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1 STORIA DELL’IRI, vol.IV: INTRODUZIONE (Roberto Artoni) Introduzione Nel 1992 l’Iri era il maggior gruppo industriale italiano con oltre 1000 imprese e 400000 addetti operanti praticamente in tutti i settori produttivi (fig.1). Dopo 8 anni, all’esito di un processo di privatizzazione o di trasferimento di quote azionarie al Ministero del Tesoro, l’Iri era ridotto a una holding cui facevano capo una società di navigazione e due holding, operanti rispettivamente nei settori dell’ingegneria e della cantieristica (Ravazzi p.43). Figura 1: Il gruppo IRI al 31.12.1992 Fonte: Ravazzi

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STORIA DELL’IRI, vol.IV: INTRODUZIONE 

(Roberto Artoni) 

 

Introduzione 

Nel 1992  l’Iri era  il maggior gruppo  industriale  italiano con oltre 1000  imprese e 400000 addetti operanti 

praticamente in tutti i settori produttivi (fig.1). Dopo 8 anni, all’esito di un processo di privatizzazione o di 

trasferimento di quote azionarie al Ministero del Tesoro,  l’Iri era ridotto a una holding cui facevano capo 

una  società  di  navigazione  e  due  holding,  operanti  rispettivamente  nei  settori  dell’ingegneria  e  della 

cantieristica (Ravazzi p.43). 

Figura 1: Il gruppo IRI al 31.12.1992 

 

 

Fonte: Ravazzi 

   

2  

 

 L’Iri  fu  infine  posta  in  liquidazione  nel  dicembre  del  2002;  dopo  altri  trasferimenti  di  partecipazioni  al 

Ministero del Tesoro, le attività residue furono fatte confluire in Fintecna. Nel periodo 1992‐2002 gli incassi 

da dismissioni di  imprese o finanziarie rientranti nell’IRI ammontarono complessivamente a 56 miliardi di 

euro, pari a circa il 40% degli incassi da dismissioni effettuate in quel periodo (tab.1). 

Tabella 1: I proventi delle privatizzazioni dell’IRI dal1992 al 2002 

Tipologie IRI Finanziarie Totale

Cessioni di quote di controllo 43,09 4,33 47,42

Cessioni di aziende o rami di aziende 0,24 0,24

Totale privatizzazioni effettive 43,09 4,57 47,66

Cessioni di quote minoritarie 2,44 5,29 7,73

Cessioni di immobili e altri cespiti 1,06 1,06

Totale risorse reperite 45,53 10,92 56,44

Percentuale di oneri totali sostenuti 1,40 4,54 2,01

Fonte: Ravazzi 

La  liquidazione  dell’Iri  e  le  privatizzazioni  che  la  precedettero  furono  il  risultato  di  processi  decisionali 

complessi  e  di modalità  di  realizzazione  articolate,  in  cui  possono  essere  riconosciute  sia  l’influenza  di 

circostanze oggettive, sia la ricerca di assetti ritenuti più moderni del nostra sistema economico. Oggi può 

essere espresso un giudizio sufficientemente meditato di un’esperienza che ha certamente trasformato  il 

nostro sistema produttivo. Si possono ormai cogliere sia gli aspetti positivi, sia i limiti e le omissioni in sede 

di realizzazione.  

Anticipando  i  temi che affronteremo  in questa  introduzione,  fra  le circostanze oggettive  rientra  in primo 

luogo la crisi valutaria che investì l’economia italiana nel primi anni ’90: la politica economica assunse allora 

ad obiettivo essenziale  la stabilizzazione del nostro sistema finanziario attraverso  la riduzione del tasso di 

inflazione  e  il  riequilibrio  della  bilancia  dei  pagamenti.  Furono  adottati  sia  provvedimenti  restrittivi  di 

finanza  pubblica  (fra  i  quali  rientrava  anche  il  drastico  ridimensionamento  del  ruolo  del  Tesoro  nel 

finanziamento del sistema delle imprese pubbliche), sia rilevanti modifiche del funzionamento del mercato 

del lavoro.  

La seconda circostanza all’origine del processo di liquidazione dell’IRI traeva origine dalla difficile situazione 

finanziaria dell’istituto. Lo squilibrio finanziario poteva essere letto alternativamente come il riflesso di una 

situazione di difficoltà  concentrata  in alcuni  settori,  su  cui  sui era  colpevolmente  tardato ad  intervenire, 

oppure  come  una  manifestazione  del  superamento  del  modello  dell’impresa  pubblica  nella  specifica 

caratterizzazione  italiana.  Prevalse  di  fatto,  anche  per  sollecitazioni  provenienti  dagli  organi  comunitari, 

questa seconda interpretazione.  

Associato alla valutazione critica della  funzione e dei comportamenti dell’impresa pubblica, nell’avvio del 

processo  di  privatizzazione  giocò  infatti  un  ruolo  determinante  anche  l’attivazione  del Mercato  Unico 

europeo. L’assimilazione di ogni conferimento dell’azionista pubblico ad aiuti di Stato precludeva di  fatto 

qualsiasi possibilità di rafforzamento della struttura finanziaria delle imprese dell’IRI. In queste circostanze, 

quando  le  perdite  si  rivelavano  consistenti,  la  ricerca  di  strutture  proprietarie  alternative  si  imponeva, 

essendo praticabile come unica via alternativa il fallimento. 

3  

Infine,  l’accettazione delle progressiva  liquidazione trovò un supporto di natura culturale o  ideologica, nel 

senso  che  tutte  le  forze  politiche  ritennero  di  fatto  esaurita  l’esperienza  dell’Iri  iniziatasi  oltre  50  anni 

prima. Questa unanimità valutativa era non solo alimentata da alcune esperienze  fallimentari di gestione 

delle imprese pubbliche per larga parte estranee al gruppo IRI, ma anche dalla lettura del tutto positiva del 

processo di privatizzazione in corso da alcuni anni in molti paesi, in particolare nel Regno Unito. 

Al di  là delle  circostanze  da noi definite oggettive,  la privatizzazione delle  imprese pubbliche  era  anche 

considerata,  in  modo  sostanzialmente  acritico,  uno  strumento  efficace  di  modernizzazione  del  nostro 

sistema economico. Gli anni ’80, pur in un contesto di elevata inflazione e di squilibri della finanza pubblica, 

erano  stati  caratterizzati  da  rilevanti  successi  della  grande  impresa  privata  italiana  anche  in  settori 

tecnologicamente avanzati. Sembrava conseguente ritenere che fosse possibile, senza particolari difficoltà, 

trasferire  le positive esperienze dell’impresa privata al  settore pubblico,  in preda,  come già osservato, a 

crescenti difficoltà.  

Si riteneva poi che le potenzialità di sviluppo dell’economia italiana fossero compromesse dal’insufficiente 

spessore dei mercati  finanziari,  in particolare di quello azionario. Di nuovo,  tentando di  replicare gli esiti 

della privatizzazioni azionarie nel Regno Unito in termini di diffusione dell’azionariato , le dismissioni delle 

imprese pubbliche  furono considerate uno strumento  fondamentale per potenziare  i  listini, superando  la 

consolidata propensione del risparmiatore  italiano all’acquisto quali esclusivo di titoli di Stato. Non a caso 

negli anni ’90 le privatizzazioni furono associate a rilevanti innovazioni nella regolamentazione dei mercati 

finanziari e ad una riforma pensionistica che introduceva i fondi pensione a contribuzione definita. 

Affidamento del  controllo delle  imprese già pubbliche a  imprenditori privati e diffusione dell’azionariato 

popolare  imponevano  comunque  scelte  riguardanti  le modalità  di  vendita  delle  azioni:  si  oscillò  fra  la 

creazione di noccioli duri e offerte pubbliche di vendita, senza che un modello prevalesse sull’altro. 

D’altro canto, la privatizzazione delle imprese operanti in regime di monopolio naturale, alcune delle quali 

presenti nel gruppo Iri, richiedeva, anche se le realizzazioni furono solo parziali,  la creazione di autorità di 

controllo  indipendenti.  Si  voleva  evitare  che  ad  un  monopolista  pubblico  obbligato  a  rispondere  alle 

pubbliche  autorità  si  sostituisse  un  monopolista  privato  non  controllato  nelle  sue  scelte  e  nei  suoi 

comportamenti. 

Rinviando  per  un  esame  dettagliato  di  queste  tematiche  ai  singoli  capitoli,  si  possono  ormai  avanzare 

alcune  ragionate valutazioni sugli esiti del processo di privatizzazione, concluso per quanto  riguarda L’IRI 

nel 2002, ma praticamente bloccato negli anni  successivi per  le altre  imprese di proprietà pubblica; oggi 

rimane il controllo pubblico, dopo privatizzazioni parziali, di Enel e Eni e Finmeccanica.  

In  termini  generali,  si dovrà esaminare  se  l’affidamento  a  imprenditori privati ha  corrisposto  alle  attese 

fortemente ottimistiche dei primi anni  ‘90 e  se  i mercati  finanziari  si  sono  sviluppati così come previsto, 

contribuendo  alla  crescita  sociale  ed  economica  di  lungo  periodo  del  paese.  In  termini  più  dettagliati, 

dovranno  essere  valutati  gli  effetti delle privatizzazioni delle banche  di  interesse nazionale  facenti  capo 

all’Iri, delle  imprese di  telecomunicazione e della  società concessionaria delle autostrade. Le conclusioni, 

come vedremo, sono perlomeno problematiche. 

 

 

 

4  

La crisi del 1992 

Nel 1992 si scatenò in Europa una violenta crisi valutaria che portò nel settembre di quell’anno all’uscita dal 

Sistema Monetario Europeo dell’Italia, e dopo pochi giorni, del Regno Unito. Le nostre autorità di politica 

economica risposero alla crisi valutaria accettando, in primo luogo, una consistente svalutazione della lira e, 

in secondo luogo, varando numerosi provvedimenti che incisero fortemente nel breve e nel medio periodo 

sugli assetti economici e sociali del nostro paese. Si inaugurò di fatto una stagione ad evidente ispirazione 

neoliberista che si caratterizzò allora per significativi  interventi sul mercato del  lavoro,  tesi ad  introdurre 

una  maggiore  flessibilità,  per  l’introduzione  di  vicoli  all’espansione  della  spesa  sanitaria  e  di  quella 

previdenziale e per l’avvio del processo di privatizzazione delle imprese pubbliche. 

Al  fine  di  inquadrare  il  contesto  in  cui maturò  la  crisi  del  ’92,  si  può  qui  sinteticamente  ricordare  che 

l’economia  italiana partecipò pienamente alla  lunga  fase espansiva del quinquennio 1983‐88 con  tassi di 

crescita medi  superiori  a quelli degli  altri paesi  europei. Nel 1988,  il  tasso di  crescita  in  termini  reali  fu 

superiore  al  4%,  con margini  di  profitto  ai massimi  storici  e  in  situazione  di  sostanziale  equilibrio  delle 

partite corrente e della bilancia commerciale.  

Gli  elementi  critici  della  nostra  situazione  economica  erano  costituiti  da  un  differenziale  d’inflazione 

superiore a quello degli altri paesi europei (peraltro riconducibile alle politiche svalutazionistiche adottate a 

partire dal 1973) e ad un debito pubblico superiore al 100% del pil. L’indebitamento, e di conseguenza  la 

dinamica del rapporto debito prodotto, era determinato anche dall’esplosione degli oneri per  interessi,  in 

Italia decisamente superiori a quelli pur elevati vigenti a livello internazionale. Si può anche aggiungere che 

il disavanzo primario  era  alla  fine del decennio  in  flessione  rispetto  agli  elevati  livelli dei primi  anni  ’80 

(tab.2). 

Tabella 2: Indicatori di finanza pubblica (%pil) 

1984 1988 1991 1992 1995 1998 2002 2006 2010

entrate totali 38,5 40,2 43,8 46 45,6 46,5 44,9 45,8 46,6

spese al netto interessi 43 43 43,7 44 41,7 41,3 41,9 44,5 46,7

interessi 8 7,9 10,2 2,6 11,5 8 5,6 4,7 4,5

avanzo primario -3,9 -2,8 -0,1 2 3,9 5,2 3,4 1,3 -0,1

indebitamento 12,5 10,7 10,1 10,7 7,6 2,8 2,3 3,4 4,6

debito 76,3 92,9 100,5 107,6 123,7 116,3 106,7 106,6 119

Fonte: Banca d’Italia 

 

L’Italia, come gli altri paesi europei, risentì della recessione, originata negli Stati Uniti, del triennio 1898‐91. 

Il  tasso  di  crescita  scese  in media  all’1%  con  un  differenziale  d’inflazione,  rispetto  alla media  dei  paesi 

industrializzati, superiore al 3%. In quegli anni cominciarono a manifestarsi difficoltà nei conti con  l’estero 

del nostro paese: in particolare, peggiorò fortemente il saldo delle partite correnti, nonostante che il saldo 

commerciale  continuasse  ad  essere  in  equilibrio.  Il peggioramento del  saldo  corrente derivava dal  forte 

incremento del flusso dei redditi di capitale. Si manifestarono allora in uscita gli effetti della liberalizzazione 

dei movimenti di  capitale  che  spingeva  i  residenti  italiani  ad  acquisire  attività  sull’estero. D’altro  canto, 

l’elevato livello relativo dei nostri tassi d’interesse induceva nel nostro paese consistenti flussi di capitali a 

breve  di  origine  bancaria,  per  loro  natura  fortemente  volatili  e  facilmente  reversibili  al  mutare  delle 

circostanze e delle aspettative. Il 1992 fu comunque caratterizzato a livello europeo da forti turbolenze che 

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imposero  ripetuti  riallineamenti all’interno dello SME,  investendo con  forza anche un paese centrale nel 

contesto  finanziario  mondiale  come  il  Regno  Unito.  Il  risultato  fu,  come  già  ricordato,  l’uscita  anche 

dell’Italia dal Sistema Monetario Europeo. Infatti l’esportazione di capitali di residenti e il rientro dei capitali 

esteri  impiegati a breve nel nostro paese, movimenti determinati da aspettative di svalutazione della  lira 

(che come insegna la storia tendevano ad autorealizzarsi), resero insostenibile il mantenimento del cambio 

(Devillanova). 

