solo quattro mura

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“Solo quattro mura” è una silloge di brevi racconti aventi come filo conduttore il tema della morte, analizzato e narrato attraverso sei storie che spaziano dal thriller all’horror, fino a rasentare il fantastico, calate in atmosfere surreali, grottesche e claustrofobiche, tutte intrise di caratteri noir dove personaggi esemplari, stereotipi di categorie umane, si muovono all’interno delle scene interrogandosi e lottando contro inevitabili sentenze e destini esiziali. Sei storie forti ed efficaci dai risvolti psicologici e intimistici che spesso sfociano nel metafisico, e dalle trame che si distinguono per spiccata originalità rivelando tutte, nella parte finale, il momento epifanico, il classico fattore a sorpresa sempre forte di effetto. Sin dalle prime pagine, una lettura avvincente e mai pesante, che di certo non lascerà immacolati e vergini i recessi del vostro animo.Tutti gli uomini credono che tutti gli uomini siano mortali tranne se stessi. Edward Young

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Page 1: Solo quattro mura

ANTEPRIMAHorror

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Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura.

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DESCRIZIONE:

“Solo quattro mura” è una silloge di brevi racconti aventi come filo conduttore il tema dellamorte, analizzato e narrato attraverso sei storie che spaziano dal thriller all’horror, fino arasentare il fantastico, calate in atmosfere surreali, grottesche e claustrofobiche, tutte intrisedi caratteri noir dove personaggi esemplari, stereotipi di categorie umane, si muovonoall’interno delle scene interrogandosi e lottando contro inevitabili sentenze e destini esiziali.Sei storie forti ed efficaci dai risvolti psicologici e intimistici che spesso sfociano nelmetafisico, e dalle trame che si distinguono per spiccata originalità rivelando tutte, nella partefinale, il momento epifanico, il classico fattore a sorpresa sempre carico di effetto.Sin dalle prime pagine, una lettura avvincente e mai pesante, che di certo non lasceràimmacolati e vergini i recessi del vostro animo.

Tutti gli uomini credono che tutti gli uomini siano mortalitranne se stessi.Edward Young

L'AUTORE:

Gianluca Purgatorio è nato a Bari nel 1986, ma vive a Matera.Laureato in “Editoria e giornalismo” sta terminando il ciclo di studi in Lettere.Da sempre amante della scrittura e del cinema, sogna di vedere sul grandeschermo una pellicola tratta da un suo romanzo.“Solo quattro mura” è la sua prima pubblicazione, ma come lui stesso dichiara, stagià lavorando a una nuova opera horror

Titolo: Solo quattromura Autore: Gianluca Purgatorio

Editore: 0111edizioni Collana: Opera PrimaPagine: 94 Prezzo: 12,00 euro10,20 euro su www.ilclubdeilettori.com

Leggi questo libro e poi...- Scambialo gratuitamente con un altro [leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di unPC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che silegge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto perliberarlo [leggi qui]

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E' la nostra web tv, tutta dedicata ai libri. Se hai il video della tua presentazione, oppure un videotrailer del tuo libro, prima pubblicali su YouTube, poi comunicaci i link. Dopo aver valutato il materiale, lo inseriremo nel canale On-Demand di TeleNarro.

Se hai in programma una presentazione del tuo libro nel Nord Italia e non hai la possibilità di girare il filmato, sappi che c'è la possibilità di accordarsi con Mario Magro per un suo intervento destinato allo scopo. Contatta Mario e accordati con lui.

PARLANDO DI LIBRI A CASA DI

PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro

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La trasmissione di Paolo Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale On-Demand

BOOKINO il CONTASTORIE

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"Bookino il Contastorie" ti racconta un libro in una manciata di minuti. Poi, potrai proseguire la lettura online, su EasyReader.

E se il libro ti piace, potrai richiederne una copia in omaggio con l'iniziativa Adottaunlibro. Clicca su Bookino...

IL CASSETTO DEI SOGNI

(prima trasmissione prevista a FEBBRAIO 2010)

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A differenza di "Parlando di libri a casa di Paolo", questa trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice.

E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.

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Con EasyReader puoi dare un'occhiata ai nostri libri prima di acquistarli. Sono disponibili online in corpose anticipazioni (circa il 30% dell'intero volume), che ti consentiranno di scegliere solo i libri che preferisci, evitando di acquistare "a scatola chiusa".

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(L'iniziativa Adottaunlibro è legata all'iniziativa EasyReader)

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei quali è richiesto un riscatto all'autore. Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO.

In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.

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Gianluca Purgatorio

SOLO QUATTRO MURA

www.0111edizioni.com

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www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

SOLO QUATTRO MURA

2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Gianluca Purgatorio ISBN 978-88-6307-255-6

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Marzo 2010 da Digital Print

Segrate - Milano

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A te… A te che hai sfogliato, stai sfogliando e sfoglierai

queste pagine… … fogli della mia anima…

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“PER ME SI VA NE LA CITTA’ DOLENTE, PER ME SI VA NE L’ETERNO DOLORE,

PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE. GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE:

FECEMI LA DIVINA POTESTATE, LA SOMMA SAPIENZA E ‘L PRIMO AMORE.

DINANZI A ME NON FUR COSE CREATE SE NON ETERNE, E IO ETERNA DURO.

LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CH’ENTRATE.”

(Inferno, Canto III, vv. 1-9)

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IL DOTTOR K…

Tutti gli uomini credono che tutti gli uomini siano mortali,

tranne se stessi. Edward Young

In un t empo che non c ’è dato sapere e in una zona di mondo preclusa a qualsiasi sguardo, persino a quello di Dio, un uomo, affogato nell'oblio dei ricordi di ogni creatura vivente, stava per intraprendere il viaggio più lungo della sua vita, ignaro però dell'incubo che lo attendeva e di un de-stino, a sua insaputa, già segnato da altri. Il suo corpo, di un uomo longilineo sulla quarantina, giaceva in una stan-za r ettangolare, a ssopito s u un l ettino di os pedale i n f erro z incato non troppo s tabile. Nudo. Ogni l embo di pe lle e ra sfacciatamente svelato e orbato di ogni forma di protezione e difesa. Il corpo, macilento e segali-gno fino all'inverosimile, presentava sul l'addome, nella p arte de stra i n corrispondenza del fegato, lunghi e profondi tagli. Alcuni di questi erano già cicatrizzati, altri, nonostante il vano tentativo di r ichiuderli con del filo da cucito, mostravano ancora la carne viva ribollire dall'interno. Le fin troppo spigolose e ossute braccia erano serrate e bloccate con del-le polsiere d'acciaio fissate sulla branda che ne impedivano i movimenti. La stesso valeva per le gambe. Il capo, privato di qualsiasi traccia pilifera, era adagiato su di un p anno bianco e il suo volto appariva contratto e palesemente turbato. Gli occhi serrati, ancora rapiti da un sonno innaturale, avevano scavato due piccoli crateri a i l ati d el n aso a quilino. L 'uomo s arebbe p arso pr ivo di v ita se non f osse s tato pe r a lcune c ontrazioni i nvolontarie e i mprovvise de lla mandibola che gli disegnavano, sul volto sfilato, due linee marcate. In quel giorno d'estate il sole era alto e tiranneggiava caldo e sovrano in-curante dell'orrore che, di lì a poco, si sarebbe consumato in quella stan-za.

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Sembrava che que l luogo fosse a l ui sconosciuto o che l o ignorasse di proposito. La camera era fredda e buia e certo la piccola finestra, posta nella pa rete d i s inistra, non bastava ne mmeno a cap ire se f uori f osse giorno o not te. P areva c he i l t empo i n q uella s tanza s i f osse f ermato. Peccato fosse solo una sensazione e che per l'uomo sul lettino ogni minu-to che trascorreva, era un minuto in meno di vita. Dovevano essere passate da poco le tredici, quando i suoi occhi improv-visamente s i aprirono. Non similmente a l risveglio da un dolce r istoro quando con serafica e pl acida serenità ci lasciamo abbandonare dalle braccia d i Mor feo in m aniera bl anda e g raduale; m a bru scamente e in maniera r epentina, c ome q uando s ono g li incubi che c i r igettano n ella poco onirica realtà. Simili a due strette fessure incise nel viso, quegli occhi iniziarono a di-menarsi all'impazzata mostrando il loro cuore verde smeraldo con vena-ture ocra. Le sopracciglia seguivano il ritmo cadenzato e nistagmico del-le pupille che vorticavano freneticamente rimbalzando, come sf ere i m-pazzite, da una parete all'altra della camera. Ciò che seguì è be ne che qualsiasi individuo nel pieno delle sue facoltà mentali non racconti e non ne proferisca parola alcuna con nessuno. Solo un dissennato potrebbe farlo in così incauta e incosciente maniera. È attanagliante, infatti, la sensazione che si prova destandosi dal sonno e ritrovarsi in un luogo a noi estraneo. Proprio il dolce sonno, quell'attimo in cui qualsiasi uomo, anche il più abbietto e spietato, si lascia trasporta-re, indifeso, da una materna dolcezza che lo introduce in un mondo pieno di desideri e speranze inappagate. Al mattino il risveglio è quasi sempre piacevole perché particelle minuscole di quella dolcezza s i t rasformano in energia per un nuovo giorno nel quale realizzare i propri sogni. Ma per quell'uomo sul lettino, né il sonno né tanto meno il risveglio ave-vano lasciato spazio a seppur tenui raggi di speranza. Si era ritrovato lì, in quella camera, in quella zona di mondo sconosciuta e si nistra, senza sapere come ci fosse finito. Ma forse non aveva bisogno di altro, e sogni e aneliti non gli appartenevano. Forse... Passarono po chi s econdi. Fuori il m ondo g irava c ome s empre. T utto normale. Gli occhi dell'uomo s i fermarono di colpo mostrando s tavolta venature rubizze solcargli profondamente le pupille. Il suo sguardo dap-prima intenso e fisso languì lentamente posandosi poi sulla tragica trucu-lenza che sul suo ventre si era consumata.

