza adeguata della realtà culturale e socio politica, facendo un chiaro riferimento a quella più comprensibile e quotidiana, per arrivare fino alle istituzioni e ai modelli socio economico imperanti.

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Una nuova coerenza educativa. Sono in forte crescita nei giovani d’oggi, fatte rare eccezioni, i problemi psicologici e i conseguenti comportamenti abnormi che li supportano: dall’uso di sostanze tossiche (tossicodipendenze), ai tentativi di suicidio, dalle manifestazioni di asocialità e vagabondaggio, fino ai delicati problemi di disadattamento, che spesso sfociano in meccanismi di aggressività, di intolleranza e di violenza. Appare allora opportuno individuare forme di intervento preventivo, che aiutino i giovani a trovare il loro equilibrio psicofisico e a incanalare, con giuste manifestazioni comportamentali, le loro posizioni, le loro attese e le loro speranze, il tutto in un quadro autentico di formazione integrale. Sarebbe opportuno che una di queste aree di intervento fosse fornita dalla scuola, proprio in relazione alla sua funzione integrativa alla famiglia, e del ruolo estremamente importante che svolge nello sviluppo della personalità. È indispensabile quindi che nella scuola venga a svilupparsi un autentico processo di formazione culturale. Quel processo di affinamento e di applicazione, capace di aiutare l’uomo a raggiungere gli obiettivi prefissati con la conoscenza e il lavoro, e di rendere più umana la vita sociale in cui anche l’educazione fisico sportiva, viene riconosciuta come aspetto capace di autentico sviluppo personale e sociale. Solo allora i principi pedagogici positivi, si fonderanno armoniosamente in un quadro di valori culturali ed esistenziali caratterizzanti anche il vissuto della persona. Partendo da queste considerazioni, diventano importanti alcuni principi orientativi.

1) Molti fattori concorrono all’educazione integrale della persona: lo sport praticato secondo certi criteri e secondo determinate finalità, specialmente in quel delicato periodo di crescita umana che è l’adolescenza, va considerato come fattore educativo di primaria importanza, in quanto integrativo di altre attività.

2) Lo sport è un’attività che soddisfa precise esigenze della persona che lo pratica: non deve quindi essere strumentalizzato a finalità eterogenee, attraverso una prassi sportiva, poco rispettosa delle proprie leggi, ma deve essere valorizzato secondo l’originalità dei fini, dei contenuti o dei criteri caratteristici.

3) L’interesse sportivo, che nell’adolescente spesso è talmente vivo da rischiare di essere totalizzante, in realtà costituisce solo uno dei tanti interessi dell’atleta. Affinché la pratica sportiva sia vero servizio alla persona, deve quindi strutturarsi in modo tale da favorire la pluralità degli interessi e la graduale maturazione della persona verso obiettivi sempre più vasti e profondi.

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4) Lo sport, in quanto momento favorevole per la canalizzazione dell’aggressività e per l’educazione alla socialità, offre continue occasioni per un concreto e coerente progetto di vita.

Visto in quest’ottica lo sport può considerarsi un fondamentale strumento educativo. Esso infatti è dimensione educativa, promuovente la piena e aperta fruibilità dei valori umani, quale la progressiva scoperta e realizzazione dell’immagine di sé, l’esperienza del gratuito quale risposta alla dinamica dello stare insieme e del socializzare, la maturazione di una profonda moralità sociale di percezione e di rapporto con gli altri. Parlare quindi di sport educativo, significa configurare e realizzare un’azione personale non solo in senso quantitativo (sport per tutti), ma anche e soprattutto in senso qualitativo (sport a misura d’uomo). Un sondaggio condotto dall’agenzia svizzera Eurobarometer nel 2005, ha evidenziato che oggi lo sport è parte integrante dei programmi scolastici nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, e circa il 42% della popolazione al di sopra dei 15 anni, dedica all’attività fisica in media tre ore alla settimana, il 26% da una a tre ore, mentre il 32% non pratica alcuna attività con metodo e rigore.

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Lo sport come training educativo e formativo. Oggi intendiamo col termine generico di sport, un’attività fisica che si esplichi almeno su tre livelli diversi di investimento emotivo, di cui il primo è la competizione, il secondo il gioco e il terzo si identifica con una più generica attività salutistica. In linea di massima questi tre livelli ci risultano antropologicamente e psicologicamente accettabili, quando la loro commistione è equilibrata ed essi si presentano correttamente integrati l’uno con l’altro, senza che nessuno si ponga in posizione dominante. Lo sport, come noi lo conosciamo oggi, è da considerare come un retaggio della “classicità greca“, recuperato in epoca rinascimentale, in cui si è reinterpretato il corpo umano nella sua funzione atletica, dopo la sua rimozione forzata durante tutto il medioevo. Tra l’altro, attività di tipo “sportivo“ sono presenti in tutte le culture e a tutte le latitudini, dove viene espressa una attività di gioco, di allenamento, di simulazione e rituali in cui, sotto il profilo antropologico, l’aspetto ritualistico è di fondamentale importanza. L’attività sportiva può essere assimilata al gioco, anche se non sempre sport e gioco coincidono, per la similitudine di un aspetto, che è quello di un’attività svincolata da una necessità e da uno scopo esterno, tanto da apparire quasi fine a se stessa ed automotivante. Inoltre lo sport non può prescindere da un’attività di tipo motorio, che ha la sua origine nella spontanea attività infantile, strettamente legata ai complessi processi di apprendimento e di sviluppo cognitivo. Nel bambino infatti il corpo ed il movimento sono fonte e mezzo di apprendimento, sia a livello di esperienza motoria sia sensoriale. Il gioco, invece, ha il proprio aspetto gratificante connaturato in sé e secondariamente nel fine che raggiunge. Nel gioco sono sempre coinvolte la vita emotiva, quella intellettiva, i processi di educazione e di socializzazione. Il secondo aspetto è invece rappresentato dal controllo della realtà interna ed esterna, che il bambino è in grado di raggiungere attraverso il gioco e la funzione che lo può caratterizzare. Il gioco infantile racchiude in sé anche la finalità primaria dell’allenamento, in cui si apprende, per tentativi, il corretto approccio con cui utilizzare il proprio corpo nella variabile spazio – temporale. La psicologia individua nel gioco due aspetti salienti, che gli danno un carattere formativo ed evolutivo: un aspetto catartico di purificazione, in cui il bambino può scaricare su oggetti simbolo e su attività specifiche le ansie, tensioni, paure,

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insicurezza e aggressività, raggiungendo uno stato di più pieno equilibrio ed una maggiore padronanza dell’ambiente. Questo aspetto è chiaramente insito nelle culture più antiche o in quelle di tipo tribale. Difatti le attività sportive presenti nella civiltà greca, sono tutte attività che rappresentano un addestramento o alla caccia, o alla lotta, ma sempre riferentesi a capacità utili e necessarie alla sopravvivenza. Le stesse caratteristiche, si evidenziano anche in certe fasi proprie dei riti di passaggio dei popoli a cultura etnico tribale. Questo aspetto è presente in maniera preponderante nell’attività motoria spontanea dei bambini, nella quale troviamo la lotta, la corsa, le prove di forza e di abilità in senso lato, con finalità di tipo esplorativo e cognitivo. Un comportamento analogo è riscontrabile anche negli animali e in particolare nei mammiferi, nei quali questo tipo di apprendimento è fondamentale per evocare e sviluppare le competenze innate, in cui i cuccioli giocando imparano a cacciare e a difendersi fuggendo dal pericolo. Alla nascita ogni uomo inizia a costruire le basi della propria autonomia, sui vissuti dell’esperienza sensoriale e dell’attività motoria, espressi prima spontaneamente e successivamente organizzata, finalizzata e cosciente, come espressione dell’esistenza individuale. Il corpo nel suo insieme, le sue parti e anche il movimento che è la sua massima espressione, tendono ad assumere significati particolari, appartenenti a una realtà simbolica che è separata dalla realtà oggettiva. Un eccesso di simbolizzazione è presente in molte tecniche corporee o terapeutiche, nelle quali l’elaborazione mentale non corrisponde a quanto noi conosciamo sul piano scientifico. Tecniche che, in certe situazioni, funzionano come funziona l’effetto placebo, che è un effetto reale ma che, molte volte, possono essere fonti di illusione e di inganno e di particolari allontanamenti dalla realtà psicobiologica. Un’attività motoria ben condotta e consapevole può, in particolare in età evolutiva, ma non solo in questa fase della vita, costituire un importante fattore di crescita e di maturazione personale, anche quando i processi di sviluppo sono turbati, modificati o alterati da difficoltà o handicap, proprio perché può favorire il recupero sensomotorio dello schema corporeo, partendo dall’io corporeo come soggetto dell’esistenza individuale.

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Emozione e ritualizzazione. Se le discipline sportive sono nate come ripetizioni di comportamenti finalizzati come la caccia, la lotta, la fuga, la sopravvivenza e ritualizzate fuori dal loro contesto di necessità, allora queste attività saranno sempre permeate dalle emozioni di base, che si ritrovano pressoché inalterate nei “complessi“ dell’aggressività, della competizione, dell’affermazione di sé. Tutte queste emozioni, originariamente utili e necessarie, tenderanno a facilitare e rafforzare l’attività alla quale sono legate. Appare in tal modo evidente, che le emozioni debbano trovare un oggetto e uno scopo, essendone venuto a mancare quello naturale. Nello sport attivo quindi i livelli di competitività, che sono il frutto e l’espressione dell’aggressività fisiologica e compensatoria, sono necessari e indispensabili per il conseguimento del risultato richiesto, che in questo caso sarà diverso dalle condizioni che originariamente lo motivavano. È praticamente impossibile vincere senza riconoscere un rivale, senza entrare in competizione, senza peraltro avere un’alta considerazione delle proprie capacità ed un’estrema volontà di prevalere sugli altri. Questi tratti caratteriali vengono potenziati nell’attività agonistica, ma anche in quella svolta sotto l’aspetto amatoriale o per fini prevalentemente ludici. Una reiterata, ossessiva e spropositata attività motoria, induce modificazioni umorali che si correlano a stati d’animo diversi e a volte contraddittori. È inoltre necessario stabilire una linea di confine, tra lo sport come attività consolidata per l’adulto, e lo sport come elemento cognitivo, educativo e formativo in età evolutiva, in cui anche l’aggressività può assumere un senso evolutivo e non distruttivo. Partendo dal concetto fondamentale che lo sport è in maniera prevalente un’attività psicomotoria, che coniuga capacità fisiche con competenze psicologiche, cognitive ed emotive, si può affermare con buona approssimazione che l’attività sportiva, ben condotta, otterrà sempre risultati di notevole spessore. Questo obiettivo può essere ottenuto più facilmente con una relazione educativa, che tenda non solo ad allenare corpo e mente in una disciplina specifica, ma anche ad agevolare un’intima consapevolezza di ciò che si fa e di ciò che avviene, modulando sensazioni corporee ed emozioni.