Il Governo  intervenne con  le misure prima sintetizzate, ottenendo come effetto  immediato  il rientro delle 

pressioni speculative ad un livello sensibilmente inferiore del cambio della lira. Positivi risultati in termini di 

contenimento del  tasso d’inflazione  relativo  furono poi  rapidamente  raggiunti,  rendendo possibile per  la 

diminuzione dei tassi d’interesse che ne derivò una drastica diminuzione degli oneri finanziari a carico del 

bilancio  statale e, quindi, dell’indebitamento pubblico. Con un  riferimento  temporale esteso al 1998, un 

incremento non drammatico delle entrate tributarie (3 punti di pil nel periodo 1991‐98) e un’apprezzabile 

riduzione  delle  spese  pubbliche  nello  stesso  periodo  (quasi  2  punti,  peraltro  concentrata  nelle  spese  in 

conto capitale) portarono, oltre che alla diminuzione degli oneri finanziari di 5 punti, ad un indebitamento 

inferiore  ai  3  punti,  ad  un  avanzo  primario  elevato  (pari  a  6  punti)  e  ad  una moderata  riduzione  della 

consistenza del debito pubblico, circa 10 punti (tab.2). 

Sulla  riduzione  non  particolarmente  consistente  dello  stock  di  debito  pubblico  hanno  influito  i  tassi  di 

crescita degli anni ’90, dell’ordine del 2%,  inferiori non solo a quelli del decennio precedente, ma anche a 

quelli registrati nella media dei paesi industrializzati (tab.3).  

Tabella 3: Tassi di crescita del prodotto interno lordo pro capite  

1951-72 1973-82 1983-1992 1993-2002 2003-2009 Stati Uniti 2,4 1,3 2,4 2,0 1,6 Italia 4,6 (1) 2,8 2,3 1,4 0,3 Francia 4,0 2,1 1,7 1,5 1,2 Germania 5,1 2,0 1,8 1,1 1,6 Regno Unito 2,3 1,4 2,2 2,3 1,9

Fonte: Devillanova 

Si deve anche aggiungere che nell’ultimo decennio del secolo scorso, si registrò un ulteriore spostamento 

nella distribuzione del reddito a scapito della quota di lavoro o, come scrive la Banca d’Italia, “la quota del 

capitale sul valore aggiunto al costo dei fattori ha raggiunto nel 2001 livelli storicamente elevati”. Non è 

probabilmente inappropriato associare la ridotta crescita dell’economia italiana a partire dagli anni ’90 

anche alla modesta dinamica dei consumi, a sua volta largamente determinata dal processo di 

concentrazione nella distribuzione del reddito. 

La lettura a posteriori dei provvedimenti di politica economica dei primi anni ’90 deve essere scissa in due 

componenti,  la prima delle quali porta a conclusioni positive, mentre  la seconda solleva difficili problemi 

interpretativi.  

Da un  lato,  si deve  sottolineare che gli  interventi presi  in una  situazione di emergenza  finanziaria hanno 

consentito  di  raggiungere  gli  obiettivi  di  riduzione  del  tasso  d’inflazione  interno  e  di  contenimento 

dell’indebitamento pubblico collocando il nostro paese a livelli europei; sono stati cioè creati i presupposti 

per l’adesione dell’Italia ai processi di costruzione di importanti istituti comunitari.  

D’altro  lato,  a  partire  dalle  scelte  di  quegli  anni  si  sono  manifestati  fenomeni  involutivi,  che  si  sono 

accentuati negli ultimi anni (Devillanova). Utilizzando l’indicatore più banale, proprio a partire dagli anni ’90 

6  

il  tasso di  crescita della nostra economia è  risultato  inferiore a quello dei principali paesi europei. Molti 

fattori hanno operato in senso negativo: noi abbiamo richiamato la concentrazione del reddito, altri hanno 

sottolineato l’assenza di adeguati stimoli competitivi, oltre all’effetto inibente di un debito pubblico rimasto 

di rilevanti dimensioni, anche per la modesta crescita dell’economia (tab.3).  

In questa sede conviene però soffermarsi sugli effetti in termini di crescita del sistema che possono essere 

ragionevolmente  ricondotti  al  processo  di  privatizzazione  avviato  a  partire  dal  1992.  Ci  dobbiamo  cioè 

chiedere se le modificazioni degli assetti proprietari che ne seguirono furono fattori positivi per la struttura 

e  la vitalità del nostro apparato produttivo o se  invece una diversa gestione del processo avrebbe potuto 

portare ad esiti migliori, pur nello stesso quadro macroeconomico. 

 

La situazione finanziaria dell’IRI 

Al di  là delle politiche di  stabilizzazione  varate  a  seguito della  crisi  valutaria de 1992  (in  cui  rientrava  il 

ridimensionamento  dei  conferimenti  pubblici  alle  partecipazioni  statali)  le  dismissioni  delle  imprese 

pubbliche  furono  determinate  anche  dalla  difficile  situazione  del  gruppo  IRI.  Sotto  questo  profilo 

motivazioni interne si sovrapposero a quelle d’origine internazionale. 

La situazione finanziaria del gruppo IRI può essere sinteticamente descritta, considerando in primo luogo i 

debiti  finanziari  lordi,  che  ammontavano  nel  1992  a  82000 miliardi,  con  un  aumento  rispetto  all’anno 

precedente di 14000 miliardi  (nel 1999 quando  il processo di vendita delle aziende  IRI era praticamente 

completato  la consistenza del debito era scesa a 21000 miliardi).  Il rendimento del capitale si collocava a 

livello accettabile, anche se l’entità degli oneri finanziari assorbiva larga parte dei risultati operativi, con la 

conseguenza che il risultato d’esercizio risultò negativo per 4000 miliardi nel 1992 (come lo era stato per un 

importo  inferiore nel 1991).  Il  risultato d’esercizio  tornò ad essere positivo a partire dal 1995. Possiamo 

ancora  ricordare  che  la  leva  finanziaria netta  (pari  al  rapporto  fra debiti  finanziari al netto delle attività 

finanziarie,  e  capitale  di  rischio)  era  pari  all’unità  nel  1992,  un  livello  certamente  elevato  (Ravazzi, 

Appendice Statistica p.57). 

I risultati consolidati del gruppo  IRI riflettevano andamenti profondamente differenziati dei diversi settori 

operativi, che a loro volta erano diversamente suscettibili di essere collocati sul mercato. Accanto ad alcune 

imprese immediatamente vendibili, ve ne erano altre che, essendo monopoli naturali, avrebbero potuto in 

linea di principio essere  ceduti  solo dopo  la definizione di un appropriato quadro  regolatorio;  infine, un 

rilevante  numero  d’imprese  (quelle  rientranti  essenzialmente  nel  comparto  manifatturiero)  avrebbero 

potuto essere ceduti solo dopo più o meno radicali interventi di ristrutturazione. 

Ma  la di  là delle caratteristiche specifiche dei singoli settori o  imprese,  tempi e modalità del processo di 

privatizzazioni furono determinati dagli  interventi delle autorità comunitarie a seguito dell’attivazione del 

Mercato Unico. 

 

L’accordo Andreatta –Van Miert 

Un primo fattore rilevante per  la posizione dell’IRI e degli altri enti pubblici di gestione nelle operazioni di 

finanziamento  nazionali  e  internazionali  fu  la  trasformazione  di  questi  enti  in  società  per  azioni  con  il 

Tesoro azionista unico: nulla cambiava dal punto di vista sostanziale per quanto riguardava la posizione dei 

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creditori. La garanzia del rimborso di tutti i debiti contratti, prima esplicitamente a carico dello Stato, dopo 

la  trasformazione era  comunque operante  in quanto  lo  Stato era azionista unico. Tutti  i debiti  contratti 

dall’EFIM e dalle società controllate da questo ente al 100 per cento, dopo la sua liquidazione nel corso del 

1992,  furono  infatti  riconosciuti  dallo  Stato  senza  alcuna  discriminazione  fra  banche  italiane  ed  estere 

(Cavazzuti p.35).  

Emergeva  tuttavia  il  problema  della  compatibilità  del  Mercato  Unico  (la  cui  attuazione  richiedeva 

l’abolizione di tutte le barriere non tariffarie) con l’attività d’imprese in cui l’azionista unico Stato, per legge 

illimitatamente  responsabile,  era di  fatto  in  grado di distorcere  la  concorrenza  attraverso  il  sostegno  in 

teoria  senza  limiti  alle  imprese  controllate. Di  fatto,  come  sottolineava  Romano  Prodi  in  un  intervento 

parlamentare, l’orientamento della Commissione era nettamente favorevole a sostenere che gli apporti al 

fondi  di  dotazione  (la  tipica  forma  di  sostegno  finanziario  adottata  in  quegli  anni  a  carico  del  bilancio 

statale)  costituivano  sempre  ed  in  ogni  caso  aiuti  di  Stato  (Curli  p.17). A  ciò  si  aggiungeva  l’argomento 

avanzato dai produttori di altri paesi che nel processo di ristrutturazione europea dell’industria siderurgica 

gli apporti al  fondo di dotazione dell’IRI, poi destinati anche alle  imprese  siderurgiche del gruppo, erano 

fattore di distorsione della concorrenza e quindi incompatibili con il Mercato Unico. 

Se  gli  apporti  ai  fondi  di  dotazione  delle  imprese  pubbliche  da  parte  dell’azionista  Stato  erano  di  fatto 

assimilati ad aiuti  incompatibili con  il Mercato Unico, ma  se, nello  stesso  tempo, nel Trattato di Roma e 

nell’Atto Unico del 1986 non risultava alcuna preclusione di principio nei confronti delle imprese pubbliche 

(potenzialmente utile  strumento per perseguire  interessi nazionali  al di  fuori di pratiche distorsive della 

concorrenza  (Curli  p.15)),  il  problema  si  risolveva  nella  definizione  delle  legittime  modalità  di  attività 

riconosciute  alle  imprese  pubbliche.  La  soluzione  del  problema  appariva  particolarmente  ardua  per  un 

paese  come  l’Italia, per  il quale un  significativo  ritardo nello  sviluppo  rispetto a molti paesi europei era 

stato compensato per certi aspetti da una rilevante presenza pubblica nel settore manifatturiero, oltre che 

in quello bancario. 

L’accordo Andreatta‐Van Miert si propose di risolvere tutti  i problemi riconducibili all’esistenza di società 

per  azioni  totalmente  controllate  dallo  Stato,  originate  dalla  trasformazione  di  enti  pubblici  economici, 

assimilando  le  regole  che  avrebbe  dovuto  seguire  l’azionista  Stato  a  quelle  che  avrebbe  seguito  un 

investitore  privato  prudente.  Nello  stesso  tempo  questo  accordo  varò  una  sanatoria  per  il  passato, 

annullando le ipotesi ripetutamente ventilate negli anni precedenti di avvio di procedure per infrazione dei 

trattati comunitari. 

Conviene richiamare i punti essenziali dell’accordo Andreatta‐Van Miert, analiticamente esaminato in Curli; 

dalla sua applicazione derivarono infatti conseguenze importanti per l’intero processo di privatizzazione del 

gruppo IRI. 

Come primo punto,  il Governo  italiano, dopo  aver proceduto  alla quantificazione entro  la  fine del 1993 

dell’indebitamento degli  enti  trasformati  in  società per  azioni, nonché di  tutte  le  società  controllate dal 

Tesoro  per  una  percentuale  non  inferiore  al  99%,  si  impegnava  a  non  autorizzare  l’aumento 

dell’indebitamento di questi enti o  imprese. Si  riteneva  infatti dalla Commissione  che  la garanzia  statale 

implicitamente o  esplicitamente  concessa  alle  imprese pubbliche  italiane  avesse  agevolato,  rispetto  agli 

altri  operatori,  il  ricorso  al  debito,  determinando  distorsioni  alla  concorrenza;  nel medesimo  tempo  si 

qualificavano  come aiuti di  stato  i  conferimenti al  fondo di dotazione, precludendo  la possibilità di  farvi 

ricorso in futuro. 

8  

Il Governo italiano assumeva altresì l’impegno di ridurre il debito degli enti e delle imprese controllate fino 

ad  un  livello  giudicato  fisiologico,  “cioè  a  livelli  accettabili  per  un  investitore  operante  in  condizioni  di 

economia di mercato”. Il  livello fisiologico, calcolato, al di  là di altri dettagli, sulla base dell’indebitamento 

lordo  e  con  consolidamenti  ammessi  solo  con  un  riferimento  settoriale,  fu  poi  individuato  nel  60%  del 

capitale  investito; questo  livello doveva essere raggiunto nell’arco di 3 anni entro  la fine del 1966. Era poi 

sottoscritto da parte del Governo l’impegno ad evitare che si potesse configurare in futuro la responsabilità 

illimitata dell’azionista unico;  lo Stato doveva  in altri termini ridurre  la sua quota azionaria al di sotto del 

100%.  

