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Rivista di turismo e cultura dai contenuti giornalistici e fotografici di alto livello. Turismo, in tutte le sue forme d’informazione, ma anche cultura, enogastronomia, arte, benessere, tradizioni e libri. Ancora, alberghi esclusivi, Spa lussuose o romantiche, clubs prestigiosi per lo yachting e per il golf. La formula “Turismo, Viaggi e Cultura”vuole soddisfare un popolo di lettori esigenti e curiosi, amanti del Bel Vivere.

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Giuseppe De Pietro

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Seychellesla magia di un arcipelagotesto di Clara Racanelli

Colombia, sulle orme dei conquistadores nel cuore delletradizioni precolombianetesto e foto di Roberto Lippi

Turchia un crogiolo di civiltàtesto e foto di Viviana Tessa

Marocco Incantatotesto di Egidio Cherubini

Loira: di castello in relais nel cuoredella Douce France, ai margini del fiumetesto di Teresa Carrubba

LE PORTE DELLA TUNISIA:Sidi Bou Saidtesto di Viviana Tessa e foto di Pamela McCourt FrancesconeDue passi nella storiatesto e foto di Pamela McCourt Francescone

Verso la Croazia, diario di unviaggio in mototesto e foto di Pierantonio Sborgia

Un percorso nel Gran Bosco della Mesolatesto di Luisa Chiumenti

Magie autunnali nella lagunanord di Venezia, un itinerario sconosciutotesto e foto di Giuseppe Garbarino

EGOMontecatini termetesto di Maria Grazia Buccianti

EGOSpa Village Resort Tembok BaliTesto di Josée Gontier

EGYPTAIR un mondo in evoluzione

SPORT E AVVENTURAIn palestra l’equilibrio del dopo-estate testo di Marina Arditi

GUSTOVegetarianismouna filosofia di vitatesto di Renato Alessio

AGRITURISMO BIOGriffin’s Resorttesto di Raffaella Ansuini

SAGRE E TRADIZIONItesti di Mariella Morosi

LIBRI E GUIDE

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Sommario

SognoGalapagos ai confini del mondotesto di Valentino De Pietro

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L’Oro di Buddhatesto e fotodi Pamela McCourt Francescone

Patagonia la terradel fuocotesto di Giuseppe De Pietro

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EGO

Spa Village Resort Tembok Balitesto di Josée Gontier

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Testo di Valentino De Pietro

6 Sogno Galapagos ai confini del mondo

“Tanto nello spazio quanto nel tempo, sembra di venire trasportati vicino a quel grande evento, quel mistero dei misteri che fu la prima apparizione dei nuovi es-seri su questa Terra”. E’ l’intrigante defini-zione delle Galapagos da parte del natu-ralista Charles Darwin il quale, dallo studio delle molteplici specie endemiche di flora e fauna di queste terre, ha trovato spunto per la sua illuminante Teoria dell’Evoluzio-ne. Tant’è, il saggio “L’origine delle specie” rivela proprio l’attenta osservazione della natura delle Galapagos. Non a caso, visto che alcune isole dell’arcipelago datano circa 4 milioni di anni e il lunghissimo isola-mento a causa della distanza da altre ter-re, della diversità del clima e di ecosistema influenzati dalle correnti marine, ha portato alla formazione di una Natura “esclusiva”. Il viaggio alle Galapagos, dunque, è un viag-gio in un’altra dimensione. Seminascosta tra i sassi arrotondati in riva al mare, di cui assume persino colore e forma, scorgiamo

“Both in space and in time, it seems like being transported close to that great event, that mystery of mysteries, which was the first apparition of new beings on this Earth.” This emotional description of th Galapagos islan-ds is Charles Darwin’s. And it was having observed the numerous endemic species of flora and fauna on the islands that Darwin was inspired to write his illuminated theory of evolution. His famous treatise “On the Origin of Species” contains numerous references to his studies on the endemic species of the Galapagos islands. And it is no mere coinci-dence, as some of the islands in the archipe-lago date back 4 million years and, given their relative isolation and distance from the conti-nent, apart from the ample variety of climates and habitats due to the marine currents, it is not surprising that they enjoy an “exclusive”

Galapagos DreamTo the ends of the earthWords by Valentino De Pietro

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a malapena una foca distesa e addormentata; si tratta di una giovane femmina di “lobo de mar”. Pochi passi più in là ci rendiamo conto della grande quantità di fitti cespugli di taglia bassa dove nidificano le fregate. Nidi ovunque, i maschi adulti gonfiano l’enorme gola rossa come vessillo della loro sensualità per ammaliare le femmine che però si concedono il lusso di scegliere il migliore. Dalle tortuosità della riva spunta il muso trogloditico di un’iguana marina, altre la seguono dando a noi visitatori una sequenza inarri-vabile di stimoli. La superficie del terreno, solidificazione di remote colate di lava, s’increspa in rigide inquietanti pieghe e in rocce che simulano la ghisa, disegnando uno scenario illusorio che fa pensare ad un altro pianeta. L’eruzione di un secolo fa ha fatto piazza pulita di erbe rigogliose la-

nature. And so a journey to the Galapagos is a journey into another dimension. Camouflaged by the rounded stones on the shore and of their same colour, we can barely make out a seal in the distance, it is a young female “lobo de mar” who is asleep. Then our attention wanders to the low shrubs whe-re some frigate birds are nesting. There are nests everywhere with fledglings, more mature birds, and adult males blowing out their enormous red throats to attract the females who fly overhead seeking the most attractive males as mating partners. And then, hidden in the gorges along the shore, we see our first marine iguana, the first of many. There is so much to see that it is impossible to take it all in. A lava flow, the sur-face of which resembles a fluid that has only just solidified and on which the creases trace an unreal landscape. Rocks

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sciando spazio solo a piante immarcescibili come cactus e poco altro. A Bartolomé ci inerpichiamo sulle pendici di un vulcano spento. Dal bordo del suo cratere il respiro si fer-ma di fronte allo spettacolo che si para ai nostri occhi. Un cordone di sabbia formata da polvere di corallo, s’insinua nel mare legando insieme la collina ad altre due più piccole. Al di là, l’isola di Santiago, un grande territorio disseminato da rocce nere di lava, ricordo di recenti eruzioni vulcaniche, in mezzo ad altre di colore naturale, con un effetto bicroma-tico davvero impressionante. Sembra che quest’isola funga da curioso spartiacque: a sinistra della lingua di sabbia, la baia è spesso ritrovo per i pescecani, quindi accuratamen-

so hard they resemble congealed cast iron. The eruption took place more than a century ago, but this arid and inho-spitable landscape is colonized only by scattered cactus bushes, some lizards and a few insects. On Bartolomé we climb to the summit of an extinct volcano which is over a hundred meters high. The views are stunning, with a long bank of white coral sand linking the hill to two other smaller hills, on the right of which a blade of rock soars skywards. In the distance we see Santiago; it is a large island and the part covered by the lava flow is extensive with smaller, older, different coloured hillocks protruding from the black rocks. Our guide explains that the beach to the left of the

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te da evitare, quella di destra, almeno così ci assicura la guida, è tranquilla e balneabile. Un odore forte e pungente desta la nostra attenzione, ci spiegano che quest’isola è abitata da una colonia di leoni marini. Gli esemplari ma-schi, grazie alla loro forte stazza, alcune centinaia di chili, non devono faticare molto a difendere il proprio territorio, mentre le femmine si crogiolano al sole. A forza di rotolare sulle rocce dell’isola i leoni marini hanno smussato le loro asperità rendendole tipicamente arrotondate. La rara ed aspra vegetazione non riesce a nascondere quelle creatu-re primordiali che qui sono a casa, le iguane, il cui aspetto rimanda ad un’altra era, quella dei dinosauri. Si nutrono dei frutti di cactus e si riuniscono a branchi cercando an-goli riparati dal vento, con difficoltà, visto che Bartolomé è un’isola aspra e brulla, disseminata da concrezioni di lava

sandbank is frequented by sharks, but that the beach on the right is safe and that we can swim there. The pungent air tells us that a colony of sea lions lives on the island; the coast is divided into areas for the massive males, which weight hundred of kilos and defend their territory against all intruders including unwary tourists, while the young fe-males warm themselves in the sun as the cubs nuzzle up to them to feed. Their cries fill the air. There are hundreds of them and the rocks are worn and rounded by their con-stant comings and goings. We make our way between the rocks and meet the land iguanas. Given the sparse vege-tation on the island they have adapted to eating cactus, and are particularly fond of the cactus fruit, although they also gobble the leaves. These strange animals, which are no longer than a metre in length and weight about fifteen

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rappresa e rugosità simili a bocche di crateri che l’asso-ciano alla crosta lunare. Pochi gli interventi dell’uomo; una rudimentale scala di legno ci porta in cima a una collina da dove si offrono ad uno sguardo attonito le altre isole e la Roccia Pinnacolo, una formazione di tufo a picco sulla Baia di Sullivan, spesso popolata da pinguini endemici delle Galapagos, tartarughe marine e squali dalla pinna bianca. Lungo il cammino che porta alla cima, abbiamo la pos-sibilità di incontrare una grande colonia di iguane e delle cosiddette “lucertole di lava” e di osservare decine di cac-tus e piante rare come rizoforee rosse e tiquilia. Dalla riva, invece, avvistiamo pinguini delle Galapagos, tartarughe marine e squali dalla pinna bianca. Le 14 isole Galapagos, 8 grandi, 6 minori e 41 isolotti, poco più di uno scoglio, di origine vulcanica, raggruppate nell’Oceano Pacifico e at-traversate dall’ Equatore, sono in realtà un parco nazionale dalle rarità naturali uniche, uno dei più famosi al mondo. Le isole si susseguono l’una all’altra, le più vecchie hanno 4 milioni di anni, mentre ne emergono ancora di nuove gra-zie ai fenomeni vulcanici, che qui sono più frequenti che in qualsiasi altra parte del mondo. Di alcune si vede infatti solo un’altura con grande cratere annerito di lava solidifi-cata, altro non è se non la cima di un vulcano che in gran parte rimane sommerso. La frequenza di tali formazioni dà all’arcipelago delle Galapagos una fisionomia davvero uni-ca. Alcuni di questi isolotti, già ben visibili dalla bar-ca, sono diventati meta stanziale di stormi di uccelli

kilos, descend from dinosaurs. As the temperatures are low the reptiles seek protection from the wind, gathering in their hundreds. Bartolomé is a small island with an arid lunar surface and volcanic formations including lava pum-ps, scattered cones and volcanic ash. Having climbed up wooden stairs we are rewarded with a stunning view over the island and Pinnacle Rock, an eroded tufa cone, as well as wonderful views of Sullivan Bay. On the climb to the top we come across large colonies of iguanas and “lava lizards” as well as rare plants like red mangroves, tiquilla and cactus. From the shore we can see some Galapagos penguins, sea turtles (January-March) and white fin sharks. The 14 Galapagos islands, eight are large and six small, and the 41 islets most of which are little more than volcanic rocks, lie in the Pacific Ocean on the Equator, some 1,000 kilometers from the west coast of South America and are one of the most famous natural parks in the world thanks to their unique characteristics. They are strung out, one after the other. The oldest are four million years old while the younger islands are still forming. In fact the archipelago is considered one of the world’s most active volcanic areas. Created by massive explosions, each island is the tip of a giant volcano, three-quarters of which is submerged under the ocean. Which is what makes the archipelago resemble the surface of the moon. Observing each mountain crow-ned by its crater and the endless flows of lava which can be clearly seen makes one think that in a recent geological

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anche endemici che qui nidificano e si riproducono dovunque. Paradiso per gli ornitologi. Anche l’al-batros fa parte della fauna di quest’arcipelago ma con un’apertura alare di due metri, ha bisogno di una vera pista di atterraggio, dunque sceglie iso-le più pianeggianti. Gli uccelli qui hanno motivo di “accasarsi” anche grazie ad un pescosissimo mare che giustifica anche il viavai senza sosta di navi da pesca che ne fanno base di cospicuo bottino per il commercio. Si nutrono di questi pesci anche le tar-tarughe giganti, tra gli animali più famosi delle Ga-lapagos. Ogni isola ha la sua razza endemica per via dell’isolamento e del diverso habitat, secondo la teoria dell’evoluzione della specie di Darwin. Un numero considerevole di specie faunistiche ende-miche, soprattutto in proporzione al territorio relati-vamente ridotto di queste isole. Ben 11 sottospecie di Tartaruga Gigante delle Galapagos, ma anche iguane di mare e di terra, pinguini e 13 specie di fringuelli detti di Darwin per via del particolare studio che ne fece il naturalista. Sono endemiche anche alcune specie vegetali, cactus, alberi e Rizoforee di quattro colori differenti. Infine, la fauna marina in cui ci imbattiamo facilmente tra le scogliere di queste isole, occasione straordinaria per i sub, ma anche per il semplice nuotatore che può trovarsi davanti a branchi di otarie e razze. Tutto questo appartiene

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era, the Galapagos could have been separated by the oce-an. We land on a small island. It is covered by birds and it is difficult to proceed for fear of stepping on a fledgling, a nest or an egg which has been left unattended. There are many albatrosses on this island. These birds have a wing span of two metres, they are as large as a turkey and have a funny gait and an even stranger mating ritual which unfortunately we were unable to capture as the battery of our camera went flat. Although the albatross is strong once in the air he has great difficulty taking off, often falling back on the land, and so they prefer to launch themselves from high cliffs. Fishing boats ply these seas incessantly as they have an abundance of fish, and the advantage of the system is evi-dent, as this abundance of fish, which provides constant nourishment, is the reason there are so many animals on the islands. One of the most famous of all the animals on the Galapagos islands is the giant tortoise: each island has its own race of tortoise, the isolation and the environmental conditions having modified the morphology. Which is Dar-win’s theory. Considering how small these island are, we are constantly amazed by the number of endemic species. The tortoises are symbols of the archipelago with 11 sub-species of the Giant Tortoise. But there are also sea igua-nas, penguins and 13 species of finch, the famous birds that led to Darwin’s theory on the evolution of the species. There are also various species of endemic cactii, vege-tation, trees and mangroves in four different colours. And

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all’esperienza Galapagos. Come pure allontanarsi in barca verso il canale Bolivar per avvistare balene e delfini. Di ritorno dal canale sbarchiamo alla Baia Urbina nell’Isola Isabela, la più grande delle Gala-pagos, con 5 imponenti vulcani, tra i quali il Vulcano Wolf, la vetta più alta delle Galapagos (1 707 m.). Il primo impatto è con la scogliera su cui sono visi-bili dei graffiti, forse per mano di pirati e bucanieri sbarcati qui nell’Ottocento. Ma poi, lungo il sentiero che porta alla laguna di acqua salata di Darwin, si apre la straordinaria vista dei campi di lava con pit-toresche formazioni naturali ad opera delle eruzioni vulcaniche e dell’azione dilavante dell’Oceano. Ad-dentrandoci nelle lagune di mongrovie per cercare le tartarughe giganti ci imbattiamo in una particolare specie di iguane di terra con vistose creste sul dor-so e dai forti colori arancione e giallo. Quattromila tartarughe giganti, pinguini delle Galapagos e frega-te, ma anche tartarughe marine, razze, pesci mar-tello, squali delle Galapagos, avvistabili grazie ad un’escursione in barca lungo la costa. Nell’”ultimo santuario di vita naturale”, prendendo in prestito la definizione di Jacques Cousteau delle Galapagos, questi animali rudi e dall’aspetto preistorico sem-brano non scomporsi di fronte all’essere umano che si avvicina a loro con naturalezza, quasi fosse un altro abitante del loro Eden.•

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then, the marine life. It is fascinating to discover it in the creeks and bays and along the pristine reefs. Many of the beaches are perfect for diving and swimming with seals, rays and sharks, which is one Galapagos experience not to be missed. Having crossed the Bolivar Canal hoping to see whales and dolphins, we make a wet landing on Isa-bel Island to visit Urbina Bay. On our way to see the giant tortoises we come across orange and yellow land iguanas with high crests on their backs. Giant tortoises, some 400 of them, Galapagos penguins and frigate birds also live on Isabel and later, swimming in the waters off the island, we see marine lizards, sea turtles, rays, hammer-head fish and white-fin sharks as well as Galapagos sharks. Isabela is the largest island in the archipelago and consists of five active volcanoes of which the Wolf Volcano is the highest point on the islands (1,707 metres). Along the rocky coastline we come across some 19th-century graffiti, probably left by pirates and buccaneers and, taking the path towards Dar-win’s salty lagoon, we have a perfect view of the lava fields, the volcanic formations and the ocean. We take a boat and follow the coast where we see more marine life including Galapagos penguins and cormorants. In this “last sanctua-ry of natural life,” to quote Jacques Cousteau, these rare animals with their prehistoric features have learned there is nothing to fear from man. It is incredible how easy it is to approach them and be considered just another inhabitant of their paradise.•

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Patagonia, la Terra del Fuoco14

Patagonia

Ushuaia, la Terra del Fuoco, e il maestoso ghiacciaio Perito Moreno

La Terra del Fuoco. Già il nome evoca letture infantili mi-ste a sogni da viaggiatori. Mito e smanie di avventura si affastellano nella mente già prima di arrivare in questo luo-go carico di mistero e luccicante di magia. Qui siamo ai confini del mondo. Ci arrivò per primo Magellano mentre cercava di raggiungere le Indie doppiando Capo Horn, e rimase abbagliato dagli inquietanti falò accesi nella notte dagli indios Onas in tutta l’isola. La Terra del Fuoco, ap-punto. Ma la realtà che ci si para davanti al nostro arrivo è

Testo di Giuseppe De Pietro

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ben diversa. Del colore del fuoco ha solo i tramonti che riscaldano il cielo e si riflettono sui ghiacciai perenni e sulle acque gelide del mare con ef-fetto estetico drammatico. Specie in piena estate, quando il giorno si di-lata incredibilmente e nasconde tutto nell’oscurità al massimo per quattro ore. Siamo ai margini del Polo Sud e

vicini all’Antartide che potrebbe es-sere stata la sede di Atlantide, la leg-gendaria isola scomparsa. Un’ipotesi che di riflesso aggiunge un sapore di arcano anche alla vicina Patagonia vi-sto che per un secolo dalla scoperta di Magellano e fino al 1619, quando gli olandesi arrivarono a Capo Horn, sulle mappe geografiche la Terra

del Fuoco figurava come l’estremità dell’Antartico, coperto da miti e leg-gende di una certa suggestione che comunque, per altri duecento anni, pervasero anche l’isola in questione. Fantasia a parte, sembra che proprio qui lo scienziato naturalista Darwin abbia localizzato il famoso anello di congiunzione nel processo di trasfor-

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mazione dalla scimmia all’uomo. An-che se poi dovette ricredersi. La Terra del Fuoco era abitata da quattro diver-se popolazioni, con lingue e abitudini distinte. Due gruppi erano dediti so-prattutto alla pesca, altri due vivevano nelle pianure cacciando il guanaco. Verso la fine del secolo scorso alcuni grandi allevatori inglesi notarono che nell’isola c’era un clima favorevole per molti mesi l’anno e pascoli rigo-gliosi. Cominciò così l’importazione di

esemplari di ovini che si riprodussero facilmente e a poco a poco sorsero grandi fattorie, le estancias, in tutto il territorio. Gli uomini che lavorano nelle estancias e le loro pecore non sono però gli unici abitanti ad essere arrivati di recente nella Terra del Fuo-co. Furono introdotti anche altri ani-mali, come il castoro portato qui da un canadese e riprodottosi a dismisu-ra tanto da modificare la morfologia dell’isola con la sua presenza e le sue

abitudini. Le dighe dei castori, infatti, sbarrano fiumi che prima scorrevano liberi, con l’effetto di vistose esonda-zioni e la conseguente trasformazio-ne in palude di intere vallate.La Terra del Fuoco, divisa tra Argenti-na e Cile, praticamente è un arcipela-go anche se è l’isola principale la più conosciuta e visitata, l’Isla Grande, la cui capitale Ushuaia è la città più lontana e meridionale del pianeta. Argentina solo politicamente, in re-

Patagonia, la Terra del Fuoco

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altà Ushuaia dista addirittura 3.200 chilometri da Buenos Aires ed è quindi un mondo a sé. La città è situata sul-le rive del Canale di Beagle la cui navigazione consente l’avvicinamento a splendide isolette dove vivono uccelli, pinguini ed orche ed è immersa nel Parque Nacional Tierra del Fuego. Un’immensa riserva naturale, 63.000 ettari di boschi, fiumi, laghi e cascate che ospita una ricca fauna, composta per lo più da volpi, guanacos, castori e, nelle zone sulla costa, da cormorani, pinguini di Magellano e leoni marini. E anche specie vegetali come lo spinoso ar-busto di Calafate: pare che solo chi ne assaggia le bacche si garantisca la possibilità di tornare qui. La riserva è l’at-trazione principale del territorio e vi si possono ammirare vere e proprie bellezze naturali, come il ghiacciaio Martial o i laghi Escondido e Fagnano, nonché la Baia Ensena-da e la pittoresca città di Tolhuin. Particolarmente famoso è anche il Faro di San Juan de Salvamento, noto come Faro alla fine del mondo, il più antico di tutta l’Argentina. La Terra del Fuoco vanta anche la stagione sciistica più lunga del Paese, che va da giugno a novembre, grazie alla presenza del Cerro Castor, un monte ricoperto di neve farinosa e contornato da magnifici boschi. L’avventura nel-la Terra del Fuoco può iniziare proprio da Ushuaia, rapiti dallo spettacolo delle vette innevate, le ultime propaggini della catena delle Ande e dei fitti boschi. Ushuaia è la città più a sud del mondo, qui terminano la Ruta 3, la strada che percorre tutta la costa dell’Argentina, e la Carrettiera Pana-mericana, che risale la costa occidentale delle Americhe fino all’Alaska. Di fronte ha un mare che sembra mescolare insieme le acque dell’Atlantico e del Pacifico. Appena ol-

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tre, l’immensità ghiacciata dell’Antar-tico, lo scenario che più di tutti ci re-sterà negli occhi come simbolo della Patagonia. Perito Moreno, l’estremità meridionale del continente america-no, è uno dei ghiacciai più spettaco-lari al mondo. Qui, fra spazi immensi e disabitati, non si può non rendersi conto della maestosità della Natura. Sembra avere un’anima, Perito More-no. Non a caso è definito “ghiacciaio in movimento”. E lo è davvero, visto che, grazie ad una sorta di cuscinetto d’acqua che lo tiene staccato dalla roccia, il ghiacciaio immerso nel lago Argentino si sposta di 2 metri al gior-no causando ogni tanto, d’estate, il crollo in acqua di pinnacoli di ghiac-cio anche di grandi dimensioni. Se non fosse distruttivo, lo si potrebbe definire uno spettacolo mozzafiato sia visivamente che per il tonfo sordo dell’iceberg che prima sprofonda e poi riemerge e continua a galleggiare trascinato dalle onde. Poi tornerà l’in-verno, e il ghiaccio si formerà di nuo-vo. Fino a qualche anno fa, il Perito Moreno era uno degli ultimi ghiacciai in costante crescita. Inverno dopo in-verno, i ghiacci avanzavano copren-do una superficie sempre più ampia del lago fino a saldarsi in una sorta di ponte con i ghiacci della riva opposta, praticamente dividendo il lago in due.

Un ponte che si spezzava quando non resisteva più alla pressione del ghiaccio in avanzamento. Un ciclo di 2-4 anni vede formarsi ed infrangersi queste possenti lingue di ghiaccio. Certo è che il fenomeno del riscal-damento globale sta cambiando ed allungando sensibilmente il processo di riformazione del ghiaccio, rischian-do di modificare la morfologia di Pe-rito Moreno che rimane pur sempre uno scenario straordinario. Sembra che risalga al 1988 l’ultima volta che il ghiaccio è riuscito a saldarsi con la riva opposta del lago Argentino. Negli ultimi anni il ghiaccio si è sempre rifor-mato, ma non fino a costruire il ponte di cui si è detto. Nonostante tutto Peri-to Moreno resta uno dei pochi giganti di ghiaccio a mantenere comunque un processo di crescita. E’ sensazio-nale visitare queste zone dove si ha la percezione di essere stati proiettati in un luogo ai confini del mondo, avvolti dal mistero cresciuto in noi fin dall’in-fanzia.Il periodo consigliabile per un viaggio alla Terra del Fuoco è sicuramente l’e-state australe, per evitare le forti per-turbazioni e i violentissimi venti cui è spesso soggetta quest’area. Quanto alle temperature, al livello del mare non sono mai eccessivamente fredde neanche d’inverno, vanno da –3°C a

5°C e d’estate sono miti, ad Ushua-ia, per esempio, vanno da un minimo di 4°C a un massimo di 14°C. Questi valori, data la singolare posizione in cui si trova la città e considerando che siamo a poca distanza dal Polo Sud, sono eccezionali. Se si visita la Terra del Fuoco durante la stagione estiva, ci si può dedicare al turismo d’avventura, dividendosi tra trekking, passeggiate a cavallo e in mountain bike, anche all’interno del Parco Na-zionale della Terra del Fuoco. Da non trascurare una particolarità di ordi-ne economico non di poco conto: Ushuaia è zona franca, dunque risul-ta particolarmente conveniente per lo shopping riguardante sia le merci im-portate che i prodotti locali. Altra ca-ratteristica della zona è il buon cibo, caratterizzato da una gastronomia a base di granceola Maja, crostacei e agnello. E torniamo sul continente e, qualche centinaio di chilometri più a nord, sulla costa nei pressi della Penisola Valdés, troviamo la più grande colo-nia di pinguini a nord dell’Antartico. Perdersi nell’osservare il movimento continuo di questo simpatico popo-lo di uccelli in marsina basterebbe a distogliere il cuore e la mente dal rim-pianto che già nasce in noi per aver lasciato l’indelebile Terra del Fuoco.•

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L’Oro di Buddha

Testo e foto di Pamela McCourt Francescone

Buddha’s Golden RockKyaikhtiyo. The venerated Myanmar san-ctuary enchants, enraptures and enthrals

A hulk of granite weighting six hundred tons, covered by a thick layer of gold, precariously balanced on the edge of a cliff over a sheer and dizzying drop. The massive Pagoda of Kyaikhtiyo, one of Myanmar’s most sacred spots, is held in place, it is believed, by a single hair. Which, of course, is not just any old hair. But, according to legend, a hair from the head of Buddha, which admirably prevents the cyclopic boulder from hurtling into the valley at the foot of the mountain.

