tecniche di presa in carico
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TECNICHE DI PRESA IN CARICO PSICOTERAPEUTICA DI UN PAZIENTE NON
RICHIEDENTE
(Versione accettata dai revisori "Non si sottolineer mai abbastanza che
Terapia Familiare, Luglio 2003) la terapia (e spesso il suo destino) inizia
Con revisione bibliografica con il primo contatto telefonico"
MATTEO SELVINICo-responsabile della Scuola di Mara Selvini Palazzoli (13) pag. 99
Psicoterapia della Famiglia
"Mara Selvini Palazzoli"
Premessa
Da pi di vent'anni ho fatto esperienza con diverse procedure di presa in carico delle domande di
aiuto psicoterapeutico in vari contesti (Centro di Terapia dell'Adolescenza (3) - Ambulatorio
Psichiatrico Territoriale di Corsico (5), ma soprattutto in un centro di psicoterapia familiare, il
Nuovo Centro per lo Studio della Famiglia, fondato ed a lungo diretto da Mara Selvini Palazzoli, ed
quest'ultima esperienza che descriver nel presente articolo.
In tutti questi contesti un problema base da risolvere dato dalla frequentissima non coincidenza tra
richiedente ed utente: un genitore o altro familiare chiedono un intervento specialistico per un figlio
o un parente. Tale tipo di domanda, nella pratica psichiatrica e psicoterapeutica, riceve risposte
molto diverse a seconda dei diversi modelli terapeutici. Intendo qui occuparmi della riflessione
sistemico-relazionale su questa tematica di grande importanza strategica.
L'abbandono della cartella telefonica
Quando iniziai la mia collaborazione con il Nuovo Centro nel 1982, tutte le telefonate con richiesta
di un appuntamento venivano dalla segretaria convogliate in un orario di disponibilit telefonica di
un terapeuta responsabile dei primi contatti (G. Prata), il quale procedeva ad una breve intervista, la
cosiddetta cartella telefonica (14, pag. 21; 16, pp. 213-214), e fissava l'appuntamento, se del caso,
con una delle quipe terapeutiche. Tutt'oggi continuiamo ad utilizzare la tecnica della disponibilit
telefonica, poich riteniamo che il ruolo di filtro e di co-ordinatore degli accessi ad uno studio
associato di psicoterapia debba essere svolto da un professionista e non dalla segretaria.1
A partire dal 1990, per, abbiamo abbandonata la pratica di compilare la cartella al telefono a
favore di colloqui diretti di presa in carico (19), fissati da uno dei professionisti, dopo una breve
1 Nei contesti in cui prassi che una segretaria o altro operatore fissi gli appuntamenti, consiglio caldamente che il
terapeuta richiami l'utente con l'esplicito scopo (gi preannunciato dalla segreteria) di discutere chi opportuno si
presenti al colloquio (soprattutto nei casi in cui richiedente e paziente non coincidano).
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conversazione telefonica che avviene negli orari di disponibilit di ciascuno. I colloqui vengono
tutti fissati con il sottoscritto, che quindi divenuto il responsabile dei primi colloqui con i nuovi
utenti.
Il movente di tale cambiamento fu inizialmente molto pratico: dato che sempre pi aumentavano le
informazioni che ritenevamo utili avere precedentemente alla prima seduta familiare (16, pag.219),
andava a finire che le telefonate per compilare la cartella erano sempre pi lunghe, con un doppio
ed evidente disagio:
a) il telefono eternamente occupato
b) la gratuit dell'operazione (in quanto ci sembrava poco elegante chiedere un onorario per una
prima telefonata).
Ma anche altri cambiamenti pi sostanziali spinsero all'abbandono dell'accoglienza telefonica:
andavamo infatti verso un rapporto meno interventista e competitivo e sempre pi collaborativo con
le famiglie. Stavamo infatti abbandonando la logica di "arpionare" le famiglie con i paradossi o con
la prescrizione invariabile. Ed in questa direzione era evidente il vantaggio di un approccio
personale diretto: un'accoglienza pi calda ed accettante. In definitiva iniziammo a pensare che
fosse conveniente che la prima fase della presa in carico terapeutica non venisse condotta in quipe
ma da un singolo professionista: i vantaggi economici ben si sposavano con quelli di un
atteggiamento pi collaborativamente accogliente. Maggiori informazioni consentono
un'ipotizzazione meglio fondata. Ma per raccogliere delle informazioni un'quipe non necessaria.
La casistica trattata
Sono dunque tredici anni che svolgo nel Nuovo Centro la mansione di responsabile dei contatti
iniziali. In questo arco di tempo ho incontrato circa 1000 famiglie, in cui erano presenti soprattutto
gravi patologie di adolescenti e giovani adulti (disturbi alimentari, psicosi, seri disturbi della
personalit, depressione, tossicodipendenza, devianza).
Nel riflettere sui dati delle mie "prime visite" (che registro con un apposito questionario che mi
autosomministro), mi ha colpito constatare un abbassamento stabile dei drop-out, cio dei pazienti
che non ritornano dopo un primo incontro, dal 30/40% degli inizi al 20% scarso degli ultimi anni. Si
noti che una serie di ricerche stimano attorno al 50% il numero di pazienti che non va oltre una
prima seduta con uno psicoterapeuta (vedi Talmon, 25, anche per le ricerche che accertano questo
dato, pp. 20-21, ediz. ital.).
L'abbassamento della percentuale dei drop-out nelle mie prime visite mi ha incoraggiato a scrivere
questo articolo perch suonato come una conferma degli effetti positivi dei cambiamenti di
procedura che ho progressivamente messi in atto.
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Una certa percentuale di drop-out fisiologica soprattutto in un contesto dove richiedente e paziente
non coincidono. C' poi tutta la problematica dell'analisi delle domande (di cui non mi occupo in
senso specifico in quest'articolo) per cui, ad esempio, un coniuge pu chiedere una terapia familiare
aggressivamente per attaccare l'altro. In linea generale evidente come sia pi difficile costruire il
consenso di un'intera famiglia su un progetto di terapia, rispetto a quando solo una persona a
chiedere per se stessa.
I cambiamenti nelle procedure
Tali cambiamenti possono essere cos sinteticamente riassunti:
1) trasformazione del primo contatto telefonico in una breve conversazione, mirata soprattutto alla
preparazione e contrattazione delle convocazioni al primo colloquio. (8, p. 21)
2) convocazione al primo colloquio non solo del richiedente (che nella cartella telefonica l'unico
portavoce della famiglia), ma anche di altri familiari (6, p. 122; 12)
3) organizzazione del primo colloquio in una procedura semi-standarizzata basata su tre fasi
fondamentali: a) definizione descrittiva del problema b) spiegazione psicologica del problema c)
eventuale proposta di contratto di consultazione psicologica. (25)
Come dicevo, dal punto di vista del "clima relazionale" il cambiamento fondamentale apportato alla
procedura di presa in carico riguarda soprattutto un'accoglienza pi accettante per evitare che gli
utenti si allontanino sulla base di sentimenti di colpevolizzazione e vergogna. Oggi l'idea base di
accoglienza sostituisce quella passata di neutralit, che era intesa anche nel senso di non cadere nel
gioco familiare patogeno in atto (7).
Si tratta sicuramente di un passaggio che caratterizza gran parte della terapia familiare, che negli
anni '90 evolve in senso globalmente "anti-autoritario". A questa crisi dei modelli pi interventisti
(strategico-Eriksoniani, paradossali, provocatori, prescrittivi) contribuiscono molti fattori, tra cui
sicuramente la contestazione del ruolo del terapeuta come esperto sollecitata dal costruttivismo e le
indicazioni di sostegno prioritario alla famiglia fornite dalla psico-educazione.