Sulla  base  dei  dati  elaborati  in  conformità  all’accordo,  l’indebitamento  lordo  dell’IRI  (finanziario  e 

commerciale)  era  nell’ordine  dei  50000 miliardi,  quello  commerciale  pari  a  8000  e  l’ammontare  delle 

garanzie  e  impegni pari  a 23400 miliardi.  Su questi  importi  era  riconosciuta  la  responsabilità  finanziaria 

dello Stato  italiano; su questi  importi erano altresì calcolati gli obiettivi di riduzione del debito, riferiti sia 

alla  riduzione  per  23000  miliardi  dell’indebitamento  dell’IRI  sia  per  13600  alla  dismissione  o  alla 

liquidazione di numerose  imprese,  sia per 2600 miliardi  al  recupero di  risorse  in particolare nel  settore 

siderurgico (Curli p.36). 

 

Le privatizzazioni 

L’accordo  Andreatta–Van  Miert  definì  con  notevole  precisione  le  tappe  che  avrebbero  dovuto  essere 

seguite, e di fatto lo furono, nel processo di privatizzazione. Si completò in primo luogo l’uscita del gruppo 

IRI dal settore siderurgico, che,  in presenza di una crisi da sovracapacità produttiva a  livello europeo, era 

stata fonte di ingenti perdite cui si era fatto fronte da molti anni con il ricorso al debito a livello di gruppo e 

con  l’utilizzo dei  conferimenti  al  fondo di dotazione. Nel periodo  compreso  fra  il 1992 e  il 1996,  con  la 

cessione a imprese italiane ed estere degli impianti sfruttabili in condizioni di economicità e la liquidazione 

delle attività  invendibili  si  chiuse  la  lunga  storia della presenza pubblica nel  settore  siderurgico. E’  stato 

osservato  che  un  intervento  tempestivo  in  questo  settore  avrebbe  consentito  all’IRI  di  mantenere 

ragionevoli  livelli di  redditività, evitando  la  liquidazione dell’istituto negli anni  ‘90  (Ravazzi p.17). Si deve 

anche  ricordare  che  l’atteggiamento  ondivago  delle  autorità  italiane  nei  confronti  dell’Europa  (che 

subordinava  l’erogazione degli aiuti alle  imprese  siderurgiche alla  riduzione della  capacità produttiva)  fu 

causa di continue frizioni a livello comunitario, sfociati poi negli atteggiamenti molto severi che costituirono 

il presupposto dell’accordo Andreatta‐Van Miert. 

La riduzione del debito complessivo dell’IRI, nei  tempi molto stretti previsti, richiedeva che si procedesse 

alla dismissione delle attività  immediatamente vendibili,  fra  le quali  si  collocavano  le banche d’interesse 

nazionale: Credito  Italiano e Comit  furono dimesse attraverso un’offerta pubblica di vendita a partire dal 

1993, seguite nel 1997 dalla Banca di Roma. Fu anche possibile cedere alcune imprese operanti nel settore 

delle telecomunicazioni e delle costruzioni oltre che in quello alimentare; in queste operazioni di cessioni di 

singole  imprese  intervennero  ripetutamente  grandi  gruppi  esteri.  Le  esigenze  di  ristrutturazione  di 

Finmeccanica  (che  aveva  fra  l’altro  assorbito  numerose  imprese  del’EFIM)  impedirono    di  fatto 

privatizzazioni  anche  parziali,  fino  all’offerta  pubblica  di  vendita  nel  2000  del  50%  del  capitale  sociale: 

ancora oggi  circa  il  30%  del  capitale  sociale  è detenuto dal Ministero dell’Economia.  In modo del  tutto 

analogo risultò  impossibile  la privatizzazione delle attività connesse alle costruzioni navali, mentre furono 

realizzate a partire dal 1997 significative privatizzazioni nel campo del trasporto marittimo e aeroportuale 

9  

(non  dell’Alitalia  nel  periodo  da  noi  esaminato)  Una  dettagliata  descrizione  delle  operazioni  di 

privatizzazione è contenuta nella tab. 4. 

Tabella 4: Privatizzazioni dell’IRI dal 1992 al 2002 

Settori produttivi Eventi e realizzazioni

Bancario 1993: Cessione del Credito Italiano mediante offerta pubblica di vendita con un incasso di 930 milioni di euro correnti 1994: Cessione della Banca Commerciale Italiana mediante offerta pubblica di vendita con un incasso di quasi 1,5 miliardi di euro correnti 1997: Cessione della Banca di Roma mediante offerta pubblica di vendita con un incasso di circa un miliardo di euro (per 2/3 derivante da un prestito obbligazionario convertibile)

Finanziario (Cofiri) 2001: Vendita tramite trattativa diretta dell’intero pacchetto azionario (100%) posseduto da IRI con un incasso di oltre 0,5 miliardi di euro correnti

Siderurgico (ex ILVA) 1992: Cessione delle Acciaierie di Piombino per circa 190 milioni di euro al gruppo Lucchini e conferimento delle attività dell’ILVA a due nuove società: Acciai Speciali Terni (AST) e Ilva Laminati Piani (ILP) con lo scopo di ristrutturare le attività per poi privatizzarle 1993: Liquidazione dell’ILVA e delle attività siderurgiche non conferite all’AST e alla ILP 1994: Vendita della AST a una joint-venture tedesco-italiana di operatori siderurgici, controllata dal gruppo Krupp 1995: Cessione della ILP al gruppo italiano Riva per un controvalore di 1,2 miliardi di euro 1996: Vendita della Dalmine al gruppo italo-argentino Rocca per oltre 150 milioni di euro

Cementiero (Cementir) 1992: Cessione della Cementir al gruppo Caltagirone (circa 250 milioni di euro correnti) Meccanico: aerospaziale, difesa e alta tecnologia (Finmeccanica)

1992: Scioglimento dell’EFIM e conseguente acquisizione delle società Agusta, Oto Melara, Breda Meccanica Bresciana, Officine Galileo e SMA 1992: Trasformazione in S.p.A. e fusione con la controllata Sifa, al fine di quotarsi in borsa 1993: Incorporazione delle controllate Alenia, Elsag Bailey e Ansaldo 1996: Acquisizione di Breda Costruzioni Ferroviarie, integrata con Ansaldo Trasporti 1997: Definizione del piano industriale e di riassetto del gruppo 1998: Cessione della Elsag Bailey Process Automation 2000: Cessione di una rilevante quota del capitale sociale (54,2%) mediante OPV, mantenendo però il controllo pubblico (golden share e 32,4% delle azioni possedute dal Ministero del Tesoro); l’incasso complessivo è stato di 5,5 miliardi di euro

Cantieristico (Fincantieri)

1998: Piano di ristrutturazione 2000: Aumento di capitale sociale di Fincantieri e coinvolgimento di nove importanti istituzioni finanziarie, che consente all’IRI di portare la partecipazione dal 100% all’85% in vista dell’obiettivo di privatizzare completamente il settore

Costruzioni, impianti e autostrade (Iritecna - Fintecna)

1993: Costituzione di Fintecna, che incorpora le attività da valorizzare di Iritecna 1994: Liquidazione di Iritecna, proprietaria delle residue attività non recuperabili 1995: Vendita di Italimpianti a Mannesmann/Techint/Fiat 1997: Proroga di 20 anni (fino al 2038) della concessione alla società Autostrade con possibilità di operare nel settore dei servizi telematici; scorporo della medesima da Fintecna e trasferimento all’IRI (87% del capitale) 1997: Fusione per incorporazione dell’ILVA in liquidazione nell’Iritecna in liquidazione 1998: Cessione di Condotte Acqua a Ferrocemento, Italstrade a Astaldi, Garboli a Conicos 1999: Trasferimento da IRI a Fintecna di Sofinpar e delle residue società in liquidazione (Ifap-IRI, Isai, MMP e Finmare), allo scopo di razionalizzare le procedure liquidatorie; cessione di un gruppo di società (Ponteggi Dalmine a Marcegaglia, Italinpa a Saba, Coinfra a Ares Holding, Sovigest a una cordata di immobiliari) e vendita di Nuova Portello (immobili posseduti nell’area milanese del Portello) alla società Cristallo 1999: Vendita della prima tranche della società Autostrade (56,6%) al mercato mediante offerta pubblica di vendita con un incasso che ha sfiorato i 4,2 miliardi di euro 2000: Vendita del pacchetto di controllo della società Autostrade (30%) a una cordata formata da Edizione Holding S.p.A., da istituzioni bancarie (Fondazione Cassa di Risparmio di Torino e UniCredito Italiano S.p.A.) e assicurative (INA S.p.A.) e da operatori esteri del settore (Autopistas Concesionaria Espanola S.A. e Brisa Autostradas de Portugal S.A.) 2001: Vendita della SVEI, operante nel campo dell’ingegneria civile, allo Studio Altieri 2002: Cessione del controllo delle società Bonifica e Idrotecna

Trasporto marittimo (Finmare)

1997: Vendita delle società di linea Lloyd Triestino a Evergreen e Italia di Navigazione alla società privataD’Amico SA e riassetto del comparto cabotiero mediante costituzione della nuova capogruppo Tirrenia e apporto delle partecipazioni di Finmare in Adriatica, Caremar, Siremar e Toremar 1998: Trasferimento di Tirrenia a IRI (60%) e Cofiri (40%) 1999: Messa in liquidazione di Finmare e trasferimento della società a Fintecna 2000: Cessione a Mediobanca del 15% del capitale sociale di Tirrenia a fronte di un prestito obbligazionario convertibile; cessione della società Almare, ancora posseduta da Finmare 2002: Alienazione di cespiti smobilizzati da Tirrenia

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Trasporto aereo (Alitalia) e servizi aeroportuali

1995: Costituzione di Aeroporti di Roma Holding, che acquisisce da Fintecna e da Alitalia le azioni della società Aeroporti di Roma (ADR) 1997: Collocamento sul mercato a risparmiatori e investitori istituzionali – tramite COFIRI – di una quota minoritaria (45%) della ADR per un controvalore di oltre 300 milioni di euro 2000: Cessione mediante trattativa diretta della residua quota (54%) del capitale di ADR alla cordata Leonardo (51%) e a enti regionali (3%) con un incasso di oltre 1,3 miliardi di euro 2000: Trasferimento al Ministero del Tesoro della partecipazione in Alitalia

Alimentare (SME)

1993: Scissione del gruppo SME in tre società: SME S.p.A. per la distribuzione e la ristorazione; Italgel, finanziaria di settore del freddo, ceduta alla Nestlé per oltre 220 milioni di euro; Cirio-Bertolli-De Rica per il comparto alimentare, vendita per oltre 160 milioni di euro alla Società Agroalimentare Italiana (Sagrit), che successivamente cederà il comparto oleario Bertolli alla multinazionale olandese Unilever 1994: Cessione di una prima tranche delle azioni SME per oltre 370 milioni di euro 1996: Completamento della cessione delle partecipazioni residue della SME a Schemaventi S.p.A. e Crediop; la vendita di tutte le partecipazioni SME fruttò all’IRI un introito di oltre un miliardo di euro

Telecomunicazioni (STET)

1993: Trasformazione dell’ASST in Iritel per la successiva fusione con la SIP 1994: Incorporazione nella SIP di Iritel, Italcable, Telespazio e Sirm e modifica della denominazione sociale in Telecom Italia 1995: Scorporo da Telecom Italia dei servizi di telecomunicazione mobile e contemporanea costituzione della TIM (Telecom Italia Mobile), che viene quotata nella Borsa di Milano; Vendita di Italtel per un controvalore di oltre 0,5 miliardi di euro 1996: Scorporo di Seat S.p.A. (editoria tradizionale ed elettronica) e quotazione della medesima presso la Borsa Valori di Milano, per la successiva cessione; 1996: Trasferimento di STET (61,3% del capitale sociale) da IRI al Ministero del Tesoro a un valore di quasi 12,7 miliardi di euro correnti, consentendo il drastico abbattimento del debito dell’IRI e il conseguente riequilibrio economico-finanziario 1997: Cessione della Seat per un controvalore di circa 850 milioni di euro 1997: Incorporazione di STET in Telecom Italia e vendita da parte del Ministero del 39,5% del capitale sociale, per una quota minoritaria (6,6%) a un nucleo di controllo, presunto stabile, e mediante OPV per il residuo, incassando oltre 11,8 miliardi di euro 2002: Cessione del residuo 3,5% di azioni Telecom Italia, con un incasso di 1,4 miliardi di euro

Radiotelevisivo (RAI)

2000: Costituzione della RAI Holding con successivo trasferimento della partecipazioni IRI (99,5%) in RAI, la cui privatizzazione dipende dalla normativa sul nuovo assetto dell’emittenza televisiva

Fonte: Ravazzi 

 

11  

Ma il raggiungimento degli obiettivi di riduzione del debito previsti dall’accordo stipulato dal Governo 

italiano con la Commissione europea poteva essere ottenuto solo con la privatizzazione dei due monopoli 

naturali o quasi‐naturali facenti capo all’IRI: Stet (poi incorporata in Telecom) e Autostrade. Per quanto 

riguarda la Telecom il processo di privatizzazione non poté essere attuato entro la fine del 1996 per il 

ritardo con cui venne approvata l’istituzione dell’autorità di regolamentazione del settore. Il rispetto 

formale dell’accordo Andreatta‐Van Miert fu tuttavia ottenuto con il trasferimento del 61% del capitale 

sociale dall’IRI al Tesoro, con conseguente abbattimento del debito dell’Iri; dopo questa operazione il 

gruppo aveva raggiunto il pieno rispetto degli accordi assunti in sede comunitaria. Anche per quanto 

riguardava le società operative l’indebitamento si attestava a 12700 miliardi contro un impegno originario 

di 16300. Van Miert nel 1997 non poteva che esprimere, dal suo punto di vista, vivo apprezzamento (Curli 

p.43).  

