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STORIA DELL’EDUCAZIONE IN EUROPA (Fabrizio Dal Passo) (Fabrizio Dal Passo) Capitolo 1 Il Settecento § 1. Il concetto di educazione nel Settecento. Nella storia dell’alfabetizzazione e dell’istruzione dell’Europa il Settecento ha un posto assicurato. Il secolo dei Lumi gettò le basi per il futuro: confezionò una ideologia e un programma per l’Ottocento e il Novecento 1 . Fu a un tempo un secolo tradizionalista, con importanti elementi di continuità con quanto lo aveva preceduto; un periodo di transizione, indiscutibilmente; il punto di avvio di un processo di trasformazione. Le speranze di miglioramento sociale e morale si legarono sempre più ad idee relative all’istruzione, e crebbe il riconoscimento dell’alfabetizzazione come fondamento dell’istruzione delle classi inferiori. Molti furono, in Occidente, i fattori che determinarono questa fioritura di interesse intorno al problema educativo, alcuni nuovi, altri frutto di iniziative avviate in passato. Con sempre maggiore convinzione, nell’infanzia fu riconosciuta una fase critica all’interno del ciclo vitale. L’attenzione, comunque, non si rivolse proprio a tutti i bambini: punto di riferimento rimasero le classi medie e alte. Nondimeno, questa nuova consapevolezza della specificità dell’infanzia nel processo di sviluppo portò con sé ovvie implicazioni sul piano pedagogico e stimolò l’interesse per l’istruzione in senso più generale. Il XVIII secolo fu anche un periodo di riflessione psicologica. Molti esponenti di primo piano dell’Illuminismo speravano, con Locke, che «attraverso l’istruzione si sarebbe potuto promuovere il progresso dell’uomo, anche in chiave morale» 2 . L’educazione morale costituì spesso il nucleo dei progetti di riforma, e questo perché formazione morale e sviluppo intellettuale venivano avvertiti come momenti strettamente correlati e interdipendenti. L’idea di fondo - e la speranza - era quella di forgiare individui «utili» alla società. L’utilità assunse forme disparate: dal tirocinio per professionisti, impiegati e operatori economici - una dimensione educativa più elevata -, all’istruzione delle masse tesa ad instillare il senso della nazionalità e a favorire omogeneizzazione, produttività e controllo sociale: tutto nel nome della formazione del buon cittadino. Ciò in molti casi condusse a una maggiore, e per certi versi nuova, presenza dello Stato nella promozione e nel controllo dell’istruzione 3 . 1 J.A. LEITH, Unity and Diversity in Education during the Eighteenth Century, in Facets of Education in the Eighteenth Century, a cura di J.A. LEITH, «Studies in Voltaire and the Eighteenth Century», 167 (1977), p. 14; per delle analogie con altre realtà, vedi H. CHISICK, The Limits of Reform in the Enlightenment, Princeton, Princeton University Press, 1981; F. VENTURI, Italy and the Enlightenment, New York, New York University Press, 1972, ed. orig. Settecento riformatore, vol. I, Torino, Einaudi, 1972; H. HOLBORN, A History of Modern Germany, New York, Knopf, (1959-1963), vol. II; W.H. BRUFORD, Culture and Society in Eighteenth-Century Germany, Cambridge, Cambridge University Press, 1965; H. LIEBEL, Enlightened Bureaucracy versus Enlightened Despotism in Baden, 1750-1792, in «Transactions», American Philosophic Society, 55 (1965), n. 5; M.J. MAYNES, Schooling the Masses: A Comparative Social History of Education in France and Germany, 1750-1850, tesi di dottorato alla University of Michigan, 1977, poi pubblicata come Schooling for the People, New York, Holmes and Meier, 1985; H.C. PAYNE, The Philosophes and the People, New Haven, Yale University Press, 1976; P. GAY, The Enlightenment: The Science of Freedom, New York, Knopf, 1969; N. HANS, New Trends in Education in the Eighteenth Century, London, Routledge and Kegan Paul, 1951; L.A. CREMIN, American Education: The Colonial Experience, New York, Harper and Row, 1970; questi i titoli più validi come introduzione all’argomento. Per un’analisi della storia della scuola italiana, vedi F. DAL PASSO, Storia della scuola italiana, in Il Codice della scuola, v. II Commentario, a cura di L.B. CORSETTI, E. CIARRAPICO, D. CROCE, La Scuola, Brescia 2003. 2 LEITH, Unity and Diversity, cit., pp. 14-15; J.H. PLUMB, The New World of Children in Eighteenth Century England, in «Past and Present», 67 (1975), pp. 64-95; P. ARIÈS, Centuries of Childhood, trad. ingl., New York, Vintage, 1962, trad. it. Padri e figli nell’Europa medievale e moderna. Bari, Laterza, 1986; G. SNYDERS, La pedagogie en France aux XVII et XVIII siècles, Paris, Presses Universitaires de France, 1965; C. TILLY, Population and Pedagogy in France, in «History of Education Quarterly», 13 (1973), pp. 113-128; le opere di John Locke; J.A. PASSMORE, The Malleability of Man in Eighteenth-Century Thought, in Aspects of the Eighteenth Century, a cura di Earl R. Wasserman, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 1965, pp. 21-46; G. BRYSON, Man and Society: The Scottish Inquiry of the Eighteenth Century, Princeton, Princeton University Press, 1945; H.C. PAYNE, The Philosophes and the People.; GAY, The Enlightenment, cit.; LEITH, Facets of Education, cit. sono solo alcuni titoli di una letteratura molto vasta. 3 LEITH, Unity and Diversity, cit., p. 16; J.A. LEITH, The Hope for Moral Regeneration in French Educational Thought, 1759-1789, in City and Society in the Eighteenth Century, a cura di Paul Fritz e David Williams, Toronto, Hakkert, 1973, pp. 215-229; LEITH, Facets of Education, cit.;

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STORIA DELL’EDUCAZIONE IN EUROPA

(Fabrizio Dal Passo)

(Fabrizio Dal Passo)

Capitolo 1 Il Settecento

§ 1. Il concetto di educazione nel Settecento. Nella storia dell’alfabetizzazione e dell’istruzione dell’Europa il Settecento ha un posto assicurato. Il secolo dei Lumi gettò le basi per il futuro: confezionò una ideologia e un programma per l’Ottocento e il Novecento1. Fu a un tempo un secolo tradizionalista, con importanti elementi di continuità con quanto lo aveva preceduto; un periodo di transizione, indiscutibilmente; il punto di avvio di un processo di trasformazione. Le speranze di miglioramento sociale e morale si legarono sempre più ad idee relative all’istruzione, e crebbe il riconoscimento dell’alfabetizzazione come fondamento dell’istruzione delle classi inferiori. Molti furono, in Occidente, i fattori che determinarono questa fioritura di interesse intorno al problema educativo, alcuni nuovi, altri frutto di iniziative avviate in passato. Con sempre maggiore convinzione, nell’infanzia fu riconosciuta una fase critica all’interno del ciclo vitale. L’attenzione, comunque, non si rivolse proprio a tutti i bambini: punto di riferimento rimasero le classi medie e alte. Nondimeno, questa nuova consapevolezza della specificità dell’infanzia nel processo di sviluppo portò con sé ovvie implicazioni sul piano pedagogico e stimolò l’interesse per l’istruzione in senso più generale. Il XVIII secolo fu anche un periodo di riflessione psicologica. Molti esponenti di primo piano dell’Illuminismo speravano, con Locke, che «attraverso l’istruzione si sarebbe potuto promuovere il progresso dell’uomo, anche in chiave morale»2. L’educazione morale costituì spesso il nucleo dei progetti di riforma, e questo perché formazione morale e sviluppo intellettuale venivano avvertiti come momenti strettamente correlati e interdipendenti. L’idea di fondo - e la speranza - era quella di forgiare individui «utili» alla società. L’utilità assunse forme disparate: dal tirocinio per professionisti, impiegati e operatori economici - una dimensione educativa più elevata -, all’istruzione delle masse tesa ad instillare il senso della nazionalità e a favorire omogeneizzazione, produttività e controllo sociale: tutto nel nome della formazione del buon cittadino. Ciò in molti casi condusse a una maggiore, e per certi versi nuova, presenza dello Stato nella promozione e nel controllo dell’istruzione3. 1 J.A. LEITH, Unity and Diversity in Education during the Eighteenth Century, in Facets of Education in the Eighteenth Century, a cura di J.A. LEITH, «Studies in Voltaire and the Eighteenth Century», 167 (1977), p. 14; per delle analogie con altre realtà, vedi H. CHISICK, The Limits of Reform in the Enlightenment, Princeton, Princeton University Press, 1981; F. VENTURI, Italy and the Enlightenment, New York, New York University Press, 1972, ed. orig. Settecento riformatore, vol. I, Torino, Einaudi, 1972; H. HOLBORN, A History of Modern Germany, New York, Knopf, (1959-1963), vol. II; W.H. BRUFORD, Culture and Society in Eighteenth-Century Germany, Cambridge, Cambridge University Press, 1965; H. LIEBEL, Enlightened Bureaucracy versus Enlightened Despotism in Baden, 1750-1792, in «Transactions», American Philosophic Society, 55 (1965), n. 5; M.J. MAYNES, Schooling the Masses: A Comparative Social History of Education in France and Germany, 1750-1850, tesi di dottorato alla University of Michigan, 1977, poi pubblicata come Schooling for the People, New York, Holmes and Meier, 1985; H.C. PAYNE, The Philosophes and the People, New Haven, Yale University Press, 1976; P. GAY, The Enlightenment: The Science of Freedom, New York, Knopf, 1969; N. HANS, New Trends in Education in the Eighteenth Century, London, Routledge and Kegan Paul, 1951; L.A. CREMIN, American Education: The Colonial Experience, New York, Harper and Row, 1970; questi i titoli più validi come introduzione all’argomento. Per un’analisi della storia della scuola italiana, vedi F. DAL PASSO, Storia della scuola italiana, in Il Codice della scuola, v. II Commentario, a cura di L.B. CORSETTI, E. CIARRAPICO, D. CROCE, La Scuola, Brescia 2003. 2 LEITH, Unity and Diversity, cit., pp. 14-15; J.H. PLUMB, The New World of Children in Eighteenth Century England, in «Past and Present», 67 (1975), pp. 64-95; P. ARIÈS, Centuries of Childhood, trad. ingl., New York, Vintage, 1962, trad. it. Padri e figli nell’Europa medievale e moderna. Bari, Laterza, 1986; G. SNYDERS, La pedagogie en France aux XVII et XVIII siècles, Paris, Presses Universitaires de France, 1965; C. TILLY, Population and Pedagogy in France, in «History of Education Quarterly», 13 (1973), pp. 113-128; le opere di John Locke; J.A. PASSMORE, The Malleability of Man in Eighteenth-Century Thought, in Aspects of the Eighteenth Century, a cura di Earl R. Wasserman, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 1965, pp. 21-46; G. BRYSON, Man and Society: The Scottish Inquiry of the Eighteenth Century, Princeton, Princeton University Press, 1945; H.C. PAYNE, The Philosophes and the People.; GAY, The Enlightenment, cit.; LEITH, Facets of Education, cit. sono solo alcuni titoli di una letteratura molto vasta. 3 LEITH, Unity and Diversity, cit., p. 16; J.A. LEITH, The Hope for Moral Regeneration in French Educational Thought, 1759-1789, in City and Society in the Eighteenth Century, a cura di Paul Fritz e David Williams, Toronto, Hakkert, 1973, pp. 215-229; LEITH, Facets of Education, cit.;

Non tutte le figure di prestigio, peso e potere condivisero gli entusiasmi dei propugnatori dell’istruzione. Molti, al riguardo, si mostrarono pieni di paure: temevano che una sua eccessiva diffusione avrebbe finito con l’indebolire l’organismo sociale alienando i suoi membri dal lavoro manuale; con il minacciare il naturale ordine sociale; con il favorire, infine, la mobilità sociale. Essi, per contro, caldeggiavano l’ipotesi di una struttura scolastica organizzata piramidalmente, specchio fedele di un sistema sociale fortemente gerarchizzato al suo interno. Sostenevano, altresì, il principio di un più ristretto programma di formazione per le masse4. E sintomatico che già un livello minimale di istruzione - la possibilità, ad esempio, per i servitori di leggere la corrispondenza del padrone o della padrona - fosse considerato da alcuni un grado di conoscenza eccessivo, troppo elevato. Le apprensioni legate all’eventualità di una popolazione alfabetizzata e scolarizzata andarono progressivamente scemando, ma, nel secolo successivo, ancora continuavano a serpeggiare in gran parte d’Europa (ed, in misura minore, nel Nord America). Gli storici concordano nel definire quelli del Settecento anni di progresso. In tempi recenti, poi, l’enfasi è insistentemente caduta sulla «modernità» del secolo. Ponendo l’accento sul definitivo superamento degli ultimi retaggi del Medioevo, gli storici pretendono di parlare, riferendosi al periodo di transizione, di un passaggio da una fase «proto-moderna» a una età moderna in senso proprio. A essere assunti come fondamentale punto di partenza sono così i rapporti con quanto sarebbe venuto dopo, piuttosto che le connessioni con ciò che era venuto prima5. Particolarmente rilevante è il ruolo che tali interpretazioni assegnano all’alfabetizzazione. Nel sottolineare l’attenzione riservata dai filosofi alla questione dell’integrazione delle diverse componenti della popolazione e di una più piena partecipazione alla vita sociale, alla scolarizzazione viene riconosciuto un ruolo del tutto peculiare. Altro soggetto cui è dedicata profonda cura, nell’ambito della teoria della modernizzazione, è quello dell’istruzione. Questa, collegata com’é da un lato all’educazione civica e dall’altro alle abilità funzionali richieste per particolari occupazioni, è forse l’indicatore più sensibile della struttura di una società in termini di storia, di potere e prestigio. Nella teoria della modernizzazione, lo Stato è inteso come una sorta di impersonale, ultimo arbitro delle umane vicende. I filosofi insistettero sulla necessità di un controllo secolare sull’istruzione pubblica e ribadirono che questo era un problema di cui doveva farsi carico la nazione6. L’angolo prospettico scelto da tale indirizzo teorico resta presuntivo e, comunque, drammaticamente insufficiente. Sicuramente le dinamiche del secolo e l’Illuminismo stesso meritano un approfondimento. Una loro comprensione esige maggiore attenzione al contesto e alle relazioni con il passato cosi come con il presente. Nello sforzo di dimostrare la fondatezza di un giudizio di novità e modernità per il periodo, e soprattutto per sostenere l’ipotesi di un Illuminismo «pagano», che tagliò i ponti con le tradizionali credenze religiose, storici recenti hanno finito e finiscono con l’estrapolare i pensatori del secolo dei Lumi dal loro contesto spaziale e temporale. Al contrario, vanno sì riconosciute le emergenti propensioni del periodo verso il futuro e la modernità, ma vanno allo stesso tempo sottolineate le sue connessioni con un «mondo che abbiamo perduto», e il suo posto all’interno di questo mondo. Ciò vale in particolar modo se ci si riferisce alla storia dell’alfabetizzazione e dell’istruzione. La comprensione dei due fenomeni richiede analisi di mutamenti e di progressivi sviluppi che intervengono all’interno di un contesto oscillante tra continuità e contraddizioni: uno stato di cose che conferma che le dinamiche del cambiamento - discrete e irregolari come sono - constano, proprio al loro nucleo, di forze di continuità storica e di processi contraddittori. La scoperta della centralità dell’istruzione nel pensiero e nella società del Settecento è però importante. Sebbene l’interesse per il problema non fosse di per sé una novità, a questo punto ormai avanzato della

PAYNE, The Philosophes and the People, cit.; GAY, The Enlightenment, cit.; S. BALLINGER, The Idea of Social Progress through Education in the French Enlightenment Period, in «History of Education Journal», 10 (1959), pp. 88-99; J.-R. ARMOGATHE, Les catéchismes et l’enseignement populaire, in Images du peuple au XVII siècle - Colloque d’Aix-en-Provence, 25-26 ottobre 1969, Paris, Armand Colin, 1973, pp. 103-122. 4 LEITH, Unity and Diversity, cit., p. 18. Sull’ambivalenza, cfr. PAYNE, The Philosophes and the People, cit.; CHISICK, The Limits of Reform, cit.; V. NEUBERG, Popular Education in Eighteenth Century England, London, Woburn Press, 1972; C. KAESTLE, «Between the Scylla of Brutal Ignorance and the Charybdis of a Literary Education»: Elites Attitudes toward Mass Schooling in Early Industrial England and America, in Schooling and Society, a cura di Lawrence Stone, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1976, pp. 177-191; K. EPSTEIN, The Genesis of German Conservatism, Princeton, Princeton University Press, 1966; L. GERSHOY, From Despotism to Revolution, 1763-1789, New York, Harper and Row, 1944; LEITH, Facets of Education, cit. 5 Vedi per esempio: H.B. APPLEWAITE e D.G. LEVY, The Concept of Modernization and the French Enlightenment, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 84 (1971), pp. 53-98; A. WILSON, The Philosophes in the Light of Present Day Theories of Modernization, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 58 (1967), pp. 1893-1913; GAY, The Enlightenment, cit.; gli scritti di J.O. APPLEBY e T. NIPPERDEY, citati più innanzi; E.A WRIGLEY, The Process of Modernization and the Industrial Revolution in England, in «Journal of Interdisciplinary History», 3 (1972), pp. 225-259. Cfr. con The Formation of National States in Western Europe, a cura di C. TILLY, Princeton, Princeton University Press, 1975; Crises of Political Development, a cura di R. GREW, Princeton, Princeton University Press, 1978; T. SKOCPOL, States and Social Revolutions, Cambridge, Cambridge University Press, 1979, trad. it. Stati e rivoluzioni sociali. Un’analisi comparata di Francia, Russia e Cina, Bologna, II Mulino, 1981. Per la critica di questo approccio, vedi i recenti saggi di C. TILLY, J. APPLEBY, R. NISBET e D. TIPPS. 6 WILSON, The Philosophes in the Light, cit., p. 1908, cita D. APTER, The Politics of Modernization, Chicago, 1965, p. 1909.

storia della civilizzazione occidentale, tuttavia l’attenzione riservata alla pedagogia lo sottrae agli indirizzi del passato proiettandolo verso quelli futuri. L’Illuminismo fu un movimento di «educazione». A parere dei filosofi, l’analfabetismo dilagante e la mancanza di autonomia nelle masse costituivano un ostacolo alle riforme e alla libertà. «C’era solo un modo realistico di accettare il mondo presente senza sacrificare le possibilità del futuro: l’istruzione. La logica dell’Illuminismo era questa: se la gran parte degli uomini non sono ancora pronti a essere autonomi, bisogna metterli in condizione di esserlo. Solo col tempo il grande dilemma politico dell’Illuminismo avrebbe trovato soluzione»7. Dunque l’istruzione doveva, di necessità, entrare a far parte dei modelli di riforma. I filosofi, comunque, non furono mai assolutamente certi in questa loro fede nella gente «comune», e non tutti condivisero la fiducia nella validità o anche nella realizzabilità del progetto di istruire tutti, uomini e donne. Voltaire, per esempio, riteneva che «illuminare» la gente appariva, nel migliore dei casi, una utopia o, nel peggiore, un progetto pericoloso. Più chiaro e franco di tanti altri, egli in generale si mostrava dubbioso riguardo ai tentativi istituzionali di portare l’alfabetismo o la «ragione» al popolo, ma ammetteva: «il volgo diventerà più meritevole quando i cittadini di primo piano coltiveranno virtù e saggezza; il buon esempio porterà la massa sulla retta via: il buon esempio, la più bella e la più grande delle virtù!». Per lui la diffusione istituzionalizzata del sapere era cosa vana; per arrivare a un miglioramento del popolo, fondamentale era, da un lato, l’evidenza della frequentazione e della comprensione della nuova filosofia da parte delle honnètes gens e, dall’altro, conseguenza diretta di ciò, il progressivo indebolimento della superstizione. Egli temeva anche che l’istruzione pubblica istituzionalizzata potesse provocare un decremento della forza lavoro: «Ritengo opportuno - scrive – che dei bambini imparino a leggere, a scrivere e a far di conto, ma anche che la maggior parte di loro e i figli degli operai in particolare, imparino solo a coltivare la terra perché basta una penna per ogni due o trecento braccia». Tuttavia, Voltaire si dimostrò poi un insolito possidente terriero: volle, infatti, che i suoi coloni studiassero8. L’istruzione non era un lusso che ci si poteva permettere agevolmente, un lusso che stabilità e relativa prosperità avevano messo alla portata di molti, come invece hanno sostenuto alcuni storici. Non solo infatti continuò a esistere una forte ostilità al progetto di una scolarizzazione di massa, ma a ostacolarne la sua eventuale realizzazione intervennero condizioni economiche, demografiche e politiche sicuramente difficili e una storia militare non propriamente favorevole. I conflitti ricorrenti, i problemi agricoli, le rivoluzioni, si coniugano a fatica con la stabilità. I mutamenti che avrebbero trasformato i processi di diffusione dell’alfabetismo non dovevano verificarsi in questo periodo9. In vario modo, lo sviluppo sociale, politico ed economico alimentò nuovo interesse per la condizione del popolo, il che ben presto suggerì il bisogno e l’utilità di una istruzione meno elitaria: per ragioni morali, sociali, economiche e politiche. Al tempo stesso, però, le realtà dell’Ancien Régime frenarono per la gran parte quel processo di cambiamento. La crescente attenzione al problema deve essere inquadrata in un contesto più vasto, non limitato rigidamente ai decreti legge, espressione di certo pensiero, a schemi utopistici, o ancora alla realtà di vita, spesso dura, delle classi più basse. Con il passare degli anni, nel corso del XVIII secolo, l’interesse per l’istruzione aumentò, ma con lentezza. Nuovi vertici furono toccati intorno agli anni sessanta. L’istruzione rappresentò, comunque, solo un elemento di una più ampia rete di modificazioni istituzionali proposte, e a volte avviate, durante una importante era di trasformazione. In questa fase, sempre più persone acquisirono capacità alfabetiche al di fuori di istituzioni formali spesso progettate ma solo di rado effettivamente realizzate. Furono così le scuole gratuite per i poveri, le dame schools, i tutori privati, la buona volontà (per gli autodidatti), ad aprire, in diversi casi, le porte

7 GAY, The Enlightenment, cit., pp. 497-499; PAYNE, The Philosophes and the People, cit., p. 94; CHISICK, The Limits of Reform, cit.; R. MORTIER, The Philosophes and the Public Education, in «Yale French Studies», 40 (1968), pp. 62-78; BALLINGER, The Idea of Social Progress, cit.; LEITH, Facets of Education, cit.; LIEBEL, Enlightened Bureaucracy, cit.; VENTURI, Italy and the Enlightenment, cit., ed. orig. Settecento riformatore, cit.; E.A. JOHNSON, The Place of Learning, Occupational Training, and «Art», in Pre-Smithian Economie Thought, in «Journal of Economic History», 24 (1964), pp. 129-144. 8 PAYNE, The Philosophes and the People, cit., pp, 95-97; vedi anche EPSTEIN, The Genesis of German Conservatism, cit.; CHISICK, The Limits of Reform, cit.; LEITH, Facets of Education, cit.; M.J. JONES, The Charity School Movement, Cambridge, Cambridge University Press, 1933; Education in Leicestershire, a cura di B. SIMON, Leicester, University of Leicester Press, 1968; LIEBEL, Enlightened Bureaucracy, cit.; K.M. BAKER, Scientism, Elitism, and Liberalism: The Case of Condorcet, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 55 (1967), pp. 129-165; K. WEINTRAUB, Towards the History of the Common Man: Voltaire and the Condorcet, in Ideas in History, a cura di R. HEER e H.T. PARKER, Durham (N.C.), Duke University Press, 1965, pp. 39-64. Cfr. con Condorcet, vedi infra. 9 PAYNE, The Philosophes and the People, cit., p. 97. Vedi anche GERSHOY, From Despotism to Revolution, cit.; W. DOYLE, The Old European Order, Oxford, Oxford University Press, 1978; P. GOUBERT, The Ancien Régime, New York, Vintage, 1974, trad. it. L’Ancien Régime, Milano, Jaca Book, 1985; MAYNES, Schooling the Masses, cit.; O. HUFTON, The Poor of Eighteenth-Century France, Oxford, Oxford University Press, 1974; C. FAIRCHILDS, Poverty and Charity in Aix-en-Provence, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1976; S. KAPLAN, Bread, Politic and Political Economy in the Reign of Louis XV, 2 voll., Den Haag, Martinus Nijhotf, 1976.

dell’alfabetismo e dell’istruzione. Gli aspetti istituzionali e i programmi dei filosofi o degli Stati restarono ambiti distinti, pur se una qualche influenza degli uni sugli altri può ben essersi verificata10. § 2. Riflessioni sull’alfabetismo e la scolarizzazione. È piuttosto agevole, e tuttavia importante, accorgersi di quanta cura il XVIII secolo abbia riservato al problema dell’istruzione. Al tempo stesso, sorprendentemente ridotta si è dimostrata l’attenzione che gli studiosi del periodo hanno, in linea di massima, dedicato a questo ambito. O, dunque, la consapevolezza oggi raggiunta circa l’importanza dell’istruzione nel pensiero e negli obiettivi del secolo dei Lumi è male indirizzata, oppure altri fattori sono intervenuti a determinare un simile paradosso. Alcuni di questi sono evidenti. Innanzi tutto, l’enorme divario esistente tra i concreti sviluppi registrati in quel campo, gli sforzi operati per porre in essere i programmi e il fiorire di idee e di una ideologia legate all’educazione, soprattutto nella seconda metà del secolo. In secondo luogo, il cammino seguito nel corso di quegli anni dal pensiero pedagogico. Sebbene segnali di interesse per il settore fossero già avvertibili a partire dalla fine del Seicento, la questione non divenne centrale che alcuni decenni più tardi, vale a dire durante la seconda parte del Settecento, e per cause eterogenee. Favorita sul Continente, seppure in misura contenuta, dalla espulsione dei Gesuiti, questa accresciuta sensibilità al problema educativo rappresentò un momento del più ampio movimento illuministico e umanitario che rapidamente si affermò dopo la metà del Settecento. Questa concomitanza, sommandosi a una vera e propria esplosione di scritti e dibattiti che investirono virtualmente tutti i piani dell’educazione, è significativa. A paragone, la prima metà del secolo non aveva prodotto che una scarna, quasi rarefatta riflessione sull’argomento. Ad ogni modo, se si esclude l’avvio di un movimento di scuole gratuite in Inghilterra, l’interesse si concentrò su una istruzione di tipo specializzato e d’elite, persistendo anche dopo il parziale spostamento di prospettiva registratosi intorno agli anni sessanta. L’attenzione all’educazione morale si sviluppò più lentamente, ma si acuì anch’essa nella seconda metà del secolo, interagendo in modi interessanti con le opinioni dei filosofi, per quanto diversi fossero i fini. Fattori sociali ed economici sono alla base, in larga misura, di questo mutamento di indirizzo11. Nel complesso, si potrebbe affermare che le opportunità del sapere e le strutture educative continuarono a somigliare più a quelle del passato che non a quelle del futuro. Maggiori novità mostrarono le riflessioni e gli obiettivi legati all’istruzione di massa e a una riforma in campo pedagogico. Alla data dal 1780, i sovrani della gran parte dei paesi d’Europa avevano emanato decreti che puntavano a una certa forma di istruzione universale. La Chiesa Cattolica Romana intensificò gli sforzi, avviati dopo il Concilio di Trento, tesi a disseminare le scuole di villaggio sul territorio di tutte le nazioni che rientravano nel suo «gregge». Questi tentativi furono affiancati da quelli meno centralizzati dei Pietisti, in Germania, di umanitari ed Evangelici, in Inghilterra, delle comunità ecumeniche, in Spagna, e dei feudatari in Francia. La volontà di raggiungere il popolo attraverso l’istruzione aveva radici molteplici. Per i capi religiosi la logica restava la medesima: vincere le menti delle masse. Per gli umanitari, come per i capi del movimento inglese delle scuole gratuite, l’istruzione era un mezzo per fornire abilità economiche e formazione morale. Per i monarchici, l’espulsione dei Gesuiti da Francia, Spagna e Austria, nel corso degli anni sessanta, significava l’aprirsi di nuove possibilità per i sovrani che nell’istruzione scorgevano uno strumento di consolidamento politico. Per cogliere appieno la varietà di influenze e prospettive in essere, e la loro simultanea comparsa nel terzo quarto del secolo, occorre richiamare alla mente la conclusione della guerra, agli inizi degli anni cinquanta, con la fase di relativa crescita demografica ed economica, di stabilità politica e di rafforzamento nazionale che ad essa seguì. A far sentire la propria influenza furono anche fattori specifici: la fine del monopolio sull’istruzione da parte dei Gesuiti, l’avvio dell’industrializzazione, la commercializzazione dell’agricoltura, nuovi elementi emersi in seno al pensiero economico e psicologico, un’ulteriore secolarizzazione e burocratizzazione dello Stato12. Un ruolo di particolare importanza lo svolsero i filosofi. Confluiti a costituire, entro gli anni sessanta, un

10 Sui primi sviluppi in Inghilterra, vedi JOHNSON, The Place of Learning, cit.; per il XVIII secolo, vedi C.F. MALLETT, Community and Communication, in FRITZ e WILLIAMS, City and Society, cit., pp. 125-147; T. LAQUEUR, Religion and Respectability, New Haven, Yale University Press, 1976; JONES, The Charity School Movement, cit.; SIMON, Education in Leicesterhire, cit.; infine, gli articoli di SANDERSON citati più innanzi. 11 PAYNE, The Philosophes and the People, cit., p. 100. Si veda inoltre JOHNSON, The Place of Learning, cit.; gli studi su John Locke, nonché le opere dello stesso filosofo inglese; ARIÈS, Centuries of Childhood, cit., trad. it. Padri e figli, cit.; SNYDERS, La pedagogie en France, cit.; HANS, New Trends in Education, cit.; gli studi sull’istruzione francese citati nelle note seguenti. Del divario si occupa il lavoro di CHISICK. 12 PAYNE, The Philosophes and the People, cit., pp. 97-98; LEITH, Facets of Education, cit.; LIEBEL, Enlightened Bureaucracy cit.; EPSTEIN, The Genesis of German Conservatism, cit.; CHISICK, The Limits of Reform, cit.; MAYNES, Schooling the Masses, cit.; H.C. BARNARD, The French Tradition in Education, Cambridge, Cambridge University Press, 1922; Id., Education and the French Revolution, Cambridge, Cambridge University Press, 1969.

