storie d'oro e di fango

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Il reportage crossmediale di Valeria Gentile un mese dopo il terremoto in Abruzzo - alla ricerca (comparativa) delle fede, tra gli ori del Vaticano e il fango delle tendopoli

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Prologo L’Abruzzo un mese dopo 3

I. Alla frontiera del paradosso 5

II. Una fede extraterritoriale 7

III. Il Signore fa morire e fa vivere 9

IV. Con la luce del sole 11

V. Le Avemarie non bastano 13

VI. Il marciapiede della conciliazione 15

VII. Il candore dei porporati 18

VIII. I colori sono andati via 21

IX. A ogni cosa il suo vero nome 23

X. Cibo per l’anima 25

XI. I papaveri strappati 27

XII. Croci e pastelli 29

XIII. Il cocktail del dottore 31

XIV. Il piccolo teatro degli uomini 33

XV. Parole sante e rose dorate 35

INDICE

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INTRODUZIONE

Firenze, 3 maggio 2010

Dopo mesi che volevo, alla fine il tempo giusto per pubblicare questo ebook è arrivato: esattamente

un anno dopo i fatti che racconta e fotografa: un anno e un mese dopo il terremoto che ha scosso

L’Aquila e molte coscienze, lasciando ancora oggi detriti e perplessità.

Perché più o meno un mese dopo il terremoto Valeria Gentile è andata a Roma e a L’Aquila, inviata

da nessuno se non dalla sua curiosità. Da una domanda motore di azione: dove si trova la fede,

quando accadono cose del genere? Tra gli ori dello Stato Pontificio o tra il fango delle tendopoli?

Domanda oziosa? Forse. Ma Valeria è armata (oltre che di tastiera e macchina fotografica) di un

punto di vista forte e “militante”, esibito alla luce del sole e delle critiche come un tatuaggio: c’è

una spiritualità vera, modellata dal dolore e dallo sconcerto, e una sua pantomima, che non riesce

a entrare in contatto con le cose terribili che accadono - e diventa inevitabilmente predica.

Zigzagando tra il Vaticano e l’Abruzzo, le pagine che seguono precedono (e in fondo annunciano:

ma di sbieco, come contemporaneamente in avanscoperta e in incognito) la visita contestata di

Papa Ratzinger in Abruzzo. Un anno fa, appunto.

“Storie di oro e di fango” racconta di settimane imbambolate, in cui il dolore allo zenith non

produce ombre. In cui le contrapposizioni si fanno nette e le storie hanno un ruggito profondo e

senza compromessi, con ancora dentro l’eco della terra che smotta.

In cui tutto è doppio, messo a paragone, passato impietosamente a confronto. Le persone sono volti

o sono maschere. I silenzi sono quelli delle case distrutte o di uno Stato sussiegoso - incastonato

nel bel mezzo della capitale d’Italia.

Tutto è doppio, riflesso nel suo opposto: le risate, le parole, le risposte, i dolori.

Ho deciso di pubblicare questo ebook senza troppo metterci le mani – foto e testi così come sono

stati pubblicati da Valeria sul suo blog dedicato al reportage giornalistico, “Altri Occhi” (vincitrice

anche di una edizione di Bloglab, esperimento didattico ideato insieme a Stefano Epifani che ha

vissuto due divertenti stagioni).

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Ho conosciuto Valeria da studentessa: curiosa, velocissima, con gli occhi che sembrano obiettivi

fotografici e la sensazione che niente resterà impunito delle cose che dici, degli sbagli che fai.

Valeria vuole fare la vecchia reporter alla nuova maniera. Con un approccio crossmediale che usa

i nuovi media per innovare un format antico (e meraviglioso): quello grazie al quale si raccontano

cose mai o mal raccontate. (E in questo approccio mi prendo un piccolissimo merito, insieme al

socio di blog e di quegli anni formativi: Enrico Bianda).

Questo ebook digitale e gratuito (in formato “libresco” che merita e cui dona) è insomma un

omaggio alla bravura e alla volontà di Valeria Gentile, e alla possibilità che il web ha dato a

persone come lei.

Buona lettura.

Antonio Sofi

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PROLOGO:

L’ABRUZZO UN MESE DOPO

E’ passato un mese esatto da quella notte in cui l’Abruzzo è stato messo in ginocchio, dal terremoto

prima1, dallo sciacallaggio mediatico2 e dalle sterili polemiche3 poi. Abbiamo assistito al più

consistente flusso informativo nella storia dei sismi in Italia, eppure sin dall’inizio sentivo che

c’erano delle altre storie, sotto l’invadenza dei “leader dell’informazione”, che aspettavano di

essere raccontate. Piano, dal di dentro. E così sono partita.

Niente, nel mio viaggio, ha rispettato le previsioni. Avevo trovato contatti, permessi e accrediti per

accamparmi nella tendopoli aquilana di piazza d’Armi con una piccola tenda ed un sacco a pelo,

invece mi sono ritrovata a condividere gioia e angoscia insieme ai pianolesi, meraviglioso popolo

che si affaccia su L’Aquila dalla montagna. Sono andata al Vaticano a cercare una religiosità che lì

è diventata intolleranza, turismo e denaro, ma che ho trovato pura tra le tende della Protezione

Civile e in mezzo al fango.

Sono arrivata cercando le preghierine dei bambini e la fede dei nonni, ma a L’Aquila ho ascoltato

anziane signore sfogarsi piene di rughe contro il Papa in visita e teenager pieni di gratitudine verso

il Dio che li ha salvati. Pronosticavo di documentare lo sguardo perso delle adolescenti ma le ho

scoperte forti e sagge, credevo di raccontare amori spezzati ma ho capito, sbigottita, quanto i

giovani sentano la mancanza dei libri. Temevo per quando avessi sentito le scosse di assestamento

che ogni giorno accrescono la frustrazione della gente, ma mi ha sconvolto ancor di più sentire i

brividi lungo la schiena ad ogni sorriso dei clown.

Pensavo che avrei pianto, ma non ce l’ho fatta. Quando sei lì, ti accorgi che c’è più bisogno di ridere

e giocare, di aiutare un bambino a mangiare o una signora a trovare un maglione della sua taglia

tra le tante donazioni, piuttosto che star lì a drammatizzare o a fare interviste. Immaginavo tanta

noia e rassegnazione tra i giovani, invece ho visto la tenda-ambulatorio del giovanissimo dottore del

campo diventare un pub dopo la mezzanotte, dove tra un manuale di medicina ed uno stetoscopio

si allenta la tensione, si ride e si beve in compagnia, assaporando la vera condivisione e la forza

dell’amicizia.

E tra una notte sulle note della tarantella e un pomeriggio dedicato alle ragazze con la mia connessione

ad internet - per permettere loro di riavvicinarsi, anche attraverso Facebook, al mondo che hanno

perso - ho avuto l’onore di conoscerli da nipote, figlia e sorella, questi abruzzesi pieni di dignità di

cui ho sentito tanto parlare, e ho capito che un’ora con loro avrebbe ripagato di gran lunga i giorni

e le notti senza la minima privacy, con il sedile posteriore di una macchina a farmi da letto e con le

docce comuni per lavarmi.

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Arrivare a L’Aquila, certo, non è stato un bello spettacolo. Che in Abruzzo la natura non la puoi

controllare te ne accorgi subito: che sia la prima o l’ennesima volta, vieni accolto da un paesaggio

mozzafiato, fatto dalle salite e le discese di una terra che si muove anche da ferma. Dinamica e

imprevedibile come le onde dell’oceano. Il freddo lo vedi dal cielo ancor prima di sentirlo sulla

pelle, perché avvolge le valli ed i borghi in un modo in cui solo qui riesce a fare.

“A flagello terremotus libera nos Domine”, mi ha detto Monsignor Bernard di fronte alla Basilica

vaticana, qualche giorno prima della visita di Papa Benedetto XVI ai terremotati. Ma subito dopo,

con i suoi grandi occhi azzurri e il suo accento francese, ha precisato che “il Signore è superiore, sì.

Ma non è che poteva fermarla, la mano dei costruttori che hanno mischiato la sabbia insieme con il

cemento”. L’uomo deve prendersi le proprie responsabilità, l’hanno detto tutti.

D’altronde, in Vaticano, pensavo di trovare una seria difesa a Papa Ratzinger sulla sua scelta di

non andare personalmente ai funerali di Stato e di presentarsi in Abruzzo ben ventidue giorni dopo

il disastro, ma a parte le versioni ufficiali di vescovi e cardinali, secondo cui si è trattato di un

“gesto di estrema delicatezza”, è bastato fare due chiacchiere - separatamente e senza avvisare

l’uno dell’opinione dell’altro - con i veterani dei souvenir in piazza San Pietro, per sapere che

dall’insediamento di questo Papa l’affluenza al Vaticano è diminuita del venti–trenta per cento.

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“Se non ti piace questo Papa, dietro c’è Wojtyla”, si è abituato ad annunciare Orlando come una

cantilena ai turisti, promuovendo le scatoline col rosario a grani color porpora: “se non ci fosse lui

dietro – mi confida - non ne venderei nemmeno uno di questi qui”. Mi chiedo quale sia il significato

di tutto questo e mi ritornano in mente le parole di Don Angelo nell’antica stanza papale. “Il

terremoto è la domanda. Cristo è la risposta”.

Tra una messa privatissima nella vecchia residenza del Papa ed un’udienza con Don Maurizio, i

rappresentanti della Chiesa Vaticana mi hanno preparata dicendomi che i familiari delle vittime,

coloro che davvero hanno perso qualcuno insieme alle proprie case, sono i custodi della fede più

forte di tutta la comunità.

“Se si perde un caro la fede aumenta” ha esordito Don Stefano in via della Conciliazione, passeggiando

lungo il marciapiede che segna la frontiera tra Roma e lo Stato più piccolo del mondo, col suo

sorriso pieno e solare. Eppure io l’ho conosciuto, un uomo che ha perso casa, moglie e figlia in un

colpo solo. È giovane e ha gli occhi celesti, sorride con educazione se gli si sorride, risponde con

gentilezza se gli si parla. Ma ha la morte nel cuore e tutto quello che gli è rimasto, dalla forza delle

mani alla suola delle scarpe, ora lo mette al servizio degli altri, con una giacca presa in prestito

dalla Protezione Civile.

E sono proprio loro, i volontari giunti in provincia de L’Aquila da tutto lo stivale, i veri eroi di questo

dramma. Ora lo posso dire: gli angeli esistono, io li ho visti. E prima che possa darmi un pizzicotto

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sulla guancia per credere ai miei occhi, in questo ombelico d’Italia sta accadendo l’incredibile.

Pensionati in divisa catarifrangente che passano le giornate arrampicati sulle tendopoli a sistemare

cavi elettrici, ventenni iscritti a legge che lavano i bagni comuni due volte al giorno, militari che

servono la colazione con dolcezza e commesse che confortano signore tristi. Giornalisti che fanno

cabaret e comici che cucinano pasti caldi. Tutto senza ricevere un euro.

Quello che mi resta è il disegno di Valerio, due anni, sul quaderno. E poi immagini ed emozioni

discordanti, insieme a tanta voglia di tornare. Perché ci sono tante storie che ancora aspettano di

essere raccontate piano, dal di dentro.

Per adesso, la mia comincia qui.

Partiamo.

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L’ABRUZZO UN MESE DOPO,

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I. ALLA fRONTIERA DEL PARADOSSO

Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, poichè il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate.

Vangelo secondo Luca

La notte del Vaticano è più buia delle altre notti, più scura e silenziosa. Camminando lungo il bordo

del suo perimetro si sente qualcosa di forte, come il respiro collettivo della città Stato che si gonfia

e si sgonfia al sospirare del vento, ed ogni movimento, qui, si fa pesante di Storia. La notte del

Vaticano è muta e inerme, le strade sono esauste per aver subito l’invasione dei turisti durante il

giorno ed ora si liberano, sbuffano, fanno sentire chiunque di troppo, pesanti intrusi, spiati.

Lasciata Piazza del Risorgimento tutto assume un altro aspetto in confronto alla Capitale, la politica

del sospetto si insinua tra i mattoni e nei nomi delle vie fino a circondare, come in un abbraccio

che soffoca, le case attorno alle mura, tempestate di telecamere indiscrete. Il mistero si taglia a

fette. Ogni metro quadro, ogni palo della luce, ogni cancello custodisce segreti indecifrabili, ma per

quanto ci si sforzi per identificarli non ci si riesce, perché il silenzio zittisce ogni rumore.

Qua e là, gialle della luce dei lampioni, si intravedono ombre. Sono quelle dei preti e delle suore, i

residenti che tornano alle loro dimore sicure camminando a testa bassa, soli nella loro promessa di

fede. Dopo il tramonto ridiventano uomini, ridiventano donne, fragili e terreni. Qualcuno va a passo

svelto con le buste del supermercato GS, un ragazzo alto e grosso aspetta qualcuno all’angolo della

piazza con il cellulare in una mano e un rosario nell’altra. Spogliati della protezione del giorno e

capitati sotto la giurisdizione del diabolico, dell’errore e del caos, cercano di non svelare la paura

per il buio profondo che inghiottisce ogni loro passo.

Sono per lo più stranieri: francesi, tedeschi, persino orientali e africani. I romani convivono dentro

la loro città con questo Stato tanto particolare e dalle caratteristiche uniche al mondo, grande

0,44 chilometri quadrati e fatto di oltre tremila curiali, circa ottocento residenti e cento guardie

svizzere – un Corpo che ha il valore giuridico del Reggimento – nonché di un’università, una casa

editrice, un giornale, una televisione, una radio, una tipografia e tre istituti finanziari. Tutto ben

preposto a divulgare, nella maniera più efficace possibile, la parola di Gesù Cristo – che, se per caso

ve ne foste scordati per un attimo, predicava pietà, misericordia, privazione.

Ci sono molti Stati fondati su un paradosso, nel mondo, e il Vaticano è uno di questi. Mentre ci

penso, cammino a passo lento tra il profumo dei gelsomini in fiore e il vento gelido delle notti di

aprile, ipnotizzata dalle mille contraddittorie sfaccettature di questo luogo denso, emblema del

sacro, dello storico, del geopolitico, del mediatico e del finanziario insieme. È da qui che parte

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il mio viaggio nell’ombelico d’Italia, martoriato dal terremoto, mortificato dall’avidità di alcuni

uomini e nobilitato dal grande cuore di altri.

Risalendo il viale dei bastioni di Michelangelo mi fermo un po’ a parlare con un seminarista francese,

con i capelli color del grano e uno zaino in spalla. Julien mi parla a bassa voce, un po’ in inglese e

un po’ nella sua elegante lingua, nemmeno una parola di italiano. Qui non siamo in Italia, anche se

la frontiera è vicina, anche se questa zona si chiama “extraterritoriale”. Siamo coetanei, eppure

non riesco a metterlo a suo agio e ho come l’impressione che forse, con un’italiana, non ci aveva

mai parlato.

