tesi di laurea oltre medea: madri assassine e padri...
TRANSCRIPT
-
1
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di Laurea in Lettere
Tesi di Laurea
OLTRE MEDEA:
MADRI ASSASSINE E PADRI SACRIFICATORI
FRA MITO, RITO E CRONACA
Laureanda: Relatore:
LARA LAFFRANCHINI Prof.ssa ILEANA CHIRASSI COLOMBO
Correlatore:
Prof.ssa LETIZIA BINDI
ANNO ACCADEMICO 2002-03
-
1
INDICE:
INTRODUZIONE: _______________________________________________________ 3
CAP. 1: IL FIGLICIDIO MITICO__________________________________________ 6
1.1 - L’“ALTRA” MADRE: MADRI ASSASSINE NEL MITO GRECO ____________ 9
a) Un caso classico: i figli di Medea__________________________________________ 11
b) Figlicidio e mania: le madri “impazzite”. Cadmeidi, Pretidi, Miniadi…____________ 24
c) Vendetta e cannibalismo: i casi di Edona e Procne ____________________________ 31
1.2 - IL FIGLICIDIO PATERNO NEL MITO GRECO __________________________ 33
a) La mania, l’errore, la “punizione” _________________________________________ 34
b) Eracle: un caso “eccezionale”_____________________________________________ 36
c) Alcuni “sacrifici” anomali: _______________________________________________ 39
d) Il modello del padre devoto: il sacrificio del figlio nel mito greco ________________ 40
1.3 - I SACRIFICI DEL FIGLIO NEI “MITI” SEMITICI ________________________ 45
CAP. 2: FIGLICIDI, UCCISIONI RITUALI E SACRIFICI. UN EXCURSUS ____ 65
2.1 - SACRIFICI UMANI E UCCISIONI RITUALI NELLA GRECIA ANTICA. MITO E
PRASSI RITUALE_______________________________________________________ 65
2.2 – L’INTERPRETAZIONE INIZIATICA___________________________________ 74
CAP. 3: IL “MITO” DEL RITO SEMITICO ________________________________ 79
3.1 – IL SACRIFICIO SEMITICO: L’OFFERTA DEI PRIMI NATI E IL RITO
“MOLOCHITICO” _______________________________________________________ 79
3.2 – IL “MITO” DELL’INFANTICIDIO RITUALE NELL’ACCUSA AGLI EBREI __ 94
3.3 – IL SANGUE DEL BAMBINO ________________________________________ 114
CAP. 4: LA MESSA A MORTE NECESSARIA_____________________________ 117
4.1 – BURKERT, GIRARD E IL “GENE” DELLA VIOLENZA__________________ 117
4.2 – L’UCCISIONE “ORIGINARIA” IN FREUD_____________________________ 128
4.3 – LA MORTE DEL “DEMA” __________________________________________ 130
-
2
4.4 – LA VIA IRRAZIONALISTA: ELIADE E IL COLLEGIO DI SOCIOLOGIA ___ 133
4.5 – LA SCUOLA STORICO-RELIGIOSA E IL CONTRIBUTO DI ERNESTO DE
MARTINO ____________________________________________________________ 138
CAP. 5: I “SACRIFICI” NELLA CRONACA ______________________________ 143
5.1 – INFANTICIDIO E “ISTINTO MATERNO” _____________________________ 151
5.2 – IL FIGLICIDIO OGGI: ATTO RITUALE O ASSASSINIO? ________________ 162
BIBLIOGRAFIA: ______________________________________________________ 173
SITOGRAFIA: ________________________________________________________ 187
VOCI ENCICLOPEDICHE:_____________________________________________ 189
-
3
INTRODUZIONE:
La presente ricerca si occupa principalmente del tema del cosiddetto
“figlicidio”, l’uccisione di un figlio già cresciuto da parte del genitore, nella
ricchezza delle sue implicazioni.
Certo essa non pretende di essere esauriente, e di affrontare nel dettaglio tutte
le numerose problematiche connesse a questo tema. Si vuole comunque fornire
una traccia, un orientamento, su un particolare tipo di violenza che pare essere
particolarmente attuale e che tanto rilievo ha avuto anche nelle cronache degli
ultimi anni.
Vedremo che dietro la cronaca terribile dei figlicidi le implicazioni
ideologiche e simboliche sono molteplici e rimandano a nodi irrisolti che
condizionano la complessa costruzione del comportamento di uomini e donne
come soggetti culturali.
L’uccisione del bambino, e del proprio figlio in particolare - soprattutto se
compiuta dalla madre - appare nella nostra cultura, e in quei discorsi che tanto
hanno contribuito alla sua formazione - quello greco e quello biblico - l’atto
“eccezionale”, l’atto da evitare per eccellenza.
Eppure, proprio a garanzia di questo necessario rifiuto dell’atto figlicida nella
realtà, il tema ha assunto un rilievo notevole ed è rimasto centrale nel mito greco
antico così come anche nel discorso biblico e le diverse soluzioni mitiche e
rituali proposte pesano per così dire nel nostro campo culturale.
Limitiamo il nostro campo di indagine a queste due culture, perché queste ci
appaiono quelle che più hanno esercitato un’influenza decisiva nel costituirsi
della identità occidentale attuale.
Vedremo quindi come si presenta il tema in questi due tipi di discorso che
definiamo mitico proponendo il valore di base di mito come discorso,
narrazione, al di là di ogni implicazione di vero e falso. In particolare noteremo
-
4
nei miti la volontà di evidenziare precise differenze nelle rappresentazioni del
figlicidio in rapporto all’identità di genere del genitore che lo compie.
A questo proposito sceglieremo come esempi emblematici due “miti” assai
celebri: quello dei figli di Medea e quello del sacrificio di Isacco. Essi infatti
ben rappresentano questa “separazione”, comune a molti dei miti analizzati: il
figlicidio materno accentua le caratteristiche di “marginalità” e devianza di
donne che sono anzitutto “assassine”; quello paterno al contrario l’inserimento
in un quadro di religiosità ufficiale e di devozione agli dei di un padre, che è
anzitutto “sacrificatore”.
Vedremo poi come proprio in corrispondenza di questa centralità del tema
mitico, la corrispondente prassi di un uso sacrificale - e nella fattispecie del
figlicidio o dell’infanticidio rituale - è stata fortemente rifiutata in entrambe le
culture che sono oggetto del nostro studio.
La rilevanza e la frequenza del tema mitico viene qui interpretata proprio
come “fondazione” e “garanzia” della “non sacrificabilità” dell’essere umano, e
del bambino in particolare.
In questo senso i numerosi miti di figlicidi, compiuti dai padri come dalle
madri, appaiono strettamente funzionali ad un controllo sociale che vieta e
preclude quanto è “pericoloso” e non deve accadere nella realtà ordinaria,
storica, del quotidiano. Il mito distingue e classifica gli atti, rituali e non, che
sono considerati praticabili in una determinata cultura rispetto a quelli che sono
“impossibili”, o “possibili” solo per dimensioni del tutto “diverse”.
Così il mondo greco e quello ebraico-semitico attraverso il dispositivo mitico
paiono aver posto degli argini culturali e garantito una risoluzione innocua a
quelle tensioni e conflittualità che minacciano ogni società.
Ancora per tutto il medioevo e l’età moderna, il discorso sul figlicidio è
rimasto principalmente discorso “mitico” su quello che potevano concepire e
attuare solo dei gruppi religiosi marginali, che venivano diffamati proprio
mediante la rappresentazione di riti “indicibili”.
-
5
In questo quadro di “indicibilità” si è iscritta appunto l’accusa di infanticidio.
Allo stesso tempo vedremo come questi stessi riti, intesi come riti “altrui”,
centrati sullo spargimento e sull’uso del sangue infantile erano tanto
frequentemente evocati proprio in virtù di una loro supposta efficacia. Il
discorso sull’infanticidio rituale, e sulla messa a morte dell’essere umano in
generale, è investito di valenze ideologiche forti, stringenti. Tali valenze si sono
conservate fino al moderno per scivolare ambiguamente nel postmoderno. Tutto
un filone di studi si è concentrato infatti sul valore fondante, efficace e
“necessario” del sacrificio umano e dell’uccisione in generale.
L’atto che coinvolge il bambino pare allora quello che più desta sconcerto,
orrore, ripugnanza, e tuttavia proprio in quanto caso estremo - caso limite - si
qualifica in quest’ottica come la massima offerta possibile, e dunque come l’atto
più efficace.
Tale era stato appunto il messaggio dello stesso mito greco e biblico, dove i
padri disposti a sacrificare i figli in circostanze critiche di guerra erano premiati
generalmente con la vittoria. Scomparso, o quasi, il discorso mitico sacrificale,
il tema ricompare oggi su un nuovo piano, quello della storia quotidiana.
Giungeremo infatti ad osservare come si ripresenta oggi il problema del
figlicidio, nell’attualità della cronaca. Ne emerge un quadro che coinvolge
principalmente le donne, le madri, e che le vede compiere sempre più spesso
quest’atto “straordinario” ed “eccezionale”, anche al di fuori dei contesti di
disagio sociale e deculturazione nei quali si anniderebbero le debolezze culturali
e psichiche apparenti.
L’impressione è che questi casi, così come del resto molte altre esplosioni di
violenza incontrollata, all’interno della famiglia e non, siano espressione di un
disagio latente antico sempre più irrisolto, anche per carenza di dispositivi
culturali efficaci.
-
6
CAPITOLO 1:
IL FIGLICIDIO MITICO
…Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per scannare il figliolo. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che rispetti Dio e non mi hai risparmiato il tuo figliolo, l’unico tuo!”. Allora Abramo alzò gli occhi e guardò; ed ecco: un ariete ardente, ghermito dal fuoco, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e l’offrì in olocausto al posto del suo figliolo. (Genesi 22, 10-13)
FIGLI: Ahi, ahimè! CORO: Senti, senti il grido dei figli?
Ahi, o sventurata, infelice donna! 1˚ FIGLIO: Ahimè, che fare? Come sfuggire alle mani della madre? 2˚ FIGLIO: Non so, o fratello carissimo, siamo perduti. CORO: Devo entrare in casa? Mi par bene stornare la strage ai figli. 1˚FIGLIO: Sì, per gli dei, soccorreteci; è necessario. 2˚FIGLIO: Siamo ormai vicini al cappio di questa spada. (Euripide, Medea, 1271-1278)
Sono questi solo due estratti significativi dei “miti” più noti nella cultura
dell’uomo occidentale: entrambi propongono rappresentazioni di genitori che
uccidono, o sono comunque pronti ad uccidere, i loro figli.
