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Page 1: Søren Kierkegaard Una vita da «testimone della verità»sulla propria rivista “Il Momento” nel 1855 (con essi egli si staccò definitivamente dalla Chiesa ufficiale), furono,

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SSøøren Kierkegaardren KierkegaardUna vita da Una vita da ««testimone della verittestimone della verità»à»

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Una vita da Una vita da ««testimone della verittestimone della verità»à»

La biografiaLa biografia

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Una vita da «testimone della verità»

• Søren Kierkegaard nacque a Copenhagen il 5 maggio

1813, “figlio della vecchiaia”, da un agiato

commerciante di 56 anni, che dalla domestica di

casa, sposata in seconde nozze, aveva avuto sette

figli, quasi tutti destinati a morire in giovane età.

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Una vita da «testimone della verità»

•• SSøøren, lren, l’’ultimo nato, venne ultimo nato, venne eeducato dal padre Michael, ducato dal padre Michael,

ormai anziano, appartenente ormai anziano, appartenente alla setta dei Fratelli alla setta dei Fratelli

Moravi, ad una severa Moravi, ad una severa religiosità, che avrebbe religiosità, che avrebbe segnato profondamente segnato profondamente

l’animo del fanciullo e del l’animo del fanciullo e del giovane, destinandolo a una giovane, destinandolo a una

malinconiamalinconia, che si sarebbe , che si sarebbe andata accentuando nel andata accentuando nel

tempo.tempo.

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Una vita da «testimone della verità»

• Per accondiscendere la volontà paterna, Søren si iscrisse alla facoltà di teologia all’università di Copenhagen, dove fra i giovani teologi dominava l’ispirazionehegeliana. Tuttavia, egli seguì con scarso entusiasmo tali studi, attratto dalla poesia, dalla filosofia e dagli ambienti mondani della città, che frequentò con l’atteggiamento dissipato del giovane dandy, amante dell’eleganza e dei raffinati piaceri della vita.

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Una vita da «testimone della verità»

• Solo dopo la morte del padre sentì il bisogno di riprendere gli studi, che

concluse con la discussione, nel 1840, di

una tesi Sul concetto di ironia con particolare

riferimento a Socrate, che sarebbe stata pubblicata

l’anno successivo.

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Una vita da «testimone della verità»

• Non intraprese, però, la carriera di pastore,

alla quale la sua laurea lo abilitava. Nel 1841-

1842 fu a Berlino e ascoltò le lezioni di

Schelling, che vi insegnava la sua

filosofia positiva. Dapprima entusiasta,

Kierkegaard ne rimase presto deluso.

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Una vita da «testimone della verità»

• Dopo di allora, egli visse a Copenhagen con un capitale lasciatogli dal padre, assorto nella composizione dei suoi libri.

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Una vita da «testimone della verità»

• Il rapporto con il padre e il fidanzamento con

Regina Olsen, e la sua drammatica rottura, furono le principali

vicende della sua vita privata.

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Una vita da «testimone della verità»

• L’attacco del giornale umoristico, “Il Corsaro” (di Goldschmidt), di cui si dolse e si crucciò come di una persecuzione, e la polemica, che occupò gli ultimi anni della sua vita, 1) contro l’ambiente teologico di Copenhagen, specialmente contro il teologo hegeliano Martensen, e 2) contro l’opportunismo religioso, impersonato nel vescovo Mynster, capo della chiesa danese, che raggiunse l’espressione più acuta nei violenti articoli da Kierkegaard pubblicati sulla propria rivista “Il Momento” nel 1855 (con essi egli si staccò definitivamente dalla Chiesa ufficiale), furono, invece, gli avvenimenti principali della sua vita pubblica.

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Una vita da «testimone della verità»

• Il senso di colpa e il rimorso, che alimentavano la religiosità

del padre, trovarono la spiegazione nella drammatica

scoperta che il figlio fece di un misterioso peccato paterno, di

cui egli parla nel suo Diariocome di un “gran terremoto”

che sconvolse per sempre il suo animo, al punto da costringerlo

a mutare il suo atteggiamento di fronte al mondo.