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Paura, ansia, angoscia, agitazione, raccapriccio. Puro terrore. In un a tti-mo solo il suo animo ne fu colpito. Un grido infernale di dolore si levò nella stanza. «Ahhhhhhhhhhh!!! Cristo!» la voce gli esplose forte, quasi lacerandogli le corde vocali, rimbalzò tra le pareti della camera e uscì fuori dalla fine-strella perdendosi nell'inquietante silenzio circostante. Nessuna eco. Nes-sun ritorno. Era come se si trovasse sospeso in una sorta di limbo spazio-temporale. Come se i l nulla l o avesse inghiottito azzerandogli comple-tamente la memoria. Non ricordava alcunché: in che modo fosse finito in quello strano posto e chi egli fosse. O cosa. Niente. Tabula rasa. Ricordi, completamente cancellati. Se mai ne avesse avuti alcuni. Per un attimo pensò di essere morto. “Dev'essere così che ci s i sente, quando si trapassa. La vita precedente viene completamente rimossa...come se l o spirito, risucchiato fuori con la forza, da qualcosa o da qualcuno, sospeso e nell’attesa di un giudizio superiore ineluttabile, riuscisse a osservare il suo cadavere pr ima di la-sciare definitivamente la terra...” Quelle e lucubrazioni furono i nterrotte da l dolore l ancinante c he da lla parte destra del torace gli pervase tutto il corpo. Ebbe un s ussulto improvviso e, da quella posizione supina, cercò di al-zarsi su i g omiti pe r os servare con maggior at tenzione que llo scenario cruento. Fu allora che si accorse di essere immobilizzato e di essere pri-gioniero. Tentò con tutte le sue forze di scalciare e di dimenarsi ma, per quanto si agitasse, non riusciva a muoversi e i suoi arti erano completa-mente bloccati e cos tretti da quelli anelli metallici. Il dolore lancinante gli tornò e il suo capo, quasi in segno di sconfitta, ricadde sul lettino. I muscoli, solcati da un reticolo di venature che pulsavano ritmicamente, erano ancora tesi per lo sforzo. Il suo digrignare continuo dei denti pro-vocava un v istoso raggrinzimento della pelle del viso, ormai paonazzo, che s i pr olungava f in giù al c ollo. S i a bbandonò a u n l ungo r espiro e chiuse gli occhi. “Se ho provato dolore, vuol dire che almeno nel corpo non sono morto. Ma la mia testa... non ho più niente, è completamente andata, non ricor-do nemmeno il mio nome!”pensò e riaprì nuovamente gli occhi. Notò che si trovava al centro di una grande stanza di forma rettangolare in cui si effondeva un f astidioso lezzo di chiuso e rancidume. Il soffitto era alto almeno sei metri e le pareti, sudice e pregne di umidità, presen-tavano grosse crepe e spaccature irregolari. Osservando il muro alla sua sinistra, lercio e macchiato da una vernice rosso sangue, ebbe l 'impres-

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sione d i t rovarsi n el l ocale di un v ecchio m attatoio abbandonato dov e venivano scuoiati gli animali. Ma lui non e ra un animale, una bestia da macello, da torturare e s opprimere. E ra un u omo, una pe rsona. “Cos'è che rende tale un essere umano? I r icordi, gli affetti, la sua esperienza. Posso considerarmi ancora un uomo io? Chi sono? Non so nulla. Niente mi appartiene. È come se non esistessi. Sono degno di essere chiamato uomo? O sono semplicemente un i nvolucro vuoto? Prima di adesso esi-stevo? Avevo una vita? Oppure è ora i l primo momento in cui vedo la luce? Ero un abbietto criminale e questa è la mia punizione? È una tortu-ra? Forse ero un politico che sapeva troppo e i miei oppositori hanno de-ciso di bruciarmi il cervello?” si chiese ripetutamente l'uomo. Sollevò nuovamente il capo per scrutare meglio l'ambiente e scovare al-tre tracce di quella strana mistura rossa, ma non v i t rovò nul la. L'unica cosa che destò la sua attenzione, fu una porta posta al centro della parete a lui di fronte. Era di ferro e di un colore rosso ormai più vicino alla rug-gine. Al di là di essa, il mondo. Un mondo sconosciuto, ignoto, oscuro che continuava a girare infingardo e incurante del suo tormento. “Cosa ci sarà dietro a quella porta” continuò a rimuginare l 'uomo “Ma cosa vo-gliono farmi? Perché sono qui incatenato? E poi queste...” i suoi occhi si posarono nuovamente sug li squ arci che d ilaniavano la pa rte de stra de l suo torace, ma repentinamente voltò il capo e il suo sguardo indugiò su una piccola sedia alla sua destra. Era una seggiolina in ferro grezzo con il sedile e la spalliera di un legno ormai consunto dalle tarme ed esili piedi che a m alapena n e r eggevano il p eso. Pareva una d i que lle s edie che vengono usate n elle s cuole el ementari, assai pi ccole pe r s colari t roppo cresciuti e assai grandi per scolari più minuti. Su di essa, piegato a forma di pallottola informe e pi eno di grinze, giaceva un camice bianco. Dalla tasca laterale spuntava un foglio di carta spugnosa ben ripiegato simile a una lettera. “Sarà di qualche strambo dottore che ha intenzione di usarmi come cavia per i suoi balzani esperimenti? O peggio di un m acellaio...” mugugnò tra sé e sé l'uomo sul lettino. Ma non andò oltre, il pensiero di poter essere vittima di un pazzo sanguinario gli imbavagliò la mente. Si sporse quindi per quel che poteva sulla sua destra e tentò di leggere il cartellino affibbiato alla tasca sinistra del camice. “Laboratorio di ricerca ALIVE”. riportava l 'etichetta “Dottor K...”. Non riuscì a leggere oltre. Le altre lettere si perdevano nelle pieghe del cami-ce celando, ancora per poco, il nome del possessore. L'uomo ebbe un moto di sollievo.