L’uccisione da parte dei genitori dei propri stessi figli è un dato ampiamente
attestato, possiamo dire anzi frequente, in varie tradizioni sul piano mitico come
su quello rituale. Il tema esiste a vario titolo nel discorso mitico allargato di
numerose culture ed è presente presso numerosi “racconti” e nella letteratura di
molte civiltà antiche del Mediterraneo, ivi comprese quelle che hanno esercitato
un’influenza decisiva nel costituirsi dell’identità culturale occidentale.
Ci riferiamo a quei discorsi che definiamo mito greco e “mito” biblico.
-
7
I casi di uccisione dei propri figli da parte di un genitore sono ampiamente
attestati. Tuttavia i due casi particolari, sopra citati, appaiono particolarmente
emblematici, e si presentano come i casi in qualche modo “centrali” di figlicidio
anche per la riflessione culturale occidentale contemporanea.
Il primo esempio che abbiamo scelto, tratto dal testo biblico, propone un
modello di padre pronto a sacrificare il proprio figlio unigenito ed amatissimo
quale prova di massima devozione religiosa, di fede; l’altro, invece,
appartenente ad un testo del teatro greco, mette in scena il modello di una madre
che compie l’assassinio brutale dei propri figli per soddisfare un mero
proposito di vendetta. Si tratta, chiaramente, del motivo del sacrificio di Isacco
e di quello dei figli di Medea.
Simili e allo stesso tempo divergenti, i due racconti mettono ugualmente in
scena due genitori disposti ad uccidere i propri figli. Tuttavia, nel primo caso
l’uccisione si configura come un sacrificio particolarmente sofferto da parte del
padre, sacrificio che comunque non viene portato a termine, anzi il racconto
sembra “fondare” proprio il rifiuto del sacrificio umano. Nel secondo caso si
assiste invece al compimento dell’atto sanguinario da parte di una madre, in una
cornice che non ha, apparentemente, nulla di rituale, secondo un modello che
vuole evidenziare “barbarie” e scelleratezza di un tale atto violento, ma anche
qualche altro risvolto sul quale ritorneremo.
Questi sembrano essere, in effetti, i modelli ai quali riportare il tema
dell’uccisione dei figli nel mondo greco e in quello biblico.
Vedremo come anche allargando il campo d’indagine il comportamento delle
madri figlicide accentua chiaramente la caratteristica della “messa a distanza”,
della “devianza”, della “straordinarietà”; quello dei padri al contrario sottolinea
l’obbedienza e la fede dimostrata nella cornice di un quadro religioso ufficiale.
Potremmo pertanto opporre madri “assassine”, per le quali la brutalità e
l’efferatezza dell’atto compiuto paiono aver fine in sé, e dunque apparentemente
-
8
ingiustificabili, a padri devoti “sacrificatori” dei propri figli nell’ossequio di un
comportamento ritualmente coordinato.
I due “modelli” paiono rispondere a situazioni precise.
E’ interessante sottolineare che nel mondo greco antico, in particolare nel
mondo post-omerico della polis, la donna, relegata ai margini dello spazio
politico, non appare mai, almeno ufficialmente, nella veste della sacrificatrice1:
alle donne era infatti precluso di praticare personalmente dei sacrifici e di
maneggiare il coltello sacrificale. Come dimostra giustamente Marcel Detienne2,
il femminile era assolutamente incompatibile con la dimensione sacrificale - e
quindi anche alimentare nel senso della grande cucina di carne - proprio in virtù
di un’avvertita presunta pericolosità della donna che giustifica il preciso intento
di inserire il femminile in un ordine a parte, un ordine diverso.
Due racconti di carattere aneddotico, quello del re di Cirene Batto e quello di
Aristomene, riportati da Detienne3, rappresentano significativamente un’attività
sacrificale femminile che sfocia in violenza generalizzata.
Anche nella realtà quotidiana una serie di precauzioni era adottata allo scopo
di escludere completamente il genere femminile da quanto avesse a che fare con
l’uso di armi, con lo spargimento di sangue, con il possibile compimento di gesti
violenti. Per quanto, quindi, le donne rivestissero spesso delle cariche nel
contesto di molti rituali religiosi e avessero accesso a vari sacerdozi, a esse era
comunque sempre vietato di maneggiare personalmente la machaira, il coltello
sacrificale.
Secondo Detienne, nel corso delle stesse Tesmoforie, feste a partecipazione
esclusivamente femminile, nel momento per così dire “cruciale” del sacrificio e
dello spargimento di sangue, si rendeva necessario l’intervento estemporaneo di
un uomo, un mageiros, rigorosamente maschio, che aveva il solo compito di
sgozzare le vittime sacrificali e che subito dopo veniva congedato. Vale la pena
1 Per gli stretti rapporti fra pratica sacrificale, alimentare e politica, vedi DETIENNE, Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, 1982 (1979) 2 DETIENNE, Eugenie violente 1982 (1979) 3 DETIENNE, Eugenie violente 1982 (1979): 131-132
-
9
ricordare che mageiros indica genericamente il cuoco, sempre e solo al maschile
in greco. Questa precauzione, così come i due racconti che Detienne riporta,
testimonierebbe dunque di una certa “angoscia” nei confronti del mondo
femminile, di cui si temevano chiaramente gli eccessi pericolosi; in realtà il
dispositivo appare un efficace strumento per articolare simbolicamente il ruolo
femminile dalla parte del margine in uno spazio dominato dalla centralità del
ruolo ufficiale, rappresentativo, maschile.
1.1 - L’“ALTRA” MADRE: MADRI ASSASSINE NEL MITO GRECO
La madre, dunque, quanto meno nell’ideologia del cittadino greco, non “può”
uccidere come non “può” sacrificare il proprio figlio, senza che a questa
immagine non sia associata una fortissima e totale valenza di trasgressività.
L’uccisione appare un atto “impossibile” già a prescindere dal fatto che la
vittima sia il proprio figlio. Inoltre la donna che si macchia personalmente del
sangue della propria prole si dissocia dal gruppo rifiutando la funzione a cui la
società la destina - quella di generare e allevare i figli - e in questo modo attacca
quella che è la struttura fondamentale della società, la famiglia.
Anche nella rappresentazione mitica essa non può essere una figura
accettabile ed è connotata secondo i canoni di una devianza assoluta rispetto alla
norma della vita quotidiana. Per questo nel mito la madre assassina o è
impazzita o è una straniera, una feroce “primitiva”, dunque comunque “altra”,
come Medea che è straniera, barbara, orientale, oltre che essere donna.
L’uccisione dei figli da parte di una madre greca non potrebbe trovare in alcun
caso la propria collocazione all’interno di un rituale istituzionalizzato accettato
ed accettabile: si tratta di una rappresentazione per ogni verso “impossibile”.
L’uccisione del figlio da parte di una madre, nel mito, si colloca spesso
significativamente nella sfera del menadismo, dunque del culto di Dioniso, che è
la divinità “diversa” per eccellenza nel pantheon greco, il dio apolitico - e
tuttavia centrale e necessario alla polis stessa - il dio della follia e degli eccessi,
-
10
il dio che i Greci stessi rappresentavano come “straniero”, proveniente dalla
Tracia o dal lontano oriente, ma che è ben presente nella città4.
Se partiamo dal presupposto che ciò che definiamo in modo assai lato
dionisismo, nel mito come nel rito, appariva come una negazione e un
ribaltamento delle norme civiche e dell’ordine consueto delle cose, accettiamo
che il suo ruolo fosse proprio quello di rappresentare un’inversione di valori
rispetto alla norma: in questo quadro, dunque, la donna poteva apparire
nell’inatteso ruolo della “sacrificatrice”, ma allo stesso tempo anche il sacrificio
tradizionale presso l’altare era sostituito dallo smembramento feroce della
vittima.
Si può spiegare così la presenza nel mito di racconti di uccisione e
smembramento del proprio figlio da parte di madri, come modello fondante
proprio ciò che non doveva essere, modello di un accadere diverso per
eccellenza rispetto alla norma e soprattutto rispetto allo stereotipo della donna
intesa come madre amorevole e protettiva.
Le donne che compiono figlicidi nel mito greco si profilano quindi anzi tutto
come delle grandi violatrici e rappresentano in vario modo tutta una serie di
infrazioni e trasgressioni.
Il caso più significativo pare essere quello di Medea: diversamente da molte
altre madri figlicide del mito, essa tuttavia non è una baccante impazzita né
inconsapevole; è anzi estremamente lucida ed è connotata come una donna
dotata di una particolare sapienza. La sua diversità è contrassegnata in altro
modo: è la donna-maga, manipolatrice di pharmaka, guaritrice e avvelenatrice,
che proviene da un paese collocato agli estremi confini del mondo conosciuto.
Diversamente, le varie collettività mitiche che si macchiano di infanticidio -
Pretidi, Miniadi, Cadmeidi - agiscono in uno stato di invasamento, in uno stato
di coscienza “altro” che in modo altrettanto efficace, sia pure diversamente, le
colloca al di fuori della “normale” rappresentazione della donna greca.
4La bibliografia a questo proposito è infinita, ma vedi CHIRASSI COLOMBO 1991
-
11
Passiamo in rassegna dunque il caso di Medea e quei casi del mito greco che
vedono delle madri assassinare, dilaniare, persino imbandire i propri figli in dei
pasti cannibalici, generalmente offerti ai mariti.
a) Un caso classico: i figli di Medea
Medea è una figura estremamente complessa, come rileva S. I. Johnston5, che
sottolinea nel suo saggio la straordinaria gamma di sfaccettature del
comportamento e della personalità di questo personaggio.
Possiamo dire che dall’VIII sec. a.C. ad oggi Medea ancora non cessa di
esercitare un fascino particolare, come dimostra l’ingente numero di opere a lei
dedicate fin dall’antichità, dalla IV Pitica di Pindaro all’omonima tragedia
euripidea, alle Argonautiche di Apollonio Rodio, a Seneca e Ovidio, fino ad
arrivare al trattamento cinematografico di Pasolini6. Ancora al giorno d’oggi
molto si discute sulla natura di questa figura, tanto che continuano ad essere
avanzate numerose chiavi di lettura, non da ultime quelle psicanalitiche, per
cercare di spiegare e di avvicinarsi a questo sconcertante personaggio7.
Nonostante la molteplicità delle versioni del mito che sono state fornite è
Euripide che nel V secolo conferisce alla figura di Medea la sua identità per così
dire “canonica”, scegliendo di rappresentarla, forse per la prima volta, come la
donna che uccide i propri figli pur di vendicarsi del marito Giasone, deciso ad
abbandonarla per sposare una principessa greca.