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Una vita da «testimone della verità»

• Egli accenna soltanto vagamente alla causa di questo rivolgimento: «Qualche colpa doveva gravare sulla famiglia intera, un castigo di Dio vi pendeva sopra: essa doveva scomparire, rasa al suolo dalla divina onnipotenza, cancellata come un tentativo fallito».

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Una vita da «testimone della verità»

• Per quanto i biografi si siano affaticati inutilmente a

determinarla, è chiaro che essa rimane, dinanzi agli occhi di

Kierkegaard, come una minaccia vaga e terribile insieme. Quel che importa è il sentimento di

sgomento e di morte vissuto dall’autore, un tormento che

viene però anche interpretato da lui come segno di

“eccezionalità”, di un destino a una vita spirituale superiore.

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Una vita da «testimone della verità»

• Kierkegaard parla, poi, nel Diario, e ne parlò anche sul letto di morte, di una “scheggia nelle carni”, che è destinato a portare. Anche qui, di fronte alla mancanza di ogni dato preciso, sta il carattere grave e paralizzante della cosa. Forse, fu appunto questa ‘spina nella carne’ a impedirgli di condurre in porto il suo fidanzamento con Regina.

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Una vita da «testimone della verità»

• È una diversa “chiamata” a sbarrargli la strada del matrimonio: la consapevolezza dell’impossibilità di poter conciliare vocazione religiosa e vita nel mondo. Come Dio ha chiesto ad Abramo di sacrificargli il figlio, così ora a lui chiede di rinunciare a Regina e a una vita di felicità, e di “dargli la precedenza”.

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Una vita da «testimone della verità»

• Tuttavia, egli non intraprese neppure la carriera di pastore né nessun’altra; e di fronte alla sua stessa attività di scrittore dichiarò di porsi in un “rapporto poetico”, cioè in una relazione di distacco e di lontananza: distanza accentuata dal fatto che egli pubblicò i suoi libri sotto pseudonimi diversi, quasi a impedire ogni riferimento del loro contenuto alla sua persona.

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Una vita da Una vita da ««testimone della verittestimone della verità»à»

•• Ecco alcuni degli Ecco alcuni degli pseudonimipseudonimiutilizzati da Kierkegaard: Victor utilizzati da Kierkegaard: Victor Heremita, Johannes de Silentio, Heremita, Johannes de Silentio, Constantin Constantius, Inter et Constantin Constantius, Inter et Inter, AntiInter, Anti--Climacus, Johannes Climacus, Johannes Climacus, Climacus, VigiliusVigilius Haufniensis, Haufniensis, Hilarius il Rilegatore, H. H.Hilarius il Rilegatore, H. H.

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• Come detto, la produzione letteraria assorbì l’intera vita di Kierkegaard. Grazie al patrimonio lasciatogli dal padre, egli poté vivere con una certa autonomia; ebbe di quando in quando delle serie preoccupazioni per l’avvenire, ma alcuni felici accorgimenti e la stessa pubblicazione delle opere lo soccorsero notevolmente.

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Una vita da «testimone della verità»

• Quando cadde svenuto sulla via e fu ricoverato al Frederickhospital, tornava dalla banca dove aveva ritirato l’ultimo resto del suo deposito, che sarebbe stato lo “stretto necessario” per la degenza all’ospedale e per la sepoltura, com’egli stesso confessò all’amico Boesen sul letto di morte.

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Una vita da «testimone della verità»

• L’ultima malattia fu degno epilogo della vita, nel possesso di una pace dell’anima che invano cercò

per tutta la vita: la fortezza del suo spirito ricorda un modello greco riportato in clima cristiano.

