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Stato e partiti alle origini deila Repubblica nel dibattito storiografico 1. Questo contributo nasce da un doppio ordine di sollecitazioni. La prima solleci- tazione è di natura spiccatamente storiografica. Mi sembra che indirizzi ed acqui- sizioni della recente produzione storica relativa al periodo che va dalla caduta del fascismo alla Costituzione repubblicana abbiano, da un lato, sviluppato e precisato una serie di tematiche già in precedenza affiorate nel dibattito storico- politico, ma abbiano altresì contribuito a porre sul tappeto problemi in certa misura inediti o, per lo meno, affrontati con ottiche e metodi anche notevol- mente diversi rispetto al pur recente passato. Una ricognizione critica, anche se inevitabilmente schematica, di questi relativamente nuovi problemi e metodi, assumendo, per la ragione che dirò, l’angolatura offerta dal rapporto tra partiti e stato, può offrire un utile quadro in cui collocare i nostri presenti e futuri lavori di ricerca. La seconda sollecitazione è invece di natura più direttamente politica e civile. Mi sembra in senso generale che vada affiorando in diversi settori, ma con significativa simultaneità, la convinzione, suffragata da fatti significativi, che la vita e l’organizzazione politiche del nostro paese stiano attraversando una fase di trasformazione rapida e profonda, che investe in prima istanza la fisio- nomia e la collocazione dei partiti nella società e nello stato. Mi servirei, come esempio di siffatte analisi della presente fase, delle parole di un uomo di chiesa, ma da sempre attento osservatore dei movimenti profondi della coscienza pub- blica. Monsignor Clemente Riva, in una prolusione apparsa sull’« Osservatore romano » e ripresa da « Il Regno » ', si chiedeva appunto se non fosse ormai il caso di dare per superata la classica distinzione tra società civile e società politica, per assumerne un’altra più adatta forse ad esprimere la realtà attuale del nostro paese, cioè «la distinzione tra società politica e società partitica». A giudizio di monsignor Riva, a una situazione oggettiva in cui « tutti, individui e gruppi, tendono a far politica », alimentando pertanto una società politica Questo articolo è il testo della relazione presentata al convegno tenuto a Milano nel gennaio 1979, sulla Democrazia cristiana e la Costituente, e di cui sono in corso di pubblicazione gli Atti, presso le Edizioni Cinque Lune, che ringraziamo sentitamente. L’articolo mantiene l’originario ca- rattere discorsivo, senza alcuna modifica, salvo alcuni ritocchi formali, ciò anche per sottolineare la natura ancora provvisoria del testo, che andrebbe largamente approfondito e integrato, special- mente nella parte finale. Inoltre la scarsità del tempo dedicato, durante il convegno, alla discus- sione propriamente storica, ha reso impossibile raccogliere le indispensabili critiche e sollecitazioni che un serrato dibattito contribuisce solitamente a mettere a punto. 1 clemente riva, Chiesa e società in Italia dopo il Concilio, in « Il Regno », 1 dicembre 1978, p. 510.

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Stato e partiti alle origini deila Repubblica nel dibattito storiografico

1. Questo contributo nasce da un doppio ordine di sollecitazioni. La prima solleci­tazione è di natura spiccatamente storiografica. Mi sembra che indirizzi ed acqui­sizioni della recente produzione storica relativa al periodo che va dalla caduta del fascismo alla Costituzione repubblicana abbiano, da un lato, sviluppato e precisato una serie di tematiche già in precedenza affiorate nel dibattito storico­politico, ma abbiano altresì contribuito a porre sul tappeto problemi in certa misura inediti o, per lo meno, affrontati con ottiche e metodi anche notevol­mente diversi rispetto al pur recente passato. Una ricognizione critica, anche se inevitabilmente schematica, di questi relativamente nuovi problemi e metodi, assumendo, per la ragione che dirò, l’angolatura offerta dal rapporto tra partiti e stato, può offrire un utile quadro in cui collocare i nostri presenti e futuri lavori di ricerca.La seconda sollecitazione è invece di natura più direttamente politica e civile. Mi sembra in senso generale che vada affiorando in diversi settori, ma con significativa simultaneità, la convinzione, suffragata da fatti significativi, che la vita e l’organizzazione politiche del nostro paese stiano attraversando una fase di trasformazione rapida e profonda, che investe in prima istanza la fisio­nomia e la collocazione dei partiti nella società e nello stato. Mi servirei, come esempio di siffatte analisi della presente fase, delle parole di un uomo di chiesa, ma da sempre attento osservatore dei movimenti profondi della coscienza pub­blica. Monsignor Clemente Riva, in una prolusione apparsa sull’« Osservatore romano » e ripresa da « Il Regno » ', si chiedeva appunto se non fosse ormai il caso di dare per superata la classica distinzione tra società civile e società politica, per assumerne un’altra più adatta forse ad esprimere la realtà attuale del nostro paese, cioè «la distinzione tra società politica e società partitica». A giudizio di monsignor Riva, a una situazione oggettiva in cui « tutti, individui e gruppi, tendono a far politica », alimentando pertanto una società politica

Questo articolo è il testo della relazione presentata al convegno tenuto a Milano nel gennaio 1979, sulla Democrazia cristiana e la Costituente, e di cui sono in corso di pubblicazione gli Atti, presso le Edizioni Cinque Lune, che ringraziamo sentitamente. L’articolo mantiene l’originario ca­rattere discorsivo, senza alcuna modifica, salvo alcuni ritocchi formali, ciò anche per sottolineare la natura ancora provvisoria del testo, che andrebbe largamente approfondito e integrato, special- mente nella parte finale. Inoltre la scarsità del tempo dedicato, durante il convegno, alla discus­sione propriamente storica, ha reso impossibile raccogliere le indispensabili critiche e sollecitazioni che un serrato dibattito contribuisce solitamente a mettere a punto.1 clemente riva, Chiesa e società in Italia dopo il Concilio, in « Il Regno », 1 dicembre 1978, p. 510.