E' ovvio come non siano possibili follow-up diretti di quei primi colloqui a cui non ne sono seguiti
altri. Tuttavia, in una serie di casi, grazie a contatti con invianti e conoscenti, ho potuto conoscere
delle motivazioni di alcuni di questi drop-out: il denominatore comune pi frequente proprio
quello della colpevolizzazione, dell'essersi sentiti accusati o giudicati, dell'induzione di sentimenti
di vergogna. In prima istanza questi feedback mi hanno portato a riflettere sulla mia
inconsapevolezza, a volte totale, di avere indotto simili reazioni. Sembra probabile che esista una
certa percentuale di famiglie molto vulnerabili da questo punto di vista e quindi il principale
"imputato", nella mia ricerca di possibili spiegazioni di tali sentimenti che avevo involontariamente
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indotto, diventata la modalit "standard" con cui, fino oltre la met degli anni '90, spiegavo
l'opportunit di una consultazione familiare, che cos riassumevamo in "I giochi psicotici nella
famiglia":
"la linea direttiva del nostro modo di lavorare consiste nel cercare che cosa non ha funzionato nelle
relazioni tra i vari membri della famiglia, perch pensiamo che i problemi personali del paziente
siano collegati in presa diretta con le sue relazioni nella famiglia, e in special modo con le difficolt
che i suoi genitori hanno tra loro" (16, p. 229).
Ho iniziato a pensare che tale messaggio (che ovviamente pu essere espresso anche con parole
diverse) sia sbagliato e pericoloso, in quanto implica una fuorviante causalit lineare che lega il
sintomo esclusivamente a relazioni sbagliate all'interno della famiglia, in netta contraddizione con
una visione complessa e multifattoriale del sintomo stesso. Infatti questo messaggio esclude dal
campo di osservazione tanto il livello intrapersonale nella determinazione del sintomo, cio quellodel rapporto della persona con se stessa, cos come quello delle influenze micro-sociali e culturali al
di l della famiglia stessa.
Ho dunque ipotizzato che tale messaggio radicalmente relazionale, allorch viene formulato in
modo stereotipato con tutte le famiglie, risulti perfino ovvio per molte di loro, ma arbitrario ed
accusatorio per altre, con esiti pericolosi in termini di immediato drop-out.
Ci mi ha portato a teorizzare e praticare una diversa modalit con cui proporre la consultazione
familiare, riassumibile cos: "La testimonianza di tutti i familiari ci preziosa per capire le origini
del problema all'interno di un processo evolutivo personale". Questo atteggiamento nella presa in
carico non va erroneamente considerato come una tattica furba o ipocrita, perch ha invece le sue
radici in un cambiamento del modello clinico di riferimento. Il modello sistemico classico
relazionale puro: il sintomo del paziente designato l'espressione di un problema familiare. Tale
riduzionismo sistemico oggettivamente colpevolizzante verso i familiari e specularmente mette il
paziente nella posizione della vittima. Non essendo ovviamente questa una buona operazione
terapeutica, un tempo si cercava di porvi rimedio ipotizzando un'attiva intenzionalit (sempre iper-
relazionale) del paziente stesso (presentato come il salvatore di altri familiari). L'annullamento del
livello di elaborazione individuale (come l'individuo gestisce il suo stato mentale) porta
inevitabilmente a non poter utilizzare idee chiave della psicologia clinica relative a come ogni
individuo si costruisce sistemi di credenze (o difese) fondamentali per la sua sopravvivenza psichica
(2). Concetti divenuti invece basilari per il modello clinico individuale-relazionale a cui si ispira
questo articolo.
La prima telefonata
Come gi dicevo, nella pratica di Mara Selvini Palazzoli e della sua quipe, l'ottica con cui
approcciarsi alla prima telefonata stata per molti anni fortemente interventista ed autoritaria,
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coerentemente con la filosofia terapeutica della fasi del paradosso, della prescrizione invariabile e
dello svelamento del gioco(17, pp. 62-73):
1) convocazione alla prima seduta familiare di tutti i membri conviventi, senza eccezioni
2) rifiuto di contatti preliminari con singoli membri della famiglia (in particolare per evitare la
rivelazione di eventuali segreti familiari (15)
3) sintetica e strutturata richiesta di informazioni sul sintomo e sulla composizione della famiglia
(14, pp. 20-21)
4) nessuna restituzione, salvo la convocazione, il costo delle sedute e il programma di un numero
massimo di 10 sedute familiari
La filosofia terapeutica alla base di un simile approccio quella di puntare su un forte ed immediato
messaggio di cambiamento: il "paziente" tutta la famiglia, non si accettano rapporti privilegiati o
confidenziali con nessun membro, il rapporto terapeutico sar improntato ad una decisa direttivit.
Ho lavorato con un simile atteggiamento dal 1978 fino ai primi anni '90 e mi sono progressivamente
sempre pi convinto che esso, pur essendo indubbiamente assai incisivo in molti casi, possa portare
a serie difficolt in numerosi altri. La priorit del primo incontro non necessariamente quella di
indurre fin da subito un cambiamento, quanto quella di accogliere una domanda di aiuto. Qui si
confrontano due diverse filosofie dei tempi del cambiamento terapeutico. Nell'ottica
dell'accoglienza possiamo pensare che il fatto che un paziente o una famiglia riescano a compiere
un passo cos difficile e cos critico quale quello di formulare una richiesta di aiuto costituisce di per
s un grandissimo cambiamento, che dobbiamo valorizzare senza la pretesa di richiederne
immediatamente di ulteriori e al momento prematuri. Dobbiamo soltanto indirizzare la richiesta
d'aiuto.
Continuit e differenze con la tecnica classica della presa in carico sistemica
Due classici articoli sulla presa in carico sistemica contengono linee guida ancora molto attuali. Di
Blasio, Fischer e Prata (7) ci consigliano di sollecitare soprattutto la descrizione di fatti e di
comportamenti (p. 9) nell'ottica dell'ipotizzazione e di un processo di verifica delle ipotesi (p. 15).
Ghezzi, Lerma e Martino (9) sottolineano il tema dell'autorevolezza del terapeuta (p. 14) e la
necessit di leggere i fatti in modo completamente inatteso (p. 17). Tuttavia la filosofia terapeutica
interventista degli anni '80 resta centrata su una visione della famiglia come avversario da
sconfiggere, com' testimoniato da sottolineature come le seguenti: "si assiste con alta frequenza
alla messa in opera di un quadro manipolatorio da parte della famiglia" (9, p. 7). Inoltre fin dalle
primissime battute l'approccio volto ad ottenere un cambiamento nel qui ed ora: ad esempio la
cartella telefonica non comincia dal problema, ma dai dati sulla famiglia nucleare ed estesa, prassi
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che convoglia una precocissima ridefinizione implicita del problema. Identico appare il significato
della rigidit nella convocazione di tutti i familiari conviventi.
Se accettiamo l'osservazione di Di Blasio e colleghi che sottolineano come "la presenza di pattern
storici disfunzionali espone il terapeuta al rischio di non saperli riconoscere e quindi di non poterli
evitare, vanificando cos il proprio ruolo terapeutico" (7, p. 5), un'accoglienza collaborativa e
flessibile ci far certamente rischiare di cadere nei pattern storici della famiglia. E' possibile che in
una serie di casi questo conduca ad errori irreparabili ed al drop-out. D'altra parte cadere nel gioco
delle famiglie non necessariamente una debolezza, perch potremo disporre di quella visione
binoculare o del pensare per andirivieni (16, p. 28) che ci consente di ipotizzare (o vedere) sia
guardando la famiglia "l fuori" (fatti e descrizioni) sia "sentendo" noi stessi rispetto alle nostre
emozioni in relazione a quelle persone. E sia guardare "l fuori" che guardarci dentro richiede
inevitabilmente un certo tempo, un tempo di dubbio ed incertezza che dobbiamo essere capaci di
accettare (insieme con i nostri clienti).
Cos nel modello passato la fase preliminare durava il tempo di una telefonata (per quanto
prolungata e spesso ripresa in un giorno successivo), mentre ora si dilata in 2 - 3 lunghi colloqui.
Un terapeuta che ha meno fretta creer meno tensione, sar meno autoritario e favorir quindi una
maggiore collaborazione e partecipazione. Certamente perder anche occasioni per indurre un
cambiamento immediato, ma, in un ipotetico bilancio finale, la terapia familiare ne potr trarre
vantaggio sia in termini di efficacia che di umanit del trattamento.