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Una vita da «testimone della verità»

• Morì il giorno 11 novembre 1855, di domenica. O, piuttosto, si lasciò morire, perché a detta dei medici (e di lui stesso), sarebbe bastato che avesse voluto e la vita l’avrebbe ancora sorretto. I funerali, avvenuti la domenica seguente, furono un trionfo tanto inatteso quanto spontaneo.

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Una vita da «testimone della verità»

• I pochi contrasti da parte di qualche pastore furono repressi dal fervore del popolo. Nel distacco della morte, spente le animosità dei mediocri e degli interessati, la sua opera cominciò la sua missione nel mondo.

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Una vita da «testimone della verità»

• Dopo la tesi Sul concetto di ironia, le opere piùimportanti sono: Aut-Aut (1843), Timore e tremore

(1843), La ripresa (1843), Briciole di filosofia (1844), Il concetto dell’angoscia (1844), Stadi sul cammino della vita (1845), Postilla conclusiva non scientifica

(1846), La malattia mortale (1849), Esercizio del Cristianesimo (1850). Oltre ai Discorsi edificanti

(pubblicati con il suo nome), di fondamentale valore psicologico e speculativo è il Diario (postumo), che va

dal 1843 sino all’anno della morte.Copyright © 2009 Stefano MartiniCopyright © 2009 Stefano Martini

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Una vita da «testimone della verità»

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Una vita da Una vita da ««testimone della verittestimone della verità»à»

Il pensieroIl pensiero

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Una vita da «testimone della verità»

• La filosofia di Kierkegaard si segnala per l’attenzione rivolta all’esistenza, al Singolo: in una netta contrapposizione allo spirito di sistema dello hegelismo, il filosofo danese intende sottolineare la irriducibilità dell’esistenza del Singolo a un Assoluto che si presume spieghi tutto e risolva ogni contraddizione.

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Una vita da «testimone della verità»

• Per il Singolo, nell’orizzonte

dell’esistenza concreta che ha sempre di fronte la

morte, le contraddizioni restano insolute e si

impongono spesso come scelte drammatiche.

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Una vita da «testimone della verità»

• Alla categoria della necessitàsi sostituisce quella della possibilità, alla totalità il singolo, alla sintesirassicurante l’aut-autimpegnativo.

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Una vita da «testimone della verità»

• Dal punto di vista del Singolo, l’esistenza diviene un insieme di

possibilità, senza il punto di riferimento della verità costituita dal

sistema; quella è caratterizzata da scelte ognuna delle quali la determina

in modo irreversibile e deve venir compiuta, senza poter essere fondata

razionalmente, da una libertà che produce angoscia, perché l’uomo

deve scegliere, ma non può conoscere le conseguenze delle proprie scelte,

né fondarle su criteri di qualsiasi tipo.Copyright © 2009 Stefano MartiniCopyright © 2009 Stefano Martini

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Una vita da «testimone della verità»

• Categorie di Kierkegaard:

SINGOLO

POSSIBILITÀ

SCELTA

LIBERTÀ

ANGOSCIA

distinto

originale

irriducibile

irripetibile

unico

solo

dimensione: futuro

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Una vita da «testimone della verità»

• L’Angoscia.

• L’angoscia, che è la categoria per eccellenza (è anche la più gravosa) e in sé compendia tutte le altre, è tematizzata in particolare nell’opera Il concetto dell’angoscia. Essa è la condizione generata nell’uomo dal possibile che lo costituisce ed è strettamente connessa con il peccato, anzi è a fondamento dello stesso peccato originale.

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Una vita da «testimone della verità»

• L’Angoscia.

• L’innocenza di Adamo è ignoranza; ma è ignoranza che contiene un

elemento che determinerà la caduta. Questo elemento non è che un niente,

ma proprio tale niente genera l’angoscia. Il concetto dell’angoscia «è completamente diverso da quello

della paura e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di

determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà,

come possibilità per la libertà».Copyright © 2009 Stefano MartiniCopyright © 2009 Stefano Martini

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Una vita da «testimone della verità»

• L’Angoscia.