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Attività ludico formativa e competizione. Dato che la discriminante tra sport come attività ludico formativa e attività competitiva, si dimostra, specie in età evolutiva, sottile, fluttuante e dai contorni sfumati, sarà bene definire quali dovranno essere le differenze che riguardano lo stile didattico formativo. Per ciò che attiene l’aspetto competitivo nello sport professionale, l’approccio didattico potrà tranquillamente fondarsi su una relazione autoritaria e su metodi addestrativi, rinforzati dal meccanismo, abbastanza semplice, della ricompensa – punizione. Per l’aspetto educativo formativo in età evolutiva, è invece necessario basarsi su alcuni punti fondamentali in cui:

1) l’educatore dovrà rivestire un ruolo tale da consentire all’allievo di poterglisi “affidare” in tutta tranquillità;

2) sarà inoltre necessario attivare la consapevolezza di sé come corpo che si

muove in un sistema di relazioni. Ogni buon rapporto docente – discente che voglia essere tale, ha la necessità di assumere quelle caratteristiche, che sono peculiari della relazione primaria, presente nel rapporto esistente tra genitore e figlio, caratterizzato dalla stabilità, dalla coerenza, nonché dalla complementarietà asimmetrica. Ciò significa che l’insegnante deve porsi come base sicura e punto di riferimento per la fiducia che in lui ripone l’allievo, in un rapporto di autorevolezza nel quale però i livelli di “potere psicologico“, sono sempre appannaggio dell’insegnante; ciò permetterà all’atleta di costruirsi un sicuro punto di riferimento per le sue azioni future. Inoltre sarà importante che il docente dimostri un sufficiente rispetto per la personalità dell’allievo affidatogli, in modo che la naturale aggressività e la fisiologica competitività di quest’ultimo, soprattutto se di giovane età, possano esprimersi in modo funzionale alla formazione di una personalità equilibrata e matura.

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Lo sport come disciplina. Fra i molti valori insiti nella pratica sportiva, uno dei più importanti è quello legato alla disciplina. Difatti per affrontare nelle migliori condizioni gli allenamenti più impegnativi e le competizioni, è necessario condurre una vita regolare, con abitudini sane e riposo, evitando se possibile ogni eccesso di qualsivoglia natura. Chi è conscio di dover sostenere una prova importante, le riserva le migliori energie, oppure evita azioni che lo danneggino o che lo distolgano troppo dal suo compito. Tutto questo impegno porta l’atleta a conseguire una regolarità comportamentale, che è la base dei risultati e della forma fisica. La perseveranza negli allenamenti e la costanza nel tempo, sono senz’altro gli ingredienti più importanti per arrivare al successo nella pratica dello sport. Purtroppo alcuni atleti non capiscono l’importanza della “costanza nel tempo“, ma si affidano unicamente alla carica emotiva, impegnandosi solo per alcuni periodi oltre i loro limiti, per poi abbandonare ogni forma di pratica una volta passata la ventata di interesse. Altri invece, più accorti, sanno dosare con maggiore intelligenza le forze ed affrontare l’impegno con gradualità, ponendo in tal modo le basi per una pratica sportiva che durerà nel tempo. Inoltre la disciplina porta l’atleta a sapersi ascoltare e a conoscere i propri limiti, divenendo maggiormente consapevole delle proprie capacità. L’atleta infatti impara a modulare l’intensità dei propri sforzi, tenendo presente le esigenze di recupero o i momenti di maggior stanchezza, sia sportiva sia extrasportiva. L’atleta riesce quindi a produrre uno sforzo, che tiene sempre conto dei fattori interni ed esterni, che condizionano gli esiti della preparazione e della gara. La disciplina però non porta solo ai risultati sportivi, difatti l’atleta, sia esso adulto o i età evolutiva, acquisisce abitudini positive, impara ad apprezzare la vita attiva e regolare, a non impigrirsi, riesce a stimare nel suo giusto valore il piacere di sentirsi in forma, a saper rispettare gli impegni presi, senza lasciarsi coinvolgere emotivamente da eventuali sbalzi d’umore o da momenti d’indolenza. È questo soprattutto un fattore importante per lo sviluppo del giovane atleta, che si abitua a strutturare il proprio tempo e a disciplinare i propri impulsi, a controllare il proprio carattere, a saper rispettare l’impegno preso e i tempi da questo richiesti. La disciplina aiuta anche a ridurre i momenti di alti e bassi, modulando e contenendo entro giusti limiti gli sbalzi d’umore.

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La disciplina è importante anche per l’atleta adulto, poiché lo sport è una difesa contro le abitudini negative e l’inattività. Praticare sport, qualsiasi esso sia, fa sentire più attivi e maggiormente motivati all’azione, e conferisce una salutare energia che si riversa anche in altri settori, quali la famiglia, il lavoro, i rapporti interpersonali e la vita sociale in genere.

La capacità di saper soffrire. Per raggiungere buoni risultati in campo sportivo, spesso è necessario saper soffrire in allenamento e durante la gara. La capacità di stringere i denti e resistere per raggiungere un obiettivo specifico, superando con tenacia i momenti più difficili di un allenamento o della competizione, rappresentano condizioni indispensabili per arrivare a livelli di prestazione ottimali ed esprimere tutto il proprio potenziale. Inoltre molte volte un obiettivo sportivo o marziale, non può essere raggiunto in un tempo breve, necessitando spesso di più tappe intermedie prima di essere realizzato, tappe in cui l’atleta si abituerà a tener duro e a non fermarsi di fronte al primo ostacolo, sviluppando di conseguenza un buon grado di tenacia. Saper soffrire in certi momenti è necessario, dato che la sofferenza non dura per sempre, essendo una componente naturale della vita che si alterna ad altri momenti più gradevoli. Soffrire vuol dire anche essere disposti ad affrontare con impegno un cambiamento, oppure una fase di transizione, in cui acquisiamo nuove abilità o sviluppiamo nuovi modi di risolvere i problemi. Saper soffrire aiuta anche a riscoprire il gusto della conquista delle cose, e di quanto sia gratificante aver raggiunto un obiettivo grazie all’impegno profuso e alle energie dispiegate.

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L’amicizia. La pratica di un’attività sportiva o marziale aiuta l’amicizia. Difatti è molto frequente che tra i compagni di allenamento, si stabiliscano vincoli affettivi destinati a durare nel tempo, perché le stesse affinità d’interessi e di carattere consentono di apprezzare la presenza degli altri mentre ci si impegna nel praticare un’attività che appassiona tanto. Inoltre l’amicizia supera di gran lunga il momento agonistico, poiché dopo il gesto sportivo non ci si sente più avversari, ma ci si sofferma su discussioni circa lo svolgimento della gara, e si può parlare di cose che esulano dalla disciplina specifica, rafforzando in tal modo i legami di amicizia reciproca.

Il perfezionamento del gesto tecnico. L’insegnante e l’allievo puntano entrambi al perfezionamento del gesto tecnico e dell’abilità sportiva, alla ricerca delle variabili che consentono lo svolgimento del gesto sportivo nella sua forma più elevata. Migliorare le proprie abilità sportive è un compito che si avvicina al lavoro dell’artigiano del passato o dell’artista, che affinava con cura i propri talenti, facendo attenzione alla sua creazione, per curarne i particolari, man mano che questa prendeva forma e consistenza. Lo stesso vale per l’atleta a livello amatoriale, che fa del proprio miglioramento sportivo un investimento in termini di gratificazione e di soddisfazione personale. Il perfezionamento del gesto sportivo, di qualunque disciplina si tratti, oltre a consentire all’atleta di arrivare a traguardi di prestazione di livello superiore, educa altresì alla ricerca del miglioramento della propria vita, e al gusto di svolgere i propri impegni in modo esemplare.

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Saper vincere e saper perdere. L’attività sportiva insegna a saper vincere e a saper perdere. La vittoria, spesso legata anche a momenti episodici o fortuiti, quando arriva è un qualcosa in più, che giunge in modo non forzato, ma in maniera quasi naturale. Da questo punto di vista, la soddisfazione derivante dalla pratica sportiva, consiste nel perfezionamento di una capacità – abilità, prima ancora che sulla sconfitta dell’avversario. Deve allora essere favorito il “piacere di fare“, rispetto al valore del vincere o alla minaccia del perdere. Queste premesse consentono di imparare a vincere con stile, senza inutili provocazioni nei confronti dei perdenti, ma nello stesso modo si apprende anche a saper perdere, mostrando dignità in condizioni avverse ed evitando atteggiamenti vittimistici e autocommiserativi, sempre restando padroni di se stessi e motivati a proseguire negli allenamenti, per mantenere fede agli impegni assunti e continuare fino alla fine della stagione o del periodo di gara. Il vero atleta impara a contenere la propria gioia dopo un buon risultato, ma anche a non abbattersi dopo una sconfitta o una prova deludente. Ciò che può apparire come un fallimento o un insuccesso, può essere l’acquisizione di un’esperienza che potrà rivelarsi un’efficace garanzia di una futura riuscita.

I rischi del troppo agonismo. Quando il risultato diviene il fine unico, e la gara si colloca come un momento imprescindibile per decidere il valore del giovane atleta, lo sport si carica di stress (distress o stress negativo) a causa del sovraccarico di richieste e di attese che gli atleti sentono gravare su di loro. Questo stimolo negativo può verificarsi a causa dei genitori, eccessivamente esigenti, che si aspettano il successo da prestazione, piuttosto che cercare il benessere dei propri figli, oppure da parte dell’allenatore o della società sportiva di appartenenza che, egoisticamente, considerano i giovani atleti come talenti da coltivare. In questi casi, purtroppo, esiste il rischio concreto di abbandono precoce da parte degli atleti, che provoca demotivazione e disaffezione verso l’attività sportiva in senso lato. Gli allenamenti rischiano di diventare addestramenti faticosi e stressanti,

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rigidamente basati su una inflessibile pianificazione, invece di essere momenti in cui l’impegno motorio è unito al divertimento, al piacere di muoversi, e alla gratificazione di stare assieme con gli altri. Inoltre i rapporti con i coetanei cambiano d’aspetto, dal confronto aperto e costruttivo si sconfina in logiche ipercompetitive non solo con gli avversari, ma anche all’interno dello stesso gruppo o squadra, in cui i successi degli altri vengono vissuti come una minaccia per sé, oppure occasione d’invidia piuttosto che di incoraggiamento e di sprone. Si può quindi affermare con relativa tranquillità che, se lo sport in genere fa bene, non altrettanto potrà dirsi per il troppo sport, soprattutto per atleti in fase evolutiva. Difatti un eccesso di esercizio in questo periodo, costituisce un elemento di rischio, caratterizzato per un verso dall’accresciuta probabilità di procurarsi infortuni, e dall’altra da un surplus di sollecitazioni psicofisiche certamente dannose, soprattutto quando lo sport viene inteso nella sua forma più strutturata e già collegata a forme di allenamento specializzate.

L’attenzione alla salute. La salute può considerarsi uno stato di benessere, in cui ci scopriamo intraprendenti, disponibili ai rapporti interpersonali, aperti alle conoscenze; ci sentiamo bene con le altre persone e ci impegnamo attivamente nei compiti che la vita ci propone. Generalmente non ci rendiamo conto di questo “stato di grazia“, poiché questo processo è sempre qualcosa che rimane nascosto. Se invece ci ammaliamo, le mutate condizioni psicofisiche causate dalla patologia in atto, ci distolgono dalle nostre normali attività, costringendoci a chiuderci in noi stessi e ad allontanarci dal mondo in cui viviamo. Purtroppo queste tristi vicissitudini ci fanno accorgere che prima avevamo tutto, che eravamo inconsciamente immersi in uno stato di benessere e, nel momento in cui la salute verrà ristabilita, la guarigione ci restituirà anche l’equilibrio vitale, grazie al quale ci sentivamo veramente noi stessi. Di norma, ciò che accade non è mai casuale, il più delle volte è invece il frutto del nostro comportamento e della nostra naturale predisposizione. Concedere allo sport un eccesso di energie oltre che di tempo, può danneggiare la propria situazione scolastica, il proprio lavoro o i rapporti intimi all’interno della

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propria famiglia. Bisogna altresì tener conto di un eventuale sovrallenamento, i cui sintomi si manifestano con fenomeni di inappetenza, di insonnia, di elevata irritabilità, oppure con una preoccupante carenza di energie in ambito extrasportivo, quali prodromi di un’allarmante futura condizione patologica. Noi occidentali non abbiamo tempo per ammalarci, da noi prevale la logica della soppressione; per non essere infastiditi dai sintomi, ricorriamo immediatamente ai farmaci nella speranza che possano risolvere tutti i nostri problemi. Invece ogni guarigione di una malattia, dovrebbe comportare l’acquisizione di maggior saggezza, rammentando che il corpo non ammette soppressioni, e che i sintomi non sono che segnali dai quali dobbiamo imparare che c’è qualcosa che non va: ”un sasso si può fermare, una valanga finirà per travolgerci“.