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estremamente varia e articolata, dovrebbe corrispondere una società partitica formata da quell’insieme di « organizzazioni caratteristiche che si definiscono partiti, quali strumenti che, con i loro programmi e progetti ideali sui bisogni e i problemi emergenti dalla società politica [...] cercano di conquistarsi i con­sensi elettorali dei cittadini». Ciò tuttavia non accade, o non accade a suffi­cienza, perché « i partiti tendono a stare aggrappati alla loro tradizionale volontà interessata di condizionare tutto per non perdere il potere », e perché « ogni partito si presenta con la pretesa apertamente affermata o occultamente coltivata, di coprire tutto lo spazio politico della società, ossia ogni partito tende o pretende d’essere una forza politica totalizzante ».I dati per certi versi inediti che risaltano dalla divaricazione tra società partitica e società politica (se accettiamo i termini usati da monsignor Riva) sono due e intrinsecamente connessi. Il fatto, in primo luogo, che le posizioni critiche verso il nostro « sistema dei partiti » non qualificano più, secondo la tradizione, posizioni politico-ideologiche necessariamente conservatrici o scopertamente di destra, ma come osservava recentemente un sociologo dell’area socialista, Gian­franco Pasquino, interessano oggi diffusamente anche la cultura politica della sinistra. Il secondo fatto è che risulterebbe impropria e largamente insoddisfa­cente una lettura di quella divaricazione nei termini puri e semplici di un ritorno ad un qualunquistico rifugiarsi nel privato, risultando semmai questo sempre possibile esito, la conseguenza di un diffuso bisogno di politica che non trova sbocchi e soddisfazioni dati appunto i connotati di un sistema di partiti rigido e chiuso.A partire da queste e analoghe considerazioni, che in grande misura condivido, mi sono chiesto se fenomeni recenti, di così grande portata e dagli esiti certo diffìcilmente prevedibili, non abbiano in realtà radici più profonde nella nostra storia: se, in altre parole, una considerazione più ravvicinata dei processi storici attraverso i quali si è formato il nostro sistema di partiti, in relazione con la società e con lo stato, non offra qualche lume per capire fin dove i partiti del­l’Italia contemporanea abbiano operato come insostituibile e fondamentale canale di politicizzazione e di promozione democratica e fin dove, invece, abbiano operato come fattori di blocco e di freno.Una ricognizione dei modi in cui la storiografia è venuta riconsiderando gli anni cruciali del passaggio dal fascismo alla democrazia, mostrano che i pro­blemi posti dalla « struttura partitica » come asse portante della nostra vita politica sono sottesi ad una produzione storica sempre più ampia. D’altra parte va anche rilevato come una parte non trascurabile di questa produzione non si sottragga in misura soddisfacente al rischio di proiettare semplicemente il presente sul passato e di perdere pertanto quel senso, che io definirei dialettico, della complessità del reale storico, e quindi delle specificità di ciascuna fase e di ciascun periodo.

2. In termini generali, la più recente storiografia relativa al periodo che stiamo considerando sembra tendere a qualificarsi in due prevalenti direzioni: per una attenzione più acuta e diffusa alla dimensione della storia sociale, e per una opzione prevalente a favore di un inserimento consapevole della fase della nascita della Repubblica in una storia di lungo periodo, abbracciante, in molti casi, l’intero arco della storia unitaria. Altri aspetti di novità si potrebbero delineare; ma questi due, del resto indiscutibili, sono quelli che toccano sicuramente più da vicino la tematica da me prescelta.Queste due linee di orientamento rispondono, al di là dei risultati finora rag-

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giunti, a una duplice esigenza positiva. Colmare da un lato il distacco tra storia politica come storia di élites dirigenti, di vertici, di governi, e storia dei processi reali che investono l’intera società italiana in quei medesimi anni. Riannodare, dall’altro lato, le origini della Repubblica, non solo e non tanto in senso ideale, alla precedente storia unitaria, superando il momento per così dire mitologico (del resto perfettamente legittimo e ideologicamente rilevante a suo tempo) della Resistenza e del periodo immediatamente successivo. Nondimeno queste stesse linee di tendenza storiografica presentano, a loro volta, due rischi non indiffe­renti. Il primo rischio è quello di contrapporre, più o meno coscientemente, la storia sociale (vista essenzialmente come storia di lotte sociali) alla storia politica, dando luogo, nei casi estremi, a una sorta di contrapposizione del sociale (inteso come momento della spontaneità liberatoria) alla politica (intesa come momento della mediazione compromissoria). In tutti i casi l’insistenza troppo marcata ed esclusiva sulla storia sociale può indurre, a mio modo di vedere, a una sottova­lutazione del fatto che se c’è una fase della storia d’Italia in cui il momento politico, del confronto, della lotta, della mediazione politica, assume una dimen­sione assolutamente rilevante e predominante questo è appunto il periodo post­fascista. Non mi riferisco qui tanto al fatto, su cui si è anche troppo insistito in sede politologica, della nascita del cosiddetto « sistema politico » (che è semmai una conseguenza e un prodotto), ma più complessivamente alla consa­pevolezza diffusa, e maturata proprio nell’antifascismo, che la prima fondamen­tale risposta al fascismo e il suo superamento non potevano non porsi in termini complessivamente politici, cioè di organizzazione e di distribuzione del potere. Né si può trascurare che la collocazione dell’Italia nel quadro delle alleanze internazionali e i destini stessi del paese nel dopoguerra, così come la ripresa tumultuosa e feconda del dibattito ideologico, le attese e le speranze di riscatto e talora di palingenesi nazionale e mondiale sollecitavano sotto ogni punto di vista altrettante risposte politiche, cioè generali, di strategia e di sintesi. Il fatto che i principali leaders dell’epoca ponessero la politica al primo posto e che alcune poche fondamentali opzioni politiche di quel periodo abbiano condizionato come non mai in precedenza, tranne forse il momento dell’unificazione, i destini futuri di un popolo intero, non fu certo casuale, né una pura scelta personale; bensì la conseguenza del fatto che in quegli anni si trattò appunto di compiere decisive scelte generali, entro ben determinate alternative e vincoli esterni e interni. Semmai ci si potrà chiedere (ma questo è il discorso che affronterò più avanti) se i modi di quella rinascita politica, anzi di quella rinascita della politica, fossero adeguati alle attese o semplicemente fossero in larga misura obbligati.Quanto alla ricerca dei nessi profondi colleganti la fase della rinascita democra­tica alla precedente storia d’Italia, questa ricerca, se condotta secondo moduli troppo rigidi di storia strutturale e di lungo periodo, può finire per privilegiare costantemente i fattori della permanenza su quelli della variazione e perdere di vista, a favore del continuum, l’emergere del nuovo. Fino a produrre, nei casi estremi, effetti quasi paradossali sul piano dell’interpretazione storica, com’è quello del rovesciamento dell’interpretazione parentetica del fascismo in una interpretazione sostanzialmente parentetica della Resistenza, per cui questa e non quello avrebbe rappresentato una rottura, rapidamente ricomposta e riassor­bita, di un uniforme fluire storico pressoché secolare.Resta vero, comunque, e a parte altri generi di difficoltà, che una matura ricon­siderazione storica degli anni ’43-’48 (per la quale ci sono ormai tutte le con­dizioni, e di cui non mancano i segni rilevanti) non può prescindere, mi pare, dal tener ferma, in linea generale, questa dialettica stringente tra fattori im­portanti di permanenza ed elementi di innovazione, così come non può non