• «Il divieto divino rende inquieto Adamo, perché sveglia in lui la possibilità della libertà. Ciò che si offriva all’innocenza come il niente dell’angoscia è ora entrato in lui, e qui ancora resta un niente: l’angosciante possibilitàdi potere. Quanto a ciò che può, egli non ne ha nessuna idea, altrimenti sarebbe presupposto ciò che ne segue, cioè la differenza tra il bene e il male».

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Una vita da «testimone della verità»

• L’Angoscia.

• L’individuo si scopre persona solo nel peccato, il quale, mentre fonda la pienezza della sua singolarità, lo pone, per virtù dialettica, di fronte a Dio, all’infinitamente Santo. Di qui nasce l’angoscia.

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Una vita da «testimone della verità»

• L’Angoscia.

• Poiché il Singolo è libertà e possibilità, esposto ad ogni istante al rischio della scelta, di fronte all’alternativa di essere solo con se stesso o solo con Dio, l’angoscia è la “possibilità della libertà”, la “vertigine della libertà”, la “infinità autonoma della possibilità”, il “senso di disorientamento totale”, un’“indefinita inquietudine”.

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Una vita da «testimone della verità»

• L’Angoscia.

• «Con l’angoscia il peccato venne al mondo, ma il peccato, da parte sua, generòl’angoscia».

• «Imparare a sentire l’angoscia è un’avventura, attraverso la quale deve passare ogni uomo, affinchénon vada in perdizione».

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Una vita da «testimone della verità»

• La Disperazione.

• Se l’angoscia è la condizione in cui l’uomo è posto dal possibile che si riferisce al mondo, la disperazione è la condizione in cui l’uomo è posto dal possibile che si riferisce alla sua stessa interiorità, al suo io. Essa è tematizzata in particolare nell’opera La malattia mortale.

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Una vita da «testimone della verità»

• La Disperazione.

• Essa è malattia mortale, non perché conduca alla morte dell’io, ma perché

è il vivere la morte dell’io: è “un eterno morire senza tuttavia morire”, è “un’autodistruzione impotente”. Essa è il tentativo impossibile di negare la

possibilità dell’io o rendendolo autosufficiente o distruggendolo nella

sua natura concreta.

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Una vita da «testimone della verità»

• La Disperazione.

• Le due forme di disperazione si richiamano a vicenda e si identificano: disperare di sé nel senso di volersi disfare di sé significa voler essere l’io che non si è veramente; voler essere se stesso ad ogni costo significa ancora voler essere l’io che non si è veramente, un io autosufficiente e compiuto. Nell’uno e nell’altro caso la disperazione è l’impossibilità del tentativo.

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Una vita da «testimone della verità»

• La Disperazione.

• La scaturigine della disperazione sta nel non volersi accettare dalle mani di Dio; ma negando Dio, si annienta se stessi; e separarsi da Dio equivale ad allontanarsi da «quell’unico pozzo da cui si può attingere acqua». Pertanto, se la radice della disperazione è questa, è chiaro che l’esistenza autentica èquella di colui che non crede più a se stesso ma solo a Dio.

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Una vita da «testimone della verità»

• La Fede.

• La fede è l’antidoto contro la disperazione, in quanto ne è la eliminazione: essa è la condizione in cui l’uomo, pur orientandosi verso se stesso e volendo esser se stesso, non si illude sulla sua autosufficienza, ma riconosce la sua dipendenza da Dio. La fede sostituisce alla disperazione la speranza in Dio. Tuttavia, essa è assurdità, paradosso e scandalo.