5 JOHNSTON 1997, pp. 5-7 6 Ci riferiamo ovviamente al film “Medea”. Qui Medea diventa l’oggetto di una riflessione del tutto attuale sui luoghi della marginalità nel mondo contemporaneo. In questo senso, l’eroina del mito e della tragedia greca diventa la rappresentante, e il paradigma, dell’appartenenza ad un mondo arcaico e religioso, che nell’attualità può essere identificato con quello, altrettanto incomprensibile e lontano, del sottoproletariato. La relazione fra Giasone e Medea è allora anzitutto la storia di un rapporto, sempre irrisolto, fra il mondo borghese colto e l’“irrazionalità” di un mondo ancora arcaico, di cui è difficile comprendere le ragioni. Medea è dipinta da Pasolini con i tratti della “ferocia innocente”, perché immersa in una sfera, quella del “sacro” e della religiosità, che è prima di tutto impossibile da comprendere - per il laico e razionale borghese oggi, come per l’altrettanto razionale cittadino greco nell’antichità - che pur sembra essere portatrice, nella lettura pasoliniana, di una qualche verità ultima ed essenziale. In questa sorta di nostalgia per i valori di un mondo arcaico ancora immerso nel “sacro”, Pasolini segue certamente la linea irrazionalista e fenomenologica che tanta parte ha avuto nel pensiero storico-religioso del Novecento e che trova uno dei suoi più accreditati esponenti in Mircea Eliade. Sulla lettura pasoliniana del personaggio di Medea, vedi CHIRASSI COLOMBO 2001. 7 In particolare vedi i vari saggi raccolti nel volume a cura di CLAUSS – JOHNSTON (1997)
-
12
Nella Teogonia di Esiodo, secondo una tradizione certamente molto antica,
Medea è la figlia dell’oceanina Idia, dotata di una sapienza particolare, e di
Eeta, re della Colchide; quindi, attraverso di lui, è nipote di Elio, il Sole.
Significativamente Esiodo la presenta anche come nipote di Circe, l’altra
celebre e pericolosa donna “maga” del mito greco. Attraverso questa
genealogia, il poeta enfatizza dunque i suoi poteri e la rappresenta come una
sorta di dea, anche se gli autori più tardi preferiscono piuttosto inserirla nella
categoria delle eroine8.
Fin dal principio, comunque, e indipendentemente dalle varie rielaborazioni
del mito, Medea è la “straniera”, detentrice di un sapere particolare e pericoloso,
quello della pharmakeia, la scienza dei farmaci che guariscono e uccidono, un
sapere che possiamo definire “magico”.
In Euripide la personalità di Medea, ancor prima dell’infanticidio, è già
definita come quella di una donna eccessiva. Una serie di azioni sembrano
prefigurare, infatti, quanto accadrà poi a Corinto: padrona di un sapere
“eccessivo”, e per questo temibile, Medea è un’abile manipolatrice, disposta a
tutto pur di raggiungere i suoi scopi: al fratricidio ai danni di Apsirto (e forse lo
stesso Apsirto era ancora un bambino!), e a convincere le figlie di Pelia ad
uccidere inconsapevolmente il padre9.
8 Sul modello eroico, dato specifico del politeismo greco, A. BRELICH 1958, e per le eroine D. LYONS 1997 9 Per il mito di Medea vedi come testo ampio di riferimento il lungo racconto in APOLLODORO, Biblioteca I, 9, 126-147. I dati sono comunque raccolti in GRIMAL 1987: 396-398. La donna si innamora di Giasone quando gli Argonauti giungono in Colchide alla ricerca del vello d’oro, e lo aiuta con le sue arti magiche e con i suoi filtri a realizzare l’impresa in cambio della promessa di portarla via con sé e di sposarla. Gli consente di superare le prove impostegli dal padre e per amore sottrae alla sua stessa famiglia il vello d’oro. Fugge con Giasone sulla nave Argo portando con sé anche il fratello Apsirto e, pur di ritardare l’inseguimento del padre, lo fa a pezzi, gettando i brandelli del suo corpo nel mare. Come previsto, infatti, Eeta si ferma per raccogliere le membra del figlio e dargli sepoltura. Dopo il matrimonio, al ritorno a Iolco, Medea con le sue arti magiche vendica il marito: fa sì che le figlie di Pelia uccidano il padre, che aveva affidato a Giasone l’impresa della ricerca del vello d’oro per liberarsi di lui e aveva sterminato la sua famiglia. La maga le convince di essere capace di ringiovanire qualunque essere vivente facendolo bollire in una pozione magica, di cui lei sola possedeva il segreto; per persuaderle, sotto i loro occhi squarta un vecchio ariete, ne getta i pezzi in un paiolo che aveva messo sul fuoco, e di lì a poco ne fa uscire un agnello. Convinte da questo esempio, le figlie di Pelia fanno a pezzi ugualmente il loro padre e lo gettano nel paiolo, ma questi ovviamente non ne esce, lasciandole inorridite da quanto hanno fatto. Dopo ciò, Medea e Giasone riparano a Corinto, ove vivono felici per dieci anni e dove ha luogo la tragedia finale, l’uccisione da parte della donna dei suoi bambini.
-
13
Il personaggio costruito da Euripide si presenta come un compendio
significante di una temibile ed oscura “diversità”, carattere che si palesa
pienamente nell’atto finale della tragedia, con l’infanticidio.
L’assassinio dei figli da parte di Medea sembra comparire per la prima volta
ad opera di Euripide stesso o di un altro tragediografo dello stesso secolo,
Neofrone. Molto si è discusso se si tratti di un’invenzione del tragediografo o
piuttosto di una variante del mito “allargato”. Secondo Sarah Iles Johnston10,
come si vedrà, la tradizione della Medea infanticida sarebbe ereditata da un
patrimonio folklorico tradizionale.
In ogni caso, nella tragedia euripidea, che consacra l’identità canonica di
Medea così come ancora oggi è ricordata, Medea e Giasone, cacciati da Iolco
dopo l’uccisione di Pelia, giungono a Corinto, ove vivono felici per dieci anni,
finché l’uomo non decide di abbandonare la moglie barbara per sposare la figlia
del re Creonte (chiamata Glauce o Creusa nelle varie versioni del mito; Euripide
non la nomina mai).
Medea, tradita e abbandonata in terra straniera da un marito spergiuro per cui
ha lasciato e tradito la sua stessa famiglia, deve subire anche l’umiliazione
dell’esilio: Creonte infatti, temendo la donna che conosce come “saggia ed
esperta di molti malefici”11, bandisce lei e i suoi figli dalla città, intimandole di
andarsene subito. Con la sua eloquenza, Medea riesce a convincere il re ad
accordarle ancora un solo giorno prima dell’esilio ed è in quell’unico giorno che
progetta e porta a compimento la sua vendetta. Stabilisce di punire Giasone
privandolo di quanto ha di più caro, cioè della sua discendenza e della nuova
sposa, che avrebbe potuto generargli altri figli.
Da questo momento in poi l’azione si svolge rapidamente, avviandosi verso il
tragico finale. Assicuratasi da Egeo la promessa di ospitarla e proteggerla ad
Atene, Medea manda i suoi figli a supplicare la giovane di risparmiare loro
l’esilio, facendole recapitare in dono un peplo ed un diadema preziosi. In realtà i
10 JOHNSTON 1997 11 EURIPIDE, Med. 285
-
14
doni sono avvelenati e, appena li indossa, Glauce è divorata dalle fiamme; anche
Creonte, abbracciando la figlia, resta avvinto al peplo e incontra la morte.
L’ultimo gesto a cui Medea si costringe è il più difficile: è il figlicidio.
Euripide evidenzia opportunamente la conflittualità intima fra l’esigenza di
vendetta e il dolore personale che è fortissima, e tuttavia Medea non può
impedirsi di agire:
“Orsù, o misera mano mia, prendi la spada, prendila, muovi verso la dolorosa meta della vita: non essere vile e non ricordarti dei tuoi figli, che ti sono assai cari, che li partoristi, ma solo per questo breve giorno dimenticati dei tuoi figli; e poi piangi. Anche se li ucciderai, nondimeno essi ti sono cari; e una donna sventurata sono io.”12
Dopo vari cedimenti e l’ultimo straziante saluto la donna infatti si fa coraggio
e finalmente, pur di ferire il marito infedele, dà personalmente ai figli la morte
con la spada, con l’estrema consapevolezza di causare con il suo agire la propria
stessa sofferenza, prima ancora che quella del marito, e pur tuttavia decisa a
portare a compimento il proprio proposito.
Compiuto l’atroce gesto, nell’ultimo incontro con Giasone al termine della
tragedia, la donna gli impedisce di dare sepoltura ai figli e di abbracciarli per
l’ultima volta, prendendosi un’ulteriore rivincita.
Interessante la soluzione proposta dal tragediografo. La figlicida elabora
ritualmente – quindi dà senso – alla sua azione, orientando per così dire
culturalmente e cultualmente la crisi. Annuncia che lei stessa seppellirà i
bambini nel santuario di Era Acraia e che per espiare il delitto istituirà a Corinto
una festa solenne; infine vola via con i loro corpi su un carro alato donatole dal
Sole, suo avo.
Questa è la versione più celebre del mito, quella che ci è stata tramandata da
Euripide nell’omonima tragedia, ma sembra non sia anche la versione
“originaria”.
12 EURIPIDE Med. 1244-1250
-
15
Angelo Brelich ha dedicato un suo contributo13 al rapporto fra il mito, o
meglio i miti, che hanno per protagonista il personaggio di Medea, e il culto che
si tributava a Corinto ai suoi figli, reinterpretando quest’ultimo non già come un
rito di espiazione, come sembra essere e come è presentato dalle varie fonti - ivi
compreso Euripide stesso - ma piuttosto come un rito dai caratteri tipicamente
iniziatici14.
Rievocando i miti diversi che narrano l’uccisione dei figli di Medea, emerge
un diverso racconto, antecedente a quello euripideo, che individuava piuttosto
nei Corinzi gli artefici del delitto e dunque anche i fondatori della presunta festa
annuale di espiazione.
I Korinthiakà di Eumelo, poeta epico corinzio dell’VIII-VII sec. a.C.,
forniscono la testimonianza più antica. Un frammento in versi è riportato da uno
scoliasta di Pindaro (Schol. Pind. Ol. 13, 74), che parla piuttosto di un tentativo
fallito, da parte di Medea, di rendere immortali i suoi figli: sembra che la dea
Era, grata a Medea per aver rifiutato le profferte di Zeus, avesse promesso alla
donna di rendere immortali i suoi figli se li avesse portati nel suo santuario;
Medea obbedì, ma la promessa non fu mantenuta e anzi i bambini morirono.