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Ruolo dello sport nella società civile. Lo sport è l’insieme di quelle attività fisiche e mentali, compiute al fine di migliorare e mantenere in buona condizione l’intero apparato psicofisico umano, e di intrattenere chi lo pratica e chi ne è spettatore. Lo sport può essere praticato individualmente o in gruppo, senza fini competitivi oppure gareggiando contro altri partecipanti: in questo caso si parlerà di agonismo sportivo. Il termine sport è di origine anglosassone, ma più correttamente lo si fa risalire al termine francese desport: divertimento, svago e il vocabolo nostrano che più si avvicina all’etimo francese è diporto.

Breve storia dello sport. Durante il XIX secolo, molti rinvenimenti di arte rupestre sono stati effettuati in Francia, in Africa e in Australia e tutte hanno evidenziato come, in tempi preistorici, venissero effettuate cerimonie rituali che implicavano, da parte dei partecipanti, una concreta attività fisica. Alcuni di questi ritrovamenti vengono fatti risalire a 30-35000 anni fa. Nel Magreb (deserto libico), sono state ritrovate illustrazioni rupestri, risalenti all’età della pietra, che ritraggono uomini che nuotano e che tirano con l’arco. È ragionevole quindi ipotizzare, che in quel periodo venissero praticate delle attività non direttamente legate alla ricerca del cibo e alla sopravvivenza, che potrebbero essere alla base dello sport praticato nelle antiche civiltà euro asiatiche. PERIODO STORICO. Si ipotizza che la civiltà cinese abbia iniziato a praticare attività atletiche, che possono essere assimilate all’attuale concezione di sport, fino dal 4000 a.C, e il loro sviluppo è strutturalmente correlato ad altre attività di interesse sociale quali l’agricoltura, l’artigianato, l’intrattenimento e…la guerra. Antiche iscrizioni in alcune stele egizie, indicano che già al tempo dei faraoni, venivano praticate molte attività sportive a prevalente finalità ludica: lotta, ginnastica, pugilato, nuoto, canottaggio,pesca, atletica e numerosi giochi con la palla.

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I faraoni e gli alti dignitari dell’antico Egitto, assistevano a gare sportive con assiduità, e ne favorivano lo svolgimento promuovendo la costruzione delle strutture necessarie. Già alcuni millenni prima dei greci, gli egiziani avevano provveduto a stilare regole di base per alcuni giochi, ad affidare il controllo della regolarità delle gare ad un arbitro neutro, e a festeggiare ed onorare i vincitori assegnando loro collari di fogge particolari. ANTICA GRECIA. Nell’antica Grecia venivano praticate la corsa, il salto in lungo, la lotta, il pugilato, il lancio del giavellotto, il lancio del disco, il Pancrazio e la gara dei carri da guerra. I giochi olimpici, istituiti nel 776 a.C., si tenevano in onore di Zeus ogni quattro anni ad Olimpia, un piccolo villaggio nel Peloponneso. Le Olimpiadi non erano soltanto un avvenimento sportivo, ma piuttosto la celebrazione dell’eccellenza individuale, della varietà culturale ed artistica dell’intera cultura greca e, soprattutto, erano l’occasione per onorare la massima divinità religiosa. I greci consideravano come sacrilego lo scoppio di ostilità durante il loro svolgimento e, dall’inizio alla fine delle Olimpiadi, veniva proclamata una tregua su tutti i campi di battaglia greci. ANTICA ROMA. La cultura romana, così come quella ellenica, celebrava l’esaltazione della competizione fisica. L’attività sportiva non competitiva, veniva praticata prevalentemente nell’ambito delle terme, come parte integrante della cultura del benessere, che era un fattore imprescindibile della società romana. Il termine Ludi, che indicava in senso generico le competizioni sportive, deriva probabilmente dall’etrusco, come la maggior parte dell’attività sportiva romana. I Ludi erano organizzati dai membri della classe sacerdotale, e alle gare partecipavano i giovani appartenenti alla nobiltà. Gli antichi sport praticati a Roma, comprendevano anche specialità olimpiche greche, ma tra queste i favori del pubblico era riservato ai giochi più violenti come il pugilato, la lotta e in particolare il Pancrazio greco, una variante del pugilato molto violento e dalle conseguenze spesso letali.

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Sport e società contemporanea. La diffusione capillare della pratica sportiva, in quasi tutte le società del mondo contemporaneo, è il segno incontrovertibile dell’importanza che lo sport ha assunto in quelle realtà da un punto di vista sociale, economico e politico. Lo sport infatti può considerarsi come parte integrante della società, e si sviluppa in simbiosi con i cambiamenti che la contraddistinguono. La pratica sportiva è diffusa soprattutto presso quelle realtà sociali che,culturalmente ed economicamente possono usufruire dei mezzi necessari a praticarla. Una parallela attività di educazione culturale segue allo sviluppo di uno sport in una società. Difatti lo sport viene sovente considerato come una scuola di vita, che insegna a lottare per ottenere una giusta ricompensa, e che aiuta alla socializzazione ed al rispetto tra compagni e avversari, anche se nell’agonismo estremo, magari accentuato dall’aspetto economico, e nell’esasperata contrapposizione individuale, può celarsi un pericoloso segnale che potrebbe tendere a far risaltare esclusivamente lo spirito competitivo e oppositorio, come naturale parametro di rapporto tra gli esseri umani. È sempre più urgente che lo sport recuperi la sua funzione primaria di strumento di educazione sociale, per le grosse possibilità che offre come scuola di democrazia, di vita comunitaria, di gruppo e di autogoverno. Inoltre è indispensabile che si ponga sempre più nell’ottica di integrare doveri e diritti, classi e culture diverse, svolgendo una vera promozione umana. Lo sport parla il linguaggio dei giovani, e può quindi propiziare interessi e appartenenze, riprodurre obiettivi perduti e ridare motivazioni concrete al vivere quotidiano. Il più delle volte lo sport, vero e genuino, nasce nella strada, nelle piazze, nei campetti di periferia, ma è proprio nelle strade e nei cortili che si agita per primo lo spettro del disagio e dell’emarginazione giovanile. Lo sport, che nella strada origina e vive, può essere la risorsa primaria per affrontare il disagio. Lo sport diventa realmente capace di rivoluzionare la vita dei giovani, quando i contenuti e i valori non sono solamente annunciati, ripetuti, teletrasmessi, ma testimoniati. La proposta educativa si realizza nel momento in cui i giovani, anziché essere considerati un problema, sono invece assunti come la più grande risorsa e il futuro di ognuno di noi. Lo sport può essere un’ottima opportunità per rendere più vivibile il nostro quotidiano. Più la pratica sportiva sarà diffusa, più i giovani ritroveranno il senso delle regole e della legalità. In una società devastata dai “fai da te“, dove è ricorrente lo scollamento da pratiche tradizionali e dai valori morali, dove la trasgressione è assunta quasi a

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regola per poter emergere e sentirsi qualcuno, dove la legge del branco pare espressione e garanzia di riuscita, lo sport può ancora essere l’arma vincente, capace di educare alla convivenza, al rispetto degli altri alla disciplina e al sacrificio. Nel corso del XX secolo, si è sviluppata una organica suddivisione nel mondo dello sport, legata soprattutto all’aspetto prettamente economico che ruota attorno agli avvenimenti sportivi: la separazione tra sport professionistico e dilettantistico. Gli atleti professionisti vengono pagati per svolgere la propria attività, e possono essere considerati dei lavoratori dello spettacolo a tutti gli effetti. Per questo motivo solo i migliori sportivi di ogni disciplina riescono a diventare professionisti; di conseguenza gli eventi sportivi a cui partecipano possono vantare delle prestazioni più elevate rispetto allo standard dilettantistico. Nei paesi occidentali, alcuni sport professionistici attraggono un ingente numero di praticanti, mentre gli sport, cosiddetti minori, si scontrano sia con problemi di vivibilità, sia con la insufficiente copertura finanziaria da parte dei potenziali sponsor. Secondo una visione alternativa del problema, professionismo e dilettantismo operano o dovrebbero operare in sinergia. Il primo, mediante l’attenzione che i media e gli sponsor concentrano sui campioni sportivi, valorizza le caratteristiche spettacolari dello sport, contribuendo a farlo conoscere maggiormente e ad attrarre, anche verso la pratica attiva, un numero maggiore di persone. Il secondo, di riflesso, beneficia in termini di visibilità, e possibilità economiche, dei risultati dell’altro, fornendo nuovi praticanti e possibili nuovi campioni.

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Sport in età evolutiva. La corretta età per l’avviamento alla pratica sportiva dei bambini, risulta abbastanza difficile da definire. Molti ricercatori e addetti ai lavori, sono infatti preoccupati non solo nel definirla, ma anche e soprattutto nel voler indicare i probabili rischi dell’“agonismo precoce“, senza però valutare, nella giusta prospettiva, i più pericolosi danni da ipocinesi di un “sedentarismo precoce“. Il bambino, libero di muoversi a suo piacimento fino all’età scolare, di fatto crescendo si trasforma in un sedentario a tempo pieno, appena inizia a frequentare la scuola dell’obbligo. Per lunghe ore resterà seduto sui banchi in relativa immobilità e, come se questo non bastasse, anche a casa starà fermo a fare i compiti o davanti al televisore per lunghe ore. Deve inoltre essere considerato che il periodo che va dai 6 ai 14 anni, per entrambi i sessi, può condizionare in larga parte il benessere e l’equilibrio psicofisico del futuro adulto. TABELLA 1 Periodo neo natale Dal 1° al 15° giorno di vita Prima infanzia Dal 16° giorno al 2°anno di vita Seconda infanzia ( fanciullezza ) Dai 2 ai 6 anni Terza infanzia Dai 6 anni alla crisi puberale (6 –12 anni) Pubertà Dai 10-12 ai 15-17 anni Adolescenza Fino ai 21 anni ( ♀ ) e 25 anni ( ♂ )

IPOCINESI E PARAMORFISMI. L’eccessivo benessere economico viene ormai considerato come la causa primigenia di quella sindrome da mancato o insufficiente esercizio, conosciuto universalmente come “malattia ipocinetica”. Questa sindrome è caratterizzata dall’interessamento di uno o più dei grandi apparati, fino all’instaurarsi di quei quadri che, nei giovani, sono conosciuti come “paramorfismi dell’età evolutiva“, caratterizzati rispettivamente da ipotonia muscolare, in cui il grado delle strutture organiche implicate, spazia in una vasta gamma di quadri paramorfici. Difatti il paramorfismo che si mette in evidenza nel corso dell’età evolutiva, non è solo quello relativo a difetti di portamento o attitudini posturali viziate. L’incapacità da parte dell’apparato cardiocircolatorio di rispondere in maniera adeguata ad uno