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Una vita da «testimone della verità»

• Ciò che caratterizza l’esistenza, nella sua singolaritàaccidentale e irripetibile, è l’assenza di ogni necessità: per l’uomo l’esistenza è il campo del possibile e della scelta. Nulla è garantito in essa da ragioni necessarie:

l’uomo, decaduto dall’Eden dell’innocenza, porta su di sé il peso della responsabilità e della scelta. Non più

dialettica astratta dell’et-et (che non riesce a dar ragione del Singolo, la cui esistenza non è riconducibile

a una serie di conciliazioni), ma dialettica concretadell’aut-aut (in cui l’esistenza è espressa da

contraddizioni reali). Il Singolo nel sistema hegeliano è un accidentalità irrilevante, ma questa è la concreta dimensione della vita reale di ogni singolo uomo.

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Una vita da «testimone della verità»

• Per Kierkegaard la verità non è oggettiva (come nella speculazione

hegeliana), ma soggettiva nel senso che in essa ne va del soggetto, in quanto è decisiva per lui e per la sua salvezza.

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Una vita da «testimone della verità»

• Caratteri della oggettività:

Astrattezza (la verità è un oggetto tra gli altri)

Disinteresse (la verità non tocca il soggetto)

Indifferenza (una verità oggettiva vale l’altra)

Certezza (la verità oggettiva è inconfutabile, ma vuota)

Linearità (una dialettica conciliativa del tipo: et … et)Copyright © 2009 Stefano MartiniCopyright © 2009 Stefano Martini

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Una vita da «testimone della verità»

• Caratteri della soggettività:

Concretezza (non abbandona il terreno dell’esistenza)

Interesse (la verità è per il soggetto)

Passione (ne va dell’esistenza del soggetto)

Incertezza (un rischio, nessuna garanzia per il soggetto)

Biforcazione (una dialettica esclusiva del tipo: aut … aut)Copyright © 2009 Stefano MartiniCopyright © 2009 Stefano Martini

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Una vita da «testimone della verità»

• Caratteri della verità:

Paradosso e assurdo.La verità eterna è divenuta nel tempo,

l’essere si è rapportato all’esistenza.

Il paradosso assoluto è la verità del Cristianesimo:

il Dio-uomo.Copyright © 2009 Stefano MartiniCopyright © 2009 Stefano Martini

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Una vita da «testimone della verità»

• Gli Pseudonimi in Kierkegaard:

da un lato, essi stanno ad indicare il suo rifiuto di presentarsi come “pensatore ufficiale”, il desiderio di non apparire “dottore”, ma semmai “testimone della verità”;

dall’altro, il suo desiderio di esprimere le molteplici possibilità che egli percepiva compresenti nella sua

personalità e l’adesione a un criterio di “comunicazione indiretta” della verità, attraverso la “testimonianza”,

appunto, e non la “dimostrazione”.Copyright © 2009 Stefano MartiniCopyright © 2009 Stefano Martini

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Una vita da «testimone della verità»

• Il Singolo si trova davanti a tre alternative principali, cioè a tre modelli esistenziali inconciliabili (potremmo dire: tre momenti della dialettica esistenziale):

• lo stadio estetico;• lo stadio etico;• lo stadio religioso.

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• Le tre sfere dell’esistenza sono esclusive l’una dell’altra, e perciò il passaggio dall’una all’altra impegna il Singolo con un atto libero di scelta, che può essere soltanto suo: più che un passaggio dialettico, è un salto, la cui origine prima si perde nel mistero della persona.

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Una vita da «testimone della verità»

• Lo stadio estetico è una vita di piacere e di gioia: è la vita del dilettante, che si rifiuta di impegnarsi in un compito definito e non vuole affrontare il rischio della scelta; dell’esteta, che si compiace delle belle parvenze e coltiva i piaceri raffinati dell’arte; del seduttore, che al celibato chiede la garanzia di una libertà irresponsabile.

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Una vita da «testimone della verità»

• Il Don Giovanni di Mozart ne è la rappresentazione letteraria e musicale più perfetta. L’esteta vive in un presente che non si protende verso il futuro, ma si esaurisce in se stesso; gode dell’attimo; pertanto, si può dire che egli, in quanto non si sceglie e non si impegna, nemmeno esista.