Obiettivi del primo contatto telefonico
Il primo contatto telefonico deve prefiggersi quattro obiettivi:
1) VERIFICARE SE ESISTE UN PROBLEMA RISPETTO AL QUALE CI SENTIAMO
COMPETENTI AD INTERVENIRE CON STUMENTI PSICOTERAPEUTICI.
A questo scopo al telefono si deve chiedere il motivo della richiesta, badando bene di contenere la
risposta in una brevissima descrizione. Fisseremo un primo appuntamento per quei problemi per i
quali ci sentiamo competenti e per i quali riteniamo ci sia in linea generale un'indicazione
psicoterapeutica. E' necessario un approfondimento solo in caso di seri dubbi sulla dimensione
psicologica del problema. La brevit, oltre alla utilit pratica, serve a valorizzare il primo colloquio
come vero inizio del rapporto e quindi inizio non con il solo richiedente.
2) INIZIARE A CREARE UN CONTESTO DI COLLABORAZIONE DENTRO LA FAMIGLIA
PER AFFRONTARE IL PROBLEMA.
A questo scopo chiedo se tanto entrambi i genitori che il figlio paziente sono disponibili ad un
primo colloquio di conoscenza e valutazione. E' infatti ovvio, oltre che dimostrabile (21), come un
fattore chiave per il successo di una psicoterapia sia l'alleanza terapeutica con il paziente. E' quindi
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errato escludere il paziente da un momento cos delicato di costruzione del rapporto come il primo
colloquio, specialmente in quei non pochi casi in cui lui stesso abbia sollecitato un aiuto. E' inoltre
evidente come la presenza contemporanea di genitori e pazienti sia un implicito invito ad una
dimensione di collaborativa condivisione di idee e di speranze.
E' regola ferrea convocare sempre chi telefona (per lo meno se questi un membro della famiglia),
in quanto per definizione il principale richiedente, salvo rarissime eccezioni. Altra regola ferrea
non fissare mai un appuntamento per persone diverse dal richiedente senza la presenza del
richiedente stesso. E' anche del tutto accettabile (anche se con questa casistica grave abbastanza
raro) che un paziente, specie se adulto, voglia venire da solo. E' del tutto accettabile, anzi
auspicabile, che vengano i soli genitori allorch un paziente (com' frequente in questa casistica)
restio a coinvolgersi nella consultazione.
La convocazione iniziale di entrambi i genitori un test molto importante sia sulla struttura della
famiglia che sulla natura della domanda: tuttavia accettabile, chiarendone i rischi per l'eventuale
futura collaborazione dei familiari, che venga un solo genitore con il figlio paziente o anche da solo,
sempre nei casi in cui il paziente sia riluttante a partecipare alla consultazione.
Le famiglie separate-ricostituite richiedono un approfondimento della possibilit e delle opportunit
di convocare congiuntamente i genitori.
Quando il richiedente un fratello o sorella diviene assai auspicabile un primo colloquio che
comprenda anche genitori e paziente. Se il paziente non collaborante, ci sembra allora necessario
testare direttamente (con una telefonata) la disponibilit dei genitori a coinvolgersi ed questo uno
dei pochi casi in cui pu essere opportuno escludere, almeno inizialmente, il primo richiedente, cio
il fratello o la sorella. Ci sembra infatti pericoloso confermare fin dall'inizio la leadership e la
parentificazione di un fratello, almeno qualora i genitori siano ancora vivi ed in buona salute. Con
quest'ultima "regola" la filosofia dell'accoglienza trova un limite nel rischio di colludere con uno
schema relazionale strutturalmente disfunzionale.
Ovviamente situazioni diverse richiedono accorgimenti diversi: se chi telefona il coniuge
domandiamo la presenza del paziente al primo colloquio, se la richiesta per un bambino inferiore
agli 11 anni vengono di solito convocati i soli genitori (13).
Invitare i fratelli/sorelle al primo colloquio risulta di dubbia utilit per varie ragioni:
a) come vedremo tra poco, l'impostazione del primo colloquio d spazio soprattutto al paziente e
questo rischia di far giocare alla fratria un ruolo di inutile comparsa. In un primo colloquio non
abbiamo il tempo di fare pi di un limitato numero di cose
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b) molto frequentemente c' conflitto in queste fratrie, quindi escludere i fratelli da questo
preliminare facilita, in linea generale, la costruzione di un clima pi collaborativo e meno
irritato
c) la fratria pu arrivare spesso contrariata e perplessa (specie quando giovane), in quanto non
avendo di solito i genitori ancora compreso lo spirito dell'iniziativa, non possono averla spiegata
ai figli "sani".
Nel caso il genitore al telefono sia dubbioso sul formato preferibile per il primo colloquio, si pu
fornirgli il seguente criterio: "Se vi sentite tranquilli nel parlare di tutto quello che ritenete
importante davanti a vostro figlio, portatelo con voi, altrimenti bene che veniate solo voi genitori".
In linea generale, l'efficacia del primo colloquio tanto maggiore quanto meno il clima tra le
persone presenti (e quindi tra loro e noi) polemico ed aggressivo. Questa variabile importante,
specialmente per un terapeuta che lavori senza il supporto dell'quipe.
A questo riguardo, poich un terapeuta che lavora da solo sar certamente pi accogliente, mentre
un'quipe tender a proporre immediati interventi per il cambiamento, abbiamo scelto la formula di
un solo terapeuta per i colloqui preliminari, e dell'quipe nella fase della consultazione familiare.
Spesso si constater nel colloquio preliminare che non ci sono (o non ancora) le condizioni per un
lavoro familiare, vuoi per mancanza di disponibilit di membri importanti della famiglia, vuoi per la
presenza di dinamiche intrafamiliari troppo violente ed accusatorie. La prima telefonata ed il primo
colloquio servono proprio sia per testare la praticabilit di una terapia familiare, sia per cercare di
creare le condizioni che la rendano possibile. In senso generale la terapia inizia con la prima
telefonata e tutto il processo ha senso solo in quanto fautore di cambiamenti evolutivi, tuttavia
pensare la psicoterapia come un percorso da costruire passando per fasi subentranti aiuta sia l'ordine
degli obiettivi del terapeuta che la chiarezza del contratto con i clienti.
E' soprattutto molto importante evitare che al primo colloquio si presentino il paziente o altri
membri della famiglia trascinati e forzati controvoglia. Questo mina gravemente la dimensione
comunicativa e collaborativa fondamentale in un primo colloquio. L'esperienza insegna che se un
membro importante della famiglia piuttosto riottoso, almeno un altro probabilmente parecchio
ambivalente. Ed pi facile guadagnare in fiducia ed autorevolezza se non abbiamo troppi "nemici"
nella stanza. In molte terapie familiari riuscite, la fiducia viene guadagnata passo a passo e membro
dopo membro.
E' pi che opportuno fissare il primo colloquio alla minore distanza di tempo possibile. Succede
assai spesso che incontri a distanza di pi di dieci giorni vengono cancellati definitivamente.
3) COSTRUIRE UN'AUTOREVOLEZZA DEL TERAPEUTA
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A questo scopo la chiarezza e determinazione nella contrattazione telefonica delle convocazioni
importante. L'autorevolezza appare essere correlata con il buon esito dell'intervento (28).
4) INIZIARE A COSTRUIRE UN CONTESTO DI FIDUCIA E COLLABORAZIONE TRA IL
CONDUTTORE E LA FAMIGLIA
A questo scopo la linea guida quella di una leadership sicura, ma flessibile, evitando sia il rischio
(passato) dell'autoritarismo come anche quello opposto di essere del tutto "proni" a qualsiasi
richiesta del "cliente". Ad esempio faremo delle obiezioni all'assenza di un padre se motivata solo
dai suoi impegni di lavoro, cos come ci opporremo a fissare un appuntamento a cui il richiedente
non intende partecipare.
L'obiettivo centrale del primo colloquio: il riconoscimento della sofferenza
E veniamo ora al primo colloquio, del quale obiettivo essenziale e prioritario che il paziente
stesso, ed i familiari tutti, arrivino a capire che il sintomo soprattutto espressione di una sofferenza
personale ed insieme un tentativo di difesa o almeno di contenimento della sofferenza stessa.