Se considerata sotto  il profilo puramente  finanziario,  la vicenda della  liquidazione dell’IRI presenta alcuni 

aspetti  peculiari.  Ripercorrendo  le  tappe  essenziali,  il  problema  ebbe  origine  con  le  travagliate  vicende 

dell’EFIM, per  il quale  si pose  in dubbio da parte delle  stesse  autorità  comunitarie  l’obbligo dello  Stato 

italiano di soddisfare  tutti  i debiti delle  imprese coinvolte nel dissesto  (fra  i  finanziatori comparivano per 

importi  cospicui  banche  estere).  La  vicenda  EFIM,  associata  alle  turbolenze  valutarie  del  1992,  fu 

prodromica ad uno spostamento dell’attenzione sull’IRI, dove ad un rilevante indebitamento corrispondeva 

una  posizione  reddituale  certamente  non  drammatica  (Ravazzi  p.15).  Il  timore  dei  grandi  operatori 

finanziari  internazionali che si potesse  ipotizzare un default per  importi consistenti  (e comunque su scala 

molto  più  grande  di  quella  che  si  sarebbe  verificata  per  l’EFIM)  è  probabilmente  all’origine 

dell’atteggiamento della commissione che  impose, come abbiamo visto, una drastica riduzione del debito 

del gruppo IRI, a prescindere dalle attività dello stesso gruppo e delle prospettive reddituali.  

Un’ulteriore osservazione può essere avanzata. L‘obiettivo di riduzione del debito al 60% del rapporto fra 

debito e capitale investito coincideva con il valore del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo 

assunto,  in modo  fondamentalmente  arbitrario, nel  Trattato di Maastricht  come  indicatore di  equilibrio 

finanziario dei singoli stati.  

Rimane  il  fatto che  l’accordo Andreatta‐Van Miert  costituì  il viatico per un processo di dismissione delle 

imprese pubbliche facenti capo all’IRI al di fuori di ogni disegno complessivo di ragionata tutela di settori 

industriali  potenzialmente  determinanti  per  lo  sviluppo  economico  del  paese  (come  avremo modo  di 

vedere  in altre parti di questa  introduzione). L’unico  imperativo sembra essere stato quello di vendere al 

fine di soddisfare  l’obiettivo molto  ravvicinato nel  tempo di  ridurre  la consistenza del debito  lordo. Sulla 

base  di  quell’accordo,  pienamente  rispettato  salvo  il  ritardo  nelle  cessione  della  Stet,  gli  investitori 

internazionali non ebbero più  ragione di  temere un possibile default del gruppo  IRI. Nello  stesso  tempo, 

oltre per la concomitante cessione di importanti imprese manifatturiere a concorrenti stranieri, non si può 

escludere,  come ha osservato De Cecco,  l’impressione  che  la  vendita di  imprese pubbliche  sia  servita  a 

guadagnare credibilità nei confronti dei mercati finanziari internazionali, adottando procedure di vendita a 

loro ben accette (Devillanova p.15) 

Questo guadagno di credibilità può essere in primo luogo desunto dal peso delle privatizzazioni in termini di 

prodotto lordo particolarmente elevato in alcuni anni (tab 5). Alternativamente, si può fare riferimento allo 

spread fra i bund e i btp decennali, che dopo essere rimasto a livello elevato, superiore ai 500 punti fino a 

tutto il ‘95 (quando si verificò l’ennesima crisi valutaria che portò ad un forte deprezzamento nei confronti 

del marco) scese negli anni successivi fino a collocarsi nel triennio 1998‐2000 al di sotto dei 50 punti base 

(Cavazzuti p.15). 

12  

 

Tabella 5: Peso delle privatizzazioni sul Pil 

Anno Tesoro Gruppo IRI (2) Totale % PIL

1992 396 396 0,04%

1993 2,000 2,000 0,24%

1994 3,267 3,472 6,739 0,78%

1995 4,596 3,085 7,681 0,92%

1996 7,010 1,835 8,845 0,91%

1997 19,685 1,445 21,130 2,05%

1998 10,175 2,147 12,322 1,16%

1999 18,609 5,723 24,332 2,21%

2000 585 10,268 10,853 0,94%

2001 (3) 2,721 508 3,229 0,27%

Fonte: Libro Bianco sulle Privatizzazioni (2001) 

Ad  integrazione delle precedenti osservazioni possiamo qui ricordare che  la riduzione dei tassi d’interesse 

reali (oltre che di quelli nominali per effetto della riduzione dell’inflazione) associata alla formazione di un 

consistente avanzo primario è  stata  la causa della  riduzione del  rapporto  fra debito pubblico e prodotto 

interno dell’ordine di 7 punti (da 118 a 111) nel periodo 1993‐2000 (tab.4). Il risultato è stato certamente 

apprezzabile, ma nell’ultimo decennio del  secolo  scorso non  si  ripeté  il miracolo del periodo giolittiano, 

quando pur partendo da un elevato debito pubblico e da una situazione finanziaria fortemente perturbata, 

la stabilizzazione dell’economia fu associata ad una fortissima ripresa dell’economia reale. Allora  l’Italia si 

collocò  pienamente  nel  ciclo  di  crescita  dell’economia mondiale;  a  partire  dal  1992,  come  abbiamo  già 

osservato,  lo  sviluppo  dell’economia  italiana  è  stato modesto  in  termini  assoluti  e  relativi,  impedendo 

quella caduta del rapporto debito prodotto che in un contesto di più forte crescita sarebbe stato possibile. 

Tutto ciò si verificò, nonostante che si fossero create all’inizio del 2000 le condizioni propizie per una forte 

ripresa  del  processo  di  crescita.  Anche  in  relazione  a  questo  insoddisfacente  andamento  dell’economia 

reale deve essere letta l’esperienza delle privatizzazioni nel nostro paese. 

 

I presupposti politici e culturali delle privatizzazioni 

All’origine del processo di privatizzazione, e della velocità con cui è stato realizzato, si possono riconoscere 

fattori genericamente definibili politici e culturali. 

Deve essere preliminarmente sottolineato che era diffusa una valutazione negativa del ruolo svolto dalle 

partecipazioni  statali  a  partire  dagli  anni  ’80.  Era  emersa,  con  manifestazioni  sempre  più  evidenti,  la 

debolezza del management nei confronti delle autorità politiche,  in grado di  imporre scelte non coerenti 

con una gestione economicamente  corretta delle  imprese. Non a  caso osservatori  stranieri parlavano di 

rapporti  incestuosi  fra  politici  e management  (Curli  p.14). Questa  valutazione  ampiamente  condivisa,  e 

nella sua genericità per molti aspetti lontana dalla realtà, può spiegare perché nessuna delle maggiori forze 

politiche nei primi anni ’90 si schierò apertamente a difesa del sistema di imprese pubbliche. In pratica solo 

i  massimi  dirigenti  dell’IRI  tentarono  di  arginare  il  processo  di  privatizzazione  con  iniziative  di  fatto 

velleitarie  nel  loro  tentativo  di  conservare  l’esistente  (Cavazzuti  p.45).  Solo  quando  il  processo  risultò 

13  

irreversibile,  le  resistenze  cessarono,  come  risulta  chiaramente  dal  rispetto  dell’accordo  Andreatta‐Van 

Miert. 

Se risulta palese l’intenzione politica di chiudere l’esperienza dell’impresa pubblica come si era configurata 

nel nostro paese,  le esperienze che maturavano nel mondo occidentale spingevano nello stesso senso.  In 

particolare  il governo della Thatcher era  caratterizzato da una  robusta politica di privatizzazione  (con  la 

connessa drastica riduzione del potere dei sindacati) e dalla diffusione della proprietà azionaria fra i piccoli 

risparmiatori grazie al  collocamento  in borsa delle azioni delle  società privatizzate. Per effetto di queste 

scelte  governative  l’economia  britannica  sembrava  aver  ripreso  vitalità  e,  anche  se  qualche  incrinatura 

cominciò a manifestarsi con la crisi valutaria del 1992 che ebbe il suo epicentro nel Regno Unito, il modello 

inglese divenne  il riferimento  fondamentale di politica economica e sociale per  larga parte dei partiti del 

nostro paese. 

Ulteriori stimoli all’adozione di una politica di tipo britannico vennero anche dai risultati giudicati brillanti 

ottenuti  dalla  grande  imprenditoria  privata  italiana  nel  corso  degli  anni  ’80,  che  era  giudicata  del  tutto 

idonea  a  svolgere  il  ruolo  propulsivo  che  aveva  caratterizzato  le  partecipazioni  statali  nei  decenni 

precedenti.  Nella  Relazione  della  Banca  d’Italia  del  1989  si  sottolineava  con  compiacimento  che  le 

ristrutturazioni  dell’industria  manifatturiera  a  partire  dalla  fine  degli  anni  ’70  avevano  riguardato 

essenzialmente le grandi imprese operanti anche in settori tecnologicamente avanzati e si erano risolte  in 

forti  recuperi di efficienza  (ricordiamo  che alla  fine del 1989  il  livello dei profitti era ai massimi  storici). 

Contrariamente alle aspettative nel volgere di pochi anni il quadro complessivo cambiò radicalmente:come 

scrive Giuseppe Berta,  la posizione economica delle  imprese maggiori conobbe dunque un deterioramento 

che  non  venne  più  arrestato,  al  punto  da  porre  in  discussione  la  stessa  capacitò  di  alcune  fra  le  più 

importanti  società  italiane  (Montecatini  e  Olivetti).  E  ancora,  in  quegli  anni  cambiò  la  morfologia  del 

sistema  imprenditoriale…spostando  definitivamente  il  baricentro  in  direzione  delle  imprese minori  e  dei 

distretti  industriali  (in Devillanova p.18).  In  altri  termini,  il  fatto  che  i brillanti  risultati dell’imprenditoria 

italiana  negli  anni  ’80  siano  risultati  fugaci  e  che  l’imprenditoria  pubblica  non  sia  stata  adeguatamente 

sostituita è stato una delle cause che ha portato ad un esito problematico del processo di privatizzazione se 

giudicato  in  relazione alla  crescita del  sistema  (come abbiamo  visto) o  in  termini di  rafforzamento della 

base produttiva (come vedremo). 

In  questo  quadro  si  deve  sottolineare  che  era  comunque  presente  la  consapevolezza  che  l’IRI  dovesse 

riposizionarsi  nel  nuovo  contesto  economico  mondiale.  In  un’audizione  alla  Camera  del  1988  l’allora 

presidente dell’IRI, Romano Prodi, affermava che l’istituto doveva riconsiderare le proprie aree di presenza 

in coerenza con lo spirito originario della “formula IRI”. I settori da privilegiare si riferivano essenzialmente 

al  sistema  di  telecomunicazioni,  alle  infrastrutture  di  trasporto  e  ai  sistemi  connessi,  allo  sviluppo  di 

“software di sistema”, alle attività manifatturiere fortemente innovative dal punto di vista tecnologico, alle 

attività  impiantistiche  (Curli p.10). Rimane  il  fatto  che  la  liquidazione dell’IRI portò  al  totale  abbandono 

degli aspetti positivi della formula delle partecipazioni statali, senza che altri attori subentrassero in misura 

e secondo modalità adeguate. 

 

Gli obiettivi delle privatizzazioni 

Dalle  nostre  precedenti  osservazioni  emerge  che  con  le  privatizzazioni  una molteplicità  di  obiettivi  era 

perseguita. Era stato posto come obiettivo il contenimento degli squilibri di finanza pubblica, ma già allora il 

14  

Ministro del Tesoro osservò che non poteva essere quello l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni, per 

l’inadeguatezza dal punto di vista macroeconomico dello strumento (Cavazzuti p.11).  

Si voleva sollecitare l’interesse delle grandi case finanziarie internazionali, oltre che dei potenziali investitori 

nelle nostre imprese. In questo senso operò, come abbiamo visto, la riduzione della consistenza del debito 

del gruppo IRI, che nell’interpretazione degli operatori finanziari allontanò ogni ipotesi di default, anche per 

il  ruolo  che  le  grandi  banche  d’affari  straniere  ebbero  nella  collocazione  delle  azioni  delle  imprese 

privatizzate all’interno e all’estero. 

Si  poneva  anche,  e  alla  luce  dell’esperienza  successiva  forse  soprattutto,  un  problema  di  adeguamento 

delle nostre strutture produttive nei  termini puramente programmatici enunciati nel 1988 e per  il quale, 

scartata  l’ipotesi di  ripetere  l’esperienza delle  imprese pubbliche, dovevano  essere  individuati  gli  attori, 

tendenzialmente identificabili con le grandi imprese private. 

Per  l’adeguamento  della  nostra  struttura  produttiva  potevano  essere  seguite  due  vie,  per  larga  parte 

alternative: una linea attivista, che potremmo definire di politica industriale, e una linea non interventista o 

regolatoria degli assetti di mercato con  lo scopo di realizzare un quadro entro cui potesse svilupparsi una 

salutare concorrenza fra gli operatori.  