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sforzo, anche di lieve entità e limitato nel tempo, è un quadro paramorfico di facile riscontro nei giovani, unitamente a modesti valori dei volumi polmonari sia statici sia dinamici, con una minore efficienza ventilatoria. Inoltre si riscontra, fra i quadri paramorfici, una forte incidenza di sovrappeso corporeo, che spesso ingenera altri paramorfismi specialmente a livello muscolo scheletrico. Tra i paramorfismi più frequenti va considerato soprattutto “l’atteggiamento scolastico“, cioè le deviazioni laterali della colonna vertebrale, senza rotazione dei corpi vertebrali, che è sempre presente nella “scoliosi vera”, permanente ed evolutiva. Altri paramorfismi dell’apparato di sostegno, sono le iperlordosi del tratto lombare del rachide e la cifosi cervico dorsale di lieve entità, il varismo e il valgismo delle ginocchia, il valgismo dei piedi e l’appiattimento della volta plantare. I tratti paramorfici relativi alle ginocchia e ai piedi, vengono frequentemente peggiorati dalla contemporanea presenza di sovrappeso corporeo. I quadri paramorfici relativi all’apparato cardiocircolatorio, sono insiti nella peculiarità del muscolo cardiaco e del sistema circolatorio che, in mancanza di stimoli motori adeguati, è inidoneo a sopportare carichi di lavoro, anche non particolarmente elevati. Difatti il cuore reagisce con un aumento della frequenza senz’altro antieconomico, con conseguente riduzione della gittata sistolica. Così facendo il flusso periferico si riduce, facendo sì che i tessuti tributari manifestino precocemente la sindrome di affaticamento locale. L’apparato respiratorio del bambino ipocinetico, mostra facilmente una tachipnea da sforzo, con un lento ritorno alla frequenza di riposo, causato in larga misura dalla mancanza di una buona dinamica costo – diaframmatica. I valori di VO2max, che indicano la potenza aerobica dell’individuo e di conseguenza la possibilità di sostenere prestazioni anche prolungate, nei soggetti sedentari sono largamente inferiori a quelli attribuiti alla potenza aerobica di un ragazzo sano. Tra i paramorfismi metabolici dell’età evolutiva va annoverata l’obesità, che in molti paesi, incluso il nostro, ha ormai raggiunto punte del 20% della popolazione giovanile sana. In questi soggetti le difficoltà tendono alla cronicizzazione, poiché i bambini mostrano uno scarso dinamismo di base, particolarmente legati a fattori psico - ambientali (paura di correre), in parte dovuti all’effettiva difficoltà a praticare con destrezza anche la più banale tra le attività fisiche. Inoltre i soggetti sedentari presentano una più alta predisposizione all’instabilità emotiva, alla balbuzie, all’enuresi notturna, all’onicofagia e non ultimo a raccontare troppe bugie. Nel loro insieme questi quadri particolari possono essere considerati veri e propri paramorfismi psicologici.

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L’esercizio fisico fa bene. Al concetto di paramorfismo indotto dalla mancanza di esercizio fisico, si contrappone quello di “salute dinamica“, rappresentata dal benessere psicofisico derivante non solo dall’assenza di malattie o malformazioni, ma altresì caratterizzato da una buona capacità di adattamento al lavoro fisico. Questa condizione può essere ottenuta attraverso l’allenamento sportivo, che anche nei soggetti in età evolutiva, richiede continuità, ritmo e intensità adeguati, tali da promuovere gli opportuni adattamenti a carico di vari organi e apparati. L’allenamento sportivo, quindi, è in grado di produrre una serie di benefici e di vantaggi che interessano l’intero organismo, dall’apparato di sostegno, al comportamento e alla personalità del giovane sportivo. L’educazione motoria, con il conseguente incremento delle doti di coordinazione neuro muscolare, consentirà, in tempi brevi, miglioramenti anche vistosi di postura e di atteggiamento. Le masse muscolari, armoniosamente e simmetricamente stimolate sosterranno, con tono adeguato, strutture scheletriche ancora fragili ed in evoluzione non sempre corretta. L’esecuzione di gesti marcatamente più fluidi ed economici, favorirà l’agilità e la scioltezza, doti queste senz’altro agevolate da una migliore mobilità articolare. Nell’ambito di un programma multimirato, come è quello che supporta la pratica del karate, l’inserimento di esercizi di attività specifica prolungata nel tempo, favorirà l’instaurarsi di una migliore resistenza organica. L’apparato cardiorespiratorio trarrà quindi beneficio dal programma di allenamento, fino a rispondere con la bradicardia da esercizio, che sono gli effetti di più facile riscontro e più nettamente correlati con un’attività motoria, mirata anche al miglioramento delle doti di resistenza organica. Infatti alla bradicardia corrisponde una gittata sistolica più efficace, che consente un miglior afflusso ematico fino ai distretti periferici più lontani. Anche la pressione arteriosa, le cui problematiche si evidenziano soprattutto nell’età adulta, si manterrà in un “range“ ottimale, e questo, oltre che costituire un indubbio beneficio per il ragazzo, può altresì esercitare un’attività preventiva nei confronti dell’ipertensione dell’età adulta. L’apparato respiratorio, oltre che rispondere all’esercizio fisico regolare e continuativo, con una riduzione della frequenza dei movimenti produrrà, nel giovane atleta, un miglioramento anche della capacità respiratoria, grazie a una più efficace dinamica costo – diaframmatica.

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L’aumentato dispendio energetico che si verifica nell’attuare un programma di allenamento, rappresenta il principale fattore di prevenzione in grado di correggere un eventuale sovrappeso corporeo, non disgiunto dalla appropriata adozione di un regime alimentare correttamente rapportato alle effettive esigenze metaboliche del soggetto, proponendo una corretta educazione alimentare anche in ambito familiare. Studi recenti hanno evidenziato che la sedentarietà altera, a livello centrale, il senso dell’appetito e l’autocontrollo, mentre la pratica regolare di un allenamento sportivo, ristabilisce il meccanismo di feed back a livello diencefalico, con il risultato di portare la sensazione di fame ad adattarsi ai dispendi energetici reali. La soddisfazione di imparare tecniche ed esercizi a difficoltà sempre crescente, l’approvazione e l’elogio dell’insegnante o, al contrario, il suo benevolo rimprovero, costituiscono solo una parte delle innumerevoli implicazioni psicologiche legate all’ambiente e alle motivazioni della corretta pratica sportiva del karate. Il miglioramento dell’autostima, il controllo dell’emotività, l’incremento dell’indice di socialità, la più accentuata tolleranza alle frustrazioni e un giusto controllo dell’ansia, sono fra le componenti della personalità, che maggiormente risentono beneficio dalla pratica e dall’ambiente sportivo.

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Qualità fisiche allenabili nell’età evolutiva. Non tutte le qualità motorie fondamentali possono essere allenate in età evolutiva. Difatti sotto il quattordicesimo anno di età, è possibile allenare la destrezza (base tecnica), la mobilità articolare e la resistenza. Lo sviluppo delle capacità coordinative e della flessibilità sarà particolarmente curato nelle fasce d’età più basse, poiché generalmente queste qualità motorie hanno un esiguo margine di miglioramento superato il decimo anno di età e, ancora inferiore, superato il periodo puberale. La destrezza è la qualità fisica caratterizzata principalmente dalla sollecitazione degli apparati neuro sensoriali, che concorrono nel realizzare atti motori estremamente precisi. La destrezza, infatti, è la capacità di compiere determinati movimenti in maniera rapida, precisa ed armonica con impegno muscolare diverso nelle varie discipline sportive in cui tale qualità è richiesta e necessaria. I bambini, i ragazzi e parzialmente gli adolescenti, possono acquisire automatismi motori con un elevato indice di coordinazione neuro muscolare e di mobilità articolare, sfruttando appunto la fisiologica capacità di apprendere gesti tecnici anche complessi e sofisticati, propri della loro fascia d’età. Infatti lo sviluppo della coordinazione del movimento e la capacità di apprendere gesti nuovi e complessi, dipende in gran parte dalla maturazione del sistema nervoso e in particolare dal processo di mielinizzazione delle fibre nervose motorie che di norma si attua fra i 4 e i 7 anni. Esiste quindi una chiara correlazione fra lo sviluppo delle capacità motorie e quelle del SNC, che sostiene e consente il miglioramento della destrezza e della velocità già nei primi anni di vita. La resistenza è un’altra qualità allenabile in età precoce (già dai 4/5 anni d’età), con una capacità di lavoro aerobico (VO2max), particolarmente favorevole nei soggetti in età evolutiva. La capacità di prestazione prolungata aumenta in entrambi i sessi, senza variazioni significative fino ai 13 anni di età, raggiungendo il massimo valore nelle femmine tra i 12 e i 14 anni, nei maschi tra i 14 e i 17 anni. Osservando i bimbi giocare spontaneamente, si potrebbe pensare che essi prediligano esercizi brevi, che impegnano soprattutto le fonti energetiche anaerobiche. Tale comportamento però sarebbe dettato più da un particolare atteggiamento psicologico del bambino, che da un’insufficiente capacità aerobica. Infatti solo verso i 20 anni di età, si riscontrano i più alti valori di capacità anaerobica lattacida (attività della durata di qualche decina di secondi, fino a 40/50 secondi), mentre la capacità di lavoro anaerobico alattacido (attività di potenza della durata di 4/5 secondi), è massima verso i 15/16 anni. Pertanto le caratteristiche bioenergetiche del soggetto in età evolutiva, sono tali da consentirgli buone prestazioni di resistenza

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(metabolismo aerobico) e di brevissima durata (metabolismo anaerobico alattacido), mal sopportando alte concentrazioni di acido lattico nei muscoli (circa il 35% in meno rispetto all’adulto). Mentre l’inserimento, in un programma d’allenamento per soggetti in età evolutiva di elementi finalizzati allo sviluppo della velocità non desta, come sopra riportato, particolari motivi di preoccupazione, l’introduzione di elementi finalizzati all’allenamento della forza, a questa età, può risultare pericoloso. Lo sviluppo della forza, dipende soprattutto dal livello di produzione ormonale: testosterone, tiroxina e GH (ormone della crescita). Nel periodo che va dalla terza infanzia (6/12 anni) alla pubertà, non si è ancora raggiunta la completa e definitiva capacità di resistenza al carico, da parte delle strutture dell’apparato locomotore. Il rischio di arrecare danno a queste strutture, impedisce la pratica di attività fisiche intense e prolungate, proprie delle metodiche di allenamento della forza. La massima forza isometrica progredisce linearmente fino alla pubertà, per poi aumentare in maniera esponenziale. Per tale motivo, prima del 14° anno di età, è sconsigliabile allenare la forza utilizzando le tecniche di muscolazione isometriche e con pesi rilevanti; inoltre fino a circa 12 anni sarebbe bene che il carico di lavoro fosse proporzionato al peso corporeo del giovane atleta, allenando in tal modo la cosiddetta “forza relativa“. La “forza assoluta“ invece, può essere allenata e migliorata solo quando si è verificato l’aumento di produzione del testosterone, la sua liberazione e la sensibilizzazione periferica ad esso. Ciò nonostante, anche negli atleti giovanissimi, è possibile gettare le basi dell’allenamento della forza, esercitandoli con attrezzi molto leggeri, al solo scopo di insegnare loro il corretto uso degli attrezzi stessi, consolidando così l’acquisizione dei processi motori e il controllo dei movimenti. Così facendo, si otterrà anche il risultato di prevenire la frequente patologia traumatica, sia acuta, sia da sovraccarico funzionale, tipica delle sale di muscolazione (body building). Inoltre studi recenti suggeriscono la possibilità di allenare in età compresa tra gli 8 e i 12/13 anni la “forza veloce“, in quanto questa particolare qualità motoria, dipende più dalle strutture nervose che da quelle biofisiche del muscolo stesso. Pertanto le attività motorie, basate su gesti veloci e brevi (tipici della disciplina del karate), non presentano alcuna controindicazione e possono essere tranquillamente praticate dai giovani sportivi.