orientamento intellettuale compatto, essi avevano molteplici ragioni per indirizzarsi verso soluzioni che rinviavano alla sfera dell’istruzione per problemi che erano avvertiti come problemi sociali. Indebolitasi la religione quale legittima sanzione sociale, fu l’istruzione, sua controparte, a prenderne il posto. La nuova epistemologia, che insisteva sull’importanza e la forza dell’ambiente e della formazione, accrebbe le speranze che l’istruzione potesse essere la via per «illuminare» le classi inferiori. In Francia i fisiocratici furono tra i primi a sollecitare un’istruzione popolare diffusa. Le ragioni che li ispiravano erano forse più ristrette e utilitaristiche di quelle di altri. In effetti, la loro concezione dell’istruzione di massa era, per certi aspetti, troppo vincolata alla prospettiva delle opportunità di tipo economico che questa poteva garantire allo Stato. I fisiocratici, incontrando resistenze alla proposta da essi avanzata di un libero mercato per il grano, si volsero all’istruzione pubblica per influenzare gli abiti mentali e comportamentali della gente. Anche in altre nazioni i propugnatori dell’alfabetizzazione di massa portarono a sostegno argomenti di ordine economico, che, nello specifico, si concretizzavano o nella forma di curricula funzionali al lavoro, oppure nella riaffermazione di un principio più generale, secondo il quale i lavoratori in possesso di un grado di istruzione almeno minimo risultano più pronti e disponibili ad accettare idee e tecniche nuove. Tali argomentazioni, in certa misura relativamente originali e «moderne», godettero di crescente popolarità in un contesto di avviati mutamenti socio-economici. Un consenso cominciò a prendere corpo, e in parte si trattò di un consenso dettato da ragioni pragmatiche: la gente aveva bisogno di istruzione; il «progresso», la crescita economica e la stabilità politica lo richiedevano. A poco, a poco si diffuse il timore che senza la garanzia dell’istruzione di massa lo stesso ordine sociale, la moralità e la produttività fossero sempre più esposti a minacce. Un mutamento epocale stava avendo inizio13. Durante gli anni sessanta e settanta, i membri dei circoli filosofici cominciarono a promuovere piani per l’istruzione popolare. Obiettivo dei fisiocratici era, ad esempio, una scuola laica, controllata dallo Stato, che insegnasse agli alunni a leggere, scrivere e far di conto e instillasse in loro i fondamenti della morale. In un periodo in cui spesso si discuteva degli obblighi dei governi, degli Stati e dei sovrani, gli intellettuali presero a sostenere che l’istruzione popolare era un dovere statale. Despoti illuminati e benevoli cominciarono a dar loro ascolto. Altri filosofi francesi attinsero a idee e spunti contenuti nei piani educativi dei fisiocratici. Turgot, per citarne uno, scrisse nel 1775 un Mémoire sur les municipalités, in collaborazione con Dupont de Nemours. Questo testo, tipico dei tempi, articolava come punto primo un sistema di istruzione pubblica presentato «con un ottimismo facile, che non conosce limiti». Le strutture già esistenti vi erano criticate per il loro eccessivo tecnicismo e accademismo, che le rendeva inadatte a formare i cittadini. Turgot suggeriva la creazione di un Consiglio per la Pubblica Istruzione, che avesse il compito di approntare un curriculum di educazione sociale, di assicurare la presenza di un maestro in ciascuna parrocchia e di provvedere alla pubblicazione di libri di testo che trattassero dei doveri del buon cittadino. L’istruzione di grado superiore veniva demandata ai Collegi e alle Università, istituti dai quali sarebbero venuti fuori gli insegnanti, con opportunità per chiunque avesse del talento. Nel giro di dieci anni la nazione «sarebbe divenuta irriconoscibile»14. Con gli anni settanta, i filosofi - e i loro protettori e adepti - fecero dell’istruzione pubblica un obiettivo primario. L’influenza esercitata fu enorme. La possibilità di muoversi nella direzione che essi indicavano fu discussa e, in alcuni casi, sforzi concreti furono tentati da diversi sovrani del Centro-Europa. Un grado minimo di competenza alfabetica fu ritenuto indispensabile persino per i contadini, al fine di favorire la diffusione delle nuove idee che andavano emergendo in campo agricolo. Richieste di un programma di istruzione popolare furono avanzate anche nella regione basca e negli stati controllati dal Papato15. Nel disegnare la legislazione, i nuovi propugnatori dell’istruzione spesso si rivolsero al modello della Chiesa. Paradossalmente - ma la cosa non deve sorprendere più di tanto considerata la posizione di assoluta preminenza di cui proprio la Chiesa aveva goduto nel settore dell’educazione, negli anni e nei secoli precedenti - i riformatori, mentre tentavano di spingersi al di là delle istituzioni ecclesiastiche, davano nuovo indirizzo ed espandevano le basi del sistema di tutela16. Notevole fu così il numero di programmi elaborati

13 PAYNE, The Philosophes and the People, cit., pp. 98-99. Si veda in generale anche GAY, The Enlightenment, cit.; CHISICK, The Limits of Reform, cit.; BALLINGER, The Idea of Social Progress, cit.; SNYDERS, La pedagogie en France, cit.; R. CHARTIER et al., Education et Société en France, Paris, Société d’Edition d’Enseignement Supérieur, 1976; K. MARTIN, French Liberalism; L.G. CROCKER, Nature and Culture, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1965; E.F. GENOVESE, The Physiocrats, Ithaca (N.Y.), Cornell University Press, 1976 ed i rimandi sull’Inghilterra, sulla Spagna e sulla Germania. Sull’opposizione in Germania, vedi per esempio EPSTEIN, The Genesis of German Conservatism, cit. 14 D. DAKIN, Turgot and the Ancien Régime in France, London, Methuen, 1959, pp. 274-275. Si veda inoltre SNYDERS, La pedagogie en France, cit.; PAYNE, The Philosophes and the Peoples cit.; GAY, The Enlightenment, cit.; BALLINGER, The Idea of Social Progress, cit.; W.H. WICKWAR, Saron D’Holbach, London, Allen and Unwin, 1935, pp. 135-136; A.M. WILSON, Diderot, New York, Oxford University Press, 1972; CROCKER, Nature and Culture, cit.; gli studi su Rousseau. 15 PAYNE, The Philosophes and the People, cit., p. 100. si veda anche LIEBEL, Enlightened Bureaucracy, cit.; CHISICK, The Limits of Reform, cit.; F. HERTZ, The Development of the German Public Mind, London, Allen and Irwin, 1962; JONES, The Charity School Movement, cit.; VENTURI, Italy and Enlightenment, cit., trad. it. Settecento Riformatore, cit.; LEITH, Facets of Education, cit.; MAYNES, Schooling the Masses, cit.; ma la letteratura attinente è vasta. 16 PAYNE, The Philosophes and the People, cit., p. 101-102.

facendo leva sui consolidati schemi dell’educazione clericale, con preti in funzione di maestri, anche se integrati da precettori laici. Il Consiglio per l’Istruzione proposto da Turgot e Dupont de Nemours avrebbe assunto il controllo di tutte le strutture didattiche e promosso l’insegnamento della moralità sociale, avendo come esempio e guida l’uniformità del modello religioso. Molti filosofi, però, erano anticlericali: questi cercarono i modi per allentare la stretta della Chiesa. Nessuno comunque pensò mai di privare l’istruzione di una rigorosa base morale. Si era infatti convinti che una crescita intellettuale e morale era indispensabile perché vi fosse progresso nel senso più pieno del termine17. Due fattori intervennero a favorire questa lievitazione di interesse per l’istruzione: la raggiunta consapevolezza che una riforma del sistema educativo doveva includere le masse popolari e l’emergere di una concezione dell’istruzione pubblica, che aveva al suo centro la moralità, pur se vincolata dalla Chiesa. A dispetto del liberalismo, della tolleranza di cui vengono comunemente accreditati, i filosofi mostrarono con le masse popolari (e con la religione) un rapporto che, nel migliore dei casi, deve dirsi ambiguo. Molti dei loro scritti e delle loro lettere lasciano trasparire disprezzo per il popolo, giudicato rozzo e incapace di ragionare, e per ciò stesso quasi privo di dignità umana. Non era certo questa una base promettente sulla quale fondare un diverso, illuminato ordine sociale. Sempre più, però, i filosofi si resero conto che era proprio il popolo, innegabilmente, a costituire il tessuto connettivo della società, l’organo dal quale dipendevano le condizioni del corpo sociale nel suo complesso. Poiché i contadini e le classi lavoratrici erano utili e parte della società, ad essi andava garantito un trattamento più consono. Se governati da leggi giuste, se sottoposti a un regime fiscale equo, se tutelati dall’introduzione di valide misure tese ad assicurare loro un’adeguata istruzione, essi avrebbero potuto assumere, all’interno della società, una posizione più responsabile e vantaggiosa18. Presupposto di una istruzione delle masse era un’alfabetizzazione funzionale, ma soprattutto una educazione del singolo ai doveri connessi con la propria posizione e condizione sociale. Tale processo di crescente attenzione al popolo rappresenta una revisione degli orientamenti generali dei filosofi e anche, almeno in parte, del loro modo di guardare alle sue potenzialità e di valutarle. «I nuovi propugnatori dell’istruzione pubblica furono costretti a riconoscere a tutti gli uomini, indistintamente, una qualche, seppur modesta, capacità di cogliere e accettare verità astratte»19. Con lo sviluppo dei loro programmi, aumentò il senso della indifferibile necessità di raggiungere le masse. Ottimismo e cautela dividevano i filosofi. Li riuniva l’enfasi comunemente posta sugli aspetti morali dell’educazione20. Si trattava in primo luogo di una moralità sociale e civile. L’obiettivo era quello di creare persone preoccupate del benessere proprio e della propria famiglia, sensibili alle condizioni della società, al problema dell’obbedienza al governo e allo Stato. La società sarebbe stata la beneficiarla di tali individui moralmente formati, residenti al suo interno. Per costruire una società di questo tipo era indispensabile una istruzione pubblica, nazionale, da avviarsi molto per tempo e che avesse un nucleo morale ed etico. Premi e punizioni sarebbero stati utilizzati a sostegno delle lezioni, per accrescerne la presa; la preparazione morale avrebbe permeato l’intero curriculum di studi. Ogni materia trattata, dalla grammatica alla storia, poteva e doveva essere insegnata in modo tale da esercitare una influenza morale sugli alunni21. Secondo i filosofi, solo i pochi veramente illuminati erano in grado di comprendere l’ordine sociale ed etico e dunque assumere un ruolo di preminenza culturale e di comando. I molti, se appropriatamente istruiti, sarebbero arrivati a interiorizzare le regole dell’ordine sociale: a loro non serviva cogliere le basi intellettuali della moralità. Le nuove scuole e il catechismo avrebbero insegnato alla gente quanto occorreva sapere per vivere in modo migliore e contribuire alla crescita della società. Le scuole per i cittadini divennero l’obiettivo dichiarato di tutti. L’istruzione formale avrebbe rappresentato un momento di quello sforzo sistematico teso a fare del governo uno strumento finalizzato alla preparazione del popolo alla socialità e alla convivenza civile. Le proposte dei filosofi non ignorarono l’esistenza di differenze sociali. Si cercò, in buona sostanza, di riconciliare la massa con la propria condizione, piuttosto che di far nascere una intelligenza critica che

17 Ibidem, pp. 102, 104-105. Vedi anche LIEBEL, Enlightened Bureaucracy, cit.; HOLBORN, A History of Modern Germany, cit.; MAYNES, Schooling the Masses, cit,; LEITH, Facets of Education, cit.; G. BOLLÈME, Les Almanaches populaires, Paris, 1969; infine, l’opera di H.J. MARTIN citata più innanzi. 18 Si veda per esempio Condorcet, citato in WEINTRAUB, Towards the History, cit., p. 56. 19 O. HUFTON, Review Article, in «Historical Journal», 20 (1977), p. 975; PAYNE, The Philosophes and the People, cit., pp. 106-108. Si vedano inoltre i lavori di GAY, WADE, e gli studi di WEINTRAUB su Voltaire; J.A. LEITH, Modernisation, Mass Education, and Social Mobility in French Thought, 1750-1789, in «Eighteenth Century Studies», 2 (1973), pp. 223-238; BALLINGER, The Idea of Social Progress, cit. 20 LEITH, The Hope of Moral Regeneration, cit., pp. 215, 218, passim; N. SUCKLING, The Enlightenment and the Idea of Progress, in «Studies in Voltaire and the Eighteenth Century», 58 (1967), pp. 1461-1480; C. FRANKEL, The Faith of Reason, New York, King’s Crown Press, 1948; BALLINGER; The Idea of Social Progress, cit.; CHISICK, The Limits of Reform, cit.; GAY, The Enlightenment, cit.; si vedano inoltre le opere di Locke; PASSMORE, The Malleability of Man, cit.; SNYDERS, La pedagogie en France, cit. 21 Citato in LEITH, The Hope of a Moral Regeneration, cit., p. 226; si veda inoltre J.A. LEITH, The Idea of Inculcation of National Patriotism in French Educational Thought, in Education in the Eighteenth Century, a cura di J.D. BROWNING, New York, Garland, 1979, pp. 59-77; BALLINGER, The Idea of Social Progress, cit., pp. 90, 92-93.

potesse scatenare il desiderio di fornire i mezzi per fuggire da essa. L’istruzione avrebbe garantito alla gente le abilità e la prospettiva morale necessarie per svolgere le funzioni sociali in modo produttivo e pacifico. Il sapere leggere, scrivere e far di conto avrebbe assicurato un background, adeguato e indispensabile per qualsiasi occupazione. Al di là di questo, l’istruzione avrebbe stimolato in ciascuno il senso del dovere. I diversi piani per l’educazione prevedevano una barriera per i figli del popolo a livello dell’istruzione secondaria, e questo in stridente contrasto con i proclami dei filosofi circa un accesso al servizio pubblico aperto, attraverso l’istruzione, alla libera competizione. Ben pochi credevano che virtù, talento e genio potessero ritrovarsi in molti contadini e lavoratori. Un ristretto numero di borse di studio sarebbe quindi stato sufficiente per garantire la possibilità di proseguire negli studi, ai ragazzi di basso ceto veramente meritevoli. Tutti gli altri, il numero di gran lunga più consistente, avrebbe trovato posto nel mondo del lavoro22. Comunque, proprio scoprire quelle abilità non comuni, nascoste tra la gente comune, fu uno degli obiettivi fondamentali perseguiti dai filosofi. Il sistema educativo ipotizzato doveva, perciò, insegnare ai più i doveri e le competenze fondamentali, ma doveva anche consentire di riconoscere l’individuo eccezionale tra la normalità di tanti23. Le realtà sociali ed economiche e le opinioni del momento limitarono i piani illuministici per l’educazione. Considerato quanto necessario fosse il lavoro dei bambini e viste le scarne risorse convogliate verso i sistemi nazionali di istruzione pubblica, persino allargare la soglia di accesso al sapere sarebbe stato probabilmente chiedere troppo. Interrogativi sulla educabilità delle masse e sulla saviezza di un programma mirato alla loro alfabetizzazione contribuirono a condizionare le proposte e a contrarre gli interventi. Molti temevano che la diffusione dell’istruzione avrebbe condotto a una diminuzione della manodopera e a un aumento della insoddisfazione tra il popolo. I filosofi propugnatori dell’educazione aspiravano a una nazione formata alla base da lavoratori e agricoltori istruiti il minimo indispensabile, virtuosi e pacifici. Questo avrebbe significato un cruciale passo in avanti verso la creazione di una società fondata su una popolazione in grado di essere ben governata. Se correttamente indirizzato, ciascuno avrebbe compreso e accettato il proprio posto nella vita e nella società24. Solo di rado queste limitazioni forzose appaiono superate nelle riflessioni dei filosofi. Adam Smith, nell’opera An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations del 1776, sollecitò il patrocinio statale per l’istruzione pubblica. A tutti i cittadini, affermava, doveva essere richiesto di imparare a leggere, a scrivere e a far di conto, per ragioni di ordine economico. Egli avvertì anche che l’isolamento cui costringeva la fatica quotidiana, nei lavori manuali, poteva essere in qualche misura bilanciato dall’istruzione. Mirabeau, d’altra parte, riteneva che la moralità e l’educazione civica, attraverso l’istruzione universale, potessero aiutare a cementare nuovamente una società frantumata, senza per questo azzerare la realtà di fatto della esistenza di differenze sociali. Tanto il progresso della società che il miglioramento della qualità della vita del popolo avrebbero potuto essere agevolati. Era questa la logica dell’Illuminismo, il sogno del XVIII secolo, rimasto potente nei molti che lo hanno condiviso25. In esso è racchiuso uno degli usi fondamentali dell’alfabetizzazione. Condorcet, il grande promotore della scolarizzazione, fu il principale propugnatore di modelli di istruzione durante il periodo rivoluzionario26. Il suo famoso Rapporto sull’Istruzione fu presentato all’Assemblea Legislativa nell’aprile del 179227. Vero figlio dei tempi, esso comprendeva cinque trattati filosofici sull’educazione e un curriculum, completo per ogni grado e tipo di istruzione. Condorcet esordiva con una programmatica enunciazione di fede: «L’istruzione pubblica è un obbligo dovuto dalla società a tutti i cittadini». La creazione di un sistema scolastico nazionale aveva, conseguentemente, il fine di «assicurare a ciascuno la possibilità di svolgere con maggiore efficienza il proprio lavoro, con maggiore consapevolezza le proprie funzioni civili, e di sviluppare al massimo i talenti ricevuti dalla Natura. Ciò - egli continua - istituisce una effettiva parità tra i cittadini e crea i presupposti per attualizzare, in concreto, il principio di uguaglianza politica sancito dalla legge». Ecco un programma per tradurre nel reale la logica dell’Illuminismo: una logica che il XVIII secolo non riuscì

22 Citato in PAYNE, The Philosophes and the People, cit., pp. 109-111. Per le analogie vedi anche LEITH, Modernisation, cit.; Id., Facets of Education, cit.; ma cfr. CHISICK, The Limits of Reform, cit. Attinenti anche le opere di BURY, FRANKEL, MANUAL, TUVESON, RANDALL, SMITH, K. MARTIN e WEINTRAUB. 23 Citato in PAYNE, The Philosophes and the People, cit., p. 111. 24 Ibidem, p. 114. Vedi anche CHISICK, The Limits of Reform, cit. 25 PAYNE, The Philosophes and the People, cit., p. 115; GAY, The Enlightenment, cit. Sulla effettiva sorte degli esperimenti francesi si veda CHISICK, The Limits of Reform, cit. 26 Cfr. il testo della Costituzione rivoluzionaria del 1791: “Titre premier. Dispositions fondamentales garanties par la Constitution [omissis] - Il sera créé et organisé une Instruction publique commune à tous les citoyens, gratuit a l'égard des parties d'enseignement indispensables pour tous les hommes et dont les établissements seront distribués graduellement, dans une rapport combiné avec la division du royaume..". 27 L’opera di Jean-Antoine Nicolas Caritat marchese di CONDORCET, intitolata Rapport et Projet de décret sur l'organisation generale de l'Instruction publique, redatta nel 1792, risulterà essere un'altra fondamentale tappa nella formulazione delle norme e delle forme dell'apparato scolastico per la società liberale e capitalistica dei successivi due secoli.

a rendere operativa, ma con la quale si sarebbe parimenti confrontato il secolo successivo. Gli assunti implicitamente veicolati dal rapporto sono senz’altro suggestivi. Tra le righe, Condorcet affermava che l’istruzione era una funzione pubblica piuttosto che privata. Le scuole private dell’Ancien Régime, rispondendo ai bisogni dei soli ceti ricchi, erano state l’espressione di una struttura sociale rigida, in cui l’istruzione diveniva simbolo di un certo status sociale e di agiatezza economica. Se si voleva fondare una società nuova, più equa, in cui maggiori opportunità fossero alla portata di molti, lo Stato doveva agire in modo da ridurre la discriminazione derivante dall’ignoranza. Lo Stato, attraverso una istruzione pubblica, universale e gratuita, poteva alleggerire l’incidenza della disuguaglianza sociale, garantendo una possibilità di acculturazione a ciascun cittadino. Per Condorcet l’ignoranza non solo conduceva alla povertà, ma essa stessa, in sé, era una forma di povertà, in quanto condannava alla dipendenza da chi possedeva il sapere. Non tutti avevano bisogno del medesimo grado di istruzione: ciascuno necessitava di quel tanto sufficiente a permettergli di godere consapevolmente dei propri diritti. Condorcet aborriva in particolar modo l’esistenza di una classe depositaria dell’istruzione (a scapito di tutte le altre), e ne temeva il potere. Al di là del talento e del sapere che i suoi componenti potevano esibire, la sua presenza rappresentava un ostacolo per lo sviluppo sociale. Il progresso avrebbe compiuto dei passi in avanti se gli elementi più dotati prodotti dalla massa fossero entrati a far parte del nucleo delle persone di qualità operanti in seno allo Stato. Uno dei compiti dell’educazione doveva essere proprio quello di far emergere, su base meritocratica, i più capaci all’interno di ciascuna classe. Solo attraverso l’istruzione una popolazione turbolenta, superstiziosa e indisciplinata avrebbe potuto essere trasformata in un popolo ordinato, illuminato ed economicamente indipendente. L’istruzione era un requisito imprescindibile perché vi fosse democrazia. E in effetti come potrebbe un popolo, altrimenti, vivendo nell’ignoranza, rendersi consapevole dei propri diritti ed essere in grado di adempiere ai propri doveri? «La diffusione del sapere permette a una società di creare buone leggi, una amministrazione saggia e una costituzione veramente libera»28. L’istruzione aveva altri modi di utilizzazione. Era un elemento vitale nella promozione del progresso economico. Una ricchezza meglio distribuita avrebbe favorito e indotto una crescita anche a livello individuale; il benessere di pochi era, invece, di ben scarsa utilità sociale. Con gli inizi dell’industrializzazione e l’avvento della meccanizzazione, Condorcet intuì che l’allargamento a tutti dell’istruzione non poteva più essere differito, se non si voleva che la mente dei lavoratori venisse distrutta dalla monotonia dei compiti quotidiani loro assegnati. L’istruzione avrebbe fornito i mezzi per contrastare l’alienazione, la nuova malattia sociale prodotta dall’era delle macchine e della serializzazione industriale del lavoro. Alla stregua dei suoi predecessori e pari, Condorcet sosteneva che l’istruzione era un diritto naturale anche per le donne. Facendo parte del corpo sociale a tutti gli effetti, esse necessitavano, al pari degli uomini, di un livello di conoscenze tale da consentire loro di prendere coscienza dei propri diritti e di assolvere i propri doveri. Riguardo alla programmazione, Condorcet era favorevole all’educazione mista a livello di istruzione elementare perché, a suo dire, avrebbe stimolato il cameratismo tra i sessi e fatto scattare il desiderio di emulazione. Condorcet osteggiò aspramente l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, da lui pensate come luogo di incontro e di fusione di giovani di ogni credo e fede. L’istruzione morale costituiva il nucleo del curriculum da lui tratteggiato, ma si trattava di un insegnamento svincolato dal rituale e dal dogma religioso, e centrato invece su di una moralità più intellettuale, più razionalista di quella offerta, a suo giudizio, dalle scuole dell’Ancien Régime e dalla Chiesa. La seconda parte del rapporto conteneva un programma completo di istruzione per un sistema scolastico nazionale. I gradi previsti erano quattro: uno primario, uno secondario, gli istituti e i licei: tutti gratuiti e aperti alla co-educazione. Le scuole di primo livello, obbligatorio, avrebbero dovuto essere istituite in ogni distretto di Francia. Il curriculum di studi si articolava in un corso quadriennale in cui sarebbero state presentate le materie letterarie e nozioni di geometria, geografia e agricoltura. Quanto all’educazione morale, questa «doveva essere proposta sotto forma di storie capaci di stimolare solidarietà e comprensione verso tutti gli esseri viventi». Vi rientrava anche una educazione ai diritti e ai doveri del cittadino. Ogni villaggio con almeno 400 residenti doveva avere una scuola; si sarebbero compiuti sforzi per renderle accessibili anche ai figli dei contadini. L’istruzione di secondo grado, anche questa di durata quadriennale, sarebbe invece stata assicurata nelle maggiori città di ciascun distretto (4.000 o più residenti). Questo secondo livello prevedeva lo studio delle scienze, delle lingue, dei rudimenti delle tecniche commerciali e delle discipline sociali. Quanto agli insegnanti, per loro erano previsti corsi di formazione e il conseguimento di un certificato di abilitazione. I primi quattro gradi, insieme, costituivano, almeno in teoria, un sistema aperto. Per sradicare l’analfabetismo tutti i bambini dovevano obbligatoriamente frequentare il primo livello, in modo tale da ricevere almeno i rudimenti del sapere. Gli altri livelli, per quanto anch’essi aperti e gratuiti, erano di fatto preclusi a tanti, perché vi erano genitori che avevano bisogno del lavoro dei figli o che non potevano permettersi di mantenere un figlio a scuola, lontano da casa. Condorcet sperava che l’assegnazione di un

28 J.S. SCHAPIRO, Condorcet and the Rise of Liberalism, New York, Harcourt Brace, 1934, pp. 106, 198-201. Si veda anche CHISICK, The Limits of Reform, cit.; le opere di BALLINGER, KOYRE e WEINTRAUB.

certo numero di borse di studio avrebbe consentito, almeno ad alcuni dei meno abbienti, di superare difficoltà di questo tipo. La gran parte dei futuri cittadini si poneva fuori dal sistema dopo i primi quattro anni. In questi casi, l’istruzione per adulti, con lezioni e corsi di lettura domenicali, avrebbe consentito la continuazione del programma di formazione morale e civile. Agli agricoltori sarebbero stati insegnati metodi scientifici di sfruttamento della terra, ai genitori il modo di allevare ed educare i figli e così via29. II rapporto, summa di ideali pedagogici illuministici, fu presentato all’Assemblea Legislativa nell’aprile del 1792. Non fu mai adottato. Quindici mesi più tardi, nel luglio 1793, una nuova Commissione per l’Istruzione era al lavoro. Un piano per un sistema elementare a monopolio statale, per nulla simile a quello di Condorcet, veniva approvato in dicembre. La frequenza era gratuita e obbligatoria tanto per i ragazzi che per le ragazze, ma limitata a tre anni. Lo Stato avrebbe pagato un salario ai maestri, in percentuale però al numero di alunni frequentanti. Anche i membri di ordini religiosi potevano esercitare l’insegnamento ma, al pari degli altri maestri, solo se in possesso di una autorizzazione delle autorità laiche. Negli alunni dovevano essere instillati i dettami, lo spirito ed i principi ispiratori della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Comunque, nemmeno questi obiettivi più limitati furono conseguiti. Mancanza di fondi e di tempo influirono per certa parte, insieme con i problemi più pressanti che il governo si trovò a dover affrontare e che ne assorbirono le energie. Inoltre, il rifiuto di questo tipo di istruzione da parte di un’ampia fetta di popolazione ridusse ulteriormente l’efficacia dei provvedimenti. Nel decennio che precedette il nuovo secolo, mai, ad alcun livello, l’istruzione fu resa effettivamente obbligatoria. Nel 1795, alle soglie ormai del declino, la convenzione approvò un nuovo decreto per l’istruzione pubblica. Prospettive più conservatrici si erano fatte largo. Gli alunni avrebbero dovuto, secondo questo ulteriore progetto, pagare per la propria educazione, anche se 1/4 della retta poteva essere decurtata in caso di accertata indigenza. L’autorità amministrativa centrale veniva ridimensionata. Le iniziative promosse dall’Atto dell’ottobre 1795 registrarono un successo molto maggiore ai livelli post-elementari che non a quelli inferiori. Fu sviluppato un sistema di istruzione secondaria di grande rilievo. Nacquero diverse scuole di medicina, di veterinaria, di musica, arte, storia naturale e vennero sviluppati metodi per l’insegnamento ai ciechi e ai sordi. Furono creati i presupposti, solidi e fecondi, di un sistema nazionale attraverso la scuola normale, il politecnico, la scuola per minatori, l’istituto militare; e ancora attraverso i musei, la Biblioteca Nazionale, gli archivi nazionali e dipartimentali. Tali strutture, virtualmente già esistenti sotto l’Ancien Régime, in questa fase si rinnovarono allargandosi ad abbracciare fasce sempre più ampie di popolazione. La promozione dell’alfabetizzazione e della moralizzazione delle masse era questione diversa. E sotto questo aspetto passi in avanti non se ne registrarono nonostante la potente eredità lasciata dai filosofi e i molteplici progetti da essi elaborati30. § 3. Modelli di istruzione. Nel corso del secolo, ordinamenti tradizionali in campo scolastico restarono generalmente in vigore nella gran parte dell’Europa. Fino alla fine del Settecento le poche riforme illuminate che vennero attuate non poterono avere alcuna rilevante incidenza sui livelli popolari di scolarizzazione o di alfabetizzazione31. Questi ultimi, comunque, nella misura in cui si è oggi in grado di ricostruirli, crebbero nel corso del secolo in Francia, Inghilterra, Nord America e, probabilmente, anche in Scandinavia e negli stati germanici, che già vantavano valori percentuali piuttosto elevati. Le dimensioni del cambiamento non furono regolari né costanti e il progresso si dimostrò diseguale e sporadico. Il comportamento e i sentimenti popolari sono fattori fondamentali, per quanto - è ovvio - non i soli, di cui tener conto per comprendere i vari modelli di alfabetizzazione e istruzione. Mary Jo Maynes, cui si deve una importante storia comparata dell’educazione in Germania e Francia, ci ricorda non soltanto il peso di variabili locali o comunali, ma anche l’importanza del ruolo svolto dalla famiglia: per la maggioranza delle famiglie della prima fase dell’era moderna, lo scarso entusiasmo mostrato nei riguardi dell’istruzione era in effetti il riflesso di una scelta consapevole e meditata. Le famiglie di agricoltori, dappertutto, contavano molto sul lavoro stagionale dei figli, anche di quelli più piccoli. Poche erano le scuole gratuite: mandare un

29 SCHAPIRO, Condorcet, cit., pp. 201, 203, 205-206, 209-210. Si osservino le analogie con l’Utopia di Tommaso Moro. Vedi anche A. WILSON, «Treated Like Imbecile Children» (Diderot): The Enlightenment and the Status of Women, in Women in the Eighteenth Century, pp. 89-104; CHISICK, The Limits of Reform, cit. 30 S.T. MC CLOY, The Humanitarian Movement in Eighteenth-Century France, Lexington, University of Kentucky Press, 1957, pp. 233-234. Si veda anche MAYNES, Schooling the Masses, cit.; F. FURET e J. OZOUF, Lire et écrire, Paris, Les Éditions de Minuit, 1977; GERSHOY, From Despotism to Revolution, cit.; gli studi di BARNARD; LEITH, Facets of Education, cit.; CHISICK, The Limits of Reform, cit.; The Making of Frenchmen, a cura di D.N. BAKER e P.J. HARRIGAN, Waterloo (Ontario), Historical Reflections, 1980. 31 Si veda per esempio J. SIMON, Was There a Charity School Movement? The Leicestershire Evidence, in SIMON, Education in Leicestershire, cit.; cfr. con JONES, The Charity School Movement, cit.; anche l’interpretazione di LAQUEUR va confrontata con SANDERSON, CHISICK e MAYNES.

figlio a scuola significava perciò gravare troppo su bilanci familiari spesso angusti. Per la gran parte delle famiglie contadine il ritorno economico assicurato dall’istruzione era minimo, anche se l’istruzione elementare stava indubbiamente acquistando di importanza con l’avvento della commercializzazione dell’economia rurale32. Questo ci riporta ai contrasti esistenti al fondo degli sviluppi registrabili nel settore dell’istruzione. Pensatori e legislatori sempre più si volsero a concezioni istituzionali e burocratiche di vasta portata, prospettando una istruzione pubblica aperta virtualmente a tutti. Ma proprio tra il popolo molti mostrarono di non essere affatto pronti a recepire, o meglio disposti a condividere, simili valutazioni sul posto che l’istruzione formale doveva occupare nella loro vita. Il mondo restava fondamentalmente tradizionale per la maggior parte di quanti lo abitavano. Il disprezzo racchiuso nella denominazione Ancien Régime troppo semplicisticamente maschera gli elementi di continuità e di stretta connessione del presente con il passato. Questa realtà vivevano molti di coloro che risiedevano nelle aree rurali, nonostante i mutamenti sociali, economici e demografici che cominciavano a cambiare il volto della storia. Anche per la gente di città la vita non si era ancora trasformata in modo irreversibile. Le risposte del popolo alle forze del mutamento - commercializzazione dell’agricoltura, proto-industrializzazione, migrazioni, urbanizzazione e così via - sono rivelatrici di come i costumi e i comportamenti tradizionali condizionassero le reazioni umane ai nuovi sviluppi33. Quanto all’istruzione, i modelli non erano così differenziati. «L’istruzione nel vecchio, tradizionale mondo, il “mondo che abbiamo perduto”, non ebbe luogo nella scuola». L’esempio, l’imitazione e l’esperienza costituivano il punto di riferimento primario; la scuola, in senso formale, si collocava in posizione decisamente subalterna. La Bibbia era il principale libro di testo34. Istruito o no (e se sì, soprattutto per scopi religiosi), il mondo del XVIII secolo comunemente non richiedeva un alto livello di alfabetizzazione: solo per poche occupazioni o stili di vita il saper leggere e scrivere era una esigenza irrinunciabile. La cultura orale e la comunicazione orale supplivano, se non a tutti, almeno a molti dei bisogni della maggioranza della popolazione. La vita per coloro che erano istruiti era di poco differente da quella di quanti istruiti non erano. Il grande incremento registratosi nella diffusione dei libri e dei materiali a stampa non interessò tutti uniformemente; d’altro canto, chi non era in grado di leggere non per questo risultò tagliato fuori dai loro contenuti. Libri e materiali a stampa cominciarono a influenzare la vita della gente e a modellare la cultura popolare come mai era avvenuto prima. Nonostante ciò, la tradizione mantenne tutta la sua forza35.