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dare il giusto peso ad un obiettivo «primato della politica», che si sostanzia tuttavia e raccoglie e interpreta un’emergenza sociale a sua volta eccezionalmente dinamica. Ciò, del resto, può apparire ovvio ove si parta dal presupposto, che non sembra storiograficamente contestato, che la Resistenza e la liberazione non hanno costituito, né potevano costituire, una fase in senso pieno rivoluzio­naria, pur se pervasa e alimentata di attese anche rivoluzionarie.

3. Volendo individuare il problema su cui si sono focalizzati in misura netta­mente predominante gli studi recenti relativi aH’immediato dopoguerra sembra d’obbligo indicare quello della « continuità ». Esso è sorto come problema poli­tico-istituzionale ancor prima di divenire oggetto d’indagine storica, riassumendo in sé Finsieme delle questioni riguardanti le correlazioni tra l’Italia liberale, l’Italia fascista e l’Italia repubblicana. Ma è anche facile notare come il problema della continuità abbia dato luogo, sul piano storiografico, a molteplici varianti. Tali varianti sono, mi sembra, riconducibili, alla possibilità di risposte diversificate a due ordini di interrogativi: continuità di che cosa? e: continuità rispetto a che cosa?Per il primo ordine di interrogativi è possibile indicare una tendenza alla progressiva estensione del concetto di continuità. Dalla continuità puramente « legale » si è passati via via a mettere in luce la continuità dello stato come apparato burocratico e amministrativo, la continuità dell’ordinamento legislativo fino ad investire, più di recente, anche la continuità del cosiddetto sistema politico. Federico Chabod già nelle sue classiche lezioni sull’Italia contemporanea aveva messo l’accento sulla «forza enorme costituita [...] dalla burocrazia, dalla struttura amministrativa dello stato. È una forza meno appariscente dei partiti, ma che possiede una continuità, e può quindi esercitare col tempo un influsso forse superiore a quello dei partiti. Ora, la burocrazia è naturalmente conser­vatrice: la sua forza risiede nella continuità delle funzioni, non certo nel sovver­timento » 2. Chabod dava quindi della continuità burocratica un’interpretazione quasi fatalistica, inerente alla natura stessa dello «stato moderno». All’altro capo della parabola storiografica su un analogo tema, saltando tutta una serie di importanti fasi intermedie, troviamo per esempio gli acuti e stimolanti con­tributi di Claudio Pavone3, il quale non solo interpreta il problema dell’assetto burocratico-amministrativo in stretta correlazione con il problema dell’assetto generale del sistema di potere e dei rapporti di classe, ma non esita ad affermare che tra le varie ipotesi in campo, finì per prevalere, per le stesse ragioni della prevalenza della continuità, quella della « restaurazione del sistema politico » già battuto dal fascismo. A questa interpretazione si affianca, per esempio, giun­gendo a corroborarla, quella di Giampiero Carocci il quale, nella sua recente Storia d’Italia, giunge appunto a chiedersi se tra i principali fattori di continuità non siano da individuare proprio i partiti così come si sono venuti configurando e organizzando all’indomani del fascismo4.Ora, tra i vari punti sui quali il dibattito storiografico è ancora largamente aperto (o tende a riaprirsi), il punto centrale e più largamente condizionante mi pare essere proprio questo: il giudizio, cioè, sulla portata innovativa, rispetto alla situazione prefascista e fascista, dell’affermazione dei partiti di massa come

2 Federico chabod, L ’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi, 1961, 2 ed., pp. 141-142.3 Claudio pavone, La continuità dello stato. Istituzioni e uomini, in aa.vv., Italia 1945-48, Torino, Giappichelli, 1974, pp. 139 sgg.4 Giampiero carocci, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 322.