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Una vita da «testimone della verità»

• Lo stadio etico è la vita dedicata al dovere. Qui l’individuo ha

scelto il suo posto nella “generalità”, si è sposato, si è

formato una famiglia, ha assunto delle responsabilità di marito, di

cittadino, di professionista. La figura caratteristica di questo tipo

di vita è l’assessore Guglielmo, il quale è essenzialmente un

marito fedele, un professionista onesto e laborioso, un

funzionario esemplare.

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Una vita da «testimone della verità»

• Assumendo come proprie le obbligazioni comuni,

inserendosi nella società, l’uomo etico si sceglie ed esiste in modo autentico: nella rettitudine della

sua condotta egli trova la ricompensa della pace interiore.

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Una vita da «testimone della verità»

• L’etica di Kant, che si fonda sull’oggettività di un

imperativo categorico e pone l’universalità come

criterio formale delle azioni buone, è, di codesta

sfera, la teorizzazione filosofica più perfetta.

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• La sfera religiosa è lo stadio estremo, in cui il Singolo esiste nel suo grado più alto, poiché la fede lo pone, solo e peccatore, davanti a Dio. Egli ha rinunciato a qualsiasi scopo relativo e finito di cui riconosce la radicale contingenza, ha rotto ogni vincolo con le attrattive della bellezza e dell’arte, con i doveri della vita associata, per affrontare il rischio supremoin faccia all’Assoluto.

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Una vita da «testimone della verità»

• La figura di Abramo è l’incarnazione perfetta della sfera religiosa. Abramo ama il figlio Isacco con tutta l’anima sua, e appunto perché lo ama, egli vuole sacrificarlo a Dio, che glielo chiede: se non lo

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amasse, il suo atto non sarebbe un sacrificio; perciò il suo amore per Dio è tale veramente per la sua opposizione paradossale all’amore per il figlio.

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Una vita da «testimone della verità»

• Ma Abramo non può farsi comprendere, parlando con parole umane, dalla “generalità”. Il suo gesto si consuma nell’interiorità e nel silenzio: con esso egli non è e non può essere un maestro, ma solo un testimone.

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• Il suo gesto, visto dall’esterno, dentro la sfera etica del “generale”, appare come l’atto di un assassino; intuito dall’intimo, nella passione religiosa di Abramo, esso è il momento culminante della sua esistenza di Singolo.

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• Come si è detto, tra le tre sfere non esiste continuità dialettica

progressiva, non c’è mediazione logica: il passaggio dall’una all’altra si compie con un salto, che è opera

della scelta, della conversione del cuore. Con esso il Singolo nega la

sfera precedente e, con una iniziativa assoluta che è privilegio della sua

libertà, rompe improvvisamente con il passato e s’impegna in un’esistenza

nuova. La sua libertà è autotrascendimento, e l’atto che essa compie è imprevedibile e logicamente

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• E tuttavia, se non c’è mediazione fra le sfere esistenziali, sussiste nell’intimo di ciascuna di esse una preparazione, un presentimento della successiva, che però non dispensa il Singolo dall’atto libero della scelta.

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• Nella sfera estetica, che non è moralità, la sfera etica è in qualche modo presente in

incognito sotto la forma dell’ironia. Per l’ironia, che si

insinua nel mondo frivolo e dilettantistico dei suoi piaceri,

l’esteta-seduttore avverte la vanità e la insufficienza dei suoi

godimenti sino al punto da provarne disgusto.

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Una vita da «testimone della verità»

• La vita estetica rivela, così, la sua insufficienza e la sua miseria nella

noia. Ma non è detto che la disperazione, alla quale l’ironia

può condurre l’esteta, lo converta necessariamente a una vita

migliore: egli può anche compiacersi della sua

disperazione, e così si perde, perché non ha saputo e voluto

comprendere, attraverso l’ironia, il richiamo della sfera superiore.