Tale visione sicuramente gi presente in molti casi, ma non in tutti, e proprio questi ultimi sono
quelli cruciali per la nostra strategia di presa in carico. Ad esempio, non per niente scontato che
un'anoressica sia vista come sofferente: la visione "naturale" del sintomo da parte di lei stessa e dei
familiari molto spesso privilegia altri stereotipi:
1) una cattiva educazione alimentare
2) la sudditanza alle mode estetiche correnti
3) un carattere malvagio volto a far soffrire e schiavizzare i familiari
Quante anoressiche si descrivono come del tutto prive di difficolt personali e come tali sono pure
descritte dai loro familiari!
Analogo ragionamento si potrebbe fare per ogni sorta di problema: per la tossicodipendenza, o per
l'area delle psicosi, oppure per le depressioni, dove le spiegazioni di tipo biologico sono molto
diffuse. Per fare un altro esempio, genitori tiranneggiati da un figlio che impone loro un ordine tanto
arbitrario quanto assoluto (a base di oggetti perfettamente paralleli, tapparelle abbassate, frigorifero
rigorosamente vuoto, rituali di ispezione ecc.) non per niente scontato che abbiano capito che in
quel modo il loro ragazzo cerca di sentirsi attivamente in una situazione di controllo totale, per
tentare di padroneggiare uno stato mentale di disperante angoscia ed impotenza.
In moltissimi casi, con varianti diverse, una negazione (o sottovalutazione) dello stato di sofferenza
e crisi personale comune alla visione del paziente stesso e dei suoi familiari
Le tre fasi del primo colloquio: la definizione del problema
La scaletta del primo colloquio prevede tre fasi:
1) la definizione descrittiva e comportamentale del problema
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2) la spiegazione psicologica individuale (o intrapersonale) del problema
3) la proposta di contratto
Rispetto alla prima fase le tecniche di intervista partono dal paziente e intrecciano la cronologia del
sintomo con elementi biografici del paziente. Questa prima fase teoricamente si conclude con
l'enunciazione della definizione diagnostica del problema, ad esempio: "si tratta proprio di una
classica anoressia restrittiva, come descritta nei manuali".
Questa chiusura della fase della definizione utile per i seguenti scopi:
1) enunciare una definizione del problema il pi possibile semplice e chiara, al fine di verificare il
consenso di tutti sul fatto che questo il problema che siamo chiamati a risolvere. (8, p.89)
Nella maggior parte dei casi la definizione del problema risulta piuttosto scontata: pu essere ovvio
che si tratti di un'anoressia, di una tossicodipendenza da eroina, o di una schizofrenia paranoide ecc.
Esistono per alcuni casi dove la definizione del problema decisiva per l'impostazione del
trattamento. E' infatti strategica la individuazione della principale "territorialit" del problema.
Definiamo l'esistenza di un problema individuale? Oppure definiamo l'esistenza di pi problemi in
diversi membri della famiglia? Li poniamo sullo stesso piano o diamo loro una gerarchia di
crescente gravit? Oppure definiamo che non esiste un chiaro problema individuale quanto piuttosto
un problema relazionale? Si pensi a quei casi dove non chiaro se sia pi problematico il modesto
disturbo alimentare della figlia o la vistosa ansia della madre.
Recentemente ho ricevuto una richiesta di consulenza di un giovane uomo, preoccupato per il
disturbo alimentare della moglie. La moglie stessa, convocata con il coniuge per il primo colloquio,
neg con argomenti convincenti l'esistenza di un suo serio problema alimentare: una bella
ragazza, perfettamente nel peso forma, non ha mai vomitato. Piuttosto sentiva di avere un serio
problema di coppia perch non sopportava pi i continui controlli del marito sulla sua
alimentazione, l'ossessione di lui che assumesse solo cibi sani ed ipocalorici, le scenate per un dolce
o un gelato in pi. Conclusi la prima parte di quel colloquio definendo l'esistenza di un serio
problema personale del marito: questi non solo era per se stesso un fanatico della palestra, della
forma fisica e della sana alimentazione, ma aveva spostato pesantemente queste sue ossessioni sulla
giovane moglie, rendendo la convivenza coniugale ormai pressoch insostenibile (recentemente la
giovane sposa era fuggita per alcuni giorni da sua sorella).Definita l'esistenza di un problema personale (di tipo ossessivo compulsivo) del coniuge, seguirono
delle ipotesi di spiegazione psicologica generale di quel sintomo ed un coerente contratto
terapeutico che prevedeva sedute individuali, di coppia e con la famiglia di origine di lui.
In molti casi la definizione del problema pu risultare un'ambiguit importante da chiarire, anche e
proprio perch i diversi membri non necessariamente la dichiarano apertamente. Si veda ad esempio
il caso classico di una richiesta per un figlio che risulta fumosa, perch in realt uno dei due genitori
pensa che il vero paziente da curare sia il coniuge.
Altra tipica situazione quella di quei genitori che vengono in consultazione con il figlio, parlando
di generiche difficolt di relazione in famiglia, mentre in realt sono preoccupati per una patologia
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del figlio che quest'ultimo accanitamente nega. Ed anche qui importante arrivare ad una
definizione del problema che non sia mistificata, ma cerchi di costruire un consenso sullo stato di
sofferenza del paziente (di solito con problematiche di violenza o di tipo persecutorio).
Ma veniamo ad un ulteriore scopo della definizione del problema:
2) funzionare come un test di realt che informa pazienti e familiari sulle caratteristiche generali
del problema. Dato un nome alla "malattia", possibile dire quella che ne in linea di massima
la prognosi. Ad esempio per l'anoressia restrittiva utilizzo i dati delle ricerche, tra cui la nostra
stessa sul follow-up di 143 pazienti (17), per spiegare che l'anoressia tende ad avere un'ottima
prognosi, ma anche una lunga durata (pi di 5 anni nel 39% dei casi). Se la famiglia collabora il
successo pressoch garantito, ma anche necessaria molta pazienza perch spesso i progressi
non saranno affatto immediati.
Ritengo sia molto importante essere informati sulle ricerche esistenti sui diversi tipi di problemi, al
fine di poter dare le informazioni pi realistiche possibili, (8, p. 112) anche rispetto ai diversi punti
di vista di differenti orientamenti clinici.
Questa restituzione definitoria e prognostica collegata all'obiettivo precedentemente enunciato di
testare l'adeguatezza di tutti nel far fronte alla problematica in atto. Infine,
3) una chiara definizione del problema utile anche a noi stessi, per chiederci se ci sentiamo
preparati ad affrontare quel tipo di problema, e a quali condizioni.
Possono esistere tipi di problemi per cui non sentiamo di essere noi l'intervento di prima scelta.
Ad esempio, sono stato contattato da una famiglia con due ragazzine entrambe insufficienti mentali,
seguite dai servizi ed aiutate con un sostegno nell'inserimento scolastico. I genitori lamentavano che
nessuno avesse mai loro spiegato le origini del dramma e non erano certi se quello che stavano
facendo fosse effettivamente il meglio possibile. In questo caso mi dichiarai incompetente a
rispondere al loro quesito e promisi loro aiuto per individuare un servizio specialistico che potesse
aiutarli nei loro legittimi interrogativi.
In altri casi il nostro trattamento deve essere condizionato alla collaborazione in parallelo con altri
interventi che hanno un carattere di maggiore urgenza rispetto al nostro: questo, ad esempio, ilcaso classico di un'anoressica gravemente defedata che non sia in carico a nessun medico, oppure di
uno scompenso psicotico in fase acuta, dove appare indispensabile una parallela consulenza
psichiatrica per un immediato intervento farmacologico e/o di ricovero. Molti pazienti non sono
trattabili in terapia familiare senza un accordo collaborativo con gli altri curanti gi coinvolti nella
presa in carico: si vedano ad esempio i tossicodipendenti in carico ad un SERT o comunque tutti i
pazienti che sono gi in un trattamento individuale psichiatrico o psicoterapeutico (18).