Anche Pausania (2, 3, 7; 2, 3, 10-11) riassume un passo dello stesso poeta
corinzio, e qui non solo ribadisce il motivo del tentativo fallito di dare
l’immortalità ai bambini - si dice che Medea “nascondeva” i suoi figli nel
temenos di Era a questo scopo - ma narra esplicitamente di come i Corinzi li
lapidarono15 e di come furono costretti a fondare il culto per far fronte alla morte
dei loro stessi figli, conseguente al sacrilegio commesso.
Lo stesso Pseudo-Apollodoro, dopo aver narrato la versione, per così dire, più
“tradizionale” della vicenda di Giasone e Medea, ricorda brevemente anche
questa diversa versione del mito:
13 BRELICH 1959 14 Sul tema delle iniziazioni in Grecia si rimanda allo stesso BRELICH 1969 15 In questo caso la lapidazione dei Corinzi potrebbe inserirsi nel contesto dei cosiddetti “delitti rituali”. A questo proposito, si veda CANTARELLA1991, e il testo Le delit religieux dans la cité antique, Roma, 1981 (Collection de l’École française de Rome, 48)
-
16
“Si dice anche che [Medea] fuggì abbandonando i figli ancora piccoli, dopo averli fatti sedere come supplici sull’altare di Era Acraia; ma gli abitanti di Corinto li portarono via di lì e li percossero a sangue”16.
Esistevano dunque in età arcaica svariate versioni del mito, che differivano
fra loro nei dettagli, ma tutte concordavano sull’innocenza di Medea, ritenuta
non direttamente responsabile per la morte dei figli; per cui già anticamente si
era diffusa la diceria che in realtà fosse stato lo stesso Euripide ad attribuire per
primo l’assassinio dei bambini a Medea, e che l’avesse fatto perché pagato a
questo scopo dai Corinzi stessi.
La sostanzialmente tarda, come si è visto, definizione di Medea come donna
pericolosa, maga e per di più infanticida, secondo Ileana Chirassi Colombo17, si
iscrive nel contesto del tentativo di Atene, proprio nel V secolo a.C., allorché
emerse la democrazia ateniese, di darsi una forte identità culturale autonoma,
mediante un’opposizione sempre più marcata con l’orientale, inteso come l’altro
da sé. Il polo opposto della relazione, allora, il diverso, l’esterno, l’“orientale”,
si configura immediatamente anche come polo negativo, una modalità questa di
svalutare l’altro da sé che, potremmo dire, pare essere stata ereditata per molti
aspetti dalla stessa cultura occidentale.
Medea in questo quadro è importante in quanto immagine dell’alterità per
eccellenza, veicolo ideale per definire, attraverso una particolare
rappresentazione dell’“altro”, l’identità del “sé”. A Medea vengono dunque
attribuiti in modo mirato regole e costumi diametralmente opposti rispetto a
quelli che definivano, e dovevano definire, il comportamento dell’uomo greco.
Questa dicotomia, questa polarizzazione, era inoltre necessaria a rinforzare
dei comportamenti sociali desiderabili, in questo caso a istituire un modello cui
tendere per tutte le donne, lo stereotipo della donna feconda e materna. Proprio
nel V secolo, dunque, quando si rende necessario istituire dei modelli e dei
16 APOLLODORO, Biblioteca, I, 9, 28 17 CHIRASSI COLOMBO 2001
-
17
parametri identificanti, la colca Medea diventa la madre che assassina i suoi
figli, paradigma negativo per eccellenza.
Nella tradizione greca arcaica Medea era un personaggio proveniente
dall’oriente e un’esperta di pharmaka, in Pindaro (Pitica IV) addirittura una
potente profetessa, tuttavia non era ancora definibile come personaggio del tutto
negativo. E’ solo a partire dal V secolo che essa viene a qualificarsi sempre più
come il tipo della maga “negativo”, e in questo contesto, come si è visto, si
iscrive anche l’assassinio dei propri figli.
Da Euripide in poi Medea è la donna “eccessiva”, passionale, diversa sotto
tutti gli aspetti rispetto al paradigma e al modello dell’uomo e del cittadino
greco, caratterizzata da un insieme di abbinamenti significativi di
un’interessante negatività (oriente, femminile, eros eccessivo e smoderato, ma
anche il sapere trasgressivo della pharmakeia e della profezia e l’uccisione
rituale o sacrificale di esseri umani…) che ne fanno l’outsider per eccellenza,
fino a divenire un prototipo della figura della strega. E’ dunque questa Medea
maga, “strega”18, padrona di un sapere occulto e produttrice di veleni, quella che
a più riprese, nella tragedia euripidea, invoca l’inquietante e possente dea Ecate
(la tricorpore, tricapite patrona della “magia”), è la Medea sulla quale si stende
la “lunga ombra del “primitivo” - un primitivo orribile e sinistro”19 quella che
uccide i suoi figli per vendetta, accecata dalla gelosia.
Interessante appare anche la posizione della Johnston, che accosta questa
particolare rappresentazione della Medea infanticida ad un paradigma folklorico
ben noto in molte culture tradizionali antiche e moderne del Mediterraneo, non
esclusa la stessa Grecia antica: si tratta di un modello che riguarda delle figure
demoniache.
18 Strega come noto deriva dal latino stryx, che indica un uccello notturno. Il vocabolo entra nell’uso attraverso la nota e potente immagini delle streghe romane di Orazio. Qui le “streghe”, rappresentate con tutti gli stereotipi che ne connoteranno più tardi la fisionomia, sono pericolose assassine di giovanetti, al contrario delle più innocue pharmakides greche. Vedi TUPET 1976, ma anche GRAF 1995, sulla magia nel mondo antico; con riferimento in particolare all’arte della pharmakeia, vedi SCARBOROUGH 1991 19 DI BENEDETTO, Introduzione a EURIPIDE, Medea, p. 22
-
18
Secondo la studiosa il personaggio di Medea non potrebbe in alcun modo
essere stato creato dal nulla: svilupperebbe piuttosto un paradigma folklorico
diffuso nell’antica Grecia come in molti altri paesi del Mediterraneo, il
paradigma dei child-killing demons o reproductive demons.
Queste figure femminili sarebbero contraddistinte da due tratti principali. In
primo luogo si credeva che esse uccidessero o comunque minacciassero la vita
dei bambini o delle loro madri al momento della gravidanza o del parto, quindi
erano chiamate in causa per spiegare i frequenti casi di morte o malattia che
potevano colpire gli infanti o verificarsi in queste occasioni. In secondo luogo
esse spesso si qualificavano come donne che avevano fallito, per un motivo o
per un altro, il loro compito riproduttivo, in quanto erano morte vergini, o non
avevano avuto figli o, ancora, questi erano morti precocemente. In conseguenza
di questa loro “incompletezza” si pensava che queste donne si fossero
trasformate in demoni che infliggevano il loro stesso destino ad altre donne,
uccidendone i figli.
Molte creature di questo tipo, quali Lamia, Mormo e Gello, solo per citare
alcuni casi greci (ma non bisogna dimenticare la Lilith degli ebrei e la lilu della
Mesopotamia)20, erano infatti temute nell’antichità. Gello era morta vergine;
Lamia invece aveva generato molti figli a Zeus, ma Era, gelosa, li aveva uccisi
tutti poco dopo la loro nascita; Mormo divenne un demone per aver ucciso e
divorato in un momento di pazzia i propri stessi figli.
Medea stessa, del resto, secondo la versione molto antica di Eumelo, aveva
visto morire i suoi figli a causa del mancato aiuto fornito da Era, che aveva
promesso di renderli immortali. Questo, per la Johnston, secondo il modello
folklorico noto, avrebbe fatto di lei una demone assassina di bambini. Poi il
discorso mitico, manipolato da Euripide o Neofrone, avrebbe polarizzato e
accentuato questa caratteristica rendendo Medea l’assassina dei propri stessi
figli, fatto assolutamente più inquietante, passando sotto silenzio l’uccisione dei
20 Sui cosiddetti “Child-killing demons” vedi Johnston 1995 e su Lilith in particolare J. BRIL 1990
-
19
bambini altrui, tipica dei demoni - ma anche accusa ripetuta più volte
nell’ambito della grande persecuzione delle streghe nell’Europa medievale e
moderna. Questo tratto sarebbe divenuto incompatibile con la nuova
rappresentazione di Medea, consona agli interessi della cultura di V secolo.
In ogni caso il figlicidio di Medea non appare mai disgiungibile da certe
particolari caratteristiche di marginalità, di eccezionalità per la quale sono state
usate diverse chiavi di lettura.
Nella lettura che possiamo definire “irrazionalista” di Pasolini, ad esempio,
Medea è “assolta” proprio in nome della fondamentale innocenza del “sacro
originario”. Pur se resta crudele – nella sequenza di apertura del film è colta
mentre compie un sacrificio umano – la sua è una crudeltà innocente,
ingiudicabile in quanto appartenente ad un mondo diverso, arcaico e ormai
incomprensibile, quello permeato dal “sacro”.
Al di là del giudizio pasoliniano, comunque, già nella tragedia euripidea la
Medea che uccide i suoi figli è la sacrificatrice di un mondo ancora primitivo, è
la “maga” che non conosce moderazione, in quanto non greca21. Il figlicidio si
inserisce dunque nel contesto di un’accesa conflittualità fra i due coniugi, che
sono separati da un’eccessiva distanza culturale.
Il matrimonio fra Giasone e Medea è infatti il matrimonio esogamico per
eccellenza: se altri personaggi celebri del mito e della tragedia sono votati allo
scacco perché contaminati da un’eccessiva vicinanza, evidente in unioni
direttamente o indirettamente incestuose – si pensi solo al caso emblematico di
Edipo – il matrimonio fra l’eroe greco e la maga della Colchide naufraga e porta
ad esiti inauditi e sconcertanti proprio per la lontananza eccessiva, esagerata, di
due mondi che non possono raggiungersi, secondo i parametri della cultura
dominante, la greca, che comunque si pone emblematicamente il problema.
21 Sul rapporto di Medea con il mondo “primitivo” si veda DI BENEDETTO, Introduzione a EURIPIDE, Medea: 19-23 Per la lettura particolare che ne ha dato Pasolini, vedi CHIRASSI COLOMBO 2001 Sul tema della magia nel mondo antico : GRAF 1995 e FARAONE – OBBINK (eds.) 1991
-
20
Lontana com’è la patria barbara di Medea, la scelta di lei come moglie
sembrerebbe ottimale nel quadro dei numerosi divieti che, in ogni società, sono
preposti a regolamentare le unioni matrimoniali22. E tuttavia l’esito dimostra che
anche l’eccessiva lontananza, come l’eccessiva prossimità, è fonte
dell’avvenimento tragico; in questo caso il risultato è anzi il delitto efferato ed
impensabile per eccellenza, il figlicidio.