Kyaikhtiyo, la Roccia d’Oro, uno sei santuari più venerati in Birmania, è un luogo di grande suggestione e fascino

Una massa di granito che pesa seicento tonnellate, rico-perta da uno spesso strato d’oro, in mirabolante bilico su uno strapiombo alla sommità di una montagna. E’ la Pagoda di Kyaikhtiyo, uno dei luoghi più sacri della Bir-mania, ed è sorretta da un singolo capello. Che, benin-teso, non è un capello qualsiasi. Ma, come la leggenda racconta, un capello di Buddha, che miracolosamente impedisce al ciclopico macigno di precipitare giù nella vallata sottostante.

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Si dice anche che sia in grado di ondeggiare leggermen-te avanti e indietro quando sollecitato dall’uomo, senza incomodare il suo strabiliante equilibrio. Questo capello di Buddha viene gelosamente custodito in una teca dentro il piccolo stupa sulla sommità della Rocca d’Oro - Kyaikhtiyo che si pronuncia ciai-ti-o - e nel dialetto Mon significa “la pagoda portata sulla testa dell’eremita”. Perché è stato un eremita, nell’ XI secolo, a portare fin qui il capello di Buddha nascosto nel ciuffo di capelli raccolti sulla propria testa e lasciando scritto, prima di morire, di cercare un masso che avesse la forma della sua testa per conservare il venerato capello. Il santuario dista un paio di ore in macchina da Yan-gon, ma il vero viaggio inizia quando si arriva al campo base di Kinpun, ai piedi del Monte Khaikhtiyo, da dove si parte per la seconda tappa verso la Roccia. Seduti fianco a fian-co, sei per fila, su panche di legno all’aperto su un pesante camion che trasporta una cinquantina di persone, per undici chilometri si sale una strada tortuosa, attraversando la fore-sta tropicale fino ad arrivare alla grande piazza di Yatetaung dove parcheggiano i mezzi di trasporto. Da qui sono in molti a fare l’ultima tappa a piedi, impegnando oltre un’ora per salire il viottolo serpeggiante e le ripide scale di legno. Al-tri, soprattutto i turisti, si fanno trasportare su lettighe issate sulle spalle di muscolosi giovani. Semi-sdraiati su un sacco da riso dismesso che è stato legato a due robuste aste di bamboo, dopo circa 40 minuti di sballottamento, dovuto al passo ritmico e sostenuto dei quattro portatori che si ferma-no spesso lungo la ripida salita per prendere fiato, si arriva finalmente alla sommità. Straordinaria l’illusione di poter toc-care il cielo con un dito. E di prima mattina, quando le nuvole avviluppano i viandanti in un leggiadro manto luminoso, si ha la sensazione di essersi perduti in un’altra dimensione. Silenziosa, suggestiva, solenne. Ogni anno a novembre, il grande piazzale antistante la Roccia d’Oro viene illuminato da 9.000 lumi, mentre 9.000 fiori profumati vengono sparpa-gliati intorno per celebrare la reliquia. Ma in tutte le stagioni migliaia di pellegrini arrivano a Kyaikhtiyo, portando sulle spalle semplici borse con dentro qualche indumento, con negli occhi la luce della speranza e sul viso quel sorriso dol-ce e luminoso che è una caratteristica del popolo birmano.

The rock is even said to sway backwards and forwards if pushed, without in any way endangering its mind-blowing ba-lance and this, of course, adds further mystery to its legendary mystique. Buddha’s hair is kept in a small case inside the lit-tle stupa at the top of the Golden Rock, Kyaikhtiyo, which is pronounced chai-ti-o and in Mon dialect means “the pagoda carried on the head of the hermit.” And, indeed, it was a her-mit who brought the hair here in the 11th century, hidden in the topknot on his own head. Before he died he left written instructions to look for a boulder with the same shape as his head and to build a Buddhist stupa at the top in which to con-serve the venerated hair. After a couple of hours by car from Yangon the journey takes on an unexpected twist when you reach the base camp of Kinpun, at the foot of Mount Khaikh-tiyo. Because, for the second stage of the journey you have to clamber on to the back of a heavy lorry and sit, six abreast, on simple wooden planks. When the regulation 48 passengers are in place the vehicle labours up eleven kilometres of tortuous roads through the tropical forest to another large square, this time in the hamlet of Yatetaung where all vehicles have to stop. Many pilgrims, and the more athletic visitors, then make their way along the final stage on foot, taking over an hour to walk up the snaking pathway and the steep stairs, some in wood and others cut into the mountain face. But many tourists opt to be carried in litters on the shoulders of four muscular youths. Lounging back on old rice sacks, which have been tied to two thick bamboo poles, the visitors are bounced vigorously by the fast trotting pace set by the carriers, who stop at intervals to change shoulders, wipe the perspiration that streams in rivulets down their backs, and quench their thirst with cans of water from the small food stalls along the way. At the top the exhilara-ting feeling that you can touch the sky with a finger makes you catch your breath, and in the early morning, when swirling lu-minous mists envelop the wayfarers, you feel you have entered another dimension. Silent, unreal, solemn. Every November the large square beside the Golden Rock is lit by 9,000 flickering lights and 9,000 perfumed flowers are spread over the vast ex-panse to honour the relic. But this sanctuary is visited all year round by thousands of pilgrims, many carrying rucksacks on their backs and clutching small bags with their possessions, in

20 L’Oro di Buddha - Buddha’s Golden Rock

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Solo agli uomini è consentito toccare il santuario, e quindi sono loro che con grande dedizione e pazienza, aggiungo-no di continuo piccoli quadratini di foglie d’oro sulla Roccia. Lentamente creano uno nuovo strato in modo che il maci-gno non perda, neanche per un instante, la sua incande-scente doratura che, mentre il grande orbo tramonta dietro le montagne, assume sfumature dal rosa al purpureo. Intor-no al grande piazzale sono tante le bancarelle che vendono offerte, lumi e ornamenti sacri. Dopo il tramonto, il momento più solenne davanti al santuario, sull’aria si innalzano i pro-fumi dei bracieri dove vengono cotti pesce, carne e verdure. E oltre il piazzale, in discesa lungo la criniera, i visitatori si avviano verso il piccolo villaggio dove ci sono ristoranti, ne-gozi di souvenir e pensioni dove passare la notte. Ma sono molti i pellegrini che, stanchi ma invigoriti dalla presenza di tanta bellezza e sacralità, rimangono svegli tutta la notte. Si siedono a tavolini bassi o in piccoli gruppi lungo il perime-tro del monte per consumare un ultimo pasto, sorseggiare tazze di tè, raccontare il loro pellegrinaggio, pregare e vivere in pieno l’esperienza. Che per molti è l’esperienza di una vita. Per altri, un felice ritorno. Per altri ancora, la prima volta di un pellegrinaggio da perpetuare.Intorno, tutto tace. I de-clivi densamente tappezzati di vegetazione lussureggiante si confondono dietro i chiaroscuri della luna, e sul Monte Kyaikhtiyo si sente solo il mormorio delle preghiere, il fruscio di passi rispettosi, e quell’ inconfondibile suono del silenzio, privilegio dei luoghi di profonda e secolare sacralità.•

their eyes the light of hope, and on their faces those beguiling, luminous smiles which are a characteristic of the Burmese pe-ople. Only the men are allowed to touch the sanctuary and, pa-tiently and with zealous dedication, they flock around the rock, adding tiny new squares of gold leaf to ensure that the mighty boulder loses none of its incandescent glow. And, as the sun sets behind the mountains, the gilded surface acquiesces to the ripplings of palest pinks and deep purples the Great Orb lavishly bestows on the majestic silhouette. Around the large square there are many stalls selling votive lights and sacred offerings and, as dusk falls, and the pilgrims pay their respects, the pungent odour of grilled fish and meat rises from braziers along the hillside, and people start to make their way towards the small village beyond the ridge and the guest houses where they will spend the night. But for many of them, tired yet invi-gorated in the presence of such beauty and sacredness, the night hours are precious and, huddled in small groups, they sip cups of strong Burmese tea, talk about their pilgrimage, pray and laugh. For many it is a landmark occasion. For others a happy return. And for yet others the first time of a pilgrimage they hope will become a perpetual event. Finally all is quiet. The mountain sides, with their thick blanket of greenery, a play of the chiaroscuro in the moonlight, and on Mount Kyaikhtiyo the only sounds are the gentle murmur of prayers, the swish of respectful footsteps, and that unmistakable sound of silence which is the privilege of places of profound and time-honoured spirituality.•

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Navigate verso la bellezzaChiudete gli occhi e immaginate il fruscio del vento sulle vele, l’infrangersi delle onde sulla barca, gli schizzi delle gocce d’acqua sulla sua coperta di legno e lo svolazzare dei vestiti al vento. Proverete una sensazione di libertà infinita ad ogni respiro.

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Il piccolo ma vivacissimo aeroporto di Mahé, centro economico e politico delle Seychelles si staglia dall’alto in-

sinuandosi in un mare, neanche a dirlo, davvero cristallino. L’arcipelago conta 115 isole, quasi tutte di origine graniti-ca, affioranti dall’Oceano Indiano, a ca-vallo dell’Equatore e a largo delle coste africane. In realtà soltanto una decina

di esse sono antropizzate e quindi sono le più visitate. Saltare da un’isola all’altra in un unico viaggio è possibile visto che la compagnia Air Seychelles dispone di piccoli aerei dai 6 ai 20 pas-seggeri anche se, ogni volta, occorre passare per Mahé. Dal terminale locale dell’aeroporto di Victoria, per esempio, Air Seychelles assicura 3 voli quotidiani

tra Mahé e Praslin. Il volo dura solo un quarto d’ora. Dunque, anche in pochi giorni si può avere un’immagine com-plessiva di questo paradiso la cui tem-peratura raramente scende al di sotto dei 24°C.

Testo di Clara Racanelli

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Seychelles

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Della scoperta delle Seychelles si ebbe notizia in Europa nel 1502 da parte dell’ammiraglio portoghese Vasco De Gama; queste isole furono a lungo abitate dai pirati cacciati dal-le Indie Occidentali nel 1685, e dai primi schiavi resi liberi. Poi furono punto di scalo tra Africa e Asia, luogo di traffici e scambi commerciali. L’aeroporto internazionale di Mahé è stato aperto solo nel 1972, dopo un lungo isolamento che ha aiutato i suoi abitanti (europei, asiatici, africani) a conservare un carattere molto cordiale ed affabile. Il senso dell’ospitalità di questa gente è significativo e raramente ho visto convive-re così serenamente razze tanto diverse tra loro. Le lingue parlate sono il creolo, il francese e l’inglese, e nei principali centri turistici anche un po’ di italiano. Scrigno prezioso delle Seychelles, anche se fa parte delle sue isole esterne, è l’a-tollo Aldabra, il secondo più esteso del mondo dopo quello dell’isola Christmas, Kiribati. Aldabra è un atollo corallino for-mato da 4 isole con una fauna autoctona tra cui la tartaruga gigante delle Seychelles; ne ospita circa 100.000 esemplari, la popolazione più numerosa esistente. L’atollo è noto anche per le sue tartarughe verdi, le Eretmochelys imbricate e per gli uccelli rari, compreso il Dryolimnas, l’ultimo degli uccelli dell’Oceano Indiano incapaci di volare.

MahéInizio il mio viaggio da Mahé, l’isola principale delle Sey-chelles, beandomi di una vistosa quanto rigogliosa vegeta-zione tropicale che conduce alla collina granitica di Morne Seychellois (905 mt), nel Morne Seychellois National Park, la cui cima offre una vista sulle isole circostanti che toglie il respiro.La costa di Mahé è un rincorrersi di baie e spiagge, oltre 60, una più suggestiva dell’altra. Grand Anse, è la più ricercata dai surfisti per via delle correnti che alzano le onde, men-tre la più modaiola è Beau Vallon dove si praticano sport esclusivi come vela, e sci nautico; Anse a La Moouche è una delle più rilassanti, solo mare e pesca. Le abitazioni dei villaggi non devono superare in altezza la vegetazione circostante e ciò determina un risultato po-sitivo ai fini dell’impatto ambientale. A Victoria, unica vera città delle Seychelles e anche capitale dell’arcipelago, si trova un artigianato locale di buona fattura. I negozi, che si concentrano soprattutto nella Market Street, offrono monili di corallo nero e rosso, oggetti di madreperla o in legno locale intarsiato, ma anche frutta esotica e le immancabili spezie come cannella e vaniglia.

24 Seychelles: la magia di un arcipelago

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Praslin Praslin, l’isola delle palme, seconda in grandezza dell’arcipe-lago. Si raggiunge da Mahé con un volo di 15 minuti o con 2 ore di barca. L’ideale è girare l’isola con una jeep, visto che le strade sono sassose; un disagio che si affronta volentieri per via delle splendide foreste tropicali popolate da uccelli rarissimi ed endemici come il Bulbul e il pappagallo nero delle Seychel-les. La bellissima riserva naturale Vallée de Mai, ha la maggiore concentrazione di palme “Coco de Mer” di tutte le Seychelles - ben 4000. Qui crescono anche le mitiche orchidee vaniglia. Nel mezzo della Vallée de Mai sorge una foresta preistorica di granito, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. C’è chi è convinto che il biblico “Giardino dell’Eden” sia proprio que-sto. Dall’aeroporto di Praslin è facile raggiungere le isole intorno come Curieuse, La Digue, Cousine, Aride e Cousin. La spiag-gia più bella di Praslin - e di tutte le Seychelles - è Anse Lazio, la sabbia bianca e fine è circondata da alcuni massi di granito levigato.

Cousin A due chilometri dalla costa sud-occidentale di Praslin, Cousin, dichiarata riserva naturale nel 1968 quando venne acquistata

dalla Royal Society for Nature Conservation, nel 1975 viene no-minata riserva speciale dal governo delle Seychelles. Attualmen-te la gestione dell’isola è appannaggio di Nature Seychelles, ma agli inizi era coordinata da Birdlife International per via delle numerose specie rare ed endemiche di uccelli. Qui ogni anno nidificano 250.000 uccelli, qui dimorano alcuni tra gli esemplari più rari delle Seychells e del mondo, tra i quali l’uccello mosca delle Seychelles, l’usignolo delle Seychelles, il Magpie Robin, la parulide con la coda folta, lo shama delle Seychelles, la ra-rissima Brush Warbler Seychellese salvata dall’estinzione, e il toc-toc. Ma anche fetone codabianca, simbolo di Mauritius e Réunion. Insomma, un paradiso per gli uccelli, terrestri e mari-ni, e ovviamente per gli ornitologi. Posso fotografare esemplari curiosi e nidi a distanza ravvicinata senza disturbare, grazie alla confidenza dei volatili con la presenza dell’uomo dovuta alla lun-ga attività di protezione.La protezione dell’isola è massima tanto che può essere visitata solo alcuni giorni la settimana e solo se guidati dai ranger. Sono giovani ed esperti, sono venuti a prelevarmi dalla barca a bordo di un veloce gommone che con un balzo fanno approdare sulla spiaggia; mi spiegano che sono gli unici abitanti part-time di quest’isola che non presenta alcuna opera dell’uomo. Mi parla-

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no subito delle specie rare di uccelli, apprendo con dispiacere che una volta il piumaggio dei piccoli volatili veniva usato per produrre piumini per cipria! Cousin è circondata da una delle barriere coralline più belle dell’arcipelago, severamente protet-ta. Altra meraviglia del posto sono le tartarughe giganti portate da Aldabra, tanto inquietantemente imponenti quanto pacifiche. Le Seychelles ospitano la seconda colonia di tartarughe giganti al mondo dopo le Galapagos. Esplorando l’isola, al mio pas-saggio vedo schizzar via molte lucertole, varie specie di geco; il gran numero di questi animali è dovuto, come per gli uccelli, alla mancanza di animali predatori. La mia visita termina con uno spuntino a base di pesce all’ombra della vegetazione in prossi-mità di una splendida baia, dove nidificano le tartarughe di mare Hawksbill e Green.

S. Pietro Si può dire che l’isola di S.Pietro sia assurta ad emblema delle Seychelles, la sua immagine d’effetto compare in tut-ti i depliant che parlino del meraviglioso arcipelago. E’ così che ce lo immaginiamo quel lontano Eden. Un’isoletta sca-vata nel granito e sormontata da palme piegate dal vento su una spiaggia, neanche a dirlo, d’impalpabile sabbia bianca. Dopo una breve navigazione durante la quale ha sfilato da-vanti a me un guizzante e allegro stormo di delfini, sbarco su questo scrigno di bellezze esotiche e subito mi tuffo nel-le acque cristalline per un bagno rinfrescante. Un godimento anche per gli occhi visto che questo mare è abitato da 900 varietà di pesci che sembrano dipinti a mano. E non c’è biso-gno di essere abili nuotatori per esplorare l’incredibile mondo sommerso custodito da quest’isola, basta avere l’avvertenza di indossare le pinne o le apposite scarpette di gomma per evitare fastidiosi tagli nel contatto con i coralli, qui decisamen-te numerosi, facilmente avvicinabili e fotografabili insieme ad anemoni, spugne e stelle marine. Dopo il tramonto, davvero spettacolare in quest’isola magica, mi abbandono alle delizie culinarie; la scelta è vastissima, dalla locale ottima cucina cre-ola, alla francese o indiana.

Bird Island Il mio viaggio alle Seychelles si conclude a Bird Island, la più a nord di tutte. Da Mahé è raggiungibile in circa mezz’ora di volo. I francesi la chiamavano l’Ile du Vaches, “Isola delle Mucche”, a causa dei numerosi dugonghi che qui vivevano in passato, ora è Bird Island, un vero santuario per uccelli. L’isola è privata, appartiene a due inglesi puristi dell’ambiente, Mrs. e Mr. Savy, ed è aperta unicamente agli ospiti del Bird Island Lodge, una ventina di mimetizzatissimi bungalow. Da ottobre a marzo l’iso-la diventa meta di uccelli migratori dall’emisfero settentrionale, da maggio ad ottobre invece arrivano a nidificare sull’isola fino a due milioni di rondini di mare oltre a voltapietre, piovanelli, chiurli, fregate, piro-piro, fetonti e la civettuola sterna bianca. Quest’ultima ha la curiosa abitudine di deporre l’uovo in bilico sulla biforcazione dei rami, senza costruire il nido. Si fa avvicina-re dal mio obiettivo senza timore. A terra bianchi aironi guarda-buoi afferrano gli insetti, con tutta calma. Nel tardo pomeriggio la luce del cielo viene oscurata da una nuvola che si addensa e si sposta rapidamente, alzo gli occhi: sono le sterne fuscate che tornano dall’Oceano, Migliaia di ali fendono l’aria con rit-mo frenetico e con un inquietante frastuono che si mescola al suono dei loro versi collettivi come un rituale della natura che si dispiega davanti ai miei occhi. Fino al calar del sole voleranno chiassose sopra i loro nidi. Immobile dietro al mio cavalletto, catturo i coinvolgenti colori del tramonto sull’Oceano Indiano, arancione, rosso, viola. Dopo la cena nella comune capanna del lodge, mi siedo nella veranda del mio bungalow sorseg-giando del bacca (succo di canna da zucchero fermentato), poi mi addormento ascoltando gli ultimi pigolii degli uccelli che vivono sulla pianta di Takamaka, lì vicino. Non solo uccelli, in inverno anche le tartarughe embricate arrivano a nidificare a Bird Island dove già vivono una trentina di tartarughe giganti, tra cui la bicentenaria Esmeralda, ormai considerata la ma-scotte dell’isola. Girovagare per l’isola per me è un’esperienza quasi surreale, qui è ancora la Natura a dettare i ritmi della vita quotidiana e l’habitat degli animali ha la priorità rispetto allo svi-luppo civile. Gli unici esseri umani abitanti fissi dell’isola sono i

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proprietari e un piccolo staff; i visitatori sono in numero controllato, al massimo una qua-rantina, quanti ne può ospitare il lodge, per evitare di disturbare gli animali e le loro abi-tudini. Bird Island non ha illuminazione arti-ficiale esterna per non distrarre gli uccelli e per non disorientare le tartarughe verdi che dopo la nidificazione cercano la via del ritor-no verso il mare. In più, ogni anno l’isola è chiusa ai visitatori dal 1 al 20 dicembre per non disturbare questo fragile ecosistema ed il suo ciclo vitale. Un nemico però c’è: l’ero-sione costiera. Dal 1990 l’isola ha già perso oltre 75 metri di terra, tanto che il Ministero dell’Ambiente Seychelles, le Sezioni delle ri-sorse naturali delle zone costiere e di Bird Island hanno preso parte a un programma nazionale a lungo termine di monitoraggio della spiaggia per proteggere l’ecosistema acquatico e terrestre dell’isola e per evitare un ulteriore degrado ambientale.La costa est e quella nord sono protette da una meravigliosa barriera corallina pulsante di vita marina, anzi, l’isola stessa è sul Ban-co corallino delle Seychelles, che precipita a 2000 metri di profondità. Questa realtà, anche se vissuta solo per pochi giorni, ridi-mensiona la visione della vita e permette di apprezzare molte cose che il consumismo moderno purtroppo ha cancellato.•

Ufficio del Turismo delle SeychellesVia Pindaro 28/N - 00125 Romatel. 06 5090135fax 06 [email protected]

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Al di fuori delle affollate rotte del turismo internazionale che approda in America Latina la Colombia è in grado di offrire al viaggiatore esigente emozioni davvero incomparabili. Unica è infatti la varietà dei suoi paesaggi, climi e colori: dalle cime ghiacciate della cordigliera andina, oltre i 5.000 metri, ai popo-losi e verdissimi altipiani ove sorge la capitale Bogotà (a 2.600 metri di altezza). E poi, lungo le rotte del caffè e dei fiori (la Colombia è il primo produttore mondiale di orchidee), si giun-ge infine alle assolate spiagge del Pacifico o dei Caraibi, dato che il paese affaccia sui due oceani. Se a questi ingredienti si

aggiunge la ricchezza della sua storia - precolombiana, colo-niale e repubblicana - la varietà della musica, sempre presen-te e la frizzante vita culturale che si respira nelle città, ecco che questo Paese ancora poco conosciuto ai più, può risultare la meta ideale per un viaggio inconsueto e indimenticabile. Per questo nostro viaggio culturale e paesaggistico, abbiamo de-ciso di ripercorrere parte del lungo cammino che i primi con-quistadores realizzarono nell’altipiano andino, risalendo il grande Rio Magdalena all’inseguimento del leggendario Eldo-rado e delle splendide ricchezze di cui, a ragione, si favoleg-giava nelle assolate vie delle nascenti città costiere di Santa Marta e Cartagena de Indias. Il nostro itinerario inizia nel quar-

28 Colombia sulle orme dei conquistadores nel cuore delle tradizioni precolombiane

Testo e foto di Roberto Lippi

COLOMBIA sulle orme dei conquistadores

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tiere coloniale della Candelaria, nel cuo-re della capitale colombiana. E’ qui che il rude capitano e fine letterato Gonzalo Jiménez de Quesada fonda nel 1538 la città di Santafè de Bogotà, in un luogo fino ad allora adibito al riposo del Zipa, il capo politico e religioso delle miti tribù dei Muisca, abitanti ancestrali dell’alto-piano dediti al commercio del sale, di raffinati tessuti e della ceramica. La Candelaria colpisce il viaggiatore in pri-mo luogo per la ricchezza della sua au-

stera architettura coloniale. Sulle strade lastricate che si inerpicano verso le montagne che proteggono le spalle di Bogotà, si affacciano palazzi e case co-loniali con i tipici tetti di tegole, i massic-ci portoni, le balconate e le grandi fine-stre protette da grate di legno intagliato. Siamo nel cuore storico e culturale della capitale colombiana, uno dei centri me-glio conservati del Sudamerica, in cui il profumo di altre epoche si mescola, du-rante il giorno, con il viavai della gente. Gente i cui volti ed abbigliamenti rifletto-no la varietà ed i contrasti che caratteriz-zano questa metropoli andina: dall’i-nappuntabile gessato dei funzionari pubblici degli adiacenti palazzi del pote-re, alle divise un po’ retrò dei collegi pubblici. I tipici visi larghi e bruni delle popolazioni andine che confluiscono nel centro città, si mescolano con i colorati venditori di qualunque cosa, i sempre più frequenti turisti, gli artigiani e i com-mercianti delle piccole botteghe del quartiere. Moderne automobili e grossi Suv si contendono le strette vie non pe-donalizzate con gli immancabili taxi gial-li e i vecchi minibus, che sbuffano quan-tità impressionanti di fumo nerastro. E’ questo lo spirito più autentico di questo barrio che nell’ultimo quindicennio ha saputo attirare artisti, scrittori e intellet-tuali che hanno riempito la zona di teatri, biblioteche e centri culturali. Ma che tut-tavia continua ad essere la cerniera tra la città ricca e progredita del Nord ed i quartieri popolari del Sud. Un quartiere che ha mantenuto parte di quel sapore popolare ed autentico che si rispecchia in alcuni dei baretti e caffè popolari da cui proviene, insieme alla musica inces-

sante, l’odore delle arepas (focacce di mais) e dell’ajiaco bogotano, la tipica zuppa locale ricca di diversi tipi di pata-te, mais, pollo ed erbe. Oggi certamente essi convivono con i ristoranti e i locali sempre più sofisticati della Candelaria artistico-culturale, nei cui arredamenti e cucina spicca la creatività che contrad-distingue la città. Un caffè nello splendi-do cortile del palazzo coloniale che ospita la sede dell’antica “Società eco-nomica amici del Paese”, vicino alla Pla-za de Bolivar, darà conto di questa at-mosfera sofisticata e un po’ retrò. Da non perdere, tra i molti luoghi da visita-re, il recente complesso museale del “Museo Botero”, che comprende una parte coloniale (Casa de la Moneda) e vari ambienti espositivi dedicati alle opere del grande maestro colombiano e a molti capolavori di arte contempora-nea che lo stesso Botero ha voluto do-nare al proprio paese, al fine di realizza-re questo importante polo culturale. Per dormire nella Candelaria, che di notte però richiede ancora di certe attenzioni, oltre all’ottimo e sofisticato Hotel dell’O-pera, vi sono numerose posadas ed al-berghi tipicamente coloniali, per tutte le tasche. Partendo dall’enorme Piazza Bolivar, sui cui lati si affacciano l’impo-nente Cattedrale di Bogotà, il palazzo neoclassico del Parlamento, il bell’edifi-cio del Municipio e lo sfortunato Palazzo di Giustizia, in cui nel 1985 persero la vita, durante un sanguinoso tentativo di liberazione, magistrati, funzionari e i guerriglieri dell’M 19 che l’avevano oc-cupato, il nostro viaggio prosegue risa-lendo la Carrera Settima. Questa lunga e trafficata arteria attraversa tutta la par-