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Caratteristiche del programma di allenamento in età evolutiva. Nell’avviare i soggetti in età evolutiva alla pratica di qualsiasi attività motoria, è indispensabile che i programmi di allenamento rispettino le caratteristiche morfologiche e funzionali dei giovani sportivi interessati. Conseguentemente, tali programmi dovranno, in larga misura, essere dedicati al miglioramento di tutte le qualità fisiche del soggetto, dando però maggior spazio all’apprendimento delle tecniche sportive specifiche, e all’incremento delle qualità fisiche non necessariamente allenabili, attraverso elevati carichi di lavoro. Si tratterà quindi di migliorare, in particolare, la destrezza, la rapidità d’esecuzione,la mobilità articolare e, in dosi appropriate, le doti di resistenza organica, mentre le qualità relative alla forza muscolare (forza massimale, forza resistente ed esplosiva), potranno essere potenziate in tempi successivi, a sviluppo puberale avvenuto. Requisito fondamentale in età giovanile è la “multilateralità“ del programma di allenamento, il cui scopo principale deve essere sempre quello di ottenere un miglioramento globale di tutte le qualità fisiche, così da consentire al giovane una maggiore duttilità e la possibilità, nel prosieguo, di margini di miglioramento più elevati. L’esercizio fisico deve essere quindi organizzato e strutturato come “allenamento sportivo“, attraverso il quale i ragazzi possono apprendere un’elevata quantità di movimenti. Qualunque sport pratichi l’atleta (adulto o bambino che sia), l’attività specifica non deve risolversi in un esclusivo allenamento unilaterale, impostato esclusivamente ad incrementare una sola qualità fisica. Infatti, un programma di attività fisica “unilaterale e standardizzata“, ha come obiettivo quello di allenare e sviluppare prevalentemente la qualità fisica principale della disciplina sportiva praticata. A tal fine vengono adottati programmi di allenamento che utilizzano pochi e ripetitivi gesti, col rischio palese di rallentare, o ancor peggio, di bloccare i processi di apprendimento motorio del bambino. Al contrario, un allenamento “multilaterale“ favorisce lo sviluppo parallelo delle qualità psicofisiche allenabili nel ragazzo, in quanto utilizza esercitazioni varie, alternate e polivalenti. Pertanto la multilateralità del processo di allenamento, deve essere il principio informatore dell’allenamento in età giovanile. Nel giovane, anche i carichi di allenamento andranno distribuiti in maniera equa tra le numerose qualità fisiche, valorizzando sempre più, nel tempo, quelle specifiche per la disciplina praticata.

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Avviamento alla pratica sportiva. Per una pratica corretta, inizialmente l’allenamento sarà rivolto al miglioramento della destrezza, della mobilità articolare, della agilità, della fluidità ed economia dei movimenti; in definitiva sarà dedicato all’apprendimento di quelle tecniche che rappresentano la base del secondo stadio d’allenamento, cioè quello che sarà intrapreso al momento della specializzazione sportiva. Solo al raggiungimento del 9/10° anno di età, potranno dedicarsi ai programmi di allenamento che saranno rivolti all’acquisizione dell’abilità tecnica specifica in senso stretto. PROGRAMMA DI ALLENAMENTO PER L’ETA’ EVOLUTIVA: TABELLA 2.

1° e 2° anno. 1) Allenamento psicomotorio di base. 2) Mobilità articolare. 3) Agilità. 4) Fluidità. 5) Economia dei movimenti.

► Impegno agonistico graduale ◄ TABELLA 3.

3° anno e successivi. 1) Avviamento allo sport specifico. 2) Specializzazione sportiva.

► Regolare partecipazione a gare ◄

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È altrettanto vero però, che risulta molte volte difficile generalizzare concetti relativi all’età di avviamento alla pratica dello sport, alla specializzazione sportiva e soprattutto alla partecipazione alle gare. Spesso all’età anagrafica non corrisponde un’età fisiologica proporzionata. All’esperienza e alla sensibilità dell’insegnante, sarà affidato il criterio di scelta per l’attuazione di programmi d’allenamento gradualmente più impegnativi, sempre nel rispetto delle caratteristiche psicofisiche individuali e del grado di maturazione biologica del soggetto.

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Discipline sportive per l’età evolutiva. In genere la disciplina sportiva praticata dai giovani in età evolutiva, risente il più delle volte delle scelte e delle preferenze dei genitori. Molto raramente il bambino può decidere in proprio, tanto che quando ciò si verifica,si parla di vera e propria vocazione. In genere questa è molto spiccata, verso quelle discipline sportive più diffuse a livello di informazione, ma è soprattutto l’ambiente familiare, con le sue abitudini e le sue tradizioni, che fa nascere nel bambini la “vocazione“ per uno specifico sport. Tuttavia qualsiasi tipo di attività motoria organizzata, se scelta autonomamente dal bambino, va incoraggiata, in quanto essa possiede i giusti requisiti per motivare adeguatamente il giovanissimo sportivo. Dalla terza infanzia alla pubertà, l’allenamento sportivo deve quindi far parte delle componenti educative irrinunciabili, poiché essa è un’attività tra le più formative della personalità, delle strutture e degli apparati del soggetto in evoluzione psicosomatica. In conclusione, la pratica di un’attività sportiva organizzata da parte dei bambini e dei ragazzi, non solo non è dannosa, ma rappresenta un fondamentale bisogno sia preventivo, sia fisiologico, sia psicologico.

La disciplina del karate per uno sviluppo psicofisico globale. È ormai noto che per i bambini l’agonismo è essenzialmente gioco e, di converso, il gioco è agonismo. La funzione del gioco è essa stessa una realtà, vissuta dal bambino in modo particolare,che si fonda e fa riferimento in egual misura sul confronto e la cooperazione. Il gioco è scuola naturale, un mezzo per decodificare il mondo e, ha una funzione primaria in relazione alle successive fasi della vita adulta. Per questo motivo l’esperienza ludica è essenziale allo sviluppo fisico e intellettuale del bambino. Tra l’altro sembra che il gioco più praticato dai bambini sia la lotta che si manifesta, in forma istintiva, in un rapporto dialettico con la controparte e si identifica, attraverso lo scambio fisico, come forma di interazione – comunicazione più completa e immediata.

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Difatti al bambino non basta il ricorso alla verbalizzazione, per poter esprimere compiutamente se stesso nell’ambito della quotidianità interpersonale. Per quanto riguarda le arti marziali e gli sport di combattimento in generale, l’aggressività, caratteristica naturale di ogni essere umano a garanzia della sua sopravvivenza, non dovrà essere radicalmente repressa, col rischio di produrre deleterie deviazioni ed esplosioni in altre direzioni, ma dovrà essere trasformata e incanalata positivamente sotto forma di determinazione e di forza interiore. Inoltre sarà opportuno vigilare sugli aspetti negativi e devastanti delle paure nascoste, che molte volte possono essere la motivazione occulta di chi si accosta alle discipline marziali, che possono sfociare in episodi di aggressività sbandata e violenza gratuita. In realtà la vera paura da temere, è la paura delle proprie paure, difatti anche la paura fa parte di un meccanismo di difesa atto a garantire la sopravvivenza della specie in cui, a volte, il coraggio si riduce, in ultima analisi, ad una manifestazione di pura e semplice incoscienza. A conti fatti, il ruolo dello sport in ambito sociale, dovrebbe permettere di conseguire un risultato significativo e gratificante, per tutti coloro che vi si dedicano con passione e serietà, soprattutto alle fasce di maggior indigenza economica, ai vecchi, agli emarginati e, con opportuni adattamenti, ai malati e ai portatori di handicap. In quest’ottica il karate, sia come arte marziale, sia come sport, migliorerà le qualità psicofisiche di ciascun individuo, a qualunque livello della scala sociale esso venga a trovarsi, infondendogli sicurezza personale e quella consapevolezza delle proprie reali capacità che, di riflesso, andranno ad interessare e a migliorare la resa di tutta la collettività nel suo complesso. Attualmente il karate può essere suddiviso in due principali correnti: la prima, quella tradizionalista, lo considera un’arte marziale con il suffisso do oppure jitsu, per evidenziare l’aspetto saliente di difesa personale, costruzione della forza interiore e ricerca introspettiva; l’altra invece lo identifica come disciplina prettamente sportiva, dandogli prevalentemente connotazioni di carattere ludico, ricreativo, formativo e competitivo – agonistico. Tuttavia, sia la Via marziale, sia quella sportiva, si propongono entrambe lo stesso obiettivo (anche se le metodiche di attuazione dei procedimenti seguiti, possono apparire a prima vista antitetiche): la possibilità di salvarsi da un’eventuale aggressione o di vincere una competizione sportiva. Difatti lo sport da combattimento può, in ultima analisi, identificarsi in una sorta di ritualizzazione socioculturale della arte marziale, conservandone appieno ogni aspetto formativo ed educativo. Ogni disciplina sportiva, oltre a fornirsi di metodologie generali di lavoro, esige anche un approccio operativo particolare, in ordine agli obiettivi specifici che intende raggiungere. Per il karate in particolare, in aggiunta alle linee programmatiche

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specifiche e aspecifiche, finalizzate ad una utilizzazione armonica delle abilità motorie, dovranno essere considerate anche, e soprattutto per i bambini e per le fasce psicologicamente più deboli, le strategie d’intervento pedagogico, per loro natura assai complessa, che richiederanno ulteriori competenze, sia nell’ambito della psicologia, sia in quello della psico-sociologia. Ciò significa che ogni intervento particolare, dovrà essere visto nella prospettiva del raggiungimento ottimale dell’obiettivo che potrà essere realisticamente raggiunto, utilizzando a tal fine tutti i mezzi che si avranno a disposizione. 1) OBIETTIVI E FINALITÀ. Gli obiettivi e le finalità potranno essere generali o specifici. Difatti nello sport vi è chi sceglie una particolare disciplina per passatempo, chi invece per raggiungere un’ottimale forma fisica, non disgiunta da un evidente beneficio estetico, e chi infine aspira alla conquista di determinati risultati agonistici, soprattutto tra i praticanti più giovani e meno motivati. Ciò nonostante non è raro trovare, soprattutto nelle arti marziali e nel karate in particolare, anche nella fascia giovanile, chi vi si accosta allo scopo di superare determinate insicurezze di fondo e di allontanare paure e timori caratteristici dell’età evolutiva e connesse al tipo di personalità. Ovviamente le naturali predisposizioni soggettive alla pratica di una determinata disciplina sportiva, saranno condizione fondamentale per il conseguimento di un risultato soddisfacente anche in ambito dilettantistico, senza pretendere di sviluppare aspetti chiaramente estranei e avulsi dalla personalità individuale del soggetto. È necessario che l’atleta, di qualunque livello esso sia, si senta incline a seguire le disposizioni impartitegli dall’insegnante, e pronto ad affrontare tutti gli impegni e oneri previsti da un determinato piano di lavoro. Per ottenere la fiducia e la piena disponibilità dell’atleta, l’insegnante tecnico dovrà far leva sulle motivazioni del praticante, e dimostrare grande professionalità, molta accortezza e trasparente realismo. A tal fine sarà indispensabile valutare correttamente i prerequisiti, e creare i presupposti ideali per far crescere ed evolvere positivamente ogni singolo atleta. Per quanto attiene il karate sport, il problema di fondo è più delicato, risultando quello di adattare la mentalità dell’uomo occidentale alla pratica di un’arte marziale orientale, nell’intento di armonizzare e modulare l’uomo moderno, carico di nuove esigenze e portatore di nuove realtà, alla conoscenza e all’accettazione di un’arte antica. Per il karate quindi una soluzione del problema potrebbe essere quella di praticare la disciplina come un’attività psicofisica (evidenziandone l’aspetto