Mentre lo ascolto mi rendo conto di una cosa: crede davvero che Vaticano e Italia non abbiano nulla

da spartire l’uno con l’altra nonostante le loro vicende siano legate a doppio filo, e non solo per una

questione geografica. Camminando per queste strade nere mi accorgo che, per una serie infinita di

bizzarri e contraddittori dettagli, si tratta di due entità contrapposte ma inseparabili, come coniugi

che non si parlano ma dormono nello stesso letto, che si amano e si odiano reciprocamente, come

separati in casa che condividono tutto anche se non vogliono ammetterlo nemmeno a loro stessi.

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Nonostante il nome, la Capitale, la forma di governo e le lingue parlate siano differenti, infatti, lo

Stato della Città del Vaticano riceve ogni anno dall’Italia un consistente supporto economico nel

nome della cosiddetta Convenzione Finanziaria allegata al Trattato Lateranense del 1929, compreso

un significativo numero di agenti delle forze dell’ordine che, sebbene siano assunti dallo Stato

Italiano, operano all’interno del territorio vaticano - senza nemmeno sapere cosa stia dietro a

questa singolare dinamica. Per non parlare del fatto che il sovrano dello Stato Vaticano coincide non

solo con il Vicario di Cristo in Terra, ma anche con il vescovo di Roma e con l’arcivescovo d’Italia.

Julien ha la pelle chiara e lo sguardo innocente, anche se a stargli vicino ho la sensazione che

emani un leggero odore di alcol, che ad ogni folata di vento si mischia al profumo d’erba bagnata

sui mattoncini freddi delle mura di frontiera. “Il Papa rappresenta una figura di rilievo in tutto

il mondo” mi dice. “Ma nonostante parli a livello mondiale, ha inevitabilmente una relazione di

estrema vicinanza con l’Italia, e quindi con le sue vicende”. Gli sorrido augurandogli un buon

ritorno alla sua calda e accogliente dimora, mentre ripenso alla mattina del 6 aprile, quando, dopo

il disastro notturno che ha raso al suolo L’Aquila e dintorni, quello stesso Papa pronunciava con

“grande gioia” un discorso ai giovani dell’arcidiocesi di Madrid. “In questi giorni così belli della

Settimana Santa, che abbiamo iniziato ieri, vi incoraggio a contemplare Cristo nei misteri della sua

passione, morte e resurrezione” aveva detto ai ragazzi spagnoli. Ripenso al giorno dopo, e al giorno

dopo ancora, e alla Domenica di Pasqua. Oggi sono passati venti giorni e gli abruzzesi, dignitosi e

fedeli, non lo hanno ancora visto né sentito.

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Mi ritrovo davanti a ciò che resta della Porta Angelica, un tempo ingresso delle mura Leonine -

protettrici del Colle Vaticano e della Basilica, dai musulmani - e abbattuta nel 1878. Ciò che resta

sono due angeli alati che tengono, ciascuno, una grande croce con la mano destra, e un’iscrizione

incastonata che recita Angelis suis mandavit de te ut custodiant te in omnibus viis tuis. Il profumo

di gelsomino si fa più intenso. Gli angeli ti sono stati inviati perché ti custodiscano in ogni tua via,

sussurro tra me, così non mi fermo, e proseguo.

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II.UNA fEDE ExTRATERRITORIALE

Che cos’è il cielo? Dove si trova? Il cielo non si trova né sopra né sotto, né a destra né a sinistra; il cielo è esattamente nel centro del petto dell’uomo che ha fede.

Salvador DaIí

È di notte che la solennità della Città Stato si misura con se stessa. L’ingresso sempre affollato dei

Musei Vaticani adesso è un enorme portone buio, circondato solo da pini altissimi, e stelle. Risalendo

il viale Vaticano - che costeggia dal di fuori il viale Centro del Bosco - e superando il curvone, la

frontiera si fa più sottile, stretta in pochi centimetri di marciapiede.

Nel punto più sporgente della curva a gomito, per non rischiare di essere investiti dalle auto che ogni

tanto sfrecciano verso Piazza del Risorgimento, bisogna stringersi sul ciglio dei due Stati, aderendo

bene alle mura con tutto il corpo. A quest’ora sono gelide, come le mani fredde di chi non ha una

casa, ed emanano un’umidità spietata che mi appiccica i vestiti.

Chiudo gli occhi: è qui che la frontiera tra Italia e Vaticano si assottiglia, mentre il circondario

romano e la Santa Sede tornano a parlarsi, nel silenzio della notte. Le luci tutte vicine delle case

sotto il colle, nella valle di zona Cipro, rendono questo colloquio ancora più romantico.

Dall’altro lato del viale quello che si vede non è un semplice marciapiede con degli ingressi, ma una

sfilata. Palazzi immensi e regali, mastodonti dell’architettura e dell’edilizia, si compiacciono della

propria maestà, semplice e lineare.

Una cristianità di gran classe, si direbbe. E sebbene si tratti di una via di Roma, molti di questi

edifici confinanti col respiro della Città Stato sono proprietà extraterritoriali. No, non ultraterrene,

ma extraterritoriali.

Che non significa che siano tanto celestiali e immateriali da non occupare nessuno spazio, né che

rappresentino una tale cristiana privazione da non interferire con i bisogni terreni con cui gli umani

peccano. Si tratta semplicemente di immobili – pregiatissimi – che non ricadono sotto la giurisdizione

dello Stato in cui si trovano - chiamato “Stato ospitante”, in questo caso l’Italia - ma sotto quella

dello Stato di cui essi sono organo. Autolimitazione di sovranità, la chiamano.

Ed è grazie a questo particolare meccanismo che lo Stato della Città del Vaticano arriva dagli 0,44

agli oltre 10 chilometri quadrati di territorio effettivo, comprensivi delle zone extraterritoriali

presenti nei comuni di Roma, Castel Gandolfo, Pompei, Assisi, Loreto e Padova.

Una zona poco franca, quindi. Inviolabile.

D’altronde è un vizio del Vaticano non stare alle regole internazionali e volersi sempre distinguere,

nel bene e nel male. È contemporaneamente lo Stato più piccolo e più ricco al mondo, l’unico in

cui non basti nascere per avere la cittadinanza ma i cui cittadini sparsi per il mondo sono molto

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più numerosi di quelli residenti; l’unico in cui nessuno – nemmeno da residente – può avere una

proprietà privata e in cui esiste un eliporto ma non un servizio di trasporto pubblico. È l’ultima

monarchia assoluta in Europa di tipo elettivo e retta da una teocrazia, ed è l’unico Stato al mondo

a essere stato dichiarato per intero Patrimonio dell’umanità. È pure l’unico Stato in Europa a non

aver firmato il Protocollo di Kyoto né la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Ma è anche l’unico Paese al mondo, finora, a essere “ad impatto zero”, grazie ai suoi boschi, ai

2.400 pannelli a luce solare4 costruiti sul tetto dell’aula delle udienze della Cupola – a spese della

società costruttrice, la tedesca SolarWorld AG - ed alla sua raccolta differenziata al 42%5. Ma non

solo grazie a questo: il Vaticano ha comprato 125 mila alberi della foresta sulle rive del fiume

Tibisco, in Ungheria, che assorbirà in totale, ogni anno, 82 mila tonnellate di anidride carbonica6.

Il terreno e i 170 mila euro che sono stati necessari sono stati donati dalle due società impegnate

nell’impresa, l’ungherese KlimaFa e l’americana Plankton.

Il viale Vaticano di sera è davvero muto e inerme. Lo ripercorro a ritroso, questa volta sul suo

lato opposto, quello più lontano dal confine, e mi ritrovo ipnotizzata dall’imponenza degli edifici.

Ognuno di essi è talmente grande che dura diversi minuti di cammino: cancelli alti tre metri, regali

finestre sprangate e telecamere onnipresenti, palme enormi nei cortili curatissimi e viste mozzafiato

dagli attici che danno sulla Città blindata. Potrei deliziarmi gli occhi con il gusto classico e il lusso

sfacciato di queste residenze, se non avessi un nodo in gola che mi fa male. E’ in Abruzzo che torna

il mio pensiero, severo e martellante, e il masochismo del mio sguardo si fa indignazione ad ogni

passo.

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La Chiesa delle sorelle di Santa Maria, luogo sacro di frontiera, dura fino al numero settantuno, che

ospita l’Istituto delle Suore Maestre Dorotee fino al numero novanta, su cui a sua volta è inciso il

nome dell’Istituto Maestre Pie dell’Addolorata Curia Generalizia - che evidentemente ha trovato

un modo per consolare il suo dolore. Proseguo esterrefatta fino alla grande residenza delle Piccole

Suore della Sacra Famiglia. Dura fino al numero novantaquattro e quindi forse, queste suore, tanto

piccole non devono essere.

Dal novantasei in poi cominciano i bed & breakfast, gli alberghi, i ristoranti e i bar. Di fronte al

Café Vaticano una fontanella senza rubinetto continua a sputare acqua buona, inconsapevole di

cosa possa essere la sete, e mentre mi lascio alle spalle colossi di cemento e mattoni, mi riavvicino

all’ingresso del Vaticano.

La guardia svizzera di turno è un piacevole ragazzo belga, moro e con la carnagione chiarissima. Per

fermarmi, col suo italiano effeminato dall’accento fiammingo, non mi dice signorina, lei non può

entrare, ma qualcosa di ben diverso. Annuncia che “il Vaticano non è uno Stato pubblico” e accenna

un piccolo sorriso, come se fossi stata sciocca a non pensarci prima e arrivare fino a lì. Chissà se

qualcuno lo ha mai detto ai rappresentanti dell’UNESCO, prima che lo dichiarassero “patrimonio

comune dell’umanità”.

Ora, con la luna a masticare nuvole di zucchero filato, dormono tutti.

Dormono i rappresentanti dell’UNESCO a Parigi, dormono gli abruzzesi nelle loro tende ed i volontari

che sono lì con loro, dormono i colletti bianchi, i poliziotti e i piccioni, che si preparano alla

scorpacciata di domani in Piazza San Pietro.

La Regina Coeli della domenica mattina…

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III. IL SIgNORE fA MORIRE E fA vIvERE

Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire. Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta. Solleva dalla polvere il misero, innalza il povero dalle immondizie, per farli sedere insieme con i capi del popolo e assegnar loro un seggio di gloria. Perchè al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi fa poggiare il mondo.

Cantico di Anna 2,1-10

All’inizio sembra uno scherzo. Poi è come una scossa di vita sotto i piedi, come una scossa di morte

dentro il cuore. È come una notizia non voluta, come la risposta brusca di chi ami, come uno sbalzo

d’umore che ti dà alla testa.

È come cambiare idea. All’improvviso, su tutto quanto.

Tony non c’era, quella notte. Erano una quarantina, tra lui e i suoi compagni di classe, arrivati

nelle coste intorno a Barcellona per la gita dell’ultimo anno, insieme a due professori dell’istituto

professionale aquilano Colecchi. Quella notte se la spassavano al Disco Tropics di Lloret de Mar

scongiurando l’arrivo della maturità, agitandosi e saltando ad occhi chiusi, sudati, mentre tutta la

loro città ballava insieme a loro senza musica.

È stato di Chiara il primo sms, alla scossa delle 23, ma è tutto a posto, diceva, siamo usciti fuori,

e non è successo niente, e così loro sono tornati a ballare. Poco dopo l’una e mezza è arrivato

qualche altro timido messaggio su cui terrore e rassicurazione, mescolati come nel cocktail di un

esperto barista, hanno smorzato un po’ i toni della baldoria. Dopo le tre e mezza tutti i cellulari

hanno cominciato a squillare e allora il panico si è fatto più insistente. Un disastro, dicevano adesso

gli sms, rapidi e brevi come fulmini. Illuminavano la pista e squarciavano gli sguardi come le luci al

neon per le vie di Lloret de Mar, come saette in un cielo senza stelle.

Intanto su L’Aquila si scatenava l’inferno. Non è stato un terremoto normale, ti senti dire. “Non

è stata solo la terra a muoversi, ma qualcosa di più grande sotto di lei, perché si è sentito un

rumore fortissimo, come un boato di guerra” mi dice Elisa, con gli occhi verdi lucidi e i capelli di

un nero corvino. “Mi ricordo la scritta 3:32 nella sveglia sul comodino e mio fratello che è venuto a

prendermi di peso dalla mia camera, perché guardavo fisso nel vuoto senza muovermi”.

Poi solo gli allarmi degli antifurti delle auto, i cigolii delle ringhiere dei palazzi e l’abbaiare dei cani

angosciati, sotto un’enorme nuvola bianca che copriva l’intera valle. “Noi la vedevamo dall’alto

della montagna di Pianola e pensavamo fosse scoppiato un incendio contemporaneamente al

terremoto – mi dice Mara – ma poi ci siamo resi conto che non era fumo. Era la polvere dei palazzi

che crollavano. La città cadeva a pezzi e faceva un polverone tutto intorno”.

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Tony non li aveva mai visti piangere, i suoi compagni di classe, persino i maschi, persino quelli

più tosti, quelli che ballavano al Tropics tutte le notti fino all’alba per godersi gli ultimi giorni da

studenti. Le autostrade sono chiuse, diceva per telefono la Protezione Civile alla professoressa di

educazione fisica in preda al panico, vi consigliamo di non tornare. E non sono tornate, le classi

quinte dell’istituto professionale, combattute tra il bisogno di stringere forte a sé i propri cari e lo

spirito di sopravvivenza che le attirava, come una forza centrifuga, il più lontano possibile da quella

loro terra senza pace.

In mezzo c’era il mare a risparmiarli, ad attutire i rombi e i colpi, e se non fosse bastato il Mediterraneo

c’era persino la Corsica a fare da scudo. Eppure loro li sentivano lo stesso, dentro la pancia, gli

scossoni che stavano uccidendo la loro splendida città. Mille paure e altrettanti pensieri viaggiavano

alla velocità della luce sulle frequenze delle linee telefoniche tra Italia e Spagna, legate a doppio

filo da una questione di vita e di morte, fino all’alba.

Sussultorio e ondulatorio insieme, è stato il ballo della terra quella notte.

Monica ha quattordici anni e non ricorda più niente di ciò che è stata la sua vita prima del 6 aprile,

neppure le materie che ha studiato per l’esame di terza, nella scuola media Mazzini che ora non

esiste più. “Se sono viva è solo grazie a lui” mi dice a voce bassa e senza vergogna, guardandomi

dritto negli occhi. Non ha nemmeno bisogno di nominarlo e la sera, quando prega prima di provare

a prendere sonno nella tenda, non gli chiede di far smettere la pioggia che infanga fino all’anima,

né di poter tornare presto a una vita normale. “Non chiedo niente. Ringrazio e basta: sono viva per

miracolo” mi confida. “La mia casa è completamente da demolire e i vigili del fuoco dicono che se

il terremoto fosse durato anche solo cinque secondi di più, ci sarebbe crollata in testa”.