Ma lo scontro fra questi due mondi, portato in scena da Euripide, sarebbe,
secondo la particolare interpretazione fornita da L. Bindi23, l’espressione
drammatizzata non solo di una conflittualità insanabile interna al nucleo
familiare, ma anche di tensioni ben radicate nel contesto storico dell’Atene del
V secolo: il riferimento è alle recenti disposizioni sulla cittadinanza emanate da
Pericle nel 451-450 a.C.24 (la tragedia euripidea di Medea fu infatti
rappresentata solo un ventennio dopo, nel 431).
La legge che limitava l’estensione della cittadinanza ai soli figli di genitori
entrambi ateniesi si inseriva infatti - proponendo sostanzialmente una soluzione
bilineare - nel più vasto e spinoso problema relativo alla linea di discendenza dei
figli. Notevoli dovevano essere le tensioni sociali, e i conflitti legali, sorti dalle
rivendicazioni di entrambe le parti per assicurarsi diritti e prerogative connesse
alla genitorialità25.
In quest’ottica, il conflitto fra Giasone e Medea sarebbe prima di tutto
espressione di un problema assai vivo e cogente nel tempo in cui viveva, e
scriveva, Euripide. Esso potrebbe essere letto infatti come rappresentazione
delle problematiche connesse al discorso sulla legittimità e sul diritto sui figli e
ai conflitti sociali sorti dalle rivendicazioni da parte delle due linee di
discendenza.
22 In riferimento alle problematiche relative all’incesto, anche indiretto, e alle regolamentazioni nel campo delle scelte matrimoniali per evitare la contaminazione pericolosa di umori e fluidi identici si rimanda a F. HÉRITIER 1997 (1996), e HÉRITIER 1999 (1994). Si veda anche l’introduzione allo studio della parentela di R. FOX 1973 (1967) 23BINDI 1999: 115-131 24 Vedi A.R.W. HARRISON 1968 (pp.25-29; 61-70) 25 Vedi BINDI 1999: 153-170
-
21
Giasone pretende di gestire il futuro dei figli, certo che il nuovo matrimonio
porterà vantaggi anche a loro; rivendica quindi, indirettamente, la loro
appartenenza al proprio oikos, ignorando la mescolanza di cui essi sono frutto,
disconoscendo il legame profondo che lega i figli, nel corpo e nel sangue, ad
entrambi i genitori.
Medea non solo rifiuta questa pretesa, ma esplicitamente si afferma padrona
del destino dei bambini, rivendicando, per lei che li ha creati, anche la
possibilità di ucciderli, pur di tenerli legati a sé, in quello che è stato definito
dalla prospettiva psicanalitica26 un desiderio di realizzazione allucinatoria del
possesso totale dei propri figli, con l’evidente estromissione del padre:
E’assoluta necessità che essi muoiano, e poiché è necessario, li uccideremo noi che li abbiamo generati (Medea, 1240-1241)
Il figlicidio di Medea sarebbe quindi spiegabile in termini, ovviamente
inconsci, di reimpossessamento di quanto si percepisce come proprio.
Eppure essa uccide i bambini anzitutto in quanto figli del marito, per
amputarlo, privandolo della sua discendenza: e significativamente è solo con la
loro uccisione, con l’eliminazione fisica che può realmente “appropriarsene”.
Nel finale una Medea trionfante li porta via con sé sul carro del Sole,
riconducendoli dunque alla propria linea divina di discendenza, e gestisce
personalmente anche la loro sepoltura, istituendo inoltre lei stessa il rituale
annuale di espiazione che li riguarda, risolvendo così il dramma mitico della
messa a morte - un atto conclusivo, irripetibile - con la sequenza liturgica
ripetibile - del rito, che inserisce nella storia.
Interessante quindi la soluzione del dramma: paradossalmente il conflitto può
essere risolto, e a vantaggio della madre, ma solo con l’eliminazione dei figli
stessi.
26 Per le interpretazioni in chiave psicanalitica del mito di Medea si rimanda ai due articoli di S. BÉCACHE e M. COURNUT–JANIN nel numero XLVI della “Revue francaise de psychanalyse”, 1982
-
22
Del resto il tema, il problema delle modalità e delle linee di discendenza e di
filiazione era assai attuale e discusso non solo nel discorso politico, ma anche in
quello filosofico e scientifico del tempo.
Può essere interessante volgere lo sguardo ad un’importante teoria della
filiazione, proposta da Aristotele: il filosofo attribuiva al solo uomo il principio
strettamente fecondante e creatore. Il maschio infatti avrebbe fornito la forma e
il principio del movimento, la femmina solo il corpo e la materia (De
generatione animalium 729a); il maschile sarebbe stato l’“attivo”, colui che
“muove ed agisce”, il femminile l’elemento “passivo”, che “patisce” . Le donne
dunque avrebbero partecipato alla procreazione, ma in modo marginale,
fondamentalmente con un ruolo di “ricettacolo”. Ricordiamo a questo proposito
la celebre metafora utilizzata nel lessico di Eschilo che propone la donna come
una terra arabile, solco per il vomere che la rende terra produttiva per il
contadino-marito, per rendere a lui quelli che sono i suoi frutti.
Contrariamente a quanto proposto dalla medicina ippocratica, che
riconduceva sostanzialmente il concepimento alla fusione dei due semi -
maschile e femminile - Aristotele proponeva la sua teoria dello sperma maschile
dotato di pneuma, cioè del principio “divino” del movimento in sé, rendendo
solo il maschio fecondo.
Se la donna davvero fosse stata dotata di un tale principio fecondo, sosteneva
Aristotele, allora essa, essendo anche ricettacolo, avrebbe potuto generare per
partenogenesi; ma di fatto ciò non accade. Egli ne concludeva che la teoria della
riproduzione pangenetica fosse palesemente errata e che la responsabilità del
concepimento fosse prioritariamente maschile. Alla donna era attribuita una
funzione essenzialmente contenitiva e nutritiva del feto, ma il principio fisico, e
soprattutto formale, era dato dall’uomo. Si stabiliva così una netta asimmetria
fra il ruolo maschile e il femminile nella generazione dei figli27.
27 Vedi CHIRASSI COLOMBO 1985, ma anche BINDI 1999: 171-180
-
23
Del resto nello stesso mito di fondazione della popolazione ateniese - mito
importante fondante la sua autoctonia - il capostipite è quell’Erittonio che nasce
da Ge, la Terra, ma in realtà è generato dal solo seme maschile di Efesto, il dio
fabbro. Atena, la “madre”, è e resta vergine; non è coinvolta nella generazione:
“oggetto” del desiderio di Efesto, si limita a raccogliere il seme del dio con un
fiocco di lana e a gettarlo a terra. Alla stessa Terra spetta la mera funzione di
“accogliere”, “tenere in gestazione”, “nutrire”, per poi offrire al mondo il
bambino. Ge è quindi la madre “patria”, luogo dei padri28.
Il mito pare confermare l’attribuzione alla donna di una funzione legata alla
cura, alla nutrizione, alla crescita, ma la costruzione della discendenza vera e
propria, la generazione, passa attraverso la figura maschile.
Ritornando a Medea, la tragedia che la vede protagonista può quindi essere
interpretata come conflitto familiare che coinvolge le due figure genitoriali nella
rivendicazione del diritto genetico sulla prole. In certo senso possiamo dire che
Medea uccide lucidamente i figli perché i figli sono essenzialmente i figli di
Giasone.
In ogni caso resta indubbio il carattere di marginalità, di alterità, con cui
Euripide sceglie di rappresentare la sua Medea infanticida.
Nelle altre varianti mitiche le figlicide saranno comunque donne “altre”, ma
questa alterità, questa devianza, si presenta in modo molto diverso. Le altre
madri figlicide sono per lo più donne impazzite, alienate, che agiscono in uno
stato alterato di coscienza.
Nella stessa Medea di Euripide è citato un altro caso mitico, definito
eccezionale, di madre figlicida dove l’assassina è comunque pazza. E’ Ino, così
ricordata dal Coro:
“Una sola, una sola fra quelle di un tempo conosco che sui propri figli la mano avventò, Ino, dagli dei resa folle, quando la sposa di Zeus la scacciò dalla casa, errabonda. Si getta la sventurata nel mare con sacrilega strage dei figli,
28 Vedi N. LORAUX 1981
-
24
tendendo il piede di là dalla marina sponda, destinata a perire con i suoi due figli.”29
b) Figlicidio e mania: le madri “impazzite”. Cadmeidi, Pretidi, Miniadi…
Secondo il mito30, Ino, figlia di Cadmo e sorella di Semele, uccide il proprio
figlio Melicerte in quanto impazzita, trovandosi in quello che noi ora possiamo
definire uno “stato alterato di coscienza”, provocato dall’intervento eccezionale
di una dea.
Tuttavia, il mito dice anche che Ino aveva già precedentemente tentato di
uccidere dei bambini, i figliastri Frisso ed Elle, intervenendo in modo diretto.
Per gelosia - la stessa motivazione che aveva spinto Medea a uccidere i propri
figli - Ino aveva infatti progettato una trappola assai mirata: aveva causato
segretamente una carestia facendo tostare i chicchi che servivano per la semina
del grano, rendendoli cioè non più in grado di germinare e determinando oltre
alla carestia anche una situazione che possiamo definire simmetricamente
anticerealicola, quindi antiattuale, se si considera il ruolo centrale del pane nel
simbolico greco.
Quando Atamante manda dei legati ad interrogare l’oracolo di Delfi sul modo
di porre fine alla carestia, questi ultimi, su ordine di Ino, riferiscono che si rende
necessario sacrificare Frisso. Atamante acconsente; tuttavia, appena prima
dell’immolazione, il giovane e la sorella riescono a fuggire, trasportati nel cielo
dall’ariete dal vello d’oro. Frisso raggiunge così la Colchide, mentre si narra che
Elle cadde nel mare e morì annegata, dando il nome all’Ellesponto.
Annotiamo di sfuggita come il padre sacrificatore figlicida molto spesso,
come in questo caso, non riesce - o gli viene impedito, in realtà - di sacrificare.
Il mito dipinge invece Ino come assassina diretta ed efficace di suo figlio
Melicerte in una situazione drammatica che coinvolge anche il padre, che
diventa figlicida, ma per errore.