La  linea  attivista  non  è  mai  stata  oggetto  di  esplicita  formulazione  per  la  difficoltà  di  individuare 

interlocutori validi. L’unica eccezione, sul piano dell’enunciazione dei principi, può essere riconosciuta nella 

proposta del ministro Guarino di creare due  superholding, una  finanziaria e una  industriale, cui,  sotto  la 

direzione  del  Ministero  dell’Industria,  sarebbe  stato  affidato  il  compito  di  gestire  sia  il  processo  di 

dismissione, presumibilmente parziale, delle partecipazioni statali, sia la gestione delle proprietà pubbliche 

residue.  Ipotesi  di  politica  industriale  trovarono  poi  manifestazione  in  alcuni  documenti  ufficiali.  Nel 

programma  di  riordino  delle  partecipazioni  statali  del  1992  si  affermava  fra  l’altro  che  il  processo  di 

privatizzazione doveva “compiersi entro il quadro del nostro sistema industriale” (Cavazzuti p.16). Oppure, 

in una relazione della Commissione industria del Senato si affermava che tra gli elementi fondamentali da 

considerare  e  approfondire  in  un  efficiente  processo  di  privatizzazione  figurassero  le  condizioni  di  difesa 

degli interessi nazionali; la costituzione di poli produttivi tecnologici nazionali, con partecipazioni pubbliche 

e private, capaci di competere nel mercato globale  (Cavazzuti p.17).  Il  richiamo all’italianità,  inteso come 

una sorta di caratterizzazione di qualsiasi politica industriale nazionale, come osserva lo stesso Cavazzuti, si 

sarebbe riverberato in forma più o meno larvata e non esplicita su tutto il processo delle privatizzazioni, sia 

pure in un quadro di accettazione delle finalità concorrenziali. In termine di difesa dell’italianità può anche 

essere  spiegato,  e non necessariamente  condannato,  l’arresto delle privatizzazioni quando  si  è profilata 

l’eventualità della perdita del controllo pubblico o nazionale di ENI, ENEL e Finmeccanica. 

Se  l’opzione  di  una  politica  industriale  integrata  nelle  scelte  di  dismissione  non  trovò  mai  effettiva 

realizzazione,  tutto  il processo  è  stato  costruito,  almeno nelle  intenzioni,  con  il  fine di  creare  situazioni 

concorrenziali,  attraverso un  vasto piano di  liberalizzazioni peraltro  inquadrato  in un efficace  sistema di 

regolazione. Ad esclusione della liberalizzazione delle telecomunicazioni, imposta dall’Unione europea, non 

sembra peraltro  che  le  liberalizzazioni dei mercati nazionali  e  locali  siano  state  ad oggi particolarmente 

significative (Cavazzuti 16). 

 

 

15  

Gli strumenti collaterali alle privatizzazioni 

La creazione di  situazioni concorrenziali dopo  le privatizzazioni  richiedeva che  si compissero alcuni passi, 

riguardanti le modalità di vendita, la regolamentazione dei mercati finanziari, la creazione per alcuni settori 

di  autorità  di  controllo  indipendenti  ed,  infine,  l’eventuale  attribuzione  di  poteri  speciali  alle  pubbliche 

autorità in casi particolari. 

Per quanto riguarda le modalità di vendita, le opzioni fondamentali erano due: l’offerta pubblica di vendita 

a prezzo  fisso  (con una quota eventualmente riservata a  investitori  istituzionali) o  il collocamento diretto 

mediante  o  asta  pubblica  o  trattativa  diretta.  L’offerta  pubblica  di  vendita  era  compatibile  con  un 

azionariato  diffuso,  riconducibile  al modello  della  public  company  anglosassone,  oltre  che  ad  un  ruolo 

attivo degli investitori istituzionali (il cui sviluppo era prefigurato dalla riforma pensionistica approvata nel 

1995). A favore di questa modalità di collocamento, almeno nella fase iniziale delle privatizzazioni, stava la 

considerazione che  la forte concentrazione del controllo societario nel nostro paese avrebbe reso difficile 

un’effettiva apertura o democratizzazione del mercato mobiliare;  in altri  termini, una sana contendibilità 

sarebbe  stata  resa molto ardua da un’assegnazione delle azioni delle  società privatizzande per  trattativa 

diretta (Cavazzuti p.30). 

Il  modello  alternativo  della  trattativa  diretta,  sostanzialmente  riconducibile  al  nocciolo  o  nucleo  duro 

adottato  in  Francia,  richiedeva  l’individuazione  di  azionisti  disposti  a  condividere  una  strategia  comune 

(oltre  ad  impegnare  risorse  finanziarie)  in  una  logica  di medio  periodo.  La  vitalità  di  questo modello 

richiedeva,  in  altri  termini,  una  certa  idea  di  politica  industriale  (da  cui  sembravano  rifuggire  i  governi 

dell’epoca,  lontani  dall’accettare  i  suggerimenti  di  Prodi)  e  grandi  imprese  imprenditorialmente  capaci 

(cosa di cui si poteva dubitare a metà degli anni’90). 

Per le privatizzazioni delle banche d’interesse nazionale, le prime ad essere realizzate, fu seguito il metodo 

dell’offerta pubblica di vendita a prezzo  fisso: risparmiatori privati e  investitori  istituzionali sottoscrissero 

l’offerta. Le singole imprese del settore alimentare, di quello siderurgico e di quello delle costruzioni furono 

dismesse a trattativa diretta. Per Finmeccanica  fu collocato sul mercato con offerta pubblica di vendita  il 

50% del  capitale  sociale, pur mantenendo  il  controllo pubblico  con  il 32% del  capitale  sociale  in  capo al 

Ministero dell’Economia. 

I due casi più rilevanti furono quelli della dismissione dei due monopoli naturali, Telecom e Autostrade. Per 

entrambi si seguì un sistema misto. Insieme alla cessione di  larga parte del capitale sociale con un’offerta 

pubblica di vendita a prezzo fisso furono individuati due noccioli duri. Era di dimensioni limitate (coprendo 

circa  il 6% del capitale sociale, nonostante  l’elevato numero dei sottoscrittori)  il nocciolo che  intervenne 

nella  cessione di Telecom. Molto più  consistente, assorbendo  il 30% del  capitale  sociale,  il nocciolo  che 

acquisì  il  controllo di Autostrade  (tab.4). Ci  soffermeremo  in  seguito  sugli  effetti della privatizzazione di 

questi due settori. 

Sulla base della  successiva evoluzione non  si può dire che  il  tentativo di creazione delle public  company 

abbia avuto successo. Nel settore finanziario  le banche d’interesse nazionale confluirono dopo processi di 

aggregazione  fra banche di diversa origine  in gruppi di grandi dimensioni,  in  cui gli azionisti di  controllo 

sono  oggi  essenzialmente  le  fondazioni  di  origine  bancaria.  Il  nocciolo  duro  preposto  al  settore  delle 

telecomunicazioni  si  rivelò  estremamente  fragile  e  certamente  incapace  di  formulare  e  perseguire 

adeguate strategie. Anche perché protetto da un’ampia base azionaria, è rimasto  invece sostanzialmente 

stabile il gruppo di controllo di Autostrade, impresa comunque non operante in un contesto concorrenziale. 

16  

Nel modello  inglese  le privatizzazioni non erano solo strumento di efficienza  sulla base dell’assunto, non 

sempre verificato, che  le gestioni private sono sempre e comunque più efficienti di quelle pubbliche, ma 

erano anche viste come presupposto per  lo sviluppo dell’azionariato popolare e, quindi, di un gusto per  il 

capitalismo che avrebbe consentito  il superamento di  ideologie, nella visione dei conservatori  inglesi,non 

solo anacronistiche ma anche nocive per  lo sviluppo economico di un paese. Lo sviluppo di questo gusto 

per  il  capitalismo  richiedeva  tuttavia  che  fossero  verificate due  condizioni essenziali.  I mercati  finanziari 

dovevano essere trasparenti, garantendo una ragionevole protezione di tutti gli investitori che operassero 

sia direttamente sia attraverso  intermediari specializzati. Non doveva poi accadere che  le privatizzazione 

diventassero occasione di formazioni di rendite oggetto di appropriazione da parte dei privati, soprattutto 

nei settori in cui gli stimoli competitivi erano limitati per la presenza di rilevanti componenti di monopolio 

naturale.  Non  a  caso  a  queste  due  aspetti  collaterali  al  trasferimento  della  proprietà  pubblica  furono 

dedicati notevoli  interventi  legislativi, commendevoli nelle  intenzioni, anche  se non  sempre efficaci nelle 

concrete realizzazioni. 

Per quel che riguarda i mercati finanziari, il Testo Unico Bancario del 1993 cui fece seguito il Testo Unico di 

Finanza  del  1998  portò  alla  despecializzazione  del  sistema  bancario  e  creditizio  ed  alla  creazione  della 

banca universale,  cui  furono attribuite anche  le  funzioni delle banche di  investimento  (Barucci p.9). Alle 

banche fu anche consentito di partecipare al capitale sociale delle imprese; furono inoltre aboliti gli ostacoli 

alla presenza di banche estere. Come scrive Cavazzuti (p.43), i due testi unici ambivano anche in previsione 

delle privatizzazioni a  riportare  la  fiducia dei  risparmiatori  sui mercati  finanziari e consentire  loro di  fare 

scelte informate e consapevoli sulle combinazioni di rischio e rendimento dei titoli che volessero collocare 

nei  loro portafogli. Non più  sottoposto  a non necessari  vincoli di natura  amministrativa,  l’intermediario 

poteva svolgere  la sua attività al meglio nel  rispetto di un quadro di  regole ben definite e di  requisiti  sul 

patrimonio e sull’esposizione al rischio (Barucci p.10). 

La seconda classe di provvedimenti riguardava la predisposizione di strumenti che , da un lato, garantissero 

la  preservazione  di  assetti  concorrenziali,  là  dove  la  concorrenza  era  in  linea  di  principio  praticabile,  e, 

dall’altro, evitassero abusi nei settori in cui esistevano ineliminabili elementi di monopolio naturale. Già nel 

1990,  prima  dunque  che  iniziasse  la  stagione  delle  privatizzazioni,  fu  istituita  l’Autorità  garante  della 

concorrenza e del mercato. Più complicato fu invece il processo che portò (o non portò) all’istituzione delle 

autorità  indipendenti nei servizi di pubblica utilità o  in quei settori  in cui vigono condizioni di monopolio 

naturale, per  i quali una norma approvata nel 1994 stabiliva che  la dismissione delle partecipazioni dello 

Stato dovevano essere  subordinate alla  creazione di organismi  indipendenti per  la  regolarizzazione delle 

tariffe e controllo della qualità dei servizi di rilevante  interesse pubblico (Cavazzuti p.57). Solo nel 1997 fu 

creata  l’Autorità per  le Garanzie nelle Comunicazioni,  rendendo a partire da quella data possibile  l’avvio 

delle privatizzazione di Telecom, in cui erano confluite le imprese del settore ormai controllate dal Tesoro. 

Nulla di specifico è stato al contrario fatto per il settore autostradale, almeno fino a tempi recentissimi. 

Infine, alla tutela degli  interessi nazionali,  in assenza di una esplicita politica  industriale, furono  indirizzate 

le clausole relative ai poteri speciali. Negli statuti di Finmeccanica, ENEL, ENI e Telecom furono  introdotte 

norme  che  prevedevano  (o  prevedono)  sia  limiti  al  possesso  azionario,  sia  clausole  di  gradimento  per 

l’ingresso  di  nuovi  soci  e  contemplavano  potere  di  veto  attribuito  al  Tesoro  per  alcune  decisioni 

fondamentali. Anche  se per  la  loro genericità queste norme  sono  state dichiarate nel 2009  incompatibili 

con i trattati europei e anche se norme con analoghe implicazioni sono state utilizzate in altri paesi, appare 

evidente  che  le  esigenze  di  politica  industriale  si  sono  di  fatto  in  larga misura  trasformate  in  norme 

antiscalate (Cavazzuti p.56).  

17  

 

Gli effetti delle privatizzazioni. Il settore finanziario 

Negli anni  ’80 una  larghissima parte del sistema bancario e una buona parte di quello assicurativo erano 

sotto il controllo pubblico; a partire dai primi anni 2000 la diretta proprietà pubblica è stata completamente 

azzerata. Gli introiti dalle privatizzazioni di questo comparto hanno prodotto introiti per 30 miliardi, con un 

importante quota afferente alle dismissioni delle banche d’interesse nazionale facenti parte del gruppo IRI 

(Barucci p.2). 

Come sottolinea Barucci, alla base del processo di privatizzazione stava  l’obiettivo di sviluppare  i mercati 

finanziari, allargando  la partecipazione dei  risparmiatori, che dovevano essere adeguatamente protetti, e 

attribuendo  un  importante  ruolo  di  indirizzo  e  di  monitoraggio  agli  investitori  istituzionali.  Il  sistema 

finanziario, per riprendere un terminologia allora in voga e che rifletteva una lettura non sempre adeguata 

delle  esperienze  straniere  (come  hanno  dimostrato  i  crolli  del  2000  e  del  2008),  doveva  diventare  più 

mercatocentrico e meno bancocentrico. Questi orientamenti, associati all’apparente  ineluttabilità di una 

progressiva  integrazione  dei mercati  finanziari  internazionali,  portavano,  da  un  lato,  alla  riforma  delle 

regole  di  funzionamento  dei  mercati  finanziari  e,  dall’altro,  alla  privatizzazione  degli  intermediari  di 

proprietà  pubblica,  stante  l’assunta  superiore  capacità  allocativa  degli  operatori  privati.  Sui  contenuti 

essenziali del Testo Unico Bancario e del Testo Unico della Finanza ci siamo già soffermati. 