Non si ricorda più niente, Monica dagli occhi vispi, niente che abbia un senso ricordare. Solo, ogni

tanto, gli si ripresenta nella mente, nitida come fosse appena accaduta, la scena dell’armadio che

le è piombato sul letto, mentre dormiva.

Comincia così, con un ballo mortifero ed imprevedibile, la Settimana Santa in Abruzzo. Proprio quel

lunedì. Proprio nel giorno in cui la Chiesa Cattolica ricorda con estrema solennità e contemplazione

il tradimento di Giuda, che fece arrestare Gesù dai soldati in cambio di trenta monete d’argento.

Proprio in quel giorno gli abruzzesi sono stati traditi dalle loro stesse case, dai soffitti e dalle travi.

Dai politici e dai costruttori che per trenta monete, o giù di lì, hanno preferito mandarli a morte.

Il Signore fa morire e fa vivere.

Chissà però se i traditori, questa volta, siano andati ad impiccarsi sul ciglio di un dirupo, come fece

l’Iscariota in quella fatidica notte di due millenni fa...

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Iv. CON LA LUCE DEL SOLE

Ciò che vi dico nelle tenebre ditelo in piena luce, ciò che vi si dice negli orecchi predicatelo dai tetti.

Matteo 10,27

Occhiali da sole, borsetta e ciabattine.

La domenica mattina, con la luce del giorno, la Città Stato ha un’aria completamente diversa, da

celebrità eccentrica. Una via di mezzo tra il Festival di Cannes e un centro commerciale, in cui ci

si sente tutti fan e clienti insieme, e se si è fortunati, tra un controllo delle forze dell’ordine e una

cacca di piccione sulla giacca, si può acquistare un rosario e contemporaneamente ascoltare la voce

di Benedetto XVI dai due mega televisori Panasonic installati di fronte alla Cupola.

Ti aspetti preghiera e raccoglimento, il settimo giorno della settimana nel cuore della Santa Sede. E

invece no. Tra centinaia di macchine fotografiche digitali, posti riservati e una quindicina di pullman

granturismo parcheggiati sotto al colonnato, la prima cosa che ti accoglie come un pugno in pancia

è la mastodontica campagna pubblicitaria della compagnia telefonica Wind in Piazza San Pietro.

Una campagna discreta, tanto da rendere impossibile fotografare la piazza senza che almeno uno

dei due cartelloni ci caschi dentro, riprendendo sfacciatamente la geometria dell’obelisco e della

Basilica.

Il Vaticano è un altro luogo. Se ne accorgono anche i turisti, unici visitatori indiscussi del luogo,

molti dei quali sono essi stessi clericali che arrivano da ogni parte del mondo. La frontiera esiste

ed è visibilissima: la puoi riconoscere tra l’anarchica italianità della fermata del tram a pochi passi

dalle mura e la timorosa sottomissione con cui poi, sotto gli archi, si aspetta il proprio turno per

varcare i metal-detector. Il corridoio doganale è via di Porta Angelica, che ti trasforma mentre

cammini come fosse un rito di iniziazione, una conversione forzata contemporaneamente al timor

di Dio e al consumismo cattolico.

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Questa piazza ha un giro d’affari di cinque miliardi di euro l’anno.

Gli immobili di proprietà vaticana hanno prodotto nel 2007 un reddito di oltre 36 milioni di euro,

che si sommano ai 33 milioni di investimenti finanziari e ad altri 19 milioni7. Immersa nell’antitesi

della cristianità, mi ritornano in mente le parole di un prete che qualche anno fa pubblicò un critica

dall’interno, restando anonimo. “La finzione, in Vaticano, diventa una seconda natura, che ha lo

scopo di dominare la prima”8.

Alcuni abruzzesi si sono dispiaciuti che il Papa non si sia ancora recato laggiù, a sporcarsi le mani

con il loro dolore. Che non sia andato personalmente ai funerali del 10 aprile, a guardare con gli

occhi la loro tragedia. Ha invece mandato un messaggio tramite il suo segretario, Monsignor Georg

Gaenswein. “Carissimi, appena possibile spero di venire a trovarvi. Mi sento spiritualmente presente

in mezzo a voi per condividere la vostra angoscia”, aveva mandato a dire.

Il telegramma inviato dal segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone a Gaenswein diceva: “Affido

al mio segretario personale il compito di recarvi di persona l’espressione della mia accorata

partecipazione al lutto di quanti piangono i loro cari travolti dalla sciagura”.

Sì, qualcuno c’è rimasto un po’ male. Evidentemente, però, questi fedeli pretenziosi e viziati non

sono mai stati al Vaticano, perché altrimenti avrebbero visto che anche qui quasi nessuno è degno

di vederlo dal vivo, se non da molto lontano o da un mega schermo.

Oggi è passata la Settimana Santa, Pasqua e Pasquetta, e la Regina Coeli procede indisturbata

tra monetine, flash e microchip. Ognuno è solo, in questa piazza gremita, ognuno è lontano dalla

realtà almeno quanto lo è dal proprio Dio. L’ingresso principale è controllato da tre guardie svizzere

vestite di blu da capo a piedi e c’è un gran traffico di macchinoni Audi, Alfa Romeo e Mercedes,

entrati chissà dove da dietro le quinte. Escono dai cancelli altissimi in via di Porta Angelica, come

inviati speciali nel regno dei primi, tornati per dimostrare che in fondo, al di là di quel cancello,

qualcosa c’è davvero.

Un uomo sulla cinquantina fa la sua comparsa con aria importante e quando varca la soglia del

cancello lasciandosi l’Italia alle spalle, tutte le guardie svizzere stanno sull’attenti con estrema

reverenza. Ha il colletto bianco e la chierica, il passo deciso e una cartella nera sotto il braccio. È

stempiato e ha il doppio mento, respira come se facesse fatica a tenere i pensieri dentro la testa e

ha due borse scure sotto gli occhi. Sembra umano, anche se molto teso. Ma quando provo a parlargli

dell’Abruzzo mi risponde con una smorfia diabolica e annuncia che, “per questioni d’ufficio”, non

può parlarne.

Suora Lina, invece, mi sorride e muove le mani nervose. “Non ho mai tempo di vedere i telegiornali

– ammette – ma credo che nonostante il dolore sia forte e rimanga, chi ha la fede supera tutto.

Anche se è difficile da accettare, perché non possiamo capire i disegni di Dio”.

Ha il naso a patata, suora Lina, la fronte coperta dalla fascia bianca che tiene sotto il velo nero,

sotto la larga veste intravedo i piedi piccoli e quando parla tocca la borsa a tracolla. Mentre fa molta

attenzione ad attraversare sulle strisce pedonali e si dirige verso via dei bastioni di Michelangelo,

mi augura una buona domenica e sparisce nella folla, parlando al cellulare.

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Padre Franco e Suora Dina, all’inizio, restano scettici all’idea di parlare con me. Poi lei scherza sulle

mie origini a partire dal colore degli occhi, dei capelli e della pelle, e qualcosa nel mio accento

stimola ricordi positivi anche nella mente di lui, che mi dice: “Ma scusa, noi è normale che ti diamo

la versione ufficiale!”. Ha delle belle rughe sul viso e mi sorprende con la sua schiettezza. Mi spiega

che il Papa non è potuto andare a L’Aquila perché avrebbe intralciato il lavoro della Protezione Civile;

che i funerali di Stato sono funerali dello Stato Italiano e che quindi era importante che ci fossero

gli esponenti del governo e non del Vaticano, evitando così che si venisse a creare una situazione

di “contrapposizione tra autorità”; che la comunità cristiana sta aiutando per la ricostruzione in

Abruzzo in molti altri modi – senza dirmi però quali.

“Tutto questo – mi dice – esprime la prudenza della Santa Sede”.

Intorno a noi solo turisti e polizia, minigonne e talari lunghi fino ai talloni, passeggini, croci al collo

e gelati. Il caldo è appagante anche se è appena primavera, il sole splende.

E comunque, aggiunge la suora pugliese, non è corretto dire qualcosa prima che il Papa vada a

L’Aquila. “Sarebbe molto meglio parlarne dopo”…

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v. LE AvEMARIE NON BASTANO

Una qualunque sovranità territoriale è condizione universalmente riconosciuta indispensabile ad ogni vera sovranità giurisdizionale: dunque almeno quel tanto di territorio che basti come supporto della sovranità stessa. Quel tanto di territorio senza del quale questa non potrebbe sussistere, perchè non avrebbe dove poggiare.

Papa Pio XI

C’è una galleria d’arte, nel lato sinistro del colonnato di Piazza San Pietro, che viene chiamato

Braccio di Carlo Magno perché si trova all’altezza della Basilica dove sorge la statua dell’imperatore

cristiano, incoronato proprio lì la notte di Natale dell’anno 800. Dal 12 febbraio al 10 maggio

lo spazio espositivo ha ospitato la mostra celebrativa “1929-2009”, in occasione dell’ottantesimo

anniversario della nascita dello Stato Vaticano. Si apre con un plastico tridimensionale “della città,

dei suoi edifici e della sua natura” e a passarci intorno, tra i memoriali in onore dei protagonisti

della sua fioritura, sento il respiro appesantirsi di secoli di intrighi di palazzo. Operazioni finanziarie

che non lasciano traccia, riciclaggio di denaro sporco, morti misteriose e omicidi insoluti, rapporti

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intimi con la P2 e scandali soffocati9. Il silenzio è di tomba, e l’atmosfera che si vive è a metà tra il

negozio di souvenir e la sagrestia di un antico duomo.

Scale lussuose, telecamere e guardie ovunque, talmente tante che si annoiano a morte, praticamente

dormono. A conciliare il loro sonno ci sono gli scricchiolii del pavimento al secondo piano, in pendenza

e dalle basi precarie. Ad ogni passo trema tutto e dopo un po’ non si capisce se il capogiro è dettato

dall’instabilità della struttura o dal peso storico, politico e spirituale dei cimeli esposti.

Non si riesce a comprendere appieno l’essenza del Vaticano e a coglierne l’atmosfera più intima,

se non si tengono a mente alcuni piccoli dettagli sulle sue origini. Come il fatto che questo Stato

esiste solo ed unicamente grazie al dittatore fascista Benito Mussolini, per esempio. “L’uomo della

provvidenza”, che era nato in un paesino vicino a Forlì – a tutt’oggi gemellato con un paesino tedesco

– e che divide ancora il cuore dell’Italia in due, aveva messo fine una volta per tutte alla Questione

Romana con la sua firma di ferro sui Patti Lateranensi, nati da una serie di trattative segrete tra lui

e tre sacerdoti e poi sottoscritti dal Cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri.

Due giorni dopo quella firma, infatti, Papa Pio XI disse che “si è potuto rivedere e rimaneggiare […]

tutta quella immensa farragine di leggi tutte direttamente o indirettamente contrarie ai diritti e alle

prerogative della Chiesa, delle persone e delle cose della Chiesa; […] siamo stati anche dall’altra

parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci

ha fatto incontrare; […] E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro

di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti […] a conchiudere un Concordato […] ed è con

profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”.

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Prima di allora i rapporti tra il Regno d’Italia e la Chiesa – sanciti dal motto “libera chiesa in

libero stato” – erano stati molto difficili perchè la precedente legge, quella delle Guarentigie,

non fu mai riconosciuta dal Vaticano. I Patti Lateranensi invece, costituiti da un Trattato – di cui

fa parte anche la Convenzione Finanziaria – e un Concordato, riconobbero finalmente la tanto

agognata sovranità e l’indipendenza del nuovo Stato dal governo italiano. Istituirono la religione

cattolica come religione di Stato e l’insegnamento obbligatorio di essa nelle scuole, conformarono

alla dottrina cattolica le leggi sul matrimonio e sul divorzio e resero il clero esente dal servizio

militare. Disposero anche l’esenzione dello Stato pontificio dal pagare le tasse doganali sulle merci

importate e il risarcimento di circa 4 miliardi di euro attuali per i danni finanziari subiti in seguito

alla fine del potere temporale.

Anche grazie a leggi precedenti e successive ai Patti, il Vaticano viene finanziato e privilegiato

fiscalmente dallo Stato Italiano – e non solo – in diversi modi, ogni anno. Un miliardo di euro dal

gettito Irpef – il 60 percento dei contribuenti italiani, consapevolmente o meno, lascia in bianco la

voce “otto per mille”, facendo arrivare la donazione al 90 percento -, quasi un altro miliardo di euro

per gli stipendi degli insegnanti di religione – che a parità di prestazione guadagnano più dei loro

colleghi –, 700 milioni per le convenzioni su scuola e sanità, 250 milioni per i finanziamenti ai Grandi

Eventi – dal Giubileo all’ultimo raduno di Loreto – nonché circa 700 milioni di esenzioni da Ici, 500

milioni di esenzioni da Irap, Ires e altre imposte e 600 milioni di evasione fiscale legalizzata per il

turismo cattolico. L’Obolo di san Pietro, nel solo anno 2007, è ammontato a 94,1 milioni di dollari.

Ma non è finita qui: le offerte e i contributi che le diocesi e le congregazioni religiose di tutto il

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mondo sono tenute a versare al Papa secondo il canone 1271 del codice di diritto canonico sono

ammontati nel 2007 a 29,5 milioni di dollari - in testa la Germania, 31 per cento del totale, seguita

dagli Stati Uniti, 28 per cento, e dall’Italia, 19 per cento. Nonostante le offerte siano libere,

il Vaticano chiede alle diocesi di dare almeno 1 euro per ogni battezzato, e alle congregazione

religiose almeno 10 euro per ogni iscritto.

E se per caso non ne aveste abbastanza, l’acqua fornita alla Città Stato è interamente a carico dello

Stato Italiano, come anche le bollette relative alla manutenzione della rete fognaria e alla gestione

delle acque di scarico. Il motivo? Il Vaticano non ritiene di dover pagare un servizio erogato da

un’azienda straniera e non ha nessuna intenzione di preoccuparsene10.

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Di tutto questo ben di dio, Ratzinger ha donato – o restituito? - 5 milioni di euro per l’emergenza

terremoto e 500 uova pasquali ai bambini abruzzesi.

Non ha regalato 500 pacchi di pasta o di biscotti, ma uova di pasqua, nonostante si sia sempre detto

critico verso il consumismo delle feste cristiane. Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della

Conferenza Episcopale Italiana, ha detto a Bertolaso che “è evidente e prevedibile che ci saranno

altri sostegni derivanti dall’otto per mille destinati all’Abruzzo”. Ma non tutti sanno che l’art. 2

comma 1 del d. P. R. 10/03/1998 prevede che lo Stato lo utilizzi interamente per calamità naturali.

Ed è evidente e prevedibile che non ne ha usato - e non ne userà - nemmeno una piccola parte.