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educativo - formativo della personalità in toto), come arte (nel suo aspetto estetico – formativo della gestualità, nell’equilibrato rapporto mente – corpo), come sport (finalizzato all’aspetto ludico e agonistico competitivo), come difesa personale (nel suo aspetto pragmatico per contrastare eventuali situazioni di pericolo reale, e infondere nel praticante condizioni idonee per il maturarsi di sicurezze psicobiologiche di fondo). Un altro approccio metodologico è quello di considerare il karate, come anticamente concepito, nel suo aspetto prettamente morale e cioè karate-do, vale a dire come Via, metodo di realizzazione personale nella vita e dunque come tecnica integrale per raggiungere risultati importanti, in relazione alle proprie capacità e potenzialità di base. Difatti il karate, se oculatamente praticato, può condurre all’ottimizzazione delle prestazioni personali, in ambito multidirezionale, promuovendo le abilità evolvibili in ognuno, e supplendo con tali abilità acquisite alle eventuali carenze costituzionali di origine. Così alla scarsità di forza, può supplire l’acquisizione e l’applicazione dell’azione sinergica e coordinata; alla carenza innata di rapidità gestuale o di lentezza di riflessi, può supplire la corretta coordinazione gestuale; all’insufficiente velocità motoria, possono supplire fluidità e destrezza, frutto della pratica costante, oltre al fattore imprescindibile della coordinazione, capace di conferire agilità ai soggetti intrinsecamente più impacciati. 2) IL KARATE COME SOCIALIZZAZIONE. Il karate, disciplina marziale sviluppatosi in un contesto sociale e in un mondo a noi lontani, sia nel tempo sia nello spazio, sotto il profilo socio culturale per molti versi antitetico rispetto al nostro, conserva anche oggi un patrimonio di valori etici e morali, che ne hanno fatto per lungo tempo un importante strumento pedagogico nella società del Sol levante. Da un’analisi dei processi di socializzazione in atto nella società attuale, si evince che lo sviluppo e la diffusione della pratica degli sport di combattimento, e del karate in particolare, trova molti proseliti tra i giovani soprattutto, anche se non esclusivamente, sull’onda del successo dei numerosi film d’azione, proposti con sempre maggior frequenza da cinema e televisione. Per prima cosa sarà bene distinguere la socializzazione in primaria e secondaria, in cui con la prima si intende quella fase di apprendimento che, durante l’infanzia, affronta e che lo integrerà a pieno titolo come membro della società, mettendolo in grado di rispondere e soddisfare alle sue aspettative. La socializzazione secondaria, invece, viene riferita al processo di apprendimento di un individuo adulto, già in possesso della socializzazione primaria, che viene messo

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in condizioni di potersi adattare alle aspettative di comportamento, impostegli da nuovi ambienti sociali o nuovi gruppi di riferimento. Entrambe le forme di socializzazione, sono basate sui meccanismi dell’ identificazione e della interiorizzazione. Per identificazione si intende un processo nel quale un individuo si cala nella situazione di un altro, assumendone il ruolo e gli atteggiamenti. L’interiorizzazione è invece l’attitudine che consente di accettare “le norme e gli atteggiamenti“ socialmente sanzionati, per effetto di processi di identificazione già avvenuti nel repertorio squisitamente personale, dei modelli d’azione di cui si è fatta esperienza ad un livello soggettivo e autonomo. In termini generali, l’individuo tende ad identificarsi con le persone che hanno influenza su di lui, né fa propri i ruoli ed i loro atteggiamenti e, tramite tale identificazione, arriva ad acquisire una propria identità. Per tutte quelle discipline sportive, che prevedono attività o dinamica di gruppo, debbono essere utilizzati opportuni accorgimenti, indispensabili al buon funzionamento di un corso. Nel karate bisogna tener presente una considerevole varietà di fattori, oltre a quella relativa alla suddivisione generica in gruppi di principianti ed esperti, anche perché questo tipo di suddivisione non lo si può assumere in valore assoluto. Infatti è ormai provato che il lavoro in gruppi diversificati, stimola l’apprendimento per il trasferimento di preziose informazioni dai più esperti ai meni esperti. A parte questa considerazione, i principali fattori da valutare per la formazione dei gruppi almeno a livello teorico, dovrebbero essere i seguenti:

1) Per età: corsi specifici per bambini, anziani, amatori e agonisti nelle varie categorie.

2) Per sesso: se il gentil sesso non intende frequentare corsi misti. 3) Per esperienza di pratica: kyu – dan. 4) Per finalizzazione degli obiettivi: formazione di squadre agonistiche,

formazione di gruppi per la difesa personale ecc. 5) Per orari di attività dei partecipanti: scelte compatibili con le esigenze di

lavoro, studio, famiglia, svago ecc. È ormai un dato di fatto, accettato da tutti, che il karate può essere classificato come arte marziale e quindi mezzo di difesa personale, sia come Via di realizzazione interiore (Do), sia come attività ludico motoria, in funzione di uno specifico obiettivo sportivo – agonistico o non agonistico (amatoriale). Ciò che è importante e imprescindibile, nella pratica del karate, è il suo aspetto educativo formativo. Inoltre il rapporto tra docente e discente assume spesse volte aspetti particolari dove l’insegnante, sia esso allenatore, istruttore o maestro si delinea

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come una figura mitica che trascende quella di un comune insegnante, inteso nella normale accezione della mentalità occidentale. Un tecnico preparato e attento, soprattutto se in contatto con allievi molto giovani, dovrà far si che la fiducia nella figura dell’insegnante, favorisca il desiderio di apprendere con impegno e soddisfazione, badando bene che il prestigio così conquistatati, non sopprima lo sviluppo del senso critico e la creatività del giovane atleta, generando in lui forme di deleterio fanatismo.

Prospettive scolastiche. Nello svolgimento di qualsiasi attività motoria, l’apprendimento da parte dei bambini è sostanzialmente imitativo. A questa prassi non si sottrae il karate, in cui l’apprendimento è focalizzato sulla forma delle tecniche, piuttosto che sulla loro intrinseca potenza ed efficacia reale. Come abbiamo già puntualizzato, nella fascia di età compresa tra i 9 e i 14 anni, si rivelerebbe di fatto negativa la scelta di un allenamento spinto all’eccesso, rivolto principalmente allo sviluppo della forza, mentre al contrario sono utili e costruttive stimolazioni mirate ad un adeguato lavoro aerobico, per lo sviluppo della resistenza alattacida, con chiari ed evidenti vantaggi difficilmente recuperabili in età più avanzata. Soprattutto nella fascia dell’età scolare, l’insegnamento del karate diventa l’arte di presentare la disciplina marziale come gioco serio, impegnativo ma divertente e gratificante per chi lo pratica, sia come allievo sia come insegnante. In quest’ottica il karate si dimostra una disciplina educativa, adatta anche alla mentalità occidentale; diviene cioè una vera e propria materia di insegnamento, che può essere tranquillamente integrata nel sistema scolastico istituzionale, con un suo preciso inserimento nei curricoli previsti dal Ministero della Pubblica Istruzione. Il karate potrebbe quindi essere proposto inizialmente come attività parascolastica ed integrativa nei vari ordini di scuole, e in un secondo tempo come vera e propria possibilità di scelta alternativa all’educazione fisica, in quelle scuole che si renderanno disponibili a questa forma di collaborazione.

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Metodologia di base per una corretta pedagogia del karate. Di norma, quando si parla di apprendimento, non si intende mera e astratta cognitività, ma si parla di risultato formativo derivante da un’esperienza articolata e integrale di elementi conoscitivi, affettivi, emotivi, concettuali, analitici e operativi. Trasmettere la conoscenza di una disciplina affascinante e, per molti versi, sconosciuta a noi occidentali, non significa parlare solo di concetti generali a dei praticanti seppur motivati, ma piuttosto consentire la percezione, individuo per individuo, di un’arte che trascende i limiti di un semplice sport (i shin den shin). Ciò in realtà conferisce alla figura del maestro un aspetto carismatico che, in alcuni casi, può condurre alla deificazione di un’immagine spesso solo ipotizzata. Ma è altrettanto vero che l’eliminazione di tale carisma, potrebbe portare ad una mancanza di rispetto da parte degli allievi, dando ragione al proverbio nostrano per cui “la troppa confidenza toglie la riverenza“. Difatti la mancanza di rispetto nei confronti del maestro, conduce inevitabilmente alla negazione delle sue qualità d’insegnante, e in seguito al disconoscimento dei valori della disciplina da lui insegnata. Inoltre, una siffatta mentalità, incoraggia gli allievi a lasciarsi andare a comportamenti irresponsabili e sciatti nell’ambito del luogo di pratica (dojo). Il praticante non si identificherà più come “allievo”, ma piuttosto come utente – cliente, fruitore di un servizio a pagamento, con la protervia di chi, pagando, accampa il diritto di fare ciò che vuole. Si parla di vero apprendimento, quando si esce dalle passive meccanicità, cioè quando tutte le esperienze del soggetto si integrano per costruire le sue strutture cognitive, che andranno a far parte del suo vissuto psicologico nei rapporti col reale. Il vero ed autentico apprendimento dovrà essere orientato verso la memoria a lungo termine, e dovrà scaturire da informazioni vissute come scoperte significative, capaci di integrarsi nella complessa struttura del sistema cognitivo, e di interagire in connessione logica col patrimonio “culturale“ già sedimentato nel tempo e costruito per il tramite delle esperienze pregresse. Per ottenere dei validi risultati in fatto di apprendimento, l’insegnante dovrà necessariamente ricorrere all’elaborazione di un piano di lavoro, basandosi su un determinato modello didattico – operativo, su cui costruire una programmazione. È indiscusso che la più grande soddisfazione per un tecnico, sia quella di riuscire a costruirsi il proprio dojo in cui insegnare, per dimostrare di essere in grado di

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distinguersi per la chiarezza degli orientamenti, per la serietà dell’impostazione e per la qualità pregevole ed originale di ciò che è in grado di produrre. Il “prodotto“ sono i risultati tecnico – disciplinari, agonistici, educativi ed etico –sociali in rapporto al contesto in cui si viene ad operare, e alle finalità di base che una determinata “scuola“ si prefigge. A monte di queste problematiche sta la capacità di organizzare e gestire i processi di apprendimento, poiché se il praticante non “apprende“, non si otterrà alcun risultato. Ormai è noto che l’intelligenza umana è retrospettiva e proiettiva, cioè capace di elaborare una memoria ragionata del passato e di configurare una aspettativa prevedibile del futuro, intesa come progetto da realizzare. A tal proposito è indispensabile aver ben chiaro il concetto di tassonomia, trasferito in ambito cognitivo e didattico. Il metodo tassonomico, mutuato dai criteri sistematici delle scienze naturali, costituisce un sistema di classificazione pedagogico – logico – didattico delle mete educative. La tassonomia, come principio generale di classificazione, serve alla sistematizzazione degli eventi e delle loro relazioni, ed ingloba regole strutturali che non ammettono la presenza di elementi arbitrali: i fenomeni devono essere ordinati in modo tale da poter cogliere le relazioni e le interconnessioni sussistenti tra di essi. Un modello didattico – operativo generale, potrebbe essere così strutturato: a) formulazione degli obiettivi, nel tempo (breve, medio e lungo) e nelle qualità

(generali e specifiche);

b) acquisizione di conoscenze tecniche, su origine sviluppo e diffusione della disciplina specifica ed eventuali affinità e differenze rispetto ad altre arti marziali tradizionali, con informazioni e chiarimenti sulla logica dell’aspetto tecnico della pratica disciplinare e sulla scientificità del metodo. Nel suo versante agonistico sportivo, è indispensabile fornire corrette informazioni sulle regole di gare, con nozioni di arbitraggio. Inoltre sarà opportuno inserire, in un contesto di facile comprensione, cenni di anatomia, fisiologia e primo soccorso;

c) procurare abilità con l’acquisizione da parte dell’atleta di abilità psicofisiche,

atletiche e tecniche, tattiche e strategiche mediante idonee esperienze, con un opportuno sviluppo delle capacità condizionali e coordinative.