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“ Se c'è un dot tore, vuol dire che di certo non sono carne da macello e questo non è un m attatoio”. pe nsò “ Devo t rovarmi i n un l aboratorio” continuò assorto sfiorando ancora una volta con lo sguardo le ferite sul torace “p robabilmente son o la cav ia d i qu alche di abolico esperimento e...”. All'improvviso nella sua testa gli s’impiantò il ricordo sfumato di un rac-conto che aveva l etto in chissà qua le v ita p recedente e i n chissà quale mondo r emoto. Narrava l a s toria di alcuni studenti p rigionieri d i un a-bietto scienziato che li aveva condotti in un bunker segreto in mezzo al Pacifico per condurre crudeli esperimenti su di loro. “Mi trovo in un la-boratorio in un atollo sperduto in mezzo all'oceano? È colpa di qualche dottore fuori di senno se la mia testa è una poltiglia e se ho il torace dila-niato?” si chiese preoccupato l'uomo. Da al cuni pun ti d i v ista, essere la v ittima e l o sfogo di f rustrazioni di qualche macellaio squilibrato con la sega elettrica, sarebbe stato più ras-sicurante. La co sa peggiore che i n que lle s ituazioni ci pu ò accadere è morire. Certo, essere fatti a pezzi, squartati, dilaniati è tremendo, è rac-capricciante, ma è pur sempre e solo morire. È un attimo, si muore. Non ha importanza come o que llo che avviene in seguito. Dopo, i l corpo, il nostro corpo è un affare che non ci riguarda. Ma essere sottoposti a biz-zarri esperimenti, fungere da cavie per dottori senza s crupoli, que llo sì che è davvero terribile. Siamo costretti a soffrire in silenzio e a sopporta-re og ni a biezione, og ni a berrazione um ana. U n g iorno pot remmo s ve-gliarci in una stanza e, guardandoci allo specchio, capire di essere stati trasformati in mostruose creature. Un altro potremmo accorgerci che un replicante si è impadronito della nostra esistenza e ch e, con nostra mo-glie e con i nostri figli, è più bravo di noi. Una notte potremmo svegliarci e desiderare di non averlo mai fatto perché, scendendo dal letto, ci rende-remmo conto che i nostri ricordi non esistono più, dimenticati; la nostra vita perduta inesorabilmente e noi stessi siamo caduti nell'oblio più oscu-ro. Con la mente invischiata da questi dubbi, da questi timori, da queste an-sie e soprattutto con l'immensa voglia di comprendere il significato della sua presenza in quel luogo, l 'uomo, sfidando persino il suo infausto de-stino, tentò ancora, forse per l'ultima volta, di liberarsi. Lottò, si contor-se, profuse i l m assimo sforzo. Esaurì og ni m inima r iserva di en ergia. Non ci fu nulla da fare, ogni suo tentativo fu vano. Il ferro non si piegava al suo volere e lui rimaneva ancora lì in quello sta-to. Braccia e gambe incatenate. Il lettino, a quell'agitarsi in maniera con-

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vulsa, scivolò dolcemente sul pavimento in marmo, che col tempo aveva ormai perso la sua brillantezza e il suo colore naturale mutando in un o-paco b runastro, e , m usicando una febbrile m elodia prodotta da l m ovi-mento di fficoltoso delle rotelle poste a i piedi di esso, t raslò di sessanta gradi verso sinistra. Novanta a destra. E trenta ancora a sinistra. Fu tutto inutile. Qualunque movimento facesse, ot teneva solo de i punti di v ista e de lle v isuali di fferenti di que lla s tanza r ettangolare. P er un momento la por ta r ossa fu al le sue sp alle e po i a lla sua de stra, ma da qualunque prospettiva osservasse quella camera g li pareva che tutto ri-manesse immutato. Era come se l e leggi della relatività non esistessero. Come se l e pa reti, il pa vimento e i l sof fitto seguissero i su oi s terzanti movimenti e che l'intero luogo girasse con lui. Chiunque si sia mai trovato in una camera vuota riuscirà a capire quanto detto. È la classica sensazione che si prova quando si osserva una stanza in cui ci siamo solo noi. Nessun arredo, nessun oggetto, nessun quadro. Nulla. Pare che tutto sia immobile, tutto fermo, tutto uguale. Potremmo anche muoverci, cambiare posizione, spostarci; tutto ci apparirà tremen-damente e spaventosamente uguale. Alcuni la chiamano “sindrome della stanza vuota” e dicono che una persona potrebbe anche impazzire rima-nendo chiusa in un luogo in simili condizioni. Non ci sono punti di rife-rimento. Nulla di familiare. Nulla per orientarci. Lo sguardo è costretto a compiere t raiettorie turbinose passando da un muro all'altro per t rovare appigli sicuri cui aggrapparsi finché il suo indefesso vorticare non si pla-ca. Dicono che alcuni, costretti a una tale tortura, siano stati trovati con le orbite scavate al loro interno che piangevano sangue. Tuttavia la fine che attendeva l’uomo sul lettino sarebbe stata di gran lunga peggiore. Passò solo una manciata di secondi, il tempo necessario per prendere fia-to, che il velo di inquieta pace e di innaturale silenzio fu squarciato anco-ra una volta da lla sua voce che , con f ragore, si al zò i n quell'atmosfera ovattata. « Aa... aa... aiu... iutoo!!» singhiozzò. «Vi pre... prego liberatemi!! Aiu-ta... temi!!» quella flebile voce incerta, iniziata come un balbettante sus-surro, in quello spazio così grande, stava crescendo con il passare dei se-condi r iempiendo quel silenzio dai contorni ferali. «Dove sono...che mi avete fatto... chi siete? Cosa volete da me? Lasciatemi st are... vi pr ego aiutatemi... liberatemi... qualcuno m i sente?? Aiutoo!!!» di ventò or mai un g rido. Nervose e pa rossistiche g rida d' aiuto, d i r abbia, d i do lore, d i paura. Di speranza. Accompagnate da febbrili e inconsulti movimenti di un corpo inerme, contro ogni volontà. Forse. Rumori e cigolii metallici,

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provocati dalle scosse improvvise che i piedi e le ruote del lettino erano costretti a soppo rtare, misti ad acuti s trilli ululanti, si effusero in quella camera chiusa, creando una potente deflagrazione acustica. Il vetro sotti-le e all'apparenza fragile della finestrella sulla parete ne subì l'effetto vi-brando in maniera quasi impercettibile. Fu in quel preciso momento che la porta rosso ruggine si aprì. Delicata-mente, come se qualcuno dietro stesse facendo fatica a reggerne il peso. Nella stessa maniera blanda in cui si era aperta, si richiuse svelando una misteriosa e oscura sagoma di uomo. Il silenzio ripiombò in quella came-ra p repotentemente, que sta v olta però p iù inquietante e mortale. C ome rintocchi di una campana che annuncia l'ora della fine, i passi dell'uomo misterioso, risuonavano fragorosamente e i n maniera qua si ritmata. Il suo incedere elegante e compassato strideva con l'ambiente laido e squal-lido della camera rettangolare risultando alieno e fuori luogo. I suoi mocassini di marca, con tacco di due centimetri, non avevano mai conosciuto, forse, pavimenti così lerci. La sua figura sl anciata e moderatamente snella, rimasta avvolta i n una misteriosa oscurità, favorita dalle zone poco illuminate della camera, fu sfacciatamente svelata, quando l'uomo giunse al ce ntro di e ssa. A lcuni raggi di sole, che mai prima di quel momento avevano osato tanto, rup-pero il velo d’inaccessibilità creatosi, palesando l'identità di quell'uomo. Un giovane che si affacciava appena ai trent'anni: capelli castano chiaro tirati all'indietro a lasciare scoperta una fronte liscia e spaziosa. Il volto, dai lineamenti sottili e delicati ancora non appesantiti dai segni indelebili del tempo, si nascondeva dietro a una leggera montatura da vista. Un pullover bordeaux a dolce vita spuntava dal camice bianco rigorosa-mente abbottonato. Anche lui un m edico. Apparteneva al laboratorio di ricerca ALIVE, anche lui. Dottor Koepp diceva il cartellino sul petto. Per l'uomo sul l ettino fu certo una sorpresa costatare l a presenza di un altro essere umano in quella zona remota di mondo. Con il corpo strema-to dai vani sforzi profusi e con i l respiro a ffannoso, diventato quasi un rantolo, s crutò a ttento e g uardingo, s enza pr oferire a lcuna pa rola, quell'ombra muoversi speditamente nella camera. Un filo sottile d i tranquillità s ’insinuò nel s uo a nimo, rasserenandolo, quando ne intuì le fattezze bonarie. I suoi occhi non cessarono mai di seguirlo, quasi incuriositi da quell'uo-mo misterioso che a o gni pa sso non di sdegnava di svelare qualcosa i n più di sé.