Mi muovo come ipnotizzata tra le vetrine luccicanti della sala e mi sento come dentro a un macabro

sogno. Ma sono sveglia, e mi viene in mente lo spot dell’otto per mille alla Chiesa Cattolica realizzato

dopo gli aiuti dati alle vittime dello tsunami, nel dicembre 2004. Un capolavoro indiscusso della

comunicazione televisiva, fatto di slogan, musiche e fotografia eccezionali, che è costato al Vaticano

9 milioni di euro, il triplo di quanto ha donato in realtà alle vittime stesse dello tsunami.

Sono cifre che mi paralizzano le gambe, mentre cammino tra i corridoi preziosi della mostra

celebrativa. Gli autentici dipinti appesi alle pareti ritraggono i sei Pontefici che si sono succeduti a

Pio XI, e hanno occhi. Controllano le monete d’oro dentro le teche, anch’esse dorate.

L’aria è rarefatta quasi quanto sulle cime del Gran Sasso e i visitatori evitano di aprir bocca.

Fuori, sotto il sole cocente, l’Avemaria di Ratzinger sta per cominciare.

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vI.IL MARCIAPIEDE DELLA CONCILIAZIONE

Ho seguito gli sviluppi del devastante fenomeno tellurico dalla prima scossa di terremoto che si e avvertita anche in Vaticano ed ho notato con favore il manifestarsi di una crescente onda di solidarietà grazie alla quale si sono venuti organizzando i primi soccorsi.

dal telegramma di Benedetto XVI per i funerali di Stato, 10 aprile 2009

Per la Regina Coeli della domenica mattina, Piazza San Pietro si colora di bandiere.

È così che la facciata del Vaticano perde quell’alone di scintillante opacità che avvolge il suo nucleo

più interno, quello privatissimo, dove la più segreta banca estera gestisce operazioni finanziarie

fuori dagli accordi e dai filtri antiriciclaggio interbancari e internazionali11. È un luogo ambiguo che

con la luce del sole, varcati i cancelli alti dietro le guardie svizzere, esce dall’anonimato e si tinge

di vivacità.

Bandiere e magliette sgargianti. Rosse, verdi, gialle, bianche, rosa, blu. Paesi lontani, gruppi scout,

confraternite e parrocchie, cartelloni, stemmi e striscioni: tutto esprime un attonito, ipnotico

tripudio. Qui il dolore umano si festeggia: niente afflizione o pena, nessun affanno o patimento.

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Ognuno è istruito a rimuovere le preoccupazioni dal cuore e a erigerle come trofei, a gioire insieme

agli altri e a sposare quella lieta fede cristiana, imbalsamata e composta.

Mentre queste centinaia di colorati turisti della fede fanno file interminabili senza sapere nemmeno

bene il perché, giovanissimi e accigliati poliziotti si accertano che tutti abbiano il pass per entrare:

un pezzo di carta color arancio acceso, quasi fosforescente. Chi non lo ha resta fuori dal girone

della gioia, senza sedia né sorriso. Le mattonelle in pietra, grigie e quadrate, diventano la base di

un puzzle fatto con le tessere della più pura multiculturalità: uomini e donne, vecchi e bambini,

occidentali e orientali. San Pietro pullula.

Di Ratzinger puoi riconoscere la voce che arriva dagli altoparlanti, al massimo la chioma al vento

che ogni tanto si scorge dentro ai grandi schermi Panasonic. Parla un po’ in italiano e un po’

in portoghese, passa all’inglese, al francese, al tedesco, poi spagnolo e polacco, infine in latino

pronuncia l’antifona, che dalla domenica di Pasqua fino alla Pentecoste sostituisce l’Angelus.

La brezza tiepida di aprile raggiunge due suore africane, ne accarezza la pelle nera come la pece e

liscia come la seta, fa danzare un poco il velo bianco che hanno sulla testa e passa oltre. Loro non

si muovono, lo sguardo rivolto in avanti, in direzione della Basilica. E quando meno me lo aspetto,

in coro col Santo Padre ed altre migliaia di fedeli, recitano.

Regina coeli, laetare, alleluia:

Quia quem meruisti portare, alleluia,

Resurrexit, sicut dixit, alleluia,

Ora pro nobis Deum, alleluia.

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A vegliare su tutto questo è il grande stemma araldico scelto da Ratzinger per il suo Pontificato,

un simbolo a forma di calice, dipinto di rosso e d’oro. La conchiglia che vi è incisa rimanda ad una

leggenda su Sant’Agostino che esprime l’inutile sforzo di tentare di far entrare l’infinità di Dio nella

limitata mente umana. Il bambino della leggenda voleva svuotare il mare con una conchiglia, senza

capire l’immensità del mare.

Aprile è tiepido, qui al Vaticano, eppure io sento l’umido del nubifragio. Quello che da settimane

ha colpito L’Aquila e che ha allagato le tendopoli senza pietà. Extra ecclesiam nulla salus, diceva

Sant’Agostino, Dio sa già chi sarà salvo e chi no, ti puoi sforzare quanto vuoi con le tue buone azioni,

ma quel che è scritto è scritto. A meno che non entri in Chiesa, e allora puoi salvarti. Anche se non

eri nella lista dei prescelti.

Di fronte a me il dorato stemma, con il suo motto “Cooperatores Veritatis”, i Collaboratori della

Verità, e le due chiavi incrociate dietro lo scudo, una d’oro e una d’argento.

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Agli aquilani le chiavi non servono più ad aprire le porte, non significano più essere padroni di

qualcosa, dal 6 di questo mese maledetto.

Alzo gli occhi e mi ritrovo qui, come risvegliata da uno strano sogno, in mezzo ai fedeli che come

coriandoli ravvivano Piazza San Pietro.

Aprile è un mese intenso per Joseph. È nato il 16, è stato ordinato cardinale vescovo il 15, Papa il

19, consacrato il 24, prima udienza generale il 27. Nel ’44, racconta, riuscì ad evitare la fucilazione

come disertore proprio in aprile e nello stesso mese dell’anno successivo la Germania fu sconfitta. Il

2 aprile del 2005 morì Papa Giovanni Paolo II. Un mese denso di significati, non c’è che dire. Tra una

cosa e l’altra c’è stato anche un terremoto in Abruzzo e Sua Santità ha deciso di recarvisi in visita

prima che questo mese finisca, proprio il 28.

“La Santa Sede intende fare la sua parte. Questo è il momento dell’impegno, in sintonia con gli

organismi dello Stato che già stanno lodevolmente operando. Solo la solidarietà può consentire di

superare prove così dolorose”.

Erano le sue parole che dal suo regno arrivavano agli abruzzesi durante i funerali di Stato del 10

aprile, in un’Italia in lutto. “Affido alla Vergine Santa persone e famiglie coinvolte in questa tragedia

e attraverso la sua materna intercessione chiedo al Signore di asciugare ogni lacrima e di lenire ogni

ferita mentre invio a ciascuno una speciale confortatrice benedizione apostolica”.

Poi aveva proseguito il suo segretario personale dicendo che “oltre agli oli sacri che il Santo Padre ha

benedetto ieri nella Basilica di San Pietro egli offre il calice con cui viene celebrata la Santa Messa

in segno di omaggio alla comunità cristiana e di spirituale partecipazione al dolore dei familiari

delle vittime del terremoto e dell’intera città”.

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“Souvenìr of the Pope! Souvenìr of the Pope!” annuncia senza stancarsi Orlando, da dietro la sua

bancarella apparecchiata di oggetti sacri. “Se non ti piace questo Papa dietro c’è quest’altro,

solo cinque euro!” ripete come un disco incantato da anni. Il suo amico Antonio, più sommesso e

silenzioso, sorride. Mi dicono che questo Papa non piace a nessuno, che se non ci fosse l’immagine

di Giovanni Paolo II dietro, non venderebbe nemmeno un rosario, che però si sta bene a lavorare

sul marciapiede di Via della Conciliazione e non dover pagare le tasse, a scendere dal marciapiede

e ritrovarsi a casa.

Orlando ha gli occhi blu ed un naso grande, la parlata romana e il sorriso incattivito. “Era ora che si

decidesse ad andare a L’Aquila!” mi dice. “Berlusconi c’è andato subito, lui dov’è?” Poi fa un sospiro

e ricomincia la cantilena. “Suvenìr of the Pope! Suvenìr of the Pope!”

Prima di salutarlo voglio provare l’ebbrezza di tenere un piede sulla strada ed uno sul marciapiede,

uno a Roma ed uno in Vaticano.

La gente, a maniche corte e occhiali da sole, mi ignora e passa.

Giovanni invece sta dentro la piazza ed è più anziano, lui i papi li ha conosciuti tutti, ci tiene a

precisare. Ha un sorriso stampato sul viso e a vederlo all’opera mette allegria. Ma in un secondo

diventa una belva e la sua luminosità si pietrifica in un’espressione di fuoco. “Ci lavoro da così tanti

anni che ho visto ognuno di loro. Ma questo Papa lo odiano tutti” mi giura. Gli occhi gli si fanno rossi

e continua a ripetere il concetto come se non lo avessi capito bene. Un brivido mi corre lungo la

schiena. Che sarà mai, un Papa un po’ meno carino degli altri, gli chiedo con l’espressione del viso.

E la sua risposta mi lascia senza parole.

“Lo sanno gli italiani e lo sanno gli stranieri. Lo sanno tutti, è scritto sui libri. Questo Papa è

nazista!”

Beh, non esageriamo. Joseph partecipò alla Gioventù hitleriana e al programma Luftwaffenhelfer,

fu addetto al caricamento nel reparto di artiglieria contraerea in quello delle intercettazioni

telefoniche, diede il suo supporto al Führer negli scavi di trincee e nelle marce cantate per sollevare

il morale della popolazione. Ma da qui a dire che un Papa è nazista…

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vII. IL CANDORE DEI PORPORATI

A subitanea et improvisa morte, libera nos, Domine.

Litania cristiana

Mancano due giorni all’arrivo del Papa in Abruzzo e io mi chiedo se saprò guardare con occhi puliti

dopo aver sentito tutto questo. L’odore forte del gelsomino, la voce metallica degli altoparlanti, il

freddo delle mura, i disegni di un Dio che non si può comprendere.

Se vuoi entrare in Vaticano, ti devi accontentare della piccola parte aperta al pubblico: per Piazza

San Pietro occorre passare i controlli di sicurezza delle forze dell’ordine; per i Musei bisogna pagare

il biglietto; per entrare ai Giardini bisogna prenotarsi con indicibile anticipo. “Per altre informazioni

si rivolga alla Cooperativa Il Sogno”, ti dicono. “E si ricordi che l’accesso ai Musei e ai Giardini

Vaticani è consentito solo alle persone decorosamente vestite”.

C’è anche una farmacia particolare, dentro la Città Stato, che possiede medicine che da noi non

si vendono, o che arrivano mesi dopo per via della burocrazia italiana. Creme per cicatrici da

intervento chirurgico, latte in polvere per bambini prematuri, pomate cicatrizzanti per ustioni di

secondo grado. Una volta ottenuta una ricetta medica, devi presentare il passaporto per ottenere un

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iL cANDORE DEi PORPORAti

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permesso e nonostante questo puoi stare tassativamente solo qualche minuto, per poi sgattaiolare

via. Secondo fonti vaticane è la farmacia più frequentata al mondo, con oltre duemila clienti al

giorno.

Poi, se tutto questo non ti basta, puoi inventarti qualcos’altro.

Passando da via della Sagrestia varcare il confine ha un altro sapore. Qui la frontiera non è come

negli altri lati: non è un marciapiede, non è un muro, non è un cancello. Svoltato un angolo ti ritrovi

in un altro mondo, fatto di prati verdi e siepi curatissime, strade lisce e pulite cinte da palazzoni

antichi, che da dietro l’angolo non avresti mai potuto immaginare e che ora ti incantano, in tutta

la loro solennità. Le grate magiche alle finestre e i lampioncini dorati sembrano quelli delle favole.

Il cupolone è a un passo e sembra quasi di poterlo toccare.

Più vai avanti e più gli edifici si fanno imponenti, con giardini abbelliti, colonne decorate e muti signori

dagli abiti porpora che si aggirano con discrezione. Sono esseri divini, talmente benedetti che non

possono essere interrogati, perquisiti, processati o arrestati da nessun sistema giudiziario, nemmeno

in casi di scandali finanziari eclatanti come quello degli anni Ottanta12, neppure nei numerosi casi

di omicidi strategici o per scandali ben peggiori, come quello che sta accadendo negli USA di questi

tempi e che ha a che fare con i preti pedofili. I porporati godono di una sinistra immunità che non è

contemplata in nessun codice e vivono in un eden dall’aspetto ineccepibile, come la pelle bella di

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un assassino. Nelle immense strade asfaltate che si intrufolano dentro le parti proibite della Città

Stato non ci sono pecche, nemmeno una foglia a distrarre la perfezione, nemmeno un minuscolo,

insignificante petalo di rosa rompe l’equilibrio di questo luogo immacolato.

“Chi polemizza sul fatto che il Papa non sia ancora andato a L’Aquila è una testa di cavolo!“

esclama don Maurizio con il sorriso largo e una sfacciata insicurezza “e qualcuno potrebbe dirlo

ancora meglio!”. Scherza più o meno seriamente sulla faccenda del terremoto cercando lo sguardo

e l’approvazione dei suoi amici vescovi, come se avesse bisogno di dimostrare loro qualcosa. Mentre

mi parla mi guarda poco negli occhi, sembra quasi che parlino tra di loro. Poi mi dà una sua piccola

lezione in un mix di salmi, litanie e citazioni di Gesù Cristo, ripetendomi che “il Signore non ha

bisogno di essere difeso da noi, perché si difende benissimo da solo”.

Monsignor Bernard lo lascia dire, con una serenità delicata e cupa, poi prende la parola. “Morire

è il nostro destino. Questo nostro essere sulla terra è passeggero: poi, se la permanenza è lunga o

breve, poco importa”. Si esprime per lo più con i suoi occhi color dell’acqua. Le sue parole, come

gocce che si propagano ondeggiando, arrivano e si infrangono nel silenzio. Sono suoni limpidi e

leggeri, che uniti all’accento francese e alle rughe del viso fanno del suo pensiero una profezia.

Don Stefano passa di fretta, ma don Maurizio lo coinvolge con astuzia, lo trattiene, poi lo abbandona

e lo lascia solo con me. È molto anziano e ha i capillari rotti sulle guance rosse. Balbetta un po’ con

la bocca senza denti, e rovistando tra i pensieri per cercare il perché di tanto prestigio, si sforza di

nascondere il fatto che non sa rispondere alle mie domande. “Il terremoto rientra nei piani di Dio”

dice. Poi comincia a parlare della sovrappopolazione in Cina, di chi mangia troppo e chi muore di

fame, della terra che può dar da mangiare a tutti ma che ha risorse mal distribuite.

Qualsiasi domanda io provi a porgli mi risponde sospirando che è difficile, come se fosse difficile

capire, difficile trovare una base di atterraggio, difficile pronunciare parole e chiarire i miei dubbi.