29 EURIPIDE Medea 1282-1289 30 GRIMAL 1987: 77-78; 377 APOLLODORO Biblioteca I, 9, 1-2; III, 4, 3
-
25
Dopo il sacrificio di Frisso la dea Era, adirata con i due coniugi perché
avevano allevato il piccolo Dioniso, figlio del rapporto adulterino di Zeus con
Semele, li fa impazzire: Atamante, scambiando il figlio maggiore, Learco, per
un cervo, gli dà la caccia e lo uccide; Ino invece getta Melicerte in un paiolo
pieno d’acqua bollente, poi si getta in mare con il cadavere del bambino. Da
allora, racconta sempre il mito, Ino e Melicerte si trasformarono in due divinità
marine, Leucotea e Palemone, divinità salvatrici per i naviganti nelle tempeste
per i quali abbiamo interessanti testimonianze di culto anche in età romana31.
Ino appare dunque come un’emblematica figura di assassina di bambini, e in
generale il mito complessivo che vede come protagonisti lei e il marito può
essere considerato un racconto “esemplare” sul tema del rischio dell’uccisione
dei figli, propri o altrui, che segna lo statuto estremamente fragile dell’infanzia
nell’insieme della famiglia.
Tuttavia, nel caso dell’uccisione di Melicerte, sembra si possa avanzare anche
una lettura diversa: il fatto che egli sia gettato in un calderone pieno d’acqua
bollente, richiama infatti anche un modello narrativo del tutto diverso, quello
della bollitura intesa come mezzo magico per rendere immortale un essere
vivente.
Il tema del fuoco come mezzo per rendere immortale una creatura - e spesso
si tratta in effetti di bambini - o per ringiovanirla, è infatti ampiamente attestato
nel mito greco e non solo. La stessa Medea, come si è visto, convince le figlie di
Pelia a smembrare il padre e a gettare il suo corpo in un calderone per
ringiovanirlo, cosa che lei stessa del resto aveva già fatto a scopo
esemplificativo con un ariete.
Si riportano brevemente altri celebri miti che raccontano esplicitamente il
tema della tentata “immortalizzazione” di bambini attraverso il fuoco.
La dea Demetra (Inno omerico a Demetra 231-274) aveva tentato di garantire
l’immortalità al figlio del re di Eleusi, Demofonte, ponendolo sul fuoco.
31 Vedi PIERART 1998; su Ino Leucotea, anche BONNET 1986
-
26
Tuttavia il tentativo non riuscì, poiché Demetra fu interrotta, probabilmente
dalla stessa madre del bambino, spaventata. L’episodio è riassunto così nello
pseudo Apollodoro:
“Celeo aveva avuto un figlio da sua moglie Metanira; Demetra lo prese e ne divenne la nutrice. Voleva renderlo immortale: perciò durante la notte poneva il bimbo sopra il focolare e consumava le sue carni. Demofonte (questo era il nome del bambino) cresceva prodigiosamente di giorno in giorno; perciò Metanira si mise a spiare che cosa facesse la dea e quando scoprì il figlio fra le fiamme lanciò un grido. Perciò il bambino finì bruciato nel fuoco e la dea rivelò la propria identità.32”
Un episodio simile vede coinvolta un’altra grande dea, l’egiziana Iside. Iside
aveva tentato di conferire l’immortalità al figlio neonato del re di Biblo
(Plutarco, De Iside et Osiride, 16).
Anche l’oceanina Teti, madre extraumana dell’eroe più forte dei Greci,
Achille, tenta per il figlio il processo di immortalizzazione, come ricorda ancora
Apollodoro in un racconto piuttosto simile a quello precedente:
“Quando Teti generò un figlio a Peleo, volendo renderlo immortale lo poneva dentro il fuoco, di notte, di nascosto dal marito e così distruggeva quanto in lui era mortale e gli proveniva dal padre, mentre di giorno lo ungeva con ambrosia. Ma Peleo la spiò e quando vide il bimbo che si dimenava sopra le fiamme lanciò un grido: così Teti, a cui era stato impedito di compiere la sua opera, abbandonò il bambino per tornare dalle Nereidi”33.
E’ chiaro, quindi, dalla sua struttura ricorrente, che questo doveva essere uno
schema narrativo ben noto e ampiamente usato nell’antichità.
E’ interessante notare che tutte e tre le dee falliscono per l’intervento di
mortali, benevoli ma ignari, che sono spaventati dall’apparenza del rito
“magico”. Sembra ci sia infatti una certa ambiguità fra pratica
dell’immortalizzazione e uccisione dei bambini, ambiguità che spesso non viene
risolta e che dà adito anzi a fraintendimenti. Dal fallimento della prima si può
giungere facilmente alla morte diretta e prematura del bambino, con esito
diametralmente opposto alle aspettative.
32 APOLLODORO, Biblioteca I, 5, 1 33 APOLLODORO Biblioteca III, 13, 6
-
27
Come ricorda C. Bonnet in un suo articolo dedicato ai culti di Leucotea e
Palemone, il calderone è, come il fuoco, strumento di passaggio per eccellenza,
e in quanto tale è fortemente ambivalente: può essere strumento di morte come
di resurrezione34. Nella linea di questa ambiguità potrebbe facilmente collocarsi
anche lo stesso caso di Ino e Melicerte.35
In ogni caso i motivi per i delitti, sempre a danno di bambini, compiuti o
tentati da Ino sono in un caso la gelosia, proprio come Medea - e questa sembra
essere una motivazione tipicamente femminile - nell’altro la follia, indotta
dall’ira di una divinità, nel caso specifico Hera.
In moltissimi altri esempi mitici in cui dei genitori - e specialmente delle
madri - uccidono i figli, alla follia, alla mania, è assegnato un ruolo
fondamentale: la follia per eccellenza è quella di Dioniso.
Il mythos dionisiaco riporta numerosi casi di figlicidio, sempre compiuti in
uno stato modificato di coscienza, come possiamo appunto definire la manía36.
Un caso eclatante è quello di Agave, l’altra figlia di Cadmo, sorella di Ino e
come lei figlicida, il cui mito è stato messo in scena nelle Baccanti da Euripide.
L’elemento “manίa” in questo caso è centrale. Tutta l’azione è dominata dal
tema degli effetti della mania e dei suoi ambigui, strabilianti e controversi
risultati. Ma nel dominio della follia, come in molti altri casi del genere,
l’uccisione appare del tutto inconsapevole.
Nella tragedia euripidea Dioniso giunge a Tebe, sua terra di origine, ove
regna Penteo, figlio di Agave e dunque suo cugino. Qui il dio decide di
vendicare la madre Semele, che Agave aveva ingiustamente calunniato. Semele
infatti era morta colpita da un fulmine per aver chiesto al divino amante Zeus di
mostrarsi in tutta la sua potenza; la sorella invece andava dicendo che essa era
stata punita dal dio per aver sostenuto falsamente di essere incinta di lui, mentre
34 BONNET 1986: 55-56 35 Sui “bambini nel fuoco”, e per una prospettiva comparativa, vedi FRAZER 1995, Appendice ad APOLLODORO Biblioteca: 479-486 e HALM-TISSERANT 1993 36 Sul tema della mania dionisiaca si rimanda ai testi ormai classici di DODDS 1959 (1951) e JEANMAIRE 1972 (1951)
-
28
avrebbe avuto una relazione con un semplice mortale. Dunque Agave, e con lei
anche Penteo, negavano l’identità divina di Dioniso, reputandolo il figlio di un
semplice mortale, e per di più nato da una relazione illecita.
Dioniso, come si conviene ad un dio offeso, punisce per l’ingiuria sia Agave
sia Penteo, re di Tebe, che si opponeva alla diffusione del suo culto. Con il
pungolo della follia il dio spinge tutte le donne del luogo, Agave compresa, a
celebrare i suoi misteri sul monte Citerone; poi persuade Penteo ad andare a
vedere personalmente gli eccessi delle Baccanti, dopo averlo indotto a travestirsi
da donna. Le donne, come previsto, lo scoprono nascosto su un abete e
straziano il suo corpo. La prima fra queste è proprio la madre Agave, che,
scambiando il figlio per un leone feroce, anzi per un cucciolo di leone, e come
cacciatrice “selvaggia”, insieme alle sorelle ed alle altre donne, se ne
impadronisce senza usare gli arnesi tecnici della caccia, ma le mani, e ne strazia
il corpo. Trasforma poi la testa in un trofeo che, conficcato in cima a un tirso,
porta fieramente a Tebe.
Solo a questo punto, esaurita la crisi, Agave, guidata dal padre Cadmo, potrà
vedere ciò che realmente ha tra le mani, non un trofeo di caccia ma la testa del
figlio. La pena qui è la presa di coscienza, accompagnata dall’obbligo dell’esilio
in una ignota terra straniera.
Non possiamo qui prendere in considerazione le innumerevoli interpretazioni
del “senso” o dei “sensi” del testo euripideo, che usiamo solo come un
documento prezioso di una variante del mito. In ogni caso è importante
sottolineare come il figlicidio da parte di madre sia collocato nella “logica” di
uno stato alterato.
Altre donne dopo le tebane sono colpite da follia sempre ad opera di Dioniso.
Dioniso si reca infatti ad Argo - racconta il mito - e, poiché anche qui non lo si
vuole onorare, fa impazzire le donne del luogo: ancora una volta, si racconta che
esse “andavano sui monti con i loro figli lattanti e ne divoravano le carni37”.
37 APOLLODORO, Biblioteca III, 5, 2
-
29
L’uccisione dei propri figli è qui contraddistinta inoltre dall’atto estremo del
cannibalismo ed è, anche in questo caso, l’espressione di un’estrema incapacità
a distinguere il vero dall’illusorio, di una perdita di contatto con la realtà e con
la propria stessa coscienza38. Ricordiamo brevemente che il cannibalismo
coinvolge nel mito greco anche macabri e celebri “dispetti” di padri fratelli
come Tieste ed Atreo, il caso forse più celebre.39
Oltre alla già citate Cadmeidi, Ino e Agave, anche altre celebri collettività
mitiche femminili si qualificano ugualmente come trasgressive e devianti,
portate ad uccidere e smembrare dei bambini, spesso i loro stessi figli, nel
contesto del menadismo e quindi nello stato di trance indotto dall’ira del dio.
Prime fra tutte si ricordano le figlie di Preto, Lisippa, Ifinoe e Ifianassa. Nella
Melampodia di Esiodo40 (quindi in una versione molto arcaica del mito), le
giovani, giunte all’età adulta, divengono folli perché non hanno accettato i riti
iniziatici di Dioniso. In preda a manίa, vanno vagando per tutta la regione di
Argo, attraversano l’Arcadia e il Peloponneso, correndo per luoghi desolati in
atteggiamenti scomposti e indecenti… e si rendono anche colpevoli di uccisione
di bambino…
In altre versioni del mito sono presentate come particolarmente ripugnanti,
oltre che come lussuriose; in particolare si dice che le Pretidi erano abbruttite
dalla scabbia, dalla vitiligine, dalla calvizie. Come ricorda W. Burkert,
l’immagine delle Pretidi invasate “è l’antitesi radicale dell’immagine della
vergine graziosa e morigerata, l’immagine del sabba delle streghe41”.