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• Nella sfera etica la sfera religiosaè presente in incognito sotto forma di umore (humor): per esso il Singolo intuisce che in certi casi la morale non può essere decisiva e che ci sono circostanze in cui il dovere non è precisabile, o non implica una forma “ragionevole”. L’umore finisce così per inquietare il Singolo e offuscare quel senso di sicurezza e di pace, che egli trova nel compimento dei suoi doveri quotidiani.

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• Anche in questo caso, il Singolo può non comprendere il senso della sua inquietudinee, invece di compiere il salto nell’assurdo, rinchiudersi ancor più nella sfera etica; e anche questa volta egli con la sua scelta si perde.

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• È il senso di una colpa irrimediabile, cioè di un peccato commesso contro Dio e perciò non emendabile con mezzi puramente umani, ciò che rivela a Kierkegaard l’insufficienza della vita etica. L’unica via per riscattarsi dal peccato è il pentimento, cioè il riconoscimento della propria miseria, della propria impotenza, e l’abbandono fiducioso a Dio come una possibile fonte di salvezza.

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• Il pentimento è, dunque, l’ultima parola della scelta etica, quella per

cui questa scelta appare insufficiente e trapassa nel dominio

religioso: «Il pentimento dell’individuo coinvolge se stesso,

la famiglia, il genere umano, finché egli si ritrova in Dio. Solo a

questa condizione egli puòscegliere se stesso e questa è la sola condizione che egli vuole

perché solo così può scegliere se stesso in senso assoluto».

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Una vita da «testimone della verità»

• Ecco prospettarsi, allora, la possibilità di un terzo tipo di vita, la vita religiosa, che – se scelta liberamente – può diventare il terzo stadio nel cammino della vita.

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Una vita da «testimone della verità»

• Questa vita è descritta da Kierkegaard nell’opera Timore e tremore, che, come appare già dal titolo, descrive la religione non come una condizione di tranquillità e di ossequio alle istituzioni, quale era per lui la religione praticata dalla Chiesa luterana ufficiale (il vescovo Mynster), bensì come una situazione in cui l’uomo si trova solo di fronte a Dio e decide di abbandonarsi completamente a Lui, con un atto di fede che non è la conseguenza di un ragionamento, ma un “salto”, cioè una decisione pura, immotivata, totalmente libera.

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Una vita da «testimone della verità»

• La religione, nella quale soltanto si deve conchiudere la dialettica esistenziale, non è nemmeno la religione naturale e razionale (quella che Kierkegaard chiama “religiosità A”), teorizzata e celebrata da illuministi e deisti: questa non riesce a vincere la angoscia e il peccato, ma tutt’al più a suscitare il pentimento del peccato e l’aspirazione al Perfetto.

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• La salvezza si ottiene soltanto nella Fede cristiana (la “religiosità B”), il cui oggetto è il “paradosso essenziale”, cioè il Cristo, la Persona dell’Uomo-Dio, che è “divenuto” nel tempo ed è apparso sotto la forma dell’“uomo comune”, per poter essere “modello” di ogni uomo.

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• Kierkegaard prende posizione nei confronti di Lessing, che

contro il “paradosso” dell’Incarnazione aveva

affermato che “verità storiche non possono mai diventare

una prova per verità eterne e che il passaggio, con cui si

vuol costruire una verità eterna sopra un fatto storico,

è un salto”, che egli non si sentì di compiere.

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• Per Kierkegaard l’essenza del Cristianesimo è proprio nell’affermazione di questa situazione paradossale: Cristo è persona in quanto si è incarnato, per un atto di libera decisione divina, in un certo tempo e in un certo luogo, cioè nella storia; l’uomo è persona in quanto accetta nel tempo, con un atto libero di scelta, il Verbo incarnato come modello da imitare; Dio si è “impegnato” a salvare l’uomo; l’uomo, il Singolo, si deve impegnare a salvarsi credendo nel paradosso essenziale.