Rinviando al saggio di Barucci per un più dettagliato esame, qui ci possiamo semplicemente chiedere se le 

riforme  regolamentari  degli  anni  ’90  hanno  portato  ai  risultati  attesi. Una  prima  osservazione  riguarda 

l’evoluzione  degli  assetti  proprietari  dopo  le  privatizzazioni,  che  in  teoria  avrebbero  dovuto  essere 

fortemente  concorrenziali.  Abbiamo  già  osservato  che  le  prime  banche  d’interesse  nazionale  (Comit  e 

Credito  italiano)  sono  state privatizzate  con offerta pubblica di  vendita  cui hanno partecipato  sia piccoli 

risparmiatori sia investitori istituzionali, con la preferenza riservata ai primi. Ma la preferenza iniziale per la 

public company, implicita nella modalità di vendita adottata, si è scontrata con l’evoluzione successiva che 

ha portato all’acquisizione del controllo da parte di gruppi bancari di grandi dimensioni o alla formazione 

per aggregazioni successive di banche di grandi dimensioni. All’esito di un processo più che decennale oggi 

gli azionisti di  riferimento per  le banche d’interesse nazionale di origine  IRI  sono  le  fondazioni di origine 

bancaria. Allo stesso esito di confluenza in un grande gruppo portò anche l’esperienza della privatizzazione 

del Banco  di Roma  per  il  quale  fu  creato  all’origine  un  nocciolo  duro  (l’unica  eccezione  rilevante  fra  le 

banche d’interesse nazionale è costituita da BNL). Emerge il sostanziale fallimento del tentativo di pilotare 

l’evoluzione degli assetti proprietari delle  società  tramite  le privatizzazioni.  In  termini generali  il mercato 

finanziario è oggi più concentrato in termini di attivi che nel passato, con effetti potenzialmente dirompenti 

sulla stabilità del sistema (Barucci p.14)). 

Né le banche privatizzate, o i gruppi bancari di cui sono entrate a far parte, sono mai diventate investitori 

istituzionali  di  lungo  periodo  in  imprese  industriali.  Le  loro  partecipazioni  sono  sistematicamente  state 

collegate a situazioni di difficoltà delle imprese partecipate. 

D’altro canto,  le privatizzazioni sono sempre state considerate come strumento per migliorare  l’efficienza 

delle  imprese.  L’analisi  effettuate  da  Barucci  sul  complesso  delle  società  finanziarie  privatizzate  sembra 

confermare  questa  tesi. Oltre  che  indicare  un  forte  incremento  del ROE  (Return  on  Equity)  l’analisi  dei 

bilanci pre e post privatizzazioni fa emergere la diminuzione del peso delle retribuzioni sul totale dei costi, 

associato  ad  un  forte  aumento  dei  ricavi.  Come  era  logico  attendersi,  è  peraltro  aumentata  la 

18  

remunerazione degli azionisti  (il pay out è passato dal 35% al 56%) con una corrispondente diminuzione 

della patrimonializzazione delle società finanziarie privatizzate (Barucci p.19).  

La privatizzazione delle banche di proprietà pubblica e  le  connesse  riforme  regolamentari dovevano poi 

portare  anche  ad  un  significativo  irrobustimento  dei mercati  finanziari  del  nostro  paese,  che  avrebbe 

dovuto  trasformarsi  da  bancocentrico  a mercatocentrico.  La  conclusione  che  si  trae  dall’esame  dei  dati 

dell’ultime  decennio  è  che  le  imprese  italiane  continuano  ad  essere  sottocapitalizzate  e  dipendenti  dal 

credito bancario, senza modifiche sostanziali rispetto al periodo precedente. 

Da un lato, l’attività delle banche, privatizzate e non, si è ampliata nei comparti tradizionali di concessione 

dei  crediti  alle  imprese  con un  ruolo  limitato nello  sviluppo dei mercati  finanziari; dall’altro, ha  assunto 

particolare  rilievo,  sulla  base  degli  ultimi  dati  disponibili,  la  raccolta  tramite  l’emissione  di  obbligazioni 

bancarie collocate per circa 2/3 presso le famiglie e per1/3 presso gli investitori istituzionali (Barucci p.34).  

Se  le  precedenti  considerazioni  permettono  di  delineare  il  ruolo  svolto  da  quelle  che  erano  le  banche 

d’interesse nazionale nel più vasto quadro del sistema bancario nazionale, possiamo qui accennare anche 

alle caratteristiche assunte dal nostro sistema finanziario dopo le profonde trasformazioni, regolamentari e 

proprietarie, degli anni ’90. 

E’ mutata in primo la composizione della ricchezza finanziarie delle famiglie italiane. Confrontando il 1995 

con  il 2010 ad una diminuzione di circolante e depositi e di obbligazioni e titoli di stato ha corrisposto un 

aumento dell’incidenza di azioni e di risparmio previdenziale assicurativo. Devono essere sottolineate due 

peculiarità:  l’elevata  incidenza delle obbligazioni bancarie, come effetto delle modalità di raccolta seguita 

dalle banche  italiane negli ultimi anni, e  il possesso diretto  (non  intermediato d  fondi  comuni) di azioni 

quotate  e  non  quotate  (come  espressione  del  controllo  famigliare  di  larga  parte  del  nostro  sistema 

produttivo). 

Prescindendo dai  titoli del debito pubblico,  la domanda di attività  finanziarie  si  rivolge  in primo  luogo al 

mercato delle obbligazioni a medio e  lungo termine. La consistenza delle obbligazioni emesse era pari nel 

2010 a 1200 miliardi di euro, originanti per il 92% da banche e società finanziarie e per l’8% da società non 

finanziarie.  In quest’ambito,  sottolinea  la Banca d’Italia nell’ultima  relazione  (p.188),  circa  la metà delle 

emissioni  lorde complessive è  riconducibile unicamente a quattro grandi gruppi  (ENEL, ENI, Autostrade e 

Telecom),  mentre  la  quota  delle  imprese  di  non  grande  dimensioni  è  rimasta  contenuta.  Se  si  tiene 

presente che anche il settore finanziario è di origine essenzialmente pubblica, non si può non sottolineare 

l’assenza  delle  imprese  originariamente  private  da  uno  dei  due  comparti  fondamentali  del  sistema 

finanziario;  come  già  osservato,  l’indebitamento  avviene  essenzialmente  attraverso  il  canale  bancario, 

finanziato ormai in misura consistente con obbligazioni, che dovranno essere evidentemente rinnovate alla 

scadenza. 

Il secondo mercato rilevante è quello borsistico, al cui sviluppo le riforme degli anni ’90 attribuivano grande 

importanza. Questo mercato si è sviluppato negli ultimi venti anni, anche se violente oscillazioni dei corsi ne 

hanno fortemente ridotto le dimensioni in termini del rapporto fra capitalizzazione delle società quotate e 

pil: partendo dal 13%, un valore decisamente esiguo, del 1991 si è saliti al 70% nel 2000, il massimo, per poi 

ridiscendere al 27% del 2010, prima dell’ulteriore caduta nel 2011 (Barucci p.42). A ciò ha corrisposto un 

modesto aumento del numero delle società quotate (da 266 nel 1990 a 297 nel 2010). 

Pur  in vicende  caratterizzate da violente oscillazioni,  lo  sviluppo del mercato azionario  italiano ha  tratto 

essenziale alimento dalle privatizzazioni. In termini di capitalizzazione della borsa italiana a fine 2010 oltre il 

19  

61%  era  rappresentato  da  società  privatizzate,  comprendendo  anche  le  imprese  esterne  al  gruppo  IRI 

(Barucci p.42). In questo quadro deve essere infine ricordato che le privatizzazioni hanno significativamente 

contribuito  alla  diffusione  del  possesso  azionario  fra  i  risparmiatori  italiani,  come  implicitamente 

dimostrato dai dati relativi ai mutamenti nella composizione delle attività finanziarie verificatisi negli ultimi 

due decenni (Barucci p.48). 

A  conclusione  di  questo  paragrafo,  si  deve  sottolineare  che  ogni  valutazione  degli  effetti  della 

privatizzazione  delle  banche  d’interesse  nazionale  deve  essere  inserita  nel  più  vasto  quadro  delle 

trasformazioni, non solo riferite agli assetti proprietari, verificatisi nel nostro sistema finanziario, che a loro 

volta riflettevano quanto era già avvenuto nei paesi più avanzati. A ciò si aggiunga che nel momento in cui 

veniva  impostato  il  programma  di  trasformazione,  esisteva  una  sorta  di  consenso  universale  sulle 

caratteristiche di un sistema finanziario ottimale, che doveva essere despecializzato e regolato  in maniera 

certamente non rigida. L’Italia ha adottato quel modello con cautela e con i tempi necessari per introdurre 

modifiche  radicali  in  assetti  consolidati; oggi  si  sarebbe  probabilmente più  cauti nell’imitazione  e meno 

acritici nell’interpretazione delle esperienze altrui.  

Guardando ai risultati, è stato innescato un processo di concentrazione di banche, forse superiore a quello 

che era atteso. E’ stato registrato anche un significativo recupero di efficienza, come implicito nella scelta di 

privatizzazione.  I  problemi  che  oggi  deve  affrontare  il  sistema  bancario,  certamente  ardui,  non  sono 

riconducibili  al  processo  di  privatizzazione  in  quanto  tale, ma  riflettono  difficoltà  di  carattere  generale, 

nazionali e internazionali 

Non si può negare  tuttavia che alcuni degli obiettivi delle riforme degli anni  ’90 non sono stati raggiunti, 

soprattutto  sul  fronte  dello  sviluppo  dei  mercati  finanziari  e  del  coinvolgimento  di  imprese  che  non 

venissero  dalla  proprietà  pubblica. Nell’opinione  di  Barucci  (p.4)  l’azione  combinata  di  privatizzazioni  e 

liberalizzazioni ha portato ad un’espansione dell’attività bancaria  senza  lo  sviluppo dei mercati  finanziari 

che ci si attendeva: il ruolo del mercato (azionario e del debito), degli investitori istituzionali rimane limitato 

mentre cresce notevolmente –in controtendenza con ciò che avviene in Europa‐ il peso del debito bancari e 

delle obbligazioni bancarie nei bilanci delle aziende e delle famiglie, rispettivamente. 

 

Gli effetti delle privatizzazioni. Il settore delle telecomunicazioni. 

Il  settore  delle  telecomunicazioni  merita  particolare  attenzione,  sia  perché  ha  rappresentato  la  più 

consistente  fonte  d’introiti  nel’ambito  delle  dismissioni  del  gruppo  IRI,  sia  perché  costituisce  una 

componente  di  grande  rilievo  nella  struttura  industriale  di  un  paese.  Infatti  Telecom  Italia,  l’impresa 

oggetto dopo numerose aggregazioni di privatizzazione  integrale,  copriva e  copre un’area di attività  che 

include grandi  infrastrutture di rete ad alto contenuto  innovativo e un manifatturiero di alta tecnologia. Si 

aggiunga  che  in  questo  settore,a  differenza  di  altri,  il  nostro  Paese  ha  accumulato  nella  sua  storia  un 

patrimonio tecnologico non trascurabile (Mariotti p.7). 

Il processo di privatizzazione di  Telecom  è derivato  sia da una  sollecitazione di  carattere  generale della 

Commissione Europea (che riteneva correttamente che la telefonia vocale fosse un comparto suscettibile di 

liberalizzazione) sia dall’accordo Andreatta–Van Miert che, imponendo un drastico ridimensionamento del 

debito del gruppo IRI, di fatto richiedeva la dismissione di Telecom. 

20  

Riflettendo l’opinione allora largamente diffusa che i gruppi industriali privati fossero in grado di subentrare 

senza particolari difficoltà al management pubblico, si procedette alla dismissione, da parte del Ministero 

del  Tesoro,  con  un’offerta  pubblica  di  vendita  integrata  dalla  formazione  di  un  nocciolo  duro  aperto  ai 

maggiori esponenti del capitalismo privato e da una golden share attribuita al Governo. Di fatto il nocciolo 

duro  risultò  essere  di  dimensioni  a  dir  poco  esigue,  essendo  pari  a meno  del  7%  del  capitale. Questa 

situazione di  strutturale  instabilità  fu  la premessa per quattro  cambi del  gruppo di  controllo nel  giro di 

pochi  anni. A partire dal  2007  il  controllo  fa  capo  ad  alcune  società  finanziarie  e  assicurative  italiane  e 

straniere  e  all’operatore  telefonico  spagnolo.  Ad  ulteriore  dimostrazione  del  fatto  che  in  Italia  le 

privatizzazioni e le vicende che ne seguirono sono avvenute al di fuori di ogni disegno di politica industriale, 

possiamo qui ricordare che anche  in presenza di comportamenti non del tutto trasparenti  il Governo non 

esercitò mai i poteri riconducibili alla golden share (Mariotti p.9). L’esito fondamentale di questi passaggi di 

proprietà è stato, come sottolinea Mariotti,  la formazione di un grosso debito  in capo alla società, che ha 

condizionato fortemente le strategie di Telecom. 

Rinviando  per  un’analisi  dettagliata  a Mariotti,  per  la  straordinaria  evoluzione  tecnologica  degli  ultimi 

decenni e per i processi di liberalizzazione che ne sono conseguiti, i mercati dei singoli paesi si sono aperti 

inducendo, anche per l’effetto dell’ingresso di nuove imprese, da parte dei vecchi monopolisti nazionali o la 

ricerca di una diversa composizioni dei ricavi o l’espansione su nuovi mercati, sorretta da forti investimenti 

in ricerca.  