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te Nord di Bogotà, parallela alle montagne che sovrastano la città, sulla cui sommità meridionale rimane sempre ben visibi-le il bianco santuario del Cristo Caduto di Moserratte (3.152 metri), ai cui piedi si inginocchiano pellegrini di tutte le estra-zioni (compresi, si dice, i sicari che popolano le zone più peri-feriche della città). La prima tappa obbligata, a pochi isolati dalla Candaleria, è per una visita nello splendido Museo dell’Oro. Il Museo racchiude in forma davvero suggestiva le testimonianze artistiche e culturali della differenti civiltà inse-diate nel territorio colombiano prima dell’arrivo dei conquista-dores. E’ possibile vedere un’impressionante quantità di ma-

nufatti in oro. Muisca, Tairona, Quimbaia, Tolima, Nariño, tanto per citare alcuni dei nomi dei popoli precolombiani nei cui tombe sono stati ritrovati i diademi, le collane e gli anelli rituali che oggi impreziosiscono i tre piani del museo. Da non perde-re la suggestiva sala finale in cui, con giochi di luce ed effetti sonori, vengono presentati centinaia di manufatti in oro dalle caratteristiche figure stilizzate, zoomorfe ed antropomorfe, ti-piche delle culture precolombiane. Alcune istantanee della città, risalendo la Carrera 7 verso l’uscita della città, ci mostra-no un quartiere di piccole villette in mattoncini in stile inglese anni venti, con tanto di giardinetto e bow-windows, poi più a Nord, i moderni ed elevati palazzi in vetro-cemento del centro finanziario. Obbligata una sosta per un caffè, proseguendo sulla strada, nel piccolo quartiere di Usaquen. Si può scegliere uno dei tanti localini che si affacciano sulla piccola piazza di quello che era un tempo un villaggio, ormai inglobato nella città, che mantiene un’atmosfera distesa e cordiale e che ospita nelle sue vie, la domenica, un simpatico mercato di ar-tigianato e bric-a-brac, molto amato dai bogotani. Superata l’estrema periferia Nord di Bogotà, con la sua corona di quar-tieri poveri brulicanti di traffico e persone, il paesaggio muta improvvisamente. Il verde dell’altopiano, a 2.600 metri d’altez-

za ma vicino all’equatore, colpisce per la brillantezza dei toni negli sprazzi di sole. Le case sparse sono circondate da pa-scoli folti, in cui pascolano quietamente mucche e pecore. Sul versante delle montagne, il paramo (la parte più alta della cor-digliera, dall’importante e fragile biodiversità) si staglia con la sua tipica vegetazione bassa e scura. Ci dirigiamo verso la laguna di Guatavita, luogo magico-religioso della cultura Mui-sca. Guatavita è una piccola laguna situata nel cono di un antico vulcano. La leggenda dell’Eldorado (l’uomo dorato) na-sce qui, poiché una volta all’anno, durante il solstizio d’estate, le tribù Muisca confluivano sulle sue sponde mentre il Zipa,

ricoperto di polvere d’oro, veniva condotto su una balza dora-ta al centro del lago. Vi si immergeva poi in forma rituale, men-tre dalle sponde le tribù, cantando, lanciavano monili d’oro per ingraziarsi gli dei. Oggi Guatavita è protetta da un parco e le sue sponde, che nei secoli sono state oggetto di avide ricer-che, hanno finalmente ritrovato la pace di un tempo, interrotta solo dalle passeggiate di piccoli gruppi guidati di visitatori. Una sosta per mangiare patate salate e carne alla brace in un tipico ristorante popolare, un tempo forno del sale, e il viaggio prosegue. Il sale è un elemento determinante della cultura e dell’economia di questa zona della Colombia. Le enormi mi-niere di salgemma della zona di Zipaquirà hanno costituito fin dei tempi più remoti una risorsa strategica per la zona, tanto che uno dei prodotti centrali del commercio delle popolazioni precolombiane della regione era appunto costituito dal sal-gemma, estratto dalle miniere e raffinato negli improvvisati forni a carbone. Oggi appena sopra la piccola cittadina di Zi-paquirà è possibile visitare una suggestiva cattedrale scavata nel cuore della miniera di sale. Si tratta di un enorme progetto architettonico di recente realizzazione (la cattedrale è ancora in costruzione), che fa seguito al crollo di una piccola cappella ottocentesca scavata dai minatori e crollata negli anni ottanta.

30 Colombia sulle orme dei conquistadores nel cuore delle tradizioni precolombiane

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Alla nuova cattedrale, non consacrata, si accede in visita guidata da una entra-ta della miniera, più avanti ancora in fun-zione. Gigantesche croci, suggestivi giochi di luce, statue e colonne, tutto realizzato nel salgemma, accompagna-no il visitatore che si addentra nella mi-niera, scendendo fino ai 180 metri di profondità ove è stata realizzata un’e-norme navata scavata nel sale. Per chi non soffre di claustrofobia, lo spettacolo è davvero seducente. Da Zipaquirà, ci si addentra nella verde regione di Boyacà, in direzione del piccolo villaggio di Villa de Leyva, circa 170 kilometri a Nord del-la capitale. Il paesaggio lungo il cammi-no cambia con molta rapidità. Il verde diviene più scuro o più brillante, a se-conda dell’altitudine della strada che percorriamo, ormai quasi tutta a 4 cor-sie. A partire dall’insignificante ponticel-lo di Boyacà, luogo importantissimo però per la storia colombiana e latinoa-mericana, poiché Bolivar nel 1819 vi sconfisse in modo definitivo le truppe spagnole spalancando la strada all’indi-pendenza, il paesaggio cambia di nuo-vo in maniera repentina. Abbandoniamo infatti la strada principale per una “scor-ciatoia” che, superata l’ennesima mon-tagna, apre su una vallata dai colori de-cisamente più mediterranei. La vegetazione cambia nei toni e nella tipo-logia. L’esuberanza dei verdi del piovo-so altipiano viene via via sostituita da

colori più caldi. Le montagne divengono più brulle e qua e là costellate di rocce spoglie. Il clima diviene progressiva-mente più mite e secco, mano a mano che si scende verso Villa de Leyva, si-tuata a 2.118 metri sul livello del mare. Il piccolo villaggio di “Villa de Nuestra Señora de Santa María de Leyva”, oggi Villa de Leyva fu fondato nel 1572 al centro di un’amplia vallata dal clima dif-ferente da tutto ciò che la circonda, ove si coltivano addirittura olivi e oggi vigne-ti (anche se la qualità dei vini fa ancora desiderare). Il suo mercato ortofrutticolo del sabato attrae ancora una popolazio-ne dai chiari tratti indigeni delle zone circostanti e ricorda che proprio qui era situato un importante insediamento Muisca, noto anche quale osservatorio astronomico, forse per la limpidezza del suo cielo stellato. Villa de Leyva ha un’e-legante impostazione coloniale, con le sue strade lastricate di grandi ciottoli di pietra locale, le case ed i palazzi imbian-cati e i balconi, in legno dipinto di verde, che traboccano di fiori. La cittadina, pic-colo gioiello in mezzo alle Ande, è molto curata poiché essa è una delle mete tu-ristiche preferite dai bogotani, che cer-cano il relax del fine settimana nelle pic-cole vie, nei caffè e ristoranti situati nei cortili porticati degli eleganti palazzi e nei negozietti di artigianato della zona. Ciò che colpisce immediatamente il visi-tatore è l’enormità della piazza centrale,

rispetto alle dimensioni contenute della cittadina. E’ una delle più grandi della Colombia, dalla tipica impostazione mi-litare coloniale, nella quale sembra an-cora di vedere schierate le truppe, con i cavalli, gli archibugi e gli elmi che scintil-lano al sole. Vi si affaccia una bella chie-sa dal massiccio campanile e l’elegante palazzo del municipio, con il classico loggiato in legno massiccio. Sulla piaz-za confluiscono le poche vie della citta-dina, sulla quali è piacevole passeggia-re - con qualche attenzione alle irregolarità dell’acciottolato - fermando-si a guardare le buone produzioni arti-gianali dei negozietti (nella cittadina si sono trasferiti molti artisti) o entrando a visitare i bei patii fioriti. Molte anche le manifestazioni culturali e le feste di quest’angolo della Colombia dichiarato Monumento Nazionale. Spicca tra que-ste il colorato e popolare Festival degli Aquiloni di metà agosto. Da Villa di Leyva è possibile organizzare molte escursioni, anche a cavallo, nelle zone limitrofe: dal deserto della Candelaria (un pianoro semidesertico a pochi km dalla cittadina), alle suggestive lagune di Iguaque (7 laghetti di diverso colore sulle montagne circostanti), al vicino e coloratissimo villaggio di Raquira, dalla forte impronta indigena e caratterizzato da una notevole produzione di artigia-nato in ceramica. Per trascorrere qual-che giorno, Villa de Leyva offre una

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grande varietà di hostal e alberghi di varie categorie, tutti ac-comunati dell’inconfondibile sapore coloniale. Si va dal sofisti-cato cinquestelle Duruelo, appena sopra la città, alla singolare Hosteria del Molino La Mesopotamia, situata in un vecchio mulino in cui gorgoglia l’acqua tra i bungalow, all’indimentica-bile Hotel Plazuela San Agustin, con i suoi ampi stanzoni dal mobilio antico e ricercato, che affacciano sugli splendidi corti-li interni. Mangiare davvero per tutti i gusti, a patto di non far troppo tardi la sera (nella zona andina la gente non è partico-larmente nottambula). Consigliamo, tra gli altri, il Ristorante Verde Oliva che è anche scuola di cucina, tanto per i ragazzi della zona che per le ricche signore che trascorrono il week end a Villa de Leyva. L’ultima tappa di questo viaggio nella Colombia della cordigliera centrale ci porta una quarantina di chilometri più a Est, di nuovo nel verde intenso in cui sorge Paipa, una cittadina conosciuta per le sue acque termali e per la vicina laguna di Sochagota, sulle cui sponde sorgono vari complessi ricreativi. In realtà, la nostra meta è la Casona del Salitre, splendido complesso coloniale a pochi chilometri dalla cittadina, immersa nel verde dei pascoli e dei boschi di euca-lipti. L’ hacienda fu costruita nel 1566 da Don Domingo de Aguirre, capitano della conquista cui venne encomendado un ampio territorio ove risiedevano gli indios Paipa e, in parte, i più bellicosi Sogamuxi. La struttura architettonica fu poi più volte rimaneggiata nel corso dei secoli, ampliandola ed adat-tandola ai diversi usi, tra i quali un convento e una guarnigione militare. E come da noi per Garibaldi, non poteva mancare tra gli ospiti illustri che vi hanno soggiornato il libertador Simon Bolivar. Oggi, l’imponente struttura ospita un caratteristico ho-tel de charme, con le poche stanze che si affacciano sul gran-de patio interno, al centro del quale troneggia un gigantesco eucalipto secolare. Nel cortile posteriore, una raccolta piscina di acqua termale dalle proprietà curative è a disposizione degli ospiti di giorno e – soprattutto – di notte. Alcune delle stanze hanno anche rustiche vasche termali interne. La vista sulle ver-dissime colline circostanti, in cui si vedono pascolare placida-

mente mucche, pecore e cavalli, è davvero ritemprante. Nelle stradine sterrate attorno all’hotel, nelle quali si può passeggia-re o andare in bici (disponibili per i clienti) fino alla laguna di Sochagota, spunta ogni tanto qualche contadino locale, spes-so a cavallo o su vecchie motociclette da cross, con l’imman-cabile ruana (una sorta di mantella di lana) sulle spalle ed il cappello in testa. Al tramonto, il chiosco di legno a poche de-cine di metri dall’entrata dell’hotel, si riempie di uomini e don-ne del posto che, ruana in spalla e birra in mano, chiacchiera-no sommessamente come d’uso tra queste genti di montagna. E’ l’ora per un salto al bar dell’hotel per l’aperitivo davanti al caminetto acceso (di notte la temperatura è abbastanza rigi-da) e poi a cena nell’ottimo ristorante dell’hotel, che propone gustose zuppe locali ed eccellenti piatti di agnello o coniglio accompagnati, a seconda dei gusti, dai meravigliosi succhi di frutta tropicale preparati al momento (da non perdere la locale feijoa) o dai robusti vini cileni o argentini. Anche il ristorante riporta ad altri tempi: echi di un’epoca grandiosa e terribile, dalla quale risuonano i passi grevi degli stivali degli intrepidi nuovi padroni di Spagna e quelli sommessi degli indigeni ri-dotti in servitù. Al mattino, ritemprati dal bagno notturno nelle acque termali e da una robusta colazione a base di arepas e huevos pericos (cipolla e pomodoro) e approfittando di un buon massaggio nella beauty farm dell’hotel, si riparte per Bo-gotà. Con la nostalgia già a fior di pelle per quest’angolo di Colombia così evocativo per i paesaggi, la storia e il profumo del suo famoso caffè. Ma soprattutto per la straordinaria ama-bilità della sua gente, che non lesina mai un sorriso, un saluto affabile, un gesto di attenzione al visitatore, connazionale o straniero che sia.•

Ufficio del Turismo c/o Consolato della ColombiaVia G. Pisanelli, 4 00196 RomaTel. 06 36122131 fax 06 [email protected]/co

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Turchia. Ponte naturale fra Oriente e Occidente, crocevia essenziale tra il Continente asiatico e l’Europa. E’ qui che i flussi della storia hanno lasciato una quantità incredibilmente ricca di tracce archeologiche ed architetto-niche grazie alle quali quasi tutte le principali matrici del mondo classico sono presenti e convivono nella perfet-ta armonia unitaria del contrasto: ca-polavori dell’ellenismo accanto a quelli dell’arte islamica, splendidi monumen-ti romani accanto a possenti mura e fortezze di stampo asiatico, preziose basiliche bizantine accanto a impo-nenti moschee musulmane. Possiamo così trovarci a visitare luoghi dai nomi mitici come Troia cantata da Omero, o Tarso dove visse San Paolo, Smirne,

Efeso o Mileto, Pergamo o Antiochia, ed estasiarci di fronte alla bellezza de-gli stadi e dei teatri romani di Aphro-disias, Perge e Aspendo. Il fascino segreto della Turchia consiste appunto in questa copiosa varietà di espressio-ni delle civiltà più diverse, che proprio nelle differenze trovano il loro punto di fusione e di sintesi. Del resto, non solo dal punto di vista dell’architettura antica, il viaggio attraverso la Turchia è un continuo succedersi di contrasti. Ne troviamo di straordinari nel paesaggio che cambia in poche ore se dalle coste frastagliate dell’Egeo o del Mar Nero, dove il mare ha quel bel colore brillan-te che appunto si chiama turchese, ci si addentra verso il cuore dell’Anatolia superando catene di montagne coper-

te da nevi perenni e raggiungendo gli altipiani centrali o i villaggi trogloditici della Cappadocia. E non è detto che questo viaggio debba necessaria-mente esser vissuto soltanto come un’avventura nella memoria storica. La Turchia offre attrattive anche sul piano del puro relax, dalla splendida costa mediterranea fino alla singolare sta-zione termale di Pamukkale con le sue caratteristiche cascate pietrificate a forma di gigantesche canne d’organo e conche di acqua calda terapeutica. Qui è anche possibile nuotare nella piscina romana, tra colonne e capitelli immersi nell’acqua.

TURCHIATesto e Foto di Viviana Tessa

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ISTANBULIstanbul. Il Corno D’oro la divide in due. A sud, fra il Corno e il Mar di Marmara, si trova la parte antica, con tutti i mo-numenti più famosi, Santa Sofia, le grandi moschee, il Pa-lazzi del sultano, le Cisterne, il Bazar. Al nord, tra il Corno e il Bosforo, la città moderna, il quartiere di Beyoglu con la vasta piazza Taksim, i negozi eleganti delle arterie princi-pali, i teatri, gli alberghi. Le due parti sono collegate da tre ponti, tra cui il Ponte Galata quasi allo sbocco del Bosforo, centro brulicante della vita cittadina. A Istanbul il traffico è pittoresco e caotico. Dovunque s’incrociano auto di gros-sa cilindrata, camion, pullman di turisti, carretti a cavallo, e una marea di gente che attraversa dove vuole, fra continui suoni di clacson. Tutti sono perennemente indaffarati, uo-mini stracarichi di mercanzia, ragazzini che nelle ore libere dalla scuola vendono per strada lucide ciambelle di pane infilate in un bastone o tè caldo tenendo in mano un vas-soio con i classici bicchierini svasati. E ancora, donne con lo scialle nero, altre col tipico soprabito azzurro, lungo e abbottonato, altre ancora vestite con colorati abiti europei. Nessuna più porta il velo, che venne “sconsigliato” set-tant’anni fa da Ataturk, così come nessun uomo porta più il fez, sempre per la proibizione, in questo caso esplicita, di Ataturk. Di solito, la prima tappa è Santa Sofia. Dedi-cata non a una santa ma alla Divina Sapienza (Sophia , in greco), venne fondata da Giustiniano imperatore nel VI secolo, e dopo essere stata chiesa cristiana e moschea musulmana, fu trasformata da Ataturk in museo. Santa Sofia è considerata uno dei capolavori dell’architettura di tutti i tempi per la sua struttura grandiosa culminante nella splendida cupola alta più di 50 metri. Giustiniano non era uomo da badare a spese, e fece trasportare a Costanti-nopoli (com’era chiamata allora Istanbul) colonne, marmi,

sculture, da tutto l’Impero: si vedono ancor oggi in Santa Sofia colonne di marmo verde provenienti dal tempio di Artemide a Efeso, altre di porfido dal tempio di Giove a Baalbek in Libano, ed altre di granito dall’ Egitto. Magnifici i grandi medaglioni con iscrizioni coraniche appesi alle pa-reti, otto, più che in tutte le altre moschee. Purtroppo molti mosaici andarono distrutti al tempo della lotta iconoclasti-ca, altri invece si salvarono sotto una mano di calce, e fu-rono riscoperti nel secolo scorso. E’ la grandiosità dell’in-sieme a dare un’impressione indelebile. Altrettanto forte l’emozione che offre la splendida Moschea del Sultano Ahmet, meglio conosciuta come Moschea blu. Un gran-dioso insieme di cupole (quella centrale misura 33 metri di diametro), che poggia su quattro colonne massicce, ma reso incredibilmente leggero dalle 260 finestre, e dalla de-corazione di piastrelle di ceramica azzurra che ne riveste completamente l’interno e le dà il nome. Altra caratteristica che rende unica la moschea Blu è la presenza inusuale di sei minareti. Capolavoro sotterraneo di Istanbul è la Cister-na Yerebatan Sarnici, fatta costruire da Costantino come deposito idrico, con 336 colonne corinzie a sorreggere magnifiche volte di mattoni. Già dal primo impatto la sug-gestione è fortissima, amplificata dalle luci rossastre che riflettono nell’acqua l’atmosfera dei numerosi filari di colon-ne. Discorso a parte merita il mitico Palazzo Topkapi, resi-denza dei sultani per quattro secoli e centro del grandioso impero ottomano. La preziosità dei padiglioni, l’harem, le raccolte di abiti da cerimonia e le sacre reliquie dell’Islam culminano nello sfarzo del Tesoro, con oggetti strabilianti come il mitico diamante di 86 carati e il pugnale Topkapi, con tre enormi smeraldi. Dai sultani al popolo, dal Topkapi al Gran Bazar. Il Bazar di Istanbul è immenso, un dedalo di corridoi su cui si affacciano centinaia di negozietti, con

Turchia un crogiuolo di civilta’34

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l’aria stemperata dall’essenza di vani-glia e di cumino, tra banchi che offro-no montagnole di pistacchi e dolcis-simi loukoum, crocchi di uomini con il rosario arabo in mano, dappertutto gente che porta sacchi, mercanzia, in un continuo e instancabile traffica-re. Che cosa comprare? Ceramiche, oggetti di rame e di ottone, onici, alabastri, tutti i lavori dell’artigianato turco. Giacche di montone, articoli di pelle e, naturalmente, tappeti. C’è da dire, ad onor del vero, che qual-cosa è cambiato rispetto al passato. Intanto i prezzi. Salvo qualche ecce-zione, in cui si parte da cifre basse ed è ancora consentito mercanteggiare, la maggior parte dei mercanti, qui, gioca al rialzo. Cifre inaspettate per qualsiasi mercanzia e senza possibi-lità di sconti. Inoltre, l’artigianato vero si è ormai infarcito di banali imitazioni di firme internazionali a prezzi dav-vero ingiustificati. Da Istanbul, vale la pena fare l’esperienza della gita in battello sul Bosforo. Scorrono davanti agli occhi le belle case di legno del secolo scorso, costruite proprio sul-la riva, che ospitavano ambasciate e visitatori illustri; molte sono state finemente restaurate e sono abitate ancora oggi. Il giro in battello è pia-cevole, gremito di una folla allegra; a bordo si beve continuamente il tè, si mangiano ciambelle e una sorta di wafer a forma di doppio disco farcito di cremina.