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• Così il Singolo, concepito come possibilità, si trova davanti a un bivio fondamentale: da un lato Dio, l’Infinito, il Verbo incarnato, il “paradosso”, l’Assurdo; dall’altro la famiglia, la società, il Popolo, lo Stato, l’eticità comune; da un lato la salvezza, dall’altro la perdizione. Aut-aut. C’è un Assoluto che non costringe ma invita e chiama, e non ha senso la sua accettazione se non è atto di una libera scelta: si può non sceglierlo (e anche questa è una scelta!), ma chi non vuole sceglierlo è perduto.

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Il testoIl testo

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• Il testo che leggeremo quest’anno è Accanto a una tomba, il terzo dei Tre discorsi per occasioni immaginarie pubblicati da Søren Kierkegaard il 29 aprile 1845 (gli altri due sono: In occasione di una confessionee In occasione di un matrimonio), il giorno prima dell’uscita degli Stadi sul cammino della vita.

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• L’argomento non costituisce una novità: la meditazione sulla morte,meléthe thanáthou, pure presente nella letteratura, nelle arti visive, musicali e teatrali, è tratto costante della riflessione filosofica da Platone agli Stoici, da Epicuro a Seneca, da Agostino a Montaigne, da Lessing a Novalis, da Leopardi a Schopenhauer, da Nietzsche a Heidegger. Tuttavia, in questo caso, esso presenta, come riflessione sull’evento estremo, dei caratteri e degli aspetti particolari rispetto alla tradizione.

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• Questo scritto non vuol essere un’ennesima dimostrazione dell’immortalità dell’anima e una preparazione alla vita postmortem, né vuol essere un invito a “imparare a morire”. Non mira nemmeno, infine, a consolare della morte di un caro amico o di una persona amata, in quanto al centro della riflessione vi è la “mia” morte quale evento (heideggerianamente) “giàsempre mio”.

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• Esso si colloca certo nell’ambito di una tradizione cristiana (come dimostrano sia il preludio tipico di un’orazione funebre protestante, sia la conclusione di stile omiletico, sia i costanti rimandi a passi biblici), ma non è un invito a sperare in un destino ultraterreno dell’uomo; è piuttosto il tentativo – che poi Heidegger farà proprio – di trasformare la meditazione sulla morte in ars vivendi, di trovare cioè nel “serio pensiero” della morte – considerata come fine definitiva, sempre improvvisa e mai dilazionabile – lo stimolo per un’autentica scelta esistenziale o per una sorta di metánoia radicale, che possano indurre a vivere con serietà la propria vita e ad agire risolutamente.

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• In tale contesto emerge un tratto caratteristico della personalità di Kierkegaard, vale a dire la malinconia, il cui concetto, tra l’altro, più volte ritorna nel Discorso.

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• Non è un caso che un grande pensatore contemporaneo italo-tedesco, Romano Guardini, abbia dedicato al filosofo danese un prezioso libretto, intitolato Ritratto della malinconia, che potremmo eventualmente leggere il prossimo anno.

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Le caricatureLe caricature

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Le fontiLe fonti

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Una vita da «testimone della verità»

• N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e Testi della Filosofia, vol. C, Paravia;

• E. Berti, F. Volpi, Storia della filosofia, vol. 3, Laterza;• Enciclopedia Garzanti di Filosofia;• C. Fabro, Introduzione a S. Kierkegaard, Il problema della fede, Antologia

delle opere, a cura di C. Fabro, La Scuola;• G. Faggin, Storia della filosofia, vol. 3, Principato;• S. Tassinari, Storia della filosofia occidentale, vol. 3*, Bulgarini;• L. Tornatore, G. Polizzi, E. Ruffaldi, Filosofia. Testi e argomenti, vol. 4,

Loescher.

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