Per  quanto  riguarda  il  primo  punto,  con  una  quota  di mercato  pari  al  36%,  i  ricavi  della  Telecom  da 

telefonia mobile, particolarmente diffusa  in  Italia,  sono aumentati progressivamente  fino a  superare nel 

2003 quelli da telefonia fissa, dove peraltro  la quota di mercato dell’impresa nazionale, pari al 64%, è più 

difficile da erodere; sono invece inferiori alla media europea le connessioni in banda larga.  

Con  la presenza  sul mercato e  la  struttura dei  ricavi prima descritta, nel 2009,  la  redditività operativa di 

Telecom  è  stata  ampiamente  soddisfacente  (Mariotti  p.16)  in  termini  assoluti  e  relativi,  anche  e  forse 

soprattutto per una forte riduzione del numero dei dipendenti (da 126000 nel 1997 a 74000 nel 2009).  

Venendo agli aspetti problematici della  situazione della Telecom,  se paragonata a quella dei competitori 

europei, la crescita è stata tuttavia molto modesta; tutti i competitori sono al contrario cresciuti, là dove i 

dati  sono  comparabili,  a  tassi  significativamente  superiori. Nelle  parole  di Mariotti  la  spiegazione,  della 

mancata crescita di Telecom relativamente agli altri competitors e della drastica riduzione dell’occupazione, 

oltre  che  dalla  forte  dipendenza  dalla  telefonia  fissa  nella  struttura  dei  ricavi,  deve  essere  ricercata 

nell’evoluzione della sua struttura finanziaria, modificata profondamente dai leveraged buyouts e dai cambi 

di  proprietà  avvenuti  in  pochi  anni.  Il  debito  è  cresciuto  significativamente,  determinando  scelte  di 

disinvestimento e di razionalizzazione nella struttura dei costi  (p.18).  I dati dimostrano altresì che è stato 

fatto un uso del debito diverso da quello degli altri operatori, per questi ultimi strumento di finanziamento 

della  crescita, per Telecom vincolo. A  ciò  si è aggiunto  il  fatto  che  le  spese  in  conto  capitale  sono  state 

depresse, oltre  che dall’alto  livello del debito,  anche dall’elevata quota di utili distribuiti  sotto  forma di 

dividendi: in tutto il periodo successivo alla privatizzazione la percentuale di utile netto reinvestito, dopo la 

distribuzione dei dividendi, è stato pari alla modesta percentuale del 20%. 

Indebitamento  e  alto  livello  dei  dividendi,  assieme  all’instabilità  proprietaria  e  gestionale,  hanno  così 

imposto scelte che hanno segnato profondamente  l’evoluzione della società  in molte componenti del suo 

patrimonio industriale e tecnologico. 

21  

E’  stata  infatti  ridimensionata  la  presenza  internazionale  della  società,  rinunciando  all’ambizione  di 

conquistare  un  ruolo  di  operatore  globale,  assunto  ad  obiettivo  nel  periodo  pre‐privatizzazione.  Oggi 

Telecom è significativamente presente solo in Sud America, dove peraltro opera il suo maggiore azionista. 

L’incidenza  del  mercato  domestico  sul  fatturato  netto  per  i  grandi  operatori  europei  dei  servizi  di 

telecomunicazione sintetizza la situazione. Telecom ottiene dal mercato domestico l’80% del suo fatturato 

contro una percentuale del 45% di Deutsche e France Telecom (Mariotti p.21). 

Sempre per effetto di una struttura finanziaria fortemente squilibrata, Telecom ha ridotto negli ultimi anni i 

suoi  investimenti nella telefonia mobile, pur rimanendo stabile quelli nella telefonia fissa per effetto della 

diffusione di  Internet.  In questo quadro  sono  stati  sospesi due  ambiziosi progetti d’investimento  avviati 

prima della privatizzazione che avrebbero collocato Telecom  in una posizione di potenziale rilievo a  livello 

internazionale nelle nuove infrastrutture di telecomunicazione, sia nella banda larga che nella connettività 

senza cavi (Mariotti 24). 

Nello  stesso  tempo  è  stata  drasticamente  ridimensionata  l’attività  di  Ricerca  e  Sviluppo  all’interno  del 

gruppo. Oltre al  ridimensionamento degli organici,  si è verificato uno  spostamento delle  risorse verso  la 

ricerca  ad  orientamento  più  applicato,  centrata  sugli  aspetti  industriali.  I  brevetti  depositati  sono 

fortemente  diminuiti  negli  ultimi  anni.  Dopo  vicende  che  a  prima  vista  non  depongono  a  favore  della 

lungimiranza della  classe  imprenditoriale  italiana,  si  è poi proceduto  al  sostanziale  smantellamento o  al 

trasferimento ad operatori esteri delle attività di Italtel, un produttore manifatturiero di apparati e sistemi 

di telecomunicazione. 

A questo punto non possiamo che riprendere le conclusioni di Mariotti. L’esperienza della privatizzazione di 

Telecom ha mostrato come una coalizione fondata sulla composizione di interessi industriali, finanziari e del 

management  non  ha  prodotto  gli  effetti  benefici,  in  genere  attribuiti  al  mutamento  dell’assetto 

proprietario. In particolare i gruppi di controllo che si sono succeduti all’inizio di questo secolo sembravano 

più interessati al conseguimento di vantaggi finanziari di breve periodo più che alla realizzazioni di obiettivi 

strategici di un settore fondamentale per lo sviluppo del paese (Mariotti p.30) . D’altro canto il recupero di 

efficienza aziendale degli ultimi anni non sembra preludere alla ripresa di un ruolo lato sensu propulsivo di 

Telecom. 

Le conseguenze negative di questa vicenda si riflettono in primo luogo nella contrazione degli investimenti , 

che ha  fortemente danneggiato  l’industria nazionale degli apparati e dei sistemi di  telecomunicazione. Si 

deve  ancora  una  volta  sottolineare  che  alla  riduzione  degli  investimenti  ha  fortemente  contribuito  la 

crescita dell’indebitamento anche per  vicende non  collegate all’andamento aziendale.  In  secondo  luogo, 

l’Italia  ha  accumulato,  con  effetti  che  si  produrranno  nel  tempo,  ritardi  nella  creazione  di  un’adeguata 

infrastruttura  di  rete:  qui  riemergono  responsabilità  pubbliche  riconducibili  al  fondo  all’assenza  di  ogni 

visione  di  politica  industriale.  Inoltre,  sono  stati  ridimensionate  strutture  di  ricerca  di  altissima 

qualificazione anche a livello internazionale.  

Più  in  generale  le  grandi  imprese  come  Telecom  Italia  sono  stati  poli  strategici  attorno  cui  si  sono 

condensate  e  sviluppate  competenze  di  alto  livello  sotto  il  profilo  tecnologico  e  gestionale….Le 

privatizzazioni  in questi settori avrebbero richiesto che si tenesse  in considerazione  il rilievo che  l’interesse 

collettivo manteneva nell’impresa collocata a  investitori privati,  rappresentato dalla necessità di  tutelarle 

competenze stratificatesi nel tempo, le quali, per il potenziale intrinseco di esternalità positive, costituivano 

un patrimonio collettivo, e non della singola impresa (Mariotti p.32).  

22  

Al  contrario,  il  punto  di  avvio  della  privatizzazione  di  Telecom  è  stata  la  definizione  sostanzialmente 

arbitraria di un obiettivo di riduzione dell’indebitamento dell’IRI (prescindendo da ogni altra considerazione 

di natura vagamente strutturale), cui è seguito un atteggiamento di benign neglect da parte del detentore 

della golden share nei confronti di autentiche scorribande finanziarie.  

 

Gli effetti delle privatizzazioni. Le autostrade 

L’ultimo caso di privatizzazione meritevole di esame è costituito dalla Società Autostrade, operante  in un 

settore  in  cui  la  natura  di monopolio  naturale  è  del  tutto  dominante,  non  risultando  in  linea  generale 

opportuna dal punto di vista economico la duplicazione degli investimenti infrastrutturali nella stessa area 

geografica. Costituita dall’IRI nel 1983  come Gruppo Autostrade,  la  società era  stata oggetto di parziale 

privatizzazione  per  il  13%  del  capitale,  e  successiva  quotazione  in  borsa,  già  nel  1986.  Dopo  alcune 

importanti modifiche  del  regime  giuridico  delle  società  concessionaria  (con  cui  si  cancellava  la  garanzia 

statale  sulle  obbligazioni  contratte  e  l’obbligo  di  trasferire  allo  stato  l’utile  eccedente  un  certo  limite, 

sostituendolo  con  un  canone  di  concessione  proporzionale  ai  ricavi),  l’abrogazione  dell’obbligo  di 

mantenere in capo all’IRI la maggioranza delle azioni aprì la strada alla privatizzazione totale di Autostrade 

(in  conformità  fra  l’altro  ad  una  delle  clausole  dell’accordo  Andreatta‐Van  Miert).  La  privatizzazione 

avvenne  a  fine  1999,  con  la  collocazione  sul mercato  dell’87%  del  capitale  azionario  sulla  base  di  una 

procedura mista: il 56% fu sottoscritto da risparmiatori individuale e da investitori istituzionali ad un prezzo 

per azione di 6,75 euro, mentre  il restante 29,7% fu attribuito, sulla base del pagamento di un premio di 

controllo pari al 5% del prezzo, ad un  investitore privato destinato a diventare  l’azionista di controllo. Si 

noti che all’esito di questa operazione il gruppo Autostrade ha la gestione di circa il 50% della rete, mentre 

il 18% è sotto  il diretto controllo dell’Anas, ormai  trasformata  in società per azioni;  la parte  residua è  in 

capo o ad altri privati o ad enti locali (D’Antoni p.21). 

Quando si attribuisce ai privati  la gestione di un monopolio naturale devono essere definite  le condizioni 

operative,  riguardanti  in  particolare  le modalità  di  determinazione  e  di  variazione  delle  tariffe  (con  la 

connessa durata della concessione), gli impegni riguardanti gli investimenti e l’individuazione o la creazione 

dell’autorità preposta al controllo del rispetto degli impegni assunti dal monopolista privato. 

Per quanto riguarda la modalità di determinazione delle tariffe la letteratura tende a privilegiare il metodo 

del price cap. Sulla base di questa modalità di determinazione delle tariffe, in un arco di tempo pluriennale, 

nel  nostro  caso  5  anni,  la  variazione  applicata  all’insieme  dei  servizi  delle  imprese  (ponderate  per  le 

rispettive  quantità)  non  avrebbe  dovuto    superare  il  tasso  di  inflazione  programmato,  corretto  per  un 

valore che avrebbe dovuto  incorporare  le previsioni di riduzione del costo medio unitario di fornitura dei 

servizi per effetto di  fattori non dipendenti dall’attività del gestore e aumentato di una componente che 

avrebbe dovuto quantificare gli incrementi di qualità realizzati nel periodo di riferimento (D’Antoni). Com’è 

dettagliatamente  spiegato  nel  saggio  di  D’Antoni,  il  price  cap  è  una  forma  di  regolamentazione 

incentivante;  infatti,  il  livello  medio  dei  prezzi  o  dei  ricavi  evolve  nel  tempo  secondo  una  formula 

predeterminata,  senza  che  intervengano  modifiche  discrezionali  del  regolatore,  per  un  periodo 

sufficientemente  lungo,  così  da  trasferire  sull’impresa  regolata  gli  effetti  delle  decisioni  di  gestione  e 

incentivare  aumenti  di  efficienza  produttiva  (D’Antoni  11).  In  altri  termini.  gli  incrementi  di  efficienza 

tendono a trasformarsi in incrementi di profitto dell’impresa regolamentata. 

Nel quinquennio 1998‐2002 i tassi di incremento annuale delle tariffe sono stati sistematicamente superiori 

al tasso d’inflazione programmato per due motivi. L’elemento che avrebbe dovuto sintetizzare  l’influenza  

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dei fattori esogeni è stato posto pari a 0 per tutto il periodo. Se si tiene presente che per le reti autostradali 

l’elemento per larga parte esogeno alle scelte del gestore è costituito dal volume del traffico e che in quegli 

anni  il  traffico  autostradale  è  risultato  essere  superiore  a quello  atteso  e  incorporato nelle  concessioni, 

l’azzeramento di questo elemento ha fatto sì che gli incrementi tariffari ammessi non siano stati corretti dai 

fattori che avrebbero dovuto operare in senso riduttivo (fra i quali appunto il volume del traffico superiore 

alle attese). E’ stato peraltro riconosciuto un miglioramento della qualità del servizio, misurata da un indice 

che prende in considerazione lo stato di pavimentazione delle strade e il numero di incidenti rapportato al 

volume del traffico.  

Non è sorprendente che i risultati di bilancio siano stati nel periodo da noi esaminato decisamente brillanti: 

nel 2002, ma anche per gli altri anni  valgono  le  stesse  considerazioni,  il  rapporto  fra margine operativo 

lordo e ricavi totali è stato superiore al 50%, con un utile netto intorno al 25% (D’Antoni p.26). 

Nel  tentativo di migliorare  il  sistema di  regolazione,  alla  fine del primo periodo  regolatorio nel 2002,  si 

procedette ad una revisione dei criteri di determinazione delle tariffe. Più precisamente, si voleva e doveva, 

sulla base dei principi ispiratori del price cap correggere divergenze ingiustificate fra l’andamento tariffario 

e l’evoluzione dei costi al fine di riportare i profitti al livello normale o, se si preferisce, di riassorbire parte 

delle rendite da monopolio. Nonostante  le modifiche  introdotte nei criteri di determinazione delle tariffe 

attraverso  la riformulazione del price cap, gli utili del gruppo si mantennero sugli stessi  livelli assoluti del 

periodo precedente (D’Antoni p.27). 