32 M.J. MAYNES, The Virtues of Anachronism: The Political Economy of Schooling in Europe, in «Comparative Studies in Society and History», 21 (1979), p. 613; Id., Schooling the Masses, cit.; Id., Schooling in Western Europe, Albany, State University of New York Press, 1985. 33 Si veda per esempio L. TILLY e J. SCOTT, Women, Work, and. the Family, New York, Hole, Rinegart and Winston, 1978; D. LEVINE, Family formation in an Age of recent Capitalism, New York, Academic Press, 1977. 34 T. NIPPERDEY, Mass Education and Modernization - The Case of Germany; 1780-1850, in «Transactions», Royal Historical Society, 27 (1977), p. 157; C. FRIEDRICHS, Urban Society in an Age of War: Nordlingen, 1580-1720, Princeton, Princeton University Press, 1979, p. 234, cap. VIII, passim. Si veda inoltre G. STRAUSS, Lutheranism and Literacy: a Reassessment, in Society in Early Modern Europe, a cura di K. VON GREYERZ, London, Allen and Unwin, 1984, pp. 109-123; G. STRAUSS e R. GAWTHROP, Protestantism and Literacy in Early Modern Germany, in «Past and Present», 104 (1984), pp. 31-56. 35 GOUBERT, The Ancien Régime, cit., p. 263, trad. it. L’Ancien Régime, cit. Si veda inoltre J. DELUMEAU, Catholicism between Luther and Voltaire, trad. ingl., Philadelphia, Westminster Press, 1977, trad. it. Il Cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo, Milano, Mursia, 1976, e il lavoro di M. VOVELLE sulla cristianizzazione; G. BOLLÈME, La Bibliothèque Bleue, littérature populaire en France du XVIe au XIXe siècle, Paris, Julliard, 1971; R. MANDROU, De la culture populaire, Paris, 1964; BOLLÈME, Les almanaches populaires, cit.; P. BURKE, Popular Culture in Early Modern Europe, New York, Harper and Row 1978, trad. it. Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano, Mondadori, 1980.

Capitolo 2

L’Ottocento § 1. Quadro generale. II XIX secolo vide concretizzarsi molte delle speranze illuministiche che avevano percorso il Settecento; e ciò avvenne sullo sfondo di più generali trasformazioni sociali che spinsero un mondo, quello occidentale, per la gran parte preindustriale, «pre-moderno» e contadino, ad assumere forme e connotati più vicini ai panorami contemporanei. L’Ottocento fu un secolo chiave per l’istruzione: in questi cento anni la sua diffusione toccò nuovi vertici; le sue eredità e tradizioni interagirono in maniera complessa con i più recenti processi di mutamento. Un insieme di modificazioni integrate, del massimo rilievo, stava avendo luogo: le origini del nostro tempo36. Forze relativamente giovani entrarono in scena e combinandosi con altre più sedimentate diedero vita a nuove configurazioni. Il rapporto tra istruzione, industrializzazione, urbanizzazione, crescita commerciale, emigrazione, modificazioni del quadro politico, centralizzazione e istituzionalizzazione, progresso tecnologico, variazioni demografiche e aspetti correlati di mutamento sociale, è stato spesso ritenuto lineare. Al contrario, si tratta di una relazione estremamente articolata, di una realtà spesso contraddittoria che richiede un’attenzione più avvertita e un’analisi più sottile di quelle ad essa solitamente riservate. L’opinione corrente individua nel periodo una fase di riforma e di crescita nel campo dell’educazione pubblica, istituzionale. Le maggiori trasformazioni sociali sono viste come forze promotrici dello sviluppo delle strutture scolastiche, almeno nel lungo periodo, con evidenti riflessi sia sulla scolarizzazione che sulla diffusione dell’alfabetismo. Mentre le interpretazioni divergono sulla valutazione da dare a queste propensioni verso l’educazione - se cioè considerarle il frutto di una spinta proveniente dal basso oppure di un impulso intervenuto dall’alto, e sul come interpretarne le ragioni (se filantropiche o, piuttosto, coercitive), esse concordano nel considerare complessivamente positivi gli esiti di tale processo, alla luce di alcuni chiari indicatori di crescita: incremento delle percentuali di iscrizione scolastica e di frequenza, aumento dei fondi e delle strutture, formazione e assunzione di maestri, evoluzione istituzionale sistematica, centralizzazione, burocratizzazione, aumento dei livelli di alfabetizzazione37. Sebbene all’inizio fattori potenzialmente negativi, il corso dello sviluppo urbano ed economico e l’accresciuto ruolo dello Stato sono reputati elementi induttori dell’alfabetizzazione e del progresso della scolarizzazione. Rispetto alle epoche precedenti, educazione e scolarizzazione appaiono termini più vicini, ma anche realtà spesso collegate solo casualmente. La relativa novità dell’avanzata dell’alfabetizzazione nelle regioni più «moderne», o presunte tali, dell’Occidente è stata ed è solitamente sottolineata. Come è ovvio, poi, le trasformazioni tecnologiche che sottendono alla rapida crescita del volume, della distribuzione e della diversificazione stessa dei materiali a stampa, vengono subordinate, in sede di interpretazione, a ipotetici focolai di domanda proveniente da «nuovi pubblici di lettori» che avrebbero agito da stimolo, determinando una risposta pronta e diretta. Alcuni assumono questi sviluppi come un elemento positivo, liberatorio e democratico; altri vi scorgono, invece, il segno dell’avvio di divisioni sociali e di un declino culturale. Quando la semplicità di spiegazioni fin troppo lineari viene messa in crisi da prove e analisi concettualmente fondate, l’intera impalcatura di tali impostazioni monolitiche e monogenetiche cade miseramente. Discordi appaiono le opinioni circa le motivazioni alla base del programma di allargamento dell’istruzione a fasce sempre più ampie del corpo sociale, e delle reazioni popolari a queste opportunità nuove, ora a portata di mano. Alcuni studiosi attribuiscono il mutamento di indirizzo agli sforzi «illuministici» di singole, generose personalità impegnate ad operare per il bene del popolo e della società, combattendo l’ostracismo di élites tradizionaliste e di leaders politici che non riconoscevano il bisogno di una istruzione popolare, e

36 C. CIPOLLA, Literacy and Development in the West, Harmondsworth, Penguin, 1969, trad. it. Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo occidentale, Torino, UTET, 1971; D.C. TIPPS, Modernization Theory and the Comparative Study of Societies, in «Comparative Studies in Society and History», 15 (1973), pp. 199-266; R. NISBETH, History and Social Change, New York, Oxford, 1969, trad. it. Storia e cambiamento sociale. Il concetto di sviluppo nella tradizione occidentale, Milano, ISEDI, 1977; I. WEINBERG, The Problem of Convergence, in «Comparative Studies in Society and History», 11 (1969), pp. 1-15; gli scritti di C. TILLY, S. CHODAK, M. STANLEY; E.A. WRIGLEY, The Process of Modernization and the Industrial Revolution, in «Journal of Interdisciplinary History», 3 (1972), pp. 225-259; J. APPLEBY, Modernization Theory and the Formation of Modern Social Theories in England and America, in «Comparative Studies in Society and History», 20 (1978), pp. 259-285. Per un panorama degli sviluppi ottocenteschi nel campo dell’alfabetizzazione, vedi H.J. GRAFF, The Literacy Myth: Literacy and Social Structure in the Nineteenth-Century City, New York, Academic Press, 1979. Si veda inoltre M.J. MAYNES, Schooling in Western Europe, Albany, State University of New York Press, 1985. 37 Si veda P. MEYERS, The Modernization of Education in Nineteenth Century Europe, St. Louis, Forum Press, 1977. Si tratta di un titolo citato a puro scopo esemplificativo.

sfidando l’evidenza dell’ignoranza e dell’egoismo materialistico delle masse. Altri storici riconoscono, invece, proprio nella classe operaia la forza motrice del processo. Una classe operaia tesa a sfruttare al meglio la disseminazione delle scuole, a difesa dei propri interessi e a sostegno delle possibilità di vedere migliorare il proprio posto in seno alla struttura sociale. Una terza corrente interpretativa sottolinea, infine, il ruolo centrale avuto dallo Stato nello sviluppo del sistema scolastico, con un’azione ispirata da precisi fini politici, sociali ed economici, riassumibili nella volontà di instillare nelle masse «sani» valori e giuste attitudini, e di favorire lo sviluppo delle capacità lavorative indispensabili. Ognuno di questi approcci rinvia, al fondo, a un modello di cambiamento lineare, naturalistico, cioè progressivo o evolutivo. La circolarità viziosa di simili interpretazioni normative fa nascere l’esigenza di prospettive diverse e di nuovi approcci. Per l’Europa ottocentesca, post-illuministica, l’istruzione si configurò come una divinità, uno strumento certo di progresso. La fede nei suoi benefici effetti - per gli Stati, le società e gli individui - fu uno degli assiomi che, su scala mondiale, si affermò in quell’epoca. I molteplici tentativi di promuovere certi ideali, e la varietà dei mezzi messi in campo per vederli realizzati, portarono alla creazione di istituzioni di massa in percentuali mai registrate prima; la scuola stessa assunse, in tale contesto, una forma e un significato nuovi, e con essa l’educazione. Fu proprio questo uno dei contributi più rimarchevoli assicurati dal XIX secolo. I significati e i valori dell’istruzione, sia tradizionali che «moderni» furono amalgamati in un tutt’uno: nel pensiero e nella teoria così come negli sforzi per tradurli in pratica. Essi, inoltre, si estesero, facendone, come mai in passato, una realtà di fatto, e un simbolo. Con i mutamenti intervenuti nei modelli occupazionali e nella geografia degli insediamenti, e con il crescere del settore del lavoro tecnico e di manutenzione, si moltiplicò in progressione esponenziale il bisogno funzionale della capacità di leggere e scrivere. Ci sono buone ragioni, comunque che inducono a non esagerare né a deificare la portata di questo sviluppo pure cruciale. Alcuni contemporanei allora lo fecero - lo hanno fatto anche recenti studiosi e teorici della «modernizzazione». Si tratta certo di una eredità importante; i bisogni e gli usi dell’alfabetizzazione di due secoli fa sono stati però più sottili. Fu nel corso dell’Ottocento che la necessità per l’individuo, di un grado di istruzione almeno minimo venne ad essere un requisito pregiudiziale all’avanzamento o alla mobilità sociale. Per i datori di lavoro ribadire l’importanza di «una manodopera istruita» diventò un refrain abituale. Una manodopera istruita, vale a dire accuratamente formata, dava sicure garanzie di puntualità, rispetto, pulizia, disciplina, subordinazione e via discorrendo. Una forza lavoro facile da controllare, docile, ossequiosa, desiderosa e capace di eseguire gli ordini, era quanto di più occorreva alle imprese, commerciali e industriali, in un secolo di incalzanti trasformazioni economiche. Il posto dell’alfabetizzazione in simili formulazioni non sempre equivaleva a quello di una abilità o di una tecnologia. Era piuttosto il veicolo elettivo per tutelare calori e moralità, e in questa veste fu una scoperta della prima metà dell’Ottocento. Con il modificarsi delle società sotto la spinta delle massicce alterazioni strutturali che interessarono l’Occidente, si andò alla disperata ricerca di nuovi e diversi tipi di aggregazione sociale e di formazione individuale. Nel battere questa strada, mentre cioè si tentava di dare soluzione a questo problema sociale, furono comprese le potenzialità e la forza proprie di istituzioni formali operanti su vasta scala38. § 2. Il contesto culturale. I primi decenni del secolo videro cadere molte delle barriere che in Occidente erano state sollevate contro il progetto di istruire le masse. Questo non significa però che la scolarizzazione di massa arrivò subito dopo, come logica conseguenza. La storia di Spagna, Portogallo e Italia è significativa e emblematica al riguardo39. Per quanto le forme di opposizione variarono da luogo a luogo, sorprendentemente simili risultarono le soluzioni educative prospettate o adottate, almeno per quel che concerne i contenuti e i fini, se non proprio la scelta del momento, la portata dei provvedimenti, la legislazione specifica e le strutture. I mutamenti intervenuti nel contesto sociale, a livelli molto diversi, mutamenti che implicarono trasformazioni sul piano delle relazioni economiche e sociali si combinarono con più nuove forme di risposta sociale, allo scopo di promuovere nuovi obiettivi per l’istruzione, come anche una ridefinizione del posto e del ruolo dell’alfabetismo. Andavano scomparendo i radicali atteggiamenti delle élites, che avevano soffiato sul fuoco

38 Tra i recenti lavori sul progresso istituzionale si annoverano D. ROTHMAN, The Discovery of the Asylum, Boston, Little Brown, 1971; M.B. KATZ, The Origins of Public Education: A Reassessment, in «History of Education Quarterly», 16 (1976), pp, 381-408; Id., Origins of the Institutional State, in «Marxist Perspectives»,1 (1978), pp. 6-23; GRAFF, The Literacy Myth, cit. Si veda anche P. FLORA, Historical Processes of Social Modernization, Urbanisation, and Literacy, 1850-1965, in Building of States and Nations, a cura di S.N. EISENSTADT e S. ROKKEN, Beverly Hills, Sage, 1973, vol. I, pp. 213-258; W. FISCHER, Social Tensions at Early Stages of Industriation, in «Comparative Studies in Society and History», 9 (1966), pp. 64-83. 39 Per un confronto analitico dei sistemi educativi nei paesi europei, cfr. F. VANISCOTTE, L'Europa dell'educazione. Sistemi scolastici, istituzioni comunitarie e priorità formative in Europa, Brescia, La Scuola, 1994; G. RESCALLI, Il cambiamento nei sistemi educativi. Processi di riforma e modelli europei a confronto, Firenze, La Nuova Italia, 1996.

dei timori generati dall’ipotesi di istruire e alfabetizzare una classe operaia insoddisfatta della propria posizione tradizionale di sottomissione. Si fece invece strada il principio che le masse dovessero essere educate, ma in modo «adeguato»40. Il consenso emergente insisteva sull’importanza dell’istruzione come fattore determinante per favorire la stabilità sociale e l’affermazione di precise funzioni egemoniche. Questa prospettiva poneva l’accento sui risultati sociali complessivi - riduzione della criminalità e del disordine, incremento della produttività economica e, al di sopra di tutto, l’instillazione della moralità - piuttosto che sugli obiettivi più ristretti e individualistici dello sviluppo intellettuale e del miglioramento del singolo. In un’atmosfera impregnata di una retorica tutta volta a esaltare sistemi di istruzione di massa, questi fini rappresentavano le ragioni primarie a sostegno di un avviamento controllato all’alfabetismo. L’alfabetizzazione, in sé, isolata cioè da una rigida base morale, continuava ad essere temuta, in quanto ritenuta potenzialmente sovversiva. L’istruzione di uomini e donne «correttamente» addestrati e moralmente vincolati rappresentava il traguardo ambito dai promotori della scuola41. L’enfasi posta su una diffusione e un uso vigilati del «sapere» non costituiva una novità per il XIX secolo. C’erano stati precedentemente dei tentativi molto simili operati da gruppi religiosi che, partendo dal comune riconoscimento dell’indifferibilità dell’elevazione morale delle classi inferiori, erano scesi in lizza per contendersi la conversione di quelle anime. La religione, soprattutto il Protestantesimo riformatore, costituì una forza motrice cruciale in quelle società che giunsero a toccare (o comunque vi si avvicinarono) il picco dell’alfabetizzazione universale, prima dell’Ottocento. La lettura della Bibbia veicolò questo impulso; l’indottrinamento religioso scaturiva dal messaggio morale contenuto in quel testo. Il livello di alfabetizzazione, inoltre, non doveva essere necessariamente elevato: una comprensione profonda e puntuale di tutte le parole lette era inessenziale. L’alfabetizzazione significava, in teoria, l’osservanza di un codice sociale sancito e approvato. Né l’Illuminismo, né la «secolarizzazione» mutarono questo stato di cose. Intorno alla metà del secolo diversi promotori dell’istruzione e alcuni gruppi religiosi si trovarono concordi nelle ragioni che li portavano a propugnare l’alfabetizzazione universale; il loro obiettivo era quello di dare carattere istituzionale allo sviluppo di sistemi di istruzione di massa, senza curarsi degli organi direttivi. Gli addetti ai lavori se da un lato con sempre maggiore foga proclamavano l’assoluta necessità per l’istruzione di essere super partes, dall’altro continuavano a insistere sull’etica cristiana e sulla formazione morale42. Il progetto di un’alfabetizzazione ancorata a una forte base morale accompagnò il trapasso da un’economia morale a un’economia politica, uno spostamento che interessò l’Europa e il Nord America, a partire dagli ultimi anni del Settecento, per tutto il secolo diciannovesimo. Fu in un certo senso una risposta alle ampie trasformazioni sociali intervenute e agli sforzi fatti per comprendere e interpretare quelle trasformazioni. Ci si attendeva che l’alfabetizzazione contribuisse in modo attivo a riordinare e reintegrare la «nuova» società dell’Ottocento. Doveva essere uno strumento centrale, un mezzo per tentare di assicurare coesione sociale, culturale, economica e politica all’espansione e al consolidamento del sistema capitalistico. Il comportamento popolare e la presunta esigenza di un’acculturazione sociale attrassero l’attenzione di molti pensatori interessati al problema, così come di alcuni di coloro che già erano impegnati nel progetto di riformare la società e di rimodellare le masse che di quella società costituivano il tessuto connettivo. Attraverso iniziative mirate a ricreare equilibrio e integrazione sociale, essi portarono avanti una concezione dell’alfabetizzazione imperniata sulla moralità, strumento di stabilizzazione sociale in grado di agevolare il progresso e lo sviluppo senza offrire il fianco ai pericoli del disordine e del caos. L’istruzione formale, attraverso la diffusione «strutturata» dell’alfabetizzazione, era intesa ad elevare e amalgamare la popolazione al fine di assicurare pace, prosperità e coesione sociale. Sostituta efficace e necessaria della deferenza, l’istruzione avrebbe prodotto disciplina e aiutato a inculcare i valori ritenuti indispensabili per una società commerciale, urbana e industriale43. I diversi modi di approccio e di preparazione alla moralità sociale e al controllo di sé, e, con essi, l’affermarsi di un nuovo ruolo per l’istruzione rappresentarono una reazione ai complessi cambiamenti sociali in corso; cambiamenti che affondavano le loro radici nel processo di transizione a una società mercantile e poi industriale e capitalistica. Le istituzioni si proposero come risposta a precise richieste ed esigenze:

40 Si veda per esempio V. NEUBERG, Popular Education in Eighteenth Century England, London, Woburn Press, 1971; nonché le pubblicazioni di gruppi quali la London Central Society of Education. 41 S. HOUSTON, The Victorian Origins of Juvenile Delinquency, in «History of Education Quarterly», 12 (1972), p. 259. 42 Per lo sviluppo di questo concetto, vedi GRAFF, The Literacy Myth, cit., cap. I. e. P. THOMPSON, The Moral Economy of the English Crowd, in «Past and Present», 50 (1971), pp. 78-79. Riguardo all’economia morale, vedi anche L. TILLY sui tumulti per il pane, S. KAPLAN sulla Francia settecentesca; The Formation of National States in Western Europe, a cura di C. TILLY, Princeton, Princeton University Press, 1975. 43 A. PRENTICE, The School Promoters, tesi di dottorato alla University of Toronto, 1974, p. 200; si veda anche della medesima autrice il libro The School Promoters, Toronto, McClelland and Stewart, 1977.

fronteggiare l’avvertita minaccia della criminalità, del disordine e della povertà; bilanciare gli squilibri culturali; preparare e disciplinare la forza lavoro; sostituire la cultura popolare tradizionale con nuovi valori e costumi. Queste problematiche, interagendo tra di loro, accrebbero il bisogno di interventi e ridussero i tempi di reazione delle istituzioni stesse44. Culturalmente, abitudini e ritmi radicati dovevano lasciare il posto a puntualità, obbedienza e ordine: qualità indispensabili alla nuova società. Socialmente, alle tradizionali aspettative legate al rango si sostituì una speranza spesso implicita nella nozione di istruzione: il trionfo cioè della capacità sul privilegio di nascita, o almeno la centralità del risultato personale. A dispetto di questo ideale, però, le specifiche abilità di lavoro, il bagaglio di nozioni, rimasero, nelle formulazioni economico-morali, tratti meno determinanti del carattere e degli abiti mentali e comportamentali. Il ruolo dell’alfabetizzazione, in questa trama, fu complesso perché, come è ovvio, il modo in cui essa doveva essere acquisita e il contesto in cui veniva svolta l’azione educativa restavano fondamentali. Sia il metodo pedagogico che la struttura istituzionale erano variabili importanti nel programma teso a inculcare i principi della moralità, e nella battaglia volta a imprimere nell’individuo il senso dell’autolimitazione e a fargli apprendere la giusta maniera di condursi. Questi indirizzi, e la parte avuta dall’alfabetizzazione al loro interno, rispondevano alla logica di potere del controllo e dell’egemonia; relazioni sociali e modelli occupazionali furono modificati in accordo con altre trasformazioni45. Il principale fine della scolarizzazione e di una diffusione sorvegliata e mediata dell’alfabetismo era quello di imporre una nuova egemonia culturale. Quest’ultima è il risultato, complesso e sottile, di un processo, conscio e inconscio, di sviluppo del controllo, in virtù del quale una classe giunge ad affermare il proprio dominio sulle altre facendo leva sul consenso piuttosto che sulla forza. Tale almeno è la fisionomia che essa assume quando ad agire sono le istituzioni di una società civile46. Ed è precisamente quanto la gran parte dei promotori dell’istruzione cercarono di realizzare. Meta dei loro sforzi era la soluzione del problema di riformare e strutturare l’educazione per riuscire a coinvolgere tutti i ragazzi in un sistema di formazione vigilato. Arrivare o meno a imporre l’egemonia, lo si era compreso, dipendeva «dal livello di compattezza, autoconsapevolezza e organizzazione» raggiunto da una classe sociale. Le loro azioni, per nulla condizionate da una logica economica, né brutalmente imposte, né cospiratorie, derivavano da un riconoscimento dei bisogni della società e della specificità degli interessi sociali. Questo era il traguardo: la scuola e l’alfabetismo, favorendo la disseminazione del messaggio dell’economia morale, sarebbero stati strumenti elettivi di stabilità e coesione.

44 KATZ, The Origins of Public Education, cit., p. 391; M.J. MAYNES, Schooling the Masses, tesi di dottorato alla University of Michigan, 1977; R. JOHNSON, Notes on the Schooling of the English Working Class, 1750-1850, in Schooling and Capitalism: A Sociological Render, a cura di R. DALE, G. ESLEND e M. MCDONALD, London, Routledge and Kegan Paul, 1976, pp. 44-54. 45 Selections from the Prison Notebooks, a cura di Q. HOARE e G.N. SMITH, London, NLB, 1971, p. 242, ma soprattutto A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975. Si notino le analogie con tanta parte degli scritti dei riformatori e degli insegnanti del periodo. 46 HOARE e SMITH, Selections, cit., p. 12; J. CAMMETT, Antonio Gramsci and the Origins of Italian Communism, Stanford, Stanford University Press, 1967, p. 204, trad. it. Antonio Gramsci e le origini del comunismo italiano, Milano, Mursia, 1974; G. WILLIAMS, The Concept of «Egemonia», in «Journal of the History of Ideas», 21 (1966), p. 587. Si veda inoltre E.J. HOBSBAWM, Religion and Socialism, in «Marxist Perspectives», 1 (1978), p. 22. Questa interpretazione è debitrice dell’opera di D.B. DAVIS, A.S. KRADITOR, R. WILLIAMS, W. ADAMSON, E. GENOVESE, R.W. CONNELL, R. JOHNSON, M KATZ.

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Capitolo 3

Dal Novecento agli inizi del XXI secolo

§ 1. Linee fondamentali. Il XX secolo ha assistito a nuovi sforzi volti alla promozione di alti livelli di istruzione, sia in Europa che in Occidente e nelle altre regioni del mondo. A dispetto degli straordinari incrementi, ci troviamo tuttavia nel bel mezzo di una «crisi dell’alfabetismo». Non è la prima crisi del genere che viene avvertita; in periodi di trasformazione rapida, su vasta scala, e di confusione riguardante la situazione della civiltà e della moralità, sembra che l’alfabetismo abbia sofferto un «declino» quasi generazionale nel breve corso della storia documentata. Dati i massicci investimenti che l’Europa ha posto nell’istruzione, in termini economici, intellettuali ed emozionali, e date le numerose eredità dell’alfabetismo, non desta meraviglia la delusione per gli effetti del processo di scolarizzazione; si tratta di una reazione persistente, forse inevitabile, e sostanzialmente storica: una delle contraddizioni centrali nel corso della storia dell’alfabetizzazione stessa. «Fin dall’introduzione dei sistemi di scuola pubblica ... i leaders nazionali hanno rilasciato periodiche affermazioni su una “crisi dell’alfabetismo” e varato programmi di riforma volti a sconfiggere l’analfabetismo...»47. Prima di poter affrontare i prossimi pressanti incarichi, bisogna considerare numerose questioni fra loro interrelate: le tendenze dei livelli di alfabetizzazione di base nel corso del secolo XX; gli influssi e gli effetti, asseriti e presunti, dell’alfabetizzazione; la sua situazione oggi in Occidente e i caratteri precisi di questa sensazione di crisi; gli usi, i significati mutevoli e persistenti dell’alfabetismo, e il loro posto all’interno della più ampia rete dei cangianti modi di comunicazione; le eredità dell’alfabetismo e la loro interazione nell’incontro di alfabetismi «vecchi» e «nuovi». Proprio come ha un passato lungo e vitale, anche se trascurato, che ha plasmato e condizionato il presente, l’istruzione ha un futuro, sebbene sia appena possibile abbozzarne i caratteri. L’autentica nozione di alfabetismo è essa stessa problematica48. Le definizioni dei dizionari spesso vanno al di là delle competenze di base di lettura e di scrittura, per includere elementi quali l’apprendimento, l’educazione, l’istruzione, la formazione liberale, la letteratura e le qualità letterarie, la raffinatezza e l’eloquenza. Tali nozioni affondano le radici nella storia, nella valutazione e nella promozione che all’alfabetismo derivarono dagli ideali riformistici e illuministici, nonché nella corrispondente condanna dell’analfabetismo; esse però ignorano distinzioni essenziali e gonfiano il significato dell’alfabetizzazione. La capacità di leggere e di scrivere, quale che sia il livello raggiunto, è legata a simili attributi, nonostante la distanza che la separa da questi. Alfabeta e analfabeta tendono a essere diametralmente e dicotomicamente opposti: in riferimento non solo alla lettura e alla scrittura, ma anche a una serie di peculiarità personali, culturali e comunicative. Ci vuole un attento esercizio della mente e della volontà per superare ostacoli linguistici ed epistemologici radicati tanto profondamente. Alfabetismo significa uno spettro di capacità e competenze che possono condurre o meno a una specifica condizione o a un orientamento personale, socio-psicologico. Il suo significato è determinato solo dal contesto storico suo proprio; non è dato o precluso universalmente. Non occorre che l’alfabetismo indichi le dimensioni del letterario, del raffinato e del liberale, e forse nemmeno che venga messo in forte contrasto con l’analfabetismo. Cambiare la terminologia non aiuta a risolvere il problema. Un compito anche più arduo è richiesto: una revisione e una riconcettualizzazione dei modi in cui noi pensiamo l’analfabetismo e l’alfabetismo. In quest’ultimo va visto un simbolo e un sintomo, come pure un dato di fatto; questa è una conseguenza del suo sviluppo storico. Non sorprende che gli anni ‘70 abbiamo segnato una nuova fase nella storia dell’istruzione. Il tramonto di

47 Si veda S. HEATH, The Functions and Uses of Literacy, in «Journal of Communications», 30 (1980), p. 123; J. BORMUTH, Value and Volume of Literacy, in «Visible Language», 12 (1978), pp. 118-161; Id., Literacy Policy and Reading and Writing Instruction, in Perspectives on Literacy: Proceedings of the 1977 Conference, a cura di R. BEACH e P.D. PEARSON, Minneapolis, College of Education, University of Minnesota, 1978, pp. 13-47. Vedi anche i dati forniti dal centro EURYDICE, Analisi comparativa delle riforme nell’istruzione obbligatoria dell’unione europea e dei paesi dell’EFTA/EEA (1984-1994) I parte. 48 Numerosi autori hanno tentato in anni recenti di elaborare nuove definizioni dell’alfabetizzazione. Si veda H.J. GRAFF, Literacy in History: An Interdisciplinary Research Bibliography, New York, Garland Publishing, 1981. Si veda per gli esempi S.V. DAUZAT e J.A. DAUZAT, Literacy: In Quest of a Definition, in «Convergence», 10 (1977), pp. 37-41; R.L. HILLERICH, Toward an Assessable Definition of Literacy, in «English Journal», 65 (1976), pp. 50-55; M. STANLEY, Literacy: The Crisis of a Concept, in «School Review», 80 (1972), pp. 373-408; J. OXENHAM, Literacy: Writing, Reading, and Social Organization, London, Routledge and Kegan, 1980. Una prospettiva ottocentesca ancora di grande rilievo è quella di W.B. HODGSON, Exaggerated Estimates of Reading and Writing as Means of Education, London, 1868. Si veda inoltre H.J. GRAFF, The Literacy Myth: Literacy and Social Structure in the Nineteenth-Century City, New York, Academic Press, 1979.