asse portante del sistema politico, e, più in generale, il giudizio sulla portata dei rapporti nuovi tra partiti e stato.Se infatti proviamo a percorrere la storiografia relativa al passaggio dal fascismo alla democrazia mettendo in correlazione i problemi relativi all’organizzazione dello stato con quelli relativi alla strutturazione del sistema dei partiti (senza isolare, come spesso accade, gli uni dagli altri) è possibile individuare una prima grande discriminante tra coloro che scorgono nella sostanziale continuità dello stato, come apparato come ordinamento e come prassi amministrativa, il dato strutturalmente più rilevante della storia dell’Italia unita, vedendo in esso l’espres­sione istituzionale dei reali rapporti di potere esistenti nella società; e coloro invece che, senza sottovalutare gli aspetti di freno e di inerzia esercitati da questa continuità, individuano nel nuovo ruolo dei partiti l’elemento più radi­calmente innovatore che avrebbe permesso non solo il passaggio per così dire formale dal fascismo alla democrazia, ma anche il superamento complessivo del sistema liberale.A ben vedere ci troviamo qui in presenza, a parte ogni altra differenza, di due diversi modi di guardare allo svolgimento della storia dell’Italia unita, modi le cui prime matrici sono facilmente ravvisabili nel dibattito ideologico-politico dell’antifascismo e della Resistenza. Schematizzando al massimo, possiamo de­finire il primo modo come contrassegnato dall’accentuazione del primato della trasformazione dello stato come sistema istituzionale e di amministrazione, indivi­duando il problema cruciale della democrazia italiana nell’attivazione di strumenti di autogoverno e di autonomia.Il secondo modo individua invece il problema originario della democrazia italiana nell’aggregazione di larghi strati sociali, da sottrarre all’anonimato e alla pas­sività, intorno a progetti politici determinanti, considerando ciò come il momento preliminare rispetto a qualsiasi mutamento istituzionale e amministrativo.Se poi guardiamo più a fondo, non sarà difficile ricollegare questa decisiva discriminante storiografica a una sostanziale differenziazione di giudizio sul fa­scismo da un lato e sulla portata e la natura della Resistenza dall’altro lato. Il porre l’abbattimento e la rifondazione dello stato come primum della rinascita democratica si salda infatti alla spiegazione del fascismo come conseguenza del carattere autoritario, centralistico e oligarchico dello stato, cioè alla valutazione del fascismo come prolungamento e conclusione di un processo storico che ren­deva lo stato pienamente permeabile e per così dire predisposto alla dittatura reazionaria. Diversa ottica, almeno in termini di priorità, comporta invece la visione del fascismo come regime reazionario di massa, che impone come primum, nella considerazione storica e politica, la riattivazione di canali e strumenti di aggregazione sociale e politica.Allo stesso modo, un conto è guardare alla Resistenza come al momento in cui la crisi dello stato e della società fino allora « dominati dalle forze conser­vatrici e moderate » offriva l’occasione unica di una loro ricostruzione ab imis fundamentis, a partire, come ha scritto Guido Quazza, da una spontaneità anti­fascista di base, diversa e distinta dall’antifascismo politico; e un altro conto guardare alla Resistenza secondo l’ottica dell’unità nazionale da riconquistare daccapo, di un tessuto politico-sociale da ricostruire, e secondo l’angolatura della direzione politica da assicurare come condizione preliminare, nel quadro dei con­dizionamenti esterni e dei problemi secolari della società italiana5.

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5 guido quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 127.

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Ma l’una o l’altra visione della storia italiana implicano, a loro volta, scansioni e periodizzazioni diversificate, vale a dire risposte diverse alla seconda domanda che avevo posta: continuità rispetto a che cosa? Il che, aggiungerei, contiene però anche una diversa valutazione del concetto stesso di continuità.Infatti se la continuità è intesa come permanenza di strutture, leggi e prassi statali che riflettono, al di là dei mutamenti costituzionali e di sistema politico, gli immutati rapporti di potere (e di classe) presenti nella società italiana e che in definitiva rendono vani o superficiali o comunque insufficienti tutti i muta­menti per così dire sovrastrutturali, allora non sarà possibile non attribuire al termine una valenza totalmente negativa e risalire, nella individuazione dei fattori portanti di tale continuità, fino almeno alle scaturigini dell’organizzazione dello stato unitario; rilevando semmai come i pur cospicui mutamenti di struttura economico-sociale siano stati costantemente riassorbiti e ammortizzati a livello dell’apparato statale, senza aver dato luogo a processi di reale re distribuzione del potere politico reale. Casi classici: le riforme amministrative di Crispi, la creazione dello stato burocratico giolittiano, lo sviluppo del parastato e degli enti economici in epoca fascista. In sostanza, secondo questo schema, la risposta dei ceti dominanti alle spinte verso la democrazia effettiva è avvenuta in pre­valenza attraverso un allargamento delle funzioni e delle prerogative dello stato, la cui direzione classista non è mai stata messa veramente in discussione.Per altro verso, se il tema della continuità è guardato attraverso il filtro di un rapporto più mosso e dinamico tra lo stato-apparato, il sistema costituzionale e, soprattutto, il sistema politico, allora occorrerà adottare scansioni diversificate, e parlare semmai di una continuità tra l’apparato dello stato fascista e l’apparato di quello repubblicano, ma di un’altra e diversa continuità tra il sistema politico e partitico dell’immediato primo dopoguerra e quello del secondo dopoguerra. Ma in questo secondo caso il concetto di continuità assume anche una valenza positiva, perché indica la continuità o la riacquisizione delle condizioni in cui è venuta ad operare una libera competizione politica.

4. A mio parere l’accentuazione, sul piano storiografico, del tema della con­tinuità dello stato, così come quella che insiste sulla novità del sistema politico fondato sui grandi partiti di massa possono risultare feconde di risultati non solo e non tanto perché ciascuna illumina una parte rilevante della realtà, met­tendo in luce i limiti dell’altra (cioè una tendenziale sottovalutazione della sfera di autonomia dello stato-apparato, per un verso; e una tendenziale sotto­valutazione della incidenza istituzionale del sistema politico-partitico per l’altro verso); ma perché aprono, se messe a confronto, un problema storico di grande rilevanza e che riguarda le alternative reali e i processi tortuosi e contraddittori attraverso cui si è posto in Italia il problema dell’adeguamento dello stato al sistema politico; che riguarda, in altre parole, i termini in cui si è posto e si pone nella specifica situazione italiana, il problema della trasformazione dello stato borghese, fondato su collegamenti complessi e privilegiati tra ceto di go­verno e ceto burocratico, e progressivamente sottratto al controllo delle rappre­sentanze, in uno stato con connotati reali di partecipazione e di democrazia.Ora, se c’è un dato che, qualunque giudizio se ne voglia dare, appare come un effet­tivo elemento di novità rispetto a tutta la precedente storia italiana ed emergente alla caduta del fascismo, questo sembra essere non tanto la « nascita » dei moderni partiti di massa, che in certa misura già erano esistiti prima del fascismo, quanto il loro modo nuovo di rapportarsi nei riguardi dello Stato. In altre parole, quello che si svolge in forma accelerata alla caduta del fascismo è, con diverse modalità, un mutamento degli obiettivi e dei mezzi di legittimazione delle grandi forze politiche