IZMIRSmirne, l’odierna Izmir, è la terza città della Turchia, dopo Ankara e Istanbul ed è anche il principale porto del Mar Egeo. Una città viva e caotica che sembra celare l’antichissima origine (viene indi-cata tradizionalmente come la patria di Omero). Dell’antica città è rimasto ben poco: una parte dell’agorà, la piazza principale, con colonne e portico, un ric-co museo archeologico con le statue di Poseidone, Demetra e Artemide prove-nienti dall’agorà, sarcofagi ed altri reper-ti. Ben altra atmosfera troviamo invece a Pergamo. La sua erede, la moderna città di Bergama, non ha inghiottito la parte archeologica, almeno la più importante. Qui esisteva una biblioteca con 200 mila volumi, che poi Antonio trasferì ad Ales-sandria d’Egitto per compiacere Cleopa-tra. Sulla collina dominante, gli imponen-ti ruderi dell’acropoli. Anzitutto il teatro, che poteva ospitare diecimila spettatori, con gradinate suggestivamente digra-danti verso valle. Poi i templi di Traia-no, Demetra, Era, l’altare di Zeus (oggi ricomposto nel Pergamon Museum di Berlino), la biblioteca, le due agorà, infe-riore e superiore, i ginnasi. Pergamo, tra l’altro, ha dato al mondo e alla cultura, la pergamena, fatta con pelle conciata di ovini. A valle sorgeva un famoso isti-tuto terapeutico, frequentato, tra gli altri, dagli imperatori Adriano, Marco Aurelio e Caracalla. Era l’Asclepieion, dedicato ad Asclepio (per i Latini Esculapio), il dio della medicina. Più che un ospedale,

era un centro per il benessere, le cure a base di bagni, massaggi, ginnastica, diete; con un pizzico di psicanalisi ante litteram, perché le terapie venivano pre-scritte dopo un approfondita anamnesi del paziente e l’interpretazione dei suoi sogni. Oggi l’A-sclepieion, con i suoi lun-ghi colonnati, i resti della biblioteca, del teatro, del tempio, costituisce una meta di grande suggestione. Vi si giunge per-correndo la via Tecta, monumentale. EFESOLa prima delle città dell’Apocalisse cita-te da Giovanni, è la prediletta Efeso. Fu uno dei maggiori centri dell’antichità, in epoca romana raggiunse i 300 mila abi-tanti, ed era il centro del culto di Arte-mide, identificata dai Romani con Diana cacciatrice. Qui sorgeva un grandioso santuario dedicato a questa divinità, magnifico al punto da esser considera-to una delle sette meraviglie del mondo antico. Tuttavia aveva caratteri peculiari, persi nella trasposizione romana. Figlia di Zeus e Latona, sorella di Apollo, a Efeso veniva raffigurata con la testa co-perta da un moggio cilindrico e con un busto polimastide, cioè con numerose mammelle. Simboleggiava la Luna ed anche il ciclo della fecondità femminile, così misteriosamente legato nei tempi con le fasi lunari. Vergine, proteggeva le gravidanze e veniva invocata dalle partorienti. E’ singolare come il culto di questa Grande Madre sarebbe stato qui soppiantato, forse non del tutto casual-mente, da quello di un’altra Vergine, la

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Madonna, come vedremo. Oggi del celebrato santuario non resta che uno spiazzo costellato di ruderi ed una colonna rifatta mettendo assieme frammenti spezzati e risollevata. Grande ed importante era dunque Efeso, luogo cruciale per la diffusione del cristianesimo e la cancellazione degli dei pagani. Tanto che Giovanni non solo le dedicò l’“Apocalisse” con priorità assolu-ta, ma vi si recò di persona lasciando Patmos, dove era finito in esilio. Quando Giovanni si recò a Efeso, era ormai vecchio. Ma l’apostolo era già stato qui in altri tempi, portando con sé la Madonna affidatagli da Gesù. Ad Efeso Maria avrebbe vissuto gli ultimi anni e vi sarebbe morta. Ipotesi dapprima contestata, ma poi suffragata da Paolo VI , Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, qui venuti a pregare nella casa di Maria. Oggi Meryem Ana Evi, cioè la Casa di Madre Maria, è un luogo di pellegrinaggio e di culto, per i cristiani ma anche per i musulmani. All’interno c’è un altare e sopra, in una nicchia, una statua di Meryem Ana; alle pareti qualche quadro devozionale, un recente frammento di affresco in stile antico, ex voto. Nei pressi, un negozietto di ricordini sacri. E la statuina della Madonna che ci portiamo via,

piccola copia di quella venerata in loco, tiene le braccia abbas-sate sui fianchi ma sporgenti in avanti, con i palmi aperti. Più o meno l’atteggiamento che aveva l’antica divinità qui venerata, la vergine polimastide Artemide. Efeso sorse nel secondo mil-lennio a.C., fondata dai Greci. Nel 17 d.C. la città fu devastata da un terremoto. L’imperatore Tiberio ne avviò la ricostruzio-ne e i successori Domiziano, Traiano e Adriano, tra il I ed il II secolo, si prodigarono per abbellirla. Gli impressionanti resti archeologici che oggi si possono ammirare risalgono a quell’e-poca. Giustiniano, imperatore d’Oriente (527-565), ne trasferì il centro nei pressi della basilica di San Giovanni, in una zona sopraelevata da lui ricostruita e così sulla zona monumentale ellenistico-romana cadde a poco a poco l’oblìo. La prima ba-silica era stata eretta nel IV secolo sul luogo dove, secondo la tradizione, sarebbe stato sepolto l’apostolo. Ma l’edificio di cui oggi possiamo visitare le imponenti testimonianze è quello bizantino. Poi Efeso vide una fioritura islamica e la basilica fu trasformata in moschea distrutta da un terremoto verso la fine di quel secolo. Quello che oggi vediamo è il frutto di scavi ar-cheologici e di restauri svoltisi a partire dagli anni Venti del No-

vecento. Aggirandosi tra queste scenografiche rovine, dinanzi a noi si apre la via dei Cureti, sacerdoti, che discende con il suo elegante lastricato delimitata da frammenti di statue e colonne, pilastri con cariatidi ed omenoni. Dalla tomba di Mamrnio ci guardano figure sepolcrali. Più in là la fontana di Traiano, un tempo alta dodici metri e popolata di statue (quelle superstiti oggi sono al museo), ricostruita con tronchi di colonne, capitelli corinzi e un timpano sovrastante. E ancora, il tempio di Adria-no, di cui è stato restaurato il pronao, con colonne reggenti un arco, preceduto dai basamenti di quattro statue. Monumento di eccezionale valore, dietro cui si possono scorgere i ruderi del lupanare e delle terme di Scolastica. Ma un palazzo spet-tacolare ci attende in fondo alla strada: è la biblioteca di Celso, eretta tra il 114 e il 135 in onore di Tiberio Giulio I. Il Celso Polemeano, governatore dell’Asia alcuni anni prima. Un meti-coloso restauro ha ripristinato la facciata, a due piani, ciascuno con otto colonne sorreggenti frontoni e trabeazioni riccamente decorati; nelle nicchie al piano terreno quattro statue (copie, le originali si trovano a Vienna) raffiguranti le doti di Celso: sophia

(saggezza), episteme (sapienza), arete (virtù), ennoia (pen-siero). Nell’abside interna si trovava la statua di Celso, oggi esposta al museo archeologico di Istanbul. Ma ciò che fa di Efeso qualcosa di eccezionale, paragonabile a Pompei, sono alcune case poste sulla sinistra della biblioteca, arrampicate sul pendio del colle Bulbul: probabilmente dimore di gente benestante, erette in epoca augustea, con pianta analoga a quelle di Pompei, cioè una serie di stanze poste in quadrato ed affacciantisi su un peristilio, cioè un cortile porticato interno. Alle pareti affreschi, in parte conservati, con figure umane, tra cui Eros reggente una corona, Dioniso ed Arianna, e riquadri di colore simile al rosso pompeiano. Archeologi e restauratori sono tuttora all’opera per ricostruire gli ambienti.•

Ufficio Cultura e Informazioni Ambasciata di TurchiaPiazza della Repubblica 55, Roma Tel 064871190/4871393 - fax 064882425 [email protected]

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Marrakech. Il fascino che si sprigiona dalla folla che flui-sce in modo incessante nelle piazze e nelle strade, variopin-ti tuareg del Sahara, montanari berberi dell’Atlante, commer-cianti chleuh indaffarati e vocianti. Questo è Marrakech. Il suo cuore palpitante è la Piazza Djeema-el-Fna, il “raduno dei trapassati”, così chiamata perché una volta vi si espone-vano le teste dei giustiziati dal sultano, ma a dispetto del nome è la piazza più viva del Marocco. Seduti sulla terrazza di uno dei caffè, cullati dal ritmo ossessivo di centinaia di tamburelli, sfileranno davanti a voi ballerini e uccellatori, gio-

colieri e acrobati, cantastorie e incantatori di serpenti, che creano all’impronta l’anima del Grande Sud del Marocco e la propongono senza intermediazioni agli spettatori, come un’incandescente pièce de théatre. Entrati nella mischia, ri-conoscerete dal tintinnìo del cappello il venditore di acqua che sa di guadagnare meglio facendosi fotografare piutto-sto che vendendo la sua merce, e vi scosterete non appena vi si avvicinerà un uomo scarmigliato, con un grosso cesto sulle spalle. Improvvisamente il cesto viene posto per terra, il coperchio foderato di rosso si apre ed esce un cobra nero

38 Marocco incantato

Testo di Egidio Cherubini

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e lucente, dalla testa piatta, che si snoda poco alla volta, come incantato. A volte il serpente sembra più innocuo, sot-tile e strisciante, te lo appoggiano sulle spalle. I turisti sono terrorizzati e non esitano a mettere mano alla borsa pur di vederlo di nuovo scomparire. Passano sveltissime le donne berbere con la fronte decorata da neri tatuaggi. Sono puntini disegnati come costellazioni, segni magici, a volte è solo qualcosa che si intuisce più che vedere, sotto il velo nero. Qui nella Piazza ci sono giovani donne accovacciate per ter-ra, pronte a dare anche a te l’illusione di un tatuaggio berbe-ro, un accurato disegno nero lucido sul dorso della mano o sulla caviglia, che svanirà pian piano, lavaggio dopo lavag-gio, insieme al ricordo di quel momento. Ogni tanto, nella marea di gente drappeggiata in colori scuri si nota il balenìo di un monile d’argento (la lavorazione berbera è magnifica) o la luce morbida di grossi chicchi d’ambra color miele o rossastri a seconda della zona dove sono stati raccolti e dal colore della sabbia che vi si è inclusa quando erano ancora resina molle, secoli fa. Le babbucce non fanno rumore. Fan-no rumore i sonagli alle caviglie e le voci che danno un colo-re tutto particolare alla Piazza. Sono voci abituate ai grandi spazi, alle note più acute della nostalgia, a volte forti e stri-denti, altre cantilenanti come se recitassero misteriose poe-sie. I pochi punti in ombra della piazza, a volte creati con degli ombrelloni, raccolgono capannelli di uomini vestiti con la tradizionale djellaba e con il tarbusc di feltro rosso. Chi gioca a scacchi per terra, chi racconta storie straordinarie. Muli, ciclomotori, vecchi camioncini scassati, macchine nuove a tutto gas, file di bancarelle per venditori ambulanti di

frittelle, di datteri e frutta secca, di fichi infilati in lunghissime collane o di succose arance da spremere al momento. Un miscuglio incredibile di colori, di suoni, di profumi. La vita si scandisce convulsa anche nel viavai delle viuzze della Medi-na, proprio adiacente alla Piazza Djeema-el-Fna, una delle città vecchie più affascinanti dell’Africa del nord, piena di bei ricami berberi in oro e argento accuratamente eseguiti su tessuti di poco prezzo, specchi e scrigni adornati con osso di cammello e metallo cesellato, bellissimi lavori in rame, pelli malamente conciate, spiedini in ferro da barbecue lavo-rati lì sulla strada, splendidi tappeti. Soltanto quando il sole è alto la confusione diminuisce: è l’ora della grande calura che va mitigata all’ombra dei caffè o dietro le persiane di casa. E’ proprio questo momento sonnolento il migliore per visitare la Medina prima che, al tramonto, l’intera città si ri-versi negli stretti vicoli pieni di tentazioni. Poi ci aspetta la mersea, cioè la scuola coranica, Ben Youssef, un gioiello di decorazioni policrome che risplendono dentro un buio an-drone. Il minareto della Moschea della Koutoubia, che è il gemello della torre Hassan di Rabat e della Giralda di Sivi-glia, un vero e proprio ricamo di pietra, uno dei migliori esempi di stile ispano-moresco. Narra la leggenda che le sue cupole d’oro siano state ricavate dalla fusione dei gioiel-li della moglie di Yacoub-eI-Mansour che portò a termine la torre. Attraverso uno splendido giardino cintato di siepi di rosmarino si giunge poi ai Sepolcri della famiglia imperiale dei Saadi dove, nella più ricca e armonica delle decorazioni moresche, ha trovato riposo Ahmed-el-Mansour detto l’in-vincibile, il mitico conquistatore di Timbuctu che nel 1591

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attraversò il Sahara con le sue truppe e ne tornò talmente carico d’oro da co-prirne letteralmente Marrakech. Il Pa-lazzo della Bahia, un sontuoso esem-pio di architettura maghrebina, rutilante di intarsi e decorazioni, dal bellissimo giardino moresco con galleria a vetrate e colonne a mosaico. Meritano le stan-ze della favorita del visir e la sala del consiglio con magnifico soffitto di ce-dro intarsiato. Poi, il Palazzo el Badi (o meglio le sue splendide rovine) che era definito “l’incomparabile” proprio come Allah. Girando per il centro storico in visita a questi monumenti non è insoli-to, alzando gli occhi, scorgere un nido di cicogne su tetti, torri e persino sui pali della luce. Così come è frequente imbattersi in uno dei tanti magnifici por-tali dalle decorazioni moresche che indicano dimore tradizionali, spesso nobiliari, dette Riad. Alcune sono anti-che, seicentesche. Ristrutturate con estremo gusto, molte di esse sono sta-te trasformate in hotel di charme. An-che gli stranieri sembrano essersi ac-corti di questa opportunità che offre oggi Marrakech specie all’interno della Medina, cominciano a essere numero-si, per esempio, gli italiani che gesti-scono un Riad. Oppure che lo ristruttu-rano per se stessi, per vivere ogni tanto l’atmosfera incantata e coinvolgente di questa città. Marta Marzotto, Sergio Tanzi, Romeo Gigli e persino Yves Saint Laurent, recentemente scomparso, sono tra questi. Tutto diverso ad Essa-ouira. Il primo impatto è l’emozione che sprigiona dal porto. Una distesa fittissi-ma di barchette blu scolorito, una ac-canto all’altra, vuote, immobili, tanto da sembrare un’unica immensa chiatta. Più al largo alcune navi da pesca, nel cielo una moltitudine incredibile e in-cessante di gabbiani a volo basso, in-solitamente silenziosi. Non è un caso che proprio qui Alfred Hitchcock abbia girato il suo film “Gli uccelli”, nel 1963. Sulle banchine, mucchi di rete colorata e qualche pescatore seduto a terra a rammendarle. Qui, i pescatori fanno gran parte dell’economia per quell’in-credibile quantità di sardine che vivono in queste coste e che le loro mogli ven-dono direttamente nel porto evisceran-do i pesci al momento. Ecco il perché dei gabbiani. Poi lo sguardo, catalizza-to dal porto, seguendo il volo degli uc-celli si sposta all’altra meraviglia di questa città, il complesso dei Bastioni

Marocco incantato

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che circondano con possenti mura tutta la città vecchia, la Medina. La cittadella fortificata che difende il porto, infatti, è una piattaforma protetta da mura merlate su cui si trovano cannoni spagnoli dei secoli XVII e XVIII rivolti verso l’oceano Altantico. Fu il sultano Mohamed ben Abdellah Nel 1764, a voler fare di Essaouira una base navale fortificata e chiamò l’architetto militare francese Théodore Cornut a ridisegnare la città. In tre anni i lavori stravolsero l’impianto urbanistico della vecchia Mogador per creare una città con un largo via-le centrale a portici e dritte vie trasversali, il tutto rinchiuso nella poderosa cinta di mura. Alla sua planimetria perfetta-mente regolare, a pianta romana, la città deve il suo nome attuale Essaouira, “la ben disegnata”. Dalla Porte de la Ma-rine si entra nella Medina , che è divisa in tre settori, il suq, la mellah, la kasbah. Vie ordinate, scandite solo da negozi; questo è il centro del commercio, l’altra risorsa di Essaouira. In una delle strade interne si trovano i laboratori degli intar-siatori su radica di legno d’ebano e di cedro, che realizzano veri capolavori di artigianato spesso arricchiti da argento e madreperla. Ma il porto di Essaouira, ricco di fascino tanto da sembrare un set cinematografico, niente ha a che vedere con quello di Casablanca, il più importante del Marocco. Se la capitale ufficiale e sede del governo è Rabat, Casablanca ne è considerata la capitale economica. Una città moderna, con un’architettura curata ed alberghi di livello, come lo Hyatt-Regency, il cui piano bar è la ricostruzione del Rick’s Café Americain del celeberrimo film Casablanca, con tanto di foto degli attori in scena. Tanta modernità è in contrasto con l’unica struttura relativamente antica della città, la medi-

na vecchia con le sue stradine strette e tortuose, cinta da mura del XVI secolo. C’è anche una medina nuova costruita dal 1923 nelle vicinanze della zona europea della città per dare una soluzione al problema dell’inurbamento; cerca di riprodurre in chiave architettonica moderna la struttura tradi-zionale delle medine con i souk, e le botteghe artigiane. La vera attrazione di Casablanca è la Moschea Hassan II, la seconda al mondo per dimensioni (dopo la Mecca). Il suo minareto, con 210 metri, è il più alto del mondo e serve an-che da faro per il porto. Venne costruita su progetto dell’ar-chitetto francese Michel Pinseau per celebrare il sessantesi-mo compleanno di Re Hassan II del Marocco. Sorge in parte sull’oceano, occupa 90.000 metri quadrati, può ospitare fino a 20.000 fedeli che salgono a 80.000 col piazzale antistante ed è ricca di marmi di diversi tipi e di splendidi lampadari. Contiene anche una medersa con biblioteca e sale per con-ferenze, nei sotterranei ci sono sale per abluzioni. Un’opera grandiosa, in termini di spazi e di preziosità che è costata l’equivalente di oltre 500 milioni di euro. Da non mancare, una passeggiata sul Boulevard de la Corniche, il lungomare di Casablanca, fittissimo di stabilimenti balneari moderna-mente attrezzati, ristoranti, locali ed alberghi. Insomma, la parte mondana della città.•

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42 LOIRA: DI CASTELLO IN RELAIS - Nel cuore della Douce France, ai margini del fiume

LOIRA: DI CASTELLO IN RELAIS

Un tempo erano fortezze ar-mate. Macchine da difesa. Fu alla fine del Quattro-cento che i mastodontici

castelli francesi costruiti lungo il fiu-me Loira, rudi ed essenziali, possenti e trincerati, cominciarono a snellire le gravi strutture a favore di orna-menti, fregi, mollezze d’architettura. L’influenza italiana aveva operato la trasformazione. Carlo III, Luigi XII e Francesco I dovettero capitolare di fronte ai più convincenti costumi del Bel Paese che privilegiava l’arte del

vivere persino nel concetto di potere. Ecco arrivare dall’Italia artisti del cali-bro di Laurana e Spinelli, chiamati da Luigi XII che abbandonava la reggia del Louvre per Plessis-lès-Tours. E, rubato alla corte di Napoli, Pacello da Marcogliano, architetto d’esterni, il quale sublimò le geometrie dei verdi mediterranei in quelli che poi sareb-bero diventati i “giardini alla francese”, come nei suoi progetti per Blois ed Amboise. Persino Leonardo da Vin-ci degnò dei suoi tratti geniali spunti notevoli per i castelli francesi, come, così sembra, la superba scala a dop-pia vite di Chambord. I castelli della

Loira disegnano, nel cuore della Dou-ce France, un percorso che nell’im-maginario collettivo nasce e si snoda in un’atmosfera fiabesca. Veri e propri palazzi reali di cui è lecito immaginare lo sfarzo e l’eleganza già dalle belle strutture turrite con cupole coniche o a pagoda, abbaini e lucernari; dai deco-ri delle facciate; dagli immensi giardini esaltati da sculture, fontane e giochi d’acqua per stupire. Una realtà per un viaggio sognato. Se poi si dà voce alla possibilità di soggiornare, di castello in castello, in dimore d’altra razza ma di uguale fascino tutto francese, quali sono i Relais du Silence, il progetto si

Testo di Teresa Carrubba

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fa davvero interessante. “Relais du Silence”. Non un sem-plice nome, ma una promessa di quiete e intimità. Ricer-catissimi alberghi che offrono un mondo esclusivo in cui ci si possa rigenerare, ma anche l’estrema attenzione per il cliente che viene coccolato di tutto punto, a distanza, con discrezione. Siamo partiti da Parigi, alla volta del castello di Chambord. Già per la colazione, la scelta caduta su La Solognote, ha dato al viaggio un primo impatto di qualità. Relais du Silence a Brinon sur Sauldre, lungo la strada per Orleans, La Solognote è un momento di tranquillità da con-segnare a una vacanza o a un week-end. Elegante e riser-vato, caldo e curatissimo. enu che uniscono, in matrimonio riuscitissimo, l’eleganza della proposta, ai margini della nouvel cuisine, e la prelibatezza della sostanza, carica di sapori genuini, a ricordo dell’origine del relais, un tempo fattoria. La buona cucina, dunque, unita alla possibilità di dormire in camere raccolte, fanno di questo Relais du Silence un interessante punto di partenza per conoscere la zona, a partire dalla foresta Solognote, e per visitare i castelli della Loira. Anche noi siamo qui per questo. Cham-bord. A voce di popolo, uno tra i castelli più rappresentativi del Rinascimento francese. Fu Francesco I a volerlo. Resi-denza di campagna, riserva di caccia. Molti, nel progetto strutturale, i segni del pensiero di Leonardo da Vinci, che il re volle in Francia. Specie nei grandi terrazzi articolati e nel-la magnifica scala a vite posta al centro delle sale a croce e divisa in due scalee concentriche. La silohuette sontuosa del castello si sfrangia verso l’alto in elaboratissimi tetti, con torrette, abbaini, sovrastrutture classicheggianti all’italiana,

padiglioni, comignoli, colonnati, intarsi d’ardesia. L’inter-no, spoglio d’arredamento ma non d’architetture, mostra gli appartamenti di Francesco I e di Luigi XIV e le sale settecentesche, rimaneggiate secondo il gusto e i criteri dell’epoca. La notte può prevedere il Relais du Silence Le Rivage, in riva al fiume Loiret. E’ proprio lungo quel fiume, dopo un’elegante cena nella sala tutta vetri dell’hotel, che l’atmosfera languida invita a passeggiate intime, nel perfet-to silenzio di una zona residenziale selezionata. Il castello di Cheverny. Ancora meno usuale rispetto ai nostri canoni dei manieri merlati del Medioevo. Uno splendido palazzo reale, dalla ricchezza nitida nel mastio simmetrico, nelle cu-pole a pagoda, nei busti scultorei delle nicchie di facciata che stemperano gusto classico in un’impronta decisamen-te rinascimentale. Il raro privilegio di essere sempre stato proprietà della stessa famiglia, ha permesso al castello di mantenere una grande unitarietà di stile negli arredi, che trionfano in una magnifica e intatta decorazione di epoca luigi XIII. Splendida la Sala dei Trofei, ricca di oltre duemila corna di cervo. Segno di una forte vocazione alla caccia, mantenuta viva anche dagli attuali proprietari di Cheverny, che organizzano spesso battute venatorie. Un altro ca-stello, Beaulieu, a Joué-lès-Tours, acquistato nel 1648 da Jacques de Bussy, consigliere del re, appartenuto al conte di Rochefort e al barone Margaron, ora è un ricercatissi-mo Relais du Silence. Tracce di nobiltà ovunque in questo maniero registrato nell’inventario dei monumenti storici: nei voli architettonici delle suites, nella ricercatezza di drap-peggi e punti luce, nell’inappuntabile table habillé. Dall’e-

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legante creatività del maitre cuisinier, nascono gourmandises di altissimo li-vello, servite con superbi vini francesi. Sembra davvero uscito da una favola questo castello interamente poggiato sull’acqua, Chenonceau. Di un nitore straordinario, il profilo del castello di-segna il nucleo di un complesso che snocciola perle di bellezza naturale. Il palazzo, ma anche la geometria dei magnifici giardini di Caterina dé Me-dici, il placidissimo fiume Cher, il fitto bosco tutt’intorno. Proprietà, nel Cin-quecento, di Bohier, intendente delle finanze per la Normandia, il castello fu poi espropriato da Francesco I che, assecondando le tendenze dell’e-poca, vi promosse battute di caccia a cavallo, feste, incontri intellettuali. Tradizione ripresa dal ricco finanziere Claude Dupin, che nel Settecento ac-quistò il palazzo. Chenonceau diven-ne un famoso salotto borghese fre-quentato anche da Montesquieu e da Jean-Jacques Rousseau che del ca-stello scrisse:” Ci si divertiva molto in quel bel luogo e vi si mangiava bene; diventai grasso come un frate”. Ci tra-sferiamo al castello La Tortiniere un

bellissimo Relais du Silence proprietà di Xavier Olivereau. I blasoni aristocra-tici, qui, sono degnamente sostituiti dalla frequentazione di ospiti di rango come Georges Pompidou e Chirac: suite numero 12, suggestiva già nella sua forma circolare, da torre del ca-stello, sulla valle e sulla piscina. Ma intriganti anche le camere-abbaino, da dove l’ospite irrequieto si inoltra tra angusti tetti di ardesia e guglie, per strappare uno sguardo da portarsi nei ricordi. La tavola, un tempio della raf-finatezza. Servizio inappuntabile. Per non commettere errori della memoria il cameriere annota, con discrezione, gli ordini su una piantina che riporta la disposizione dei commensali. Un’at-tenzione tutta francese. Ultimo invito alla bellezza: i giardini del Castello di Villandry. L’arte del verde d’autore, nata con il Rinascimento italiano per armonizzarsi con l’architettura, giun-ge anche in Francia traducendosi nei celebri giardini alla francese, più ampi e senza muri perimetrali. Splendidi, i giardini di Villandry, sono emblematici di questo stile e ne ricalcano tutta la suggestione, nella struttura a grandi

terrazze che ne consentono incredi-bili, cangianti visioni. Ultima tentazio-ne: un pranzo al Relais du Silence La Caillere. L’ala più antica risale a prima della rivoluzione francese, il resto fu costruito nel 1850, già con destina-zione locanda. Oggi è un delizioso Relais du Silence. Nessun dubbio sul suo merito nel trovarsi citata nel-le più prestigiose guide internazionali come Michelin, Gault et Millau, Bottin Gourmand, Touring Club e molte altre. Vi si gusta un eccellente fegato d’o-ca fresco, tra i migliori. Oltre ad altre superbe ghiottonerie. Per finire con il caffè da sorbire nell’intimo giardino spilluzicando irrinunciabili frutti glas-sati.•

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La prima sensazione, arrivati a Sidi Bou Said, è quella di aver sbagliato rotta e di essere giunti in un’isola greca delle Cicla-di. Stile Santorini, per intenderci. Piccole case cubiche di un bianco abbacinante con porte e finestre dal tipico azzurro

apotropaico disegnano viuzze acciottolate traboccanti di bougan-ville e gelsomini. Ed è proprio il profumo penetrante dei gelsomini a guidarci nell’ordinato reticolo di vicoli che s’inerpicano per la collina a picco sul Mar Mediterraneo, incastonata nel Parc National du Je-bel Bou Kornine, catturando una luce straordinaria che amplifica il contrasto di colori di questa architettura. La stessa luce che ammaliò artisti come Paul Klee, August Macke, alcuni membri dell’ Ecole de Tunis (scuola di pittura di Tunisi), come Yahia Turki e Brahim Dhahak e scrittori del calibro di Simone de Beauvoir e Cervantes. Ma con-quistò anche il marabutto Bou Said Khalaf el Beji, asceta musulma-no considerato santo, che qui si ritirò in preghiera intorno al 1220 e diventò patrono della città dandole il nome. Qui, in suo onore, fu

The first sensation you get when you arrive in Sidi Bou Said is that you have taken the wrong direction, and have ended up on one of the Greek Cyclades islands. On a kind of Santorini. Low cubic, dazzling-white houses, with doors and windows painted that typical apotropaic blue, line the narrow little cobblestone streets that over-spill with bougainvillea and jasmine. And it is the heady perfume of jasmine that leads us through the neat grid of alleyways that wind their way up the hill with its sheer drop down to the blue Mediterra-nean Sea, set in the Jebel Bou Kornine National Park, and capturing the extraordinary light that intensifies the strongly contrasting colours of the architecture. The same light that enchanted artists like Paul Klee, August Macke, artists of the Tunis School of Painting like Ya-