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L'incedere baldanzoso del dot tor Koepp s’interruppe di colpo quando giunse a un metro dal lettino. Il suo sguardo amaro e rassegnato incrociò per un istante quello fisso e speranzoso dell'uomo dinanzi a lui. Come si fa con un insetto insistente e f astidioso, lo scacciò via si stemandosi gli occhiali sul na so. U na no ta d’ imbarazzo s ’insinuò sul s uo v iso, fino a quel momento serioso e rilassato, colorandogli le gote ceree. Dopo pochi secondi riprese subito la sua marcia iniziando a camminare lentamente attorno al lettino. Osservava scrupolosamente di quell’uomo ogni lembo di pelle e ogni parte del corpo. Come quando il gatto rincorre il topo che, beffardo, si prende gioco di lui, così gli occhi dell’uomo in-catenato, ora più minacciosi, inseguivano lo sguardo sfuggente del dottor Koepp. «Allora che fa? Mi libera o continuerà a girarmi intorno ancora per mol-to?» proferì con tono sostenuto. Il dottor Koepp non rispose e impassibi-le proseguì come se quella voce non si fosse mai udita. «Quindi? Cosa sta facendo? Io non resisto p iù in queste condizioni!!!» continuò l’uomo sul lettino. «Mi libera? » Nulla. Ancora nessuna reazione. «Ma a che gioco sta giocando? Lei è un dottore vero, quindi faccia qual-cosa, sembra che io s ia f erito ma non ricordo come mi sono procurato questi tagli… Ma cazzo perché non risponde? Le hanno mangiato la lin-gua? Che diavolo sta facendo? La prego mi liberi…» il respiro affannoso e il dolore dei tagli sotto il costato, non gli lasciavano tregua costringen-dolo a fare delle pause mentre parlava. Koepp intanto non batteva ciglio. «Ho capito, lei è uno di quelli che mi hanno ridotto così? Vero? Che caz-zo mi avete fatto? Non ricordo niente…mi avete drogato bastardi? Cosa volete da me? Dove mi trovo? Volete uccidermi? Fottuti bastardi… as-sassini… lasciatemi…» a ncora una pausa, qu esta v olta pi ù l unga, a c-compagnata da un rantolo f erino. Quelle p arole sembravano non aver scalfito minimamente l’espressione ieratica che vestiva il volto del dotto-re come una maschera. Koepp si bloccò di colpo e, piano, si avvicinò al lettino. Con entrambe le mani si frugò nelle tasche del camice e da quella di sinistra estrasse un oggetto oblungo e metallico che, sfregato, emette-va una forte luce gialla. «Si allontani, cosa vuole farmi?» gridò l’uomo sul lettino spaventato dal modo in cui il dottore armeggiava quell’arnese. «Si fermi, la prego» ma Koepp con un passo felpato gli piombò addosso.

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«No!!! Se ne vada la scongiuro…» continuò agitandosi più che poteva e scuotendo il capo freneticamente. La mano sicura e ferma del dottore gli serrò la fronte e l’uomo vide le sue pupille essere fulminate da quel rag-gio intenso. Prima il destro, poi il sinistro. La lampadina lasciò in quegli occhi, ormai assuefatti all’oscurità, un sen-so di annebbiamento che durò per alcuni secondi. «Perché, perché ba stardo…cosa v uole a ncora d a m e?» r iprese l ’uomo ricominciando ad agitare i l capo ormai l ibero da q uella m orsa at tana-gliante. «Bastaa!! Mi lasci andare…» le sue grida s’interruppero improvvisamen-te quando, con il progressivo ritorno della vista, i suoi occhi riconobbero la figura immobile del giovane dottore che a pochi centimetri di distanza lo osservava. I due sguardi si scontrarono ancora una volta e nuovamente Koepp rifuggì. «Mi guardi vigliacco!! Perché non ha il coraggio di guardarmi negli oc-chi? Si sente troppo sporco per farlo? Si sente troppo bastardo? Si rende conto che avete distrutto la mia vita, se mai ne avessi avuta una prima di svegliarmi in questa merda?» esclamò alterato. «Lei è uno s tronzo dot tor K oepp. S iete t utti de gli s tronzi v oi d i A LI-VE!!!» quelle ultime parole colpirono come dei pugni in piena pancia il giovane dottore che strabuzzò gli occhi rimanendo interdetto e spiazzato. «Perché quella faccia? Ha paura che qualcosa sia andato storto? Non si preoccupi, non r icordo niente, non ricordo lo schifo che mi avete fatto. Ho solo letto il suo cartellino. È per questo che conosco il suo nome e il nome di questa fogna. Perché è qui che siamo, vero? Laboratorio di ri-cerca A LIVE? S alvate l e vite? Puah, v oi m i a vete u cciso!» asser ì me-stamente l’uomo, ormai stremato e avvilito. L’espressione di Koepp ritornò seria e composta, con la solita venatura di afflizione. Il giovane dottore si passò una mano tra i capelli e si dires-se verso la porta rossa in maniera spedita. «Dove s ta andando? Perché si allontana?» la voce dell'uomo sul lettino lo raggiunse mentre era a metà strada, ma egli non se ne curò e proseguì. «Ah dottore non è suo il camice gettato su questa sedia?» continuò l'uo-mo indicando con il capo la sua destra « dovrebbe esserci il suo nome sul cartellino». Quelle ultime parole bloccarono Koepp che lentamente si voltò e, con un ghigno di amarezza, per l a pr ima volta da quando era entrato in quella stanza, parlò:

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«Si s baglia, l egga meglio. Quello non è i l mio c amice». P oche p arole. Solo poche parole pronunciate a voce bassa e con tono placido ma deci-so. Poi più nulla. «Allora c e l 'ha l a lingua! B astardo bug iardo!!» l 'uomo a lle s ue spalle continuò a imprecare ma le sue espressioni piccate sbatterono contro i l ferro de lla p orta rossa di etro alla quale l a s agoma de l d ottor Koepp scomparve tacitamente. La voce greve del silenzio si alzò ancora, austera e imperiosa, in quella stanza. Passarono però solo pochi minuti e la porta in ferro si aprì nuo-vamente. Stavolta però, pr ima ancora che qualcuno entrasse, si udì una voce. «È andato tutto come previsto. Procediamo». L'uomo sul lettino l a r iconobbe. Il dot tor Koepp. Ancora lui. La stessa voce bassa ma sicura, mesta ma energica, pacata ma risoluta. Il giovane dottore entrò accompagnato da altri due uomini. Il primo, che nasconde-va il v iso dietro a una mascherina igienica e i ndossava abiti bianchi da infermiere, sp ingeva un piccolo carrello in acc iaio sul quale v i e ra una siringa e strane sostanze, in polvere e liquide, in recipienti tondeggianti. Al fianco di Koepp camminava un u omo sui venticinque anni ma i l cui aspetto ne rivelava quaranta. Il volto era butterato da residui di acne gio-vanile e da a lcune ci catrici, d’incerta prov enienza, che g li dona vano un'aria truce e incattivita. Il cappello di lana, poi, che tratteneva e schiac-ciava la riccia capigliatura scura faceva il resto. I t re s i fermarono al centro della s tanza, a pochi metri dal lettino, dove c'era l'uomo ferito. Il tipo con l'aspetto da infermiere sistemò il carrello lì vicino e uscì dalla stanza speditamente, mentre il ragazzo con il cappello scrutava l'ambiente con aria di disgusto. L'uomo sul lettino, che aveva osservato tutta la scena immobile e senz a dire parola alcuna, cominciò: «Dottore chi è questo che si è portato dietro? Che avete intenzione di fa-re?» Nessuna risposta. «Almeno lei, la prego» si r ivolse al giovane con il cappello «mi l iberi, non s tia agli ordini di questo psicopatico. Mi ha azzerato la memoria e ora vuole usarmi per i suoi sporchi scopi. Vi giuro che non ne farò parola con nessuno se mi lascerete andare, vi scongiuro!» Due lacrime coraggiose spuntarono sul quel viso smunto, tirato e soffe-rente, portando un filamento di vitale umanità.

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Ancora silenzio. Nessuno disse niente. Koepp, girato di spalle, era inten-to a riempire la siringa con un liquido denso e giallognolo che si trovava sul carrello in una piccola bottiglia senza etichetta. «Ecco tenga» il dottore porse al ragazzo con il cappello la siringa. «Lei sa cosa fare vero?» «Sì certo» «E sa come si usa questo?» continuò Koepp mostrandogli il laccio emo-statico che aveva nella mano destra. «Ehm, credo di sì», rispose titubante il giovane guardando con curiosità i due oggetti con i quali non pareva avesse grossa dimestichezza. «Lasciatemi stare vi prego! Cosa c'è in quella siringa? Cosa dovete iniet-tarmi?» L'uomo s ul l ettino continuava a d a gitarsi facendo ricorso a lle u ltime e residue ene rgie che g li rimanevano. Le bra ccia e le g ambe, ormai r at-trappite e anchilosate da ll'inerzia e dall'immobilità, gli pa revano essere alieni fardelli che non riusciva controllare. Tutto il suo corpo d’altronde gli pareva estraneo. Era come se fosse appena nato, la sua vita comincia-ta da pochi minuti, e dovesse, pertanto, ancora abituarsi a quella carcassa inerte e malata. Non per questo la sua esistenza valeva meno di quella di chiunque altro, o egli, ne fosse meno attaccato. Un uomo a cui vengono estirpati i ricordi è un uomo che inizia un nuovo percorso. P erde qua lcosa. M olto. F orse t utto. C erto, c ancellati errori, sbagli, rimorsi, rimpianti e dolori, potrebbe sempre ridisegnare un cam-mino a lternativo, r iscrivere i l p roprio d estino da pr incipio. D ’altronde cosa sono gli errori se non una pletora di ricordi che ci appesantiscono la coscienza? Ma il destino di quell'uomo non era nelle sue mani. Non più. Un pensiero lontano e sbiadito g li occupò la mente. «T-i-ti-o-p-e-pe-n-tal-tal s -s-o-di-co cl-o-ru-ro-di- po-ta-pota-ssio» ba lbettò a ba ssa v oce confusamente in una trance quasi onirica. «Tiopental s odico e cloruro di po tassio! C 'è que llo nella siringa? V e-ro??» come un fulmine a ciel sereno, quella informe traccia, di un mondo e una vita che non più gli appartenevano, gli affollò la mente. «Come faccio a saperlo? Ditemi chi sono!!Come faccio ad avere queste conoscenze? Come ho riconosciuto quelle sostanze? Vi prego ditemi chi sono!» ancora un altro flash «Cazzo, quella merda la si inietta ai condan-nati a morte...volete uccidermi? Perché? Cosa ho fatto? Vi prego...» Il dottor Koepp u scì frettolosamente da quella stanza lasciandosi alle spalle quell'incessante so ttofondo di l amenti che continuò anche in sua