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rappresentative di vastissimi settori e ceti della società italiana rimasti ai margini dello Stato liberale o passivamente e corporativamente aggregati nel sistema fascista. Tale mutamento assumeva però come punto di riferimento quello Stato liberal-nazionale, a base parlamentare, che veniva nella sostanza recuperato e riconosciuto come l’al­veo di una storia comune nel quale occorreva, in primo luogo, immettersi. Ciò com­portava una difficile opera di mediazione, sul piano ideologico ancor prima che poli­tico, da parte di quei partiti ch’erano nati con una matrice spiccatamente anti-liberale e che, quantunque potessero con ragione presentarsi come parte decisiva della sto­ria della società italiana, non potevano fino allora vantare una pari legittimità a livello dello stato, dal quale erano rimasti tradizionalmente esclusi. Ragione, questa, di forza e di debolezza: di forza perché costituente garanzia di novità almeno come classe politica dopo la lacerazione del fascismo; di debolezza perché comportante, sia sul piano interno sia su quello internazionale, appunto un problema preliminare di legittimazione. Ragione, inoltre, fondamentale di quella « doppiezza i» che, se­condo quanto ha messo giustamente in luce Ernesto Ragionieri, contraddistingue in varia misura i comportamenti di tutti i partiti di massa in questo periodo6. Ragione, infine, del fatto apparentemente paradossale che in direzione della salvaguardia di una certa continuità dello stato operano (sia pure in forme e con intensità diverse) proprio quei partiti, come la De e il Pei, per i quali i problemi di una legittimazione in rapporto alla storia dello stato liberal-nazionale si ponevano in termini più gravi e difficili che per altri.In definitiva, secondo questa mia interpretazione, che non intende assolutamente sottovalutare gli altri numerosi motivi e le diverse responsabilità, richiamati dalla storiografia, riguardanti la mancata trasformazione dello stato, va posta in piena luce l’acquisizione da parte dei partiti popolari, e soprattutto della De e del Pei, del convincimento che solo riguadagnando l’alveo storico dello stato liberal-nazionale, era per essi possibile legittimarsi alla direzione del paese, entrare per così dire nello stato e diventare, anche per questo motivo, partiti di massa. Questo processo aveva indubbiamente un prezzo, specialmente gravoso per i partiti e per i gruppi della sinistra, pagato sotto la forma della politica dei due tempi (prima le modifiche istituzionali e la costituzione; poi, forse, la riforma dello stato) e di fatto attivava (qui sono d’accordo con Carocci) nuovi canali di continuità dello stato.

5. Ma lasciando da parte queste valutazioni forse troppo generali, mi par utile dire qualche parola su come la storiografia recente ha, più in concreto e con più spiccate differenziazioni interne, guardato a questo nodo cruciale, tutto in sostanza racchiuso in meno di un quinquennio di storia, rappresentato dall’intreccio tra la rico­struzione dello stato e il costituirsi del sistema politico fondato sui partiti di massa. Uno dei temi più affascinanti della nostra storia nazionale, su cui infatti i contributi di ricerca sono ormai fitti e per buona parte di alto livello, è appunto l’individua­zione dei processi storici attraverso cui uno stato in sfacelo, con il proprio terri­torio occupato da eserciti stranieri, e i partiti antifascisti rimasti, com’è stato scritto da Giorgio Galli, per vent’anni «fuori della società», si sono potuti rico­stituire in così breve tempo come strutture portanti della vita nazionale7. Lo scio­glimento di questo nodo storico presuppone probabilmente una risposta differen­ziata e articolata a tre altre questioni preliminari: il punto reale di disfacimento dell’apparato statale e i tempi della sua ricostituzione con l’ausilio del governo militare alleato (tema questo su cui abbiamo oggi buoni contributi, per esempio

6 ehnesto ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, voi. Einaudi, 1976, p. 2415 sgg.7 GIORGIO galli, I partiti politici, Torino, 1974, p. 270.

IV t. 3, Torino,

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quello di Nicola Gallerano e quello di David W. Ellwood8); le alternative reali e la portata delle sperimentazioni di nuove forme di stato messe in atto al Nord durante la Resistenza (su cui, tra i molti studi, vorrei ricordare in particolare quelli di Massimo Legnani9); e infine, questione dalle molteplici implicazioni, se si possa parlare dei partiti che si affermano durante la Resistenza e che assumono il po­tere dopo la liberazione ricollegandoli tout-court ai partiti prefascisti.In termini complessivi mi sembra che una parte della storiografia tenda a sotto­valutare le analogie tra il processo di riunificazione nazionale e di ricostituzione dello stato di cui ci stiamo occupando e il processo di formazione dello stato uni­tario; sottovalutando, di conseguenza, anche la consistenza storica di un’alterna­tiva per così dire monarchico-badogliana e di una sorta di « riconquista regia » delle regioni occupate dai tedeschi. Sia i condizionamenti internazionali, conse­guenti in particolare aH’armistizio e al riconoscimento della legalità del go­verno del sud, sia il peso di una tradizione storica e di interessi consolidati di varia natura, sia gli orientamenti prevalenti in settori importanti della chiesa, mi pare potessero dare credibilità e forza a una riunificazione che procedesse in senso geo­graficamente contrario ma con modalità molto analoghe, rispetto alla unificazione nazionale, dove la spinta democratica impressa al nord dalla Resistenza sarebbe stata totalmente riassorbita com’era accaduto per la spinta democratica impressa nel 1860 al sud dall’impresa garibaldina. C’è chi, non senza qualche valido argomento, so­stiene che è esattamente ciò che accadde. A me sembra, tuttavia, che se è vero che l’unificazione nazionale ottocentesca avvenne sotto la forma di un compromesso tra forze democratiche e forze conservatrici, così come il passaggio dal fascismo alla repubblica avvenne sotto la forma di un altro compromesso tra il governo del sud e i partiti del Cln, gli esiti di questo secondo compromesso risultarono ben più avanzati e innovatori di quel primo compromesso storico italiano, per lo meno in termini di direzione politica, oltre che in quelli di ordinamento costituzio­nale. Vorrei dire, per usare una formula, che tra il primo e il secondo compromesso stava tutta la differenza esistente, e già acutamente segnalata da Curiel nel 1944, tra la Società nazionale del 1857 e i C ln10. Certo è, comunque, che di un compro­messo si tratta anche nel secondo caso, alla cui base c’è, come ho già detto, la volontà esplicita delle dirigenze di almeno due dei maggiori partiti di collocarsi nell’alveo storico dello stato nazionale, assicurandone in qualche misura la continuazione e pagando a tale continuazione anche vistosi pedaggi.In realtà, per valutare correttamente il livello del compromesso raggiunto con lo stato monarchico, che senza dubbio condizionò fortemente e direi strutturalmente le successive vicende politico-istituzionali, non esclusa la stessa costituzione, occorre valutare in sé le alternative reali e i prodotti effettivi a livello statuale della Resi­stenza, prima ancora di chiedersi perché quelle alternative sono rimaste in gran misura soccombenti.