THE DOORS OF TUNISIASidi Bou Said. The Jasmine Village

Words by Viviana Tessa and photos by Pamela McCourt Francescone

Sidi Bou SaidTesto di Viviana Tessa e Foto di Pamela McCourt Francescone

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eretto un mausoleo a cupola dietro al celebre Café des Nattes, meta obbligata per chi visita questo villaggio. Il Café gode di notorietà per almeno tre motivi: una vista mozzafiato sulla darsena nel Me-diterraneo e su tutto il pendio abitato di Sidi Bou Said; le numerose stuoie colorate che ne arredano la terrazza coperta, e un delizioso tè caldo alla menta in cui galleggiano croccanti pinoli. Il percorso per raggiungere il Café des Nattes è una gioia per gli occhi, intriso com’è di romanticismo tra i fiori e le piante che spuntano da minu-scoli giardini incastrati tra muri imbiancati a calce. Lungo le viuzze è facile imbattersi nei pittoreschi venditori di gelsomini confezionati in eleganti minuscoli bouquets e offerti su vassoi di paglia intrec-ciata. Gelsomini assurti a simbolo del villaggio fin dal XIII° secolo, quando gli arabi ne portarono le prime piantine dall’Andalusia. Ma l’attrazione straordinaria e singolare di Sidi Bou Said è costituita dalle porte, elemento distintivo di ogni casa. Porte in legno dipinto, pre-valentemente azzurre, semplici o con ghirigori di borchie metalliche e batacchi; raramente in altri colori ma sempre accesi come verde-rosso o giallo ocra. Alcune finestre alte delle case sono coperte da una sorta di veranda in legno intagliato e dipinto di azzurro, non solo elemento decorativo e protezione dalla forte luce del sole, ma anche schermo di discrezione per le donne del passato che da lì potevano osservare, non viste, la vita che scorreva nelle vie. Sembra che la tradizione degli infissi azzurri per le case trattate a calce bianca sia stata voluta dal Baron Rodolphe d’Erlanger filantropo francese che

48 LE PORTE DELLA TUNISIA - Sidi Bou Said il paese dei gelsomini

hia Turki and Brahim Dhahak, and writers of the calibre of Simone de Beauvoir and Cervantes. And also enchanted the marabout Bou Said Khalaf el Beji, a Muslim ascetic considered a saint who retired here to pray around 1220 and became the patron of the city, giving it his name. Here, to honour him, they built a mausoleum with a dome behind the famous Café des Nattes, an obligatory stop for anyone visiting the village. The Café is famous for three reasons: the breath-taking view over the Mediterranean and the residential hillside of Sidi Bou Said; the brightly coloured mats scattered around the shaded terrace, and the delectable hot mint tea with floating pine kernels. The climb up to the Café des Nattes is a delight for the eyes: a ro-mantic walk along shady streets with tiny flowering gardens wedged between whitewashed walls Along these same streets you come across picturesque jasmine vendors, the perfumes blossoms tied into elegant little bouquets and laid out on small woven-straw trays. Because jasmine became the symbol of this village in the 13th cen-tury when the Arabs brought the first plants here from Andalusia. But Sidi Bou Said’s most extraordinary and unique attraction are its doors, each one different from the last. Wooden doors painted, for the most part, bright blue, simple doors, and doors with elaborate metal studs and knockers: sometimes not blue, but bright red and green, or ochre yellow. Some of the tall windows on the houses are enclosed by lattice verandas, which are also painted blue. These are not merely decorative elements and protection against the bright

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dal 1910 ha trascorso gli ultimi vent’anni della sua vita a Sidi Bou Said dove ha contribuito alla conservazione e alla rinascita della mu-sica araba. L’amore del Barone d’Erlanger per questa terra si evince ancora dai giardini della sua casa, una serie di terrazze dove piante di boungaville, agrumi in particolare aranci, palme, fiori multicolori e cipressi, ne fanno un piccolo Eden. Un villaggio dai colori forti, dun-que, Sidi Bou Said, borgo arabo-andaluso, anche se le sue origini risalgono ai Cartaginesi, inserito dalle autorità tunisine tra i siti storici del Paese e sottoposto a vincolo conservativo per cui gli abitanti sono obbligati a ridipingere le case nei colori originali. Colori anche nell’artigianato locale messo in bella mostra da ogni bottega della via principale. Ceramiche dipinte a mano di ogni foggia e fattura, piatti, vassoi, ciotole, vasi e mattonelle dai lucidi smalti variopinti, gabbiette per uccelli a cupola e narghilè. Colori persino nel folklore locale. Se siete qui ad Agosto non dovete assolutamente perdere la festa religiosa della Kharja, tra le più importanti della Tunisia. Tutto il borgo è invaso da varie confraternite che ricordano così l’eroico sacrificio dei martiri islamici caduti per mano dei francesi nel 1271.•

Info: Ente Nazionale Tunisino per il Turismowww.tunisiaturismo.it - Via Baracchini 10 - 20123 MilanoTel. 0286453026/44 - Fax 0286452752 - [email protected] di Roma: Via Calabria 25 - 00187 RomaTel. 0642010149 - Fax 0642010151 - [email protected]

sunlight, but also a discreet screen used by women long ago who could sit behind them unobserved and follow what was going on down on the street. It would seem that the tradition of the blue ca-sings on the whitewashed houses was the idea of Baron Rodolphe d’Erlanger, a French philanthropist who moved to the little town in 1910, and spent the last twenty years of his life in Sidi Bou Said, contributing to the conservation and renaissance of Arab music Ba-ron d’Erlanger’s love for this town can also be gathered from the gardens of his house: a series of terraces with bougainvillea, citrus trees, in particular oranges, colourful flowering plants and shrubs and cypresses that turn the garden into a miniature paradise. Sidi Bou Said is a town of strong contrasting colours, an Arab-Andalusian settlement even though its origins date back to the Carthaginians. It has been listed as one of Tunisia’s historic sites, and as such is subject to strict regulations that oblige the residents to repaint their houses in the original colours. The local handcrafts, on display in the many artisan shops along the main street, are also colourful. Hand-painted ceramics in all shapes and sizes: plates, vases, di-shes, bowls and tiles in bright colours, but also elaborate birdcages and hookah pipes. The local folklore is also colourful. And, if you happen to be here in August, don’t miss the Kharja religious festival, one of the most important in Tunisia, when the entire town is invaded by confraternities to commemorate the heroic sacrifice of the Islamic martyrs who were killed by the French in 1271.•

Info: Tunisian National Tourist Boardwww.tunisiaturismo.it - Via Baracchini 10 – 20123 MilanTel. 02 86453026/44 - Fax 02 [email protected] Branch: Via Calabria 25 – 00187 RomeTel. 06 42010149 - Fax 06 [email protected]

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50 LE PORTE DELLA TUNISIA - Due Passi nella Storia

Un dedalo di viottoli e viuzze strette e tortuose che si sno-dano senza soluzione di continuità. Palazzi secolari, case basse intorno a cortili ombreggiati, archi e passaggi che

proiettano ombre su ombre, lo sfruscìo di passi lenti, sguardi enig-matici, porte borchiate in legno e dalle tinte forti. La Medina di Tu-nisi, fondata dagli Arabi nel 8° secolo, ha raggiungo il massimo del suo splendore sotto la dinastia Hafside nel 13° secolo. Decaduto nel 16° durante i conflitti tra Ottomani e Spagnoli, rinasce due se-coli dopo e diventa il fulcro commerciale ed artigiano della città. Oggi rimane ben poco delle antiche mura di cinta che facevano della Medina (la parola in arabo significa città) una fortezza inva-licabile, ma i mercati all’aperto - i caratteristici souk - e le zone residenziali sono tutt’oggi una straordinaria testimonianza della coesistenza di due culture secolari: quella Mediterranea e quella Islam. Su 270 ettari con oltre 700 monumenti e 100,000 abitanti, la Medina, che nel 1979 è stata proclamata patrimonio dell’UNESCO per “l’omogeneità della sua struttura urbana”, è una delle città mu-sulmane tradizionali più popolate al mondo. Già negli anni ‘60 l’in-tegrità dell’antico quartiere è stata minacciata dalla costruzione di nuove strade a scorrimento veloce. Nel 1967 viene fondato l’ASM, l’Association de Souvegarde de la Médina, un’agenzia il cui com-pito è quello di studiare la riabilitazione della vecchia città, tutelare la sua identità e sovraintendere agli interventi di restauro. “Tra i nostri obiettivi c’è anche quello di conservare la Medina come una entità coerente, in modo che non diventi un quartiere marginale della moderna città, e che acquisti nuovo valore come specchio della lunga storia della capitale”, spiega Messaoud Yamoun, uno dei fondatori dell’ASM. “Ci sono moschee, palazzi, hamman (ba-

Due Passi nella Storia

A Daedalus of alleyways and narrow passages that meander and ramble, seemingly without end. Ancient palaces, low houses built around shady courtyards, arches and passageways

that throw shadows upon shadows, the rustle of unhurri-ed footsteps, enigmatic glances, wooden doors in vibrant colours with heavy studs. The Medina of Tunis, founded by the Arabs in the 8th century, shone at its brightest un-der the Hafside dynasty in the 13th century. After a decli-ne in the 16th century under the Ottomans and the Spa-niards, it flourished again two centuries later, becoming the commercial and artisan hub of the city. Today little is left of the old encircling walls which made the Medina (the name means city in Arabic) an impenetrable fortress, but the open markets - the characteristic souks - and the residential areas are an extraordinary testimonial to the coexistence of two ancient civilizations: Mediterranean and Islamic. The Medina, is on 270 hectares, has 700 monuments and 100,000 inhabitants, was named a UNE-SCO World Heritage Site in 1979 for the “homogeneity of

Testo e Foto di Pamela McCourt Francescone

A Stroll Through HistoryDiscovering the architectonic treasures and age-old history of the Medina of TunisWords and photos by Pamela McCourt Francescone

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gni turchi ), zaouia (santuari) e medersa (collegi) di grandissimo valore architettonico e storico che non hanno subito cambiamenti nei secoli. Alcuni sono stati restaurati, preservando antiche attivi-tà artigianali quali la scultura della pietra, la ceramica e il nakch hadid, l’arte dell’incisione di motivi geometrici sullo stucco”. Negli ultimi anni sono stati fatti diversi investimenti pubblici in proget-ti per la conservazione del quartiere. Pochi, a dire la verità, ma hanno comunque permesso il restauro di numerosi edifici, conser-vando le loro caratteristiche storiche e ricollocandoli in un conte-sto contemporaneo. “Ogni qualvolta una nuova bottega o attività commerciale apre nella Medina, è un importante passo verso la conservazione dell’identità secolare del quartiere”, dice Yamoun. “Oggi, in seguito alla Rivoluzione dei Gelsomini di gennaio e il cor-so della Nouvelle Tunisie, c’è da augurarsi che La Medina possa beneficiare di nuovi interventi per valorizzare il patrimonio artistico e culturale del centro storico di Tunisi”. Al turista esigente, a colui che ama scavare oltre la superficie di una destinazione per entrare in simbiosi con il suo palpito più verace, piacerà l’itinerario turistico

its urban structure,” and is one of the most densely popu-lated Muslim cities in the world. In the ‘60s the integrity of this old quarter was threatened by the construction of new high-speed roads. Then, in 1967, the ASM, l’Association de Souvegarde de la Médina, was founded, with the aim of studying the rehabilitation of the old city, protecting its identity, and supervising restoration on its buildings and monuments. “One of our aims is to conserve the Medina as a coherent entity, to stop it from becoming a marginal quarter of the modern city. We also hope to turn it into mir-ror of the age-old history of the capital,” says Messaoud Yamoun, one of ASM’s founders. “In the Medina there are mosques, palaces, hamman (Turkish baths), zaouia (santuaries) and medersa (colleges) of inestimable archi-tectonic and historical importance. Some have been re-stored, preserving old artisan trades like stone sculpture, ceramics and nakch hadid, the art of engraving geometric motives on stucco.”

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Les Architectures de la Médina che porta oltre le strade commer-ciali del grande bazar che si diramano dalla porta Bab Bhar e bru-licano di vita a tutte le ore. Lungo questo itinerario di forte interesse architettonico-storico, che richiede circa tre ore di tempo e scarpe comode, si visitano i luoghi più intimi della Medina: i souk delle erbe, dei sarti, dell’ottone e dell’oro, la Grande Moschea di Zitou-na, utilizzata ancora oggi per il culto, il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, bei palazzi residenziali come il Dar ed-Haddad che è uno dei più antichi della Medina. Poi, Turbet el-Bey, il grande mausoleo dove sono sepolti molti bei – i signori di Tunisi - e personaggi di spicco, e il Medersa Bir Lahjar, passeggiando lungo strade dai nomi evocativi: Via del Tesoro, Via dei Martiri, Via dei Giudici, Via dei Ricchi. Affascinanti e variegate le porte della Medina che illu-strano il pensiero e lo stile di vita dei residenti: porte semplici ad un anta, porte a due ante, e porte con una piccola sotto-porta che si chiama hkoukha ed è stata introdotta da una principessa spagno-la per obbligare i sudditi musulmani ad abbassarsi davanti al ma-rito monarca. Anche i colori hanno il loro significato. Il giallo ocra è il colore preferito da Dio, il verde il colore del paradiso, e il celeste, introdotto in tempi più recenti, richiama il colore delle porte del pic-colo villaggio costiero di Sidi Bou Said. Poi ci sono le porte tricolori – bianco, rosso e verde - in omaggio alle dinastie che precedettero quella Hafside. Per le decorazioni vengono usati chiodi di varie dimensioni che disegnano simboli e forme geometrici come il tanit per la dea della fertilità, la stella di Davide, la croce, il mihrab (la parte delle moschea dedicato alle preghiere), la luna, l’occhio e il pesce. Vestigia di un passato secolare e, come tutti i monumenti ed edifici nella Medina, di grande fascino e da conservare gelo-samente. In questo delicato momento per il Paese, il testimone passa alle autorità municipali e governative post-rivoluzionarie. A loro il compito di rendere disponibili i mezzi, le perizie e i fondi di cui hanno bisogno l’ASM e tutti coloro che si prodigano per assi-curare, nell’immediato e in futuro, la salvaguardia delle bellezze inestimabili della Medina di Tunisi. Patrimonio non solo del popolo tunisino, ma del mondo intero.•

In recent years public investments have gone into projects to preserve the Medina. Unfortunately they have not been very many, but they have allowed nume-rous buildings to be restored, preserving their historical characteristics and giving them a new lease of life in a contemporary context.“Each time a new workshop or a new commercial acti-vity opens in the Medina it is an important step towards conserving the quarter’s ancient identity,” says Yamoun. “And now, in the wake of the January Jasmine Revolu-tion, and with the Nouvelle Tunisie, we hope the Medina can benefit from new projects to develop and preser-ve the artistic and cultural heritage of Tunis’s historic centre.” The demanding visitor, the traveller who likes to scratch the surface of a destination to discover its he-artbeat, will enjoy the itinerary called Les Architectures de la Médina which leads away from the busy shop-ping streets of the Grand Bazaar that start at the Bab Bhar gate and are crowded with locals and tourists at all hours of the day and night. This architectonic-historical itinerary takes about three hours, calls for comfortable walking shoes, and leads to some of the most intima-te parts of the Medina: the souks here herbs are sold, where tailors work, where brass is fashioned and where goldsmiths ply their trade, the Zitouna Mosque which is still used today, the Museum of Popular Arts and Traditions, handsome residential palaces like the Dar ed-Haddad which is one of the oldest in the Medina, Turbet el-Bey, the large mausoleum where many of Tu-nis’s beis – who once ruled the city - are buried, the Medersa Bir Lahjar, and streets with evocative names: Treasure Street, Martyrs’ Street, Judges’ Street, Rich-man’s Street. The doors of the Medina are one of its peculiarities, illustrating as they do the philosophy and way of life of the residents. Simple doors, double do-ors and doors with small under-doors called hkoukha, which were introduced by a Spanish princess to oblige her husband’s Muslim subjects to bow down before their monarch. Each colour has a meaning. Yellow is the colour preferred by God, green the colour of paradise and blue, introduced in more recent times, is the colour of the doors in the picturesque little coastal village of Sidi Bou Said. Then there are doors in three colours – white, red and green – for the dynasties that preceded the Hafsides. The doors are decorated with nails of va-rying sizes which design symbols and geometric forms like the tanit for the goddess of fertility, the cross of Da-vid, the Christian cross and the mihrab (the part of the mosque devoted to prayer), the moon, the eye and the fish. Century-old relics and, like all the monuments in the Medina, treasures to be admired and jealously con-served. In this delicate moment for the country it is now up to the municipal and post-revolutionary authorities to make available the means, the skills and the funds to support the ASM and other groups and concerns that are doing what they can to ensure, both in the short and in the long term, that the priceless beauties of the Medi-na be safeguarded and preserved. A precious heritage that belongs not only to the people of Tunisia, but to the world at large.•

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inalmente si parte... sono le 10:00 a.m. e da Pe-scara ci dirigiamo verso Ravenna, prendiamo l’au-tostrada e dopo i primi chilometri già il sentore della vacanza ci pervade. Fa molto caldo e per fortuna

abbiamo portato con noi delle giacche da moto trafora-te. Prima di Ancona usciamo e facciamo la nostra prima deviazione, La Madonna di Loreto; da lì verso il Conero,

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Testo e foto di Pierantonio Sborgia

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un paesaggio stupendo. L’effetto dei monti che si riflettono nell’ acqua sembra un “trucco” di photoshop e nemmeno a dirlo le acque turchine sono tappezzate di barche a vela. Il bello del viaggiare in moto è che si è dentro il paesaggio e non lo si guarda come da un finestrino, lo si vive ap-pieno, si sente l‘odore dei pini, delle ginestre che quasi sfioriamo con i ca-schi, delle foglie che danzano al no-stro passaggio ma altresì si sentono

le differenze di temperatura, si prende l’acqua quando piove, ci si brucia le braccia quando c’è il sole, insomma si è tutt’uno con la natura. Viaggian-do a fasi alterne, lento–veloce-lento, giungiamo in quel di Ravenna e arri-viamo a Casa di Paola un bellissimo e consigliatissimo Bed and Breakfast. Posate le valige e trovato un giusto ricovero per la moto, ci diamo alla ricerca di un buon ristorante. Niente da dire, a Ravenna si mangia proprio bene e dopo una breve passeggia-ta per il centro storico, passando in rassegna la tomba dell’illustrissimo esiliato: “ Dante” e la maestosa ma poco illuminata Basilica di San Vitale il letto era il nostro ultimo traguardo. La mattina seguente carichiamo la moto e partiamo alla volta di Venezia. La via Romea è la strada che collega Ra-venna a Mestre e deve il suo nome al fatto che ricalca un’antica arteria che portava da Venezia a Roma. Attraver-siamo le valli di Comacchio, una delle zone umide più estese e belle d’ Italia, e passiamo in rassegna i tipici casoni da pesca, capanne fatte di pali, paglia e canne palustri che fiancheggiano le rive dei fiumi e che tanto ricordano i Travocchi abruzzesi. Sulla destra un Cartello di quelli che indicano luoghi di interesse turistico riportava la scrit-ta Villa Foscari... si tratta della Malcon-tenta la famosa villa Palladiana, che deve il suo nome ad una leggenda... in breve e con il beneficio del dubbio, si narra di una dama che allontanata da Venezia per una condotta alquanto chiacchierata sia stata esiliata in que-sta villa da cui il nome. La deviazione è infruttuosa, bisogna prenotare in an-ticipo. Arriviamo fino a Fusina, dove è possibile lasciare la moto e raggiun-gere Venezia con un traghetto. Entrare

a Venezia dalla Laguna è stupendo, si vede avvicinarsi una quinta di case variopinte, un brulicare di imbarcazio-ni affollano la lingua di mare che stia-mo percorrendo chiusa a sinistra da Dorsoduro e a destra dalla Giudecca, con gli occhi scorro lo skyline alla ri-cerca di S.Marco, ma la prospettiva non è favorevole è la mia attenzione viene catturata da un fuori scala in-credibile. Vicino il molo S.Basilio, alla Marina sono ormeggiate delle navi da crociera, il loro rapporto con la città è spaventoso: sovrastano ampiamente gli edifici più alti e con la loro mole proiettano ombre innaturali.Si sbarca di fronte alla bella chiesa dei Gesuiti e da lì inizia la ricerca del nostro albergo; le valige sono pesan-tissime e dimenarsi tra il fiume di per-sone che affollano le calle Veneziane è arduo. In lontananza si sentono dei rumori, il cielo borbotta e da lì a poco ci prende un acquazzone. Fortunata-mente troviamo il nostro albergo. Si girovaga senza meta, stanchi, ma af-fascinati dalle prospettive sempre di-verse che ci si parano dinanzi, chiese, canali, piazze ( che poi scopriremo chiamarsi Campi ). Nel nostro errare veniamo notati da uno strano signore che affiancandosi ci dice che la bien-nale oggi, Domenica, è chiusa e che il cartello sulla nostra destra è un fuo-ri concorso. Non riesce a non notare che siamo un po’ spaesati; ci rivolge alcune domande, siamo impreparati e si sente stranamente in obbligo di far-ci lui stesso da guida. La nostra nuo-va conoscenza si chiama Agostino un signore sulla settantina, distinto, con grandi occhiali e capelli neri, uno stu-dioso di Venezia, per di più veneziano. Ci bacchetta dicendoci che in questo modo non avremmo mai capito Vene-zia e che prima di arrivare in una città bisogna studiarla, altrimenti è come non esserci stati. Non possiamo che condividere. Ci porta verso L’arse-nale e camminando descrive i luoghi che man mano attraversiamo, in uno slargo indica due pozzi e ci chiede sornione, sapete da dove prendono l’acqua? Senza aspettare risposta descrive l’interessante sistema di cisterne che raccogliendo l’acqua piovana permet-tevano l’approvvigionamento idrico, poi tira dritto e si infila in una strettoia. Lo seguiamo e indica un sovra-porta,

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si intravedeva appena un mattone sagomato a mò di cuore : “Qui una leggenda vuole che se due innamo-rati lo toccano rimarranno insieme per la vita” Calle e Campi al posto di Vie e Piazze, a Venezia esiste una sola Via ed è via Garibaldi; le Calle stan-no ad indicare gli stretti passaggi nei campi di grano i Campi invece sono gli slarghi, poi la nostra guida pren-de a dire : “Vedete, qui i veneziani si son fatti forestieri, siamo una città che muore le case sono vuote, gli stranieri comprano e mettono su al-berghi e Bed and Breakfast. I prezzi salgono ed i veneziani sono costretti ad andare via. Il turismo ha lentamen-te trasformato gli equilibri delle cose, oggi c’è un turismo che spazza via gli altri lavori, vedete altri negozi se non quelli di Souvenir?” Siamo ben oltre l’orario di cena, lo salutiamo e lo in-vitiamo a venire a trovarci a Pescara. Un giorno è nulla per vedere Vene-zia, ci tratteniamo fino al pomeriggio ma dobbiamo ripartire, la tabella di marcia prevedeva l’arrivo a Trieste

in serata quindi di nuovo in moto. Il sole scende sul mare, ci fermiamo ad osservare lo scenario, mare, coste a strapiombo ed ancora mare. Una luce unica ed un altro elemento, il vento, ci avvertono che siamo arrivati. L’ingres-so dalla strada Panoramica lascia di stucco poi si entra in una città carat-terizzata da grossi palazzi ottocente-schi, vie larghe e piazze monumentali. Purtroppo è tardi e finiamo la gior-nata dritti a letto. L’indomani si parte presto, non abbiamo molto tempo per vedere Trieste, un giro fugace in centro e la salutiamo ripromettendoci che saremo tornati presto, ma prima di lasciarla puntiamo la moto verso il castello di Miramare, assolutamente da non perdere. Passiamo il confine e, come ci hanno detto, ci fermiamo per acquistare la vignetta, una sorta di pe-daggio autostradale. Il paesaggio non cambia, l’unica cosa diversa è il prez-zo della benzina, sensibilmente più conveniente. Decidiamo di fare il tra-gitto sulla costa passando per Capo D’Istria, Parenzo, Rovigno, fino ad

arrivare a Pola. Soggiorniamo all’Ho-tel Riviera, una struttura alberghiera di qualche anno, le camere non ci piac-ciono molto, ma la posizione è cen-tralissima ed in fin dei conti il servizio è buono. Siamo affamati ed appena usciti dall’albergo siamo alla ricerca di un ristorante, nulla di più facile, anzi c’è l’imbarazzo della scelta. Menù turistici in ogni angolo, scegliamo e prontamente siamo serviti; il pesce è ottimo ed i prezzi sono da osteria. Ri-focillati, passeggiamo per il pregevole centro e ci troviamo di fronte al famo-so anfiteatro, una struttura molto ben conservata che conferma l’egemonia romana su queste terre. Inoltre sono presenti numerose strutture che la di-cono lunga sull’importanza strategica di questo porto. Prenotiamo una gita in barca che da Fazana ci porta all’ar-cipelago delle isole di Brioni, parco nazionale costituito da 14 isole di di-versa grandezza. Circumnavighiamo le isolette circostanti su di un’acqua cristallina con un piccolo taxiboat. Una guida improvvisata ci indica l’iso-

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la di Tito e ci dice che è ancora un presidio mili-tare, poi ripete la stessa cosa in inglese e tede-sco. Infine ci lasciano su di un piccolo isolotto, l’unico dove per poter mangiare e fare il bagno. Dopo una lunga giornata di mare decidiamo di andare a cenare a Rovigno, in un delizioso ristorante con tavoli sparsi tra le viuzze. Dopo aver mangiato piatti a base di tartufo, tipico del luogo, percorriamo il vicolo a gradini chiamato Grisia che risale la collina fino ad arrivare alla chiesa di Santa Eufemia che si affaccia sul mare da dove al tramonto si gode uno splendido pa-norama.Si riparte, direzione Fiume. Prima di arrivare ci consigliano di fare una piccola sosta ad Abba-zia, chiamata la “piccola Montecarlo”, una deli-ziosa città sulla costa nord orientale dell’Istria, famosa anche per il suo centro termale. Sog-giorniamo a Cavle a pochi chilometri da Fiume e nota per l’autodromo. Fiume è la terza città della Croazia in ordine di grandezza, nonché il princi-pale porto. Ci consigliano di andare a prendere l’aperitivo nel caffè Groff all’interno del Castello di Trsat raggiungibile percorrendo 561 gradini della scalinata di Peter Kruzic. Da qui si gode una splendida vista su Fiume, sul Quarnaro e sull’istria. Dopo una breve passeggiata lungo il