Si pone poi il problema dei pazienti che non accettano una loro designazione di "malattia". Con
molti pazienti psicotici o devianti che erano stati in qualche modo "portati" dai genitori terminiamo
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il primo colloquio prendendo atto della loro non disponibilit e lasciandoli quindi a casa, per
proseguire con i genitori, ove possibile (come dir pi avanti) .
Il contratto di una consultazione familiare richiede una chiarezza del consenso sui suoi presupposti:
chi non d'accordo non ha senso partecipi.
Nei casi pi riusciti abbiamo potuto verificare come, conquistando la fiducia dei genitori, arriviamo
a conquistare anche la fiducia del figlio paziente (4). Molti pazienti di area psicotica sono
comunque coinvolgibili fin dall'inizio in un contratto di consultazione familiare, mentre non
accetterebbero, o non trarrebbero alcun beneficio, da un formato psicoterapeutico individuale.
Pi difficile il caso di adolescenti devianti, falliti a scuola, antisociali, spesso pre-tossicodipendenti,
in rotta totale con i genitori. Con questi ragazzi, se miracolosamente riescono a portarceli, difficile
seguire il tema base della sofferenza di cui abbiamo parlato. Infatti il loro atteggiamento di
negazione della sofferenza spesso estremamente reattivo. Un ingaggio familiare pu invece essere
tentato su tematiche pi relazionali, quali la totale incomunicabilit e la impossibilit di affidarsi
alla guida dei genitori. Possiamo insomma porci come una sorta di mediatori, senza fare
un'operazione troppo mistificatoria, dato che siamo in presenza di patologie ancora piuttosto fluide.
La stessa operazione di definire il problema in termini puramente relazionali sarebbe invece
decisamente anti-terapeutica con gravi pazienti psicotici, perch avvallerebbe pericolosamente la
negazione di uno stato limite di disperazione, che ha invece urgente bisogno di essere riconosciuto.
Perch "etichettare"
In linea generale l'esplicitazione di una diagnosi non affatto scontata nella terapia familiare, tanto
che molti terapeuti familiari, seguendo Haley (10), tendono a pensare che la diagnosi non solo sia
inutile, ma addirittura dannosa, in quanto oggettivizza dentro il paziente un problema che invece
familiare. Questa impostazione non mi trova pi d'accordo per il suo ingenuo radicalismo
relazionale. Infatti in tutte le serie psicopatologie, al di l delle complesse problematiche
sull'eziopatogenesi, non possiamo non riconoscere l'esistenza di una seria difficolt individuale,
cio di forme importanti di deficit o incapacit personali. Aiutare sia il paziente che i suoi familiari
a riconoscere la persona del paziente in modo non distorto molto importante e prioritario nel
processo di presa in carico (20).
L'obiettivo dell'autocritica di genitori e fratelli, cio il riconoscimento della loro involontaria parte
di responsabilit nell'eziologia delle difficolt del paziente, si deve porre pi avanti nel processo
della presa in carico e del trattamento. Potrebbe essere ingenuo, frettoloso o semplicemente stupido
pretendere di fare tutto in un primo colloquio.
L'obiettivo di depazientificazione o depatologizzare il paziente si pone nel tempo della terapia e non
necessariamente la priorit del colloquio iniziale. L'applicazione prematura e/o troppo radicale di
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quello che Mara Selvini Palazzoli chiamava il principio di competenza potrebbe essere dannosa. E
questo certo un grande cambiamento rispetto a tecniche terapeutiche quali ad esempio quelle
utilizzate dalla stessa Palazzoli negli anni '80 quando apriva la prima seduta familiare chiedendo ad
una ragazza anoressica: "l'anoressia uno sciopero della fame non dichiarato che hai diretto contro
qualcuno che ti ha fatto ingoiare dei grossi rospi. Chi questo qualcuno? Quali rospi?"
L'impostazione attuale progetta una diversa gradualit della collaborazione e della comprensione,
nell'ottica di procedere passo a passo, fissando una successione logica di obiettivi da raggiungere.
Tutto questo rimanda al tema decisivo della costruzione di procedure o protocolli della psicoterapia
(22, 24).
Quanto a me, rispetto all'uso della diagnosi, evito solamente di usare etichette come quella di
schizofrenia, che potrebbe risultare troppo terrorizzante sia per il paziente che per i suoi familiari.
L'approccio descritto in questo articolo consente di ridurre il conflitto (esplicito o implicito) nel
primo colloquio con genitori fortemente autodifensivi e insieme critici verso il figlio paziente.
Contemporaneamente la disponibilit ad un'alleanza anche individuale con il paziente permette di
tentare una presa in carico individuale parallela a quella familiare.
Per queste due ragioni finiamo per avere meno drop-out e quindi per selezionare meno la casistica
che approda alle sedute familiari in quipe. Questo fa s che arriviamo pi preparati e pi attrezzati
al momento in cui diventa necessario "attaccare" i nodi di fondo dell'atteggiamento genitoriale di
auto-assoluzione ed ostilit verso il paziente. Siamo pi preparati perch sappiamo pi cose sul
paziente e sulla sua famiglia, siamo pi attrezzati perch abbiamo gi costruito una prima alleanza
con uno o pi membri della famiglia.
Dal punto di vista della teoria della clinica, il concetto di riconoscimento della sofferenza
rappresenta un'evoluzione dello storico concetto di connotazione positiva (14). Infatti un obiettivo
terapeutico aspecifico ma prioritario quello di costruire un clima di benevolenza nei confronti del
paziente. A questo scopo molti modelli terapeutici (anche negli aggiornamenti di tipo
psicoeducativo) utilizzano soprattutto il concetto di malattia. Come abbiamo visto, in molti casi
anch'io lo ritengo utile (nella fase della definizione del problema), ma solo in associazione con una
specifica spiegazione psicologica declinata nel linguaggio della sofferenza psichica. Il puro concetto
di malattia rischia infatti di esser troppo invalidante per il paziente e passivizzante per le capacit
riflessive di tutti gli attori in gioco. Nella tradizione sistemica la connotazione positiva equivaleva
invece alla negazione dello stato di malattia: "il paziente ha scelto liberamente di sacrificarsi
nell'interesse di altri familiari". Un intervento che mirava, spesso con successo, a produrre
benevolenza verso il paziente e fiducia nelle sue risorse. Gli effetti a medio termine erano per
frequentemente controproducenti, probabilmente proprio per il ricorso a forzature o arbitrariet
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interpretative, e ancor pi perch negare la malattia comportava il rischio pericolosissimo di negare
la sofferenza stessa (22, p. 122).
La conduzione del primo colloquio. Il paziente protagonista.
La priorit del primo colloquio non tanto o solo quella di consolidare il rapporto con il
richiedente, bens quella di cercare un'alleanza con il paziente. Quindi, qualora il paziente sia
presente, il conduttore inizia rivolgendosi a lui, cercando di facilitargli la possibilit di descrivere il
suo problema e di formulare una pi o meno esplicita richiesta di aiuto. Naturalmente questo non
sempre possibile. A volte, nonostante le raccomandazioni date al telefono al genitore di non
trascinare un figlio recalcitrante, il paziente ostile e si rifiuta quindi di rispondere. Il colloquio
proseguir allora con i genitori: talvolta, rotto il ghiaccio, si riuscir in una seconda parte del
colloquio ad attivare anche una collaborazione del paziente stesso.
Alcuni pazienti (rari) dichiarano subito di non essere disponibili a parlare davanti ai genitori. In
questi casi il suggerimento che do loro quello che non dicano niente riguardo a quanto, seppur
importante, potrebbe metterli in imbarazzo. Ci sar poi un altro spazio individuale e riservato in cui
potranno aprirsi. Dare la priorit al rapporto con il paziente non affatto scontato nella tradizione
relazionale, sia nell'ottica della depatologicizzazione e depazientificazione, che in quella strutturale
del rispetto/conferma delle gerarchie. Ad esempio la Kaslow (11) nella sua teorizzazione della
prima seduta familiare, consiglia di rivolgere la parola al paziente per ultimo, dopo aver interpellato
tutti gli altri familiari presenti.