! Nicola gallerano, L ’influenza dell’amministrazione militare alleata nella riorganizzazione dello stato italiano, in « Italia contemporanea », 1974, n. 115, pp. 4-23; David w . ellwood, La politica angloamericana verso l’Italia: 1945, l’anno del trapasso dei poteri, in A A .v v ., L ’Italia dalla liberazione alla Repubblica, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 119 sgg; idem , L ’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia. 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1977.9 massimo legnani, gaetano grassi, Il governo dei Cln, in « Italia contemporanea », 1974, n. 115, pp. 43-52 (poi in aa.vv., Regioni e stato dalla Resistenza alla Costituzione, a cura di Massimo Legnani, Bologna, Il mulino, 1975, pp. 69-86).10 Per la citazione di Eugenio Curiel cfr. ernesto ragionieri, Il Partilo comunista, in leo valiani, Giovanni bianchi, ernesto ragionieri, Azionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Milano, Angeli, 1971, p. 370.

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A questo proposito c’è una tesi, che non esito a definire affascinante e che mi sem­bra sia stata portata al suo massimo livello di consapevolezza storiografica da Guido Quazza, secondo cui proprio lo sfacelo dello stato e, in certo modo, la quasi inesi­stenza dei partiti, almeno come forze organizzate e capaci di presa sulla realtà sociale, aprivano una situazione ideale per l’instaurazione di un sistema politico e, infine, di uno stato capaci di esaltare al massimo le funzioni dell’autogoverno e, implicitamente, di far sì che i partiti, pur necessari, assumessero tutt’altri connotati da quelli poi assunti. Questa tesi, che credo debba essere seriamente discussa, riprende e corregge in qualche misura l’opinione di chi, come per esempio Ca­lamandrei, riteneva doversi tener ben distinta la « fase rivoluzionaria dell’instau­razione della democrazia11», nella quale tutto il potere non poteva non essere tenuto saldamente nelle mani di un governo provvisorio rivoluzionario di Cln, dalla fase successiva della Costituente, quando ci sarebbe stata la partecipa­zione di tutti i cittadini e di tutti i partiti alla vita democratica. In realtà, a differenza della storiografia di prevalente matrice azionista che ha tendenzial­mente contrapposto i Cln, come organismi unitari e di base, nucleo primigenio del futuro stato democratico, ai singoli partiti che in essi confluivano, la tesi di Quazza tende a spostare ancora più a monte il problema della proposta inno­vativa resistenziale, rifacendosi appunto ad un modello di « autonomia delle masse » come all’elemento più originale della Resistenza e, in certo modo, alla banda partigiana come «modello di democrazia diretta». Ma proprio Quazza, proseguendo l’analisi storica con passione ideale ma con grande onestà intel­lettuale, riconosce la scarsa capacità della banda armata di diventare modello di democrazia di base per l’intero paese, la relativa debolezza delle esperienze di autogoverno locale compiute dalla Resistenza, e soprattutto l’incapacità da parte dei Cln di risolvere in modo univoco e soddisfacente il problema cruciale del loro rapporto con le masse. Si veda in proposito l’analisi del famoso dibattito delle «cinque lettere» della fine del 1944, che è e resta, a mio parere, il docu­mento più esplicito delle differenti progettualità politico-istituzionali dei partiti antifascisti, divisi per l’appunto dal modo di concepire il rapporto tra partiti, masse e classi sociali. È dunque, a parere di Quazza, nella mancata o insuffi­ciente soluzione del problema delle basi di massa dei Cln che va ricercata la ragione profonda « della preponderanza presso che esclusiva del vertice anche all’interno della Resistenza e [di] un potere giacobino nel senso di potere che scende dall’alto di una minoranza organizzata secondo la più classica tradizione del Novantatré, come del resto piace a molti azionisti e a Nenni, il quale espli­citamente a quella si riferisce12». Dove Quazza raggiunge poi più esplicitamente le analisi azioniste sul mancato successo dell’alternativa di sistema politico rap­presentata dal Cln è nell’addossare in modo preponderante al prevalere della logica di partito, segnatamente nel Pei, la responsabilità della progressiva vani­ficazione della proposta ciellenistica e del successo della linea del compromesso con il vecchio stato e con le forze conservatrici.Ora, su un punto centrale, trascurando ogni altro motivo di dibattito, vorrei dire che Quazza abbia ragione; ed è là dove individua nel primato della guida e della direzione politica su quello della spontaneità e dell’autogoverno reale il fattore emergente nella stessa esperienza resistenziale, ma non solo, mi pare, nella politica togliattiana, sibbene anche in quella ciellenistica. Il giocobinismo implicito in una utilizzazione dei Cln come cellule del futuro stato, superando

11 Per la citazione di Piero Calamandrei cfr. franco catalano, I partiti: ideologie, strutture, militanti, in Italia 1943-48, cit. p. 319.12 G. quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., pp. 241, 287 e passim.