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Korzo, torniamo in hotel per riposarci, il giorno successivo ci aspetterà una dura giornata. Percorrendo con la no-stra moto le nuove e bellissime auto-strade croate, circondate da paesaggi mozzafiato, arriviamo nel parco nazio-nale dei Laghi di Plitvice, dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Questo posto quasi surreale è un sus-seguirsi di cascate, torrenti e laghi (un totale di 16), il tutto delimitato da pa-reti scoscese, da boschi di abeti e da prati. E’ possibile attraversare il lago principale con un traghetto elettrico, ma noi scegliamo di raggiungere l’al-tra sponda passando lungo il sentiero che costeggia il lago. Dopo una lun-ga passeggiata durata circa sei ore ci troviamo al punto di partenza dove ci aspetta una pausa mangereccia: sal-sicce, patatine fritte e birra! Ritornando sulla costa giungiamo a Zara che fino al 1919 fu la capitale della Dalmazia. Il centro storico è circondato da una cinta muraria di epoca veneziana, all’interno della quale si susseguono piazze e vie incorniciate da palazzi di varie epoche e stili e fanno bella mo-stra di sé le rovine di epoca romana. Dirigendoci verso il porto rimania-mo incantati dal suono che viene dal mare: è l’organo marino creato nel 2005 dall’architetto Nikola Basic, una struttura a gradoni sul mare. L’acqua del mare in continuo movimento pe-

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netra all’interno di tubi di varie dimen-sioni che a loro volta portano a cavi-tà di forme diverse e il suono viene convogliato verso l’esterno attraverso delle fenditure. Ne approfittiamo per distenderci al sole e riposarci, è mol-to suggestivo e rilassante. Alzando lo sguardo è possibile ammirare l’Isola di Pasman, separata da Zara solo da qualche chilometro di mare. Arriviamo finalmente a Sibenico, è ora di cena; una doccia veloce e subito alla ricerca di un ristorante. Attraversiamo slarghi e vie costellate di negozi, c’è tanta gente, in lontananza una musica co-glie la nostra attenzione, ci ritroviamo in una bellissima piazza su cui domina la cattedrale di Sveti Jakov, ballano il tango... l’atmosfera è magica. A po-chi metri il ristorante che ci sfamerà: “ i Pelegrini”. Si mangia a lume di

candela, con mare e cattedrale come sfondo, il cibo è ottimo!, consigliamo di provare le pappardelle con tartufo e prosciutto, speciali! La Serata è stata bellissima, decidiamo di rimanere due giorni. Sibenico dista solo pochi chi-lometri dal Parco nazionale di Krka; qui fiumi e cascate si rincorrono fino ad arrivare a Skradin un piccolo pae-se all’ingresso del parco. Qui é pos-sibile fare il bagno sotto le cascate, non ci facciamo sfuggire l’occasione: l’acqua è fredda, ma l’esperienza ne vale la pena. Ultimo giorno a Sibeni-co, finalmente una giornata di mare. Andiamo sulla spiaggia di Solaris, un complesso turistico dove convivono a stretto contatto camper tende ed al-berghi ed è possibile fare diversi sport acquatici; affittiamo un gommone per visitare alcune delle isole antistanti Si-

benico. Ci fermiamo sull’isola di San Nicola e poi una sosta con bagno in una delle calette dell’isola più grande, Zlarin. Trogir è l’ultima tappa prima del rientro in Italia, una piccola isola di passaggio tra la costa croata e l’isola di Čiovo. E’ stata dichiarata patrimo-nio dell’UNESCO nel 1997. Le sue vie sono lastricate in pietra e non è con-sentito l’accesso alle automobili per cui si può visitarla solo a piedi. L’in-fluenza veneziana è presente come in molte altre città croate, ma qui i locali ci fanno notare con orgoglio il portale della cattedrale di Sveti Lovro, opera di un maestro croato di indubbio ta-lento (Radovan 1240). Entrando nella cattedrale non si può non rimanere impressionati dalle raffinatissime de-corazioni che l’arricchiscono, inoltre è possibile salire sulla torre campa-

naria, dalla quale, una volta superati gli improbabili scalini, si gode di una vista stupenda. Il giorno della partenza è arri-vato, carichiamo la moto sul catamara-no della Snav e ci lasciamo alle spalle un viaggio stupendo che entrerà a pie-no titolo tra i nostri migliori ricordi.•

Ente Nazionale Croato per il Turismo Via dell’Oca 48, 00186 RomaTel: 06.32.11.03.96Fax: 06.32.11.14.62www.croazia.hr

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l Bosco é stato definito più volte “figlio del Po”, perché il fiume, con i suoi depositi, ha sottratto quest’area al mare a cominciare dall’anno Mille. Vi si giunge uscendo dal ca-

sello di Ferrara sud dell’autostrada Bo-Fe, prendendo poi la superstrada per Porto Garibaldi fino all’uscita di Migliarino e proseguendo per Codigoro. Qui la Ro-mea (SS. 309) incontra il ramo del Po di Goro, che segna in quella zona il confine fra Emilia e Veneto. Si incontra dapprima il centro abitato di Mesola e poco

più avanti, in direzione sud, superata l’Abbazia di Pomposa, svoltando a sinistra, ecco la grande diste-sa del Bosco. L’area del Boscone si presenta quale residuo della secolare tenuta di caccia estense costi-tuita in riserva naturale per ben 1058 ettari, percorribi-le, se pur non completamente, a piedi o in bicicletta. Grande é la suggestione delle luci e dei colori nelle prime ore del mattino e prima del tramonto, nel rigo-glio della vegetazione, nella curiosa conformazione di origine alluvionale delle dune e degli spazi fra di esse, in cui si formano ristagni d’acqua, che si combinano con l’intrecciarsi dei canali, evidente memoria di ocu-lati interventi dell’uomo, per irreggimentare le acque.

60 Un percorso nel Gran Bosco della Mesola

Testo di Luisa Chiumenti

Gran Bosco della Mesola

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Il grande Bosco si presenta come una macchia molto este-sa che, dalla sponda destra del Po di Goro, per circa 16 chilometri, si spinge a sud ovest fino al mare offrendosi ad un interesse naturalistico elevatissimo, trattandosi di un biotopo forestale unico per ampiezza e stato di naturalità lungo tutta la fascia costiera da Ravenna a Venezia. Supe-rato il cancello d’ingresso nel Boscone ci si immerge subito nella selva, percorrendo l’ampia pista che attraversa tutta l’area protetta da ovest ad est. Poco dopo si stacca a de-stra un’importante via forestale che attraversa tutta la parte meridionale del Gran Bosco il cui accesso é, in alcune par-ti, consentito solo in particolari festività (in genere 25 apri-le e primo maggio) e solo con l’accompagnamento delle

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Guardie Forestali. Continuando quindi sulla carrareccia che arriva alla recinzione che chiude da est il Gran Bosco, la si segue verso si-nistra con un bel percorso sulle mulattiere e sentieri che consentono di zigzagare in piena libertà fra i grandi esemplari di essenze arbo-ree e il distendersi di zone umide particolarmente interessanti. Uno degli ultimi e meglio conservati residui di “bosco di pianura”, il Gran Bosco della Mesola rappresenta in effetti l’esempio più cospicuo di “bosco termofilo planiziale litoraneo”, memoria delle antiche foreste che si trovavano un tempo lungo la costa adriatica.Cordoni di dune, ancora riconoscibili come deboli ondulazioni del terreno, creano differenti microambienti per le vegetazioni della Ri-serva, in cui protagonista assoluto é il leccio, un tipo di quercia ca-ratteristico della macchia mediterranea e poi il biancospino e il pru-no spinoso, la felce aquilina e palustre, il pungitopo e il ligustro. Per quanto riguarda la fauna, vi sopravvive una delle tre uniche specie di cervo autoctono che in Europa si possa definire geneticamente pura, quella del “cervo della Mesola”, unica in Italia e presente nel Bosco con circa sessanta capi. E non soltanto cervi, ma si posso-

62 Un percorso nel Gran Bosco della Mesola

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no incontrare daini, lepri e conigli selvatici, cinghiali, tassi e puzzole, che popolano il sottobosco, in cui, nelle giuste stagioni, si possono intravedere i migliori esemplari dei tan-ti funghi che spuntano qua e là. Fra gli uccelli che stanziano nel Bosco ecco i notturni barbagianni, ma anche i gufi e le civette, come pure i picchi, le poiane, le albanelle e i fagia-ni. Ed ecco, nel bacino dell’Elciola (6 ettari di acqua dolce), aironi e cavalieri d’Italia, garzette, nitticore, che “ci fanno sperare”, dicono le Guide appassionate, “che la Pianura Padana non sia destinata a diventare del tutto inospitale per gli stanziali e tappa vietata per i migratori”. E ancora, se un certo brivido può essere suscitato nel visitatore dalla presenza di qualche vipera, é curioso e affascinante os-servare il lento movimento delle belle, grandi testuggini. E’ da ricordare come il Boscone faccia parte di un grande progetto ideato dalla dinastia di Casa d’Este che, con il Castello delle Robinie (oggi sede museale), fatto costruire attorno al 1580 da Alfonso II per motivi strategici relativi al presidio delle vie d’accesso al ducato del mare, ha mirato a realizzare una grande riserva di caccia, che sarebbe rima-sta in possesso degli Este fino alla metà del ‘700, per poi giungere in un primo tempo allo Stato Pontificio e infine allo Stato Italiano (1954) che cominciò a tutelare l’intero com-plesso come Riserva Naturale Protetta. •

Per informazioni: tel. 0533 794028

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d accogliere il visitatore in quella parte della lagu-na veneta chiusa dietro il litorale nord potrebbe

essere quel tintinnare argentino di conchiglie, di quelle migliaia di gu-sci mossi dalla risacca delle spiagge che si affacciano sull’Adriatico, dove i primi giorni di autunno sono ancora privi di nebbie e pieni dei colori caldi della natura. E’ un invito a scoprire un mondo creato lanciando in mez-zo alle basse acque della laguna una manciata di sabbia, per decorarla con merletti di terre, lì dove le strade sembrano canali e i canali strade.Lasciate le spiagge del Cavallino, ormai svuotate dalla presenza estiva di un chiassoso turismo internazio-nale, possiamo iniziare a curiosare in questo entroterra dove sembra che il tempo sia scandito dalle maree e dal passeggiare elegante del Ca-valiere d’Italia, il vero padrone delle barene e delle valli da pesca. Dopo Cà di Valle, accanto all’interminabile

64 Magie autunnali nella Laguna Nord di Venezia - Un itinerario sconosciuto

Testo e foto di Giuseppe Garbarino

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via Fausta seguiamo l’istinto e voltiamo verso Cà Ballarin, qui seguiamo via dei Sette Casoni, una strada antica che sinuosamente costeggia i canali che si dirigono verso Tre-porti e Punta Sabbioni. In breve ci troviamo lungo il canale della Saccagnana dove lo sguardo si perde a cercare un punto di riferimento, ma sembra che il paesaggio sia do-minato solo da alte torri in cemento la cui funzione non ci è subito chiara. Sono strutture realizzate quando questa terra era teatro di guerra, la Grande Guerra del 1915–1918. Si tratta di torri telemetriche dalle quali venivano presi i riferi-menti per l’artiglieria che sparava contro l’esercito austria-co. Oltre il canale della Saccagnana ci sono nomi magici che raccontano di un mondo al limite della fantasia, un mondo scomparso, fatto di storia e di tramonti. Ammiana, Costanziaca, Sant’Ariano, Motta dei Cunigi, Olivaria, Ca-strasia; nomi che evocano tempi di ricchezza e prosperità per questa terra che vive sott’acqua, dove tutto è sparito, inghiottito dall’abbandono e dal tempo. A Punta dei Sab-bioni i grandi parcheggi per i turisti sono vuoti; i vaporetti per Venezia continuano il loro ritmato andirivieni per il Lido e Piazza San Marco. A poca distanza, seguendo le indica-zioni per Treporti incontriamo il Forte Vecchio, una grande struttura fortificata realizzata alla metà dell’Ottocento con il compito di difendere la bocca di Porto del Lido insieme al Forte di Sant’Erasmo. Circondato da fossati, costruito con mattoni rossi e l’immancabile pietra bianca d’Istria, oggi il Forte Vecchio vive un periodo di immobile e maestosa

decadenza in attesa di un qualche progetto di recupero. Qui abita, appartato in una baracca, Valentino, testimone di mille storie, anziano personaggio della laguna scomparsa, raccoglitore di oggetti portati dal mare, tirati su dal fango delle barene, il tutto accatastato in quella confusione dove ognuno è padrone del proprio destino. Ecco Treporti con la cinquecentesca chiesa della SS Trinità, i suoi due campa-nili a sfidare i venti invernali, piccole osterie curate e case dipinte con colori vivaci. Le indicazioni stradali segnalano per Lio Piccolo, ma prima raggiungiamo il molo della Rice-vitoria da dove partono i traghetti per Sant’Erasmo, Burano e Torcello. Da qui si vede chiaramente la linea verdeggiante dell’isola di Sant’Erasmo, una terra, un orto gigantesco che da sempre fornisce verdura e frutta alla Venezia del Carne-vale e delle crociere, alla città delle folle estive e delle follie nascoste, la Venezia dei veneziani, quando in novembre le calli sono vuote e silenziose e ci si sente stretti tra i fan-tasmi. Qui si coltivano le castraùre, il primo germoglio del carciofo violetto e le zizole o giuggiole. Famosa per i suoi carciofi, Sant’Erasmo è un mondo a parte; per visitarlo è consigliabile l’uso di una bicicletta e percorrere lentamen-te le sue stradine, magari fino all’attracco del Lazzaretto Nuovo e alla Torre di Massimiliano o Forte di Sant’Erasmo, oggi finalmente restaurato. Torniamo alla strada per Lio Piccolo. Improvvisamente sembra di entrare in un cortile privato, siamo a Prà di Saccagnana o Cà Zanella, con il palazzetto nobiliare di chiaro gusto veneto del XVI secolo,

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affiancato dalle strutture rurali decadenti. Un microcosmo: chiesa, casa, magazzini. Qui una certa generale trascura-tezza è sinonimo di genuinità. L’immancabile sedia davanti all’uscio di casa ci fa capire come le persone siano aperte e disponibili o forse fanno da padroni sulla strada di tutti. La strada continua con un percorso unico, dove la terra è stretta tra acqua e cielo, con una strada che sembra poco più di un sottile nastro per capelli steso ad asciugare in mezzo alle barene, quegli affioramenti di terre umide in mezzo alle acque ferme delle valli da pesca, quell’insieme indivisibile di un mondo diverso. Lontani, verso il tramonto, si notano i campanili di Torcello e di Burano, mentre alla

nostra destra le Prealpi venete, appena accennate, fanno da corona al campanile della Madonna della Neve di Lio Piccolo edificata nel 1791 e che per lunghi anni, prima di un oblio e decadenza, è stata dei padri armeni mechitaristi dell’isola di San Lazzaro. Il minuscolo abitato è testimone di un periodo di passata feconda prosperità, lo testimonia la chiesa e il palazzetto nobiliare della famiglia Boldù, che nel settecento fu proprietaria del luogo. Ma si è scoperto che l’origine di questo lembo di terra è di epoca tardo imperia-le, quando i nobili e ricchi romani si contendevano le terre migliori. Qui sono stati trovati i resti di due ville con i loro antichi mosaici, tutto nascosto dalle acque con mura peri-metrali che raggiungono i due metri di altezza, una nuova Pompei sconosciuta. Tra il XI e XIII secolo in questa locali-tà si trovava un monastero e due chiese oggi scomparse,

insieme alle abitazioni di ricchi commercianti. Dal 1300 al 1500 il luogo venne completamente abbandonato a causa delle cattive condizioni ambientali. La strada continua e lungo il nostro percorso siamo costantemente sorvegliati dai Cavalieri d’Italia e dalle Garzette, uccelli acquatici che qui vivono indisturbati. Cà Ballarin, tre case al limite del mondo, è la fine del percorso stradale, qui possiamo af-facciarci nella laguna delle città scomparse. Se guardiamo verso nord ovest possiamo chiudere gli occhi ed immagi-narci una città antica, della quale nulla rimane: Ammiana e oltre l’isola sommersa di Costanziaca. Oggi è possibile percorrere una strada sterrata, un argine, che indica l’anti-

co contorno dell’isola; qua e là emergono le motte, isolette che nascondono i resti di antichi edifici, chiese e palazzi di epoca romana, fattorie e ville dove si rifugiarono gli abitanti di Altino e Eraclea sotto la spinta delle invasioni barbariche. La motta di San Lorenzo di Ammiana è forse il luogo dove sono stati scoperti i più interessanti resti d’età imperiale. Queste nel X secolo erano le cosiddette isole torcellane e in esse si raggiunse il massimo splendore grazie al mercato internazionale degli schiavi, del legname e delle merci di lusso orientali, passaggio obbligato tra Oriente ed Occi-dente. Tutto il percorso ci permette di vivere momenti di grande solitudine, il silenzio è a volte profondo ed unico. Lo sguardo, soprattutto se camminiamo lungo gli argini di Sant’Erasmo o di Lio Piccolo, viene attratto da colorati frammenti di ceramica. Sono cocci di epoca medievale,

66 Magie autunnali nella Laguna Nord di Venezia - Un itinerario sconosciuto

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bizantina e medioevale, tracce di quella vitalità che faceva della Laguna Nord la terra di origine di Venezia, quando le chiese e i monasteri citati dai cronisti dell’epoca erano decine, gli abitanti ricchi e i commerci prosperosi. Lungo i canali navigabili passano rari motoscafi, la sera arriva presto e dopo aver velocemente visitato Meso-le per scoprire quello che forse era un mona-stero femminile del 1380, se ci attardiamo, nel cielo limpido iniziano ad accendersi le stelle e i colori del tramonto accendono la Venezia dei sogni, il tutto incorniciato dalle tracce lasciate dagli aerei.•

Regione VenetoAssessorato alle Politiche Agricole e al Tu-rismo:Palazzo Balbi - Dorsoduro 390130123 Veneziatel. 041 2792828 - fax 041 [email protected] Turismo: Palazzo SherimanCannaregio 168 - 30121 VeneziaTel. 041 2792651/3/4 - Fax 041 [email protected] - www.regione.veneto.it

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68 Montecatini Terme

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Del fascino del passato non si è perso nul-la. Basta avvicinarsi al cospetto delle ma-gnifiche Terme Tettuccio per capire che

tutto può ricominciare. Con la stessa eleganza di allora, quando i personaggi illustri della nobiltà

e dell’alta borghesia venivano qui, a “passare le acque”. Un trionfo del Liberty, l’edificio che nel 1916 fu ristrutturato dall’architetto fiorentino Ugo Giovannozzi, ornato da imponenti colonnati, tri-bune, esedre e un curatissimo parco.

Sull’onda dei fasti della Belle Epoque, Terme all’insegna della modernità

Testo di Maria Grazia Bucciantie foto dell’Archivio Terme di Montecatini Spa

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Al centro, un Kiosque à musique per la tradizionale orchestra ed una fonte artistica a forma di conchiglia in gra-nito sorretta da un gruppo bronzeo di figure marine. Un edificio, quello del Tettuccio, molto appetibile per mani-festazioni culturali di prestigio, possi-bili solo adesso dopo decenni in cui il “Tempio del Benessere” è stato pre-cluso ad ogni altra attività. Oggi il Tettuccio, ancora specializza-to nelle cure idroponiche, fa parte di un sistema di strutture sparse in tutta Montecatini, che fanno capo all’Ente

Terme, praticamente la più impor-tante risorsa cittadina che porta un guadagno indotto grazie al turismo cittadino legato alle cure. Gli altri sta-bilimenti sono l’Excelsior, moderno centro fitness che sfrutta le sorgen-ti termali con bagni ed impacchi di fango al servizio della bellezza, Leo-poldine, Tamerici, le Terme Redi con 2 nuovi reparti operativi, La Salute, e Torretta. Un percorso salutistico che sembrerebbe completo, con le molte sfaccettature dovute ai diversi tratta-menti ed ambientazioni. Ma non sarà

mai completo fino a che non sarà ultimata l’opera termale tanto attesa: la “Piscina di Fuksas” una struttura rotonda di 2500 mq, all’interno di un moderno centro benessere di 4800 mq, presso le settecentesche Terme Leopoldine. “Un’opera che cambierà notevolmente le possibilità ricettive di Montecatini” ha dichiarato Massi-mo Guidi, responsabile commerciale e marketing delle Terme. La piscina disegnata da Fuksas, sarà conclu-sa, così sembra, nella primavera del 2012. La piscina, dunque, insieme

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70 Montecatini Terme

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allo sviluppo del centro benessere delle Leopoldine, raf-forzeranno l’attività dello stabilimento Excelsior per quan-to riguarda il segmento estetica-benessere delle proprie-tà termali spostando il target del turismo di Montecatini anche sulla fascia dei giovani, fino a qualche decennio fa poco interessata al termalismo. In questa ottica di rinno-vamento e di estensione delle cure termali ad un princi-pio più generale di fitness, rientra il “Percorso Montecatini Benessere Bio Naturale”, un progetto che potrà costituire lo strumento per raggiungere un equilibrio psico-fisico praticando una serie di attività complementari tra loro: te-rapie con acque termali, trattamenti olistici e bio naturali, termalismo applicato all’estetica, educazione alimentare e attività fisica. Lo ha messo a punto la dott.ssa Barbara

Simonetti, dell’Accademia Olistica Dolce Armonia quale prima ed unica esperienza in Italia. Associando la terapia termale classica ai trattamenti olistici e bio naturali, come massaggi, impacchi di fanghi, trattamenti estetici, ginna-stica e corretta alimentazione, biologica e salutare, sia to-scana che macrobiotica, vegetariana e ayurvedica, se ne ottimizza l’effetto riuscendo a rigenerarsi nel corpo e nello spirito. Montecatini, dunque, è al centro di grandi rinno-vamenti ed iniziative che puntano a comporre un’offerta turistica globale in grado di ospitare un turismo sempre più qualificato, che comprenda anche quello dei giovani. “Gli investimenti che stiamo sottoscrivendo sono possibili anche grazie al sostegno della Regione e del Comune” sostiene Massimo Porciani, direttore del Convention Bu-reau “Non dimentichiamo che, oltre al termalismo, Mon-tecatini ha una buona tradizione congressuale, dei suoi 14.000 posti letto, circa 6000 sono dislocati in strutture alberghiere dotate di sale per congressi”.

MONTECATINI: ACQUA, MUSICA E LIBERTYSicuramente la più classica ed elegante “ville d’eau”, Montecatini è il simbolo di un’epoca raffinata, quella fin-de-siècle, che ha lasciato intatto il fascino tutto liberty, ti-pico di molte città termali. Liberty, nel costume del primo Novecento, significò infatti lusso, mondanità, raffinatezza, templi sontuosi come le terme Tettuccio e Tamerici di Montecatini da decorare con l’eclettica fantasia dello stile Floreale o dell’ Art Nouveau, come fece in modo sublime Galileo Chini. Al Tettuccio, con le rotonde a colonnati, i cortili e i festoni scolpiti nel travertino, che ricordano il San Pietro del Bernini, e nelle altre tre celebri fonti, Tamerici, Torretta e Regina si beve acqua con la stessa base salina, cloruro-solfato-sodico-alcalina ma in concentrazione va-riante che esplica le diverse azioni benefiche sul fegato, sull’apparato digerente e sul metabolismo. Oltre alle cure idropiniche (per via orale), l’acqua di Montecatini si utilizza anche per la balneoterapia efficace nelle malattie dell’ap-parato locomotore e nelle forme reumatiche, spesso in associazione con la fisiochinesiterapia in piscina termale o con la fangoterapia. Gli attestati di queste virtù, già co-nosciute dagli antichi romani, ebbero una profonda eco nei secoli scorsi. Il Redi, medico poeta, definiva quella di Montecatini: “acqua gentilmente salata, ella è il solo cer-tissimo rimedio contro tutte le dissenterie”. E Trilussa, con la sua astuta ironia: “Se ciai avuto ‘na passione, - se ciai er sangue invelenito, - va ar Tettuccio e sei guarito, - bevi l’acqua e stai benone”. Senza contare il duca Vincenzo I di Gonzaga che, pur senza mettere piede a Montecatini, si faceva prescrivere l’acqua Tettuccio dal suo consulen-te medico, e nomi illustri che Montecatini accoglieva nel trionfo della Belle Epoque e del termalismo mondano: Ver-di, Puccini, Toscanini, Mascagni, Giacosa e Leoncavallo, ma anche Pirandello e Trilussa. Più tardi Chistian Dior, lo scià di Persia, Gary Cooper e poi ancora l’ex presidente Leone e Andreotti, che qui è sempre stato di casa. Grazie a certe frequentazioni famosi Montecatini diventò fin dall’i-nizio un vero e proprio punto d’incontro di fama interna-zionale: vi si discuteva di politica, si concludevano affari. La sua fama crebbe al punto che, nel 1926 registrò ben 75.000 presenze di non residenti, una cifra ragguardevole

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72 Montecatini Terme

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per quell’epoca. Al Tettuccio, mentre l’orche-stra intona pezzi d’epoca e melodie ungheresi, si assiste al rito della “bevuta” da parte di pic-cole folle d’ogni età che attingono alle fonti con in mano il bicchiere regolamentare e il foglietto delle prescrizioni mediche che a volte preve-dono dosi successive di acque diverse. Ecco allora che i curandi si aggirano tra i parchi, di passaggio tra una fonte e l’altra. Del resto l’iti-nerario da percorrere fa parte della cura che, come sappiamo, alle terme è intesa in senso complessivo. La natura in questo grande gioco della salute ha mosso bene le sue carte qui a Montecatini. Cinquecentomila metri quadrati di lussureggiante vegetazione che vanta 1800 lecci, 600 pini, 600 cipressi, 300 palme di varie specie.

www.montecatini.it

per quell’epoca. Al Tettuccio, mentre l’orche-stra intona pezzi d’epoca e melodie ungheresi, si assiste al rito della “bevuta” da parte di pic-cole folle d’ogni età che attingono alle fonti con in mano il bicchiere regolamentare e il foglietto delle prescrizioni mediche che a volte preve-dono dosi successive di acque diverse. Ecco allora che i curandi si aggirano tra i parchi, di passaggio tra una fonte e l’altra. Del resto l’iti-nerario da percorrere fa parte della cura che, come sappiamo, alle terme è intesa in senso complessivo. La natura in questo grande gioco della salute ha mosso bene le sue carte qui a Montecatini. Cinquecentomila metri quadrati di lussureggiante vegetazione che vanta 1800 lecci, 600 pini, 600 cipressi, 300 palme di varie specie.•

www.montecatini.it

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74 Spa Village Resort Tembok Bali

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’isola Indonesiana è da sempre meta del lusso assoluto e il Resort Tembok ha un traguardo ambizioso: superare gli altri. La ricercatezza della Spa, dei ristoranti, di ca-mere e ville, del servizio ineccepibile e dei colori, lo rende meno lontano da raggiun-gere di quanto sembri. L’esperienza della Spa Villa Resort Tembok Bali inizia appena usciti dall’aeroporto di Denpensar a Bali, dopo 3 ore di volo con la Malaysia Airlines da Kuala Lumpur. Si è subito accolti dal rappresentante del Resort che si occupa del bagaglio e vi accompagna all’auto

che vi condurrà nel massimo comfort del-la Spa Village Tembok Bali. Lungo il tragit-to si attraversano piccoli villaggi, con i loro templi e mercatini, in un paesaggio dove si alternano risaie ed una vegetazione lussureggiante. Dopo due ore e mezza si arriva alla destinazione lungo uno stretto viale, il Bamboo Avenue. Il primo impatto è già un’anticipazione di quello che vi at-tenderà nella Spa village di Tembok Bali.