Inoltre sarà compito dell’insegnante tecnico quello di affinare, nel praticante, la capacità di padroneggiare un appropriato numero di forme (kata), nella comprensione delle loro funzioni formative molteplici, con incluse le idonee tipologie applicative (bunkai). Così come dovrà essere appresa la padronanza degli spazi e dei tempi

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(timing) nelle varie forme di combattimento con versatilità, inventiva e comprensione della situazionalità nel combattimento libero (kumite); d) modificazione dei comportamenti facendo leva sullo spirito di gruppo, favorendo e

promuovendo i processi di socializzazione, l’accettazione del “diverso“, la sportività, la correttezza agonistica, con una serena quanto indispensabile accettazione di una eventuale sconfitta in gara.

L’essere umano, dal momento della concezione fino ad una determinata età, segue un programma di sviluppo che implica una crescita controllata, limitata e finalizzata all’equilibrio vitale dell’organismo stesso. È bene precisare, tra l’altro, che la “crescita“ fine a se stessa di un organismo vivente, rappresenta unicamente un aumento di massa in modo amorfo o eventualmente riferito a forme semplici, in funzione delle quali l’arresto della crescita si verifica per l’eccesso di crescita stessa, la quale necessariamente conduce all’autodisfacimento. Lo “sviluppo“, invece, funziona su base sistemica genotipica complessa, ed obbedisce ad un programma strutturale progressivo, fino a completo compimento del fenotipo, in cui il replicarsi delle cellule segue percorsi progressivi di differenziazione, al fine di costruire organi diversamente strutturati e dunque preposti a diverse funzioni; in campo psicologico non si parlerà di crescita ma, semmai, di maturazione.

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Bambini e fasce d’età. Il bambino deve essenzialmente giocare, perché quella del gioco, in tutte le sue espressioni, è l’attività realtà dominante. Però il karate, che non è un gioco, deve essere vissuto lo stesso dal bambino come un gioco. Il rapporto con la figura dell’educatore è importantissimo, poiché tende ancora ad essere fortemente individualizzato, per cui gli scambi comunicativi di qualunque genere, sono sempre vissuti come personali e diretti. Dal punto di vista motorio, non vi è molta differenza tra i 6 e gli 8 anni, in cui l’apprendimento è prevalentemente imitativo e la comunicazione verbale è di interesse marginale. All’età di 9/10 anni, si affina e si incrementa lo spirito di collaborazione, e l’atteggiamento critico nei confronti degli adulti, può esasperarsi fino a raggiungere la vera e propria ribellione. Il gioco, in questa fascia d’età, sarà strutturato e organizzato in funzione del più alto livello intellettivo e delle più raffinate abilità, nella gestione del corpo, mostrate dal soggetto, ciò nonostante devono essere considerate nocive e controproducenti eventuali specializzazioni sportive precoci. Il giovane di età compresa tra i 10 e i 12 anni, inizia a manifestare aspetti costituzionali che assomigliano sempre di più a quelli propri dell’adulto; in ogni caso, è bene fare un distinguo tra maschi e femmine per quanto attiene l’attività motoria in genere, in funzione delle particolari strutture morfologiche e psicologiche che caratterizzano i due diversi sessi. Anche in questa fase è preferibile lavorare sull’affinamento della coordinazione, sull’equilibrio e sullo sviluppo della velocità. “Cum grano salis“, si potrà anche intervenire sull’acquisizione di una maggiore resistenza nel tempo (aerobica) a carico naturale, mentre lo sviluppo della forza dovrà essere necessariamente procrastinato. Per tale motivo sarebbe opportuno rimandare l’allenamento sportivo vero e proprio (spesso mirato a forme di agonismo precoce), almeno fino al raggiungimento dei sedici anni per le ragazze e i diciassette anni per i ragazzi. Ogni attività motoria pregressa, dovrà essere ideologicamente intesa come “educazione fisica“, oppure come “ginnastica preatletica“. Per quanto attiene l’attività fisica per le varie fasce d’età, sarà opportuno riferirsi ad un lavoro così ripartito.

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1) Da 6 anni alla pubertà: attività sportiva libera, non rigidamente strutturata, non di resistenza anaerobica lattacida e non per lo sviluppo della forza nei suoi vari aspetti.

2) Durante la pubertà: attività sportiva adeguatamente organizzata, polivalente e quindi non unica e specializzata, non di resistenza anaerobica lattacida e con un lavoro di sviluppo della forza appena accennato e valutato con oculatezza caso per caso.

3) Dopo la pubertà: dopo i 15/16 anni per le ♀ e 17/18 anni per i ♂, sarà possibile un’attività sportiva organizzata senza limitazioni di sorta, con un’intelligente valutazione per ogni soggetto del rapporto tra età biologica ed età cronologica.

Per quanto attiene specificamente il karate, il ragionamento si fa più complesso, trattandosi di un’attività atletica anaerobica/aerobica, con un elevato impegno nervoso in termini di rapidità, nel rapporto stimolo-risposta. Il karate infatti manifesta entrambi gli aspetti delle classiche attività atletiche, suddivise in base al maggior impegno nervoso o muscolare, rientrando sia in quelle di tipo prettamente nervoso, in cui è richiesta una particolare finezza e precisione dei movimenti (motorismo, aviazione, scherma ecc.) e di tipo prettamente muscolare che prevede:

a) prestazioni a breve durata, anaerobiche alattacide, a spese delle riserve energetiche accumulate nei muscoli;

b) prestazioni di sforzo nel tempo anaerobiche lattacide, contraendo un debito d’ossigeno più o meno grande;

c) prestazioni di lunga durata aerobiche alattacide, a spesa dell’energia prodotta dalle reazioni ossidative, con il massimo consumo d’ossigeno.

Pur tenendo presenti questi dati fondamentali, bisognerà all’occorrenza ricorrere a particolari strategie quando si dovrà operare con soggetti in età evolutiva, specialmente per l’età compresa tra i sei e i dieci anni. Per quanto riguarda il karate, un obiettivo finale raggiungibile dai soggetti in crescita e formazione, potrebbe essere quello di acquisire la capacità generale di padroneggiare la “sintassi motoria“ della disciplina specifica. Il tecnico, a sua volta, nell’espletare la sua funzione di educatore, non dovrà apparire come un despota capace solo di impartire noiosi ordini, dovrà invece sforzarsi di essere un animatore, un organizzatore e coordinatore di attività, il più delle volte molto divertenti. Ciò procurerà un tipo di rispetto, da parte degli allievi, derivante non da imposizioni e timori, ma da ammirazione ed affetto.

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Il rapporto “maestro-allievo“ dovrà essere biunivoco sotto il profilo della sollecitazione reciproca; difatti gli allievi che lavorano seriamente e bene, stimolano a loro volta il maestro a lavorare bene e viceversa. Si dovrà inoltre praticare il karate (Do), secondo lo spirito tradizionale della disciplina, senza peraltro dimenticare l’aspetto ludico (gioco) e funzionale (socializzazione) proprio del karate sportivo moderno. Sotto il profilo prettamente pedagogico, onde raggiungere gli obiettivi prefissati, sarà opportuno attenersi ad un’appropriata metodologia didattica che preveda:

1) Lo sviluppo progressivo di concatenazioni delle sequenze d’azione a schema complesso chiuso (kata) o aperto a più soluzioni situazionali (kumite), combinando gli spostamenti con movimenti di braccia e gambe con finalità variabili, padroneggiando l’equilibrio e il controllo oculo-motorio.

2) Favorire la capacità di un più attento controllo posturale e motorio nell’esecuzione di esercizi misti, come spostamento rapido nell’abbinamento di parata e contrattacco con spostamenti o variazione di posizione, la capacità di bloccare un movimento con padronanza tonico muscolare ecc.

3) Facilitare il contatto fisico corporeo con la realtà. Il bambino deve prendere coscienza della realtà toccandola, sviluppando i recettori delle sue capacità esterocettive con una ricaduta positiva, per via integrativa, anche sulle sue capacità propriocettive.

4) Elaborare esercizi idonei e variabili per sviluppare, dal punto di vista applicativo, le specifiche tecniche di karate, dove l’utilizzo delle tecniche di calcio si rivelano molto importanti per la funzione di percezione e di esecuzione, attraverso la regolazione della forza-spinta e la ricerca di affinamento della mobilità articolare.

5) Esercitare la coordinazione oculo-segmentaria, con l’esecuzione delle tecniche di braccia e di gambe combinate tra loro, in cui verrà favorita l’attività di collegamento campo visivo – motricità fine (mani-dita).

6) Stimolare la percezione del corpo, sollecitando nel soggetto la disponibilità al movimento, facendogli sentire la propria mobilità corporea e flessibilità articolare, ponendo attenzione che l’atleta utilizzi negli spostamenti solo la muscolatura necessaria al movimento specifico, eseguendo in modo corretto contrazioni e decontrazioni.

Nell’ambito delle attività motorie e sportive, è bene operare una distinzione tra il concetto di cadenza e quello di ritmo. La cadenza porta con sé l’idea di invariabilità, mentre il ritmo implica la variabilità e diviene cadenzialità mutevole, dove la volontà è in grado di controllare e gestire le scansioni ritmiche variabili in base a schemi preordinati o a scelte improvvisate, ma connesse alla coerenza intrinseca di determinate abilità acquisite.

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La pratica del karate è strettamente connessa alla questione del ritmo. Si parte da una sorta di “ritmo interiore” connesso al respiro (kokyu), che implica una interiorizzazione del tempo, come se la stessa realtà, esterna-oggettiva, non esistesse di per sé, ma divenisse una funzione della realtà interna, dove la realtà è in effetti “transazionale“, cioè il prodotto dell’osservatore con la cosa osservata, ossia del soggetto che percepisce e dell’oggetto che viene percepito. La realtà interiore soggettiva e la realtà esteriore oggettiva interagiranno tra loro, definendo una nuova realtà detta “onnigettiva“. Il karateka deve esprimere nel kumite la padronanza dello spazio – tempo ed uniformarsi all’idea del vuoto (vuoto mentale), che non significa il nulla, ma piuttosto l’eliminazione del superfluo ossia riduzione di tutto all’essenziale, in sintonia con quanto affermava nel XVI secolo Leonardo Da Vinci: ”…l’essenziale è perfetto“. I kata sono il complesso dei codici informatici totali del karate, mentre il ki hon rappresenta il processo di acquisizione dati e di apprendimento dei parametri e degli algoritmi di base, per l’elaborazione delle strutture espressive della disciplina. Il kata e il kumite rappresentano rispettivamente l’aspetto immaginifico ed inventivo del karate, che a sua volta è una sorta di musica gestuale, da eseguire con tutto il corpo, che agisce in perfetta sintonia con la mente, e interagisce in modo ottimale con l’ambiente. Bisogna stare attenti e distinguere l’immaginazione dalla fantasia: l’immaginazione infatti è la facoltà di rappresentarsi delle immagini, la fantasia invece è la capacità inventiva di elaborare novità strutturali ed espressive. Nel kata è necessario immaginare avversari e situazioni, nel kumite è invece necessario inventare soluzioni e situazioni. Per i più piccoli il kumite è per sua natura un gioco, che si inventa da soli per creatività analogica. Il kata invece è occasione di rappresentazione e drammatizzazione della realtà: è di per sé spettacolo di immaginazione oltre che integrale fonte cognitiva. Il ki hon, a sua volta, implica capacità assimilativo – proiettive, e rende possibile la decodificazione dei kata e la codificazione del kumite; si tratta quindi di strutture schematiche aperte, con funzioni tecnico – organizzative. Il kata implica capacità di analisi e predisposizione ricettivo – riproduttiva, mentre il kumite sottintende una capacità di sintesi e predisposizione esplicativo – produttiva. Il kata può considerarsi come una sorta di “poesia“ fatta da movimenti e recitata dal corpo, con un’intensa partecipazione emotiva (mente e cuore / yi e hsin).