12 Francesco Traniello

in certa misura la loro origine di coalizioni interpartitiche, non era a propria volta un modo per affermare questo primato della direzione politica, in una situazione di disgregazione sociale e di guerra guerreggiata? Ciò posto, occorrerà, io credo, ammettere, che tra le strategie di tipo, per così dire, « giocobino » e quelle incentrate invece sul rilancio dei partiti di massa e sulle alleanze tra essi, non era tanto implicita una differente « qualità democratica » in ordine all’alternativa tra direzione di vertice e autogoverno di base, quanto invece una diversa metodologia e un diverso ordine di priorità, dettate oltre che da motivi ideologici, da una differente valutazione dei connotati strutturali della società italiana e ancor più della congiuntura storica del momento. Intendo insomma dire che tutte le forze antifasciste erano consapevoli che il porro unum di quella fase storica era costituito dalla attivazione di fattori di coagulo sociale, di punti di riferimento istituzionali e di momenti di orientamento e di guida politica e ideale. La differenza principale, ma con molte sfumature intermedie, passava tra chi individuava negli organismi del Cln, considerati alla stregua di comitati rivoluzionari e cellule di un futuro stato, lo strumento privilegiato di siffatta aggregazione, e chi invece assegnava in prevalenza questo compito ai partiti, attribuendo alla loro coalizione essenzialmente la funzione della mediazione e della guida politica. In ogni caso, se ha qualche verità la tesi dello sbocco gia­cobino implicito nella trasformazione dei Cln in organismi cellulari del nuovo stato, con carattere superpartitico o extrapartitico, non mi pare abbia un forte supporto storico la tesi, che talvolta ne viene dedotta, che da essi sarebbe derivato un sistema politico con assai più ampi margini di autonomia e di autogo­verno; essi sarebbero semplicemente divenuti dei consigli rivoluzionari, con un potere altamente concentrato e necessariamente dotati di un alto grado di omogeneità ideologica e di forza repressiva. Diverso naturalmente il discorso se ci si rife­risce agli effettivi programmi e ai parziali atti di riforme strutturali compiuti dai Cln rispettosi del pluralismo politico-ideologico, e quindi della varietà dei partiti, e se ci si interroga sulle ragioni storiche del loro progressivo affossamento e vanificazione nel periodo immediatamente successivo alla liberazione. Ciò che, comunque, intendo dire è che risulta intrinsecamente contraddittoria ogni ipotesi storiografica che si rifaccia ad un modello ciellenistico di tipo giacobino come motore di una rivoluzione democratica e istituzionale, pretendendo che ne sa­rebbero stati garantiti tutti i vantaggi di uno stato pluralistico e autonomistico, fondato sulla varietà di partiti liberamente concorrenti.

6. Mi pare interessante rilevare come la diversa ottica con cui la storiografia ha guardato agli esiti della spinta democratica resistenziale e al suo affievolimento o rovesciamento venga individuata da una spia significativa, costituita dalla scelta diversa del momento di svolta. Per molto tempo la discussione si è sostanzial­mente incentrata su due ipotesi prevalenti: la prima individuante tale punto di svolta nella caduta del governo Parri, la seconda tendente a collocarla nell’espul­sione delle sinistre dal governo. Più di recente, però, sono state portate in di­scussione altre due ipotesi. Secondo la prima il segno politico determinante, e tale da condizionare tutto il successivo processo storico, del riaffiorare del vecchio stato e del progressivo prevalere di un compromesso conservatore sarebbe da spostare molto più indietro, rispetto alla crisi del governo Parri; cioè nel cuore stesso della lotta di liberazione e precisamente nelle vicende relative alla formazione del secondo governo Bonomi. Secondo l’altra nuova linea interpre­tativa, presentata con particolare vigore da Pietro Scoppola, non solo la caduta di Parri non può essere valutata sotto il segno dell’arretramento politico com­plessivo. ma la stessa svolta del 1947 andrebbe in parte ridimensionata, consi-

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derando che essa è avvenuta preservando intatto il quadro istituzionale e la proficua continuazione dei lavori della CostituenteI3.Ho accennato a questi problemi di periodizzazione perché essi suggeriscono due tipi di considerazioni. In primo luogo si deve, a mio avviso, riconoscere che il prevalere della linea incentrata sull’azione dei partiti antifascisti come guida politica del movimento di liberazione è avvenuto in concomitanza con il preva­lere della linea del compromesso con il vecchio stato, del quale compromesso anche i governi di Bonomi risultavano espressione. In secondo luogo si dovrà correttamente scandire la storia di quegli anni riconoscendo che i punti di svolta furono due: il primo, come ho già detto, che inseriva i partiti nella guida politica del paese innestandoli come rami nuovi nel vecchio tronco dello stato; il se­condo, che sanciva la nascita di un sistema politico fondato sui partiti di massa, vanificando definitivamente le ipotesi di un passaggio dal vecchio al nuovo stato attraverso una fase di radicali riforme strutturali. Accettando questo schema, si può dire che il dibattito storiografico si è venuto organizzando e incentrando su due principali assi, il primo riguardante il giudizio sull’esistenza di un’alter­nativa alla via del compromesso con il vecchio stato, il secondo riguardante i contenuti politici di questa via, data in certo modo per obbligata.Non è dunque un caso se tutta una parte cospicua della produzione storiografica recente è dedicata all’analisi dell’impianto dei partiti nella società e alla loro configurazione ideologica e organizzativa, facendo di questo problema il fulcro e la nota più significativa della fase immediatamente successiva alla liberazione, fino alla recente affermazione di Ragionieri, secondo il quale « i partiti politici rappresentavano l’unica forma di associazione veramente autonoma delle classi sociali», sicché «rimpianto dei partiti politici sull’intero territorio nazionale era un dato che, forse assai più profondamente del governo Parri, caratterizzò i mesi immediatamente successivi alla liberazione del nord14». In questo quadro di generale rilancio dell’interesse per la storia dei partiti, affrontata con strumenti di analisi molto più raffinati che in precedenza, è stata acquisita una prima comune convinzione relativa alle profonde modifiche avvenute al loro interno in breve periodo. Possiamo senz’altro partire dall’affermazione di Giorgio Amen­dola che « tutti i partiti del Cln si vennero profondamente trasformando nelcorso degli anni 1943-46 15 »; ma il discorso si può e si deve a maggior ragioneallargare ove si assumano come termine di confronto i connotati dei partiti antecedenti alla dittatura fascista. Già più di vent’anni fa Gabriele De Rosaaveva posto la questione sottolineando « le differenze e gli aspetti nuovi dellafisionomia dei partiti di massa che sortirono dalla Resistenza, nei confronti dei grandi partiti democratici che operarono nel periodo giolittiano16 »; tesi che riceve di giorno in giorno convincenti verifiche, talora in contrasto con la pur legittima volontà, da parte di storici più legati alla militanza partitica, di mettere in rilievo, ricollegandole al passato, le originarie radici storiche di questa o quella formazione politica.Un elemento che, tuttavia, mi pare ancora insufficientemente valutato come fattore di mutamento nei partiti post-fascisti rispetto a quelli pre-fascisti è proprio

13 Pietro scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 161 sgg.14 E. ragionieri, La storia politica e sociale, cit., p. 2411.13 Giorgio amendola, Riflessioni su una esperienza di governo del Pei (1943-1947), in « Storia contemporanea », 1974, p. 712.16 Gabriele de rosa, I partiti politici dopo la Resistenza, in aa.vv., Dieci anni dopo. 1945-1955, Bari, Laterza, 1955, p. 119.