Difficile reagire. Balbetta e sospira. “Eh, è difficile stare dentro a queste dinamiche… È difficile

sapere com’è che vengono usati tutti questi immobili di proprietà del Vaticano e capire come mai

non li mettono a disposizione degli sfollati abruzzesi… Eh. È difficile trovare parole di conforto per

le mamme che hanno perso i loro bambini…”.

Ogni cosa è difficile per quest’uomo del nord Italia, quasi novantenne. Non è difficile percepire il

suo disagio, così gli sorrido e lo saluto, allontanandomi verso la salita.

Proseguo salendo in alto fino al Largo della Radio, sulla cima del colle da cui si innalzano le antenne

di Radio Vaticana. Gli spazi sono immensi, gli alberi altissimi. Camminando incontro statue antiche

e fontane che sono delle vere e proprie opere d’arte, aiuole e prestigiose esposizioni botaniche, con

centinaia di specie vegetali da tutto il mondo e i relativi cartellini esplicativi. Rose, bonsai, piccoli

cactus, buganvillee e mimose, su uno sfondo di cespugli potati ad arte e rocce multiformi. Latino e

marmo regnano sovrani.

Nell’antica residenza papale si svolge una messa privatissima. Al secondo piano, in una piccola

cappella che contiene al massimo una ventina di persone: per arrivarci passo da porte grandi e

dorate, curiosando in stanze con pareti abbellite e finestre enormi che danno sullo straordinario

panorama vaticano. Quae dico vobis in tenebris dicite in lumine, quod in aure auditis praedicate

super tecta13 è inciso in alto dietro l’altare. L’odore di incenso è fortissimo e don Angelo dice la

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messa con una dizione perfetta, perché nella stanza accanto i tecnici della Sala Controllo e Regia

stanno trasmettendo in diretta su Radio Maria.

“Il concetto chiave di questa settimana è il consolidamento della fede”, annuncia alla dozzina

di fedeli ben vestiti, che stanno attenti a non fiatare e a non tossire, perché c’è la diretta. Un

ragazzo sta accanto al prete e a volte lo interrompe, gli fa cenni, lo dirige come fosse un musicista

scoordinato in un’orchestra e, quando si lascia prendere dal trasporto, lo ferma e lo fa ricominciare.

“E’ l’incontro con la morte che ci permette di credere nella resurrezione”, dice in questa terza

domenica di Pasqua. “Per celebrare i santi misteri, chiediamo sinceramente perdono dei nostri

peccati”.

Tra un’antifona e l’altra arriccia il naso per tirarsi su gli occhiali. Il Cristo doveva patire e risuscitare

dai morti il terzo giorno; sarà predicata nel suo nome la conversione e il perdono dei peccati

a tutte le genti. A messa finita chiacchieriamo un po’ da soli, camminando insieme mentre va

via. Sommesso e impacciato, ora svela un’inflessione dialettale che viene dal sud. “Per natura, le

mamme sono custodi del mistero della vita. Sono le prime testimoni della vittoria della vita sulla

morte, del bene sul male. Ognuna di loro ha dentro di sé la forza e sa che l’ultima parola non ce

l’ha la morte, ma la vita che custodisce dentro di sé”. Mi dedica un sorriso fugace e circospetto. Poi

mi saluta con dolcezza.

Dentro, i pianti disperati delle madri abruzzesi mi rimbombano e fanno un rumore assordante.

Fuori, l’odore intenso delle rose rosse mi ricorda che cos’è la consolazione.

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vIII. I COLORI SONO ANDATI vIA

L’ente diverso e indipendente dall’essenza umana o Dio - l’ente che non ha essenza umana, proprietà umane, individualità umana - questo ente non è altro, in verita, che la natura.

Ludwig Feuerbach

Arrivare all’Aquila dal Vaticano è sconvolgente.

È questo il tragitto che Benedetto XVI ha percorso il 28 aprile, con l’auto al posto dell’elicottero

papale e con 45 minuti di ritardo, a causa del maltempo. Volevo sapere cosa si prova a passare

dall’oro al fango e all’inizio è difficile sentire.

Bisogna spogliarsi dei pensieri, prima di tutto. Per provare qualcosa sulla pelle, perché il tatto

ritorni sensibile dopo le imbellettate storie dorate e le facce laccate, dopo i flash e le bacheche

lucide, serve che prima ti disfi del trucco, per l’appuntamento con l’umanità. Perché nell’Aquila

distrutta c’è il meglio e il peggio, il più alto e il più misero dei lati umani, il più dolce dei gesti e

la più cupa malinconia, la speranza e l’abuso, la divisa e le ciabatte, l’autoblindo e il triciclo, la

televisione e l’oblio.

L’escursione termica è solo un’altra medaglia a due facce, a cui ci si abitua dopo qualche giorno

di afa e di gelo. Le gocce di brina, i pezzi di ghiaccio sui parabrezza, la neve intorno alla valle, il

bacio soffocante del sole a mezzogiorno, la luna che abbraccia con fredda lucidità e l’irrespirabile

umido dentro le tende tappate. È questo a far da sfondo alle giornate della gente e per quanto ti

sforzi di trovare una logica negli scherzi del paesaggio, non c’è una regola ad acquietare il caos di

questo aprile.

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Arrivare all’Aquila dal Vaticano è come un viaggio nel tempo. Nell’amore e nella miseria. In quei

minuti che la separano da Roma mi sembra di viaggiare in realtà per millenni, di ascoltare l’alito

vitale di questa terra, delle sue valli e dei suoi pendii. Il terreno mi accoglie con la sua vivida

spensieratezza, con la sua fervida indifferenza, il suo essere sfacciatamente al di sopra delle umane

passioni e delle storie di mattoni.

Sembra di varcare uno spesso confine, oltre il quale i colori si fanno smorzati. Il battito del

cuore impazzisce e si fa veloce, ma il motore dell’animo è come spento, l’aria è ferma. Il fiato,

all’improvviso, lo senti tagliato, interrotto. I colori sono opachi, a L’Aquila, quello che vedi sono

pallidi visi e sorrisi a metà, contorni vaghi, orizzonti incerti, pensieri sbiaditi.

Il cancello che separa la vita dalla morte è sporco della polvere dei palazzi crollati, quasi non si

distingue, lo vedi come sfumato, indeciso su chi tenere da una parte e dall’altra.

Il silenzio, qui, non è di tomba, ma è fatto di spettri. I morti non sono trecento, perché ne puoi

vedere uno anche dentro gli occhi di ogni vivo. Non hanno perso il sorriso, gli abruzzesi, ma qualcosa

di più intimo ed impercettibile e di quest’assenza, che grida nel loro sguardo, si può sentire l’eco

disperato. Ho provato a girare la testa da una parte all’altra, quando sono scesa in strada, per

guardare i cadaveri delle case, gli unici che sono rimasti in bella vista. Ho provato anche a tenerla

ferma, a non muovermi, a camminare dritta senza indagare in ogni direzione, a fermarmi, a sedermi.

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Ma qualsiasi cosa tu faccia, quello che senti è un cerchio alla testa, una mancanza di punti di

riferimento che dà il capogiro, rendendo il respiro sconvolto e lo sguardo smarrito ad ogni angolo.

Non un suono forte, ogni vibrazione è attutita, poche auto e ancor meno esseri umani si intravedono

per le vie turbate e ammalate, ammorbate dalla bugia. Quelle poche cose che vedi si muovono

lentamente. Tutto è rallentato, affievolito, come fosse sott’acqua. La gente ha finalmente un po’

di calma, adesso, tempo per riprendersi dalla tragedia, spazio per riappacificarsi con la terra. Ma è

una pace irreale. Perché niente è più al suo posto.

I colori se ne sono andati. Il giallo dei palazzi ancora in costruzione è un’angoscia immobile, non

ha niente a che vedere con la luce, le sue crepe svelano la falsità della sua somiglianza con la tinta

del sole. Il rosso della vernice è una ferita aperta, e anche quando chiude gli ingressi al cuore della

città in nome della sicurezza, non è amore. Il verde delle piante è una fiducia mal riposta, perché

la natura ti rassicura e ti sgomenta, ti sa cullare e ti fa crollare, ti partorisce e ti abbandona, poi

torna, poi non si sa, domani è un altro giorno. L’azzurro dei monti all’orizzonte è un futuro effimero,

niente a che fare con l’immensità del cielo, perché non c’è domani per chi ha perso tutto.

In un soffio. Uno sbuffo, che si è portato via i colori.

L’Aquila di oggi è una città zitta, immobile, castigata. È una città che non sa più respirare la sua

aria, perché è infetta e fa male. Gli uomini hanno perso il colorito, anche quelli che continuano ad

andare a lavorare, il cielo è pesante anche quando non è nuvoloso. Anche la carnagione delle donne

è diversa e le direzioni che i bambini prendono sono in bianco e nero.

“L’Aquilano ha ancora voglia di volare” annuncia con fierezza il primo cartellone all’ingresso della

città. Era difficile immaginare che questa è L’Aquila. Niente ville, niente crociere, niente aiuti

né spiegazioni. Nessuna responsabilità o soluzione, nessun miracolo né benedizione. Era difficile

immaginare una città che non esiste più, che non può più guardarsi allo specchio perché non ha più

un volto.

Ora che ho visto, tutto è più chiaro.

La verità è andata via da L’Aquila, anche se è nei cuori della gente come se dovesse tornare da un

momento all’altro.

48vIII

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Ix. A OgNI COSA IL SUO vERO NOME

Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi.

Galileo Galilei

In Abruzzo, da quella notte, alcune parole hanno cambiato signifi cato. Come emergenza, evitabile,

donazione. La tendopoli si chiama campo, anche se non si coltivano ortaggi né si disputano partite

dentro il suo perimetro, e neppure si fanno battaglie. Forse è una parola più gradevole perché

ricorda vagamente il campeggio, ma resta una tendopoli, non esistono sinonimi nel dizionario di

italiano.

Gli abruzzesi che ci vivono non vogliono essere soprannominati profughi e si infastidiscono se

qualcuno si rivolge a loro defi nendoli sfollati. Non vogliono sentire nemmeno il termine senzatetto,

perché loro ce l’hanno, un tetto, anche se è rotto.

Ho chiesto loro come vorrebbero essere chiamati, per non sentirsi discriminati né commiserati.

Ix

50

Terremotati, mi hanno risposto senza neanche pensarci un momento, perché lo scompiglio è più

forte dell’instabilità. Loro conservano il vero nome delle cose e anche se molti, da fuori, gliel’hanno

tolto, loro non se lo lasciano dimenticare. Per loro il terremoto è qualcosa di reale, un ente a cui

sono legati da un rapporto intimo e atroce, viscerale, indissolubile.

A viaggiare per la provincia sembra che persino i nomi di paesi, frazioni e quartieri siano stati cambiati.

Le identità di questo popolo sono state spezzettate e distribuite come fossero cibi indigesti, i resti

di un pasto intollerabile che non è piaciuto del tutto a nessuno dei commensali. Ed ecco che Onna è

nel Lazio, insieme a Colle Roio, Fossa e Fontecchio. Pianola è stata rinominata Isola di Capo Rizzuto,

il quartiere di Piazza d’Armi all’Aquila è in Emilia Romagna, via Lanciano ricade improvvisamente in

Friuli, Civita di Bagno è in Basilicata. Sant’Elia fa parte della provincia di Bolzano, mentre Filetto e

Capitignano son capitati in Campania.

Montereale alla Calabria, Tione degli Abruzzi in Liguria, Bazzano e Monticchio in Lombardia. Coppito

è nelle Marche, Arischia in Molise, Barisciano e Tempera in Piemonte. Tornimparte e Scoppito,

invece, son spettati alla Sicilia. Non manca la Puglia, che ha Secinaro, Castel di Ieri, Sulmona e

Vittorito. Aragno e Camarda se li è presi la Sardegna, mentre la Toscana ha preferito Castelnuovo.

Paganica se la son spartita Trentino e Lombardia, mentre Lucoli è in Valle d’Aosta. Bagno Grande

e Santa Rufina si ritrovano in Veneto, come per magia. Sono i gruppi della Protezione Civile che

hanno preso in gestione quella tendopoli a darle il nome, il carattere, i lineamenti, proprio come se

avessero l’adottata per amore. A ogni entrata c’è un telone con scritto “Benvenuti”, perché chi ne

varca l’ingresso si senta ospite a casa propria e non fiati, non crei disordini o colpi di scena.

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Ogni Regione d’Italia si è portata a casa un pezzettino di Abruzzo, come si fa con i cani randagi

in difficoltà quando si è spinti da un irrefrenabile istinto di misericordia e soccorso, di ordine e

autostima.

In quella notte nerissima agli abruzzesi è crollato il mondo addosso e hanno avuto un tremendo

bisogno di aiuto, di acqua, di un posto dove andare. Ma nessuno li ha avvertiti che la solidarietà

l’avrebbero pagata con l’identità, l’assistenza con il linguaggio. Un appellativo in cambio di un

pasto caldo, una parola in cambio di una pastiglia.

Entrare nelle tendopoli non è così facile. La burocrazia e la sicurezza forzata regnano sovrane,

convivere con vigili, volontari e forze dell’ordine non è una cosa a cui ci si può fare l’abitudine

e in alcuni posti c’è anche il coprifuoco da rispettare. Il Ministero dell’Interno firma ogni minimo

spazio vitale, dai container con i viveri alle tende adibite ad asilo nido, eppure non ha un volto. La

Protezione Civile, invece, lo cambia ogni settimana e la gente fa giusto in tempo ad affezionarsi

perché sia più doloroso l’abbandono.

L’anima delle tendopoli la fanno le donne, proprio come succedeva dentro le case. Si può camminare

tra i viali di fango e vederle stendere, lavare, o sentirle chiacchierare come facevano dai terrazzini.

“Mio padre ce l’aveva detto, prima di morire: dal Duemila, fame, sete, freddo e morte!” mi dice

una di loro. Fa girare gli occhi come fossero alle giostre, l’espressione si incastra tra il sorriso ed il

pianto e per sbloccarla usa parole in dialetto che esorcizzano il terrore. La sera è sempre molto più

nervosa rispetto alla mattina, quando si muove con gentilezza per fare il primo saluto della giornata

a chiunque passi per la “piazza” principale del campo pianolese. Nonna Milena, la chiamano, e ha

i capelli rossi.

È la nonna di tutti, perché ha l’aspetto tipico delle nonne abruzzesi, è integra e astuta, dura e dolce

insieme. Porta maglioncini scuri, gonnellone che le coprono le gambe sino alle caviglie e le Crocs

arancioni ai piedi. Il crocifisso d’oro al collo e gli occhiali sempre in testa.

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Di notte le tendopoli sembrano dolci e tranquille, con le lucette che rischiarano la valle buia.