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La perfezione tecnica ed estetica vanno di pari passo e, mancando l’estetica, viene meno la premessa dell’armonia esecutiva. Non si può infatti stravolgere un testo poetico, deformandone la struttura o fraintendendone le parole, o leggendolo nell’ignoranza delle sue regole intrinseche, dei suoi significati e dei suoi obiettivi più significativi. Il kumite rappresenta una sorta di libera interpretazione delle prassie motorie acquisite, ove la libera espressione soggiace comunque ad una serie di regole predefinite. Mentre nel kata le regole sono interne, tecnico – schematiche, intrinseche alla natura stessa di quel tipo di esercizio, nel kumite le regole sono esterne per la maggior parte di tipo arbitrale e relative al controllo. La percezione dello spazio-tempo è funzione della velocità d’esecuzione del movimento. L’atleta dovrà essere messo in grado di muoversi con sicurezza, dove questa facoltà nasce dalla consapevolezza di possedere un adeguato bagaglio tecnico e di essere in grado di esprimerlo correttamente. Il bagaglio tecnico è ciò che si ottiene tramite un lavoro progressivo di affinamento di tutte le abilità psicofisiche necessarie ad una buona espressione del kumite. Bisognerà inoltre abituare il soggetto alla comprensione di certe geometrie che, tranne il caso in cui si abbia a che fare con atleti di alto profilo, tendono ad essere per loro natura spontaneamente ripetitive. Sarà indispensabile altresì abituare gli allievi a correggere eventuali tendenze a reiterare i propri schemi di combattimento, per non essere prevedibili e dunque sconfitti da avversari sufficientemente accorti. In definitiva quindi tutto ciò, associato alla capacità di rompere le cadenze e di variare i ritmi, integrato con la capacità di variare tattiche e concatenazione di tecniche (sintassi motoria strutturata e finalizzata), con il sostegno delle possibilità di impostare strategie intelligenti e articolate, costituisce il bagaglio tecnico indispensabile per la corretta ed efficace gestione del kumite. La formazione di un karateka è soprattutto valutabile dalla maturazione del suo bagaglio tecnico visibile, in prima battuta, dall’espressione del suo kumite. Il kata invece, può rivelare il raggiungimento di importantissime abilità, ma esso rimane sempre subordinato al kumite dal punto di vista delle capacità e abilità sportive generali. Il moto per sua natura, non solo propizia lo sviluppo muscolare sotto il semplice profilo biomeccanico (la funzione crea l’organo), ma sviluppa anche la funzionalità del sistema nervoso stesso. Inoltre l’attività muscolare favorisce e migliora i processi nutritivi e lo stato di nutrizione, mediante un’adeguata accelerazione della

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circolazione sanguigna, l’attivazione del ricambio, l’aumento dell’appetito e così via. L’attività muscolare favorisce anche la respirazione e la vascolarizzazione tessutale, conducendo ad una più intensa ossigenazione dei parenchimi, rivelandosi benefica anche sotto il profilo bioenergetico. Le attività motorie concorrono nel processo di maturazione dell’autonomia personale, inoltre attivano gli apparati cardiovascolare, respiratorio, nervoso e osteoarticolare, oltre a concorrere ad un miglior sviluppo staturo-ponderale. Attraverso le attività motorie l’individuo prende coscienza degli spazi e dei tempi, e percepisce il suo corpo come mezzo d’azione e strumento di interazione col mondo circostante; in altre parole stimola le capacità percettive e di memorizzazione, consentendo un più equilibrato sviluppo fisico e mentale. L’individuo potrà interagire con l’ambiente in cui si trova ad operare, secondo due differenti modalità: 1) con un ambiente costante: in cui l’effettuazione del movimento è dovuta ad una attività, che dipende essenzialmente da informazioni propriocettive e dalla memorizzazione esatta dei movimenti che debbono essere compiuti. Il kata di karate è una “closed skill“, poiché è codificato e quindi è noto l’ambiente nel quale viene effettuata la prestazione, ed è nota la sequenza motoria da effettuare. Esso rientra quindi nelle specialità di tipo prevalentemente compositorio, in cui il gesto atletico si valuta tenendo conto dei parametri di difficoltà e di qualità di esecuzione; 2) con un ambiente variabile; dove se questo è naturale esiste la necessità, da parte dell’atleta, di risolvere le problematiche inerenti la morfologia del luogo specifico. Nel caso in cui l’ambiente sia codificato (luogo di gara), la variabilità dello stesso sarà determinata dai comportamenti motori degli individui presenti e interagenti sulla superficie di gara. Il kumite rientra quindi in quest’ultima categoria (open skill), in cui necessita, da parte dell’atleta, il possesso di capacità neuro-psico-motorie in antitesi con quelle proprie degli sport compositori. Per meglio valutare le differenze esistenti tra closed skill e open skill, sarà bene ricordare che, nella prima, la qualità dell’espressione motoria dipenderà, in maniera predominante, dalla qualità delle mappe cognitive dell’esecutore della forma, nonché dal suo apparato di locomozione. Nell’open skill invece, l’inizio dell’azione principia poiché nel mutevole contesto situazionale, è apparso lo stimolo – segnale che fa scattare la risposta in un tempuscolo compreso tra i 15 e i 20 centesimi di secondo. L’efficacia dell’atleta dipenderà quindi dalla qualità e dall’organizzazione delle mappe cognitive elastiche presenti nella sua memoria.

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Difatti, a volte, si possono osservare praticanti eseguire tecniche potenti e ben coordinate a vuoto (ki hon / kata), mentre le stesse risulteranno inadeguate in combattimento contro un avversario, a causa di un erroneo apprezzamento nella scelta di tempo (timing), della distanza (ma), nella coordinazione e nell’equilibrio. Il ki hon e il kata si integrano perfettamente nella costruzione delle mappe rigide. Per il kumite invece, bisogna utilizzare una metodologia completamente diversa, per poter creare mappe elastiche in cui il lavoro preponderante sarà imperniato sulle interazioni tra strategia, tattica e tecnica. Il kata e il kumite possono considerarsi due forme diverse per relazionare, armonizzandola, la propria interiorità col mondo esterno in cui, sotto il profilo della pura percezione, le capacità propriocettive ed esterocettive interagiranno in modo coerente, per produrre la sensazione vera del reale, nel suo aspetto oggettivo o virtuale.

Karate educativo. Il soggetto aggressivo non sarebbe tale, perché porta dentro di sé una generica pulsione aggressiva irrefrenabile, quanto piuttosto perché reagisce ad un ambiente interpersonale talvolta punitivo e comunque frustrante, che lo spinge ad assumere determinate modalità di risposta, proprio come mezzo di controllo della propria situazione personale. Alcuni studi psicologici considerano il comportamento di un individuo, come il prodotto dell’apprendimento e del condizionamento al quale viene sottoposto. Per tale motivo i meccanismi attraverso i quali si acquisiscono i comportamenti positivi, non differiscono da quelli che procurano comportamenti devianti. Per modificare un comportamento, bisogna individuare il comportamento anomalo, che deve essere aumentato o diminuito, oltre ai singoli fattori che lo determinano. La pratica del karate, si prefigura al riguardo come una sorta di psicoterapia mirata al riequilibrio delle funzioni psicofisiche, che consente di recuperare una relazione più gratificante col mondo e con se stessi. Attraverso la pratica del karate, l’aggressività viene incanalata in modo corretto; la distanza dagli altri diminuisce attraverso le forme di combattimento, si stabiliscono

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relazioni più intime e affettive mediante il contatto corporeo, che non sarà vissuto come un’aggressione, ma piuttosto come un sano confronto. Senz’altro saranno favoriti corretti comportamenti relazionali, acquisizione di abilità, capacità di controllo e soluzione dei problemi. Attraverso il confronto con l’altro, l’allievo conseguirà la necessità di rispettare le regole ed il rispetto delle stesse. Imparerà a misurarsi con gli altri, a superare l’egocentrismo, scoprendo la possibilità di muoversi in modo più disinvolto e coordinato nel suo ambiente vitale. La nuova consapevolezza delle possibilità del proprio corpo, gli consentirà di stabilire rapporti interpersonali più gratificanti, agevolando nel contempo sia la comunicazione sia la maturazione della personalità. Attraverso le esperienze di esplorazione e scoperta, toccando, esaminando e usando le varie parti del corpo, sarà favorita la costruzione dello schema corporeo nel suo aspetto globale e segmentario, statico e dinamico. La rappresentazione dell’immagine del proprio corpo nei suoi diversi aspetti, favorirà la consapevolezza corporea, le capacità propriocettive e la lateralità, attraverso le strutture motorie statiche e dinamiche in attività di movimento su schemi liberi (kumite) o prestabiliti (ki hon – kata), in forma individuale o collettiva. Inoltre si stabilizzerà e si favorirà l’acquisizione dei concetti relativi allo spazio e all’orientamento, al tempo e alle strutture ritmiche. Con attività più complesse, potrà essere raggiunta una motricità più ricca ed armoniosa, con un netto aumento nella fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.

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Conclusione. Quale conclusione trarre da quanto scritto sul karate e sullo sport in genere? Forse che lo sportivo, bambino, ragazzo o adulto che sia, atleta principiante, amatore o di alto profilo, diventerà un modello di virtù? Probabilmente non sarà cosi. Quello che è certo però è che, in un modo o nell’altro, esso potrà trarne sempre notevole giovamento. Difatti la pratica del karate, insegnato rispettando le direttive federali impartite dalla FIJLKAM, apporterà benefici non solo fisici, come un semplice sport può dare, ma anche e soprattutto farà di ciascun atleta un individuo maturo, responsabile e sicuro di sé. La persona timida arrossirà e balbetterà meno; il pauroso, timoroso di tutto e di tutti affronterà, di buona grazia, situazioni da cui prima sarebbe fuggito inorridito; la ragazza scontrosa saprà farsi delle amiche e l’insolente risponderà al padre con minor protervia. Adolescenti ostinati, ribelli, pronti a qualsiasi violenza pur di provare d’essere i più forti, gradualmente si calmeranno, rendendosi conto che lo sport può offrirgli validi mezzi alternativi per mettere in rilievo la loro forza. Lavorando con accanimento per trovare un giusto equilibrio psicofisico, gli impulsivi, incapaci di resistere alle loro tentazioni, impareranno a dominare prima i loro gesti, poi le loro emozioni e, infine, i loro istinti. Queste trasformazioni non avverranno in un giorno, bisognerà avere pazienza e saper attendere e perseverare; a volte sono richiesti mesi, anni, con ricadute e delusioni. Lo si è verificato in tutti i paesi del mondo, in cui ci si è sforzati di risolvere efficacemente il problema del disagio giovanile, con queste metodologie applicative. Gli sportivi, i veri sportivi, anche se di ambiente e di ceto molto diverso, spesso si riconoscono tra loro semplicemente dal modo di vivere e di considerare la vita.

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