14 Francesco Tranielio

l’incidenza dell’esperienza fascista sul successivo assetto partitico. Non, si badi, perché non siano state largamente esplorate le mutazioni sul piano ideologico e di strategia politica prodotte dal confronto e dalla lotta comune contro il fasci­smo; ma semmai per la ragione inversa, cioè perché si è dato spesso per scontato che i partiti antifascisti fossero e non potessero non essere totalmente altro rispetto al fascismo, sottovalutando il fatto che la vita di un organismo com­plesso come un partito e la sua collocazione nella società non sono totalmente riducibili all’ideologia che lo alimenta né alla politica che persegue. Ora sembra difficile ammettere che l’esperienza ventennale di partito unico a carattere tota­litario non lasciasse tracce più o meno nascoste e rilevanti nella successiva strut­tura partitica. Ma a parte questo problema, che pur meriterebbe qualche più sistematica indagine, il punto sul quale vorrei avanzare ancora qualche consi­derazione conclusiva riguarda il nodo decisivo del processo di mutazione dei partiti di massa indotto dal loro modo nuovo di rapportarsi allo stato.

Il problema appare particolarmente significativo per il Partito di azione, per il Partito comunista e per la Democrazia cristiana.Tra le interpretazioni che sono state date della brusca conclusione della parabola del Partito d’azione, la più persuasiva è certamente quella che attribuisce il suo rapido declino alla rapida vanificazione dell’ipotesi di una costruzione della democrazia a partire da una rifondazione dello stato piuttosto che dal sistema politico-partitico. In questo senso la vicenda del partito d’azione diventa emble­matica della sconfitta di un’alternativa sostanzialmente presente nella tradizione storica della democrazia laica italiana e che già dall’epoca risorgimentale si era espressa nelle due formule politiche faticosamente conviventi nel Partito d’azione: il governo provvisorio rivoluzionario di tipo giacobino e la repubblica presiden­ziale con un elevato grado di autonomie di tipo quasi federale. Va aggiunto, peraltro, che la scomparsa del Partito d’azione portava con sé il prezzo di un effettivo depauperamento, per l’intero sistema politico-istituzionale, di un fonda- mentale stimolo critico e di una forza esprimente esigenze ed indirizzi storici di grande momento, la cui sostanziale assenza ebbe, io credo, riflessi negativi anche nel processo di elaborazione costituzionale.Per ciò che riguarda la De e il Pei non mi pare del tutto persuasiva la tesi, frequentemente ripetuta, che insiste sulla loro pretesa carenza di una dottrina dello stato per dedurre una comune mancanza di senso dello stato. Non direi cioè che sia corretto porre la questione in termini prevalentemente dottrinali, che pure contano. Vale piuttosto la pena di notare come siano proprio Togliatti e De Gasperi, non demiurgi solitari ma interpreti di una specifica realtà storica, che a partire dalla caduta del fascismo propongono ai propri rispettivi partiti il problema del loro rapportarsi alle strutture e alla tradizione dello stato liberal- nazionale come momento preliminare della costruzione di una democrazia par­lamentare pluripartitica. Tale operazione risultava, peraltro, particolarmente ardua dato lo scarto costante tra ipotesi politiche e ideologie, o, meglio, tra prassi e cultura sia del mondo comunista sia del mondo cattolico.Se, come ormai ammette concordemente anche la storiografia d’ispirazione co­munista, esisteva una obiettiva discrasia tra la strategia del partito nuovo e della democrazia progressiva da un lato, e le permanenze leninistiche e staliniane del Pei dall’altro, un certo stacco va anche riconosciuto tra l’ispirazione democratica del personale dirigente della De e le idee largamente diffuse in una parte cospicua della base cattolica e dei vertici ecclesiastici. Se vogliamo, l’impasse più difficile che il Pei di Togliatti e la De di De Gasperi si trovavano di fronte in varia misura, consisteva nel fatto che i rispettivi « mondi » cui facevano riferimento

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tendevano a identificare se stessi non con una parte della società, ma con una intera società o con un modello di società e di stato.Possiamo per questo riconoscere che il momento dell’accordo e della elabora­zione costituzionale rappresentò, sul piano politico-istituzionale, una risposta di grande rilievo a quest’impasse. Ma dobbiamo anche rilevare come, soprattutto la rottura dell’alleanza tra i partiti di massa accentuò in modo negativo il mo­mento del puro controllo e della occupazione dello stato da parte della De, e da parte del Pei il momento del ripiegamento dal disegno della democrazia pro­gressiva per restituire tutto il primato al partito come nucleo compatto, garantito dal centralismo democratico, di una società e di uno stato alternativi a quelli della « borghesia ». Questa mi pare la non ultima ragione del fatto che la costi­tuzione fosse destinata a rimanere allo stato progettuale nelle sue parti più innovative e per così dire postliberali, e che, delle previste due fasi, la prima dedicata alla costruzione del sistema politico fondato sui partiti di massa inne­stati nelle strutture del vecchio stato e la seconda dedicata alla riforma dello stato, solo la prima risultasse realizzata.In altre parole possiamo anche dire che la sconfitta dell’ipotesi di un passaggio alla democrazia attraverso una fase di rifondazione giacobina dello stato non servì a eliminare una permanenza tendenzialmente autoritaria, di governo dal­l’alto, che potremmo anch’essa definire impropriamente « giacobina », e che si espresse da parte della De nella piena utilizzazione, come strumento di potere, delle strutture centralizzate del vecchio stato rimaste sostanzialmente immutate, e da parte comunista nel dispiegamento delle strutture centralistiche e buro­cratiche del partito. Non mi sento di dire se questo fu un passaggio obbligato; ma mi sento di dire che i problemi del rapporto tra partiti e stato e articolazioni sociali non sono stati risolti in modo soddisfacente.

FRANCESCO TRANIELLO