Qualche voce risuona piano, pochi si scambiano parole sussurrate e da lontano puoi sentire il fiato

lieve del vento che accarezza le tende come una favola della buonanotte. Ma all’interno, la gente

non riesce a dormire. I bambini fanno incubi, i grandi hanno il polso accelerato e ciò che i medici di

campo prescrivono di più sono gli ansiolitici.

“Dio facci passa’ bene la notte e facci torna’ a casa”, sussurra il piccolo Mattia prima di coricarsi.

Già pensa a quella bambina al tendone-scuola, che gli piace tanto e stasera gli ha tenuto la mano.

Poi fa un sospiro, si gira nel letto un po’ di qua e un po’ di là, e si addormenta.

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x. CIBO PER L’ANIMA

Quando ho trovato le tue parole, io le ho mangiate.

Geremia 15, 16

La spiritualità, da queste parti, è un’altra cosa. Più sporca e più pura insieme, come le mani dei

bambini che giocano a pallone nel fango.

È una religiosità fatta di bocche, di nodi in gola e risate scoppiate, di bagni da lavare e colazioni da

servire. Il Vaticano è lontano anni luce e qui, dove l’unico bianco che c’è lo trovi tutt’attorno alla

valle sulle luminose montagne innevate, non c’è nemmeno un prete a stare fra la gente.

I clown disegnano sulle facce dei bambini lune gialle, soli arancioni e farfalle rosse, li vestono di

armature fatte coi palloncini e li aiutano a dare i nomi delle vie ai sentieri tra le tende. Prima di ogni

pasto, gli scout battono forte i palmi sulla tavola cantando preghierine al tempo di “We will rock

you”, per insegnare loro a ringraziare ad alta voce. I volontari addetti alle cucine hanno costruito

scatole colorate con su scritto “La posta del cuoco”, per piatti preferiti, richieste o consigli. Un

servizio che è stato preso molto sul serio, con i dovuti pennarelli e sorrisi del caso.

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È Carmine lo Chef, a decidere i menu alla tendopoli di Pianola, mentre Aldo e Carlo fanno da vice

cuochi. “Caro chef siamo due ragazze del campo ti scriviamo per darti un consiglio. Dato che avete

tutti quei panini rotondi che una volta ci potete fare degli hamburger li desideriamo tanto. P.S. Spero

che il nostro consiglio ti dia ispirazione”, hanno scritto Martina ed Elisa. I bigliettini dei più piccoli

sono più sintetici e diretti, come quello di Simone: “Cuoci stasera potete cuocere la minestrina e

patatine fritte con fettine panate”.

Le addette allo smistamento dei rifiuti passano tutto il giorno davanti ai bidoni della raccolta

differenziata, indirizzando gli ospiti verso i contenitori giusti per lo svuotamento dei vassoi. Si

chiamano Teresa, Daniela e Pina, e non perdono mai la pazienza. Cesare ha gli occhi celesti e

pulisce la mensa dopo pranzo e dopo cena, anche se è il capo; è venuto con sua sorella Paola e sua

moglie Gabriella, che stanno al banco a distribuire i piatti del giorno.

Il miracolo della vita si è compiuto ancora, perché è qui che Gabriella ha scoperto di essere incinta,

proprio tra le scosse di assestamento e i bagni chimici.

È difficile trovare qualcuno che si stia prendendo cura soltanto di se stesso: i volontari della Protezione

Civile si occupano degli anziani, che si preoccupano per i nipoti, che fanno giocare i più piccoli,

mentre le mamme, alla tenda-boutique, scelgono scarpette per le figlie. I mariti non si vedono mai

perché di giorno vanno a sudare nelle fabbriche che non sono state chiuse per portare un po’ di soldi

alla famiglia, quando tornano la sera sono stanchissimi e vanno in tenda a dormire.

“La mattina ti svegli, sai che c’è gente che ha bisogno di te. A startene a casa senza fare niente

ti senti male” mi dice Angelo, che è venuto fin qui dalla punta estrema dell’Italia per servire la

colazione, le bevande e il dessert. “E’ un bagno di umiltà in tutto e per tutto” mi confida. “Ti tiri

su le maniche e ti dai da fare, perché sai che sei più fortunato di loro”.

La vita nella tendopoli ha un tempo circolare, dove tutto sembra dover ricominciare da zero ogni

santa mattina, per poi compiersi del tutto la sera, con le stelle.

Sabah ha sette anni ed è più sfrenato degli altri bambini, ma ha lo stesso accento abruzzese,

marcato e fiero. “Io non le faccio le preghierine, perché sono albanese” mi ha detto. “I muzulmini

non le dicono le preghiere. A me mi piacciono le donne nude”. Rafe, invece, il suo fratellino piccolo,

si avvicina con un cellulare in mano a tutti i bambini che vede e poi, con la lingua fuori per la

concentrazione, gli scatta una foto, per fargliele subito vedere.

“Dobbiamo uccidere cento mostri!” grida Alessio al suo nuovo amichetto Andrea. Prima del terremoto

non si conoscevano. “Lo sai addo’? Nel capannone della mensa, lì non ci possono prendere!”

Ogni tanto, il fiato del Gran Sasso sospira fumo dalle narici e accarezza le facce gelide delle signore,

che sembrano non sentire freddo. Nonna Bice cammina pensierosa per la “piazza” centrale, quella

davanti alla tenda del dottore. È preoccupata per il suo unico figlio maschio, che ha deciso di

tornare ad abitare a casa sua, al paese, mentre lei con le sue tre figlie stanno in tenda. “Quando

c’è stato il terremoto quello forte sono saltata dal letto ma non sono potuta scappare, la porta non

si apriva” racconta. “Perché quando c’è il terremoto le porte si bloccano”. Conosce perfettamente

questo iter funesto e ormai ha imparato ogni regola meglio di una sismologa. “Io vorrei tornare

a casa, ma pure se torno, con che cucino? Che mangio? Il metano ce l’hanno tolto e non l’hanno

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ancora rimesso”.

Fuori dal tendone della mensa, il furgoncino dell’ufficio postale mobile è arrivato ricordando a tutti

com’è il bianco candido. Federica si avvicina perché aspetta la lettera di Elena, la sua migliore

amica che è andata a stare dai parenti romani. Dopo averle scritto i saluti, i racconti e le domande

retoriche, chiude con un desiderio amaro.

“Vorrei che tutto tornasse come era prima… L’Aquila bella me’…”

56x

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xI. I PAPAvERI STRAPPATI

Il passato è la sola realta umana. Tutto ciò che è, è passato.

Anatole France

Il fango ti cambia.

Come un’eclissi di sole, come il velo nero di una vedova. Come una sostanza che s’infi ltra nell’acqua

che bevi, come uno schiaffo sulla maschera bianca che indossi. Il fango ti cambia la pelle, come

un’allergia alla luce del sole, come una parola cattiva che ti si ammutolisce in gola. Quando prende

la tua anima e ti accorgi che è proprio te che vuole, non puoi più tornare indietro. Il fango ti cambia

dentro, come un segreto che non volevi sapere. Un segreto con cui devi convivere per il resto dei

tuoi giorni, perché una volta che lo sai non lo puoi dimenticare.

Nelle tendopoli, gli abruzzesi hanno riscoperto l’umanità in tutte le sue forme. Hanno ritrovato la

condivisione e l’egoismo, la socialità e il disagio, hanno imparato a sorseggiare il tempo secondo

xI

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un’altra prospettiva e a stare vicini con un’altra espressione di tolleranza sul viso.

Ma a volte anche la solitudine ripara le ferite dell’anima e qui, dove dormono dieci persone per

tenda, non esiste intimità né un vero riposo.

Son rimasti fedeli alla loro terra, questi abruzzesi, senza andar via col primo invito. Passano le

giornate nel luogo in cui sono nati, eppure, dopo un mese, questo ancora non li rassicura. Vedono

le stesse facce di sempre anche alla fila per i buoni pasto, sono circondati dagli stessi monti di

sempre, sopportano la stessa pioggia incessante, ma niente del paesaggio è familiare. Anche le

nuvole sembrano cambiate da quella notte e, quel che è peggio, sono i pensieri ad essere più neri

e guardandosi allo specchio nessuno vede ciò che vedeva prima.

Pianola è il paese dell’arcobaleno, della neve e del presepe vivente, il più famoso di tutto l’Abruzzo.

È fatta di viottoli, non ha strade ma si sviluppa su scalette e pianerottoli tra le case, tutte aggrappate

sulla roccia, una sopra l’altra come in un puzzle di pietra. È a quasi ottocento metri sul livello del

mare e da qui si vede tutta la valle fino ai ghiacciai, con L’Aquila, Paganica e Bazzano in bella

vista.

“Io non me la ricordo, la mia vita di prima” mi dice Mara quando ci incamminiamo insieme verso

l’uscita della tendopoli. Ha insistito che visitassi il suo paese e che vedessi la sua casa, e così ci

siamo date appuntamento alle dieci di fronte alla lavanderia della signora Ornella. Appena dopo

aver accompagnato le sue due bambine alla tenda della scuola, ancora mezze assonnate.

Usciamo dal grande cancello una mattina qualsiasi, sotto un cielo duro e perfetto. I rami freddi

dei ciliegi sembrano baciare la neve all’orizzonte, l’erba è verde come non mai, la foschia rosa

rende umido il respiro. Ci lasciamo il presente alle spalle, insieme alla paura e alla speranza,

alla solidarietà e al tormento. Iniziamo a camminare verso la manciata di casette che è Pianola,

attraverso la linea che unisce i sentieri nel passato e nel dolore. La strada è piena di crepe, fossi,

voragini, e prosegue tutta in salita tra campi coltivati e cortili solitari. Il respiro si affatica un po’,

anche per il peso sullo stomaco che portiamo in omaggio alle rovine. A metà strada c’è il cimitero,

con gli alberi immensi ed i ceri rossi a indicare che qui, nonostante tutto, la quiete esiste.

Pianola è deserta, è una cosa del passato.

La via principale ha il nome di Padre Casimiro Centi, il frate francescano che ripristinò – insieme a

Fra Salva tore Roccioletti – la mistica processione del Venerdì Santo dell’Aquila, che era stata vietata

nel 1768 per motivi di ordine pubblico e che restò un divieto per due secoli. La chiesa di Maria

Santissima, che dà il nome alla seconda parte della via - dal curvone che costeggia la montagna -

dà sulla valle con la maestosità di una vecchia signora, ma è devastata. Nelle vie e nei pianerottoli

delle case gli unici esseri animati sono i cani, mezzi assonnati e mezzi scomparsi, come la vita delle

persone.

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Mara è una ragazza semplice. Ha i capelli corti e le labbra rosse e quando può torna da sola a

casa per qualche minuto, per un gesto intimo come pettinarsi, per una lavatrice o anche solo per

allenarsi a ricamminarci dentro. È bella e ben arredata, una delle poche che non ha subito gravi

danni. “E’ rimasta in piedi perché l’ha fatta mio marito con le sue mani”, mi dice girando la chiave

nella serratura come se volesse sfidare la sorte, e mentre lo fa scorgo nei suoi occhi le espressioni

delle sue due bambine dai capelli chiari, vispe e dolci insieme.

La porta che si apre sembra un miracolo, un’assenza profonda colpisce i nostri visi e noi ci decidiamo

a profanare quella penombra come gatti senza padrone. La voce di Mara adesso trema, ma lei non

smette lo stesso di parlarmi perché il silenzio inghiotte con i suoni anche i pensieri e lei lo sa. “I

fiori”, mi dice, “i fiori adesivi sulle pareti, li vedi? Li avevo appena messi e sono tutti spaccati. E

la pittura dei muri era bella, ve’? Come so’ belli, i fiori adesivi. Ti piacciono? Ho scelto i papaveri

perché stavano bene coi mobili”.

Per terra il rumore del vetro che calpestiamo rimbomba nel vuoto e nell’odore della casa. È un

odore che eccita e che spaventa. La tavola è ancora mezza apparecchiata dalla cena del 5 aprile, il

grembiule della più piccola è piegato sulla sedia, tutto sembra imbalsamato come in una favola.

La luce resta fuori, ha paura a entrare.

Ci rigiriamo piano verso la tendopoli, la strada per il ritorno è in discesa. Mara adesso si sente

meglio, ha il viso più disteso e parla con meno foga. Ha ricordato per un po’ la sua vita di prima,

con i passi, con gli occhi. Con le mani e con la voce.

Come quando si ripassa a mente la propria poesia preferita, come quando si va a mettere un fiore

sulla tomba della propria mamma.

Pianola è deserta, è una cosa del passato.

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xII. CROCI E PASTELLI

La donna impari silenziosa e in tutta soggezione; di far da maestra lei non lo permetto, né di dominar sull’uomo, ma se ne stia in silenzio. Poiché prima fu plasmato Adamo, poi Eva.

San Paolo 6-64

Laura è una delle maestre che hanno deciso di non scappare.

Di non trasferirsi verso la costa né di farsi ospitare da parenti lontani, ma di restare all’Aquila a

racimolare un po’ di scuola con i bambini, quelli che non hanno altro posto dove andare che non sia

la tendopoli. Per scuola, qui, si intende esclusivamente l’attività educativa, perché non esiste più

né come edificio né come istituzione.

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Spesso, dove si impara a tenere la penna in mano, a orari diversi si fa anche la mensa generale per

la colazione, il pranzo e la cena della comunità. A volte persino la messa e il cabaret, giochi di carte

e partite di ping pong, pettegolezzo e passatempo, amicizia e battibecchi. Alla tendopoli di Piazza

d’Armi, per esempio, sulla parete di fronte ai banchi è appeso un grande crocifisso in legno, mentre

a quella di Pianola una statua dorata di Padre Pio vigila sui ragazzi delle medie che leggono racconti

ad alta voce insieme agli scout. Di tanto in tanto questi simboli prendono il posto dei luoghi. Ed

ecco che il crocifisso in aula diventa lo sfondo di un altare immaginato per l’eucaristia, la statua del

Santo si fa oratorio e confessionale insieme.

Quelli delle scuole superiori sono i più sfortunati, perché stanno al centro del grande tendone,

proprio davanti all’ingresso. L’unica professoressa che è rimasta è quella di Martina che insegna

latino, e così loro da un mese fanno solo latino.

In generale, comunque, quello che si fa è un po’ di esercizio, arte e svago, per far riprendere

bambini e ragazzi dalla feroce scuola della vita.

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“I miei bambini non li trovo più”, mi dice Laura in Piazza d’Armi. Ha i ricci biondi e la calma di chi

ha passato una tragedia. “Sono spariti. Sono andati via tutti, alcuni in Puglia, altri all’estero. Tranne

lei”, mi fa indicando una moretta con le trecce, che disegna in ginocchio sulla sedia. I tavolini sono

uniti a formare un’unica grande tavola, con le sedie in cerchio, tutte attorno. È così che i bambini

imparano a guardarsi in faccia e a portarsi rispetto, penso tra me, a praticare la tolleranza e la

condivisione, ad aspettare il proprio turno, a passarsi i colori. In questa piccola tenda affollata i

bambini peruviani, rumeni, albanesi e filippini sono in perfetta sintonia con gli altri scolari. L’esame

è dimostrare di saper sorridere.