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assenza. Oltre qu ella po rta r ossa s i di panava un lungo corridoio s enza finestre con due porte laterali. Le forti luci, al neon, bianche, il pavimen-to di marmo lucido appena cosparso di cera e il tanfo intenso di a lcool etilico, comunicavano un'idea d’incerta trepidazione e d’inquietante ina-deguatezza tipica dell'ambiente posticcio delle sale d'attesa. Il dottor Koepp rimase immobile per alcuni minuti avvolto da ombre di rimorsi e contrizione. Il capo chino e una mano davanti agli occhi ormai tracimanti. La spalla destra appoggiata a una delle due porte reggeva l'in-tero peso dell'inerme corpo. E dell'anima. Sicuramente più di 21 grammi. Le urla esagitate e smaniose della vittima nell’altra stanza gli colpivano gli orecchi come aghi acuminati e velenosi. Cercava di proteggerli. Ten-tava di di fendersi da quegli at tacchi. Distraeva l a mente, allontanava il pensiero, scalciava, scuoteva il capo, ma se avesse potuto avrebbe di cer-to tirato, strappato, gettato via le sue orecchie pur di non sentire ancora quell'efferata crudeltà che nella camera rettangolare si stava consuman-do. Il suo delirio però fu di breve durata. Dopo alcuni secondi che parvero ore, anche più lunghe di sessanta minuti, una figura esile apparve dalla porta rossa. Era il ragazzo con il cappello. Il carnefice. Il di sappunto di segnato sul suo volto e ra palese. Tra le mani ancora l a siringa piena di veleno. Nemmeno una goccia era andata perduta. Nem-meno una goccia instillata nelle vene di quel povero uomo che, sul letti-no, ormai non si agitava più. «Dottore non ce la faccio!» esordì il ragazzo porgendogli quell'arma gen-tile. «Come sarebbe a dire? Noi abbiamo un patto, si ricorda?» rispose Koepp sul cui volto l'angoscia degli attimi precedenti si era tramutata in eviden-te e malcelata preoccupazione. «Quel vecchio cane bastardo si agita troppo...non si lascia toccare e non vuole proprio morire!!» «Ma lei non era il migliore in queste cose?» «Certo, ma il problema è che non mi sento me stesso. Non sono io. Cioè non ho di mestichezza con gli aghi e l e s iringhe. Non sono a rmi queste per me.» «Ha intenzione di ritirarsi dunque?» «Non si preoccupi. Rispetterò il nostro patto, ma a modo mio.» «Che significa?»

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Il ragazzo alzò la maglia felpata nera con il disegno stilizzato di un ange-lo e mostrò il manico della pistola che spuntava dai jeans incastrata tra la cintura e un ventre marchiato da nervose fenditure addominali. «È la mia 9 mm» il ragazzo la tirò fuori e accarezzandone dolcemente la canna la caricò con un movimento quasi impercettibile della mano destra «con questa non ho mai fallito. Stia tranquillo, un colpo alla testa e bum! Gli farò esplodere il cervello.» «Devo dissentire. Il nostro accordo prevedeva che in cambio di cinque-mila dollari l ei av rebbe uc ciso quell'uomo senza pe nsare o fare troppe domande. Sarebbe s tato semplicemente un esecutore. Le modalità l e a-vremmo decise noi. Si ricorda?» continuò il dottore contrariato. «Senta, i o non i ntendo c ontinuare c on que lla da nnata s iringa!» c ontro-batté il ragazzo stizzito «non mi diverto. Quindi lei badi a fare bene il suo lavoro che al mio ci penso io! O vuole per caso uccidere lei quel ba-stardo di là?» Il dottor Koepp non rispose. Non ebbe il coraggio di dire nulla. E certo non ne avrebbe avuto per uccidere l'uomo sul lettino. «Bene» riprese il ragazzo con un sogghigno di vittoria «io ora finisco ciò che ho iniziato e poi v oglio t rovare la g rana in c ontanti.» Dopodichè sbatté la porta e uscì. Il dottor Koepp rimase ancora una volta solo. A combattere contro i fan-tasmi de lla sua testa e d ella sua coscienza. Nell'altra stanza, quella ret-tangolare, ancora ur la, g rida, s trepiti, p ianti, l amenti, s inghiozzi. D ue colpi di pistola in serie. Un terzo dopo qua lche secondo. Una risata. Un ghigno malefico di compiacimento. Poi più nulla. Il nulla. Il dottor Koepp aprì la porta alla sua sinistra dietro alla quale l'uomo con la mascherina e con l'aria da infermiere stava riordinando alcuni scaffali. Era un vecchio e polveroso ripostiglio. «Ascolta Mike, io t orno a casa!» i rruppe accalorato i l g iovane do ttore. «È troppo per me! Non reggo più! Ti chiedo solo una cortesia!» «Certo dottor Koepp, mi dica.» rispose l'uomo cordialmente sfilandosi la mascherina. «Non me la sento di consegnare la lettera a sua moglie. Fallo tu per me!» «Non ci sono problemi. Ha lei la lettera?» «No, è rimasta nel suo camice. In quella stanza, accanto al suo cadavere. Sinceramente non credo ce la farei a vederlo in quelle condizioni. È per questo motivo che mi sono rivolto a te.» «Non si preoccupi. Ci penso io.»

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«Puoi sistemare anche i conti con quel ragazzo? I cinquemila dollari sai dove si trovano?» «Sicuro. Me ne occuperò io. Ora però lei vada a riposare e pensi che ce l'abbiamo fatta.» «Certo ci proverò. Grazie mille Mike, a domani.» «A domani dottor Koepp.» A Sarah Walken Cara Sarah, quando leggerai queste mie righe sarà tutto finito. È brutto lasciarsi in questa maniera, ma purtroppo molto spesso noi uomini possiamo fare ben poco per contrastare il corso continuo e turbinoso degli eventi che, il più delle volte, ci trascinano verso sentieri oscuri e baratri senza fon-do. Tutto ciò, ahimé, l’ho imparato a mie spese. Per tutta la vita non ho fatto altro che sfidare la natura, il fato, la morte. Forse oggi sono arri-vato a prendere questa decisione tanto dolorosa e drastica, quanto utile e necessaria, a causa della mia più grande paura: la morte. Tu sai bene quanto questo timore pesasse sulla mia esistenza. A vent'an-ni scelsi di fare il medico proprio con l'illusione di trovare un sistema che cancellasse dal mondo e dalla vita di ogni uomo il fardello della morte. Aprii il laboratorio di ricerca ALIVE proprio con questo scopo. Ma non mi rendevo conto, nonostante tu facessi di tutto per dissuadermi, che o-gni cosa ha un inizio e una fine e che, se esiste la vita, deve esistere an-che la morte. Purtroppo non lo capivo. Ero troppo preso. Troppo sicuro che ce l'avrei fatta. Ogni nuova ricerca mi portava a risultati sempre più interessanti. Mi convincevo che ero vicino al mio traguardo, che si sarebbe trattato solo di poco. E così ho trascurato le persone che amavo di più. Mi sono chiu-so, mi sono isolato. Ero diverso. Sempre preso dai miei pensieri, dai miei lavori. Non avevo più alcun minuto da dedicare a te e alla piccola Sunny. Voi ne soffrivate e io non me ne accorgevo. Ci allontanavamo e non mi rendevo conto di nulla. Finché, otto mesi fa, mi diagnosticarono il cancro al fegato. La malattia ci fece riavvicinare. Per un periodo abbandonai i miei sterili studi. Ero