Questa volta però si ricorre alla terapia e ci si rivolge ad un mantis, un
indovino che funge anche da guaritore. E’ Melampo, Piede nero.
38 Del resto, come mette in luce Paolo Scarpi, Dioniso è, per eccellenza, il dio del mutevole, dell’ibrido, della trasformazione (dunque dell’incerto), e anzi, proprio per questo suo carattere sarebbe “la divinità tutelare della tragedia quale rito di trasformazione e metamorfosi culturale” (SCARPI, Commento ad APOLLODORO, Biblioteca III, 4, 3) 39 Il numero 6 della Nouvelle Revue de Psychanalise, 1972, è dedicato ai “Destins du Cannibalisme” 40 BURKERT 1981 (1972): 129-132 APOLLODORO, Biblioteca II, 2, 2 41 BURKERT 1981 (1972): 130
-
30
Melampo promette al padre di guarire le giovani, a patto di ottenere da lui la
terza parte del regno. Preto rifiuta di pagare la guarigione con un compenso così
esoso, ma il delirio delle fanciulle diviene ancora più acuto, e insieme a loro
impazziscono anche le altre donne: abbandonano le loro case, uccidono i figli e
corrono in luoghi deserti. Preto allora si risolve a concedere la ricompensa, ma
Melampo risponde che accetterà solo se anche suo fratello Biante otterrà
un’uguale porzione di terra. Preto, temendo di dover concedere una ricompensa
ancora più elevata procrastinando ancora, accetta.
Melampo, con i più vigorosi fra i giovani, insegue quindi le donne fino al
monte Sicione, con grida e una forma di danza estatica. Durante l’inseguimento
Ifinoe muore, ma le altre, sottoposte a esorcismi, recuperano la ragione, così
Preto le assegna in moglie a Melampo e Biante.
Significativamente la guarigione si conclude con il matrimonio, e dunque con
il ritorno delle ragazze, dall’ambito d’influenza di Dioniso, dio degli eccessi, a
quello di Era, dea del matrimonio ordinato, dunque con il ritorno alla consueta e
“tranquillizzante” funzione di moglie e madre. Alla dissoluzione, con la
rappresentazione delle ragazze come antitesi dell’ideale della vergine graziosa
prima, e della madre amorosa poi, segue la re-istituzione dell’ordine con il
reinserimento della donna nel quadro del matrimonio e della soggezione
maritale.
E’ interessante che il momento “selvaggio”, fuori dalle regole, preveda anche
l’uccisione di un bambino, che risulta un atto dovuto ad una situazione di
disordine dalla quale si può ritualmente guarire
Anche ad Orcomeno si narrava un mito simile. In questo caso sono le figlie
del re Minia, Leucippe, Arsippe e Alcatoe, che figurano come vittime dell’ira di
Dioniso e per questo assassine inconsapevoli del figlio di una di loro.
Esistono varie versioni di questa leggenda, ma tutte concordano nel narrare
che le tre sorelle erano rimaste a casa, durante una festa in onore di Dioniso, a
dedicarsi alle loro occupazioni, mentre tutte le altre donne del luogo
-
31
percorrevano il monte come Baccanti. Per punizione sono colte esse stesse dalla
mania dionisiaca e finiscono per dilaniare il figlio di Leucippe, Ippaso, che
scambiano per un cerbiatto. Respinte anche dalle Menadi per essersi
contaminate, vengono trasformate in uccelli notturni continuamente in fuga42.
Queste tre collettività mitiche, Cadmeidi, Pretidi, Miniadi, testimoniano
dunque di un frequente rapporto fra l’uccisione dei propri figli e lo stato di
trance, in rapporto ad una divinità, Dioniso, che prevedeva nel contesto del suo
campo mitico-rituale l’inversione sistematica dei consueti valori della vita civica
ordinata e dove forse proprio per questo si assegnava un ruolo così importante
alla presenza femminile.
E’ importante notare che questa partecipazione femminile al culto dionisiaco
- culto destinato ad orientare culturalmente il disordine, come direbbe De
Martino - sfocia significativamente in preoccupanti immagini di violenza ai
danni dei bambini.
c) Vendetta e cannibalismo: i casi di Edona e Procne
In qualche modo affini a questo racconto, benché questa volta non compaia il
motivo della manía dionisiaca, sono anche le diverse versioni che narrano la
storia di Procne, o Edona, assassina di suo figlio Itilo o Iti43. Il motivo principale
che spinge qui a uccidere il proprio figlio è, in due delle tre versioni in cui il
mito è conservato, come nel caso di Medea, la vendetta nei confronti di un
marito, che si sceglie di punire privandolo della propria discendenza.
Nella versione attica del mito, Iti è figlio di Tereo e Procne. Il padre, re della
Tracia, violenta la cognata Filomela e le taglia la lingua perché non possa
riferire l’accaduto. Ma la donna riesce comunque a comunicare con la sorella
ricamando le sue disgrazie su una stoffa. Procne, per vendicarsi, uccide Iti con
una scure e lo offre in pasto al padre, poi fugge con la sorella. Tereo le insegue
42 GRIMAL 1987: 421 Sul tema della mania dionisiaca inserita nel quadro dei complessi di trance, intesi come dispositivi di controllo e risoluzione della crisi esistenziale, che colpiva specialmente il mondo femminile, e in modo particolare le fanciulle, vedi DE MARTINO 1961: 199-208 43 GRIMAL 1987: 185, 287
-
32
fino in Focide, finché gli dei, impietositi, li trasformano in uccelli: Procne
diviene un usignolo, Filomela una rondine e Tereo un upupa.
Nella versione milesia, invece, Iti è figlio di Edona e dell’artigiano Politecno.
I due un giorno si vantano di essere più felici di Era e Zeus, così la dea, per
punirli, invia loro la Discordia, che ispira nei coniugi il desiderio di emulazione:
lui si mette a costruire un carro, lei a tessere, con l’accordo che chi dei due finirà
per primo la propria opera regalerà una serva all’altro. Vince Edona e il marito,
per vendicarsi, violenta la cognata Chelidona, la veste da schiava, le impone di
non parlare e la porta alla moglie come serva. Tuttavia Edona riconosce la
sorella. Le due donne, insieme, si vendicano: uccidono Iti e, come nella versione
attica, lo offrono come vivanda al padre, poi fuggono. Politecno le insegue, ma
in questo caso è fermato dal suocero, che lo fa cospargere di miele e legare su
un prato. In questo caso a uccidere sono madre e zia materna; ancora una volta è
da segnalare l’abbinamento con il tema del cannibalismo inconsapevole come
completamento della vendetta.
Nell’Odissea (19, 518 ss.), dunque secondo una versione molto antica, Edona
uccide suo figlio Itilo per errore: in realtà voleva uccidere il figlio maggiore di
sua cognata Niobe, di cui invidiava la fecondità, ma finisce per assassinare il
proprio unigenito; è poi trasformata dagli dei pietosi in usignolo.
In quest’ultimo caso il figlicidio è reso possibile solo dall’errore, ma l’errore
implica comunque una mancata uccisione di minore, un nipote. Il nipoticidio
sarebbe volontario, il figlicidio inconsapevole. A dimostrazione della
onnipresenza dei disturbi della parentela, oltre alle madri evidentemente sono
pericolose anche le zie.
In moltissimi casi, dunque, le donne nel mito uccidono i loro figli in stati di
trance per effetto della manίa dionisiaca. Agiscono in modo del tutto
inconsapevole, spesso scambiando i propri figli per animali e smembrandoli a
-
33
mani nude44. Negli altri casi, il motivo appare essere l’errore, dunque un’altra
forma di inconsapevolezza, oppure la gelosia, l’invidia, la vendetta.
L’alienazione mentale, l’appartenenza ad un mondo primitivo, o anche
l’errore, sono dunque alcuni dei modelli con i quali cui viene segnata la
necessaria distanza rispetto alla realtà storica, quotidiana, in cui un tale scenario
di madri assassine non era immaginabile e doveva essere assolutamente evitato.
Da evidenziare comunque la connotazione ambigua sottesa al concetto di
mania, follia, che, non dimentichiamo, il mondo greco interpreta anche come
conoscenza allargata. Se infatti il Corpus Hippocraticum e la letteratura medica
in generale ne danno una lettura essenzialmente psico-patologica45, la mania è
invece interpretata come momento di allargamento delle proprie potenzialità nel
modello platonico. Ricordiamo che Socrate, in un celebre passo del Fedro, dice
che “i beni più grandi ci vengono dalla pazzia concessa per dono divino”
(Platone, Fedro, 244a). La mania dionisiaca, telestike nella definizione di
Platone, ha un posto assolutamente centrale nella religione greca46.
1.2 - IL FIGLICIDIO PATERNO NEL MITO GRECO
Assai diversi sono gli esiti di un’analisi sul figlicidio compiuto dai padri.
Anche qui il mito greco presenta un certo numero di casi significativi, seppure,
forse, molti siano meno celebri dei precedenti.
Accanto, anche in questo caso, ad alcune uccisioni compiute per tragico
errore da padri per nulla intenzionati a privarsi della propria discendenza - il
44 Il tema dello smembramento rimanda al noto modello degli esseri dema, introdotto nella riflessione antropologica da Jensen. Vedi JENSEN 1952 (1948) e 1954 (1951) 45 Vedi J. PIGEAUD, 1987 46 In particolare, al complesso dionisiaco E. R. DODDS attribuì una funzione sociale importantissima, quella di garantire una catarsi e uno sfogo rituale, quindi controllato, a degli impulsi e a delle ansietà che altrimenti avrebbero procurato notevoli danni sociali, se lasciati liberi di sprigionarsi incontrollatamente. L’estasi, a sua volta, assolveva la “funzione psicologica di soddisfare e svincolare l’aspirazione a respingere ogni responsabilità”, che certo doveva essere un’esigenza vitale in determinate situazioni sociali. Tali riti, sia quelli dionisiaci sia quelli simili coribantici, erano considerati del resto utili strumenti di “igiene sociale” dagli stessi Platone ed Aristotele. Vedi DODDS 1959 (1951):75-117; 319-334. Sulla mania dionisiaca vedi anche il testo ormai classico di H. JEANMAIRE 1972 (1951) e l’ultimo testo di K. KERÉNYI 1992 (1972)
-
34
tema dell’errore è frequentissimo nel mito, e soprattutto nella tragedia - si nota
l’emergere di nuovi temi che, fino ad ora, non è stato possibile osservare.
a) La mania, l’errore, la “punizione”
Paga le conseguenze della vendetta di Dioniso e uccide per errore, in preda a
follia, secondo il racconto di Apollodoro47, Licurgo, figlio di Driante e re degli
Edoni; ma si tratta di un caso particolare, piuttosto anomalo nel panorama
generale dei padri figlicidi mitici.