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Testo di Josée Gontier

Spa Vi l lage Resor t Tembok Bal i

L

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Dopo il welcome drink vi verrà chiesto di accomodarvi in una comoda poltrona e di togliervi le scarpe; quindi i vostri piedi verranno immersi in una bacinella di acqua tiepida e profumata con petali di frangipane per un primo sollievo alla stanchezza del viaggio. Un esperto terapista inizierà a mas-saggiarvi i piedi, il collo, le spalle e la schiena per terminare questo delicato massaggio di benvenuto nuovamente con

i piedi, procurando un senso di ringiovanimento e di be-nessere. Con il jet lag capita di alzarsi presto, anche prima dell’alba, e di assistere allo spettacolo del cielo trapunto di stelle che poco a poco si trasforma in un paesaggio dram-matico con cime slanciate che scivolano giù lungo verdi pianure sino alla sabbia nera vulcanica che si congiunge con il blu del mare di Bali. Il Resort dispone di ventisette Ka-

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76 Spa Village Resort Tembok Bali

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mar Rooms, due executive suites e due strepitose ville con piscina privata. Le camere, così come le ville, sono arredate con materiali naturali ed elementi tipici Balinesi. Lusso, pace e comfort sono all’ordine del giorno. L’eleganza sobria del Resort riesce a farti estraniare dal mondo caotico per inizia-re una vacanza di pace, di ringiovanimento e di bellezza a Tembok Bali. Il soggiorno si costruisce attorno ad un per-corso di “sentieri di terapie”. Potrete scegliere fra il –Vigore-, per migliorare la salute e per la perdita di peso, l’-Equilibrio-, per ridurre lo stress attraverso tecniche di meditazione e di-sintossicazione, la –Creatività-, per scoprire i propri talenti nascosti. Ci sono sette stanze per le terapie nel Resort ed ognuna di loro riflette uno stile di arredamento proprio di una regione specifica di questo meraviglioso Paese. Fra i vari massaggi, singolare il Signature massage, ovvero il Pe-ganten Melika, che consiste in un rituale per la preparazione degli sposi prima del matrimonio. Il trattamento ideato per la purificazione e il lavaggio del corpo, della mente e dello spirito, consiste nel massaggio tradizionale Balinese (Me-vangsul) seguito da uno “scrub” (Meodak) e infine del latte fresco (Empehan) viene applicato su tutto il corpo, lascian-dolo soffice e idratato. I colori, qui, sono un fattore fonda-mentale. Il giardino è dotato di alberi di frangipane con fiori bianchi che permeano l’atmosfera con i loro profumi, i petali formano un tappeto bianco per terra, le orchidee di diversi colori brillanti sono sparse dappertutto, il blu del mare con il contrasto della sabbia nera è uno spettacolo unico e poi il tramonto rosso che rimane scolpito nella memoria. La cuci-na è un punto di forza del Resort; la freschezza assoluta del-la materia prima ormai è il suo motto. Potrete gustare sia la

cucina europea che quella asiatica oppure la più appetitosa “Fusion Cuisine” nel ristorante Wantilan; ma prima e dopo cena c’è il “chill out” dove sorseggiare l’aperitivo al tramonto o il digestivo sotto la luna piena nel Gazebo Taman Gili. Un soggiorno a Tembok Bali Resort può essere arricchito dalle diverse attività previste oppure fatto di giornate a “far niente” sulla spiaggia, o a bordo della “infinity pool” o in relax totale nel vostro gazebo intorno la piscina. Se volete essere meno sedentari avete a disposizione la sala gym aperta 24 ore, lo sport tradizionale e, perché no?, imparare l’arte dell’auten-tico massaggio della Spa Academy dal guaritore di 75 anni che arriva dal villaggio vicino per insegnare le sue destrez-ze. Se vorrete invece avventurarvi fuori dal Resort, ci sono delle escursioni nei villaggi vicini con diversi templi lungo la strada, la foresta delle scimmie e i villaggi Tegalalang e Ubuh, famosi per l’artigianato, mobili, quadri, oggetti, vero paradiso per lo shopping. A Ubuh non potete perdere l’oc-casione di andare a Bebek Bedigil, ristorante con sullo sfon-do una grande risaia, dotato di diversi gazebi arredati con tavoli e cuscini per terra, dove viene servito il piatto tipico del posto, da cui prende il nome il locale (Anatra nutrita nella risaia). Qualunque sentiero imboccherete durante il vostro soggiorno qui, la Spa Village Tembok Bali vi soddisferà pro-fondamente sia fisicamente che spiritualmente. Un rifugio nascosto ricco di antiche tradizioni Balinesi per il benessere, fatto su misura per voi al fine di guarirvi e ringiovanirvi.

Info: Josée GontierGOMAN – tel. 06 68 72 [email protected] - www.ytlhotels.com

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n° 3 - ottobre 2011

Interview to Eng Hussein Massoud, EGYPTAIR HOLDING CHAI-

RMAN & CEO

Egypt has recovered from the recent political unrest and is

now purchasing new-generation plans to add to its fleet of 65.

What other innovations are in the pipeline?

Regarding the fleet modernization, EGYPTAIR operates Boeing

777-300ER and Airbus 330-300. These new aircrafts will allow the

customers to benefit from new innovative services, as the first class

customers will be able to find laptop power outlets to recharge their

lap tops while resting on their magnificent seats, as well, they will

be able to use the SMS service, till they feel asleep and they will

find their seats turning into full flat beds to enjoy deep sleeping,

or they can enjoy the personal entertainment system which is di-

splayed on the 15” screen with hundreds of entertainment options.

Moreover, the Business class customers can enjoy any of the 49

Business class seats provided in this aircraft. In the next phase, the

customers will be able to use the internet service and their mobile

phones on board.

The Economy Class on this type accommodates wider and more

relaxing seats, and each seat is provided by Personal Entertainment

System with screens in each seat’s back to enable the customers

and their families of selecting the best from the hundreds of audio

visual entertainment programs. Further, economy class customers

will enjoy using two power outlets in their seats to recharge their

personal electronic devices.

Despite the recent difficulties the Egyptian flag-carrier has ad-

ded new flights and destinations. What are they?

EgyptAir restored the previous rates of operation, the company plan-

ned to operate 511 weekly flights during the 2011/2012 winter se-

Intervista all’ing. Hussein Massoud, Presidente e CEO di EGYPTAIR

HOLDING

L’Egitto è in pieno rilancio dopo le vicende politiche di inizio anno

e la compagnia di bandiera, Egyptair esprime questo intento con

l’acquisizione di nuovi velivoli di ultima generazione contando

ormai 76 aeromobili. Quali traguardi a breve termine in questo

senso?

Per quanto riguarda la modernizzazione della flotta, EGYPTAIR opera

con Boeing 777-300ER e Airbus 330-300. Questi nuovi aeromobili

permettono ai viaggiatori di beneficiare di servizi innovativi: i clienti di

prima classe potranno trovare le prese di alimentazione per ricaricare

i loro computer portatili mentre si rilassano nelle poltrone spaziose e

comode, potranno anche utilizzare i servizi SMS, o in alternativa go-

dere del sistema personale di intrattenimento, che viene visualizzato

su uno schermo da 15” con centinaia di opzioni, fino al momento di

dormire. A quel punto sperimenteranno che il loro sedile diventa un

letto a tutti gli effetti, invitante e rilassante, per godere di un sonno

profondo. I clienti della business class possono viaggiare comodi

in uno dei 49 posti a loro dedicati. Nella fase successiva al decollo i

passeggeri potranno utilizzare il servizio internet e il loro cellulare a

bordo. L’Economy Class su questo tipo di aeromobile ha dei sedili

più ampi e distanziati e ogni posto è fornito del sistema personale di

intrattenimento con schermi sul retro di ogni sedile per permettere ai

clienti e alle loro famiglie di scegliere il meglio tra le centinaia di pro-

grammi di intrattenimento audiovisivi. Inoltre, i clienti dell’economy

class avranno a disposizione due prese di corrente nelle loro sedi per

ricaricare i propri dispositivi elettronici personali.

Nonostante il periodo difficile la compagnia di bandiera egiziana

non ha fermato, anzi ha intensificato i voli e i collegamenti. Quali?

EGYPTAIR ha riorganizzato i precedenti operativi. Il nuovo program-

ma è di operare 511 voli settimanali durante la stagione invernale

2011/2012 rispetto ai 493 voli nella stagione invernale 2010/2011. Ri-

a cura di Teresa Carrubba

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EGYPTAIRUn mondo in evoluzione

EGYPTAIRAn evolving world

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80 EGYPTAIR un mondo in evoluzione

guardo ai voli per il Medio Oriente si prevede un aumento del 14%

rispetto allo scorso anno, mentre i voli dal Cairo per i diversi aeroporti

nazionali saranno incrementati del 48%. Inoltre, EGYPTAIR aumen-

terà gli operativi per un certo numero di destinazioni europee; per

esempio Roma e Milano avranno 11 voli settimanali ognuno.

Priorità di Egyptair sono l’eccellenza operativa e la sicurezza che

rientra tra gli standard più elevati a livello internazionale. Quali

strategie per mantenere o addirittura migliorare questi livelli?

EGYPTAIR è la compagnia di bandiera dell’Egitto di fama mondiale,

con sede nella città cosmopolita del Cairo. EGYPTAIR ha iniziato la

sua attività il 7 maggio 1932 come la prima compagnia aerea del

Medio Oriente e Africa e la settima nel mondo ad unirsi alla IATA,

diventando un marchio prestigioso. Nel corso dei suoi 79 anni di ser-

vizio, EGYPTAIR ha conosciuto una crescita significativa. EGYPTAIR

dimostra il suo impegno per la sicurezza, nel 2004 è diventato il pri-

mo operatore IOSA in Medio Oriente e Africa.

Egyptair, per le sue caratteristiche, ha ricevuto negli anni presti-

giosi riconoscimenti internazionali. A cosa ambisce per il futuro?

EGYPTAIR è riconosciuta come la più grande compagnia aerea in

Africa e a metà settembre, a conferma del suo rango internazionale

tra le altre compagnie aeree a livello mondiale, EGYPTAIR è stata

selezionata come il miglior vettore africano per la Business Class per

il 2011 dal World Travel Awards. Il Capitano Ayman Nasr, Presidente

e CEO di EGYPTAIR AIRLINES ha ricevuto il premio durante la ceri-

monia tenutasi il 16 settembre 2011 a Sharm El-Sheikh. Nasr dopo

aver ricevuto il premio, ha dichiarato “Questo premio prestigioso è

un riconoscimento per gli sforzi fatti da tutti i dipendenti EGYPTAIR.

E’ anche un’assicurazione del rango dell’EGYPTAIR, una linea aerea

mondiale competitiva e partner di Star Alliance”. Il piano di ammo-

dernamento della flotta dell’EGYPTAIR, che fornisce ai nostri clienti di

tutto il mondo il massimo nel comfort e nell’intrattenimento, dà una

grandissima soddisfazione ai suoi passeggeri e di conseguenza è

stato possibile ottenere questo premio e riconoscimento. Questo

premio ha un’elevata credibilità in quanto dipende dal voto diretto di

clienti in tutto il mondo secondo le loro esperienze personali durante

il volo con le diverse compagnie aeree”. Naturalmente ci sono altri

obiettivi nel nostro target che saranno annunciati nel prossimo futuro

a tempo debito.

Quali gli accordi con i tour operator e quali i vantaggi sui flussi

turistici?

Lavoriamo a stretto contatto con il Ministero del Turismo per spingere

il flusso turistico a tornare al suo livello normale. Moltissimi viaggi

‘educational’ sono stati organizzati per il Cairo e per altre località

dell’Egitto dai tour operators di tutto il mondo per testimoniare la

stabilità del Paese, per trasmettere l’immagine reale dell’Egitto. Il pri-

mo viaggio è stato organizzato da tour operators italiani che hanno

visitato il Cairo e dopo un breve periodo il Governo italiano ha tolto il

divieto di viaggio in Egitto.

Qual è il beneficio per Egyptair come partner di Star Alliance e

quali sono i vantaggi per i vostri passeggeri?

Innanzitutto i benefici più importanti derivano dal fatto che i nostri

passeggeri godono della grande rete di Alleanza e del riconoscimen-

to a livello mondiale delle carte fedeltà che permettono lo scambio di

acquisizione su tutti i vettori membri, l’uso delle sale d’aspetto Star

Alliance in tutto il mondo e, soprattutto, connessioni ininterrotte in

tutto il mondo. EGYPTAIR beneficia del coordinamento del network,

con l’Alleanza i nostri clienti hanno accesso a più 1.182 aeroporti in

181 Paesi. Le enormi possibilità di code-sharing abbasserà il costo

per le compagnie aeree con l’acquisto congiunto di materiali e ser-

vizi.•

ason compared to 493 flights in the winter season of 2010/2011. It

is planned to increase Middle East operation by 14% compared

to running last year, while we will increase in flights from domestic

airports other than the Cairo airport to 48%” . On the other hand, the

EGYPTAIR will increase the operation of a number of points the Eu-

ropean, such as Rome and Milan, which will occupy each of them

11 flights weekly

Egyptair prioritizes operative excellence and safety, and they

are among the highest levels globally. What strategies could

be adopted to maintain or even improve these levels?

EGYPTAIR is the world-renowned national airline of Egypt, based in

the cosmopolitan city of Cairo. EGYPTAIR started operation on the

7th of May 1932 as the first airline in the Middle East and Africa and

the seventh in the world to join IATA and become a treasured brand.

Throughout its 79 years of service, EGYPTAIR has experienced a

significant growth. EGYPTAIR exhibits its commitment of safety by

being the first IOSA operator in the Middle East and Africa in 2004.

Egyptair has received many prestigious awards. Are here any

others you are aiming for in particular?

Yes, we are listed as the biggest airline in Africa and on the middle

of September, as a confirmation of its international rank among

other world-class airlines, EGYPTAIR was selected as the best Afri-

can business class carrier for 2011 by the World Travel Awards.

Captain Ayman Nasr, EGYPTAIR AIRLINES Chairman & CEO recei-

ved the award during the ceremony held in 16th September 2011

in Sharm El- Sheikh. Nasr declared after receiving the award, “This

prestigious award is an enthronement to the efforts exerted by all

EGYPTAIR employees. It also comes as an assurance on the com-

pany’s rank as a competitive world airline and members of Star Al-

liance.”

EGYPTAIR fleet modernization plan, which provides our customers

around the globe with optimum comfort and entertainment, has

great effect on customer satisfaction and consequently obtaining

this award. This award has high credibility as it depends on the

direct voting of customers around the globe according to their per-

sonal experiences while flying with the different airlines.”

Of course there will be others which we are targeting in the near

future and will announce this in due time.

What agreements do you have with tour operators and what

are the advantages for tourism?

We work closely with the Ministry of Tourism to push the leisure traf-

fic back to its normal levels. Lots of fam trips has been received

in Cairo and elsewhere from tour operators all over the world to

witness the stability in the country and to convey the real picture of

Egypt. The first trip was from the Italian tour operators who visited

Cairo and after a short while the Italian government lifted the ban on

the travel to Egypt.

What is the benefit for egyptair by joining star alliance and also

what your costumer will benefit from using Egyptair a star al-

liance member?

First of all the most important benefits are for our customers, they

enjoy the huge network of the Alliance and the worldwide recogni-

tion with their loyalty program cards, exchange of acquiring and

redeeming mules across all member carriers, usage of Star Alliance

lounges worldwide and above all seamless connections around the

globe. EGYPTAIR is benefiting from the coordinated network, with

the Alliance our customers have access to more 1182 airports in

181 countries. The huge codesharing possibilities which will lower

the cost on the airlines and the joint purchasing of materials and

services.•

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Sport e Avventura

La vita non è vivere, ma vivere in buo-na salute” sentenziava il saggio Mar-ziale. E la salute del corpo, così come quella della mente, comincia dal mo-vimento. Ne sono convinti ortopedici e psicologi, dietologi e -operatori della bellezza-. Automobili, ascensori e per-sino i tapis-roulants delle metropolita-ne, lusinghe accattivanti per la nostra pigrizia, sedimentano ruggine nelle articolazioni e inflaccidiscono muscoli e cervello. L’allarme vero viene dalle statistische: in Italia il 14% degli ado-lescenti è sovrappeso e più del 50% non pratica attività sportiva. Altrettan-to sconfortante è la realtà opposta, di chi cioè, ammaliato dalla longilinea figura di una top-model che ammicca dalla copertina di una rivista, comin-cia a seguire un mito, concentrando tutti gli sforzi risparmiati fino ad allora, sorretto da illusorie aspettative mira-colistiche. Tentativo inutile quanto pe-ricoloso se solo si considera che alla fine di uno sforzo prolungato, come possono esserlo una corsa nel parco o un’estenuante seduta in palestra,

non sempre si riesce a tirare un sospi-ro soddisfatto. Anzi, è più facile avere un respiro affannoso o un inizio di crisi asmatica. Ginnastica sì, dunque, ma cum grano salis. Dosata, equilibrata, adeguata alle esigenze e alle energie di ognuno. Magari nella protezione di una palestra attrezzata. Condannata la possibilità da parte di casalinghe irrequiete di trovare nella palestra un riempitivo per i numerosi coni d’om-bra, o di ghiottoni impenitenti di vede-re nei pesanti manubri l’espiazione di irrinunciabili peccati di gola (un’ora di ginnastica per neutralizzare un piatto di spaghetti e 35 minuti di cyclette per un gelato), o di amanti della bella vita che fanno dell’estate un momento di tutto riposo e di grandi scorpacciate, sicuri della complicità riparatrice di un corso di ginnastica ai primi d’autunno, una sana igiene mentale suggerisce l’approccio razionale e costante con l’attività fisica guidata da istruttori e assistenti qualificati. Al rientro in città dopo il periodo estivo, l’impatto con la caotica vita routinaria fatta di traf-

fico, di rumori, di lavoro stressante o, al contrario, con la sedentarietà, vie-ne spesso mitigato da appuntamenti liberatori in palestra. La corsa autun-nale alla piscina coperta, al body-bu-ilding, allo yoga o all’aerobica non è infatti determinata solo dalla linea per-duta ma anche dal desiderio di affran-care il proprio corpo dalla schiavitù di una società dell’efficienza produttiva. I più informati però sanno che esiste soprattutto una motivazione legata al benessere fisico. Una ginnastica ben fatta non solo modella e rassoda il corpo, ma aumenta l’elasticità dei polmoni favorendo una migliore respi-razione, facilita la mobilità delle artico-lazioni e mantiene un giusto tono mu-scolare. Senza contare che spesso le persone che prendono la ginnastica come una cosa seria, e non come un trastullo per snob sfaccendati, libera-mente scelgono di smettere di fumare o migliorano senza sforzi la loro ali-mentazione. Sale e salette tappezzate

Testo di Marina Arditi

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di specchi, dapprima crudeli e poi via via più incoraggianti, e zeppe di macchinari strani, solo apparentemente simili a strumenti di tortura ma in realtà fonte di una perfetta for-ma fisica. Dalla semplice e familiare spalliera ai numerosi robot fatti di tubolari metallici e cinghie di cuoio che avvol-gono, vibrano, sollevano e massaggiano. Per ogni parte del corpo che crei un complesso c’è la macchina adatta che si chiama sedia romana, multipower, lat-machine, pan-ca curva, butterfly vt o semplicemente bilanciere. Molti gli attrezzi per il body-building, sempre più apprezzato anche dalle donne, che, eliminato il pregiudizio degli indesiderati muscoli nerboruti, sanno di poter ottenere una vera e pro-pria scultura del corpo. Questo tipo di ginnastica va però considerato integrativo di altre forme sportive e quindi pra-ticato con moderazione per evitare che i muscoli, rassodati con esercizio eccessivo, si affloscino quando si smette. Gli esperti infatti consigliano corsi al massimo di quattro mesi per non più di tre giorni la settimana. In sale sgombre da macchinari di sorta si svolgono lezioni di ginnastiche cosiddette “a corpo libero”. La fantasmagorica aerobica, grata all’affascinante Jane Fonda per averla lanciata in tut-to il mondo, è in realtà la più pesante e faticosa perché viene eseguita senza interruzione a ritmo di musica. Ha lo scopo di portare i ritmi cardiaci ad un certo limite oltre il quale l’organismo brucia soltanto zuccheri. Entro quel li-mite, invece, vengono aggrediti i tanto detestati grassi. Meno popolare ma molto prezioso per la prevenzione di piccoli infortuni è lo stretching, o ginnastica leggera, che si basa su un principio fondamentale: ogni movimento che si compie è potenzialmente pericoloso se il fisico non è preparato ad esso. Persino gli sports più impegnativi ri-chiedono spesso solo un ristretto numero di movimenti. Lo stretching, “stirando” delicatamente il tessuto connettivo che avvolge muscoli e articolazioni, rende il corpo elastico in ogni sua parte tanto da garantire ogni movimento senza

sforzi o danni. A metà tra il fisico e il meditativo, frutto delle sagge filosofie orientali, lo yoga, che, attraverso lentissimi movimenti e contrazioni prolungate, risveglia e accumula l’energia vitale del corpo in funzione dello sviluppo interio-re. Dal “fior di loto” alla “locusta” le 64 (o 84, secondo le scuole) posizioni principali dell’Hatha Yoga (o yoga fisico, il tipo più diffuso in Occidente) ricompongono l’equilibrio psi-cofisico attraverso la concentrazione e il controllo del-la respirazione. I seguaci dello yoga, che in genere armo-nizzano la loro vita a quella filosofia seguendo anche un regime alimentare vegetariano, seguono corsi di impegno crescente, guidati di solito da maestri indiani. Sempre più diffuso nelle palestre italiane lo squash. Una sorta di tennis, altamente competitivo, in cui uno dei due conten-denti con una racchetta speciale lancia la palla contro il muro con velocità e violenza tali da rendere difficile il rinvio dell’avversario. Per parteciparvi sono richieste una perfetta efficienza fisica e una prova da sforzo valutata dal medico della palestra. L’assistenza medica nell’attività ginnica è imprescindibile: a partire dalla visita preliminare al momen-to dell’iscrizione, all’indicazione degli esercizi permessi o vietati, alla progressione dell’entità dello sforzo. Chi se lo può permettere trascorre molte ore in queste “oasi della salute”, veri e propri centri attrezzatissimi, passando dal-la ginnastica per scaldare i muscoli ai pesi, dalla sauna all’idromassaggio. E all’ora del pranzo? Nessun problema. Quasi tutte le mega-palestre moderne hanno un ristorante (o un bar fornitissimo) dove poter consumare un pasto ipo-calorico programmato dal dietologo del centro. Dopo, un breve relax su apposite sdraio, magari lungo il bordo del-la piscina, e infine l’abbronzatura per prolungare il “tono” dell’estate e per mantenere un sano e lucido aspetto da vita all’aperto. Niente paura: oggigiorno le radiazioni sono sotto controllo con apparecchiature a lampade filtrate e let-tini completamente schermati.•

84 In palestra l’equilibrio del dopo-estate

Sport e Avventura

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scienziato intendeva riferirsi a una die-ta vegetariana ben condotta ed equi-librata, accompagnata da abitudini di vita igieniche, sia fisiche che mentali. Al di là delle argomentazioni, cambia anche il modo di condurre la dieta vegetariana. Accanto ai vegetariani più moderati, che si limitano a rifiutare la carne e il pesce, convivono gli inte-gralisti, cioè i “vegetaliani” o “vegan”, i quali aborriscono non solo carne e pesce, ma anche i prodotti degli animali come latte, uova e persino il miele. Si va anche oltre. Il fanatico del “verde” può addirittura farsi “fruttaria-no” o “crudista”. Cioè mangiatore di sola frutta (spesso con esclusione dei semi per non nuocere al ciclo vitale

della pianta), o di soli cibi crudi, il che elimina dal menu anche molti legumi e cereali che necessitano per forza di cottura. Ma, lasciando le soluzioni estreme a chi vede nel vegetarianismo una sorta di espiazione, c’è da sfatare un luogo comune: la cucina vegeta-riana non è affatto una breve lista di squallide zuppe insapori o di verduri-ne bollite. Al contrario, può essere un trionfo di fantasie e sapori. Gustosi piatti presi in prestito alla cucina mediterranea, come la pasta con ragù di verdure, ortaggi ripieni e gratinati, strudel, sformati e soufflé vegetali, vellutate di legumi, torte di cereali. Vitamine e fibre sembrano assicurate, e anche le proteine, specie se con-

sideriamo i legumi e un ingrediente molto consumato dai vegetariani: la soia, sorta di legume-trasformista che, pur di somigliare all’“illecita” carne, si fa bistecca, spezzatino e persino wur-stel. Il tutto, vegan permettendo, viene “legato” con latte, (formaggi e uova, che, oltre a consentire la preparazione di piatti sufficientemente elaborati, completano l’apporto nutrizionale del-la pietanza. Visto l’interesse crescente per la cucina verde, vuoi per la spinta della moderna educazione alimentare, vuoi per una convinzione filosofica, le associazioni dei ristoranti stanno vagliando la proposta di introdurre di routine un menu vegetariano alterna-tivo.•