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numerosi movimenti - politici, ideologici, economici, culturali - nella riflessione e nei programmi sociali, nelle istituzioni e nella pratica educativa - ha imposto uno scotto al mondo in cui viviamo e alla visione che noi ne abbiamo. Quei movimenti erano tutti in qualche modo connessi a percezioni, usi o significati dell’alfabetismo. Analogamente alle precedenti epoche di transizione, l’alfabetismo è fatto oggetto di una grande attenzione. Insieme alle continuità ci sono, com’è ovvio, i mutamenti: come le strutture sociali, i sistemi economici, le dimensioni culturali e i modi tecnologici e comunicativi del nostro tempo sono altro da quelli del passato, così differiscono i ruoli e i significati dell’istruzione. E resta tuttavia notevole che all’alfabetismo sia riservata oggi un’attenzione pari a quella che destava in altre epoche. La lezione di questo ritorno induce alla riflessione. § 2. Tendenze dei livelli di istruzione del Novecento. Da un’analisi delle statistiche dei censimenti relativi all’Europa del primo Novecento emergono continuità con la metà del secolo XIX. Anche se tutti i paesi hanno fatto progressi, non è mutata la loro rispettiva «classe» di alfabetizzazione. I livelli in Europa centrale e settentrionale erano superiori al 95%; a Occidente superiori all’80%; in Austria e in Ungheria si collocavano al di sopra del 70% (con un progresso qui straordinario); in Italia, Spagna e Polonia al di sopra del 50%; in Portogallo e nei paesi cattolico-ortodossi si assestavano appena intorno al 25%49. Grazie alla istituzione di sistemi educativi e all’inizio dello sviluppo economico «moderno», regioni precedentemente svantaggiate riuscirono a raggiungere tassi di alfabetizzazione elevati. Senza però che fossero state con questo cancellate le differenze nello standard di vita, di ricchezza, di produttività e di benessere nazionale, né le disuguaglianze interne per regione, età, sesso, classe o etnia. Intorno al 1950 i paesi dell’Europa meridionale e orientale vantavano livelli di alfabetizzazione dell’80%, eccezione fatta per il Portogallo, per le isole del Mediterraneo e per l’Albania, dove l’indice si collocava solo intorno al 50%50. L’alfabetizzazione ha continuato la sua straordinaria crescita di lungo periodo, e nel processo si sono assottigliati gli scarti nazionali nei livelli di base. In nessun luogo però la costante ascesa dei tassi di alfabetizzazione è sfociata in trasformazioni radicali per le nazioni, le società o gli individui. I poveri, le nazioni povere sono per lo più rimaste tali, e si sono conservate altre differenze - geografiche, sociali, legate all’età e al sesso51. È il concetto stesso di educazione che va rivisto. Questa è la lezione che bisogna trarre dalle contraddizioni e dalle «crisi» del presente. L’applicazione dei programmi di alfabetizzazione e la motivazione dei discenti hanno incontrato degli ostacoli; trovano posto fra questi le disuguaglianze economiche, politiche e sociali; l’errata destinazione di un’istruzione rivolta soprattutto alle élites; modelli inappropriati per la popolazione nel suo complesso; situazioni sociali ed economiche che non richiedono alfabetizzazione; infine, l’alienazione culturale. Anche dove i programmi ci sono, essi trovano intralci in fattori quali l’insufficienza delle risorse, l’incongruenza del contenuto, la povertà delle comunicazioni e dei trasporti, la dispersione della popolazione, i problemi linguistici, l’insufficienza dei materiali e degli insegnanti, la “assenza delle condizioni ambientali di alfabetizzazione”, cioè di strutture sociali e di opportunità adeguate agli usi di alfabetismo52. Elemento di ulteriore importanza è la concettualizzazione dell’alfabetismo. Tuttora dominano le presunzioni circa le conseguenze e le trasformazioni che ci si attende derivino dal raggiungimento dell’alfabetismo. Secondo Johan Galtung, l’alfabetismo è diffuso e utilizzato per creare l’illusione di uguaglianza: «L’alfabetizzazione non è funzionate, ma solo un artificio statistico per vaste fasce di popolazione - nelle

49 E. JOHANSSON, The History of Literacy in Sweden, Umea, School of Education, Umea University, 1971, p. 71. Si veda inoltre C. CIPOLLA, Literacy and Development in the West, Harmondsworth, Penguin, 1969, trad. it. Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo occidentale, Torino, UTET, 1971; le numerose pubblicazioni della UNESCO; R. BINION, Observations sur la disparition de l’analphabétisme, in «Population», 8 (1953), pp. 121-128. Le questioni di definizione, di calcolo e di comparazione sono spesso rigide e limitative; si veda bibliografia già citata e quella citata in GRAFF, The Literacy Myth, cit., e in Id., Literacy in History, cit. 50 JOHANSSON, The History of Literacy, cit., p. 73. 51 Cfr. le Fonti OCSE, Uno sguardo sull’educazione. Gli indicatori internazionali dell’istruzione, Armando, Roma 1998. 52 UNESCO Secretariat, Literacy in the World since the 1965 Teheran Conference, in L. BATAILLE., A turning point for literacy. adult education for development: the spirit and declaration of Persepolis: proceedings of the International Symposium for Literacy, Persepolis, Iran, 3 to 8 September 1975, pp. 5, 7, 13-14; H.J. GRAFF, Literacy, Education, and Fertility - Past and Present A Critical Review, in «Population and Development Review», 5 (1979); J. CALDWELL, Mass Education as Determinant of the Timing of the Fertility Transition, in «Population and Development Review», 6 (1980), pp. 225-255. Si veda inoltre. H.J. GRAFF, Literacy Past and Present: Critical Approaches in the Literacy-Society Relationship, in «Interchange», 9 (1978), pp. 1-21. Nell’ambito dell’approccio politico alla modernizzazione, gli scritti di maggior rilievo sono quelli di PYE, HUNTINGTON, INKELES e LEMER.

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nazioni sottosviluppate come in quelle “sovrasviluppate”... »53. § 3. Le comunicazioni e il futuro dell’alfabetismo. Il significato dell’alfabetismo era determinato nelle comunità del XIX secolo, dal contesto e dalla pratica. Gli usi comuni dell’alfabetismo - quelli strumentali, di interazione sociale, relativi all’informazione, l’uso a sostegno delle facoltà mnemoniche, in sostituzione dei messaggi orali, come mezzo infine di testimonianza permanente e di conferma - erano differenti dagli usi che vengono incoraggiati nelle discussioni a favore della scuola. Il lavoro non gravitava intorno all’alfabetismo. Le relazioni orali e sociali condizionavano le utilizzazioni della lettura e della scrittura. L’alfabetismo certo aveva un suo peso, ma il suo ruolo era diverso da quello che ha altrove e diverso dalle aspettative teoriche. «La misura in cui individui fisiologicamente normali imparano a leggere e a scrivere dipende in vasta misura dal posto che l’alfabetismo occupa nella famiglia, nella comunità, nell’ambiente di lavoro». Proprio come l’istruzione formale non è necessariamente l’unica via da seguire, così le competenze colte e scolastiche non sono il solo parametro per comprendere il ruolo dell’alfabetismo o i suoi rapporti con gli altri media54. Non è più possibile concepire l’istruzione in termini lineari e progressisti, né considerare più a lungo «tradizionale» o primitiva l’oralità. In verità, se presi isolatamente, non si riesce a comprendere né l’uno né l’altra. C’è una stampa che noi «ascoltiamo», la «voce» che udiamo quando leggiamo, e la «lettura» che facciamo di cose non scritte. Con il progresso tecnologico e con l’intervento del linguaggio politico nella nostra vita, l’alfabetismo ha perduto parte dei suoi significati tradizionali. Il tipo di formazione alfabetizzata legato al successo scolastico non è necessario per integrare le competenze e le applicazioni di base; la televisione e la radio valgono a fornire gran parte dell’informazione di cui abbiamo bisogno55. Come osserva la Heath, le comunità moderne per lo più «non sono pre-letterate, cioè prive di accesso alla stampa o alla scrittura di qualche tipo, ma nemmeno completamente alfabetizzate». La scrittura, indipendentemente dal ruolo centrale che riveste nell’esistenza umana, rimane un atto artificiale, specie se paragonata al discorso orale. Da un punto di vista fisiologico, tutte le persone normali sono in grado di parlare; ma non tutte scrivono56. La cultura occidentale è almeno tanto orale quanto alfabetizzata. L’oralità conserva alcune funzioni comuni per gli individui e per i gruppi, ma agisce anche in modi nuovi e differenti. Walter Ong distingue tra quella

53 J. GALTUNG, Literacy, Education, and Schooling - For What, in BATAILLE, A Timing Point, cit., pp. 98-99. Questo importante saggio è ora ristampato in Literacy and Social Development in the West: A Reader, a cura di H.J. GRAFF, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, trad. it. Alfabetizzazione e sviluppo sociale in Occidente, Bologna, Il Mulino, 1986. 54 HEATH, The Functions and Uses of Literacy, cit., pp. 126-127, 129-131. Della stessa autrice, si vedano gli altri saggi e Protean Shapes in Literacy Events, cit., che fornisce una messe di dettagli. 55 HEATH, Protean Shapes in Literacy Events, cit., pp. 35-36. Sulla questione del lavoro, delle competenze e dell’alfabetizzazione, si vedano come esempi fondamentali H. BRAVERMAN, Labor and Monopoly Capital, cit., trad. it. Lavoro e capitale monopolistico, cit.; J. BRIGHT, Does Automation, cit.; Id., The Relationship of Increasing Automation and Skill Requirements, in The Employment Impact of Technological Change, appendice, vol. II, Report della U.S. National Commission on Technology, Automation, and Economic Progress, Washington (D.C.), GPO, 1966, pp. 203-221; sui nuovi studi sociologici, d’interesse storiografico o contemporaneo, sul posto di lavoro e sui processi lavorativi, vedi in particolare gli studi di M. BURAWOY, D. NOBLE e R. EDWARDS; R. BERG, Education and Jobs, cit.; FISHER, Functional Literacy, cit.; Reading and Career Education, a cura di D.M. NIELSEN e H.F HJELM, Newark (Del.), International Reading Association, 1975 (Perspectives in Reading n. 19); O. HALL e R. CARLTON, Basic Skills of School and Work: The Study of Albertown, Ontario Economic Council, Occasional Paper, Toronto, 1977; l’opera di T.G. STICHT. Sulle questioni più generali, e sulla confusione di cui sono in genere fatte oggetto, si vedano gli studi di W.J. ONG citati più avanti; OXENHAM, Literacy, cit.; D. RIESMAN, The oraI and the Written Traditions, in «Explorations», 6 (1956), pp. 22-28; Id., The oraI Tradition, the Written Word, and the Screen Image, Yellow Springs (Ohio), Antioch University Press, 1956; M. MC LUHAN, The Gutenberg Galaxy, Toronto, University of Toronto Press, 1962, trad. it. La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando, 1984; Id., Understanding Media, New York, McGraw-Hill, 1964, trad. il. Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1979; GORDON, The New Literacy, cit.; N KATZMAN, The Impact of Communication Technology: Promises and Prospects, in «Journal of Communication», 24 (1974), pp. 47-59; J.W. CAREY, A Cultural Approach to Communication, in «Communication», 2 (1975), pp. 1-22; G. S JOWETT, Toward a History of Communication, in «Journalism History», 2 (1975), pp. 34-37; Id., Communications in History: An Initial Theoretical Approach, in «Canadian Journal of Information Science», 1 (1976), pp. 5-13; E.D. HIRSCH, JR., The Philosophy of Composition, Chicago, University of Chicago Press, 1977; S. EWEN, The Bribe of Frankenstein, in «Journal of Communication», 29 (1979), pp. 12-19; J.R. HOLZ e C.R. WRIGHT, Sociology of Mass Communications, in «Annual Review of Sociology», 5 (1979), pp. 193-217; J. TEBBE, Print and American Culture, in «American Quarterly», 32 (1980), pp. 259-279; M.R REAL, Media Theory: Contributions to an Understanding of American Mass Communications, in «American Quarterly», 32 (1980), pp. 238-258; Explorations in Communication, a cura di E. CARPENTER e M. MACLUHLAN, Boston, Beacon Press, 1960; J.D. STEVENS e H. DIEKEN GARCIA, Communication History, Beverly Hills (Calif.), Sage Publications, 1980; C. CHERRY, On Human Communication, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1966; G.M. MILLER, The Psychology of Communication, New York, Basic Books, 1975, trad. it. Psicologia della comunicazione, Milano, Bompiani, 1971; R. HOGGART, On Culture and Communication, New York, Oxford University Press, 1972; R. WILLIAMS, Communications, Harmondsworth, Penguin, 1976; Id., Culture, London, Fontana, 1981; Mass Communication and Society, a cura di J. CURRAN et al., London, Edward Arnold, 1977. 56 Il migliore esempio è rappresentato forse dai persistenti, se non eterni, dibattiti sulla pedagogia della lettura.

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«primaria», «non alterata dalla scrittura o dalla stampa», e un’oralità «secondaria», il linguaggio delle società moderne: «l’oralità indotta dalla radio e dalla televisione», che dipende totalmente da questi media57. La mancata comprensione dei rapporti che legano l’alfabetismo all’oralità (nonché alla visualità) è alla base delle controversie relative all’influenza dei mezzi elettronici, della «cultura giovanile», delle subculture etniche, dell’istruzione bilingue, delle capacità orali, delle lingue «standard» e così via. Non è nuova l’incapacità esibita dagli «specialisti» e in qualche misura dalle culture dell’alfabeto nell’accordare credibilità alle culture orali; essa è alla base di tutti questi problemi, ostacola lo sviluppo della sensibilità necessaria a comprendere motifs culturali e modi di comunicazione diversi, conduce infine a sprezzanti stereotipi. Ecco un aspetto ulteriore del «grande discrimine». Finché non si provvederà a correggere gli orientamenti della cultura alfabetizzata, sfuggirà il senso delle interrelazioni comunicative. Se un «nuovo alfabetismo» è destinato a nascere, esso non sorgerà dall’eclissi della stampa, della lettura o della scrittura di fronte alla sfida tecnologica dell’elettronica, ma dalla trasformazione dei rapporti tra le tecniche di comunicazione58. Gli studi recenti sugli usi dell’alfabetismo mettono in luce un panorama contraddittorio. Essi illustrano sia la necessità di un grado utile di alfabetizzazione per la maggioranza delle persone che vivono e lavorano nelle società avanzate e tecnologiche, sia la condizione di quanti sono in possesso di competenze meno che utili o ne sono del tutto privi. Sentimenti di incapacità, di umiliazione, di isolamento e di dipendenza vengono in genere ricondotti alla mancanza di alfabetizzazione. Tuttavia, problemi psicologici simili si riscontrano anche tra coloro che posseggono sufficiente competenza59. L’alfabetismo ha un ruolo vitale nelle società occidentali contemporanee, ma non si traduce direttamente in competenza e autonomia individuale. Alcune ricerche contemporanee sollevano questioni riguardo agli usi di alfabetismo e ai tipi di competenza posseduti. Ma non ci si rende per lo più conto delle contraddizioni. Bormuth, per esempio, nel tentativo di dimostrare il valore economico dell’alfabetismo, si è servito di una statistica che indicava che l’87% delle persone con occupazioni retribuite aveva bisogno della lettura come parte del proprio lavoro. Questa, se si può prestar fede alle statistiche, è importante per lavorare, e dovrebbe dunque essere considerata un fattore produttivo. Le medie però possono alterare la realtà. Le necessità e le mansioni di lettura, il tempo trascorso in tale attività durante il lavoro, sono elementi variabili secondo il livello della gerarchia occupazionale e sociale. I contributi derivanti da questo tipo di lettura differiscono per valore economico, posizione e riconoscimento sociale. Tra i lavoratori che ritenevano molto importanti le mansioni di lettura, risultavano anche coloro che altro non avevano da leggere se non le etichette o le scritte sui pacchi. Tali rilevanti differenze di status e di livello occupazionale vanno calate nel contesto della trasformazione strutturale della forza lavoro occupata e dei requisiti per il lavoro, due sviluppi costantemente mal compresi. La quantità di denaro investita in attività alfabetizzate connesse al lavoro è in aumento, ma tale interpretazione, se presa a se stante, è incompleta e fuorviante. «La forza lavoro impiegatizia è (infatti) cresciuta più rapidamente di quella complessiva e ... sono i “colletti bianchi” a svolgere quelle attività piuttosto che gli operai»60. Per molti lavoratori l’uso della lettura e della scrittura è di routine, di basso livello, insomma non impegnativo. Tutto ciò che si richiede si limita di solito a una capacità basilare e pratica di lettura, e le competenze necessarie probabilmente non sono quelle verificate dalle prove di alfabetizzazione

57 W.J. ONG, Literacy and Orality in Our Times, in “Journal of Communication”, 30 (1980), pp. 200-201; Id., The Literate Orality of Popular Culture Today, in W.J. ONG, Rhetoric, Romance, and Technology, Ithaca, Cornell University Press, 1971, pp. 284, 296-297. Si veda anche ONG, Rhetoric, cit., passim; Id., Interfaces of the Word, Ithaca, Cornell University Press, 1977; Id., The Presence of the Word, New York, Simon and Schuster, 1970; Id., Literacy and Orality in Our Times, in “Profession”, Modern Language Association, 1979, pp. 2-13; E. MC PHERSON, The Significance of the Written Word, in «Profession”, Modern Language Association, 1977, pp. 22-25; HIRSCH, The Philosophy of Composition, cit.; FINNEGAN, Literacy, in Id., Oral Poetry, Cambridge, Cambridge University Press, 1977. 58 W. J. ONG, Literacy and Orality in Our Times, in «Profession”, cit., pp. 4, 6. Si veda inoltre la bibliografia già ricordata. Sulla stampa non alfabetica, si veda per esempio l’importante studio di W. IVINS, jr., Print and Visual Communication, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1953; inoltre, A. HYATT MAYOR, Prints and People, Princeton, Princeton University Press, 1980. Sui rapporti con l’inventiva, rispetto alla quale alcune testimonianze suggeriscono che l’alfabetismo sia di frequente meno importante, si veda w. IVINS, Print and Visual Communication, cit.; A.F.C. WALLACE, Rockdale, New York, Knops, 1978. Ovviamente, queste questioni sono molto complesse, ma anche altrettanto importanti. Non posso far altro che accennarvi, data la loro complessità, la prevalenza di riflessioni dicotomizzanti, che tendono a tenerle isolate da problemi riguardanti gli altri media, e vista l’evidente povertà delle nostre conoscenze in merito. Si vedano per esempio gli studi di MC LUHAN, RIESMAN E GORDON, già ricordati, così come gli studi di televisione che appaiono per esempio in «Journal of Communications»; J. CULKIN, The New Literacy: From the Alphabet to Television, in «Media and Methods», 14 (1977), pp. 58-61, 64-67, 78-81. 59 A questo riguardo, si veda l’opera di KOZOL, HUNTER E HARMAN, e la letteratura critica sull’istruzione di base degli adulti. Validi esempi di quest’ultima sono gli articoli di BERLAND E D. MC GEE in «Working Teacher», Vancouver, o lo studio inedito di D. WALLACE, della Simon Fraser University. 60 BORMUTH, Value and Volume of Literacy, cit., pp. 122, 129-133, e i ben noti studi di STICHT, SHARON, NIELSEN E NJELM. Si veda tuttavia FISHER, Functional Literacy, cit., per le critiche a gran parte di quei lavori. S. SCRIBNER ha studiato poi alcune di queste questioni.

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«funzionale». Le relazioni importanti sono quelle che si stabiliscono tra istruzione, classe sociale, reddito e livello occupazionale. Individui della classe inferiore, con competenze minime e occupazione di basso livello non solo sono fatti oggetto di una minore richiesta di alfabetismo specializzato per il lavoro che svolgono, ma tendono anche ad avere un inferiore grado di capacità utili. Altrettanto significativa è la frequente tendenza «al ribasso» delle competenze richieste nelle attività lavorative di alto livello. I requisiti in termini d’istruzione sono divenuti più elevati indipendentemente dai mutamenti occorsi nei requisiti per il lavoro. La scolarizzazione non coinvolge solo le capacità o le competenze cognitive connesse al lavoro. La maggior parte delle tendenze nella modernizzazione e riorganizzazione del lavoro, compreso l’impiego della meccanizzazione e delle tecnologie avanzate, è valsa a «de-qualificare», a rendere inferiore, più razionale e di routine il livello di apprendimento o di formazione necessario per il lavoro. Sono deplorevolmente in errore quegli studi sulle trasformazioni della distribuzione occupazionale che ipostatizzano differenze nei requisiti necessari per il lavoro tecnologico o per l’attività impiegatizia stessa. Studi che d’altro canto assolvono importanti funzioni, relative alle ideologie educative, alle stesse scuole, al controllo della forza lavoro61. L’alfabetismo e le competenze trasmesse dalla scuola hanno legami con il lavoro diversi da quelli normalmente presunti. Nonostante la sociologia e la mitologia che si sono fatte sulla continua ascesa dei requisiti per il lavoro, che comprenderebbero livelli sempre più alti e «nuovi» tipi di alfabetismo, le tendenze globali si sono mostrate differenti. L’automazione e gli altri effetti della tecnologia e della riorganizzazione non hanno prodotto in generale un miglioramento dei requisiti per il lavoro. In realtà è possibile che abbiano addirittura ridotto le esigenze di qualificazione62. Mentre gran parte delle attività richiede un certo livello di competenze di alfabetismo, le mansioni effettivamente svolte non valgono ad accrescere esigenze analoghe nelle persone. Alfabetismo e stampa non stanno certo morendo. Ma ciò non impedisce che i modi di comunicazione siano in un momento di trasformazione. Qualunque approccio all’alfabetismo deve essere flessibile e dinamico, e attento al potente ruolo delle continuità e delle contraddizioni. Flessibilità nella concettualizzazione come nell’applicazione concreta, che, dai limiti dell’alfabetizzazione per molti, può forse condurci alle potenzialità di una nuova alfabetizzazione per tutti. Il primo passo da fare sta nel riconoscere la grande varietà di strumenti, di competenze, di traguardi. Siamo circondati dalle parole, dai suoni, dai segni visivi; comunicazione e media vanno a rinforzarli, essi sono anche più invasivi della stampa (si pensi alla diffusione di Internet nei diversi settori delle attività umane: dalla ricerca alle transazioni economiche, dal dialogo via chat alle teleconferenze, ecc. o alla diffusione della lingua inglese negli scambi culturali e commerciali tra i popoli). Riconoscere ciò non significa sminuire l’importanza e i poteri, talvolta enfatizzati, dell’alfabetismo delle lettere63. Ciò che occorre è una visione più ampia della lettura e della scrittura, che vada a integrare e sottolineare le tante capacità umane nel contesto di un mondo in trasformazione che esige il loro sviluppo e il loro uso. Le vie per l’apprendimento individuale dei giovani devono farsi meno rigide; maggiore attenzione va posta alle differenze degli stadi e delle strutture dell’apprendimento; maggiore sensibilità mostrata verso le influenze culturali e di classe. Occorre guadagnare una comprensione dell’istruzione nuova, empirica e concettuale, al di là del contesto delle disuguaglianze persistenti e dell’egemonia del «mito dell’alfabetismo»64. Il nuovo approccio dunque deve collegare il passato al presente; soltanto dopo sono pensabili nuove strade per il futuro. E’ necessario che il passaggio dai «vecchi» ai «nuovi» sistemi educativi si combini, a formare una nuova sintesi, con una solida base intellettuale relativa alle competenze tradizionali. E bisogna tenere presenti le questioni di classe, di opportunità, di uguaglianza e di aumento delle richieste di competenze nuove. Cosa accadrebbe se il mondo intero divenisse istruito? Risposta: nulla di speciale, giacché è strutturato nel

61 BRAVERMAN, Labor and Monopoly Capital, cit., pp. 336, 435-436, 439-441, trad. it. Lavoro e capitale monopolistico, cit. Si vedano inoltre i lavori di BRIGHT e BERG già ricordati; H. GINTIS, Education, Technolog;y. and the Characteristics of Worker Productivity, in «American Economic Review», 61 (1971), pp. 266-279; S. BOWLES E H. GINTIS, Schooling in Capitalist America, New York, Basic Books, 1976, trad. it. L’istruzione nel capitalismo maturo, Bologna, Zanichelli, 1979; GRAFF, The Literacy Myth, cit., capp. I, V; R. DREEBEN, On What Is Learned in School, Reading (Mass,), Addison-Wesley, 1969; 62 BRIGHT, Does Automation, cit., p. 86. Si veda inoltre FISHER, Functional Literacy, cit. Si vedano infine le testimonianze in HALL e CARLTON, Basic Skills of School and Work, cit. 63 OLSON, Toward a Literate Society, cit., p. 147. Si veda inoltre GRAFF, The Literacy Myth, cit., cap. VII e le citazioni che vi vengono fornite; GORDON, The New Literacy, cit.; le opere di MC LUHAN e gli articoli di FARREL e della L. BRILHARD. 64 GALTUNG, Literacy, Education, and Schooling, cit., p. 100. Si veda inoltre P.A. GRAHAM, Whiter Equality, cit.; Id., Literacy: A Goal, cit.; VENEZKY, Fantasy and Realism, cit.; STANLEY, Literacy: The Crisis of a Concept, cit.

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suo complesso in modo da assorbire un simile impatto. Ma se l’intero mondo consistesse di individui istruiti, autonomi, critici, costruttivi, capaci di tradurre le idee in azioni, individualmente e collettivamente, allora il mondo cambierebbe65. L’istruzione è soltanto uno dei fattori connessi al cambiamento e all’azione. Tale è il ruolo che potrebbe svolgere, se fatto oggetto di una concettualizzazione e di una formulazione nuove. Di un vero nuovo ruolo dell’istruzione si sente e si sentirà ancora il bisogno nei tempi futuri: solo con una vera opera di riforma del sistema educativo (e della sua valutazione) si potrà affermare che l’istruzione occupa un posto privilegiato tra le esigenze e i diritti fondamentali dell’umanità.

FABRIZIO DAL PASSO

65 GALTUNG, Literacy, Education, and Schooling, cit., pp. 93, 97, 99, 105.

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Appendice

Il progresso educativo in alcuni Paesi europei

Il sistema educativo in Francia 1. Il quadro storico Premessa In Francia l’istruzione si è costituita in sistema, fondamentalmente, nell’ultimo quarto del XIX secolo. Come in altri paesi europei, all’inizio l’istruzione è stata di competenza della Chiesa. Già nel IV secolo i vescovi avevano fondato scuole per l’istruzione del clero, mentre i capitoli e le collegiate aprivano scuole per l’istruzione dei laici. Fin dal tempo di Carlo Magno gli ordini religiosi crearono scuole per i loro novizi, ma anche scuole pubbliche. Dal XIII secolo in poi le scuole vescovili furono sostituite dalle università: queste ottennero il riconoscimento di corporazione (con un’indipendenza crescente nei confronti dell’autorità ecclesiastica) e si trasformarono progressivamente in corpi pubblici e laici. Ma l’istruzione elementare rimase sempre nelle mani della Chiesa. Il concilio di Trento (1547) aveva prescritto ogni che ogni parroco disponesse di un maestro per l’insegnamento dei rudimenti essenziali dell’istruzione (lettura, scrittura, canto, calcolo): con il passare degli anni si moltiplicarono le scuole parrocchiali e nelle città le amministrazioni fecero pressione sugli uomini di Chiesa per l’istituzione delle scuole. Nel ‘600 queste «scuolette» erano molto diffuse. D’altronde, nel ‘600 e nel ‘700 gli ordini religiosi (gesuiti, oratoriani, fratelli delle Scuole Cristiane) diedero vita a complessi scolastici che diventarono sempre più numerosi e potenti, al punto da soppiantare le università. Sotto l’Ancien Regime il potere regio non intendeva contestare né contendere alla Chiesa la funzione e la responsabilità dell’istruzione: si limitò a creare delle istituzioni prestigiose come il Collegio reale (College de France), voluto da Francesco I, e la Scuola di Belle Arti fondata da Mazarino. È la Rivoluzione che, secondo un’idea cara ai philosophes, ha proclamato il principio del dovere dello Stato di provvedere all’istruzione dei cittadini: un’istruzione «pubblica, comune a tutti i cittadini, gratuita per la parte di cultura indispensabile a tutti gli uomini». L’Assemblea Legislativa, poi la Convenzione, dovevano disegnare le grandi linee dei tre livelli principali di istruzione: primario, secondario, superiore. Durante questo periodo videro la luce numerosi progetti, come quello di Talleyrand, di Lakanal e soprattutto di Condorcet. Ma le vicissitudini politiche dell’epoca non consentirono di condurli in porto. La legge dell’11 floreale (1° maggio 1802) e soprattutto il decreto del 17 marzo 1808 fondarono saldamente l’istruzione pubblica creando un nuovo tipo di istruzione universitaria: la suddivisione della Francia in accademie, l’ordinamento delle funzioni universitarie, la creazione dei licei sono di quest’epoca. Inoltre Napoleone aveva accordato all’Università il monopolio dell’istruzione. Così le scuole secondarie e superiori passarono nelle mani dello Stato, mentre l’istruzione primaria rimase alla Chiesa. Durante la Restaurazione e dopo l’assolutismo napoleonico, il problema della libertà d’insegnamento divenne una questione primaria: fu inserita nella Carta del 1830, poi proclamata e introdotta nell’istruzione secondaria dalla Legge Falloux del 1850 che riconosceva al clero, fra le sue funzioni, il compito dell’istruzione. La Monarchia di Luglio rappresentò un sicuro progresso. Nel 1833 Guizot fece approvare una legge che obbligava ogni comune ad istituire e a finanziare almeno una scuola; ai maestri era richiesto un diploma, mentre lo Stato concedeva loro un magro stipendio; il bilancio dell’istruzione primaria era aumentato notevolmente. Una legge del 1867 istituì una scuola femminile nei comuni con più di 500 abitanti, creò biblioteche popolari nelle scuole, introdusse la storia e la geografia nei programmi e riconobbe la gratuità per i figli di famiglie numerose. Ma V. Duruy non giunse mai a sancire l’obbligo scolastico. La III Repubblica, con J. Ferry e P. Bert, organizzò in maniera dettagliata l’istruzione primaria pubblica. In pochi anni (dal 1881 al 1889) furono stabiliti i principi generali della grande politica scolastica che caratterizza questo periodo e che continua ad ispirare le iniziative in campo educativo: il principio dell’obbligo scolastico, che impone alle famiglie di inviare i figli a scuola e allo Stato di assicurare l’educazione della gioventù con la creazione di una scuola in ogni comune (e perfino in ogni frazione distante dal capoluogo più di tre chilometri) e di retribuire dignitosamente i maestri; la proclamazione della gratuità dell’istruzione; il principio della laicità dell’istruzione, che comporta la neutralità dell’istruzione pubblica, ne esclude gli ecclesiastici e prevede un giorno a settimana di vacanza per permettere ai genitori che lo