Il re aveva infatti cacciato Dioniso e fatto imprigionare le baccanti e lo stuolo
dei satiri che lo seguivano, rifiutando di tributare il giusto culto e i giusti onori
alla divinità. Il dio, secondo il consueto modello narrativo, lo fa impazzire e
Licurgo, credendo di tagliare un tralcio di vite, uccide suo figlio con un taglio di
scure e solo in seguito recupera la ragione. Infine, su esortazione di Dioniso il re
stesso viene messo a morte: legato sul monte Pangeo, Licurgo muore sbranato
dai cavalli. In questo caso dunque il padre uccisore per errore diventa anche la
vittima prototipica. Il tema si presta comunque a letture su diversi livelli.
Anche Atamante, come si è visto, uccide suo figlio Learco scambiandolo per
un cervo, sempre secondo la modalità dell’uccisione inconsapevole in stato di
forte alterazione mentale, già osservata per molte donne del mito.
Per errore uccide l’eroe beota Pimandro, che, durante i lavori di fortificazione
della sua città, colpisce il figlio Leucippo anziché un muratore che l’aveva
offeso48.
In un certo senso, potremmo dire che per errore agisce anche Crotopo, che
uccide la figlia Psamate credendo che lei avesse avuto suo figlio Lino non da
Apollo, ma da un semplice mortale. Qui però il tema si inserisce piuttosto nella
ben nota sequenza dei padri punitori, soprattutto di figlie, che conta molti
esempi. Frequentemente, infatti, nel mito, si danno casi di figlie punite dal loro
padre; nel caso di Crotopo, come si è visto, la punizione è costituita dalla messa
47 APOLLODORO Biblioteca III, 5, 1-2 48 GRIMAL 1987: 510
-
35
a morte, ma più frequentemente essa è costituita dall’“espulsione” e
dall’allontanamento della figlia “impura”, in genere colpevole di aver avuto
rapporti illeciti extra-matrimoniali49. E con la figlia si allontana anche il nipote,
che non sempre tuttavia muore ma anzi, salvato da solo o con la madre, ha dopo
l’avventuroso inizio una gloriosa esistenza50.
Un’altra celebre modalità di messa a morte in qualche modo indiretta,
perpetrata da un padre a danno di una figlia, è quella dell’esposizione al mostro
in obbedienza all’ingiunzione di un oracolo, per salvare con una vittima sola
l’intera comunità ecc. Celebre, in questo senso, è il motivo di Andromeda51, che
appartiene a un vasto gruppo di racconti in cui giovani donne e uomini vengono
offerti a mostri di vario tipo per placarne la collera.
In questo caso le giovani vittime, tuttavia, non sono uccise “sacrificalmente”
ma “allontanate”, esposte, e la loro eventuale morte risulta essere solo un esito
indiretto, non scontato, dell’esposizione.
Analizzando i miti di uccisione dei propri figli che hanno come protagonisti i
padri si fanno però strada, oltre all’errore in seguito a follia indotta o per fatale
distrazione, anche nuovi motivi.
Il principale, vedremo, sarà quello sacrificale, che “costringe” il padre a
rinunciare al proprio figlio, ma più spesso alla propria figlia, in nome di un bene
pubblico superiore. Ma esiste anche un altro tipo di situazione che ugualmente
giustifica il figlicidio paterno.
49 Il motivo più famoso in questo senso è certamente quello di Danae, figlia del re d’Argo Acrisio e di Euridice. Acrisio era stato informato da un oracolo che sua figlia avrebbe generato un erede che l’avrebbe ucciso. Per timore di ciò, l’uomo fece costruire una stanza di bronzo sotterranea dove teneva rinchiusa Danae; tuttavia la fanciulla venne violata, secondo alcuni dallo zio Preto, secondo altri da Zeus stesso, che penetrò nella stanza trasformandosi in una pioggia d’oro. Quando Acrisio venne a sapere che dalla figlia era nato Perseo, non volle crederlo figlio di Zeus; quindi rinchiuse la figlia ed il neonato in un’arca e la gettò in mare. Zeus tuttavia fece giungere l’arca a Serifo, dove i due furono raccolti e tratti in salvo da Ditti, fratello del tiranno Polidette. (APOLLODORO, Biblioteca II, 4, 1; GRIMAL 1987: 152) 50 Il motivo dell’esposizione della fanciulla si inserisce spesso nella serie delle biografie eroiche: la nascita particolare è infatti segno della futura grandezza dell’eroe. Vedi O. RANK 1994 51 Secondo la vulgata mitologica il padre di Andromeda, il re d’Etiopia Cefeo, fu costretto ad esporre la figlia ad un mostro pur di placarne la collera e liberare il paese da questa temibile creatura, che lo stava devastando. Andromeda non morì, perché fu salvata da Perseo, che si era innamorato di lei e che in seguito la sposò, tuttavia il motivo appare essere ancora quello di una particolare messa a morte indiretta da parte del padre. Il tema ha avuto una straordinaria ricezione nel mondo classico come nella cultura europea moderna. FRONTISI-DUCROUX 1996: 135-166
-
36
Questa situazione è esemplificata dal caso, straordinario sotto tutti i punti di
vista, di Eracle, il più eccezionale degli eroi greci.
b) Eracle: un caso “eccezionale”
Numerose sono le varianti del mito che vedono Eracle uccidere i sui figli, ma
possiamo dire che le due fonti principali che ci consegnano quest’episodio sono
Apollodoro ed Euripide.
Secondo Apollodoro (Biblioteca, II, 4, 12), Eracle, impazzito per “la gelosia
di Era”, getta nel fuoco i suoi stessi figli, avuti da Megara, e due fra quelli
dell’amico Ificle:
Dopo la battaglia con i Minii accadde che Eracle, a causa della gelosia di Era, fu colto da follia e gettò nel fuoco i figli che aveva avuto da Megara e due dei figli di Ificle. Per questo motivo si condanna lui stesso all’esilio e viene purificato da Tespio.
Solo dopo la Pizia gli impone di stabilirsi a Tirinto e di servire per dodici anni
Euristeo, compiendo le imprese che gli saranno ordinate.
Ancora una volta il figlicidio avviene attraverso il fuoco, elemento fortemente
ambivalente, che abbiamo visto, in abbinamento al calderone, in funzione di
strumento di “passaggio”. Anche in questa versione, come in altri casi analoghi,
l’ambivalenza non è risolta.
Molto più estesa, e straordinariamente particolareggiata, è la descrizione del
figlicidio che fornisce Euripide, nella tragedia Eracle (vv. 967ss.). Qui l’eroe,
impazzito, uccide di propria mano i figli scambiandoli per i figli del suo nemico
Euristeo.
La strage raccapricciante, compiuta in questa versione in modo diretto e
inequivocabile, con l’arco e con la clava - e a cui non sfugge nemmeno la
moglie Megara - è narrata con grande dovizia di particolari:
…appresta la faretra e l’arco per servirsene contro i propri figli, credendo di uccidere quelli di Euristeo. E loro, tremanti di paura, si precipitavano chi qua chi là, l’uno per aggrapparsi alle vesti della sventurata madre, l’altro per acquattarsi all’ombra di una colonna, il terzo, simile ad un uccello, si
-
37
rannicchiò sotto l’altare. E la madre grida: “Tu li hai generati, che fai? Uccidi i tuoi figli?”. Grida anche il vecchio e tutta la servitù. Ma lui, dando la caccia al figlio intorno alla colonna in una giostra crudele, gli è di fronte all’improvviso e lo colpisce al fegato; cadde riverso e, mentre esalava l’ultimo respiro, bagnò col suo sangue lo zoccolo di pietra. Lui allora proruppe in un grido di trionfo, seguito da questo vanto: “Ecco che un pulcino della nidiata di Euristeo è morto, caduto per ripagarmi dell’odio di suo padre!”. E tendeva l’arco contro l’altro figlio, che si era rannicchiato vicino al basamento dell’altare credendo di non essere scorto. Ma lo sventurato lo previene, prostrandosi alle ginocchia del padre e toccando con la mano il mento ed il collo: “Padre carissimo – grida – non uccidermi! Sono io, tuo figlio: non è il figlio di Euristeo che stai per ammazzare!”. Ma lui torcendo lo sguardo feroce di Gorgone, poiché il ragazzo si trovava al di qua della gittata dell’arco letale, levando sulla sua testa la clava, a immagine del fabbro che batte il ferro rovente, l’abbatté sul capo biondo del figlio e ne frantumò le ossa. Ucciso il secondo figlio, si scaglia contro la terza vittima per immolarla sulle altre due. Ma l’infelice madre lo precede, sottraendoglielo per portarlo dentro al palazzo e serra la porta a chiave. E lui, proprio come se fosse davanti alle mura ciclopiche, la scalza, divelle i battenti e, demoliti gli stipiti, con una sola freccia stese al suolo la moglie e il figlio. Quindi si lancia al galoppo per uccidere il vecchio; ma ecco giungere un’apparizione, Pallade come si rivelò allo sguardo dei presenti, che brandiva la lancia… e scagliò contro il petto di Eracle un masso che pose fine alla strage furente e lo fece sprofondare nel sonno.
E’ questo, potremmo dire, un caso che pare speculare, per certi aspetti,
all’uccisione dei figli di Medea, con i bambini che pregano di essere risparmiati
e tuttavia restano vittime di un delitto eccezionalmente efferato e cruento nelle
sue modalità. Eppure le ragioni del figlicidio, e soprattutto il giudizio che può
essere formulato, nell’uno e nell’altro caso, sono molto diversi: Medea è la
donna barbara che lucidamente porta a termine l’atto per gelosia; Eracle uccide
in uno stato di incoscienza, ma soprattutto uccide perché la sua natura è quella
dell’eccessivo, nel male come nel bene, sotto tutti gli aspetti, e in quanto tale
non può essere giudicato.
Eracle è infatti un melanconico, categoria questa a cui Aristotele ha dedicato
il famoso trattato Problema XXX52 dei Problemata physika. I melanconici
devono la loro natura, il loro stato, al fatto di avere la “bile nera”, un eccesso di
52 PIGEAUD 1988
-
38
pneuma, di aria, di moto, di qualità divina: per natura, per fisiologia, sono dei
perittoi, degli “eccessivi”, uomini di genio nel bene come nel male.
Eracle è citato da Aristotele s