A testimonianza del fatto che è difficile trovare una soluzione stabile a problemi difficili (qual è il controllo 

dei monopoli  naturali  dati  in  gestione  ai  privati)  attraverso  l’applicazione  di  formule  apparentemente  

semplici, il quadro regolamentare ha subito ulteriori modifiche negli ultimi anni: attualmente si applica una 

convenzione stipulata  fra Autostrade ed Anas, che prevede  incrementi  tariffari pari al 70% dell’inflazione 

effettiva cui si aggiungono incrementi per nuove infrastrutture legati all’effettivo avanzamento dei lavori. 

L’ultimo  riferimento  porta  al  secondo  problema  emerso  nell’esperienza  di  privatizzazione  di Autostrade 

riguardante la realizzazione degli investimenti. A fine 2009 gli investimenti effettuati risultavano essere 3,1 

miliardi a fronte dei 6,5 previsti dal piano 1997 e successivamente aggiornati. Per quanto riguarda  i nuovi 

investimenti previsti dall’accordo del 2002, a  fine 2009 erano stati  realizzati  investimenti per 964 euro, a 

fronte di una previsione  iniziale di 4,5 miliardi, successivamente aggiornata a 7,1 miliardi. (D’Antoni p.31). 

Come  sottolinea  lo  stesso D’Antoni,  inerzie  burocratiche  e  ritardi  nella  concessione  delle  autorizzazioni 

sono causa determinante del ritardo nelle realizzazioni  infrastrutturali, ma  la  letteratura sottolinea anche 

che in assenza di un adeguato quadro regolatorio (effettivamente applicato) può risultare molto attenuato 

l’incentivo dei monopoli naturali privati ad effettuare gli  investimenti nella misura appropriata;  le vicende 

tariffarie prima descritte, che hanno comunque garantito adeguati profitti, sembrano confermare questa 

ipotesi.  

Risultati  coerenti  con  le  aspettative  della  collettività  possono  essere  ottenuti  attribuendo  un  ruolo 

pregnante di command and control alle pubbliche autorità, uscendo peraltro per questa via dalla logica che 

ha  indotto a privatizzare anche monopoli naturali. Non  si deve poi dimenticare  che  la privatizzazione di 

Autostrade e la sua successiva attività nell’ambito di un grande gruppo privato è avvenuto senza che fosse 

istituita una specifica autorità di controllo (almeno fino all’approvazione dei provvedimenti Salva Italia del 

dicembre 2011): al termine di  lunghe diatribe,  il compito di definire  le tariffe autostradali è stato affidato 

all’Anas;  in questo modo è  stato peraltro  creato un evidente  conflitto d’interessi, essendo  l’Anas  stessa 

gestore di una rilevante quota della nostra rete autostradale. 

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Nella parte conclusiva del suo saggio D’Antoni tenta, con tutte  le necessarie cautele, di valutare gli effetti 

della  privatizzazione  di  Autostrade  sul  bilancio  pubblico,  confrontando  gli  utili  ottenuti  dalla  società 

privatizzata  con  i minori  oneri  a  carico  del  bilancio  dello  Stato  derivanti  dalla  diminuzione  del  debito. 

L’ipotesi, o il giudizio di valore, retrostante è che, prima di ogni ulteriore considerazione, la privatizzazione 

si giustifica  solo  se  il prezzo di vendita  (da  cui derivano  i minori oneri  finanziari) è  superiore al  flusso di 

profitti  attualizzati o,  in modo  equivalente,  se  i minori oneri per  interessi  sono più  elevati del  flusso di 

profitti cui si rinuncia per effetto della dismissione dell’impresa pubblica. Nel caso di Autostrade gli utili di 

bilancio  sono  risultati  sistematicamente  superiori ai minori oneri per  interessi  (D’Antoni p.36). Tutto  ciò 

chiama in causa l’efficacia del meccanismo regolatorio prima descritto che non ha impedito la formazione 

di extraprofitti tratti dalla gestione privata di un monopolio naturale. Più precisamente, in un settore in cui 

sembra  difficile  ipotizzare  grandi  guadagni  di  efficienza  per  effetti  di  innovazioni  tecnologiche  o  di 

riorganizzazione del  lavoro, sarebbe stato più opportuno  introdurre schemi di  remunerazione  fondati sul 

capitale effettivamente impiegato, incentivando per questa via la realizzazione di investimenti in un paese 

caratterizzato da un rilevante deficit  infrastrutturale (secondo  il modello ampiamente utilizzato negli Stati 

Uniti);  le ultime modifiche regolamentari sembrano muoversi  in questo senso con un apprezzabile effetto 

di accelerazione degli investimenti. 

E’  banale  osservare  che  nelle  privatizzazioni  dovrebbe  essere  perseguito  anche  l’obiettivo  di  evitare 

ingiustificati  aumenti  di  oneri  per  l’utenza.  Si  tratterebbe  di  una  forma  di  tassazione  non  trasparente, 

doppiamente ingiustificata se non si trasformasse in una maggiore dotazione infrastrutturale. 

 

Conclusioni 

Qualsiasi tentativo di valutazione del processo di privatizzazione dell’IRI e della sua successiva liquidazione 

deve essere adeguatamente articolato: da un  lato, appariva evidente all’inizio degli anni  ’90  l’esigenza di 

una profonda  riorganizzazione dell’istituto, dall’altro, ci sembra di poter affermare che  il processo stesso 

non sia stato sempre condotto con la necessaria consapevolezza. 

Il processo di privatizzazione era necessario per  i colpevoli ritardi accumulati nella gestione di alcune crisi 

settoriali, come quella siderurgica, che avevano gravemente minato la struttura patrimoniale dell’istituto. Il 

processo era necessario perché comportamenti inappropriati, essenzialmente in enti pubblici esterni all’IRI, 

avevano  di  fatto  coinvolto  l’istituto  stesso,  soprattutto  in  termini  di  acquiescenza  al  potere  politico.  Il 

processo  era necessario perché  l’integrazione  economica  internazionale,  reale  e  finanziaria,  imponeva  il 

superamento di alcune rigidità tendenzialmente riconoscibili nelle imprese pubbliche. 

Se  l’obiettivo di  riorganizzazione  e di  riqualificazione dell’istituto  era  sia  improrogabile,  sia  ampiamente 

condivisibile,  non  necessariamente  l’esito  finale  avrebbe  dovuto  essere  quello  che  si  è  in  concreto 

realizzato. 

E’ evidente che la crisi del 1992, al di là della sua effettiva gravità (forse sopravvalutata) è stata l’occasione 

per affermare una  linea di politica economica non solo tendente alla stabilizzazione finanziaria, ma anche 

foriera di distorsioni di  lungo periodo nel  funzionamento del nostro  sistema economico. E’ poi evidente 

che, venendo all’oggetto di questo volume, allora (e non sarebbe stata né  la prima, né  l’ultima volta nella 

nostra  storia)  si  dovevano  tranquillizzare  i mercati  finanziari  internazionali,  che  paventavano  un  nostro 

default per  i debiti delle  imprese pubbliche. Di qui nasce  il peculiare accordo Andreatta‐Van Miert che ha 

costituito di fatto una sorta di commissariamento del nostro paese, non solo per  i vincoli che poneva ma 

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anche per  le modalità con cui questi vincoli avrebbero dovuto essere soddisfatti. Al riguardo, Cavazzuti a 

conclusione del suo saggio (p.66) scrive che oggi appare verosimile che l’IRI abbia svolto il ruolo sacrificale 

sull’altare  dei mercati  finanziari  per  consentire  l’obiettivo  dell’entrata  dell’Italia  nella Unione Monetaria 

Europea. 

In  questo  contesto,  in  cui  le motivazioni  di  ordine  finanziario  (più  o meno  correttamente  interpretate) 

precludevano ogni altra considerazione, venne a mancare ogni discorso di politica industriale o, se si vuole, 

di diverso orientamento dell’impresa pubblica, che pure era stato prefigurato da Prodi nel 1988. Di  fatto 

tutto il problema delle privatizzazioni fu ricondotto alle pretese virtù salvifiche del mutamento degli assetti 

proprietari, prescindendo dalla definizione di un appropriato quadro  regolatorio e dall’individuazione dei 

settori  portanti  per  la  competitività  del  paese. Gli  effetti  di  questo  atteggiamento  fideistico  furono  poi 

aggravati,  nell’intero  arco  temporale  da  noi  considerato,  dalla  debolezza  propositiva  e  operativa  della 

grande impresa privata che, come non aveva valorizzato le conseguenze finanziarie della nazionalizzazione 

dell’industria elettrica, così non è riuscita a cogliere le potenzialità implicite nel processo di privatizzazione 

del gruppo IRI. 

Ulteriori elementi di riflessione sono emersi dall’analisi di tre settori cruciali coinvolti nelle privatizzazioni. Il 

settore  finanziario  nella  sua  totalità,  e  per  quel  che  riguarda  l’IRI  nella  componente  bancaria,  è  stato 

oggetto di una profonda  trasformazione  tendente  ad  introdurre nel nostro paese un modello,  che  sulla 

base delle esperienze degli altri paesi  sembrava ottimale. Da questo punto di  vista  le privatizzazioni del 

settore, pur essendo state fra le imprese importanti le prime, sono state inquadrate in un disegno coerente. 

E’  vero  che  le  successive  vicende hanno dimostrato  che  il  cosiddetto modello ottimale non era poi  così 

robusto  e  che  certi  apparenti  ritardi  italiani  nel  finanziamento  dei  privati  hanno  evitato  eccessive 

turbolenze, almeno fino al 2009, ma tutto ciò non può essere attribuito alle privatizzazioni  in quanto tali. 

Piuttosto  ci  si dovrebbe  interrogare  sulle  cause della presenza  in ultima analisi  solo  transitoria di grandi 

operatori internazionali nei nostri maggiori istituti e sul fatto che il controllo azionario delle nostre maggiori 

banche  sia garantito dalla presenza di entità di dubbia natura privata quali  sono  le  fondazioni bancarie. 

Paradossalmente, si potrebbe sostenere che un processo di privatizzazione pur condotto con oculatezza, 

oltre  a  determinare  una  forte  concentrazione  di mercato  e  una  presenza  solo  temporanea  di  operatori 

esteri nelle banche già IRI, ha portato ad assetti di controllo per certi versi pubblici. 

La  privatizzazione  del  settore  delle  telecomunicazioni  costituisce  un  caso  probabilmente  esemplare  di 

comportamenti in ultima analisi lesivi dell’interesse nazionale. L’assenza di ogni strategia, se non quella di 

rispettare gli accordi Andreatta‐Van Miert, l’incapacità pubblica e privata di valutare le esternalità prodotte 

da una grande  impresa operante  in un  settore  cruciale,  l’indifferenza della pubblica autorità di  fronte  a 

radicali  indebolimenti  patrimoniali  dell’impresa  ormai  privatizzata ma  ancora  soggetta  a  golden  share, 

costituiscono gli elementi determinanti di un processo che ha portato ad attribuire  il ruolo di azionista di 

riferimento al concorrente spagnolo. Se i grandi istituti stranieri sono prima entrati e poi usciti dai gruppi di 

cui fanno parte  le banche ex  IRI, nel caso delle Telecom è stato ottenuto  il risultato al momento opposto 

con l’attribuzione di un ruolo essenziale ad un potenziale concorrente straniero. 

Infine, la privatizzazione di Autostrade rappresenta un esempio non frequente di affidamento a privati della 

gestione di una grande rete  infrastrutturale già esistente, ma di cui si prevede  lo sviluppo. Al di  là di pur 

rilevanti carenze regolamentari, la vicenda dimostra la difficoltà da parte dell’operatore pubblico di evitare 

la formazione di rendite di monopolio privato e di indurre investimenti in conto capitale secondo i tempi e 

le modalità concordate. Un’analisi storica delle ragioni che hanno portato a cavallo fra il XIX e il XX secolo al 

superamento del regime della concessione a privati per le grandi  infrastrutture e all’adozione del modello 

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di gestione pubblica non  sarebbe  stato  inutile  in questo contesto. A ciò  si aggiunga che  l’applicazione di 

criteri di  remunerazione  che hanno  senso  solo  in  settori  caratterizzati da  rilevanti progressi  tecnologici, 

traducibili in riduzioni di costi, può portare a risultanti socialmente perversi. 

L’alternativa  alla  privatizzazione  totale  delle  imprese  in  sostanziale monopolio  naturale,  come  di  quelle 

cruciali nel panorama  industriale di un paese, è  indicata da Mariotti  (p.35),  le cui parole possono essere 

assunte a conclusione di questa introduzione: qualora si guardi alla privatizzazione degli ex‐settori pubblici 

non  in  termini di destino delle  singole  imprese, ma di effetti  sulla  competitività di Paese, è dunque  che  i 

percorsi più efficaci sono stati quelli in cui alla privatizzazione si sono affiancate azioni di accompagnamento 

da parte dello Stato con un commitment ‐esplicito o implicito, poco rileva‐ verso la crescita e l’affermazione 

internazionale dell’impresa. Al di  fuori di questa prospettiva,  le privatizzazioni,  lasciate al mercato, hanno 

spesso finito per indebolire il sistema economico nazionale.