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desiderano di far impartire ai figli l’educazione religiosa al di fuori dell’ambiente scolastico. Con una eccezione: i dipartimenti dell’Alto Reno, del Basso Reno e della Mosella, annessi dalla Germania dal 1871 al 1918, conservarono lo statuto scolastico risalente alla legge Falloux del 1850: in essi l’insegnamento religioso, proposto nelle quattro confessioni, rientra nell’orario normale ed è assicurato nella scuola da istitutori volontari. Questi principi, con il passare del tempo, sono stati regolamentati ed il loro campo di applicazione si è esteso notevolmente, ma restano, nonostante il susseguirsi dei governi, i capisaldi della politica scolastica francese. Così l’obbligo scolastico, che nel 1882 imponeva al padre di famiglia di mandare a scuola i figli dai 7 ai 13 anni, è stato prolungato fino a 16 anni (riforma Berthòin del 1959), mentre dopo la Legge Haby (1975) il 100% dei bambini frequentava la scuola materna. Lo Stato ha conservato il monopolio della collazione dei titoli di studio. Il principio della libertà di insegnamento, permette ormai, dopo l’approvazione della Legge Debré del 31 dicembre 1959, la coesistenza di un sistema pubblico d’istruzione e di istituti privati che possono beneficiare della sovvenzione economica dello Stato e che, perciò, sono sottoposti ad un controllo effettuato attraverso un «contratto di associazione». Il sistema scolastico francese rimane molto centralizzato: dipende direttamente dall’autorità del ministro dell’Educazione Nazionale che detiene, per mezzo dei Rettori di Accademia, la responsabilità dell’organizzazione e del controllo dell’istruzione a tutti i livelli. Nell’ultimo quarto del XX secolo, è iniziato un processo di decentramento, ma è ancora limitato alla costruzione e alla manutenzione dei locali scolastici, affidati alle assemblee regionali. I contenuti delle discipline sono stabiliti dagli Ispettori Generali, rappresentati nelle regioni dagli Ispettori Dipartimentali. Il Rettore di Accademia è ormai anche Cancelliere delle Università. È necessario tuttavia precisare che non tutti i settori dell’istruzione dipendono dal Ministero dell’Educazione: l’istruzione agricola, ad esempio, dipende dal ministero dell’Agricoltura e diversi dipartimenti ministeriali sono responsabili di istituti specializzati e di «Grandi Scuole». Il grande mutamento degli anni Sessanta Gli anni Sessanta rappresentano un momento importante nell’evoluzione del sistema scolastico francese. Gli avvenimenti del maggio ‘68 hanno prodotto uno scossone senza precedenti nel sistema educativo, una scossa i cui effetti continuano a propagarsi nella Francia attuale. Tutto è accaduto come se i problemi, la cui soluzione avrebbe potuto essere rimandata a causa della guerra e della ricostruzione durante la prima metà del secolo, si fossero sovrapposti e confusi nella tormenta degli anni Sessanta. L’esplosione scolastica È opportuno anzitutto ricordare ciò che Louis Cros ha chiamato, in un libro del 1961, «l’esplosione scolastica». Le cifre parlano da sole: il numero degli allievi della scuola secondaria è passato, tra il 1949 e il 1963, da 775.00 a 2.400.000; quello della scuola primaria è salito, nello stesso periodo, da 5.120.000 a 8.212.000, mentre le università sono ormai 240. E, in ogni ordine, il numero degli allievi ha continuato a crescere di anno in anno: bisogna attendere il 1985 per assistere all’inizio di un decremento nella scuola primaria. Le statistiche ci dicono non si era mai visto un movimento così generalizzato, così ampio e ad un ritmo così rapido. L’evoluzione demografica è in gran parte responsabile di questo accrescimento senza precedenti della popolazione scolastica. Ma occorre anche tener conto dei progressi della scolarizzazione che interessa i due versanti dell’obbligo scolastico: prima della scuola dell’obbligo (6 anni) la scuola materna arriva ad un pubblico molto più vasto che nel periodo prebellico (praticamente tutti i bambini a 4/5 anni vanno a scuola); la scolarizzazione oltrepassa inoltre anche i limiti della scuola dell’obbligo, portata a 16 anni con l’ordinanza del 6 gennaio 1959. La difficoltà non consiste più, come ai tempi della III Repubblica, nel far andare la popolazione a scuola, ma nell’aprire un numero sufficiente di scuole per soddisfare la domanda crescente. Questa evoluzione coincide globalmente con quella di un’economia che necessita più di cervelli che di braccia; la struttura della popolazione attiva si modifica rapidamente nello stesso periodo: mentre il settore primario (agricoltura, foreste, pesca) regredisce dal 26,7 al 20,6% tra il 1954 e il 1962, il settore secondario (miniere, industria, edilizia) resta quasi stabile, passando dal 36,8 al 38,6 % e il settore terziario (servizi, commercio, trasporti) prende il primo posto, passando dal 36,5 al 40,8%. La stessa evoluzione del settore secondario, dove si moltiplica il ruolo dei quadri, dei tecnici e degli impiegati di concetto a danno di lavori strettamente manuali, va nella stessa direzione. L’economia richiede una manodopera più istruita. Dal canto loro, le famiglie sperano di assicurare ai figli, facendoli studiare, un avvenire migliore. Alcuni ambienti dirigenziali

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reclamano, parimenti, un miglior adeguamento dell’istituzione scolastica alle necessità dell’economia. Ma la crescita della domanda di scolarità si spiega anche con l’aumento del livello di vita che modifica l’atteggiamento della popolazione verso l’istituzione scolastica: non a caso la crescita di popolazione scolastica a livello secondario riprende nel 1951-52, nel periodo in cui l’economia francese esce dalla crisi e dall’inflazione dell’immediato dopoguerra. Ma nessuno di questi fattori spiega in modo decisivo l’«esplosione scolastica». Si è piuttosto in presenza di un fenomeno estremamente complesso e legato ad altri fattori che caratterizzano l’evoluzione della società francese durante questo periodo. Gli elementi che entrano in gioco sono tali e tanti che si ha difficoltà, ad esempio, a spiegare le disomogeneità regionali nello sviluppo della scolarizzazione. La mappa dei tassi di scolarizzazione nella prima media o quella della scolarizzazione degli alunni da 17 a 19 anni non sembrano obbedire a nessuna legge generale che potrebbe poggiare sul livello dei redditi, sulla composizione socio-professionale o l’urbanizzazione. Anche se in genere la scelta della I media dipende strettamente dall’ambiente sociale, non si riesce a spiegare facilmente perché la Bretagna, tendenzialmente di destra ed in pieno sviluppo demografico, e la Linguadoca, piuttosto di sinistra e in decremento demografico, abbiano ambedue un tasso di scolarizzazione superiore a molti altri dipartimenti dinamici. Anche se non si è in grado di chiarire completamente le cause di questa esplosione scolastica, si possono percepire distintamente le conseguenze che essa comporta e i problemi che comporta. La crisi del sistema Di fronte all’ingresso in massa di alunni nelle scuole e nei licei, di studenti nelle università, si poneva anzitutto un problema di reclutamento del personale insegnante. Lo sforzo indispensabile fu intrapreso soltanto nel 1956, troppo tardi, cioè, rispetto ai bisogni. E la struttura rigida delle scuole magistrali non facilitò un adeguamento rapido alla domanda. Ci si mise allora a reclutare in massa personale non qualificato, munito del solo baccalaureato (maturità) o talvolta soltanto del primo grado: si calcola così che nel 1964 quasi un maestro su tre fosse un non-diplomato, reclutato dopo meno di tredici anni di scolarità. L’omogeneità del corpo era minacciata, i nonqualificati venivano accolti male nelle scuole, mentre i maestri più competenti si lasciavano attrarre dalla elementare superiore integrata nella struttura della secondaria. Questi movimenti del personale comportarono una grande instabilità. La scuola di primo grado perse la solidità che l’aveva caratterizzata tra le due guerre. L’esplosione scolastica fu senza dubbio più grave per la scuola secondaria che subì l’urto in modo violento. Dovette reclutare un numero tale di insegnanti che cambiò di grado e subì una vera mutazione: nel 1968 un solo professore su sei era di ruolo e uno su quattro non possedeva i titoli richiesti ai titolari. Il numero complessivo delle classi aumentava, mentre il personale, reclutato in fretta, era nell’insieme meno qualificato. I professori di ruolo tendevano ad occuparsi del secondo ciclo, mentre gli istitutori invadevano i collèges di insegnamento secondario (C.E.S.) ormai separati dai licei. Il mutamento della secondaria intacca infine lo status sociale dei professori: ne sono testimonianza la femminilizzazione lenta ma irreversibile del corpo docente e la fuga dei più ambiziosi verso l’insegnamento superiore o la ricerca. La stessa università è percorsa da un fenomeno di crescita che ha triplicato il numero degli studenti in tre anni. Bisogna costruire in gran fretta campus suburbani, creare nuove facoltà. Il corso tradizionale diventa sempre più accademico, man mano che aumentano gli studenti, e questi sono suddivisi in piccoli gruppi affidati a un corpo nuovo e pletorico di assistenti. Diventa indispensabile diversificare le discipline: i decreti del 22 giugno 1966 organizzano l’istruzione superiore in due cicli e definiscono un certo numero di sezioni. Con le buone o con le cattive, l’università deve interessarsi alla formazione dei quadri superiori della nazione: questo il senso della creazione degli Istituti Universitari di Tecnologia (I.U.T.) (Decreto del 7 gennaio 1966). Molti universitari subiscono malvolentieri questa evoluzione che compromette l’alta missione tradizionale dell’insegnamento superiore, cioè la ricerca, e tentano di trovare rifugio negli organismi di ricerca come il C.N.R.S. Il movimento del maggio ‘68 aggiungerà a questa crisi sociale del sistema una profonda crisi morale. La pressione sociale Fin dagli anni Cinquanta la società francese viveva in perfetta armonia con il suo sistema scolastico: si prospetta invece un divorzio, ormai, tra la scuola e la nazione. L’educazione costa sempre più cara: dal 1952 al 1968 le spese per l’istruzione aumentarono regolarmente dal 7,21 % del bilancio al 17,4%. Nel 1968 si pensa che, su 100 franchi d’imposta versati dal contribuente, 10

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servono a pagare un funzionario dell’Educazione Nazionale. La società reclama allora crediti dall’istituzione scolastica: fa la sua comparsa la programmazione e si pretende che il sistema educativo concorra all’espansione dell’economia. La programmazione mette presto in evidenza le funzioni economiche della scuola ponendo sul tappeto due problemi molto complessi. L’economia chiede al sistema educativo di fornirle la forza lavoro di cui ha bisogno e il V Piano porrà in atto uno sforzo per prevedere l’insieme della domanda di forza lavoro distinguendo diversi livelli di qualificazione; ad essi si fanno corrispondere i diversi livelli di formazione scolastica e universitaria. Così, dalle previsioni dell’evoluzione della forza lavoro si deducono norme qualitative e quantitative di sviluppo dell’istituzione scolastica. Questo esercizio è pericoloso, perché il pesante meccanismo è praticamente incapace di adeguarsi a questa nuova domanda: l’Università continua a fabbricare una massa di intellettuali, mentre gli I.U.T. e l’istruzione tecnica in generale continuano ad essere trascurati. Per di più i desideri delle famiglie non concordano con i bisogni dell’economia: si continua a vedere negli studi un fattore di promozione sociale più che di promozione economica. E, subordinando la funzione sociale della scuola alla funzione economica, si sceglie di perpetuare la gerarchia sociale esistente. L’altro problema posto all’università e al sistema educativo in generale dalla pressione socio-economica, è la rimessa in questione della sua tradizionale funzione culturale: ad essa spetta il progresso del sapere e la trasmissione delle conoscenze acquisite. Ma si tratta, per l’universitario e per l’insegnante, di conoscenze teoriche, astratte, disinteressate: si sentirebbero declassati se si dedicassero al miglioramento delle tecniche o alla trasmissione delle conoscenze operative. Ma ecco che la società esige la trasmissione e l’approfondimento di conoscenze tecniche, strumentali: il sistema scolastico si trova di fronte ad un dilemma delicato e l’Educazione Nazionale deve accettare lo sviluppo, fuori dal suo controllo (sotto la tutela di altri ministeri, nelle Camere di commercio o all’interno della scuola privata), di formazioni che il sistema pubblico non vuole o non può assumere. Il compito è così vasto che il ministero sembra rinunciare ad assicurarlo con i propri mezzi. Così, per adempiere alla sua funzione economica, la scuola deve rivedere la sua definizione di servizio pubblico. Tra l’interesse privato e pubblico la frontiera non è più nitida, dal momento che lo Stato ritiene che la prosperità delle imprese private riguardi anche l’interesse pubblico. Da qui ad affidare all’iniziativa privata determinati servizi di interesse pubblico o, viceversa, a caricare determinati servizi pubblici di compiti utili ad interessi privati, il passo è breve. Si delineano così i contorni di un nuovo problema: quello dell’indipendenza dell’università nei confronti delle forze economiche. Si ripropone il problema della laicità. Le due scuole La laicità, cemento del sistema scolastico della Repubblica, si sgretola. Se i «dottrinari» restano arroccati nelle loro posizioni e ogni campo continua ad ignorare superbamente l’altro, le mentalità si sono però evolute. Nel versante laico il settarismo è regredito e non resiste che in regioni in cui lo giustifica la situazione critica della scuola pubblica. La convinzione razionalista su cui si fondava è stata intaccata dall’evoluzione delle scienze e della religione: il libro pubblicato da A. Bayet nel 1958 testimonia questo nuovo spirito. Nel versante cattolico sono numerosi i fedeli che, come genitori o insegnanti, hanno vissuto un’esperienza positiva della laicità. E un articolo di successo di J. Vialatoux e A. Latreille ha ben evidenziato che la laicità è l’espressione giuridica della libertà dell’atto di fede. Così la mobilitazione laica non è stata abbastanza forte per impedire l’emanazione della legge Debré del 31 dicembre 1959: con essa si accetta il principio di sovvenzionare la scuola cattolica, in cambio di un controllo dello Stato, fondamentalmente con il farsi carico degli stipendi degli insegnanti. È il regime dei «contratti», semplici o di associazione. Ma al di là delle convinzioni religiose, i governi dell’epoca vedono in questa legge di sostegno finanziario alla scuola privata un mezzo per rinsaldare l’unità nazionale e, soprattutto, uno strumento per favorire l’evoluzione del sistema pubblico impigliato in evidenti difficoltà. A livello di opinione pubblica, infine, si tende a valorizzare il fatto che questo pluralismo permette ai genitori di sottrarsi alle imposizioni burocratiche del sistema scolastico. La scuola libera è quella della seconda chance: offre la possibilità di rimediare ad un insuccesso nella scuola pubblica o ad uno scacco della scuola pubblica. Si ammette così il pluralismo scolastico e si giustificano le sovvenzioni, nella convinzione che una libertà sprovvista di mezzi materiali è puramente formale. La crisi che conosce l’educazione, in generale, favorisce questa evoluzione. La crisi dell’educazione

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L’insieme di questi fenomeni sociali converge verso un punto di «rottura» che non risparmia alcuna istituzione: siamo alla crisi dell’educazione. Questa rinvia ad una crisi della cultura già evidente nella famiglia, dove si scava un fossato incolmabile tra i valori vissuti dai genitori, le letture che li avevano nutriti, gli studi che li avevano formati e una gioventù pronta a spazzar via tutta la cultura per ritornare a un autentico «stato di natura» . Le due generazioni, praticamente, non hanno più un linguaggio comune. L’insegnante, a sua volta, è contestato nella sua professione. Una volta aveva una sorta di monopolio della cultura. Ora lo danneggia la concorrenza di altri modi di conoscenza. La televisione, la radio, la stampa lo detronizzano. Si dovrebbe adeguare, ma la rigidità dei programmi e l’occhio dell’ispettore non gli lasciano alcun margine per aprirsi alle nuove tendenze. E, d’altronde, non ne è preparato. Più esattamente, è rifiutata la stessa posizione d’autorità degli insegnanti con una semplice ragione: «non ci interessa più». L’intera società comincia a dubitare dei suoi educatori: i libri di P. Bourdieu e J. CI. Passeron (Les Héritiers del 1964 e La Reproduction del 1970) spazzeranno via d’un colpo ciò che restava del mito della scuola liberatrice che, in realtà, lo è soltanto per coloro che hanno già saputo «ereditare» dalla cultura familiare. Sorge allora, negli uni e negli altri, un dubbio profondo: i giovani rifiutano con determinazione il sistema e gli adulti si dichiarano incapaci di proporre un modello da imitare. Gli avvenimenti del maggio ‘68 non rappresenteranno che la manifestazione esteriore di una crisi che travagliava da un decennio le dimensioni profonde della società francese. Sembra oggi, però, che il periodo aperto dagli avvenimenti del maggio ‘68 stia per chiudersi; sembra che si possa realizzare, ancora una volta, la legge delle «tre fasi» che caratterizza, secondo Herman Nohi, il movimento pedagogico in generale: una prima fase, in cui ci si erge con violenza contro una forma invecchiata e superata di educazione; una fase di democratizzazione, in cui una parte più consistente del popolo si riappropria del dato culturale; una fase di stabilizzazione, infine, in cui ci si sforza di dare un contenuto alle forze nuove che si sono sprigionate. Vediamo se questo schema può aiutare a comprendere la situazione attuale del sistema scolastico francese. Calo demografico e rilancio scolastico L’esplosione scolastica che aveva caratterizzato gli anni Sessanta si era limitata al piano strettamente demografico: le università continuano a crollare sotto il peso dei numeri, i licei conoscono spesso classi di più di quaranta alunni, il decremento demografico continua invece a livello di scuola primaria, dove non si assiste più a cortei di genitori che all’inizio dell’anno fanno pressione sugli uffici del provveditorato per ottenere l’apertura di nuove classi. Il problema, piuttosto, è quello della chiusura e dell’accorpamento delle classi. Il paradosso è che si assiste, nello stesso tempo, ad una crescita della domanda di scolarizzazione. Una prima ragione può trovarsi nel fatto che i genitori, come il governo, preferiscono mantenere i figli, anche al di là del ragionevole, nel sistema scolastico piuttosto che abbandonarli in un mondo in cui imperversa la disoccupazione giovanile. Ma bisogna anche fare i conti con uno dei grandi effetti della crisi degli anni Sessanta: la democratizzazione della cultura e del suo supporto per eccellenza, l’educazione. Si sa infatti che le «rivoluzioni» hanno solitamente un esito: i «borghesi», che dispongono dei mezzi per farle, distruggono lo zoccolo culturale che li ha sostenuti per lasciar salire su uno zoccolo più ampio strati più larghi di popolazione. I distruttori del 68 sono così divenuti i costruttori di questi anni: Daniel Cohn-Bendit, uno dei grandi leader degli avvenimenti del maggio, lavora adesso in un liceo sperimentale che accoglie gli esclusi dal sistema scolastico. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, i genitori sono più che mai preoccupati di vedere i loro figli intraprendere «buoni» studi, e il più a lungo possibile, e meno che mai desiderosi di vederli abbracciare una professione anche sicura: non esitano ad accedere a prestiti bancari per finanziare gli studi superiori del figlio o della figlia. È vero che il livello culturale richiesto per i concorsi si è progressivamente innalzato: la maturità non è più sufficiente, praticamente, da nessuna parte. Per diventare maestri, ad esempio, occorre adesso, prima di presentarsi ai concorsi d’accesso ai centri di formazione, aver frequentato un biennio universitario. Non è raro, nei più semplici concorsi amministrativi, trovare diplomati di università o laureati. A livello governativo, tanto a destra che a sinistra, la parola d’ordine è: 80% dei nati per anno al liceo. Si constata infatti che il tasso di scolarizzazione in Francia è ancora molto più basso di quello di altre grandi nazioni industriali: tra il 1960 e il 1975, la Francia è passata, per il tasso di scolarizzazione dei giovani da 20 a

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24 anni, dal 3° al 7° posto nei paesi dell’OCSE. Nel 1975 gli Stati Uniti hanno conosciuto, per questa stessa fascia d’età, un tasso di scolarizzazione del 21,6%, il Giappone del 14,5%, la Francia soltanto del 9%. Altro indicatore: tra il 1965 e il 1977, mentre la percentuale di una generazione che conseguiva in Francia il primo diploma di istruzione superiore conosceva una progressione del 62%, questa percentuale raggiungeva il 111% in Germania, il 152% in Giappone e... il 659% in Danimarca. Si dice ovunque che la Francia abbia pochi studenti. Ne consegue che i veri problemi cominciano a porsi adesso. Finché si trattava di costruire classi e di creare posti le cose erano relativamente semplici, dal momento che ci si muoveva in un contesto di prosperità economica. Ma a partire dal 1973 la congiuntura è diventata più difficile, mentre la domanda di scolarizzazione, per volontà stessa dei governanti, si fa più pressante e precisa. Il valzer delle riforme II grande strumento ministeriale di cambiamento sarà la riforma. A partire dal 1968 le riforme si succederanno senza tregua, legando regolarmente il loro nome a quello di un ministro della Pubblica Istruzione. Da Edgar Faure a Roger Monory, passando da Rene Haby e Jean-Pierre Chevènement, esse cercheranno, ognuna a suo modo e secondo le «ossessioni» dei loro promotori, di canalizzare e di stabilizzare la corrente riformatrice scaturita dagli avvenimenti del maggio. La legge del 12 novembre 1968, detta Legge Edgar Faure, votata quasi all’unanimità dall’Assemblea, sancirà l’autonomia delle Università, mentre nella scuola primaria e secondaria il ministro del Generale de Gaulle si sforzerà di introdurre la «partecipazione» come motore dell’innovazione. Non è esagerato affermare che il sistema educativo francese entra così di colpo nella modernità: con l’inizio dell’insegnamento del latino in terza media, l’indirizzo classico perde di colpo la sua posizione di privilegio e si ritrova allo stesso livello dell’indirizzo «moderno». I ministri che erediteranno la legge del 1968 si sforzeranno di contenerne gli abusi, opponendosi però ai «reazionari» che vorrebbero ritornare alla situazione precedente: Olivier Guichard ripropone il latino in prima media, ma sotto forma di semplici nozioni propedeutiche di avvio e per tutti gli alunni; i consigli di amministrazione dei licei sono rivisti, ma non soppressi. Joseph Fontanet, che gli succede nel 1972, ha cura di adattare la formazione universitaria agli sbocchi professionali (creazione di un DEUG* in «Lingue Straniere Applicate»), La riforma Haby (1974-1978) si proporrà come pedagogica: attuerà una semplificazione radicale delle strutture scolastiche, con la generalizzazione delle classi eterogenee e la continuità tra la formazione primaria e secondaria; il ministro si attribuirà i mezzi «autoritativi» della riforma: accrescimento del peso dell’amministrazione nei consigli d’Istituto, richiamo all’ordine dei professori, lotta contro l’imperialismo delle discipline, ecc. Ma il grande dilemma rimane: autonomia o accentramento autoritario. Tutte le riforme intraprese non sfuggono in effetti ad un’ambiguità che ne altera gli effetti: esse fanno appello sistematicamente alla volontà pedagogica degli insegnanti, ma si costruiscono, non meno sistematicamente, come se la volontà pedagogica si trovasse solo a Parigi. Questa contraddizione supera le semplici contrapposizioni politiche: così, sotto uno stesso governo di sinistra, si è potuto vedere un ministro, Alain Savary, impegnarsi ostinatamente per la decentralizzazione delle decisioni con la creazione di «missioni accademiche», con un relativo alleggerimento degli orari degli insegnanti e il sostegno all’iniziativa personale (secondarie «sperimentali»). Si è visto poi il suo successore, Jean-Pierre Chevènement, operare un’inversione di marcia e identificare la promozione del nuovo con il ritorno ai «vecchi valori repubblicani» e agli apprendimenti fondamentali (leggere, scrivere, far di conto). L’Educazione Nazionale, in fin dei conti, ha difficoltà a legiferare e a dettare regole «generali» su situazioni sempre più particolari e diversificate: il risultato è che, passando da Parigi alla scuola elementare di Sailly-les-Lannoy, anche la più generosa riforma perde la sua efficacia potenziale. Si trasforma in un fatto amministrativo che i maestri vedono venir «dall’esterno» e che accolgono, il più delle volte, con cattiva volontà: il susseguirsi delle riforme, d’altronde, ha finito per renderli scettici. Il problema sul tappeto, in Francia, è quello di interrompere, alla base come al vertice, la spinta alla centralizzazione. Un elemento importante di questa inversione dovrebbe essere costituito dal trasferimento di competenze, e del budget corrispondente, dal piano nazionale a quello regionale: alcune iniziative in questo senso sono già state prese, per esempio per l’edilizia scolastica, e si parla di lasciare ai consigli regionali la libertà di definire le materie opzionali che dovrebbero essere insegnate nei licei di loro competenza. In attesa di un «Ministero regionale» dell’Educazione... (che non sarebbe più, allora, «nazionale»).

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Ma si è ancora lontani dallo scopo, tanto sono grandi gli ostacoli da superare. Uno dei più difficili da sormontare è quello della mentalità degli stessi insegnanti, il loro status privilegiato di «funzionari statali», le loro abitudini di operare pedissequamente secondo le prescrizioni delle circolari ministeriali che piovono da Parigi, la paura di veder rimesso in discussione il loro posto, ecc. L’incertezza pedagogica Ai cambiamenti esterni corrisponde, presso i docenti, un dubbio interiore che nessuna riforma, nessun discorso ministeriale riescono a dissolvere. I docenti di oggi continuano a vivere come orfani, alla ricerca dei genitori perduti nella disfatta. Anzitutto orfani di un ideale: la democratizzazione. Capita in effetti che, mentre una riforma tentava di rimuovere un ostacolo sulla strada della democratizzazione, ne faceva contemporaneamente nascere altri due, doppiamente insuperabili. Ci si è accorti così che il tasso di accesso alla prima media era tanto più elevato quanto più elevato era l’ambiente sociale, e si è voluto facilitare l’accesso dei figli di contadini e operai alle grandi scuole situate nei centri urbani, offrendo loro il massimo delle opportunità. Ma si è visto, ben presto, che i trasporti scolastici istituiti a tale scopo, con la lunghezza dei tragitti, l’appesantimento della giornata scolastica, la moltiplicazione dei tempi morti, creavano più problemi di quanti ne risolvessero. In generale, il discorso progressista si intreccia continuamente con quello democratico: lo sviluppo industriale non necessita della formazione di élites. Un tempo si trattava di frenare bruscamente per attendere i ritardatari: ora si tratta di accelerare, lasciando agli psicologi e agli assistenti sociali la cura di riparare ai danni... Gli insegnanti sono ancora, e soprattutto, orfani di una cultura. Si è ripetuto loro, da Les Héritiers in poi, che la vera causa delle disuguaglianze era socioculturale; che in fondo, loro, gli «eredi» della cultura classica nutrita di latino, non parlavano lo stesso linguaggio dei ragazzi che avevano di fronte; che ci sono forme differenti d’intelligenza legate all’appartenenza a una data classe. Occorre, in nome dell’uguaglianza democratica, lottare contro questo processo di diversificazione o, in nome dell’osservazione sociologica, si deve trasportare nella pedagogia questo smantellamento culturale? La riforma Haby andrà nella prima direzione (con la consacrazione delle classi eterogenee), mentre le scuole sperimentali svilupperanno la seconda ipotesi. Si avverte bene che la risposta è pedagogica: ogni insegnante, ogni istituzione deve inventarne una in funzione della popolazione che accoglie. Il ministro Alain Savary spingeva in questa direzione, invitando ogni istituto a formulare il proprio «progetto pedagogico» specifico che lo avrebbe distinto dal vicino. Ma il restaurato dogma della «scuola repubblicana» incoraggiato dal suo successore, anch’egli socialista, ha spazzato via d’un colpo quelle velleità pedagogiche. Gli insegnanti avrebbero potuto e dovuto cercare e costruire questi strumenti di rinnovamento nelle università, e in modo particolare negli istituti di Scienze dell’Educazione. Ma questi, di recente istituzione (1967), non sono sempre riusciti a imporsi agli altri settori dell’università, dove i colleghi non ammettono affatto che si dissezioni e si sottometta ad osservazione critica un atto — l’atto pedagogico — che «va da sé». E il Ministero dell’Educazione Nazionale non cessa di guardare con sospetto alla presenza, nelle università, di una istanza parallela che suggerirebbe agli insegnanti idee in contraddizione con le direttive ufficiali. Un simbolo di questa divergenza è la lotta per il dominio degli Istituti Magistrali, tradizionalmente incaricati della formazione dei maestri: divenuti una sorta di istituti universitari all’epoca in cui si auspicava di veder gli insegnanti aprirsi alle nuove idee, essi tendono oggi a ritornare, tramite gli ispettori, la riserva di caccia del Ministero. In fondo, gli insegnanti hanno difficoltà a convincersi del carattere autonomo del loro cammino pedagogico. La democratizzazione è diventata per loro un ideale irraggiungibile. La vedono essenzialmente in termini di inchiesta sociologica e di realtà istituzionale: ora è un fatto che, funzionando «in generale», istituzioni come l’Educazione Nazionale non possono, data la loro struttura, raggiungere le situazioni concrete e particolari in cui prende forma, in realtà, la posta in gioco della democratizzazione. Solo l’insegnante è in grado di comprendere, nell’hinc et nunc della sua posizione, ciò che può e deve essere fatto per lottare contro tale o tal’altra situazione di scacco. E, soprattutto, egli è il solo a poter agire su questa volontà per mezzo della quale il fanciullo e i genitori rifiuteranno di lasciarsi vivere dalle «circostanze sociali» e si daranno, a dispetto di tutto, i mezzi di riuscita. Manca al processo di democratizzazione un vero clima democratico: esso farebbe degli insegnanti i primi attori di questa democratizzazione. La fine del dogma della laicità

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Gli anni Ottanta saranno contrassegnati dalla caduta storica del dogma della laicità che regnava nell’insegnamento francese dall’inizio di questo secolo: il 24 giugno 1984 ha rappresentato l’apogeo di un movimento che ha fatto scendere in piazza milioni di persone in nome della difesa della «scuola libera». Il progetto di legge era subito ritirato, il ministro Savary presentava le dimissioni e il governo Mauroy cedeva il posto ad un gruppo nuovo deciso a risolvere il problema con misure «semplici e pratiche». Più che la manifestazione, l’evento vero è stata l’assenza di reazione nel campo avverso. Il grande raduno laico di Vincennes contro le leggi per l’assistenza finanziaria alla scuola privata («legge Debré») del 19 giugno 1960 era stato un grande successo. Il movimento aveva avuto i suoi «cantori»: Albert Bayet (1880-1961), professore di sociologia alla Sorbona, razionalista, di tendenza radical-socialista; Jean Cornee che, ancora nel 1965, pubblicava un’opera di militanza come Laicité. Ma il cuore sembrava assente: le truppe restavano con le armi al piede. Questa assenza di lotta e il carattere tranquillo della manifestazione del giugno 1984 testimoniano una profonda evoluzione di mentalità su un problema che ha tradizionalmente diviso i Francesi. Le «scuole libere» non sono più ciò che erano negli anni cinquanta: esse, per riprendere una formula di Antoine Prost, hanno «cambiato funzioni». In effetti, alcune inchieste hanno dimostrato che soltanto nel 21% dei casi la religione figura tra i motivi di scelta di una scuola cattolica, insieme con la domanda di «inquadramento» e di disciplina e con la serietà degli studi: la motivazione religiosa non è scomparsa, ma non sembra predominante, dal momento che si constata una presenza «debole» dell’insegnamento della religione (spesso «libero») nelle scuole. L’istruzione primaria privata conserva un carattere regionale, contraddistinto dal radicamento in una cultura e in una fede, come in Bretagna e in Alvernia. Quanto all’istruzione secondaria privata, essa ha un’utenza molto borghese. Bisogna tuttavia sfumare questa impressione generale, perché l’istruzione privata raggruppa in realtà scuole molto differenti che non adempiono esattamente alle stesse funzioni: si differenzia a seconda delle situazioni geografiche (in zone rurali o in città), ma anche delle particolarità di ogni scuola. Una seleziona e forma élites, un’altra è specializzata per alunni in difficoltà. In generale si accontenta di assicurare una normale scolarità, ma in un clima più familiare e meno impersonale. Le carte vincenti della scuola privata restano: una fama di ordine e di serietà, il fatto di non essere costretta nelle stesse regole burocratiche, lo sforzo per ricostituire un ambiente educativo globale, un’apertura più decisa all’innovazione. La principale ragion d’essere della scuola privata, così, è quella di essere divenuta l’alternativa alla degradazione del servizio pubblico. Come scrive ancora Prost: «Con l’avvento del neo-liberalismo, accade che il settore pubblico assicuri il grosso del servizio d’insegnamento per la massa dei consumatori ordinari, contando sul settore privato per rimediare ai propri difetti di funzionamento e per assicurare il servizio a la carte a una clientela più esigente. Si tratta di una divisione del mercato tra lo Stato e l’iniziativa privata, seguendo gli stessi principi che si vedono all’opera in altri settori non redditizi della nostra società liberale. Si è lontani dal libero pensiero o dalla religione... (L ‘enseignement et l’éducation en Franco, Colin, Paris 1968, t. IV, p. 443). Un’istituzione in movimento Questa evoluzione del ruolo della scuola libera nella società francese mostra fino a che punto l’insieme del sistema resti in piena evoluzione in una comunità sociale essa stessa in piena mutazione. Gli avvenimenti del maggio ‘68 sono stati l’eruzione spettacolare del vulcano: la lava continua a scorrere facendo crollare le parti morte della struttura sociale, rinforzando gli elementi più solidi, facendo anche nascere nuove zone di iniziativa e di innovazione. L’evoluzione non avviene senza scosse, senza lacerazioni, senza contraddizioni. Un bell’esempio di queste esitazioni, di questi paradossi e di questi malintesi, potrebbe essere lo statuto del sapere all’interno del sistema scolastico. Gli avvenimenti del maggio portavano in sé una violenta contestazione del sapere, in nome della vita. Ma ciò che era in questione era, più che il sapere stesso, il ruolo sociale derivante da certa forma di sapere, il sapere «classico», il sapere universitario «astratto», una certa concezione della cultura fine a se stessa di cui si avvertiva la non corrispondenza ai bisogni reali della società francese. Qua o là si è potuto cedere alla tentazione di «buttare via il bambino con l’acqua sporca» trasformando l’insegnamento in sedute di happening. Ma è rimasta un’eccezione: le scuole hanno continuato a trasmettere il sapere tradizionale. La moda, negli anni più recenti, è quella di spingere verso un «ritorno al sapere», indicando alla scuola, come obiettivo prioritario, l’apprendimento fondamentale degli strumenti di lettura, di scrittura e di calcolo, non essendo il resto che «letteratura». Si tende così, di nuovo, a meccanizzare l’insegnamento, reclamando la