Abbiamo elencato le tre fasi del primo colloquio (definizione, spiegazione, contratto).
Coerentemente con la prima fase (definizione descrittiva del problema), il primo colloquio
comincer con il richiedere una descrizione del problema, una descrizione guidata e non libera.
Cerco infatti di aiutare il paziente a partire dalle difficolt presenti e dagli aspetti maggiormente
oggettivi e comportamentali. Ad esempio, per le anoressiche il loro peso, l'eventuale vomito,
l'amenorrea. In generale cerco di avere una descrizione attuale il pi possibile dettagliata dei
sintomi, pur non dedicando all'argomento troppo tempo. Partire dai fatti e dalla loro precisa
descrizione resta il criterio fondamentale (7).
Rispetto all'obiettivo generale di facilitare la collaborazione dentro la famiglia, in questa fase del
colloquio si va a verificare soprattutto la capacit dei genitori di ascoltare il paziente. E' gi un dato
relazionale fondamentale quando uno o entrambi i genitori interrompono sistematicamente il
paziente, parlano al suo posto o addirittura polemizzano con lui, comportamenti che cercher
morbidamente di tenere a freno. Se il paziente in grado di descrivere il suo problema, ed i genitori
sono capaci di ascoltarlo, li interpeller solo dopo circa trenta minuti di colloquio, al fine di sentire
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il loro punto di vista su quanto fin l detto dal figlio, con una domanda del tipo: "Ci sono cose
significative che vorreste aggiungere o sottolineare?".
Tenendo presente il terzo e quarto obiettivo generali della presa in carico (conseguire
l'autorevolezza del terapeuta e la fiducia in lui) credo sia fondamentale il ruolo direttivo di una
guida che per si pone anche in una posizione di ascolto partecipe e rilassato. Il conduttore c' come
professionista, ma anche come persona e pu quindi anche permettersi, per esempio, qualche risata
e qualche battuta.
Una tecnica di comunicazione implicita
Rispetto alla scelta dei contenuti della prima mezz'ora di colloquio, devo far riferimento ad un
ulteriore obiettivo di questa fase del lavoro:
INIZIARE AD AIUTARE TUTTI A PENSARE IL PROBLEMA, SOSPENDENDO O ALMENO
RALLENTANDO PER UN ATTIMO LA "NATURALE" TENDENZA AD AGIRLO O A
REAGIRVI EMOTIVAMENTE.
A questo scopo la prima parte del colloquio parte dalla descrizione delle difficolt presenti, e subito
si intreccia con una descrizione della vita attuale del paziente: "Cosa sta facendo adesso? Quale
classe delle superiori, quale anno di universit, e come vanno le cose?" (sempre in termini di fatti e
descrizioni di fatti).
L'intervista procede a ritroso, passando dalla classica domanda su "quando si pu datare l'inizio del
problema", e indagando parallelamente su cosa stava succedendo allora nella vita del paziente. In
pratica si tratta di aiutare il paziente a mettere in parallelo una cronologia del sintomo con una
cronologia della sua vita. Nella cronologia della vita, oltre agli eventi prestazionali, si indagano con
domande dirette gli avvenimenti nella vita amicale e sentimentale e altri importanti avvenimenti
concernenti la salute fisica e le relazioni familiari.
Questa doppia cronologia parallela spesso suggerisce interessanti coincidenze temporali, come nella
celeberrima frase di Bowen (1): "Let's the calendar speak" "Facciamo parlare il calendario".
Tale tecnica si connette molto direttamente all'obiettivo fondamentale di collegare il problema ad
una crisi personale ed ad una sofferenza del paziente. In questa fase l'obiettivo viene perseguito con
una tecnica di comunicazione implicita.
Un'intervista cos impostata un immediato test dell'atteggiamento del paziente e dei suoi familiari
verso il problema. Con molte famiglie che si rivolgono al nostro Centro ci accorgiamo subito che
stiamo sfondando una porta aperta: sono infatti gi in grado di collegare il sintomo con delle
vicissitudini personali. Ma a noi interessa soprattutto seminare almeno un piccolo dubbio negli altri,
quelli, ad esempio, come molte anoressiche, che non vedono nessun tipo di difficolt nella loro vita
personale pre-morbosa. Altri casi difficili sono quelli in cui il figlio estremamente accusatorio
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verso i genitori, o viceversa lo sono i genitori verso il figlio, o addirittura lo sono tutti contro tutti!
(come in certe famiglie con pazienti sul versante border-istrionico).
In quest'ultima situazione importante stare fermi sulla oggettivizzazione della grave sofferenza
psicologica del paziente, al fine di non dare legna al fuoco dell'escalation conflittuale in corso.
E' mia regola ferrea non fare nel primo colloquio alcuna domanda relazionale (del tipo: "come
stata, o come , la relazione paziente-padre, quella tra i genitori ecc."). Queste domande vengono
lasciate per la prima seduta di consultazione familiare condotta in quipe. Le osservazioni
relazionali emergono copiosissime dalle semplici osservazioni e dai fatti che vengono raccontati.
Non c' tempo per domande relazionali, che sono pericolose su quel terreno della colpevolizzazione
e della vergogna di cui ho gi parlato.
La comunicazione di co-responsabilit implicita in una convocazione familiare ed in un colloquio
congiunto fortissima e non c' alcun bisogno di appesantirla n con stereotipate dichiarazioni sulle
tensioni familiari, n con domande sullo stato delle relazioni. Ci concentriamo invece sul nostro
obiettivo fondamentale: il consenso sulla presenza di una sofferenza del paziente e su un progetto di
collaborazione per capirlo e quindi aiutarlo.
Per questo fondamentale obiettivo la restituzione di una spiegazione psicologica (seconda fase) del
problema dev'essere in prima battuta il pi possibile intrapersonale, cio riferita al rapporto che il
paziente ha con se stesso. Una spiegazione che quindi coglie solo un livello della realt, ma quello
prioritario in questa fase: cercare di "smontare" l'indifferenza, la distanza emotiva dei familiari dal
paziente (e del paziente dalla sua stessa sofferenza o ostilit) per fare invece vedere il sintomo come
espressione della sofferenza e insieme come tentativo di "tenerla a bada". In questa fase iniziale, le
spiegazioni relazionali rischiano invece di alimentare "spirali" di accusa e conflitto.
Per quanto riguarda le informazioni di base sulla famiglia, nel primo colloquio ci basta sapere la
composizione della famiglia nucleare. Per ora non ci interessano le biografie di genitori e fratelli, n
tanto meno le storie delle rispettive famiglie estese.
Abbiamo invece un sesto obiettivo, strettamente collegato a quello centrale:
TESTARE I VARI ATTORI NEL FAR FRONTE AL PROBLEMA: SONO ADEGUATI,
DRAMMATIZZAMO O BANALIZZANO?
I loro atteggiamenti, le loro parole sono la risposta a questa domanda.
Il passaggio alla comunicazione esplicita: la prima spiegazione psicologica
Dopo i primi 30-60 minuti di un colloquio che previsto duri 75-120 minuti, dovremmo aver
ottenuto una chiara definizione o descrizione del problema. Abbiamo lavorato per quello, abbiamo
chiesto tutta una serie di chiarimenti, abbiamo interpellato tutti i presenti. Dobbiamo allora essere in
grado di passare alla seconda fase della nostra scaletta:
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DARE UNA SPIEGAZIONE PSICOLOGICA GENERALE DEL PROBLEMA PORTATO, CON
ALCUNI SEMPLICI RIFERIMENTI AL LORO CASO.
Una prima spiegazione del sintomo come difesa dalla sofferenza di uno stato di crisi personale
appare il primo e fondamentale gradino di un percorso di presa in carico. Nel primo colloquio si
dovr allora spiegare che cos' quel sintomo. Ad esempio, per l'anoressia si parler di un sentimento
di inadeguatezza (17, pp. 107-108) che trova conforto nel sentimento di potere su se stessa e sugli
altri indotto dal sintomo stesso. Invece nel caso di una psicosi paranoide allucinatoria si potr
parlare della impossibilit per l'essere umano di sopportare un totale isolamento comunicativo ed
affettivo, da cui il bisogno di "inventare" interlocutori che restituiscano un sentimento di centralit
ed importanza, vitale per la sopravvivenza psichica di chi arrivato a quel punto di sofferenza
estrema. Oppure nelle depressioni si potr parlare di un sintomo che esprime l'incapacit di adattarsi
ad eventi che hanno prodotto un sentimento di impotenza (22).