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di nuovo con voi. Ma le operazioni, i continui travagli, le continue soffe-renze mi riportavano alla realtà. Io stavo per morire e ne avevo paura. Ero terrorizzato. Terrorizzato dal perdere voi, dal perdere me stesso, dal perdere la mia vita. Tutto quello per cui avevo lottato era risultato vano. Avevo tralasciato i miei affetti e in cambio cosa avevo ottenuto? Il destino si era preso gioco di me portandomi dentro casa il nemico contro il quale avevo combattu-to la battaglia più lunga e dispendiosa di tutta la mia vita. Ne uscivo da sconfitto. Per questo motivo sono scappato. Sono due mesi che ormai non hai più notizie di me. Due giorni fa i medi-ci hanno tentato l'ultima operazione. Ho ancora le ferite che mi brucia-no. Non c'è nulla da fare. Mi hanno dato tre settimane di vita. In questi due mesi di tempo, in cui sono stato lontano da te e da Sunny, sono venuto a conoscenza di qualcosa di sensazionale. Tu conosci il neurologo Henry Koepp, il mio assistente più fidato e il mio più grande amico. Mi è stato sempre vicino, dandomi spesso ottimi consigli, nel pe-riodo in cui ricercavo la “vita eterna”. Ultimamente lui ha messo a pun-to una macchina, basata sulla tecnologia dell'elettroshock che può cau-sare la perdita totale di memoria per alcune ore. È ovviamente un proto-tipo e lui cercherà di metterla a punto perché l'azzeramento della memo-ria possa essere controllato e irreversibile. Significa che se abbiamo dei brutti ricordi, basta usare questa macchina e con un colpo di spugna vengono rimossi. È su questo suo prototipo che si basa il mio piano con il quale, credo, riuscirò a fregare la morte. Non pretendo che tu mi capisca. Non pretendo che Sunny mi capisca, quando avrà l'età giusta per farlo. Vorrei solo che voi non serbaste ran-core nei miei confronti. Sono in fondo solo un moribondo che ha scelto come morire. Ho ancora troppa paura della morte. Troppa paura per lasciare questo mondo da Jack King. Troppa paura perché la morte mi sopraffaccia rubandomi la mia vita, i miei ricordi, i miei sentimenti. Ho già pianificato tutto, insieme al dottor Koepp. Anche lui all’inizio non voleva saperne, ma sono riuscito a persuaderlo. Ce l’ha fatta a ca-pirmi. Ho deciso quindi di farmi cancellare la memoria e poi farmi uccidere con un'iniezione letale da un sicario che assolderemo. È il metodo più indolore e meno invasivo. Dopo così potrai anche vedere il mio corpo.

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Finalmente la morte non mi farà più paura. Sarà un affare che non mi riguarderà. Non riguarderà l'essenza e l'anima di Jack King ma solo il suo corpo. Io Jack King non proverò nulla. Non sentirò dolore. Non mo-rirò mai. Sarà un altro a prendere il mio posto. Ora è tardi. Vado a preparare le ultime cose. Fra qualche minuto sarà mattino. Abbraccia Sunny da parte mia e prenditi cura di lei, più di quanto io non avrei fatto. È un amore. Il mese prossimo compirà tre an-ni. Ho detto a Koepp di comprarle qualcosa. Lui vi starà vicino quando tutto sarà finito. È una persona gentile. Ti piacerà vedrai. Abbi cura di te. Mi dispiace per tutto. Addio mio angelo. Con amore tuo Jack.

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IL MISTERIOSO CASO DEL SIGNOR SMITH

Funerale: uno stuolo di mezzi-morti saluta

un morto per intero. Non aveva anc ora finito d i i ntingere il m ezzo c roissant in quell’ibrida mistura di caffé e l atte che i l s ignor Smith sbraitò qualcosa contro sua moglie. U n v erso i ndistinto, s mozzicato e strozzato da qu el boc cone molle e pol tiglioso, che era la pasta sfoglia, mista a una non troppo fre-sca marmellata di albicocche, percolante di caffelatte. «Agatha!» gridò dopo aver mandato giù i l denso impasto «Vieni subito qua!» e con un gorgogliante movimento portò alla sua veloce bocca i re-sti di quella essenziale colazione. Jonnhy Smith, uno smilzo sessantenne impiegato di banca, troppo remissivo e acquiescente fuori di casa, troppo risoluto dentro. «Allora? Che cosa fai lì immobile? Portalo qua!» si rivolse l’uomo a sua moglie che intanto lo aveva raggiunto in quella piccola e dimessa cucina. Agatha Parker, divenuta suo malgrado, circa vent’anni prima, la più ano-nima signora Smith, una donna d i scarsa avvenenza e di modesto cari-sma, superava di gran lunga il marito per insulsaggine e acquiescenza. «Ecco tieni» g li sorr ise i mpacciata A gatha porgendogli uno s ciupato quotidiano. Il s ignor Smith nemmeno la guardò e mugugnando qualche frase confusa glielo strappò dalle mani. «Sai che non mi pi ace a spettare!» bor bottò «ti sei f ermata anc ora con qualche carampana di vicina?» «Scusami ma il giornalaio sotto casa era chiuso e sono dovuta andare a due isolati di qua per trovarne un altro» «Chiuso? E perché mai? Il s ignor Gott non c hiude bottega nemmeno i l giorno di Natale» accennò il signor Smith incuriosito e con una venatura di sottile s oddisfazione provocatagli da que lla no tizia. A veva s empre quel rivolo di compiacimento quando qualcosa d’imprevisto stravolgeva

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la vita dei suoi conoscenti. Si metteva seduto e si godeva la sua, di vita, più serena e tranquilla. Più pratica. Forse il signor Gott era l’unico che poteva reggere il confronto con la to-tale abulia e scialba sbiaditezza della sua esistenza. «Lutto!» rispose Agatha dopo un attimo di esitazione «Lutto in famiglia. Bisogna che lo…» «Ora non ho t empo. Non m’interessa» e con un cenno della mano le in-timò di uscire, mentre la donna si affrettava a liberare la tavola. Smith si sistemò alla meglio su quella scomoda sedia di paglia e iniziò a leggere. In realtà gettava solo un’occhiata, di miopia non curata, qua e là ai ti toli p iù importanti. Non era mai s tato un uom o di c ultura e que lla razzia, sbrigativa e se lvaggia, era quanto bastava perché non sfigurasse con i suoi colleghi e avesse sempre qualche argomento su cui conversare e da tirar fuori al momento opportuno. D’altronde, come uno scacchista, aveva giocato bene le sue mosse: accorto con i potenti, maldestro con i deboli, g uadagnandosi così una p osizione d i r iguardo t ra l e g razie de i superiori. Frettolosamente i suoi occhi si posavano sui titoli delle notizie. Nulla che potesse r iguardarlo. Nulla che potesse colpirlo o interessargli. Come al solito. Non vi era nessun fatto, evento o catastrofe che riuscisse a galva-nizzare quell’inerte indolenza. Di fatto la pruriginosa urgenza di avere quel giornale tra le mani nasceva piuttosto che da una vivida e reale curiosità, dal desiderio di non trasgre-dire i suoi ritmi cadenzati, delimitati da schemi e paletti che aveva semi-nato lungo tutta la sua vita. Guardò l’orario. Le lunghe e sottili lancette del vecchio orologio circola-re, posto sulla parete alla sua sinistra, segnavano le 7:15. Sospirò soddi-sfatto. Malgrado il contrattempo di sua moglie gli avesse fatto perdere del tem-po, era riuscito a recuperare una manciata di minuti affrettando la cola-zione e la rassegna di quel foglio grigio e farinoso al tatto. Con il palmo destro ripulì la tavola da grandi e velate briciole di sfoglia, residui della colazione, e ripose il giornale. Dopodichè andò in camera da letto a cam-biarsi il pesante e lanoso pigiama. L’orario della banca prevedeva che gli sportelli fossero aperti al pubblico per le 8:00, ma ogni dipendente bisognava che fosse lì già alcuni minuti prima. Il signor Smith aveva ancora abbastanza tempo per fare ogni cosa con calma. In vent’anni di lavoro non era mancato un solo giorno e mai una volta era arrivato dopo le 7:45.