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«produzione» di un certo tipo di «cittadino»: tutti si gettano verso l’inglese, perché lingua commerciale per eccellenza; tutti vogliono fare matematica, perché senza di essa è impossibile l’accesso alle «grandi scuole»... La pedagogia, in quanto riflessione sui mezzi in prospettiva del fine specifico dell’educazione, è così messa da parte. Peggio: è vista come capro espiatorio dei disordini che affliggono la scuola da venti anni. Ora, non resta, essa, il solo mezzo per padroneggiare le nuove esigenze del sapere sociale senza sacrificare l’uomo e la sua formazione di base? A voler chiudere di nuovo, a forza, il coperchio della pentola ancora in ebollizione (di bisogni, di desideri, di volontà di vivere) non si rischia di preparare nuove esplosioni? Ma ci si spiega che la società francese è progredita solo per esplosioni, pur essendo caratterizzata da un’innata tendenza al conservatorismo. L’evoluzione del sistema scolastico non potrebbe costituire, questa volta, l’occasione per progredire realmente? Il sistema educativo in Grecia 1. Il quadro storico II sistema educativo greco è stato ricco di riforme. Non tutte, però, hanno conseguito risultati apprezzabili. Per analizzare meglio l’evoluzione storica del sistema prendiamo in considerazione due diversi periodi: a) dalla ricostituzione dello Stato greco alla fine del XIX sec.; b) dal principio del XX sec. a oggi. a) Dalla ricostituzione dello Stato greco al XIX secolo Dopo 400 anni di schiavitù sotto la dominazione turca e sette anni di lotte per la libertà, la Grecia fu riconosciuta Stato indipendente. L’11 gennaio del 1828 si insediò nella capitale il primo governatore: Giovanni di Capodistria. Questi, originario di Corfù, era un consumato diplomatico. Era stato ministro degli Esteri dell’Impero russo e aveva svolto un ruolo significativo in importanti questioni europee. Egli voleva ricostituire lo Stato greco su due solide basi: il lavoro e l’educazione. Aveva frequentato l’Università di Padova ove, nel 1797, si era laureato in medicina. In quell’Università fu introdotto alle Scienze e alle Lettere dai professori Caldani e Comaretti, Strafico e Angelus della Decina e, fin d’allora, egli rilevò un interesse particolare per l’istruzione, un interesse a cui resterà fedele. Più tardi lo troviamo in Svizzera come rappresentante dello Zar di Russia. Lì conosce il grande educatore svizzero Pestalozzi. Questi tentava, proprio allora, di entrare in contatto con l’aristocrazia allo scopo di diffondere il suo sistema educativo. Da qui l’origine di una fitta corrispondenza tra i due (tra il 1813 e il 1822 Pestalozzi inviò a Capodistria una ventina di lettere). In particolare sembra che Capodistria fosse colpito dall’organizzazione della città di Hofwyl, allora diretta da Feuenberg, collaboratore di Pestalozzi e più tardi suo avversario. Quando nel 1828 fu chiamato al governo, Capodistria ispirò la sua politica dell’istruzione a quel modello. Mostrando realismo politico, valutò adeguatamente le necessità del paese e si sforzò di armonizzare istruzione e lavoro produttivo. Prestò quindi particolare attenzione all’istruzione primaria che, da allora, assunse una valenza decisamente politica. Ma pochi anni dopo fu assassinato e la sua opera non potè dare i frutti sperati. Nel 1833 assunse la corona Ottone di Baviera. I suoi consiglieri elaborarono un progetto di legge sull’istruzione richiamandosi al modello francese e bavarese. Tale progetto influenzò profondamente il mondo dell’istruzione in Grecia. Ma, se si può ritenere ottimo sotto il profilo teorico, nella pratica esso si rivelò inefficace perché troppo estraneo alla realtà greca. Scriveva ironicamente una decina d’anni dopo il tedesco Paul Kipper: «Questo sistema educativo somiglia alla scarpa di Xenokrate; era ben fatta e di ottima pelle, ma non si adattava al piede per cui era stata cucita». L’aspetto peggiore consisteva nel fatto che il neoclassicismo bavarese, a cui si ispirava, era orientato verso la classicità. Non teneva in nessuna considerazione la nuova tradizione greca e il suo sistema educativo, come pure era molto lontano dai bisogni della vita pratica. Al contrario di quanto era accaduto con Capodistria, la scuola era vista come staccata dalla società e dai problemi del XIX secolo. b) Tendenze fondamentali del XX secolo

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Nel campo dell’istruzione si assiste, nel XX sec., alla condanna della «vecchia scuola», una scuola di bacchette e di repressione e non di sviluppo e di progresso dello studente. Il nuovo movimento si diffuse dapprima in Europa con Montessori, Ellen Key, Decroly... e poi in America e in quasi tutto il mondo civilizzato. Anche la Grecia risentì delle nuove idee. Se ne fece interprete Alessandro Delmousos, che può essere considerato, a mio parere, il più grande pedagogista e pedagogo greco. La storia della riforma pedagogica ha inizio a Volos, città della Grecia centrale. Il Sindaco della città, il medico Saralis, invitò l’allora giovane pedagogo e gli affidò il compito di istituire una Scuola Superiore Femminile. Delmousos, appena tornato dalla Germania, dove aveva compiuto studi pedagogici, accettò l’offerta vedendo in essa l’occasione di mettere in pratica le nuove idee. Cominciò così a funzionare a Volos una nuova scuola con metodi moderni e originali. Per la prima volta una scuola greca chiudeva la porta al formalistico e infelice sistema di Herbart. E per la prima volta studenti greci potevano respirare con sollievo l’aria delle aule scolastiche. Le cose non erano però così semplici come aveva pensato il Delmousos nel suo entusiasmo innovatore. La società greca, conservatrice, non poteva ancora accettare simili innovazioni. Ci furono reazioni continue e si creò una situazione di grande confusione. Uno dei principali agitatori fu l’Arcivescovo della città: tanto fece che riuscì a far chiudere la scuola e a spedire il Preside e gli altri collaboratori in tribunale con l’accusa di ateismo e anarchia. Il processo ebbe luogo nel 1914, ma tutti gli imputati furono assolti. Per comprendere il caso della scuola di Volos, durata solo tre anni (1908-11), è necessario fare un breve excursus storico sulla realtà greca. Fin dal periodo bizantino emergono due tendenze nella vita intellettuale del popolo greco: da una parte una tradizione statica che ripeteva in modo stanco e sterile l’antichità classica e spingeva all’osservanza dell’ortodossia formale; dall’altra, si faceva largo un movimento intellettuale innovatore che interpretava la tradizione popolare e l’arricchiva con elementi occidentali. Le due tendenze socio-politiche non trovarono mai, nei secoli, una composizione armonica e costruttiva. Lungi dal trovare una mediazione, il divario si approfondì e si manifestò particolarmente sul problema della lingua. I conservatori non attribuivano importanza alla lingua del popolo (dimotiki), che era poi la lingua parlata dal popolo e la lingua delle canzoni popolari. Erano fautori di una lingua pura (katarenousa) più vicina all’antica lingua classica. I progressisti, al contrario, sposarono la causa della lingua popolare, la lingua neo-ellenica, e perciò furono chiamati dimotikistes. La differenza tra le due lingue era piuttosto profonda. Si trattava di due codici linguistici completamente diversi, con differenze notevoli nel lessico, nella grammatica e nella sintassi. I dimotikistes I dimotikistes si riunirono nel 1910 e, su iniziativa di Delmoussos, fondarono un’associazione denominata «Associazione educativa». In essa studiosi e pensatori formarono un movimento linguistico-educativo allo scopo di battersi contro lo sterile scolasticismo e di favorire il rinnovamento sociale attraverso il sistema educativo. Le reazioni non si fecero attendere. I conservatori reagirono in modo sistematico allo scopo di impedire qualsiasi sforzo rinnovatore. E la scuola fu di nuovo al centro di rivalità politico-ideologiche. Da allora, la storia dell’istruzione greca ha conosciuto fasi alterne di riforme e contro riforme. Le due parti rivali facevano sentire il loro contrasto a livello politico con il risultato che, ad ogni cambiamento di governo, veniva smantellata tutta la precedente politica educativa. L’esempio della scuola di Volos, cui abbiamo accennato, si ripetè più volte. E non solo con la chiusura di una singola scuola, ma con la sconfessione di un’intera riforma pedagogica nazionale. Furono bruciati libri, calunniate e infamate persone innocenti, e anche condannate in Tribunale con pesanti quanto infondate accuse. L’ultima interruzione violenta del movimento progressista ebbe luogo nel 1967 ad opera della dittatura militare, che annullò la riforma dell’istruzione del 1964, un’iniziativa legislativa che, pur nei suoi limiti, costituiva un progresso notevole. Dopo la caduta del governo militare (1974), la destra al potere ritornò a quella riforma e trovò a un accordo con la sinistra. Frutto di questo accordo fu la riforma del 1976; si tratta in pratica di un ritorno alla riforma del 1964, tanto violentemente soppressa dalla dittatura dei colonnelli. L’applicazione di una riforma con tanto ritardo (dal 1964 al 1976), non costituiva certo una buona garanzia per la sua riuscita. Nonostante ciò, questa riforma rappresentò un passo decisivo: per la consacrazione della

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lingua popolare demotica a tutti i livelli di scolarità e per l’insegnamento del greco antico nella nuova lingua, due innovazioni su cui molti mèmbri del partito al governo nutrivano forti perplessità. L’allora ministro della Pubblica Istruzione, a causa di ciò, nelle elezioni successive perse molti voti e rischiò di non essere eletto: i suoi seguaci conservatori non potevano perdonargli questi provvedimenti «progressisti». Questa riforma costituisce la base su cui si è organizzato il sistema educativo tuttora vigente, con cambiamenti significativi nel sistema di servizio interno, nell’amministrazione, nella ricerca scientifica, negli obiettivi e nell’orientamento scolastico in generale. È questo il sistema che cercheremo di illustrare nelle pagine seguenti. 2. Le strutture II sistema educativo prima del 1976 Dobbiamo precisare che la riforma del 1976, che è alla base dell’attuale sistema, fu realizzata proprio grazie a quelle stesse forze politiche che si erano opposte alla sua applicazione un decennio prima. Tale fenomeno, che a prima vista sembra un paradosso, si spiega facilmente se si esamina lo stato generale dell’istruzione nella prima metà degli anni Settanta, cioè nei primi anni dopo la dittatura. I problemi accumulatisi da molti decenni peggiorarono all’inizio della dittatura portando tutto il sistema in un vicolo cieco. Perciò la Commissione Educativa (costituita durante la Dittatura) per lo studio dei problemi educativi presentò nel 1971 proposte che, in fase di attuazione, si rifacevano alla riforma del 1964. Tali proposte, però, non furono messe in atto, con il risultato che i problemi irrisolti vennero ereditati dal governo successivo. Sotto il peso assillante di questi problemi, gli oppositori della riforma furono costretti a trasformarsi in riformatori, fatto imposto anche dall’imminente entrata della Grecia nel MEC. Questo inserimento non era possibile senza una elementare rielaborazione del sistema. L’istruzione in generale. — Uno dei problemi di base rimasti irrisolti era la ristrutturazione della scuola in rapporto alle esigenze sociali. Mentre in quasi tutto il mondo occidentale, dopo la seconda guerra mondiale, si era prestata attenzione ai valori dell’orientamento, dei programmi e dei fini dell’istruzione, in Grecia si ricominciò, come in passato, ad indirizzarla verso una sterile ripetizione dell’illustre passato, della classicità. Si prese a pretesto anche la guerra civile che scoppiò nel paese quando, alla fine della seconda guerra mondiale, i comunisti tentarono la via della lotta armata per impossessarsi del potere. Le forze conservatrici approfittarono dell’occasione e, per evitare i pericoli del materialismo e dell’ateismo, riportarono il sistema educativo sulle basi ideali dell’ortodossia e dell’umanesimo, allontanandosi sempre più dalle necessità della vita e della cultura contemporanea. È significativo il fatto che le finalità dell’istruzione siano incluse per la prima volta nella Costituzione greca del 1952, cioè nella prima Costituzione del dopoguerra, sulla base di una decisa ispirazione alla civiltà greco-cristiana antica, in modo da scongiurare il pericolo del materialismo. Crebbe così la distanza tra la scuola e la vita sociale. Mentre cioè la Grecia, stremata da due guerre, doveva affrontare urgenti problemi, la scuola aveva come unica direttiva le idee del passato e su di esse insisteva, ignorando la realtà. Era infatti tanto radicato il culto della teoria, che molti umanisti non ritenevano valida e seria l’educazione professionale. Dai programmi scolastici mancavano i valori e i principi essenziali della moderna civiltà tecnologica. Erano anche completamente ignorati i rapporti di eguaglianza tra i due sessi, la protezione dell’ambiente, il principio della cooperazione. In questo spirito non venivano coltivate nella scuola le capacità indispensabili per affrontare i problemi della vita contemporanea. Era invece sottolineato il valore del lavoro intellettuale a danno del lavoro manuale e del mondo del lavoro. Il sistema era autoritario e accentratore. Preparava cittadini pronti a morire per la patria, ma incapaci di critica e decisione, come si esige in una società democratica. Lo stesso lavoro scolastico e il sistema di valutazione favorivano soprattutto la parte mnemonica e ripetitiva e poco la capacità critica e il pensiero creativo. La dispersione della popolazione greca in minuscoli paesi aveva comportato la creazione di molte piccole scuole elementari in cui uno o due maestri facevano lezione a 6 diverse classi contemporaneamente.

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Pertanto, una giusta ed equilibrata educazione di questi alunni lontani e abbandonati avrebbe richiesto la creazione di scuole centrali complete. Ma una tale soluzione non solo non fu attuata, ma neppure proposta. Per quanto concerne l’organizzazione, il sistema educativo seguiva una struttura rigida e unidirezionale coincidente con il quadro ideologico. Comprendeva la Scuola Elementare (di sei anni), il Ginnasio (sei anni) e l’Università. Tutto il sistema era incentrato sulla letteratura classica e l’indirizzo accademico. Ad essi si rivolgevano, di preferenza, genitori ed alunni. Sul totale degli alunni, per esempio, che finirono la Scuola Elementare nel 1971, 1’81% seguì l’indirizzo umanistico e solo il 19% quello tecnico. Del totale degli alunni dell’ultima classe del Ginnasio nell’anno scolastico 1974-75, il 73,8% seguì l’indirizzo classico, il 22,9% quello scientifico, il 2,7% quello economico e lo 0,6% quello navale. Queste scelte preferenziali trasformavano progressivamente l’intero sistema educativo in un periodo di preparazione all’Università, la quale così, anziché formare i futuri cittadini, formava i futuri studenti. Il sistema ignorava e offriva nozioni utili solo per l’esame di ammissione all’Università. In questa situazione, inammissibile, gli studenti si dividevano in due categorie: i «non idonei», destinati alla produttività, e gli «idonei», che si preparavano per l’Università. Le conseguenze, per i due gruppi, si possono così riassumere: a) I «non idonei» erano trascurati e l’educazione che offriva loro la scuola era carente e teorica, priva di valori educativi e di orientamento verso i bisogni pratici della vita. La scuola era per gli studenti una istituzione sgradevole ed estranea. Così la scuola greca non poteva nemmeno combattere l’analfabetismo ne’ era in grado di elevare il livello culturale dei cittadini. A ciò contribuì la mancanza di materiale tecnico per la scuola, una carenza troppo spesso sottovalutata. b) Gli «idonei» andavano incontro a un difficile antagonismo, perché il numero dei concorrenti era maggiore del numero degli ammessi. Di qui il fiorire di doposcuola dove gli alunni andavano nelle ore non dedicate alla scuola per «comprare» le conoscenze utili per il loro ingresso all’Università. Era assai raro che un candidato per l’Università non avesse frequentato questi doposcuola. In questo modo veniva indirettamente abolito il diritto all’educazione gratuita diventato legge con la riforma del 1964 e si veniva a creare un grave squilibrio dato che i buoni doposcuola esistevano solo nelle grandi città ed erano accessibili solo a gente danarosa. c) I due terzi dei candidati erano esclusi dall’Università, dato che il numero degli idonei era quasi un terzo del numero totale. Molti di essi erano costretti a frequentare le Università di altri Paesi (soprattutto Italia, Germania e Paesi balcanici). Questo problema non è stato ancora risolto. Si pensa che il denaro speso per gli studenti all’estero, anche se non è facile calcolare con precisione, sia pari a quello che si spende per l’Università in Grecia. L’educazione tecnica professionale. — Peggiore era la situazione nell’ambito dell’educazione tecnica-professionale. Le debolezze del settore emersero con il tempo e si evidenziarono soprattutto alla fine degli anni Cinquanta, quando l’educazione tecnica-professionale fu considerata indispensabile per lo sviluppo economico. Però la politica educativa adottata si limitò a sforzi episodici inadatti a superare le prevenzioni e a favorire lo sviluppo della tecnica e dell’educazione professionale. Così questo settore, trascurato dallo Stato, fu incrementato dall’iniziativa privata, col risultato che la maggior parte delle scuole professionali finirono con l’essere private. Riferiamo alcuni dati caratteristici degli anni scolastici 1970-74. In quel periodo, 457 scuole tecniche professionali di livello inferiore, medio e superiore erano frequentate da 92.469 studenti. Di questi, 70.159, cioè il 76%, frequentava le scuole private e 22.310, cioè il 24%, le scuole statali. Il problema era però un altro. Le scuole private si interessavano più al guadagno che alla preparazione professionale degli studenti. L’evoluzione tecnologica e professionale in Grecia era trascurata. Il livello tecnologico non consentiva al sistema greco di competere con quelli europei, per cui l’ingresso nel MEC si presentava carico di difficoltà. Il sistema educativo in Inghilterra e nel Galles 1. Il quadro storico

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L’attuale struttura del sistema educativo dell’Inghilterra e del Galles (escludendo la Scozia che ha sempre mantenuto una sua identità separata) è l’esito di un percorso storico scandito in cinque diversi periodi. a) Dal feudalesimo all’inizio della prima Rivoluzione industriale In questo periodo, che va dalla conquista normanna dell’undicesimo secolo fino all’inizio della prima Rivoluzione industriale, l’istruzione in quanto tale esisteva solo nei monasteri o era prerogativa del parroco, essendo la chiesa il centro e il nucleo della vita della comunità. All’inizio del XIV secolo alcune scuole, più tardi divenute famose come Public Schools (per esempio Eton e il Winchester College), furono associate alle università di Oxford e di Cambridge, allo scopo di provvedere all’istruzione di una minoranza aristocratica di ragazzi destinati al sacerdozio o ad alti uffici nella corte reale o nel governo. Questi formavano il cuore di quella che doveva diventare la classe dirigente. La massa della plebe era totalmente analfabeta e non godeva di diritti civili. Durante il XVI secolo, il Rinascimento inglese vide sorgere una prospera classe media di mercanti che era stata istruita nelle Grammar Schools. Shakespeare ci informa che imparò «un po’ di Latino e di Greco» nella Grammar School di Stratford on Avon, sua città natale. Con l’analfabetismo ancora diffuso in molte zone, può sembrare strano che gli «spettatori» (poco raffinati) che frequentavano il Globe Theatre di Londra fossero in grado non solo di capire le ricche complessità del linguaggio shakespeariano, ma anche di applaudirle come forme popolari di spettacolo. Dunque, almeno l’istruzione orale doveva essersi diffusa, in quell’età in cui i libri, ad eccezione della Bibbia, erano molto rari. Come in tutti gli studi storici è essenziale prendere in considerazione i fattori demografici, economici e politici. Partendo da una popolazione stimata in due milioni di abitanti nel periodo medievale, il numero degli abitanti divenne più che doppio durante i successivi tre secoli, a dispetto delle gravi epidemie della peste bubbonica (La Morte nera). Nelle aree rurali le condizioni rimasero in linea di massima inalterate, a causa del loro isolamento: le strade non erano che accidentati sentieri percorribili solo a cavallo o con carri. Nelle cittadine più grandi e nelle città vere e proprie, con l’aumentare della prosperità sorsero alcuni istituti di carità che provvedevano all’istruzione dei poveri e degli indigenti. Dove questi erano assenti, le Dame-Schools (così chiamate perché le insegnanti erano donne anziane che usavano un «abbecedario» in mancanza di libri scolastici stampati) iniziavano i ragazzi all’alfabeto e ai primi rudimenti della lettura. Nel frattempo, a livello locale si affermarono le Grammar Schools e fiorirono le Public Schools residenziali: entrambe seguivano un curricolo basato sul latino, la matematica e sui rudimenti di altre materie. Il mantenimento del Latino come lingua franca è spiegato dal fatto che fino al XVIII secolo la lingua inglese, come oggi la conosciamo, era ancora in fase di formazione, con il risultato che un inglese del Nord spesso era incapace di capire uno del Sud, mentre nel Galles, come d’altronde succede ancora oggi, prevaleva la lingua celtica. Ciononostante, lo spirito di identità e di solidarietà nazionale si rafforzò, come si manifestò nella risposta dell’intera nazione alla minaccia di invasione dell’Invincibile Armata. Politicamente, l’atteggiamento del governo in merito all’istruzione rimase del tutto negativo. Provvedere al finanziamento delle scuole era considerata una responsabilità della Chiesa di Stato. b) Dal 1750 al 1870 Anche se il Dictionary di Samuel Johnson ebbe il merito di mettere a punto il lessico inglese moderno, bisogna dire che il suo compilatore non aveva alcuna simpatia per la promozione dell’istruzione popolare. Al contrario, dichiarava enfaticamente che «il povero non aveva bisogno di nessun tipo di educazione». L’idea era condivisa dall’opinione pubblica in generale. Così, durante i primi tre quarti del diciottesimo secolo la politica governativa del laisser faire continuò a rappresentare la norma. Lento come fu a rispondere alla rivoluzione demografica, in particolare al forte impulso migratorio dalle aree rurali verso i nuovi centri urbani industriali sovraffollati (un fenomeno provocato dalle tecnologie della produzione di massa), il governo dovette, quantunque con riluttanza, modificare alla fine la sua rigida politica di non-intervento. Durante l’era vittoriana i romanzi di Charles Dickens indubbiamente contribuirono ad illuminare l’infelice condizione di migliaia di ragazzi considerati come «il povero lavoratore», rappresentati simbolicamente dal vivido ritratto di Nicholas Nickieby e Oliver Twist. Lo squallore e la miseria dei ragazzi costretti al lavoro nero, trasportando pesanti carichi di carbone, o impegnati in compiti monotoni nelle fabbriche (i «tenebrosi mulini satanici» di Blake) commuoveva la coscienza dei filantropi.

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Con la crescita della popolazione, gli sforzi della Chiesa d’Inghilterra e di altre confessioni religiose, specialmente i Metodisti, si dimostrarono insufficienti per far fronte alla crescente richiesta di scuole elementari. Joseph Lancaster trovò una parziale, anche se temporanea, soluzione al problema istituendo una Monitorial School, ispirata, come egli riconosceva, alla linea di montaggio per la produzione in serie utilizzata nelle fabbriche. Egli asseriva di essere capace di insegnare a cento studenti senza alcun aiuto, facendoli sedere in file ascendenti come in un teatro. La prima fila imparava l’alfabeto sotto la guida dei ragazzi più grandi (consiglieri), la seconda imparava a leggere e a sillabare le parole di due o tre sillabe, e così via. Il tutto per un costo inferiore a un penny a ragazzo. Il costo sorprendentemente basso del metodo interessò le autorità e, dopo un’ispezione alla scuola di Lancaster, Giorgio III concesse la sua approvazione. Sfortunatamente, nonostante la sua iniziativa pionieristica, Lancaster non apparteneva alla Chiesa d’Inghilterra che, ben presto, organizzò proprie Monitorial Schools (Per inciso, il mancato riconoscimento spinse Lancaster ad emigrare in America e istituì a New York una Monitorial School. Poco dopo morì in seguito ad un incidente stradale). Dalla metà del XVIII secolo, il curricolo di base della scuola elementare venne chiaramente delineato: lettura, scrittura ed aritmetica, più istruzione religiosa. Anche allora, tuttavia, il riconoscimento della sua necessità per gli operai dell’industria fu ritardato dalla Rivoluzione Francese. Il rovesciamento della monarchia e la violenta distruzione seguita all’insurrezione di un popolo oppresso allarmarono le autorità da questo lato della Manica. Perfino il minimo livello di istruzione si credeva potesse minare l’ordine costituito nella società inglese. c) Dal 1870 al 1902 Durante i trent’anni successivi, i Consigli Scolastici fecero rapidi progressi: costruirono edifici scolastici in numero superiore a quelli istituiti dalla Chiesa d’Inghilterra e aumentò in modo concorrenziale anche il numero di iscritti. Ottenendo i finanziamenti dalle imposte locali, erano in grado di pagare gli insegnanti meglio delle scuole private. Per l’organizzazione del tirocinio degli insegnanti, tuttavia, si dovette attendere fino al secolo successivo. L’uso di disporre di insegnanti a tempo pieno con studenti-insegnanti (eredi dei monitors lancasteriani) come assistenti continuò, permettendo così che i costi rimanessero costantemente bassi. Ovunque il curricolo e il suo sistema era, per non dir di peggio, squallido. Gli studenti sedevano in banchi di ferro di fronte all’insegnante. Questi costituiva il centro della loro attenzione controllava tutte le loro attività e puniva qualsiasi comportamento non conforme alle regole con un colpo di bacchetta. Non era concessa nessuna opportunità di fare domande o di chiedere spiegazioni. La classe era un luogo d’istruzione; le lezioni consistevano, più o meno integralmente, in «gesso e parole». Le classi erano articolate in «livelli», secondo i gruppi di età, e ci si attendeva che tutti gli studenti progredissero allo stesso modo. Le tre R = (reading, [w]riting, [w]reckoning) (leggere, scrivere, far di conto), erano le materie più importanti. Si aggiungeva il canto e il disegno per alleviare la monotonia di questa routine. Imparare a memoria meccanicamente i fatti era la regola principale. Come è stato già ricordato, era un sistema destinato a inculcare nozioni nei ragazzi, abituandoli all’obbedienza passiva, all’umiltà e all’accettazione incondizionata del proprio stato sociale inferiore. Il rapporto dominante di subordinazione dei ragazzi nei confronti dell’insegnante garantiva che il sistema funzionasse con la regolarità di un cronometro. L’istruzione seguiva norme meccaniche, il che significava recitare all’unisono le tabelline aritmetiche, muoversi durante l’esercitazione fisica scolastica secondo lo stile militare, o mettersi in fila nel momento in cui suonava la campanella per l’entrata a scuola la mattina e il pomeriggio. A peggiorare le cose, un infame sistema di «pagamento in base ai risultati» portò gli insegnanti ad un timore costante degli ispettori: qualsiasi insuccesso nella lettura di testi semplici veniva penalizzato con una riduzione del già magro stipendio. Nelle scuole confessionali questa paura era aggravata dalla necessità di leggere il catechismo e di dimostrare una certa conoscenza della Bibbia. La qualifica, il salario e lo status degli insegnanti della scuola elementare erano all’ultimo gradino della scala sociale e non facevano prevedere alcuna prospettiva di miglioramento. Questa tradizione dell’insegnamento elementare fu lenta a morire: persisteva ancora nel ventesimo secolo. In alcuni Consigli Scolastici più grandi si pensava, in prospettiva, a un’istruzione secondaria gratuita da contemplarsi nel curricolo delle scuole definite di grado superiore, previste per gli studenti più grandi che le frequentavano dopo gli undici anni.