“Questa è la prova di disegno”, mi spiega maestra Laura. Il caos e il disordine regnano sovrani, mi

dice, “ma i bambini sorridono e questo è l’importante”.

La maestra Sandra è più anziana e ha i capelli grigi, gli occhiali spessi come fondi di bottiglia e le

idee chiare. “Noi siamo stanchi di ufficialità”, confessa. “Sono venuti tutti, presidenti, ministri,

cardinali… noi abbiamo bisogno di tranquillità, adesso”. Poi, con uno spirito tra il pacato e l’isterico,

mi racconta come vanno le cose. Mi spiega che le maestre lì si dividono le giornate, ma che tutte

fanno tutte le materie. Tranne la religione.

“C’è una grande comunità evangelica, gli scout e i frati che organizzano tante attività ricreative.

Ma qui noi abbiamo molti bambini stranieri ed evitiamo di fare con loro un discorso religioso,

perché affrontare con loro il tema della fede sarebbe imbarazzante. Quello che cerchiamo ora per

questi bambini è la serenità. Se non abbiamo la serenità spirituale per pensare a queste cose, come

possiamo parlare di fede?”.

“Certo, noi cristiani conosciamo il peso della croce”, mi dice un’altra. “Sappiamo cosa significa il

dolore e la sofferenza, siamo preparati a questo. Ma vallo a spiegare ai bambini, tanto più se hanno

perso la casa o i genitori”.

L’impressione che hai è che queste maestre siano lì con tutto quello che posseggono. A guardarle

negli occhi vedi l’instabilità, la precarietà, la privazione. Ma dentro hanno una ricchezza inestimabile

e un coraggio immenso.

Come le vedi, così sono. Hanno dei capelli, dei vestiti, e dei bambini.

Fuori piove e il fango si fa più ingestibile. Non c’è un filo di vento, ma le gocce d’acqua arrivano lo

stesso in modo disordinato, come se anche loro avessero perso la bussola.

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65xII

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xIII. IL COCKTAIL DEL DOTTORE

La casa è dove si trova il cuore.

Gaio Plinio Secondo

“Non ricordo niente, sai?” mi dice Raffaele. “L’esame di quinto ce lo fanno fare lo stesso, sarà solo

un colloquio faccia a faccia, ma io davvero non mi ricordo più niente”. Si scalda le mani davanti al

fungo, nel tendone grande dove passa le serate insieme ai suoi amici, qui a Pianola, e ha gli occhi di

ghiaccio. “I miei genitori sono tornati a casa per prendere delle cose ma io non sono voluto andare,

preferisco ricordarmela com’era” racconta Tony, tra un mp3 e l’altro, seduto su un tavolo della

mensa.

Sento una voce fl ebile arrivare da qualche tavolo più in là. È una ragazzina che si lamenta con i

xIII

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genitori, con gli occhi bassi, della precarietà e del terrore. “Guarda che mamma e papà hanno

paura quanto te” le risponde il padre senza rancore, umile, allo scoperto. “Non siamo invincibili.

Non sappiamo nemmeno noi come fare”.

Non è facile, in tendopoli, essere adolescente. Hai rischiato la vita, hai perso tutto e non hai più

gli spazi e la privacy che avevi prima. Dai dodici ai diciotto anni non sei né carne né pesce, non

stai bene lì né qui né in piedi né seduto. Non hai più il gioco per spensierarti le giornate e non hai

ancora il dovere con cui riempirle. Devi camminare da solo, non hai più il sostegno forte che erano

gli adulti ma non puoi ancora esserlo tu per i bambini. Jeans e felpa, capelli al vento, paure e

speranze, amiche del cuore. I ragazzi indossano le tute degli sport che praticavano, come se questo

possa tenerli allenati, e per alcuni funziona.

Il più irruente si chiama Roberto ma tutti lo chiamano Il Sindaco. A primo impatto è terribile:

indisciplinato, ribelle, incontrollabile. Dovrebbe essere in seconda media ma deve ripetere la prima,

ha tutto l’aspetto del teppistello di strada, eppure nasconde una dolcezza ferita. Ha un’intelligenza

fuori dal comune ed è leader per natura. La scuola la odia perché lo annoia, si capisce dall’energia

intellettuale che sprigiona con le sue battute e con le favole strabilianti che racconta ai più piccoli.

Matteo vuole sempre le sue storie di paura ma Mattia dice no, io mi cago sotto! già dall’introduzione

e così lui, con una luce generosa negli occhi, le adatta rendendole ancora più esilaranti.

Il Sindaco dice molte parolacce, ma ha un cuore grande. E la chiamano scuola, quella lì, mi

ha detto quando abbiamo fatto amicizia giocando a pallone. Fa parte della squadra di rugby di

Paganica, è ormai un mese che non si allenano ma il 26, proprio due giorni dopo il suo tredicesimo

compleanno, hanno giocato una partita all’Isola d’Elba, insieme alle squadre più forti d’Italia. “Solo

grazie all’adrenalina che avevamo in corpo” mi racconta, “ma abbiamo vinto contro tutti!” e resta

serissimo e calmo, fiero di sé ma senza arroganza. In premio, un pallone e una felpa blu, che non si

toglie mai.

Si riscaldano tutti sotto al fungo, tranne Emanuele che si lamenta per il caldo. Sono come leoni in

gabbia, perché nessuno è preparato per gestire loro, annoiati a morte e potenzialmente chiassosi,

quindi restano intrappolati nella loro scomoda età, delicata e imbarazzante. Le ragazze stanno tutte

vicine come se il calore dei corpi le aiutasse a crescere, si siedono vicine e si parlano in cerchio. “La

casa era solo un luogo, prima non ci pensavi” mi ha confidato Giulia. “Adesso mi manca”. Federica

e Martina si tengono per mano, Elisa tocca i capelli ad Elena. “Abbiamo bisogno di parlarne. Noi

vogliamo ricordare quella notte, perché se lo rimuoviamo sembra che ci manca qualcosa. Ci avevano

detto che ci mandavano uno psicologo ma non è mai arrivato nessuno”.

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Sono forti e mature, queste teenager. Mi parlano delle loro vite di prima, di quella notte, di quello

che avrebbero voluto per il futuro, di rapporti spezzati e amori nati tra le tende. “I primi giorni non

parlavo, piangevo e basta” dice Martina. “Molta gente è morta perché siamo abituati. Il terremoto

per noi è come un temporale, siamo allenati. Perciò molti non si sono messi al riparo e sono stati

schiacciati dentro le loro stesse case”.

Intanto la notte si fa più nera, qualche stella riesce a fare l’occhiolino dalla spessa coltre di nuvole

scure. Poi, a mezzanotte, come un principe azzurro che viene dal fango, il dottore del campo arriva

con un grande sorriso sulla bocca. “Ragazzi, è aperto il pub!” annuncia con fermezza ed entusiasmo,

e loro capiscono subito. Perché ogni sera, dopo la mezzanotte, la sua tenda-ambulatorio diventa un

pub di tutto rispetto, e tra un manuale di medicina ed uno stetoscopio si distendono i visi, si beve

vino e si festeggia la condivisione.

Guido ha trent’anni e a Pianola lo conoscono tutti. È amico di famiglia di ogni pianolese, ma è anche

il medico di paese, il dirigente della squadra di calcio dei ragazzi e rappresenta questa manciata di

case di montagna anche alla circoscrizione politica dell’Aquila.

“E’ difficile conciliare tutto” mi dice una volta arrivati alla piccola tenda del pub appena di fronte

al tendone mensa, “ma quello che mi sta a cuore è la mia gente. Con tutto questo fango e questa

umidità non c’è possibilità di guarire, perciò devo cercare di mantenere le malattie stabili. Il

pericolo di contagio è molto alto, dato che nelle tende ci dormono dieci persone e se si ammala

uno si ammalano tutti”. È gentilissimo e non perde la serenità, ogni tanto scherza con uno dei

ragazzi che danno inizio al party e poi riprende. “Quelli che vedi qui sono solo lo specchietto per le

allodole” mi fa indicando le scatole di medicinali che ha sul banchetto dentro la sua tenda, “ma di

là, dentro il frigorifero, ho fatto la scorta. Per quando si spegneranno i riflettori e la gente smetterà

di fare donazioni”.

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Intanto i ragazzi aprono le bottiglie e affettano la pancetta, ridono e così si allenta la tensione. “Se

i miei ragazzi stanno qua, durante la notte, non vanno altrove a danneggiare la propria salute con

altre sostanze. Io metto a disposizione la mia tenda e li faccio divertire. Loro stanno con me e non

vanno sulla cattiva strada”.

Fuori il vento impazza, i grilli cantano alla luna. Ma loro, tra un drink ed una ricetta sul banco, non

hanno freddo. Ormai è quasi maggio e qui, dove in inverno si arriva a undici gradi sotto lo zero, si

ride, si scherza, si fanno giochi come fosse estate.

Sono quasi le due. Guido tende il cellulare che suona tarantelle abruzzesi verso Emanuele e Tony.

Loro si mettono a ballare.

Ci sono ancora tanti giorni dietro il Gran Sasso, dice un proverbio aquilano.

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xIv. IL PICCOLO TEATRO DEgLI UOMINI

La Chiesa sta divenendo per molti l’ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l’ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo piu ostacolare il vero spirito del Cristianesimo.

Joseph Ratzinger

È il grande giorno, l’Italia non parla d’altro che della visita del Papa all’Aquila; eppure dentro

le tendopoli la maggior parte della gente nemmeno ci pensa e io mi chiedo che cos’è la fede,

nell’Abruzzo sfigurato.

Tra le poche cose che la gente ha recuperato dalle case distrutte o inagibili per portarle via e

conservarle, non ci sono cimeli sacri. Non ci sono altari né vangeli, né rosari o acquasantiere.

Eppure c’è, negli occhi e tra le macerie, qualche cosa che ha a che fare col divino perché sento

nell’aria l’odore acre della penitenza. Ci sono voci e sangue nelle vene, a tener viva la fedeltà a

Cristo, perché la religione è amore, ossessione. Furore e timore.

È un sentimento che ha valore di consolazione e accompagnamento, mi aveva insegnato a parole

Don Angelo, mentre saliva sulla sua auto targata SCV. Ma qui ho capito che è un moto vitale, tanto

interiore quanto fisico, e che non ha niente a che fare col marmo e con l’oro.

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La cristianità, su quest’ombelico d’Italia, a volte è una mano sulla bocca.

L’abruzzese resta lucido e anche se tutto è oscuro e torbido, certi segreti non si possono proprio

nascondere. Qualcuno racconta di una donna di trentotto anni, con quattro figlie femmine. Il terremoto

se l’è portata via senza fiatare e nessuno la ricorda perché aveva una relazione omosessuale. Di cose

del genere è sempre meglio non parlarne, ti dicono. Mi chiedo se le sia stata assegnata una tomba

al cimitero, se sia stata inserita nelle liste dei deceduti o se invece sia andata ad allungare la lista

dei morti senza nome, quella degli immigrati clandestini e degli affittuari in nero.

Quando arrivo alla tendopoli di Piazza d’Armi non c’è quasi nessuno tra i sentieri infangati, tutti

stanno dentro le tende perché la pioggia non dà tregua, o a lavoro perché è martedì e non domenica.

Le televisioni sputano aggiornamenti sul ritardo di Ratzinger per via del maltempo, eppure oggi la

mano del cielo sembra meno brutale dei giorni scorsi, le dita gelide della nebbia sembrano aureole

sui monti, come lacci bianchi legati intorno alle cime. Il vento c’è ed è forte, ma stamattina il Gran

Sasso non ha il fiatone e sta in pace, come se stesse preparandosi per una visita importante.

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“Preghiamo soprattutto con tutti i sofferenti della terra terremotata dell’Aquila. Preghiamo perché

in questa notte oscura appaia la stella della speranza, la luce del Signore Risorto”, aveva detto

cinque giorni dopo la notte del 6, durante la via Crucis. Ora di giorni ne sono passati ventidue e da

tutta la regione sono partiti pullman carichi di fedeli, disperati o annoiati, diretti al piazzale della

Scuola della Guardia di Finanza di Coppito, dove pronuncerà le sue preghiere.

“Qui non è venuto nessun Papa. Nessun Papa è mai venuto all’Aquila, nessuno. Mai venuto nessun

Papa” farfuglia un vecchio signore mezzo cieco che si trascina tra le tende, con gli occhi rossi che

guardano nel vuoto. “Non viene qua, va a Onna” mi dice un altro, “vai più avanti, in quella tenda,

forse lì ti sanno dire”...

Sono solo le dieci e il cielo è già rombante di elicotteri, le strade sono invase da militari e guardie

che bloccano gli accessi, ma dentro le tendopoli le ore di chi non ha più una vita passano una dietro

l’altra, come modelle distratte su un palcoscenico improvvisato.

“Io voglio venire, ma è tutto bloccato, le macchine non le fanno passare, ma voi che state a fa’ lì?”

chiede un ragazzo al cellulare. Altri girano gli occhi scocciati ed esausti, qualche bambino gira in

bicicletta anche sotto la pioggia, il vento assonna.

Due signore anziane fanno il bucato sfidando l’umidità dei loro passi sul fango, vestite in tuta e

maglione, scarpe da ginnastica e giacche a vento. Si chiamano Emilia e Lidia, sono diventate amiche

qui e vivono sole, nelle tende 80 e 81 di via Primula, a pochi passi dal tendone bianco della Chiesa

Evangelista.

“Il Papa non viene qua, c’ha paura. Siamo troppi” mi dice la prima, brusca e pungente come una

dolcissima burbera, resa irruente dal tempo e dagli scherzi della vita. “Perché non se ne torna al

Vaticano? Va dai finanzieri, va. Ma che ci viene a fare all’Aquila?”

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Lidia poggia in terra il secchio, una nuvola più nera delle altre copre la timida luce che arriva dal

sole e in quell’istante si esprime con la delicatezza di una bambina. “L’altro Papa affrontava tutto,

com’è che si chiamava, quello polacco. È tedesco, questo papa”... “Questo c’ha il veleno dentro” la

incalza l’amica, con le rughe profonde di chi non ha più niente da perdere. “C’ha il veleno dentro,

quello, ma perché non se ne torna in Germania? Mia nipote l’anno scorso ci è andata in gita e

quando è tornata mi ha detto nonna, i tedeschi sono tutti brutti, ti guardano storto. A me non me

ne frega niente che qui a Piazza d’Armi non viene, per me può anche andarsene a fanculo. Che fa,

viene a dare ora l’estrema unzione ai nostri morti e se ne va? Se ne rimanga a Roma, bello bello. A

me non mi serve un papa per pregare. La mia religione me la vedo io.”