Il primo a sostenere che mangiar verde è bene sembra essere stato addirittura Pitagora, matematico e

filosofo greco del VI secolo a.C. Da allora, tutta una genìa di pensatori, artisti e personaggi storici (Platone e Tiziano, Voltaire e G. B. Shaw, Leonardo da Vinci e Tolstoj) hanno sostenuto in modi e termini diversi la causa vegetariana. Eppure ancora oggi intorno a tale pratica alimentare è sospeso un alone di mistero e di diffidenza. C’è chi considera i vegetariani degli asceti i quali “spilluzzicano” insipide verdure, anziché godere delle numerose gioie della tavola. La realtà è che il vegetarianismo è un mondo complesso in cui convivono atteggiamenti diversi, spesso frutto di profonde meditazioni. Una scelta un po’ igienica, un po’ morale, un po’ filosofica, ma non necessariamente spartana, il vegetarianismo può nascere infatti da diverse visioni della vita. Da un punto di vista strettamente salutistico, i vegetariani sostengono non solo che l’organismo umano è più affine a un erbivoro che a un carnivoro(a partire dalla dentatura), ma soprattutto che il nutrirsi di verdure previene le cosiddette malattie del progresso. Sembra infatti che indagini effettuate su gruppi vegetariani, come i monaci buddisti, abbiano rilevato un bassissimo livello di colesterolo, causa prima di arteriosclerosi e infarto. I motivi morali e religiosi, che spesso si identificano con quelli ecologici, nascono invece dal rifiuto di uccidere esseri viventi. C’è anche chi si spinge più in là, attribuendo al vegetarianismo il potere di influire sul carattere dell’uomo. Lo stesso Einstein sostiene: “Un sistema di vita vegetariana, con i suoi benefici effetti sull’uomo, potrebbe migliorare la sorte dell’umanità”. Certamente, l’illustre

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Gusto

Testo di Renato Alessio

Vegetarianismo, una filosofia di vita

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Agriturismo bio

n tempo residenza nobilia-re, oggi il Griffins’ Resort è un perfetto e sapiente connubio fra gli standard

artistici della tradizione del luogo e soluzioni moderne. Immerso in 86 et-tari, il Resort, in località San Faustino, dista appena 15 chilometri da Orvieto (Tr) e poco più da località quali Assi-si, Cascia, Foligno, Gubbio, Norcia, Perugia, Spello, Todi. Gli ospiti, se lo desiderano, potranno effettuare escursioni giornaliere in queste splen-dide città della regione Umbria e rice-vere, dallo staff del Griffin’s, oltre ai programmi degli eventi più importanti,

suggerimenti su percorsi tematici, in mountain bike, a cavallo, accompa-gnati da gustosi cestini picnic. L’Um-bria, regione di straordinaria bellezza, è infatti tutta da esplorare grazie alle proprie infinite attrattive che, dall’arte alla gastronomia, raccontano la nostra storia: le vestigia della civiltà etrusca, il periodo romano, quello medievale con le cattedrali di Assisi e Orvieto e i palazzi di Todi, Perugia e Gubbio, i dipinti del Pinturicchio e del Perugino risalenti al Rinascimento, per citare solo alcuni dei capolavori che questa terra offre. Ad attendere invece colo-ro che vogliano restare nelle vicinan-

ze del resort, splendide passeggiate lungo i sentieri che da esso si dira-mano. A fare da colonna sonora... il silenzio. L’intimo legame del Griffin’s Resort con il passato e il valore at-tribuito alla storia è sottolineato dal nome delle camere, legato ognuno a una divinità del pantheon etrusco a cui si ispira. Quindici in totale di cui tre con accesso indipendente; una con meravigliosa vista sulla vallata è par-te integrante della villa, mentre le altre due sono collocate nelle vicinanze. Ogni camera è diversa: la grandezza,

Testo di Raffaella Ansuini

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la forma e la disposizione variano, ma tutte sono magnifi-camente arredate con colori e tessuti naturali, legni scuri e tappeti. Tocchi di moderna eleganza si contrappongono al mobilio antico. Il giardino, più simile a un parco per di-mensione e disposizione, con il suo verde ininterrotto che collega le costruzioni al resto della tenuta, appare come un “tutto coerente”, perfetta combinazione di elementi natura-li e artificialmente costruiti, ma dove la spontaneità trionfa sull’artificio. I sentieri, per gli amanti delle passeggiate, i prati, i cespugli di rose, le aiuole creano un piacevole am-biente all’aria aperta, luogo di riposo, ombra e svago. Ma oltre al ruolo essenzialmente ornamentale, questo giardino esprime un ritorno alla natura, poiché alcune sue parti sono dedicate alla coltivazione di alberi da frutta, vigneti, oliveti, ortaggi, erbe aromatiche e officinali. La piscina, come uno specchio d’acqua naturale, non fa che riflettere il cielo, la flora circostante e gli straordinari effetti che la natura offre in ogni momento dell’anno. La cucina mette in tavola il meglio della tradizione locale con classiche radici italiane, ma con una propria individualità, in un’ampia scelta di delizie ga-stronomiche create utilizzando gli ingredienti locali più fre-schi per gustare la ricca storia culinaria in ogni specialità. Dagli antipasti ai dessert il fine è quello di offrire la migliore produzione delle coltivazioni locali e del Griffin’s Resort, preparata da mani esperte ed eseguita con creatività insie-

me alla migliore scelta di vini. Piatti semplici che non fanno altro che esaltare i sapori. Menu stagionali e à la carte sono a disposizione di tutti, anche di coloro che non soggior-nano al Griffin’s, previa prenotazione. Il Griffin’s, oltre ad essere un resort, è anche un’azienda agricola: vigneti, ma anche frutteti, alberi di olivo, ortaggi per il consumo inter-no e allevamento del bestiame. Lo sviluppo dell’eccellenza nella gastronomia implica l’uso delle migliori materie prime, selezionate secondo alti standard di qualità, coltivate se-guendo il naturale ritmo delle stagioni secondo metodi ri-spettosi dell’ambiente. La loro freschezza e genuinità esal-tano il sapore di ogni menu e sono un essenziale contributo per la salute e il benessere fisico. A breve sarà disponibile un piccolo punto vendita per poter acquistare i prodotti a marchio Griffin’s - della produzione del resort - di vino, olio e confettura di frutta. A proposito di vino, la coltivazione dell’uva da vino è di considerevole importanza per l’azien-da. Il raccolto è lavorato direttamente nell’azienda agricola. I grappoli migliori e pienamente maturi vengono selezionati e tutte le fasi del processo di lavorazione – la spremitura, il trattamento del mosto, la fermentazione, l’imbottigliamento e l’invecchiamento – vengono eseguite secondo alti stan-dard di qualità e sorvegliate da un esperto enologo, al fine di produrre un vino bianco e un vino rosso che possano competere con i migliori della regione.

90 Griffin’s Resort perfetto connubio fra passato, presente e futuro

Agriturismo bio

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Nessun particolare è stato trascurato anche nella progettazione della can-tina e nell’uso dei materiali. Per que-sta nuova costruzione è stato usato il tufo, pietra tipica della zona, poiché il vino deve essere protetto dalle tem-perature estreme, dalla luce e dalle vibrazioni. I clienti possono visitare, su richiesta, la cantina per vivere un’e-sperienza nuova e per conoscere i segreti di questa straordinaria forma d’arte.•

Info e prenotazioni: Griffin’s ResortLocalità San Faustino 2405018 Orvieto (TR) Italy.Tel.+39 0763 616727, fax +39 0763 616716,http://www.griffinslands.com, [email protected]

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Sagre e tradizioni

Testi di Mariella Morosi

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E’ più di una festa questa dedicata al torrone, che trasformerà in un vivace palcoscenico le strade e le piazze di Cremona. A questa città la tradizione assegna il merito di aver unito in una sublime alchimia il miele, lo zucchero e le mandorle creando una delizia che avrebbe avuto un grande futuro. Il primo torrone della storia, infatti, sarebbe stato servito il 25 ottobre 1441 al banchetto che si tenne alle nozze celebrate fra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, dopo un fidanzamento decennale, come usava allora, deciso falle famiglie. Quel dolce intrigante, sempre secon-do la tradizione, fu chiamato torrone perché era stato modellato riproducendo la forma del Torrazzo, la torre campanaria della città. Eventi, degustazioni, visite guidate, laboratori, premiazioni e talk show valorizzeranno in un’atmosfera coinvolgente tutti gli aspetti e le eccellenze del territorio cremonese e del Po, il grande fiume che l’attraversa. Sulla motonave Stradivari sarà in funzione un ristorante su cui sarà possibile degustare golose tipicità am-mirando il paesaggio fluviale. Un corteo in costume d’epoca, con 140 figuranti, tra dame, cavalieri, giullari e sbandieratori in pre-ziosi abiti rinascimentali riproporrà la cerimonia delle nozze prin-cipesche nella piazza del comune. Alla sua quarta edizione, la kermesse “Torrone & Torroni” si è affermata come appuntamento di rilievo nel panorama nazionale, come testimoniano i numeri della passata edizione: 100 espositori presenti, 24 tonnellate di

torrone venduto, 50 iniziative culturali e di intrattenimento e oltre 100mila presenze di turisti provenienti da ogni parte d’Italia. Ogni edizione della kermesse -questa è la quarta- si arricchisce di no-vità. Quest’anno il tema attorno al quale ruoterà la grande festa sarà il viaggio, nelle sue molteplici forme ed esperienze seguen-do in particolare due direttrici guida: l’arte e il territorio. Saranno proposti itinerari nel centro storico della città, ricco di monumenti, si parlerà del viaggio al femminile in un talk show, saranno pre-miati personaggi e iniziative. Ci sarà davvero molto da ammirare e da gustare. Sono previste visite nei laboratori artigiani dove si fa il torrone e in particolare i bambini saranno invitati a cimentarsi nella creazione di deliziose barrette alle mandorle, alle nocciole o ai pistacchi. L’ingrediente segreto sarà la loro fantasia. Anche gli adulti potranno creare il loro personale torrone, anzi, proprio a loro è riservato un concorso a premi per la migliore ricetta di un piatto che lo preveda come uno dei componenti. Fra le strade, le piazze, sotto gli antichi portici, tanti i banchetti in cui sarà pos-sibile assaggiare, acquistare e imparare a conoscere non solo il torrone classico di cui si fa vanto Cremona ma anche quello portato da città lontane. Ma questa è anche la città della musica, famosa per le botteghe dei maestri liutai come Stradivari e Guar-neri e nell’aria, oltre al profumo del torrone, si spanderanno le note altrettanto dolci dei violini.•

Dal 18 al 20 novembre a Cremona la festa più dolce dell’anno

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Degustazioni di prodotti tipici e incontri sulle nostre ec-cellenze agroalimentari con

produttori, gastronomi e chef: è il programma dell’11ma edizione del Festival della Cucina Italiana, per la prima volta nelle Marche, dal 15 al 17 ottobre. Ad ospitare la manife-stazione sarà il Castello Brancaleo-ni di Piobbico (Urbino), ribattezzato per l’occasione “La fortezza del gusto”. Mentre tra le possenti mura del maniero sarà predisposta una grande vetrina con le migliori eccellenze dell’agroalimentare, nelle vie del borgo medievale si svolgerà una mostra mercato dell’artigianato e delle tipicità locali. Fil rouge dell’evento saranno i sapori mediterranei, alla base di una corretta alimentazione che nulla toglie al gusto, tornata sotto i riflettori grazie al riconoscimento internazionale dell’Unesco che ha elevato la Dieta Mediterranea a Patrimonio dell’Umanità. In questa direzione va anche il patrocinio del Ministero delle Politiche Agricole in collaborazione con il Culinary Institute of America che ha sede in California, che ha costruito la famo-sa Piramide alimentare alla base dell’antichissimo, eppure innova-tivo, stile di alimentazione. Ogni sala del castello sarà dedicata a un prodotto o ad un tema. Particolar-

mente invitante sarà la “Salumote-rapia”, un percorso sensoriale tra la migliore arte salumiera italiana e non solo, fra culatelli, strolghini, prosciutti di Parma, di San Daniele, di Nero Calabrese e del Casentino. Protagonisti di “Capolavori a Tavo-la” saranno il Bitto, Presidio Slow food, il Parmigiano Vacche rosse e la Chianina IGP del re delle carni Simone Fracassi. “A Tutta Birra” sarà uno spazio cult dedicato alla degustazione delle birre artigianali più prestigiose, come l’“Amarcord’, prodotta ad Apecchio, realizzata dal maestro Garret Oliver, il più celebre birraio del mondo, e vestita da un’etichetta disegnata da Tonino Guerra. Altri protagonisti, tra le grandi tipicità italiane, il tonno Cal-lippo, le carni e i salumi infuocati per il peperoncino offerti dall’Acca-demia dei Cuochi Calabresi, l’olio e i formaggi marchigiani, la mozza-rella di Caserta, il caffè dell’antica torrefazione artigianale Pascucci e grandi vini. Ai gourmet sarà riserva-to il punto “Ostriche e champagne” e ai bambini golosi il percorso “Pinocchio” mentre i loro padri si rilasseranno nella “Sala del sigaro e del grappino”. Le Mariette, seguaci di Pellegrino Artusi, insegneranno a fare la vera sfoglia e un premio finale, il Galvanina, sarà assegnato a protagonisti della valorizzazione

della nostra enogastronomia. La rivista “La Madia Travelfood” di Elsa Mazzolini, l’unica impegnata da 23 anni nella ristorazione, nell’ospitalità e nella cultura alimen-tare e vinicola, sempre nell’ambito della valorizzazione del buon man-giare mediterraneo promuoverà un convegno dal titolo “La dieta una volta per tutti” con il nutrizionista Primo Vercilli.•

Info www.festivaldellacucinaitaliana.it

Festival della Cucina Italiana a Piobbico

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Il volume “SILA. Dono Sovrano”, scaturisce da un progetto dedicato al Parco Nazionale della Sila e mette molto bene in evidenza come le montagne di Calabria siano così ricche di tanti spunti visivi e carichi di suggestione, da stimolare

l’animo degli artisti a rappresentarle e a darne testimonianza nel loro così alto potere attrattivo. Le fotografie realizzate nel corso di oltre un anno di lavoro dai fotografi Tony Atheron, Paola Binante, Francesco Granelli, Antonio Manta, Paolo Pagni e Pietro Vallone costituiscono un prezioso documento delle bellezze, della natura e della cultura in Sila, attraverso l’interpretazione sperimentale, emo-tiva, razionale, concettuale ed antropologica del Parco, con le sue foreste, i corsi d’acqua, i paesi e le testimonianze della cultura ma-teriale. Dice Elena Paloscia nella presentazione del testo: “L’ideale continuità con la storia di questa antica terra é una nota costante del progetto e si riflette in tutti i lavori, non a caso citazioni e testi di autori, viaggiatori e letterati si sposano perfettamente con le im-magini scelte creando un ponte tra passato, presente e futuro”. Si tratta di un gruppo di “viaggiatori” che, con lo spirito del Grand Tour, portando con sé, non il classico “taccuino”, ma una macchina foto-grafica, si sono messi in cammino alla scoperta dei boschi, i fiumi, i laghi e le montagne della Sila, per appropriarsi di ogni particolare, per studiarne i colori e le forme in ogni ora del giorno e nel variare delle stagioni, per poi darne una propria interpretazione artistica. Ma se per molti viaggiatori del Grand Tour la Sila era ritenuta pressoché irraggiungibile, così come veniva definita: “venerando altipiano gra-nitico”, “grandiosa”, “epica”, “Urwald, foresta vergine”, ecco che, nel 1926, sottolinea Elena Paloscia, Ulderico Tegani comincia col definirla “dono sovrano concesso alla Calabria” .Non é più quindi il tipico “viaggio di formazione” che vedeva i giovani della miglio-re società europea andare alla scoperta del “sud”, di cui l’ultima meta in effetti riconosciuta era Napoli, ma appunto un vero e proprio

cammino verso un “dono “ da scoprire, apprezzare e interpretare artisticamente, comunicandone agli altri tutta la bellezza. Questo gruppo di viaggiatori dunque, al di là di ogni metodo contempora-neo di approccio immediato ai luoghi di tutto il mondo, ha deciso di affrontare un viaggio diverso che permettesse loro di immergersi totalmente e di lasciarsi coinvolgere da quella Natura così potente e ”sovrana”. Ed é così che i fotografi Paola Binante, Antonio Man-ta, Tony Atheron, Francesco Granelli, Paolo Pagni e Pietro Vallone, hanno compiuto, ciascuno con la propria sensibilità il viaggio nella Sila nelle diverse stagioni. Si susseguono quindi immagini della Sila “storica”, evocata nella sua antichità, lungo il corso di un fiume (Tony Atheron), mentre gli stessi rivivono nelle immagini tratte da Antonio Manta e Paolo Pagni, che con la loro polaroid sono riusciti a captare anche l’atmosfera e l’emozione trasmessa da quel territorio. “Storia, tradizione e cultura” sono anche alla base del lavoro interpretativo di Paola Binante, che da anni si occupa dell’interpretazione artisti-ca di quel che lega il passato al presente. E’ un libro che incanta per le sue belle immagini e per le raffinate citazioni letterarie, ma stimola anche ad andare a visitare quei luoghi, citati fra i tanti da Guido Piovene, nel suo “Viaggio in Italia”, con queste parole, che la curatrice ricorda nel testo:”Regna il pino silano, albero libero i cui semi attecchiscono anche se portati dal vento...esso forma cat-tedrali arboree dai tronchi regolari e fitti che si prolungano talvolta per qualche chilometro avviluppando anche le cime, e riempiendo perciò la Sila di luoghi segreti” (Guido Piovene, 1957). Ricordiamo che il volume, che contiene interventi di Sonia Ferrari, Presidente del Parco e docente universitaria, Michele Laudati, Direttore del Parco, Fabio De Chirico, Soprintendente BSAE della Calabria Antonio Man-ta, Fotografo e docente all’ISIA di Urbino, Elena Paloscia, storico e critico d’arte e giornalista, presenta un progetto ideato e curato da Antonio Manta, finanziato e promosso dall’Ente Parco Nazionale della Sila, che mira a implementare attraverso la fotografia artistica, la scoperta e la valorizzazione del territorio del Parco.•

Libri e guide

Testo di Luisa Chiumenti

“SILA Dono Sovrano “

A cura di Elena Paloscia

Polyorama

Edizioni

2011-07-17

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Un romanzo appassionante e coinvolgente ma non proprio un romanzo storico, nonostante la splendida cornice della Firenze

del Duecento, ricca di particolari degni di Luchino Visconti e frutto di una lunga, accurata, minuziosa ricerca – questa sì – storica. “Il cammino e il pellegrino” è il romanzo di formazione di quattro adolescenti – Fiammetta, Guido, Agnola e Lapo - uniti da solida amicizia e da amori incrociati, un libro che ci trascina in un affascinante viaggio non solo nel tempo ma anche nei sentimenti e nelle sensazioni dei personaggi.Gladis Alicia Pereyra prima ci seduce, poi ci conduce e infine ci conquista, tanto che una volta ‘entrati’ nella vicenda ci ritrovia-mo immersi in quel Medioevo zeppo di avvenimenti ed emozioni che finiscono per ricostruire un quadro artistico, storico e politico della quinta protagonista: la Fio-renza di Dante, Giotto e Guido Cavalcanti.

Quella di Giano della Bella, delle famiglie Cerchi e Donati, delle lotte tra Guelfi Bianchi e Neri e della costruzione di Santa Maria del Fiore, a sua volta all’interno di un contesto più ampio, quello delle Crociate, delle guerre, dei conflitti dentro e fuori della Chiesa, dei pontificati di Celestino V e di Bonifazio VIII.Quasi quattrocento pagine – il numero non deve spaventare il lettore perché una volta catapultati in quel mondo medievistico non vogliamo più uscirne fino alla conclusio-ne – fitte di avvenimenti e sconvolgimenti: la crisi mistica di Fiammetta, lo stupro di Agnola, le battaglie, gli incontri e gli scontri – anche culturali - di Guido e Lapo, la nascita di un erede. E se l’ambientazione che circonda questi personaggi inventati ma veri, è realistica, veridica, anche il linguaggio, fluido, elegante, si adatta alla perfezione all’epoca di cui parla, possiamo definirlo mimetico, nel vero senso del ter-mine, però, non come lo intende oggi un certo cinema e una certa letteratura. Ci troviamo di fronte ai ritratti di quattro

giovani e della loro rischiosa e spesso dolorosa avventura di diventare adulti, un periodo dell’esistenza comune a tutti - e dunque universale e senza tempo - quello dei turbamenti e del dubbio, dell’amore e delle illusioni, della ricerca di Dio e di se stessi.L’indagine psicologica di Pereyra non si ferma in superficie ma si insinua nel più profondo dell’anima dei personaggi alla ricerca delle radici dei loro sentimenti; fin nell’inconscio dove sono custoditi e/o imprigionati il senso del sacro, il Bene e il Male, la violenza e la creatività. Il romanzo è pervaso da una profonda religiosità, non si tratta, però, di una religiosità confes-sionale, anzi è quella della ricerca e del dubbio, delle origini e dell’ideale. Quel sentimento religioso che è vicino a ognuno di noi perché ci sono in esso tutti gli elementi della fede al di là di qualsiasi credo. Lo sguardo è invece quello di chi osserva, scopre e ammira per la prima volta; disincantato e al tempo stesso inna-morato, non abbagliato, ma lucido.•

Testo di Josè de Arcangelo

“Il cammino e il pellegrino“

Autore: Gladis Alicia Pereyra

Manni Editore

Narrativa italiana

395 pagine

18 Euro

QUATTRO ADOLESCENTI ALLA RICERCA DI SE STESSI NELLA FIRENZE BASSOMEDIEVALE

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un libro sul vino, attualissimo in questi tempi di vendemmia. Parla di vini speciali, nati nelle piccole isole in mezzo al mare

da terreni difficili, aridi e battuti dal ven-to. A farli sono gli “angeli matti”, come l’enogastronomo Luigi Veronelli defi-niva i pochi che si ostinavano a colti-vare i piccolissimi vigneti, delimitati da muretti a secco, perpetuando una tra-dizione antica, ben consapevoli che non sarebbero state le poche bottiglie a fare reddito. E’ una viticoltura eroica, ma che dà, anche se con parsimonia, frutti unici e preziosi, sempre più ap-prezzati, come il Moscato a Pantelle-ria, la Malvasia nelle Eolie, l’Aleatico all’Elba, l’Ansonica al Giglio, il Greco a Capri, il Piedirosso ad Ischia e poi tan-ti altri nelle isole dei mari veneti, laziali e sardi. Storia, gastronomia e paesag-gio si fondono dentro il bicchiere, in

luoghi dove la coltura vuol dire ancora cultura. Il libro di Andrea Gabbrielli ci racconta la storia di questi vini, inse-parabile da quella degli uomini. Il vino è sacro e profano, è stato alimento e merce di scambio, ha fatto incontrare culture diverse. E le isole del Mediter-raneo hanno costituito gli avamposti di questi incontri divenendo le prime protagoniste della civiltà del vino eu-ropeo. Oggi, proprio mentre si grida all’abbandono delle terre, è proprio nelle piccole isole come Favignana, Pantelleria, Sant’Antioco o Capraia che si tende a reinvestire sui vitigni autoctoni, per avere un prodotto forse di nicchia ma certamente unico, che ha in sé tutta l’identità di un territorio, a sua volta unico, emerso dal mare per chissà quali sconvolgimenti geo-logici di milioni di anni fa. E’ un libro che mancava, oggi che si parla tanto di vino e spesso a sproposito, da leg-gere come un romanzo, riscoprendo itinerari inediti, sfuggiti ai viaggiatori

distratti. Pochi sanno che sono i de-tenuti del penitenziario dell’Isola della Gorgona, nell’Arcipelago toscano, a fare un apprezzatissimo Vermentino e che esistono nelle isole molte viti cen-tenarie “a piede franco”, cioè non in-nestate, sfuggite grazie all’isolamento del mare alla micidiale fillossera che annientò nei primi del Novecento i vi-gneti di tutt’Europa. Ma il vignaiolo di-venta anche custode del suo territorio. Scrive Attilio Scienza nella prefazione del libro: «La vera agricoltura sosteni-bile, oggi tanto di moda, è l’unica pre-sente nelle piccole isole a tal punto che la produzione è talmente integrata con la manutenzione del territorio da identificarsi con la natura dei luoghi stessi». La protezione dell’ambiente nelle isole del Mediterraneo attraverso la vitivinicoltura ha già ispirato nume-rosi progetti nazionali ed internazio-nali, con l’effetto di salvarne l’identità ed integrare, anche con il turismo, il reddito degli agricoltori.•

Libri e guide

Testo di Mariella Morosi

“IL VINO

E IL MARE.

GUIDA ALLA VITE

DIFFICILE DELLE

PICCOLE ISOLE”

di Andrea Gabbrielli.

Introduzione

di Attilio Scienza

Iacobelli Editore

192 pagine

15,00 euro

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