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Va osservato, per inciso, che in questo periodo una nuova Università (Durham) e molti altri Colleges Universitari associati all’Università di Londra furono istituiti negli agglomerati urbani più grandi, quali Manchester, Liverpool, Nottingham, tutti destinati a diventare vere e proprie Università specializzate. A dispetto dei vantaggi e dei loro considerevoli risultati, i Consigli Scolastici soffrivano di una grave mancanza: erano troppo numerosi. I più piccoli erano incapaci di provvedere alle necessità più elementari. Non c’era coordinamento o controllo da parte del governo centrale. E si crearono così situazioni molto eterogenee: i livelli variavano considerevolmente da un’area all’altra, soprattutto nei distretti rurali dove gli standard erano molto inferiori rispetto a quelli delle città. Perciò, alla fine del secolo, tanto i politici che le organizzazioni religiose avvertirono la necessità di una riforma radicale. La strada per la formazione di un sistema nazionale omogeneo fu tracciata dal Educational Act del 1902. d) Dal 1902 al 1944 Le due conseguenze più importanti della legge furono la creazione delle LEA (Local Educational Autority) ( = Autorità Locale per l’Istruzione) e il mantenimento e il funzionamento delle scuole in collaborazione con un dipartimento del governo centrale denominato Consiglio dell’Istruzione. In effetti, questo Consiglio non si riunì mai, dovendo semplicemente svolgere le funzioni amministrative senza occuparsi dell’organizzazione dell’Ispettorato di Sua Maestà. Il finanziamento era suddiviso in parti uguali: il cinquanta per cento proveniva dal Consiglio e l’altro cinquanta per cento dalle LEA. Le LEA della provincia e della città avevano responsabilità sia per le scuole elementari che per quelle secondarie, per le piccole cittadine (terza parte) lo erano solo per le scuole elementari. Due conseguenze importanti furono: l’istituzione dei Collegi di Formazione degli insegnanti (Normal Schools), la cui esigenza era stata avvertita a lungo e, dal 1907, il superamento di un esame da parte dei ragazzi di 10-11 anni (più tardi conosciuto come Eleven plus), che consentiva agli studenti più capaci la frequenza gratuita nelle Grammar Schools dove seguivano il tradizionale corso scolastico di latino, lingue moderne, matematica, scienze, ecc. Per la prima volta divenne possibile il passaggio dal settore elementare a quello secondario. I candidati provenienti dalla classe lavoratrice dimostrarono presto nella competizione annuale un’intelligenza ed un’abilità superiori a quella della maggior parte degli studenti che pagavano la retta. Il loro numero aumentava costantemente e, dopo aver ottenuto il certificato di studi, alcuni accedevano anche all’istruzione superiore. Il 1914-18 non vide ulteriori sviluppi. Tuttavia, non va dimenticato che i numerosi fanti che combatterono e morirono nelle trincee delle Fiandre, a Gallipoli e sugli altri campi di battaglia furono il prodotto delle scuole elementari dell’ultima parte del XIX secolo, «eroi caduti inutilmente», come giustamente sono stati definiti. Il successivo progresso si compì con la pubblicazione dei due Rapporti Hadow: La Scuola Elementare (1926) e L’Educazione dell’Adolescente (più significativo) del 1931. Questi sottolineavano l’ingiustizia sociale di un sistema duale che effettivamente privava la maggioranza dei ragazzi dei vantaggi di un’educazione post-elementare. A dire il vero, il termine «elementare» era diventato così ingiusto e ricordava a tal punto le distinzioni di classe, che non veniva mai usato nei discorsi politici ufficiali. Al suo posto la filosofia Hadow proponeva l’istituzione di Scuole Secondarie Moderne gratuite e non selettive accanto alle già esistenti Grammar Schools selettive. Si auspicava che tutte e due le scuole potessero godere di ciò che veniva eufemisticamente chiamata «parità di considerazione». Le nuove Scuole Secondarie Moderne dovevano essere in grado di provvedere agli edifici e alle strutture, alla stregua delle Grammar Schools. L’idea era che la maggior parte degli studenti di undici anni non avesse predisposizione, o ne avesse poca, per un curricolo accademico e che pertanto i loro talenti sarebbero stati impiegati meglio nella preparazione tecnico pratica. Di conseguenza, le Scuole Secondarie Moderne non prevedevano alcun esame finale e lasciavano agli studenti il compito di trovare il proprio modus vivendi. Seguì un vigoroso programma di costruzione delle nuove Scuole Secondarie Moderne, con ampi campi da gioco, ginnasi e laboratori. Durante la Grande Depressione, negli anni ‘20 e ‘30, molti laureati universitari furono costretti ad accettare incarichi nelle Scuole Secondarie Moderne, con il risultato che ogni disparità con la Grammar School andò progressivamente attenuandosi. Nonostante ciò, molte Scuole Moderne ambiziose modellarono deliberatamente i loro curricoli su un corso accademico, incoraggiando gli studenti più abili a proseguire gli studi dopo i 13-14 anni allo scopo di ottenere l’ambito diploma, condizione indispensabile per l’ammissione all’università. Molti genitori, e certamente anche l’opinione pubblica, continuarono a pensare alla Scuola Secondaria Moderna come alla seconda scelta migliore. La Relazione Newson del 1963 intitolata «Metà del nostro futuro» concludeva che: «II futuro del lavoro in questo paese richiederà una quantità maggiore di talento

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rispetto a quello attualmente disponibile; e almeno una buona percentuale di studenti nella media, e al di sotto di essa, si possono istruire facilmente per soddisfare questo talento supplementare. Questa necessità è avvertita non solo a livello di operai già esperti nello svolgere lavori esistenti, ma anche a livello di una manodopera generalmente istruita ed intelligentemente disposta a venire incontro alle nuove esigenze». In generale, il messaggio rivolto alla nazione era che le capacità di almeno il 70% degli studenti erano state abbondantemente sottovalutate e che i ragazzi erano capaci di fare di meglio. Inoltre, ad alimentare la controversia, si aggiunse l’asserzione che i test di intelligenza usati per la selezione nell’esame dell’ElevenpIus non misuravano una quantità precisa della predisposizione conoscitiva come gli psicologi dell’educazione avevano sempre affermato; l’intelligenza misurata attraverso questi test non era innata ma in gran parte acquisita. Intorno al 1950 il GCE (General Certificate of Education - Diploma Generale di Istruzione), da conseguirsi a due livelli, «O» (ordinario) a 15-16 anni e «A» (avanzato) a 18 anni, offriva l’unica qualifica valida per l’ammissione all’università aperta a tutti gli studenti diplomati, inclusi quelli provenienti dalle indipendenti Public Schools private. Nel 1963 fu introdotto un nuovo tipo di esame esterno con il CSE (Certificate of Secundary Education - Diploma di Istruzione Secondaria) come prova di preparazione per gli studenti del quinto anno espressa in gradi da 1 a 5. Il grado 1 era considerato equivalente al passaggio di livello «O» del CGE. Con un requisito minimo del certificato di grado 4 in una materia non c’era praticamente nessuna possibilità di essere bocciati. Inoltre, erano le scuole stesse a preparare i propri corsi e a distribuirli internamente. Così come il GCE, anche il CSE era amministrato dai Comitati Regionali. Nel frattempo, le scuole elementari inglesi avevano raggiunto una reputazione internazionale grazie all’adozione di un curricolo basato sulla creatività e sull’attività, sostenuto per la prima volta in America da John Dewey. I progetti di gruppo, le arti e i mestieri, l’arte drammatica e la danza ebbero la precedenza sulle tre R; le lezioni formali furono abbandonate in favore di una maggiore attenzione alle differenze individuali, grazie all’interesse e all’abilità degli insegnanti. Invece di venire informati, i giovani erano incoraggiati a trovare da soli le informazioni. Furono privilegiati i libri di consultazione, i dizionari e i sussidi didattici. Ancor più sorprendente fu l’improvvisa creazione, specialmente nelle zone rurali del Galles, di una Comprehensive School, Scuola secondaria unificata, che presto fu al centro di dibattiti politici e pubblici. L’istanza crescente di un aumento delle opportunità e la diffusione di un’ideologia egualitaria traevano ispirazione dall’Educational Act del 1944 che aveva creato il Dipartimento dell’Educazione e delle Scienze (DES) con a capo un Segretario di Stato assistito da Ministri responsabili delle Università, delle scuole, degli stipendi degli insegnanti, dei sistemi pensionistici e della spesa finanziaria. I poteri di controllo del Segretario di Stato su tutti i gradi del processo educativo — istruzione primaria, secondaria e terziaria — non erano assoluti: egli doveva fornire un resoconto annuale della sua amministrazione al Parlamento. Il tradizionale stretto rapporto tra il Ministero e le LEA fu così saldato. E, insieme, fu ribadito il diritto della Chiesa d’Inghilterra, della Chiesa Cattolica Romana e delle altre confessioni religiose a mantenere le proprie scuole e di ricevere parte delle sovvenzioni finanziarie dal DES. In verità, la religione già costituiva un elemento integrante della Legge del 1944: essa affermava che l’unica parte obbligatoria del curricolo dovesse essere una lezione di religione al giorno in tutte le scuole. I genitori che non desideravano che i figli vi partecipassero, potevano ritirarli. In teoria, le scuole erano messe in condizione di insegnare ciò che volevano e come volevano, libertà, inutile dire, che creò delle perplessità fra gli studiosi europei sul sistema inglese (6). Naturalmente, in pratica questa libertà era subordinata alle richieste degli esami esterni GCE e CSE che assicuravano così il mantenimento delle tradizionali materie curricolari. Il rapporto tra il DES e le LEA continuò ad essere buono come sempre, sebbene, con il passare del tempo, le sovvenzioni finanziarie del governo centrale aumentassero gradatamente dal 50% degli inizi fino al 70%, con la conseguente diminuzione del controllo della gestione da parte delle LEA. Lo stesso accadde per le scuole ecclesiastiche inglesi che non furono più in grado di procurarsi il denaro per la costruzione di nuovi edifici ne di riuscire a mantenere le loro scuole elementari. Molte di esse furono rilevate dalle LEA e persero così il diritto di insegnare i dogmi della propria teologia confessionale; Nella sua totale responsabilità per tutti i livelli del processo educativo, il DES rispettava l’autonomia delle università, ma manteneva contatti con loro tramite un ente intermediario, l’UGC (University Grants Committee, Comitato per l’assistenza finanziaria accademica) direttamente finanziato dal Ministero del Tesoro a Whitehall.

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Di estrema importanza, la Legge sull’Istruzione del 1944 deve essere considerata, finora, come la legge più progressista e illuminata. Rappresenta ancora la base dell’attuale sistema inglese. Quando la sua attuazione fu messa in discussione dal governo Tory, si pensò ad un regresso poiché veniva esercitato un controllo centrale, o per-sino autoritario, sul sistema. e) Dal 1944 al 1988 Per capire gli sviluppi di questo periodo e l’importante ed aspra controversia a proposito della Comprehensive School, è necessario considerare tre teorie sulla natura della giustizia sociale. 1) II conservatorismo vede la società come una gerarchia di classi in relazione funzionale tra loro. Le distinzioni di classe non vanno considerate come una divisione, ma valutate come un mezzo atto a cementare e legare la società. Le funzioni individuali e lo status vengono ereditati biologicamente (il che spiega la preferenza per psicologi come Jensen e Eysenck). Poiché l’abilità naturale e lo status sociale sono strettamente correlati, non c’è molta possibilità di avanzare o regredire nella società. In breve, c’è una legittima e naturale aristocrazia di talenti. Di solito la teoria conservatrice è soddisfatta dello statu quo: essa insiste sul fatto che le vecchie istituzioni stabilite non devono venire alterate a meno che non sia assolutamente necessario. 2) Allo stesso modo, il liberalismo riconosce che le abilità individuali sono estremamente variabili. Accetta l’ineguaglianza perché inevitabile, ma è contraria ai privilegi ereditati. Di conseguenza, il liberalismo sottolinea la necessità di una maggiore uguaglianza di opportunità nel campo dell’istruzione. Accedere all’istruzione non dovrebbe essere più facile per una classe rispetto alle altre. La libera competizione è essenziale per la promozione di una meritocrazia genuina. Nel complesso, il liberalismo non è soddisfatto dello statu quo, ma è convinto che debba venire promosso un nuovo ordine con una serie di riforme. 3) II socialismo è inflessibilmente egualitario. Basandosi sui risultati della ricerca sociologica, sostiene che qualsiasi differenza palese nell’abilità individuale e nello status sociale è determinata soprattutto dai fattori e dalle influenze ambientali, in particolare dal sistema economico e dalla divisione del lavoro della società capitalistica industriale. In altre parole, la teoria socialista afferma che, nella interazione tra «natura» e «disciplina», la più importante è di gran lunga la seconda. Di qui il disprezzo per le istituzioni tradizionali e per i loro valori, che considera espressione di sfruttamento e corruzione. Tale teoria chiede una totale ristrutturazione della società: sia nella prospettiva conservatrice che in quella liberale la giustizia sociale sta ad indicare il potere e l’autorità che rivestono coloro che accettano più volentieri le regole, vale a dire o una élite naturale sostenitrice della politica dello statu quo, o una élite meritocratica incline ad una politica di cambiamenti graduali. Il socialismo è apertamente rivoluzionario, premendo per una democrazia partecipativa e rimettendo il potere nelle mani del popolo. Anche se nessuna di queste teorie è stata realizzata nella sua forma «pura», non c’è dubbio che nel dopoguerra l’espansione straordinaria dei servizi educativi a tutti i livelli (che raggiunse il suo apice nel 1979) fu in gran parte frutto della politica riformistica socialista. Non è un caso che, dal 1945 al 1979, il governo laburista sia stato più o meno ininterrottamente in carica. Cosi il Rapporto Crowther del 1959 «15-18» rilevò che solo un numero relativamente esiguo di studenti proseguiva gli studi dopo l’età di 14 anni e che il loro livello di istruzione era paurosamente basso. La conclusione era chiara: la maggioranza dei ragazzi non raggiungeva il rendimento massimo poiché mancava qualsiasi provvedimento in loro favore nell’età compresa fra i 15 e i 18 anni. Il Rapporto riconosceva i meriti delle Grammar Schools inglesi, ma esprimeva perplessità circa la loro tendenza ad incoraggiare una specializzazione limitata o alle Scienze o alle Lettere negli esami di Livello A per il GCE. Queste perplessità trovarono riscontro nel celebre The two Cultures and the Scientific Revolution di C.P. Snow. L’espansione dell’istruzione ad un livello superiore era raccomandata dal Rapporto Robbins del 1963, che forniva un solido appoggio alla richiesta sempre crescente di un’ammissione gratuita a tutte le forme d’istruzione superiore — Università, CAT (College for Advanced Technology - College di Tecnologia Avanzata), College di Pedagogia per il Tirocinio degli insegnanti, ecc. —; a questo fine auspicava l’aumento immediato del numero di studenti a tempo pieno a 216.000, numero che avrebbe toccato quota 390.000 nel 1973-74 e 560.000 nel 1980-81. Ai Colleges di Tecnologia Avanzata, di recente formazione, doveva essere pienamente riconosciuto lo status di Università Tecnologiche e doveva essere istituito un Comitato per le Borse di Studio Accademiche Nazionali, con il potere di assegnare titoli agli studenti che seguivano corsi a tempo pieno o part-time nelle istituzioni che non avevano ancora raggiunto il grado di università. Si dovevano creare inoltre molte nuove università. Sin qui tutto bene, ma indiscutibilmente il nodo centrale di questo ambizioso programma di espansione andava ricercato nei miglioramenti e nei progressi delle Comprehensive Schools. Le cifre parlano da sole. Tra il

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1960 e il 1974 il numero delle Grammar Schools fu ridotto da 1.284 a 675. Durante lo stesso periodo, il numero delle Scuole Secondarie Moderne passò da 3.887 a 1.500. Se nel 1950 c’erano solo 10 Comprehensive Schools, nel 1960 erano diventate 130 e nel 1974 se ne contavano 2.273. Ma cosa viene chiesto, esattamente, ad una Comprehensive School? In teoria, una Comprehensive School provvede a tutti gli studenti dagli 11 ai 18 anni, a prescindere dalle abilità o dal sesso, residenti in una certa area stabilita dalla LEA. In pratica, ciò non è possibile per svariate ragioni; infatti, l’area prestabilita può includere ragazzi che frequentano Public Schools private, o anche scuole cattoliche che di solito organizzano le proprie scuole onnicomprensive per un solo sesso. Un’ulteriore complicazione sorge dal fatto che tali scuole di solito tendono ad essere estremamente grandi, sino a comprendere 1.000-2.000 studenti. La soluzione di questi problemi è stata inevitabilmente affidata ad un compromesso. Creare scuole onnicomprensive «per tutti», che provvedessero a studenti dagli undici ai diciotto anni, richiedeva molto tempo. Furono perciò adottati, in alcune LEA, due ordini onnicomprensivi situati in scuole distinte: il primo per gli studenti dagli 11 ai 14-15 anni; il secondo per quelli dai 15 ai 18 anni che proseguivano gli studi nei corsi onnicomprensivi superiori. In altre LEA, un certo numero di Grammar Schools e Scuole Secondarie Moderne furono unificate, sotto lo stesso preside, in edifici distanti l’uno dall’altro: nella migliore delle ipotesi una soluzione insoddisfacente. Il prolungamento dell’obbligo scolastico fino ai sedici anni, con un «limite massimo» di diciotto, alimentò la speranza che un maggior numero di studenti avrebbe completato l’istruzione a tempo pieno fino al conseguimento del GCE di livello O e A. In realtà, questa speranza non si realizzò mai. Invece, molti genitori continuarono a vedere nelle Grammar Schools selettive la scelta più valida. Nelle scuole onnicomprensive del centro urbano crebbero vistosamente la pigrizia e il vandalismo. I «Sixth Form Colleges», che provvedevano ai diversi interessi ed abilità degli studenti dai sedici ai diciannove anni, si possono considerare come l’ultimo risultato di ciò che è stato definito «principio onnicomprensivo». Consentivano infatti l’accesso ai vari tipi di ulteriore e superiore istruzione: a partire dall’Università ai Politecnici e altri corsi di laurea, fino a corsi sandwich part-time per giovani apprendisti. In ogni caso, l’impressione che le Scuole Onnicomprensive fossero il mezzo per liberare la società inglese dalle sue rigide distinzioni di classe fu smentita dalle trasformazioni della popolazione negli anni ‘50 e ‘60. In quegli anni si assistette ad una massiccia immigrazione di Indiani, Asiatici e Africani, gruppi etnici di diverse religioni e culture, molti dei quali non conoscevano una sola parola di inglese. Solo il Galles fu immune da questa invasione straniera e lì le Scuole Onnicomprensive ebbero, fatto avvertito come un grande successo, il merito non irrilevante di contribuire al mantenimento di una società relativamente non classista. Più importante di tutti questi fattori politici e demografici fu lo sviluppo sorprendente, e senza precedenti, della tecnologia educativa. Nel 1969, tramite essa, si diede vita alla Open University, probabilmente l’impresa più originale e bella della Gran Bretagna nel periodo post-bellico. Utilizzando un sistema multimediale di servizi postali e telefonici, uniti a programmi televisivi e radiofonici della BBC per lo studio a casa e nel tempo libero, L’Open University rese possibile a migliaia di uomini e donne maturi di studiare per raggiungere una laurea — un’altra possibilità per tutti coloro, come le casalinghe e gli agricoltori, per esempio, ai quali le circostanze avevano negato la realizzazione di un tale desiderio. I libri di testo e gli altri materiali necessari per i corsi, pubblicati dall’Operi University nella sua sede centrale nella nuova città di Milton Keynes, furono invariabilmente migliori e meno cari di quelli prodotti dagli editori commerciali, mentre i contatti con i singoli studenti anche in zone remote erano assicurati da tutors locali che seguivano il loro lavoro, correggevano e valutavano i loro elaborati e fungevano da guida per risolvere qualunque problema personale concernente un corso di studi che, oltre che lungo, era estremamente arduo. Ma le implicazioni della rivoluzione nella tecnologia educativa sono andate ben oltre con l’invenzione dei «chip» al silicio, e poi con i personal computer, le fibre ottiche e, oggi, i super conduttori — un ritmo di progresso sempre in accelerazione che non mostra segni di rallentamento in un prevedibile futuro. A seguito della comparsa dei sussidi audiovisivi, come si era soliti chiamarli negli anni ‘50, quasi tutte le scuole elementari e superiori si sono attrezzate con computer e televisori, e molte fanno uso di videoregistratori. L’aforisma di Mc Luhan («la maggior parte dell’apprendimento avviene al di fuori della scuola») non è mai stato vero come oggi, se si considera quanti individui, dall’infanzia all’adolescenza, usano questi apparecchi. Luoghi consacrati all’istruzione, all’inizio, oggi le scuole si stanno trasformando in centri socio-culturali. Di conseguenza, il ruolo degli insegnanti si è significativamente trasformato. In primo luogo, la loro autorità è stata progressivamente indebolita, con il risultato che i casi di disobbedienza nei loro confronti sono divenuti sempre più frequenti. Non più liberi di infliggere punizioni corporali ai colpevoli di gravi

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infrazioni, molti si sono sentiti indifesi. La loro difficile situazione è stata causata da quella che i fisiologi chiamano la «tendenza secolare verso una più precoce maturità fisica» — più semplicemente, dal fatto che i bambini diventavano adulti più rapidamente di quelli nati nelle precedenti generazioni. Per le ragazze come per i ragazzi, l’inizio della pubertà si è regolarmente abbassato dai 16-17 anni dell’inizio del XX secolo ai 10-11 anni in paesi come la Norvegia e la Svezia, così come in Gran Bretagna. Aggiungiamo a ciò gli effetti della società permissiva degli anni ‘50 e ‘60, oltre alla diffusione dell’uso della pillola contraccettiva; non c’è da meravigliarsi, allora, se gli insegnanti e i genitori hanno cominciato a pensare a quei giovani come ad «animali diversi». Il «gap generazionale», come fu chiamato, costituiva un fenomeno completamente nuovo. Sub rosa, i rapporti sessuali fra adolescenti, impensabili durante l’era di etica puritana, erano diventati la regola più che l’eccezione. Gli aborti segreti ed illegali per le studentesse incinte aumentarono, così come il numero delle famiglie con un solo genitore che facevano assegnamento sull’assistenza sociale. Di fronte a tutti questi problemi, gli insegnanti cercarono rifugio nei loro sindacati professionali, il principale dei quali, il Sindacato Nazionale degli Insegnanti, rappresentava membri impiegati nelle scuole elementari e nelle secondarie non selettive, mentre altri sindacati rappresentavano gli interessi speciali di presidi e laureati. Tutti rivendicavano il diritto a rinegoziare con le LEA trattamento economico e mansionario. L’ulteriore fase della trasformazione della società britannica ebbe luogo in seguito alle nuove tecnologie elettroniche. La prima rivoluzione industriale si era basata sulla industria pesante — miniere di carbone, altiforni, cantieri navali, ecc., — concentrata quasi interamente nel Nord dell’Inghilterra e nella Scozia meridionale, in città come Manchester, Sheffield, Liverpool e Glasgow. Dagli anni ‘50 in poi queste industrie furono superate e molte zone del paese precipitarono nella rovina. Nel Nord, la disoccupazione raggiunse valori oscillanti da 1 milione a 3 milioni nel 1980, mentre nello stesso periodo Londra ed il Sud-Est dell’Inghilterra godevano sia di ricchezza che di sicurezza e attiravano numerosi disoccupati dal Nord e dal Centro in cerca di lavoro. Questa divisione Nord-Sud andava bene alle Public Schools residenziali e alle innumerevoli scuole preparatorie private: curavano gli interessi di una prospera classe superiore e di una clientela borghese che poteva permettersi di affidare ad esse i figli. La loro influenza nasceva da varie circostanze. Per esempio, dal fatto che da una sola scuola, l’Eton College, erano usciti quattordici Primi Ministri (fino a quando Harold Wilson non andò al potere nessuno che si fosse formato nelle Grammar Schools aveva raggiunto questa carica). E sebbene le Public Schools rappresentassero meno del 10% della popolazione scolastica, continuarono a fornire più del 50% delle ammissioni alle antiche e più prestigiose Università, Oxford e Cambridge. Ancora oggi, la maggior parte dei Conservatori membri del Parlamento e del Consiglio dei Ministri si sono laureati nelle due tradizionali università inglesi. Addio, dunque, ad ogni residua speranza che le Comprehensive Schools preparassero la strada ad una società senza classi! Le elezioni generali del 1979 portarono trionfalmente al potere il Partito Conservatore, un trionfo ripetuto nel 1983 e nel 1987, aprendo l’«era thatcheriana» contrassegnata da quella che una volta Lord Halisham ha definito una “dittatura elettiva”. Durante i due decenni che precedettero il 1979, la parte del Prodotto Interno Lordo (PIL) destinata all’Istruzione fu effettivamente maggiore di quella destinata alla Difesa, ma da allora una serie di drastici tagli ai finanziamenti statali di tutti i servizi sociali, Sanità, Istruzione, Sicurezza, Assistenza sociale, ecc. ha invertito la tendenza. Le sovvenzioni ad Università, Politecnici ed altri Istituti d’istruzione superiore sono state ridotte, e molti dei loro dipartimenti si sono trovati minacciati di chiusura a motivo della riduzione delle spese. Il controllo sulle spese e l’amministrazione è stato tolto dalle mani della Commissione per le sovvenzioni universitarie, che fino ad allora aveva funzionato come un intermediario autonomo, e bruscamente restituito al governo centrale. A tutti i livelli, la centralizzazione è all’ordine del giorno. In questo modo, i diritti degli insegnanti a negoziare la scala retributiva e le condizioni di servizio con la loro LEA non sono stati più riconosciuti ed i poteri conferiti ai governi locali sono stati gradualmente erosi, come pure quelli dei sindacati (fedeli sostenitori, inutile dirlo, del Partito Laburista). Nel 1984 il numero dei disoccupati strutturali era cresciuto fino ad oltre 3 milioni (stime non ufficiali suggerivano che fosse più vicino ai 4 milioni). Coloro che abbandonavano gli studi erano davvero tanti, con poche o nessuna prospettiva di trovare un lavoro permanente. Per contrastare questo sconfortante stato di cose la Commissione per la manodopera tentò di alleviare la situazione organizzando piani per preparare e riqualificare i giovani per occupazioni specializzate o semispecializzate o per servizi sociali volontari, p. es., l’aiuto ad anziani pensionati o la pulizia di terreni incolti — qualunque cosa pur di toglierli dalle liste di disoccupazione —. Il problema, se mai, era che il compenso per i partecipanti ad alcuni di questi piani era così basso che essi potevano riscuotere di più dall’assistenza sociale. Di qui l’accusa che essi avevano paura del lavoro e che erano semplicemente troppo pigri per volersi guadagnare da vivere autonomamente.

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Onestamente, bisogna riconoscere che gli sforzi della Commissione per la manodopera non sono stati completamente vani. In verità, molti di coloro che si offrirono volontari per prender parte al Programma di Opportunità per i Giovani rimasero insoddisfatti quando alla fine del corso non erano riusciti a trovare un’occupazione, benché la situazione fosse migliorata nel corso degli anni. Oggi tre su quattro fra coloro che abbandonano gli studi hanno buone possibilità di trovare un qualche tipo di lavoro. Per quanto riguarda gli adulti, i Centri per il Lavoro in ogni città del paese rendono regolarmente note le richieste di apprendisti da parte delle aziende locali, mentre per i disoccupati a lungo termine sono stati ideati corsi al fine di risvegliare abilità e di acquisirne di nuove per coloro che desiderino iniziare una piccola attività in proprio. La legge di riforma dell’istruzione del 1988 in Inghilterra e nel Galles La legge di riforma dell’istruzione del 1988 può già essere considerata come la legge più importante degli ultimi 44 anni in materia di istruzione in Inghilterra e nel Galles. Tutti i rapporti amministrativi, finanziari e di gestione del sistema educativo, in ogni suo livello hanno subito una trasformazione; ulteriori trasformazioni sono prevedibili a causa dei poteri assoluti conferiti dalla nuova legge al Ministro dell’Istruzione. Per la prima volta è stato imposto un curricolo nazionale di studi; inoltre, a partire da quest’anno, è stato introdotto un sistema universale per gli esami che gli alunni devono sostenere a 7, 11, 14 e 16 anni. Il controllo sugli esami di licenza a 16 e a 18 anni, con il divieto di alternative non autorizzate, riduce l’autonomia di azione finora goduta dalle scuole britanniche. Le Autorità Locali per l’Istruzione e gli insegnanti sembrano destinati a diventare agenti della politica centrale. Perfino l’istruzione universitaria o post-scolastica viene limitata, a partire dall’aprile 1989, da un crescente controllo centrale sui finanziamenti, sulle iscrizioni degli studenti e sul personale, nonostante le promesse fatte di rispettare la libertà e l’autonomia accademica. Così la legge del 1988 può rivelarsi la legge più importante mai esistita nel paese sull’istruzione, non solo per quanto contiene il testo approvato dal Parlamento, ma a causa dei poteri riservati al ministro all’interno del vasto quadro legislativo. Non passa settimana senza qualche nuova interpretazione o amplificazione delle norme — spesso di grandissima importanza per il controllo, i finanziamenti o la politica in generale. Di conseguenza, più nella pratica che nell’espressione formale della legge, un crescente controllo centrale si sostituisce a quelle che precedentemente erano responsabilità locali o iniziative derivanti da esperienze locali. Come esempio prendiamo la possibilità della «dissociazione» (cioè il potere ora concesso ai genitori di togliere la loro scuola dal controllo dell’Autorità Locale sull’Istruzione richiedendo lo stato di «scuola statale finanziata» controllata direttamente dal Ministero dell’Istruzione (DES), previa approvazione del Ministro). I genitori degli alunni di qualsiasi scuola elementare e secondaria con più di 300 iscritti possono prendere questa decisione a semplice maggioranza in un’unica seduta. Le Autorità Locali sull’Istruzione erano in precedenza responsabili di tutte le scuole statali della loro giurisdizione, garantendo la continuità dell’istruzione dall’asilo all’università e provvedendo a tutti i servizi necessari in materia di istruzione. Ora un vero coordinamento e una progettazione a lungo termine sono diventati impossibili. Inoltre, già in precedenza erano stati operati tagli alle spese di tutte le autorità locali, incluse le spese per l’istruzione; pertanto la libertà di azione in risposta alla «dissociazione» e ad altre iniziative è limitata. Il preteso decentramento di taluni poteri (ad esempio, la delega di gran parte delle decisioni sulle spese delle scuole alla direzione delle scuole stesse) indebolisce il controllo dell’autorità locale su questioni come il reperimento del personale insegnante, la promozione del personale o i libri, mentre aumenta la possibilità di interferenze da parte del Ministero dell’Istruzione (DES). Per capire le dimensioni dei recenti mutamenti dobbiamo ancora una volta ricordare la legge del 1944, che fino allo scorso anno costituiva la base dell’intero sistema. La legge sull’istruzione del 1944 è stata la prima a creare un sistema nazionale di istruzione comprendente tutti gli ordini e gradi. Fu preceduta dalla pubblicazione di un rapporto governativo nel 1942. Per due anni tutti gli ambienti interessati della vita britannica (autorità locali, partiti politici, chiese, associazioni degli insegnanti, sindacati, industrie e anche privati cittadini) furono incoraggiati a dare suggerimenti o critiche. Ministri e ispettori dell’istruzione attraversarono in lungo e in largo il paese per parlare con i gruppi locali. Ogni parte del disegno di legge fu attentamente discussa in Parlamento. Dopo l’approvazione della legge nel 1944 si operarono una serie di modifiche e rettifiche da parte del Parlamento o tramite ordinanze ministeriali in risposta alle pressioni dell’opinione pubblica. In più di 40 anni una serie di commissioni sull’istruzione ha fornito ulteriori consigli, alcuni dei quali sono stati accettati