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Nessun permesso, nessun giorno di ferie; nessuno di malattia. Appena un brutto raffreddore, il primo anno di lavoro, ma niente che gli avesse dav-vero impedito di essere regolarmente al suo posto in banca. Poi nulla più. La stanza da letto era di fronte all’ingresso della cucina. Bisognava attra-versare uno stretto e piccolo corridoio dalle pareti spoglie e nude, coper-te a m alapena da carta da parati raffazzonata alla bene meglio. Un solo quadretto, ricordo di un tempo passato, souvenir di un possibile vivifico viaggio, si perdeva in quel piattume murario; e casalingo. «Agatha esci. Va’ di là. Devo vestirmi!» i rruppe Smith perentorio e , la donna, finito di sistemare della biancheria in alcuni cassetti, uscì richiu-dendo la porta alle sue spalle. Smith sospirò. La sveglia rotonda a martelletto indicava le 7:21. Segnava l’ora di cinque minuti più avanti. Era stato lo stesso Smith a regolarla in quel modo proprio per un ulteriore scrupolo di puntualità. L’uomo s i g uardò i n g iro. A vrebbe i ndossato un vecchio pantalone i n nappa e una camicia d i f lanella. Agatha l i aveva r ipiegati e lasciati sul letto. U n letto matrimoniale o rmai non pi ù così s tabile, t eatro di v ita, d’incontro, d i s peranze; d elusioni, di s contri. S mith a veva s coperto d i non poter avere prole solo due anni dopo il matrimonio. Sistemati su quella camicia piena di lanosi pallini, vi erano due calzini, di un tessuto sottile e ormai indistinguibile, logori e consunti nella zona dei talloni e degli alluci. Jonnhy Smith si mise a sedere sul letto e tentò di infilarsi quelle calze. Un dolore nella zona lombare gli impedì di effettuare la manovra. Qual-cosa a livello delle ultime vertebre gli provocò un forte dolore. In un sol momento, in un solo gesto sopportò il peso dei suoi anni. Di quegli anni. Di quella vita. E forse anche di più. Gli fu difficile scendere con la schiena, abbastanza da raggiungere, con le mani, che tendevano quegli slabbrati mangiatori di piedi, le estremità dei suoi ginocchi. Alzò, pertanto, e accavallò le gambe ad angolo retto. Una tecnica, di infi-larsi le calze, molto più lenta, considerando anche il dolore ai lombi che persisteva, benché attenuato. Prima la destra. Poi la sinistra. Qualcosa attirò la sua attenzione. Qualcosa di molto singolare. Si avvici-nò pe r guardare meglio mantenendosi il pi ede sinistro tra le mani. Dei segni. F orse una s critta. Tentò, p er qu anto p ossibile, di i nclinare mag-giormente la pianta. Si protese sulla sua destra. Non c’era nessuna scrit-ta. N essun s egno. S olo n umeri. Q uattro. F orse cinque. R iempivano l’intera superficie del piede, dall’alluce fino al tallone. 2-4-0-6…

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Il quinto numero non si leggeva - se ne intuiva la presenza solo da un i-niziale e accennato tratto - inumato com’era in un lembo di pelle avvizzi-ta e molle. Una v ecchia cicatrice, r icordo infantile di un fastidioso e sporgente accumulo di grasso cistico. «Oh buon Dio, ma che diavoleria è mai questa?» si domandò ad alta vo-ce l ’uomo mentre, con la f erma m ano destra, cercava di strofinarsi l’improbo pi ede s inistro. N ulla. I nu meri non a ndavano via. P rovò a sfregare p iù forte. G rattò anche. A ffondò le unghie e g raffiò. N iente. Riuscì solo a provocarsi un esteso rossore su tutta la pianta. Quei numeri rimasero lì sfacciati e silenti. Fin troppo. Pareva che non fossero il frutto di alcun inchiostro indelebile. Smith arrestò i suoi tentativi di rimozione e si passò una mano, prima sul tallone, poi su tutta la pianta. Stavolta de-licatamente. Nessun rilievo. Nessun solco o incisione. La pelle, benché callosa, risultava uniforme come sempre. Quei numeri non e rano nem-meno il ricordo di un indelicato lavoro di cesello. Pareva come se fossero un tutt’uno con il piede, con la pelle. Con Smith. Con la vita di Smith. Come se fossero sempre stati lì. Dall’inizio. Dalla nascita. Dall’inizio della fine. Per sempre. Da sempre lì. Smith continuò a osservare i numeri, per lui, prima di a llora solo cifre. Distese la pelle e la tirò. Poteva trattarsi di un tatuaggio, ma il colore ne-ro pece e la brillantezza di quell’epiteliale epitaffio, gli fecero escludere l’idea. Quei numeri erano troppo vividi e colmi di fervida commozione, quasi drammaticità, per essere dei semplici resti d’inchiostro intrappolati fra tessuti cutanei. Nervosamente, allora, controllò anche il piede destro. Si chinò, per quan-to il dolore lombare gli permettesse, e si sfilò alla svelta e s enza troppa eleganza, quasi tirandolo, il calzino. Niente. Nessuna cifra, nemmeno un numero che iniziasse o proseguisse la misteriosa sequenza di segni dell’altro piede. La pianta era immacolata: di un rosa ingiallito come la ricordava. Ricontrollò sotto i l piede s inistro. I numeri non e rano scom-parsi e tutto era come un attimo primo. La confusione e lo spaesamento avevano lasciato il posto a u na ben più incontrollabile tensione e inquietudine nervosa. Un t imore at tanagliante stava em ergendo dalle pi eghe de l suo animo. La g ola g li s i st rinse, il cuore rallentò. Poi accelerò d’improvviso. «Agatha!!» r agliò S mith s tringendo e ntrambe l e m ani in p ugni s errati «corri subito qua! Fa’ presto!!» La donna, benché impegnata in imprecisate attività in una delle camere in fondo al corridoio, si precipitò nella stanza da letto.

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«Oggi non vado a lavoro» proruppe Smith quando la figura esile e smun-ta di sua moglie comparve alla sua destra sul ciglio della porta. «Non mi sento affatto bene» proseguì tutto d’un fiato, con un impeto innaturale. Credeva che, in tutta la sua vita, non avrebbe mai pronunciato quelle pa-role; che mai gli sarebbe riuscito di articolare quelle frasi. E invece, alla soglia dei sessant’anni, in un’età troppo poco lontana dalla pensione, e in quel freddo e rigido mattino di primavera, che nulla aveva di primaveri-le, qualcosa, un imprevisto, portò dei nuovi risvolti a quell’esistenza già segnata. Un artista av rebbe r appresentato la su a r ealtà co n un uni co colore: un grigio sbiadito e appannato. Un musicista avrebbe composto una melodia monocorde con un’unica nota: il do minore. Quella fu l’unica nota di co-lore di tutta la sua esistenza. «Come mai?» sibilò Agatha «che cosa ti prende?» «È entrato qualcuno in casa nostra?Un estraneo forse?» «Ma come ti viene in mente? Mi spieghi cosa succede?» Smith s i a lzò e iniziò a scrutare quella camera. Con lo sguardo cupo e fisso che rimbalzava da una parete all’altra. Si avvicinò alla tenda in lino consunto e, con un rapido gesto della mano, la spaccò in due e vi guardò dietro. Nulla. Aprì un’anta di un antico e poderoso armadio, sul lato op-posto del letto, che impediva il passaggio in quella piccola stanza. Anche stavolta la ricerca fu vana. «Puoi dirmi cosa ti prende?» avanzò la donna che intanto aveva guada-gnato una posizione migliore e si era spostata alla sinistra del letto, ac-canto a un comò in palissandro. «Sono sonnambulo Agatha? Sii sincera, cosa combino di notte? Faccio qualcosa senza rendermene conto?» riprese l’uomo stavolta con le pupil-le che avevano smesso di scandagliare l’ambiente e si muovevano quasi all’impazzata in quei pochi metri quadri. Soffitto, pavimento, parete de-stra, Agatha, parete sinistra. E così all’inverso. «Oltre a russare e a dormire profondamente? Non credo tu faccia altro. Forse, a volte, annaspi come se st essi in apnea. Ti agiti, ti contorci ma nulla d i p iù. C he io ricordi, e dov rei r icordare bene dato i l m io s onno leggero, non penso ti abbia mai visto alzarti, andartene in giro per casa e magari prepararti un panino in cucina» sul viso di Agatha, sbiadito e sco-lorito dagli anni, una sottile ironia prese vita, sottoforma di un’insinuante e strisciante rughetta, che le si disegnò tra le già numerose pieghe di quel volto per nulla poco avvizzito.