Ecco dunque il succo di questo articolo, la proposta di una procedura di presa in carico che privilegi
un fondamentale obiettivo: il riconoscimento della sofferenza del paziente, come tappa preparatoria
essenziale ad un pi specifico percorso di cambiamento attraverso la psicoterapia.
La spiegazione psicologica del problema un test diretto e trasparente della capacit dei diversi
attori di sintonizzarsi sullo stato di disagio del paziente.
Esso molto importante per costruire l'autorevolezza del conduttore e la fiducia in lui. Come gi
dicevo un primo colloquio non pu risolversi in una mera raccolta di informazioni: i nostri utenti si
aspettano di ricevere una prima restituzione ed giusto che la ricevano. Come sottolineato da
Ghezzi e colleghi (9) la restituzione tanto pi utile quanto pi contiene qualcosa di nuovo ed
inaspettato per il paziente e per la famiglia. Vari autori di diversi orientamenti sottolineano la
necessit della reciprocit dello scambio nel primo colloquio. (23, p. 32-33)
La spiegazione psicologica una prima restituzione sul versante del pensare. In molti casi per
contestualmente e coerentemente necessario fornire anche semplici consigli di comportamento. Del
tipo: "cessate ogni controllo o insistenza sul cibo assunto dalla vostra figlia anoressica", "restate
vicino al vostro ragazzo in fase di scompenso paranoide, fatelo parlare, non criticatelo, non zittitelo,
non deridetelo, cercato solo di ascoltarlo, capirlo, farlo sentire protetto".
Una parte del primo colloquio si base quindi sulle reazioni e commenti di tutti alla spiegazione
psicologica fornita dal conduttore. Il conduttore stesso pu controreagire fornendo qualche
spiegazione supplementare.
Un'importante variante si ha quando gli stessi utenti definiscono il problema in termini psicologici,
non in termini comportamentali e descrittivi (quali anoressia, tossicodipendenza, psicosi maniaco-
depressiva ecc.), ma gi come sofferenza e disagio della persona. Non essendo quindi necessario il
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passaggio dalla definizione di malattia alla spiegazione psicologica, pu essere utile fare un passo
avanti e chiedere a tutti i presenti la loro spiegazione sulle cause del problema psicologico da loro
individuato. Questa domanda consente di attivare tutti in una riflessione sulle origini del problema,
il che una vera prova generale del lavoro di psicoterapia che stiamo progettando. Il ruolo del
conduttore, in reazione alle diverse risposte, diviene quello di dare un feedback di conferma o di
perplessit sulle loro spontanee elaborazioni.
Questa parte della seduta servir quindi come una sorta di dimostrazione di quale potr essere il
lavoro da farsi durante la consultazione vera e propria.
La domanda sulle cause del problema (o sulle cause della sua persistenza nel tempo) pu essere
utile con qualsiasi famiglia, specialmente quando la prima parte del colloquio non abbia gi fornito
delle risposte sulle loro "teorie della malattia". Oltre al suo interesse in s, questa domanda ben si
presta ad essere rivolta a tutti i presenti favorendo l'attiva partecipazione di ciascuno a consentendo
un immediato confronto sul loro atteggiamento verso il paziente e verso la terapia.
Non pu rientrare negli scopi di questo articolo quello di produrre un catalogo di tutte le spiegazioni
psicologiche preliminari possibili. Ho gi accennato alle spiegazioni "standard" per l'anoressia, la
psicosi paranoide e la depressione. Per un disturbo bipolare si pu parlare della maniacalit come
disperato tentativo di reagire ad una gravissima depressione suicidaria, per l'enuresi di uno stato
diurno di forte tensione ed ipercontrollo che pu venir meno solo durante la notte, per la
tossicodipendenza del tentativo auto-terapeutico di un grave stato di ansia o di depressione, per una
fobia della concretizzazione di uno stato ansioso globale, e cos via.
Vi propongo ora un breve e semplice esempio su come una simile conduzione del primo colloquio
possa essere utile per "conquistare" una paziente molto ambivalente sul volere e non volere un aiuto
psicoterapeutico.
Sara, 17 anni, 39 chili, anoressica da due anni. Sono rapidamente falliti interventi terapeutici di
vario tipo. Nelle prime battute del colloquio iniziale si dichiara contraria alla terapia familiare,
perch teme sarebbe troppo faticosa per i suoi genitori. Ricostruisco l'andamento del sintomo,
scopro che ha avuto due picchi negativi, uno all'esordio due anni prima ed uno pi recentemente.Alla domanda diretta su quali difficolt personali stava vivendo due anni fa, Sara risponde asciutta
nel segno del "tutto bene": frequentava con voti eccellenti il secondo anno delle superiori, un sacco
di amicizie, un fidanzatino.
L'evidenza della definibilit del problema mi consente per di passare subito alla spiegazione
psicologica sull'anoressia. La domanda esplicita diviene cos : "Perch Sara si sentita e si sente
inadeguata?" La madre comincia allora a raccontare che il primo fidanzatino entrato in scena
proprio un mesetto dopo l'inizio della prima dieta due anni prima. Sara racconta che era molto
geloso, l'aveva spinta ad abbandonare tutte le sue amicizie. Scopro che dopo un po' di mesi si erano
lasciati ed il peso era ritornato verso i 45 chili. A questo punto Sara, come per battuta, esclama: "E
lo sa quando mi sono di nuovo rimessa con un ragazzo? Proprio quattro mesi fa!" (cio poco prima
del secondo calo).
A questo punto, sempre su un tono esplicativo psicopedagogico, posso spiegare che un'eccessiva
accondiscendenza un classico tema dell'inadeguatezza che fa soffrire tante ragazze anoressiche:
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sembra proprio che Sara non possa mai seguire i suoi desideri e le sue idee, perch non deve
disturbare i suoi genitori (come dice oggi per la terapia familiare) o perch non pu assolutamente
scontentare i ragazzi con cui si lega.
Questa messa a punto della spiegazione psicologica lascia tutti e tre colpiti: una prima motivazione
alla terapia familiare l'abbiamo costruita insieme.
La proposta di contratto di consultazione
Allorch le prime due fasi della definizione e della spiegazione producano un consenso ed un buon
coinvolgimento cognitivo ed emotivo degli utenti, siamo in grado di concludere il primo colloquio
con la proposta di un abbozzo di contratto di consultazione. Dir allora che vedo l'indicazione per
una consultazione familiare.
La proposta di consultazione familiare, o di consultazione individuale, o infine familiare-
individuale in parallelo, dev'essere coerente con le spiegazioni psicologiche precedentemente
fornite, ma anche basarsi sulle esplicite aspettative e richieste di tutti, cos come deve fondarsi sulla
rassegna dei precedenti tentativi di intervento, indagine che sempre buona norma effettuare, anche
se rapidamente, in un primo colloquio preliminare. Ad esempio, una consultazione familiare
risulter a maggior ragione indicata se finora sono falliti svariati tentativi tutti di tipo individuale.
Viceversa ben pi dubbia se una precedente terapia familiare non ha dato risultati.
La consultazione familiare servir a continuare ed approfondire un lavoro che nel primo colloquio
stato solo "sfiorato":
a) comprendere le origini delle difficolt del paziente grazie alle testimonianze ed alla
collaborazione di tutti i membri della famiglia.
b) cercare delle soluzioni che favoriscano un positivo cambiamento. E' utile anticipare, se gi
siamo in grado di farlo, che la consultazione non sar tutta e solo familiare, ma si baser anche
in parallelo su incontri individuali con il paziente, oppure su sedute disgiunte con i genitori e
con la fratria.