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e inseriti nella legislazione; altri rapporti governativi hanno provocato dibattiti parlamentari da cui sono scaturite leggi integrative. Esisteva molto spazio per modifiche a livello locale, persino di singole classi. Così, all’interno della legislazione del 1944, si sviluppò un processo evolutivo corrispondente alle esigenze della cittadinanza e che incoraggiava la sperimentazione. Si dava ampio spazio alle iniziative di scuole, associazioni di insegnanti e organismi con interessi specifici (ad es. per i bambini handicappati o per le scienze o le lingue). Nuovi sistemi di esami (come quello per il conseguimento del GCSE (Generai Certificate of Secundary Education - Diploma Generale di Istruzione Secondaria) incoraggiavano la flessibilità, la fiducia nei propri mezzi e la sperimentazione. I vantaggi per i curricoli sono stati grandi. Alcune Autorità Locali sull’Istruzione sono state molto innovative, non solo nella riorganizzazione scolastica (per esempio creando i Sixth-Form Colleges per i giovani al di sopra dei 16 anni, o sostenendo l’«iniziativa di istruzione tecnica e professionale “TVEI”», ma anche sviluppando la formazione «in servizio» e il tirocinio degli insegnanti e incoraggiando la partecipazione dei genitori ancor prima che una legge del 1977 la rendesse obbligatoria. Fino al 1988 era quindi giusto affermare che «la socializzazione» era una delle caratteristiche principali dell’istruzione britannica. I funzionari parlavano di «un sistema nazionale amministrato a livello locale», in quanto il Ministero (DES) non possedeva scuole, non nominava insegnanti, non imponeva curricoli, non gestiva esami né determinava la struttura e la conduzione generale dei sistemi scolastici locali. Questi erano problemi di pertinenza delle autorità locali (o perfino della singola scuola), sulle cui decisioni era solo occasionalmente richiesto il parere ministeriale. Tuttavia, la pressione del governo centrale aumentava col passare degli anni, soprattutto con i tagli ai finanziamenti, ma talvolta per intervento di ministri non titolari dell’Istruzione. Alcune Autorità Locali erano certamente arretrate o troppo parsimoniose. Si sentiva il bisogno di uguali opportunità e di una generale modernizzazione, intorno ad un curricolo di base concordato che migliorasse i livelli standard favorendo allo stesso tempo la varietà. Molti esperti e organizzazioni avevano già provveduto alla stesura di programmi adatti. Ciononostante, la preparazione del governo alla legge del 1988 era in netto contrasto con ciò che aveva preceduto la legge del 1944. Il Partito Conservatore di Margaret Thatcher ha una maggioranza schiacciante di seggi parlamentari. Nel corso del 1987 il nuovo Ministro dell’Istruzione, Kenneth Baker, fece chiaramente intendere quali fossero le intenzioni del governo. Nel luglio di quell’anno fece distribuire diversi «documenti consultivi», in un periodo in cui alcune scuole chiudevano per la pausa estiva, molto personale era occupato con gli esami e tutti si preparavano ad andare in vacanza, richiedendo altresì che tutti gli interessati facessero pervenire le proprie considerazioni entro il 9 ottobre 1987! Furono stampate troppe poche copie per garantire un’accurata distribuzione a tutte le scuole e organizzazioni interessate. Anche se il termine fu poi prorogato, non ci fu tempo per una vera discussione. In effetti, si voleva che essa non avesse luogo. Quando la proposta di legge fu discussa in Parlamento, ogni emendamento che non era stato proposto dal governo fu respinto. La parte obbligatoria del curricolo nazionale nell’orario scolastico fu ridotta al 70% o invece dell’80-90% inizialmente stabilito; ma l’accento è ancora posto sull’«apprendimento dei fatti» in tre «materie-nucleo» (inglese, matematica e scienze) e sette «materie fondamentali» separate, uguali per tutti fino all’età di 16 anni. Non si è dato ascolto alle richieste di un curricolo meno dominato dalle materie e più «integrato» o «esplorativo». Speciali commissioni istituite con il compito di definire programmi dettagliati per ogni materia (che saranno introdotti gradualmente entro il 1992) hanno talvolta mostrato un atteggiamento indipendente; ma il ministro ha dato adito a polemiche non solo per le rigide direttive impartite, ma anche per la sua opposizione a tutto ciò che ritiene «permissivo». Il Consiglio per il Curricolo Nazionale, incaricato di sorvegliare l’apprendimento scolastico, è ovviamente sotto il controllo ministeriale. Opinioni contrarie espresse da esperti sull’istruzione — incluse le Autorità Locali sull’Istruzione di amministrazioni conservatrici e leader della Chiesa, da sempre identificata con i Conservatori — sono state ignorate o respinte. Nonostante tanta determinazione non c’è stata una vera valutazione del fabbisogno di insegnanti specializzati per il nuovo curricolo, nessun calcolo a lungo termine sui costi di attuazione, nessun sussidio finanziario per la riorganizzazione. Ciononostante, con l’intenzione di «servire l’industria» e migliorare la competitività economica della Gran Bretagna, si cercano alleati nell’impresa privata. 120 City Technology Colleges (in realtà scuole secondarie con un programma ad orientamento professionale) che l’On. Baker ha voluto a tutti i costi istituire fuori dal controllo dell’autorità locale, ma con l’aiuto e le direttive del Ministero dell’Istruzione, ne sono un esempio. Allo stesso modo, poiché ci sarà sicuramente una penuria di laureati per l’industria (per non parlare di insegnanti per le scuole e i colleges), i progetti recentemente annunciati dal Ministro per una grande

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espansione dell’istruzione universitaria e politecnica su modello americano, si basano chiaramente sulla sponsorizzazione dell’industria e del commercio. Già alcune istituzioni di istruzione universitaria o politecnica (finora autonome e tutte finanziate dalle tasse) vengono indotte ad «entrare sul mercato» aumentando i contratti di ricerca, facendo pagare tasse variabili agli studenti e pagando gli insegnanti in modo differenziato. Prestiti agli studenti (invece di posti gratuiti) e «buoni» (vouchers) vengono discussi ogni giorno e sembra certo che verranno presto introdotti. Sembra scontata una diminuzione della qualità dell’insegnamento. Non solo esiste già una grande penuria di insegnanti laureati qualificati per materie specialistiche come la matematica, le scienze e le lingue, ma c’è una crescente riluttanza da parte di giovani laureati a voler diventare insegnanti. Le laureate sposate che tornano a lavorare dopo aver allevato i figli sono restie ad accettare posti nel centro delle città o lontani da casa. Allora come si fa a garantire personale adatto per il nuovo curricolo nazionale? Si richiederà un insegnamento più specialistico destinato a un numero di alunni superiore al passato e per un maggior numero di ore. E chi dovrà finanziare la spesa per i libri e per le altre risorse didattiche in un periodo di continui tagli alla finanza pubblica? L’On. Baker si è lasciato sfuggire una serie di allusioni — indubbiamente per «ammorbidire» l’opinione pubblica — ad un sistema che vuole introdurre: ha parlato di assumere laureati non abilitati all’insegnamento nelle scuole «per farsi le ossa» (probabilmente a scapito della vera istruzione dei ragazzi) e farli diventare insegnanti con il tirocinio «in servizio». Per far fronte, in parte, alla penuria di insegnanti specializzati, alcune Autorità Locali propongono di abolire la pratica (ora comune) di avere classi «di abilità mista» nelle scuole secondarie onnicomprensive e di tornare al precedente sistema di formazione delle classi per livello (o presunta «abilità»). Sembra che si debba attendere poco per arrivare a classi selettive o perfino a scuole secondarie selettive; infatti, non ci sono dubbi che alcune scuole desiderose di «dissociarsi» dal controllo delle Autorità Locali sull’Istruzione sperano un giorno di tornare al loro stato precedente di Grammar Schools selettive (cioè scuole secondarie accademiche). Sono sempre state (anche se non esclusivamente) le Autorità Locali controllate dalle amministrazioni laburiste a favorire lo sviluppo delle scuole secondarie onnicomprensive. Come ulteriore presupposto della legge del 1988 bisogna quindi dire che le Autorità Locali sull’Istruzione dei grandi centri urbani sono da tempo attaccate dal governo conservatore, principalmente perché molte di esse sono sotto amministrazione laburista. La progressista ILEA (Inner Local Educational Auctority) di Londra è stata abolita dalla legge e le sue competenze sono state trasferite ai distretti di Londra, distruggendo così, o limitando, molti dei servizi da essa coordinati. La «dissociazione» è stata voluta come arma per indebolire il controllo laburista sull’istruzione locale; di fatto, però, molte delle 120 scuole già decise a «dissociarsi» si trovano in aree controllate dai Conservatori e stanno cercando di mantenere il vecchio modello di scuola secondaria o l’istruzione separata per sesso, ecc. Con nuove disposizioni, sembra realizzabile la possibilità di far pagare tasse per l’educazione musicale, per i viaggi di istruzione e altri servizi prima gratuiti. È probabile che ci saranno anche differenze locali o regionali negli stipendi degli insegnanti, se non addirittura nella stessa scuola, in seguito all’autonomia interna di una scuola che ottiene il permesso di non sottostare più al controllo locale. Tutto questo sembra mettere in discussione l’intero principio dell’uguaglianza delle opportunità di istruzione; inoltre — senza entrare nel merito della competenza degli amministratori scolastici a prendere decisioni che hanno conseguenze così importanti per i propri figli, per i successori dei propri figli nella stessa scuola e per il paese in generale — ciò ridicolizza la progettazione dell’Autorità Locale e ancor più l’idea stessa di una politica nazionale dell’istruzione. È giusto parlare di una politica «nazionale» dell’istruzione in tutto il Regno Unito, anche se la nuova legge è limitata all’Inghilterra e al Galles, poiché (a) le norme di questa legge sulle università valgono anche per la Scozia (anche se su altre questioni gli Scozzesi hanno un sistema di istruzione indipendente), e (b) tutto ciò che accade in Inghilterra e nel Galles in materia di istruzione ha finora costituito un precedente per le decisioni della Scozia. In ogni caso, i legami e le mutue implicazioni di sistemi così vicini sul territorio insulare conferiscono alla legge di riforma dell’istruzione un significato che va ben al di là delle scuole e dei colleges su cui la legge è immediatamente esecutiva. Le conseguenze di questa legge sono incalcolabili e riguarderanno tutta la vita nazionale. Purtroppo, alcune delle «brillanti idee» dell’On. Baker sono state annunciate in tutta fretta — spesso alla stampa o a qualche altro organismo non specializzato — subito dopo una breve visita negli Usa, nell’Urss o nella Repubblica Federale di Germania. Non è stata prestata alcuna attenzione alla grande quantità di informazioni o idee disponibili nei centri britannici di studi comparati. Ovviamente il Ministro ha

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provveduto a scegliere una serie di organismi consultivi che sono stati selezionati con gran cura, ma persino i loro consigli sono stati da lui «migliorati». La legge del 1988 è un serio tentativo di riforma? Oppure è una manovra politica per acquistare ulteriore potere centrale? Dov’è la strategia a lungo termine? La stampa nazionale e le riviste specializzate sull’istruzione hanno ampiamente espresso sospetti sul fatto che questa legge provochi la disintegrazione di ciò che era un servizio educativo coordinato, liberamente utilizzabile da tutti secondo il bisogno. Le continue interpretazioni e istruzioni da parte del Ministero aggravano la situazione di incertezza. Molti funzionari delle Autorità Locali dell’Istruzione e molti presidi stanno cercando nuovi impieghi o vanno in pensione anticipatamente. Nell’intero servizio educativo c’è preoccupazione per il futuro. Nonostante la lunga attesa per una riforma dell’istruzione, l’impatto globale della legge mette in pericolo i progressi fatti dal 1944: smantella molte buone cose già raggiunte e, per molti versi, minaccia di «mettere indietro le lancette dell’orologio», come affermano critici ben informati.

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Il sistema educativo in Germania 1. Il quadro storico II sistema scolastico della Germania ha conosciuto in questo secolo tre movimenti innovativi di fondamentale importanza. Benché abbiano avuto successo, solo in parte essi hanno lasciato una forte impronta nel sistema di educazione formale. Come conseguenza dei grandi cambiamenti intervenuti nelle strutture socio-economiche, politiche e culturali, queste innovazioni hanno influito fortemente anche nel campo dell’educazione informale. Influenze reciproche tra gli sviluppi nel campo dell’educazione formale e informale si possono rilevare, ad esempio, se si osservano i modelli di comportamento delle persone nell’ambito della scuola, della vita familiare, nel lavoro e per strada. La prima di queste ondate innovative interessò la Germania dopo la prima guerra mondiale e si manifestò come parte del movimento di riforma pedagogica su scala mondiale che ebbe tra i suoi fautori pedagogisti di grande levatura, seppur con obiettivi differenti, come John Dewey, Célestin Freinet, Pavel Blonskji e, in Germania, Georg Kerschensteiner, Eduard Spranger e Paul Oestreich. Se si considerano nel loro insieme gli effetti di questa ondata riformatrice, si può parlare del primo attacco alla scuola tradizionale che, grosso modo, era caratterizzata dal nozionismo e dall’acquisizione di un sapere enciclopedico. Fecero il loro ingresso nelle scuole elementari gli stili aperti di insegnamento e di apprendimento come, ad esempio, l’insegnamento di gruppo ed altre forme di insegnamento intese ad incoraggiare il desiderio di apprendere e l’immaginazione dei bambini. Anche i Ginnasi furono investiti dalle correnti di riforma pedagogica i cui effetti si manifestarono soprattutto nel preferire l’interpretazione di singole opere letterarie e di singoli eventi storici a spese della tradizionale trasmissione di un sapere enciclopedico. La seconda ondata innovativa può essere vista come una conseguenza immediata della seconda guerra mondiale. Essa è caratterizzata dagli sforzi comuni dei funzionari preposti all’educazione in seno ai regimi militari, specialmente nelle zone di occupazione americana e inglese, e dei pedagogisti e politici tedeschi che impegnarono forze ed energie per tirar fuori il sistema scolastico dal caos in cui lo aveva gettato il crollo del regime nazionalsocialista. Tra i pedagogisti tedeschi vorrei menzionare soprattutto il ministro dell’educazione dell’Assia Erwin Stein che contribuì in misura determinante anche alla fondazione dell’Istituto tedesco di ricerca pedagogica internazionale (Deutsches Institut fùr Internationale Pàdagogische Forschung) a Francoforte. Malgrado le notevoli divergenze tra i funzionari alleati e i pedagogisti tedeschi da un lato e tra i partiti politici dall’altro, ci fu un vasto consenso sugli obiettivi di fondo della nuova politica scolastica. Si trattava di risvegliare il rispetto della dignità umana e di promuovere l’uguaglianza delle opportunità educative e dell’uguaglianza nella formazione. Fu proprio la critica al modo di perseguire il secondo obiettivo, che cerchie sempre più larghe dell’opinione pubblica trovavano insoddisfacente, a gettare le basi delle «grandi riforme» che caratterizzarono lo sviluppo dell’educazione nella Repubblica Federale di Germania tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70. Poiché questa terza ondata è confluita direttamente nel periodo attuale, farò alcune osservazioni sulle sue caratteristiche più importanti. In primo luogo va menzionato il movimento studentesco; nelle sue espressioni spettacolari esso ebbe vita breve, ma produsse effetti di grande portata perché fu all’origine di cambiamenti nella posizione sociale e nell’immagine delle università. In secondo luogo bisogna ricordare la vasta attività del Consiglio Scolastico Tedesco, un organo consultivo che nel corso della sua esistenza (1965-1975) pubblicò un gran numero di importanti rapporti e suggerimenti. Infine il cambiamento del governo federale nel 1969, che portò al potere la «coalizione social-liberale», produsse i primi risultati visibili di una politica educativa orientata verso le riforme, come si è espressa chiaramente nel «Rapporto sull’educazione ‘70». Oltre all’uguaglianza delle opportunità educative, nel programma delle riforme erano compresi anche i seguenti obiettivi: • la modernizzazione del sistema educativo, per quel che concerne la pianificazione, l’edilizia scolastica e l’organizzazione scolastica; • la «democratizzazione» della formazione e dell’educazione; e a tal riguardo si deve sottolineare che nell’interpretazione tedesco-occidentale questo termine non significa solamente l’apertura della scuola e della società ai ceti finora sottoprivilegiati, ma anche la cooperazione e la corresponsabilità degli insegnanti, dei genitori, degli operatori sociali e, infine, anche degli studenti nell’organizzazione e nella gestione della scuola; • l’introduzione dei curricoli, che avrebbero dovuto sostituire, o almeno ridurre, la funzione dei tradizionali programmi scolastici:

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infatti la «Riforma della scuola come revisione del curricolo» proclamata da Saul Robinsohn prevedeva che gli esistenti cataloghi di contenuti dovessero essere sostituiti dalla formulazione di obiettivi generali e particolari, da un lato, e da indicazioni e guide metodologiche per la valutazione, dall’altro. Riepilogando, dobbiamo sottolineare il fatto che tutte e tre queste ondate di rinnovamento sono sfociate in una situazione che potremmo chiamare di consolidamento, di stagnazione o addirittura di distruzione. Questa valutazione non è dettata solo dagli eventi, ma anche dal modo di vedere del critico. Le riforme della Repubblica di Weimar furono lasciate cadere o furono stravolte in obiettivi che i funzionari nazionalsocialisti facevano passare come la «vera» educazione tedesca. Le iniziative radicali del dopoguerra, dal 1945 in poi, furono frenate all’inizio degli anni Cinquanta da una politica scolastica che i critici hanno denominato «restaurazione», termine usato per designare l’intero periodo che va dalla fine degli anni Quaranta sino alla metà degli anni Sessanta. Benché, a mio parere, una critica così dura debba essere ritenuta unilaterale e perfino esagerata, essa mette in evidenza che il sistema scolastico della Repubblica Federale di Germania si collegava direttamente col passato di Weimar, con le sue componenti orientate verso le riforme come pure con quelle di carattere conservatore. La terza ondata di riforme, che venne inglobata nelle «grandi riforme», è stata sostituita dalla «inversione di tendenza» allorché i politici e gli intellettuali conservatori hanno chiamato (e salutato) il periodo attuale come periodo del «consolidamento». Qui si dovrebbe aggiungere, naturalmente, che quest’ultimo cambiamento nel sistema educativo si era già annunciato verso la metà degli anni Settanta, quindi molto prima del mutamento di governo nell’Ottobre 1982 che portò al potere la «coalizione cristiano-liberale». Le forze di «consolidamento» hanno ridotto o addirittura soppresso le riforme avviate dalle precedenti ondate di rinnovamento. In generale, però, si può dire che queste riforme siano state di volta in volta integrate nel più ampio sviluppo del sistema educativo formale e informale della Repubblica Federale di Germania. Si parlerà più avanti degli effetti permanenti dell’ultimo periodo di riforme. Il periodo della ricostruzione, dopo la seconda guerra mondiale, gettò le basi per una filosofìa ed una pratica dell’educazione radicate nei valori della democrazia, della tolleranza e della collaborazione internazionale, e ciò in misura maggiore e più attendibile rispetto al periodo di Weimar. Infine, soprattutto negli ultimi anni, è apparso chiaramente come le iniziative della pedagogia riformista degli anni Venti abbiano conosciuto una rinascita che si è manifestata soprattutto nel fatto che gli interessi preminenti dei pedagogisti ed anche dell’opinione pubblica siano passati dalle «grandi» riforme alla «riforma interna della scuola», vale a dire ai problemi vissuti da insegnanti, studenti e genitori nell’ambito della scuola. Da questa breve panoramica si può vedere come il sistema educativo tedesco, quale si manifesta nei cambiamenti menzionati, tenga conto di una lunga tradizione che ha riscontro anche nei suoi collegamenti internazionali. In questa retrospettiva appaiono con particolare evidenza i tratti che rinviano alla generale storia politica e sociale dei secoli XVIII e XIX, a prescindere dai collegamenti col passato più remoto. Le caratteristiche essenziali della continuità II ruolo dominante dello Stato. — Lo Stato riveste in Germania il ruolo di guida nell’organizzazione, amministrazione e controllo delle scuole e delle altre istituzioni educative. Questa caratteristica risale all’epoca del primo assolutismo, allorché i prìncipi tedeschi cominciarono a considerare la politica scolastica un compito importante. In Germania come pure in Italia lo «Stato» rappresenta la struttura centralizzata della legislazione e del governo; può servirsi di un’amministrazione gerarchizzata. La natura generale di questo servizio fondamentale è stata definita nell’articolo 144 della Costituzione del 1919 e confermata dall’articolo 7 della Costituzione del 1949: «L’intero sistema scolastico è sottoposto al controllo dello Stato». L’organizzazione statale interessa in particolar modo i piani orizzontali della scuola primaria e secondaria. Nell’ambito dell’università, invece, l’influenza dello Stato si limita al «controllo» nel senso proprio della parola, giacché in questo campo viene riconosciuta alle università una notevole autonomia nella responsabilità per i loro affari. Il monopolio dello Stato è limitato, nell’educazione prescolastica, a beneficio delle comunità e delle chiese, ma anche dei privati cittadini e istituzioni. Un’altra limitazione riguarda il campo della formazione professionale nelle aziende: lo Stato si limita qui ad emanare leggi-quadro, concedendo agli organi non statali delle Camere dell’Industria e del Commercio ampi diritti di regolamentazione delle forme di istruzione. La tensione tra unità e molteplicità. — Non esiste contraddizione tra il monopolio dello Stato nel sistema educativo e il federalismo politico e amministrativo, giacché i Lander possiedono una struttura amministrativa centralizzata. Il federalismo tedesco risale al Medioevo e raggiunse l’apice dopo la guerra dei Trent’anni, corroborato dalla divisione confessionale, i cui effetti sul sistema educativo hanno naturalmente cominciato a perdere d’importanza fin dagli anni Sessanta di quel secolo.

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La storia della scuola tedesca da testimonianza, però, anche di notevoli sforzi intesi a dar vita ad una «educazione nazionale». Tali sforzi hanno trovato espressione fin dall’inizio del XIX secolo, pur con diversa forza, ed hanno due radici. Da un lato gli impulsi intellettuali di cui la pedagogia ha beneficiato in Germania nei secoli XVIII e XIX. Merita ricordare soprattutto l’incidenza dell’opera di Wilhelm von Humboldt sulle università e i ginnasi prussiani e tedeschi, gli influssi della pedagogia di Pestalozzi e di Herbart sulla «scuola popolare» e sulla formazione degli insegnanti della «scuola popolare», come pure l’importanza di Georg Kerschensteiner come pioniere della moderna formazione professionale. Dall’altro, anche gli sviluppi politici all’inizio di questo secolo produssero convergenze che si concretizzarono agli inizi della Repubblica di Weimar e trovarono un’espressione visibile nella legge imperiale sulla scuola di base del 28 aprile 1920. Ma proprio il fatto che ci si fermò a quest’unica legge e che non si riuscì a mettere a frutto le possibilità previste per la legislazione imperiale nella Costituzione di Weimar denuncia nel federalismo la potenza dominante nel sistema scolastico. La «sovranità culturale dei Lander», che ha avuto il suo precipitato nella responsabilità autonoma per tutte le istituzioni educative statali — compreso il controllo giuridico sulle Università —, ha quindi un suo ancoraggio storico; perfino sotto la dittatura totale del Nazionalsocialismo andarono in fumo tutti i tentativi di unificazione, e ciò a causa dei conflitti di competenza in seno alla dirigenza politica. La Repubblica Federale, costruendo fin dal 1945 sulla base degli sviluppi intervenuti nelle zone occidentali di occupazione, si ricollegò alla tradizionale struttura federativa, anzi la consolidò. È vero che una modifica della Costituzione, del 1969, assegnava agli organi federali il potere di emanare leggi-quadro per l’organizzazione del sistema universitario e di collaborare alla programmazione educativa. Ma, anche in questi ambiti, è rimasta ai Lander la competenza per quanto riguarda l’emanazione di leggi di modifica delle norme e della prassi. Il carattere statale del sistema educativo si manifesta essenzialmente nelle competenze dei Lander. Questi collaborano all’interno di diversi comitati fra loro, ad esempio, nella Standige Konferenz der Kultusminister (Conferenza permanente dei Ministri dell’Istruzione dei Lander) e, tutti insieme, col governo federale nella Bund-Lander-Kommission fur Bildungsplanung und Forschungsfòrderung (Commissione Federale dei Lander per la programmazione dell’educazione e la promozione della ricerca). Ma sul piano formale sono rimasti sovrani per quanto concerne l’organizzazione delle strutture scolastiche, dei contenuti educativi e della qualificazione degli insegnanti. Le accennate cooperazioni e soprattutto la coscienza di una «opinione pubblica pedagogica» diffusa in tutti i Lander fanno sì, tuttavia, che anche sotto la «sovranità culturale dei Lander» continuino ad operare i tradizionali legami di un sistema educativo unitario almeno nelle questioni di fondo. Questi sforzi si manifestano anche nelle delibere della Conferenza permanente dei Ministri dell’educazione. Per la storia più recente dell’educazione sono da menzionare soprattutto gli accordi sulla riforma del ciclo superiore del Ginnasio (1972 e 1977) e sul riconoscimento reciproco dei titoli di studio conclusivi della scuola unificata (Gesamtschule) (1982). Ma non si deve neanche dimenticare che la tendenza di questo comitato all’unanimità spesso frena, quando addirittura non ritarda, l’emanazione di delibere. Il sistema duale nella formazione professionale. — Mentre nel corso degli ultimi decenni la scuola di formazione generale ha subito qualche modifica — ovviamente più o meno consistente — per il «sistema duale» della formazione professionale è particolarmente giustificato l’uso del termine «continuità», tanto più che questa affermazione vale, ancor oggi, per entrambi gli Stati tedeschi. In tutti e due i sistemi educativi tedeschi gran parte dei giovani (gruppo di età tra i 15-16 e i 18-19 anni) passano attraverso il «sistema duale». La storia del sistema duale può esser fatta risalire fino all’apprendistato dell’artigiano, che si presenta come un retaggio del sistema formativo medievale. A differenza di altri Paesi dell’Europa occidentale, l’apprendistato, articolato in diversi itinerari formativi, ha conosciuto alla fine del XIX secolo una rinascenza. Si è dimostrato abbastanza aperto da incoraggiare le aziende industriali e da sviluppare forme «moderne». In questo contesto, si deve anche sottolineare che la forma modernizzata del tradizionale itinerario di preparazione dei giovani al lavoro artigianale e industriale fu giustificata dai suoi promotori con la ragione che essa non solo rappresenta un sistema di formazione perfettamente appropriato, ma che è anche uno strumento vantaggioso per collegare la trasmissione del sapere e delle capacità all’educazione morale. Questo modo di vedere si è conservato fino ai nostri giorni. La rinascenza dell’apprendistato conobbe un ulteriore sviluppo (in un certo senso consolidandosi) allorché in Germania furono istituite le scuole di perfezionamento, allo scopo di completare la formazione degli apprendisti sul posto di lavoro con la frequenza a tempo parziale della scuola. Le scuole di perfezionamento divennero così le precorritrici delle successive scuole professionali che si vennero gradualmente formando nei primi decenni di questo secolo. Tra il 1919 e il 1938 queste scuole (come istituti a tempo parziale) furono

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rese obbligatorie fino al 18° anno di età per tutti i ragazzi e le ragazze che non frequentassero alcuna scuola a tempo pieno nell’ambito della scuola secondaria superiore (di formazione generale o di indirizzo professionale). Come la Repubblica Democratica Tedesca, così anche la Repubblica Federale di Germania ha accettato, e ulteriormente sviluppato, questa «eredità» nella forma del «sistema duale» della formazione professionale. Talché è oggi possibile che ragazzi e ragazze siano tenuti a frequentare per uno o due giorni alla settimana una scuola professionale, anche se sono disoccupati o hanno un qualche rapporto di lavoro senza però il titolo di qualifica corrispondente. Tipiche del «sistema duale» sono altre caratteristiche essenziali, come la divisione delle competenze tra le autorità scolastiche dei Lander, che hanno la completa responsabilità per le componenti scolastiche, e gli uffici di collocamento, rappresentati dalle Camere dell’Industria e del Commercio, come pure dalle Camere dell’Economia rurale. Questi organismi non governativi hanno competenza per la formazione pratica (aziendale) nel rispetto delle leggi-quadro vigenti emanate dal parlamento federale. È ovvio che la divisione delle competenze non garantisce il coinvolgimento nel «sistema duale», in quanto tale, di tutti i giovani che non frequentano una scuola a tempo pieno a livello di secondaria superiore. Questo sistema ha invece dimostrato di costituire un forte impulso per le aziende. Queste si impegnano nella formazione degli apprendisti non solo al fine di assicurarsi le nuove leve, ma anche con l’intento di dissuadere lo Stato dall’ingerirsi (andando oltre le leggi-quadro) nella formazione degli apprendisti. Il sistema educativo in Spagna L’obiettivo del presente lavoro è quello di offrire una panoramica generale delle riforme che si stanno realizzando a tutti i livelli del sistema educativo. Approfondiremo poi alcuni aspetti delle innovazioni educative più importanti, concernenti gli alunni, i professori, le istituzioni educative e la società in generale. 1. Il quadro storico La storia dell’educazione in Spagna risente della contraddizione che, dall’inizio dell’età moderna (il 1492 è l’anno della scoperta dell’America ma, anche, della liberazione del Paese dal dominio dei Mori), contrappone un’illustre cultura umanistica e un sistema educativo dall’evidente fragilità, soprattutto a livello di istruzione primaria e secondaria. Tale contraddizione si alimentò, nel XVIII e XIX secolo, al rigido controllo ideologico esercitato dalla Chiesa spagnola. A questa va però riconosciuto il merito di aver assolto al compito dell’istruzione (soprattutto primaria) delle masse, controbilanciando così l’inerzia di una monarchia che, ad eccezione di Carlo III nel XVIII secolo, non seppe arrestare la decadenza militare e politica della Spagna ne combattere una doverosa battaglia per il progresso economico e civile. Furono introdotti elementi di novità, nel sistema educativo spagnolo, solo dopo il 1898, anno dell’infelice conclusione della guerra ispano-americana e della perdita di Cuba a favore degli Stati Uniti. Infatti, il 1898 rappresentò per la Spagna, paradossalmente, l’inizio di una rinascita e il momento del reale ingresso nell’età contemporanea. A tale rinnovamento contribuì un movimento culturale e politico rappresentato dagli intellettuali della «generazione del ‘98». Erano animati da una sincera aspirazione liberal-democratica, tutti tesi al raggiungimento di un obiettivo primario: l’avvento della linda muchacha o nino. bonita ( = la bella ragazza), come era chiamata la Repubblica. Prese cosi avvio un rapido processo di trasformazione dell’economia in direzione capitalistica. Nel 1931, caduta la Monarchia e instaurata la Repubblica, la Spagna conobbe gli orrori di una sanguinosa guerra civile. Nel 1939 ne uscì esausta: vide distrutte le istituzioni repubblicane e conobbe il dominio della dittatura militare. Se ha avuto la sventura di vivere l’esperienza della guerra civile e l’oppressione di una dittatura, la Spagna ha goduto, per contro, del vantaggio di non essere coinvolta che in misura marginale nelle vicende del secondo conflitto mondiale. Durante gli anni ‘40 ha così avuto la possibilità di ricostruire la sua identità storico-culturale e di porre le premesse per la rinascita. Alla morte di Franco (1975) è tornato sul trono, senza traumi significativi, Juan-Carlos dei Borboni-Parma, molto rispettoso della odierna democrazia parlamentare. Oggi la Spagna vive un momento di crescente sviluppo civile ed economico con riflessi positivi sull’innovazione scientifica e tecnologica e sull’intero sistema educativo spagnolo. Nonostante il positivo quadro di riferimento, l’educazione in Spagna deve oggi affrontare problemi delicati. Queste difficoltà sono legate in parte alla contraddizione fra la vecchia legislazione scolastica (che peraltro vantava anche buone leggi, come la Ley general de educación del 1970) e le norme e i principi della nuova Costituzione. Ma esse scaturiscono anche dall’applicazione di una norma costituzionale che riconosce a qualsiasi persona giuridica il diritto di creare «centri di insegnamento» a condizione che, in essi, vengano

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rispettati i requisiti stabiliti dalla Costituzione per quanto concerne i limiti minimi di scolarità obbligatoria. E con ciò, si assicurano una congrua sovvenzione da parte dello Stato. Da qui l’inevitabile conflittualità tra le diverse forze culturali, economiche e politiche della società. Ognuna è animata da un orizzonte diverso, per quanto legittimo,-degli obiettivi prioritari della formazione e dell’istruzione. Si registra inoltre la tendenza degli insegnanti, specie nell’istruzione secondaria, a sottrarsi quanto più possibile a forme di controllo burocratico, in ciò confortati dalla forza di suggestione di un recente movimento studentesco molto agguerrito. Ma aumentano così, inevitabilmente, gli elementi centrifughi e contraddittori del sistema.

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