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«Se mi vedi annaspare è perché faccio un sogno ricorrente: sogno sem-pre di affogare in una piscina pubblica dove tutti da fuori mi guardano e nessuno t enta di s alvarmi. A nzi, m aramaldeggiano prendendosi g ioco della mia infausta sorte.» La donna non rispose. Ci fu un a ttimo di silenzio. Il tempo che Smith si riaccomodasse sul letto e riprendesse: «Agatha, dimmi la verità, ti sembro pazzo? Da quando sono impazzito? È forse l’età che avanza?» «Ma cosa dici? Tu saresti pazzo? In tutta la mia vita non ho m ai cono-sciuto una persona più savia e conforme al senso comune. Prima di que-sta mattina, non avevi mai assunto comportamenti che deviassero dal ge-nerale concetto di normalità. Puoi dirmi ora che cosa succede?» Smith, con un’evidente rassegnazione mista a un pizzico di soddisfazio-ne per aver fugato quei dubbi più pruriginosi, tirò un lungo respiro e si portò all’indietro con la schiena sollevando a mala pena la gamba s ini-stra. «Dammi una mano, aiutami a tenerla su!» «Ma Jonnhy! Ti sembra questo il momento di mettersi a fare ginnastica? Proprio tu che in tutta la tua vita sei sempre stato riluttante all’attività fi-sica?» «Ohoh! Poche storie Agatha! Vuoi o no sapere che cosa succede oggi, in questa balzana giornata?» «Avanti, dimmi, cosa devo fare?» «Avvicinati. Mi fanno male le reni, non posso sollevarla più di così» la-mentò Smith i ndicando quella gamba che oscillava come un pendolo a pochi centimetri da terra «tirala ancora più su.» La donn a, che a m alapena r iusciva a t rascinarsi dietro quel suo corpo spigoloso e m acilento, resse a fatica la p resenza di que ll’arto, ormai troppo estraneo, tra le sue uncinate mani scheletriche. «Ora guarda il mio piede. Non vedi qualcosa di strano?» «Hai sem pre av uto dei p iedi o rribili. Antiestetici, disarmonici, senza forma. Forse proprio questo, il sinistro, più brutto dell’altro. Non è certo una novità. Ti sembra un motivo valido per non andare a lavoro?» «Ma no idiota!» sbraitò Smith e, benché sua moglie condividesse con lui il peso di quell’arto a mezz’aria, erano soprattutto i suoi lombi a risentire di tale sforzo «sotto il piede! Guarda la pianta! Sbrigati! Vedi qualcosa? Cosa c’è?» La donna , turbata, depose l a l ingua ne lla cu stodia orale e s i l imitò a guardare.

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«Allora li vedi?Che diamine sono?» «Sì, sembrano dei numeri.» «Ovvio che lo sono! Ma che ci fanno sotto il mio piede?» «Ed io cosa vuoi che ne sappia? Sei tu quello che lavora in banca. Hai certo più affinità tu con i numeri!» «Oh oh, Agatha!» r iesplose f ragoroso Smith «Intendo di re perché sono comparsi di tutto punto questa mattina? E come? Chi diavolo può averli dis… no non sono nemmeno disegnati!» Intanto la gamba ricadde, in segno di resa, sul vecchio pavimento con un tonfo sordo. «Non ho mai fatto del male a nessuno, non sono mai stato in galera; non mi pare possa essere la matricola di un detenuto» la donna non rispose. «Una setta di religiosi fanatici?» Silenzio. «Cavia di qualche laboratorio?» Agatha si limitava a guardarlo di sottec-chi. «Ovvio c he no! Non paiono essere dei seg ni impressi sulla p elle! E nemmeno a l di sotto. Bisogna certo escludere i t atuaggi. Sembrano più macchie cutanee, simili a dei nei.» Una pausa. Ancora silenzio. «Ma cer to! Forse degli alieni mi hanno rapito!» riecheggiò chiassosa e sgraziata la voce di Smith in quell’angusta camera. «Tu che pensi Aga-tha?» «Che ti preoccupi troppo. Non è poi così importante. Ci sono tante, trop-pe cos e che non riusciamo a sp iegarci e do rmiamo sonni tranquilli u-gualmente. Cose comunque non t anto importanti da saltare una giornata di lavoro. Sono solo dei numeri, non morirai mica. E certo non oggi!» concluse Agatha ritornando sul c iglio della porta e allontanandosi da quel bisbetico uomo, in quella giornata ancora più querulo. «Solo dei numeri dici tu?» «Io vedo solo quello.» «Ma sono spuntati oggi la prima volta!» «E quindi?» «Non ricordo di essere nato con questi segni!» «E quindi?» «Da bambino non l i avevo. E nemmeno ieri, prima di mettermi a letto. Non li avevo.» La moglie lo guardò malfidente e dubbiosa. Inarcò il sopracciglio destro.

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«E va be ne A gatha! N on s ono s icuro c he i eri sera non c i fossero, m a posso assicurarti che è la prima volta che li vedo.» Il sopracciglio s inistro raggiunse l’altro mentre la f ronte della donna si aggrottava a tendina. «Qualcosa devono pure significare! A ltrimenti cos a ci st arebbero a f a-re?» cont inuò farfugliante Smith cercando di eludere lo spento sguardo della moglie, mai così pesante e insostenibile come allora. «Perché t i agiti? T ’interessa così t anto sapere cosa sono quelle c ifre?» rispose domandandogli Agatha. «Sì che m’interessa.» «Per quale motivo?» «Ehm…perché..» «Credi di non poter andare a lavoro prima di aver risolto questo assurdo quesito?» incalzò la donna, quasi autoritaria. «No! È che… insomma non è normale averli!» «Come fai a dire cos’è normale a questo mondo? Lo conosci così poco.» «Allora fammi controllare» si alzò e, come un cinghiale grufolante, pun-tò la moglie «voglio vedere se anche tu li hai!» «Non avvicinarti» lo frenò Agatha «i miei piedi sono lindi, non c’è nes-sun numero! E poi anche se li avessi…» «Anche se li avessi?» «Non credo mi creerebbero problemi.» «E tu come lo sai? Perché dici questo?» «Ragiona Jonnhy, ogni cosa a questo mondo ha un suo preciso scopo, e una ragion d’essere…» «Ecco appunto» la interruppe i l signor Smith «devono s ignificare qual-cosa!» «Una ragion d’essere, e una precisa collocazione» riprese la moglie quasi stizzita «le mani ci aiutano nelle azioni di tutti i giorni, gli occhi ci fanno percepire la realtà, la bocca perché possiamo esprimerci.» «Dunque?» «Pertanto i piedi servono per muoverci, camminare e non perché qualcu-no non abbia di meglio da fare che sbirciarvi sotto! Se il buon Dio ha vo-luto collocare qualcosa lì in basso, a noi non deve importare. Non sono affari di nostra competenza. Non abbiamo gli occhi per guardarci le suo-le delle scarpe. Finché abbiamo la nostra vita, la nostra esistenza e siamo soddisfatti…» «Ah frottole!» irruppe stizzito il marito «non voglio stare un minuto di più a sentirti!»

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«Come mai, non sei soddisfatto della tua vita?» «Certo che lo sono. Pienamente!» «E sei felice?» Un attimo di silenzio. «Le lascio ad altri quel tipo d’illusioni. Che se le tengano!» «Sei infelice allora?» «Un’altra illusione. Che lo siano i queruli e i piagnucoloni. Phuà!» Ancora un greve si lenzio si cond ensò tra l ’indifferenza di que i v ecchi mobili. In quella camera. Tra quelle pareti. In quei segaligni e invisibili corpi. Erano anni ormai che non avevano più un dialogo così sincero, così aper-to, così accesso. Così vivo. Ci si perdeva nei recessi della memoria, solo a tentare di ricordarne uno. Forse non l’avevano mai avuto. Mai le loro membra erano state scosse, così forte, da qualcosa di alieno. Quella mattina, per la prima volta, le loro vite sembravano aver imbocca-to dei nuovi binari. Forse… Il signor Smith si ricompose. Ritornò seduto sul letto e riprese a vestirsi. Indossò prima i pesanti calzoni di nappa e poi la camicia di flanella. «Stai uscendo? Hai deciso di andare a lavoro?» lo rimbeccò Agatha. L’uomo non rispose. Guardò verso la sveglia. Le lancette segnavano le 8:00 appena. Quell’imprevisto trambusto aveva dilatato il tempo, facen-dogli perdere ogni minima percezione di esso. «E allora dove vai?» «Credo che farò visita al dottor Hack» rispose stavolta Smith rassettan-dosi di nanzi a u n opa co specchio accanto a l letto « lui s aprà d are un a spiegazione a tutto ciò, ne sono certo!» «Dammi solo un minuto» la moglie si allontanò uscendo dalla stanza. L’uomo rimase fermo per un po’ osservando indeciso quello che lo spec-chio rifletteva. Non aveva mai dedicato tanti minuti a que lle narcisisti-che, seppur umane e consuete, abitudini. Dopo, sedendosi sul letto, gri-dò: «Allora devo aspettare molto?Agatha!» La moglie tornò di corsa con una grossa spugna gocciolante tra le mani. «Prima di uscire fa’ un ultimo tentativo» lo pregò. Gli si avvicinò e iniziò a strofinare su quel torso di piede ruvido ancora senza il calzino. Grattò forte, raschiò, sfregò con quella spugna. Si aiutò con i polpastrelli. Quasi li affondò nella carne. Ma tutto fu inutile. «Sono ancora lì» constatò con rammarico la donna. CONTINUA...