Spiego per che prima della consultazione familiare vera e propria necessario un secondo incontro
preliminare con tutta la famiglia nucleare per raccogliere i dati riguardanti la storia dei genitori e dei
fratelli.
Indico in circa 3-4 sedute ad intervallo mensile la durata della consultazione. Spiego quali costi
sono previsti e le nostre modalit di lavoro in quipe.
Per fornire tutte queste complesse informazioni mi aiuto con un foglietto informativo che diamo a
tutti gli astanti all'inizio del primo colloquio. In tale dpliant si spiega chi siamo, di cosa ci siamo
occupati, (cosa abbiamo scritto), come funzionano le consultazioni nel nostro Centro, lo specchio
unidirezionale, l'uso della videoregistrazione, la collaborazione con la nostra Scuola di Psicoterapia
ecc. A differenza di quanto si faceva in passato (15) viene rimarcato che la consultazione familiare
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possibile anche in parallelo ad altri interventi condotti altrove di tipo psicoterapeutico individuale
o psichiatrico-farmacologico, purch vi sia il consenso dei colleghi alla consultazione familiare e la
loro disponibilit a contatti collaborativi con noi (18).
In questo modo abbiamo concluso le tre fasi del primo colloquio: definizione, spiegazione,
contratto. Siamo pronti per il secondo colloquio preliminare che sar basato su un'ampia raccolta di
informazioni. Anche per questo secondo colloquio, ed a maggior ragione, sufficiente la presenza
di un solo conduttore.
Il passaggio dal primo al secondo incontro preliminare
Come abbiamo detto, il primo colloquio preliminare prevede uno dei seguenti formati: 1) paziente
pi genitori (il pi frequente e pi favorevole) 2) soli genitori (se il paziente riluttante) 3) solo
paziente (un adulto che prende contatto personalmente dopo la richiesta del familiare).
Altri formati sono decisamente rari e non vale quindi la pena di elencarli.
In linea generale il secondo colloquio si svolge invece con la presenza di tutta la famiglia nucleare,
per cui la tecnica prevede che il conduttore si rivolga agli assenti del primo colloquio (solitamente
gli altri figli) sintetizzando per loro le tre fasi del primo colloquio: definizione del problema,
spiegazione psicologica e contratto.
A questo punto obiettivi e scaletta nel secondo colloquio preliminare non differiscono da quelli
della seconda parte del primo colloquio. Si tratta di verificare il consenso dei nuovi arrivati sulle
definizioni che sono state restituite e si tratta di ascoltare quanto vogliono proporci a conferma,
smentita o integrazione di quanto abbiamo affermato.
Fatto questo, si passa alla raccolta dei dati, secondo la seguente scaletta.
Incomincio dalla biografia di un genitore chiedendo, oltre ai dati anagrafici, un breve resoconto di
studi, professione, salute. Una brevissima indagine riguarda la data del matrimonio e la lunghezza
del rapporto di "fidanzamento". Stessa biografia dell'altro coniuge, basata quindi sui fatti, ma con
qualche breve flash sui vissuti (ad esempio una valutazione delle soddisfazioni/insoddisfazioni
relative al lavoro).
Passo quindi alle biografie dei figli, chiedendo ai genitori un breve schizzo su che tipo di bambino
ogni figlio stato ed al figlio stesso qualche parola sui suoi ricordi, specie extrafamiliari,
dell'infanzia e dell'adolescenza (come si trovato nelle varie scuole, come sono andate le sue
amicizie). Infine il colloquio si conclude con le famiglie di origine di entrambi i genitori, partendo
dalla loro composizione, dalle date di nascita ed eventualmente di morte dei genitori (nonni), dalla
loro professione, e proseguendo con gli stessi dati sui fratelli (zii) per arrivare infine ad un breve
racconto su "che ricordo ha del clima della sua famiglia quando lei era bambino o adolescente?",
"come descriverebbe il suo rapporto con suo padre, con quali aggettivi?" "e con sua madre?".
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Queste ultime domande sono ispirate al "five minutes speech" sperimentato nelle ricerche sul tipo di
attaccamento degli adulti (2, 24, p. 37).
Questa tecnica consente di avere preziose informazioni diagnostiche nei tempi necessariamente
molto ridotti di una raccolta di informazioni, spesso con il vantaggio di correggere il clima emotivo
di questa parte di seduta preliminare, che pu rischiare di esser eccessivamente fredda e burocratica.
E' molto utile condurre questa raccolta di dati con tutta la famiglia nucleare: spesso i figli scoprono
eventi importanti della vita dei genitori e delle loro famiglie e questo avvia importanti movimenti
cognitivi ed emotivi.
Il colloquio si conclude rimandando il prossimo incontro alla seduta di consultazione in quipe,
nella quale il cambiamento di contesto segnato dalla presentazione e dalla presenza dell'quipe,
nonch frequentemente dall'ingresso di un nuovo terapeuta che, due volte su tre, si sostituisce a me
che avevo giocato fin qui il ruolo di unico conduttore.
Conclusioni
Nel nostro modello attuale, una psicoterapia consta quindi di tre fasi differenti:
1) contatti e colloqui iniziali
2) consultazione familiare ed individuale
3) psicoterapia propriamente detta
In questo modello la supervisione diretta in quipe inutile nella prima fase, fondamentale nella
seconda, quella della consultazione, importante (ma non indispensabile seduta per seduta) nella
terza fase, quella della terapia. Non utilizzare l'quipe per tutte le sedute molto utile anche per
ridurre i costi della psicoterapia relazionale.
Il primo colloquio con un paziente non richiedente particolarmente difficile, richiede un flessibile
ed elaborato dosaggio di molti elementi: ascolto, autorevolezza, collaborazione, informazione,
intelligenza nelle domande, sorpresa, empatia, pazienza, capacit di rinviare interventi frettolosi
miranti immediatamente al cambiamento, rinuncia a fare connessioni magari azzeccate ma
premature, insomma umilt
Per tutto ci non possiamo basarci solo sull'intuito o sulle qualit innate del terapeuta, ma possiamo
cercare di costruire delle procedure, come quella presentata in questo articolo, cio delle successioni
di fasi ed obiettivi da raggiungere, che ci aiutino a minimizzare gli errori, anche quando fatichiamo
a sintonizzarci su quelle nuove persone che abbiamo appena incontrato per la prima volta.
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RIASSUNTO
In questo articolo Matteo Selvini discute dell'approccio relazionale nei primi incontri con una
richiesta di aiuto dei genitori per una patologia individuale di un figlio (quando il richiedente non
il paziente).
Come passare dal primo contatto al primo colloquio? Quali sono gli obiettivi del primo colloquio e
come favorire il successivo percorso di psicoterapia?
L'accoglienza della domanda mirata a costruire un'alleanza con il paziente basata sul
riconoscimento della sua sofferenza. Viene ridimensionata la classica impostazione interventista di
puntare su un immediato cambiamento, per andare verso un modello di psicoterapia come
"procedura" che passi per diverse fasi, ciascuna con suoi obiettivi, e non come serie di "sedute
uniche" che mirino ad essere risolutive.
SUMMARY
In this paper Matteo Selvini discusses the relational approach in the first meetings after a request for
help made by parents for the individual pathology of a child (when who requests is not the patient).
How to pass from the first contact to the initial session? What are the targets for the first session and
how to facilitate the ensuing process of consultation and therapy? To welcome a request aims at
building an alliance with the patient based on the ricognition of his/her suffering. The classical
intervention approach aimed at immediate change has been redimensioned in favour of a model of
psychotherapy as a procedure (protocol) with progressive phases, each phase with specific goals,
i.e. a different model from that of a series of "single sessions" designed to solve the problem.
RINGRAZIAMENTI
La collaborazione di Stefano Cirillo stata preziosa nella stesura di questo articolo.
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BIBLIOGRAFIA
1 - Bowen, M. (1996) "L'uso della teoria della famiglia nella pratica clinica", in Haley, J. (1971)
Fondamenti di terapia della famiglia, Feltrinelli, Milano 1980.
2 - Bowlby, J. (1988) Una base sicura, trad. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 1989.
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