Le buste dell’immondizia nel fango si riempiono d’acqua e in qualche punto comincia a puzzare.

Il rombo degli elicotteri si fa più insistente. Manca un quarto d’ora alle undici e il fermento per la

grande visita, qui, ancora non arriva.

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xv. PAROLE SANTE E ROSE DORATE

Le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi.

Alessandro Manzoni

Sono belle, le parole.

Quando risuonano nell’universo come note celestiali e fanno l’aria di velluto, quando svelano

sentimenti vigorosi e forti, quando svuotano da tutto il male, quando ti prendono per mano e ti

portano al di là delle piccole cose del mondo e delle misere storie degli uomini, come sono belle.

Un proverbio arabo dice che una parola, prima di essere pronunciata, deve passare da tre porte

su cui sono incise queste domande: È vera? È necessaria? È gentile? Una parola giusta, dicevano gli

antichi arabi, supera le tre barriere e raggiunge il destinatario.

Il piazzale della Scuola di Coppito è un mare di clericali e fedeli, di ombrelli aperti e camioncini

delle televisioni su cui sono montate delle enormi antenne paraboliche, bianche di un bianco che

davvero, nel fango delle tendopoli, avevo dimenticato.

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Joseph Raztinger è arrivato a mezzogiorno e venti. Un appuntamento che è costato 200 mila euro.

Ad aspettarlo ci sono anziani e bambini, ma soprattutto giornalisti e fotografi, un gran numero di

rappresentanti del clero e politici della provincia. E poi forze dell’ordine, militari di ogni ordine e

grado che con scure fronti corrugate tengono la fede sotto controllo. “Che cosa vuole dirci il Signore

attraverso questo triste evento?” ha chiesto il Papa dall’impalcatura innalzata apposta per lui.

“Abbiamo celebrato la morte e la risurrezione di Cristo portando nella mente e nel cuore il vostro

dolore, pregando perché non venisse meno nelle persone colpite la fiducia in Dio e la speranza.

Ma anche come comunità civile occorre fare un serio esame di coscienza, affinché il livello delle

responsabilità, in ogni momento, mai venga meno. A questa condizione, L’Aquila, anche se ferita,

potrà tornare a volare”.

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Umidità, gli uccelli volano bassi. I fedeli sono muti e hanno occhi grandi di stanchezza. “Se fosse

stato possibile, avrei desiderato recarmi in ogni paese e in ogni quartiere, venire in tutte le tendopoli

e incontrare tutti” ha detto la voce. “Il Papa è qui, oggi, tra di voi per dirvi anche una parola di

conforto circa i vostri morti: essi sono vivi in Dio e attendono da voi una testimonianza di coraggio

e di speranza. Attendono di veder rinascere questa loro terra, che deve tornare ad ornarsi di case

e di chiese, belle e solide.”.

Tutti hanno portato la mantellina di plastica e il piazzale è una distesa di puntini gialli e azzurri.

Qualcuno ha portato chitarre, ma questa mattina è seria, è arrivata con lo scialle del silenzio, ha

tappato tutte le bocche e ha fermato ogni corda.

Sono belle, le parole di un Papa, chiare come la candeggina. “Nominarle tutte mi sarebbe difficile,

ma a ciascuno vorrei far giungere una speciale parola di apprezzamento. Grazie di ciò che avete

fatto e soprattutto dell’amore con cui l’avete fatto. Grazie dell’esempio che avete dato. Andate

avanti uniti e ben coordinati, così che si possano attuare quanto prima soluzioni efficaci per chi oggi

vive nelle tendopoli. Lo auguro di cuore, e prego per questo”. Ah, come sono belle le parole.

Parole da re, parole da padrone, parole di chi vince. Parole dai palchi e parole nelle orecchie,

parole dai microfoni e dagli amplificatori, parole al vento, parole a volontà.

“La sosta nella Basilica di Collemaggio, per venerare le spoglie del santo Papa Celestino V, mi ha

dato modo di toccare con mano il cuore ferito di questa città. Il mio ha voluto essere un omaggio

alla storia e alla fede della vostra terra, e a tutti voi, che vi identificate con questo Santo. Sulla

sua urna, come Ella Signor Sindaco ha ricordato, ho lasciato quale segno della mia partecipazione

spirituale il Pallio che mi è stato imposto nel giorno dell’inizio del mio Pontificato. Inoltre, assai

toccante è stato per me pregare davanti alla Casa dello studente, dove non poche giovani vite sono

state stroncate dalla violenza del sisma. Attraversando la città, mi sono reso ancor più conto di

quanto gravi siano state le conseguenze del terremoto”.

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Nec recisa recedit, neanche spezzata recede, è il motto della Guardia di Finanza che domina il

piazzale come un trofeo fatto di parole. Perché le parole possono dare forza, dare fiducia, rischiarare

il buio, restituire onore, affidare una missione, portare una vittoria. Come sono grandi, le parole.

Quando viaggiano oltre il tempo e lo spazio, quando corrono nei sentieri e dentro i cavi elettrici.

Quando sussurrano, quando gridano, quando sono talmente giuste che nemmeno hanno bisogno di

essere soppesate prima di uscire dalla bocca.

Nella tendopoli di Piazza d’Armi le sorelle De Santis seguono la diretta in prima fila, insieme a

un’altra manciata di anziani. “Della nostra tenda uno solo ci è andato. A me non me ne teneva”

mi dice una e l’altra subito l’aiuta: “Con questo tempo, con questo vento, e poi con tutta quella

gente… chi se ne tiene”. Poi una piccola luce le si fa tiepida in viso. “Certo che se fosse venuto

qui…” sospira con timidezza. Il suo sorriso è disarmante. “Ce lo guardiamo dalla televisione, come

sempre”.

“La mia visita in mezzo a voi, da me desiderata sin dal primo momento, vuole essere un segno della

mia vicinanza a ciascuno di voi e della fraterna solidarietà di tutta la Chiesa” prosegue la voce.

“Come comunità cristiana costituiamo un solo corpo spirituale, e se una parte soffre, tutte le altre

parti soffrono con lei; e se una parte si sforza di risollevarsi, tutte partecipano al suo sforzo. Devo

dirvi che manifestazioni di solidarietà mi sono giunte per voi da tutte le parti del mondo. Numerose

alte personalità delle Chiese Ortodosse mi hanno scritto per assicurare la loro preghiera e vicinanza

spirituale, inviando anche aiuti economici”.

Barriere e recinzioni, uniformi, scalinate, ponteggi da gigante. No, questo Papa non se le sporca

le mani, non le bacia le bocche. Forse ha davvero paura, avvolto da quei veli bianco latte, forse

davvero teme il fango. “Ho ammirato e ammiro il coraggio, la dignità e la fede con cui avete

affrontato anche questa dura prova, manifestando grande volontà di non cedere alle avversità. Non

è infatti il primo terremoto che la vostra regione conosce, ed ora, come in passato, non vi siete

arresi; non vi siete persi d’animo. C’è in voi una forza d’animo che suscita speranza”.

Come sono brillanti, le parole. Parole di gran classe, parole originali, parole di chi se le può

permettere. Grazie per la vostra fede, siamo insieme, dice Benedetto XVI ai microfoni di tutta

Italia. Qualche nuvola lentamente si muove e un raggio di luce riscalda i corpi umidi e i cuori tristi

degli abruzzesi raccolti qui, seduti e muti.

“Abbiamo passato una giornata diversa, semp’ a ‘ste tende! Se no che facev’? Magnev’, durmev’…”

chiacchiera una nonna con la sua nipotina, mentre la porta verso l’uscita tenendola per mano,

dopo l’ultima preghiera del pontefice dedicata a loro. “È arrivato il Papa e nemmeno un bicchiere

d’acqua” dice un ragazzo. Un altro sbadiglia.

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“Vi invito ora, cari fratelli e sorelle, a volgere lo sguardo verso la statua della Madonna di Roio,

venerata in un Santuario a voi molto caro, per affidare a Lei, Nostra Signora della Croce, la città

e tutti gli altri paesi toccati dal terremoto. A Lei, la Madonna di Roio, lascio una Rosa d’oro, quale

segno della mia preghiera per voi, mentre raccomando alla sua materna e celeste protezione tutte

le località colpite”.

Una signora dai capelli rossi cerca di vederlo mentre va via, sporgendosi dal braccio della guardia

che tiene tutti a diversi metri dal palco. “Io son dalle nove qui, vengo da Roio. Ci hanno dimenticati,

abbiamo le case distrutte” dice ad una fotografa lì vicino, che non ha orecchie, ma solo occhi.

“Venga da noi, signorina, a Roio ci hanno dimenticati”.

Dei giovani fanno cerchi seduti per terra e altri, in piedi, hanno la testa bassa. La fila per uscire è

interminabile, grossa come un dio dragone venuto da Oriente.

Questo dio, invece, in Abruzzo si è fatto videocamera, schermo piatto, transenna.

Il Papa se n’è andato e con lui le sue parole. Come sono belle, mi viene da pensare, e mi chiedo se

siano anche vere, necessarie e gentili.

“Le parole se le porta ju vent’”, mi dice la signora Carla, mentre passa di qua. “Hai visto quanto

vento c’è oggi? Già se l’è portate via tutte, le parole!”

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1 - 6 aprile 2009, ore 3.32. Dopo mesi di attività sismica intensa e ininterrotta, una scossa di magnitudo 6.2 della

scala Richter e del IX grado della scala Mercalli, con epicentro a L’Aquila, ha raso al suolo la città e molti paesi e

centri abitati limitrofi, uccidendo 308 persone tra cui molti bambini e ferendone 1600, tra cui 200 gravissimi. Circa

65 mila sfollati da allora vivono nelle tende o da parenti - vicini, lontani o all’estero.

2 - Nella settimana del terremoto il TG1 ha dedicato buona parte delle edizioni principali a lunghi e dettagliati ag-

giornamenti sul proprio share, autoelogiandosi per l’alta percentuale di ascolti durante i servizi sul terremoto ed

autodefinendosi “leader dell’informazione” (vedi http://www.youtube.com/watch?v=H8rScFAAtfI). Tutti gli italiani

hanno visto e sentito, inoltre – rivisto e risentito più volte grazie alla denuncia di Striscia La Notizia – come non

pochi inviati a L’Aquila abbiano agito senza la minima etica professionale, aprendo le portiere delle automobili

dove i sopravvissuti alla terribile notte, sconvolti, cercavano di passare la notte (vedi http://www.youtube.com/

watch?v=uvoPGPheHR8). Ho sentito persino i racconti, da parte degli abruzzesi, di giornalisti che si sono travestiti

da preti pur di entrare nelle tende. Altri, per fare il loro lavoro, hanno persino ostacolato i soccorsi.

3 - Per tutto il mese successivo al terremoto media e istituzioni hanno continuato ad alimentare le polemiche re-

lative al’inevitabilità del terremoto e ai “falsi allarmi” del ricercatore Gianpaolo Giuliani, che aveva previsto un

catastrofico terremoto nella zona di Sulmona (vedi http://www.youtube.com/watch?v=t1nKz1r42V8).

4 - “Il sole in Vaticano”, L’Osservatore Romano, 26/10/2008 - http://vaticandiplomacy.wordpress.com/2008/11/26/

energia-solare-in-vaticano/

5 - “Rifiuti: Vaticano sempre più verde, raccolta differenziata al 42%”, L’Osservatore Romano, 10/01/2009 - http://

vaticandiplomacy.wordpress.com/2009/01/10/rifiuti-vaticano-sempre-piu-verde-raccolta-differenziata-al-42/

6 - “Vaticano, un bosco anti-inquinamento quindici ettari per compensare le emissioni”, Repubblica.it, 5/09/2007 -

http://www.repubblica.it/2007/09/sezioni/ambiente/vaticano-bosco/vaticano-bosco/vaticano-bosco.html

7 - “Per i denari di Pietro è quiete nella tempesta”, Vaticano, 30/01/2009 - http://vaticano.noblogs.org/

post/2009/01/30/per-i-denari-di-pietro-quiete-nella-tempesta

8 - “Il cuore oscuro dell’Italia”, Tobias Jones, Rizzoli, Milano, 2003

9 - “Vaticano S.p.a.”, Gianluigi Nuzzi, Chiarelettere, 2009

10 - Inchiesta de “LA REPUBBLICA” sui costi della Chiesa Cattolica, Curzio Maltese, Ottobre-Dicembre 2007

11 - “Vaticano S.p.a.”, Gianluigi Nuzzi, Chiarelettere, 2009

12 - “Vaticano S.p.a.”, Gianluigi Nuzzi, Chiarelettere, 2009

13 - “Ciò che vi dico nelle tenebre ditelo in piena luce, ciò che vi si dice negli orecchi predicatelo dai tetti” [Matteo

10,27]

APPROfONDIMENTI

Gianluigi Nuzzi, Vaticano S.p.a., Chiarelettere, 2009; Jacopo Fo, Sergio Tomat, Laura Maluccelli, Il libro nero del

Cristianesimo, Nuovi Mondi Media, 2005; Tobias Jones, The dark heart of Italy, Faber and Faber, 2003; Ludwig

Feuerbach, Essenza della Religione, Laterza, 2006

http://www.vatican.va. http://www.ratzingerbenedettoxvi.com, http://www.carta.org, http://www.articolo21.

info. http://www.abruzzopedia.com/, http://vaticano.noblogs.org, http://voglioscendere.ilcannocchiale.

it, http://paparatzinger2-blograffaella.blogspot.com/, http://www.pastoralespiritualita.it, http://miskappa.

blogspot.com/, http://cronachedalmiocaos.blogspot.com/, http://www.laquilacittafutura.it/, http://

terremoto09.wordpress.com/, http://blogpw.terremotolaquila.net/

NOTE E RIfERIMENTI

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Si è laureata in Media e Giornalismo e lavora come blogger, reporter e fotoreporter freelance. E’ la

fondatrice di Altri Occhi, blog di approfondimento sul reportage a 360 gradi, su cui ha pubblicato

diversi reportage letterari e fotografici di denuncia: i senzatetto a Firenze, il potere del Vaticano,

le discariche abusive in Campania, il terremoto in Abruzzo, il ponte sullo Stretto, l’alluvione di Mes-

sina. Ha appena realizzato un reportage in Senegal e sta lavorando a un progetto di inchiesta sulle

centrali nucleari in Sardegna.

Ha collaborato con Colors Magazine, Peacereporter, Carta, Altri, Le Voci del Villaggio, Il Mucchio

Selvaggio e Il Reportage; a breve comincerà uno stage nella redazione di Internazionale. Cura anche

Creativity&Communication, blog di scrittura creativa.

vALERIA gENTILE

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Testi e foto

Valeria Gentile

http://valeriagentile.com

http://igrandireportages.blogspot.com

Edizione a cura di Antonio Sofi

per Webgol Network

MAGGIO 2010

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Redazione

Santa Di Pierro

Impaginazione grafica

Rebecca Pacini