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Pierpaolo Donati INTRODUZIONE ALLA SOCIOLOGIA RELAZIONALE SOCIOLOGIA E POLITICA SOCIALE COLLANA DIRETTA DA P. DONATI FRANCOANGEU

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Pierpaolo DonatiINTRODUZIONE ALLASOCIOLOGIARELAZIONALE

SOCIOLOGIA E POLITICA SOCIALE COLLANA DIRETTA DA P. DONATI

FRANC OANGEU

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3. Una critica sociologica pag. 634. L’uomo della sociologia » 66

4. Un esempio di sociologismo: le teorie della riprodu­zione sociale____________________________________________ »_____ 69

1, Premessa; la tematizzazione____________________________ »_____63u — —a » -----------------------------------------------------------------------------------------

2. Lo spirito delle presenti «tesi» >» 773. Approcci e definizioni » 80

3.1. La teoria critica della società » 803.2. L ’etnometodologia » 823.3. Lo strutturalismo (marxista) » 833.4. Il neo-positivismo marxista » 853.5. Il neo-positivismo interazionale » 853.6. Teorie sistemiche » 86

4. Due paradigmi ideal-tipici sulla riproduzione sociale e loro confronto con la realtà empirica » 89

5. Le nuove tesi sulla riproduzione sociale » 976JSommari.Q_______________________________________________ n_____ 11M)

5. Finalità teoretiche e finalità pratiche della sociologia:i quadri mentali » 103

1. Premessa: le due finalità della sociologia » 1032. Aspetti gnoseologici (di critica della conoscenza) » 1063. Aspetti epistemologici ed etico-pratici » 1144. La conoscenza sociologica » 117

6. Un esempio applicativo: la nuova sociologia dellasalute (epistema, paradigma e pragmatica sociale) » 127

1. Il problema, ovvero l’identificazione dell’oggetto » 1272. Il concetto sociologico di salute da Durkheim a Parsons

e oltre » n i3. Il ribaltamento della sociologia tradizionale della medi­

cina nel paradigma nominalistico » 1544. Gli attuali approcci alla salute/malattia e la necessità di

un nuovo paradigma » 1614.1. L ’approccio struttural-fùnzionalista » 1614.2. L ’approccio fenomenologico » 1634.3. L ’approccio marxista » 1654.4. L ’approccio radicale » 168

5. La pratica e il processo sanitario (nella crisi del welfarestate e del suo complesso sanitario) » 175

6. Sommario » 182

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7 . 1 fondamenti della sociologia relazionale pag. 1841. Al di là della sociologia moderna e contemporanea » 1842. Risposte ai tre interrogativi di fondo » 1873. Le caratteristiche della sociologia come disciplina » 194

«aperta»4. Precisazioni finali sulla natura e sulle procedure

dell’approccio relazionale (epistema, oggetto e metodo) » 1994.1. L ’epistema del realismo critico relazionale » 1994.2. L’oggetto della sociologia relazionale » 2044.3. Il metodo della sociologia relazionale » 208

5. Sommario » 215

8. La sociologia relazionale come quadro concettuale diriferimento generalizzato » 217

1. Quale sociologia? Il problema della scelta fra differentisociologie » 217

2. La sociologia come disciplina teorico-pratica «raziona­le» » 223

3. La «realtà» del sociale » 2284. Il posto della relazione sociale nella teoria sociologica » 237

4.1. Un oggetto ancora sconosciuto » 2374.2. Problemi di definizione » 243

5. Un programma di lavoro » 244

Bibliografìa contemporanea di riferimento » 253

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PREFAZIONE ALLA SESTA EDIZIONE

La sesta edizione di questo libro merita qualche precisazione, an­che perché il testo rimane invariato rispetto alla seconda edizione (1986). Il volume fu pubblicato nel 1983 come una sorta di "Mani­

festo della sociologia relazionale ”, anche se allora pochi se ne ac­corsero. Ripresentandolo nel 2002, credo sia interessante e doveroso esplicitare in sintesi i punti essenziali di quel Manifesto.

1. La sociologia relazionale nasce quando ci sì rende conto che "la società’’ non è una cosa materiale, né un sistema più o meno

preordinato, o un prodotto di azioni individuali, ma u n ’altra cosa. Che cosa? La risposta è qui che "la società è relazione ”, qualora la relazione sia concepita non come una realtà accidentale, secondaria o derivata da altre entità (individui o sistemi), bensì come realtà sui generis. L ’affermazione può sembrare ovvia, ma non lo è per nulla ove sia intesa com e presupposiz ione ep is tem ologica genera le e si abbia coscienza delle enormi implicazioni che da essa derivano. Tutti i sociologi parlano di relazioni sociali (Marx, Durkheim, We­ber, Simmel), ma nessuno compie l ’operazione che viene presentata in questo testo.

2. La sociologia relazionale non intende essere una sorta di "ponte" fra le sociologie esistenti, e neppure intende proporre un m ix fra le tante forme di individualismo e olismo metodologici. Non è una fumosa "terza via”. E una prospettiva nuova e autonoma che può essere denominata "teoria relazionale della società ” in quanto costruisce un f ram ew ork generalizzato per la ricerca sociologica, che è anche un programma di ricerca empirica, basato su un ap­proccio, un paradigma metodologico e tecniche specifiche che por­tano a generalizzazioni teoriche ed empiriche situate.

3. Come tale, la sociologia relazionale aspira a mettere in luce ogni parzialità e riduzionismo, a favore di una conoscenza com pren ­dente e aperta a tutti gli apporti che le teorie sociologiche "parziali ”

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possono offrire. Ciò deriva precisamente dal fatto di essere “rela­zionale ", e di esserlo sia nelle presupposizioni epistemologiche, sia nella metodologia, sia nella pragmatica (o applicazione pratica).

In breve, la sociologia viene qui presentata come scienza sociale nella sua massima generalità, e al contempo come disciplina specifi­ca. Proprio perché ha come oggetto la relazione sociale in quanto tale, essa è in grado di distinguere e di connettere le varie discipline sociali (economia, scienza politica, antropologia, psicologia), men­tre marca nettamente i suoi confini con la filosofia, alla quale pure si relaziona. Neppure le discipline storiche vengono escluse dal fra- mework relazionale. Siccome le relazioni sociali hanno un loro "tempo", la sociologia relazionale contribuisce a chiarire come e

perché la conoscenza sociologica sia intrinsecamente storica. Per questo, la sociologia relazionale non rinuncia all ’apporto degli au­tori cosiddetti “classici ", ma al contempo non si fa imprigionare dai limiti delle loro teorie (condizionate da un ’epoca in cui l ’idea di so­cietà coincideva più o meno con quella di stato-nazione e la visione del cambiamento sociale con l'idea di modernizzazione occidentale). Le basi teoriche qui presentate sono state ulteriormente approfondi­te, giustificate e verificate sul piano sociologico in una serie di opere successive, sia teoriche {Teoria relazionale della società, Angeli, 1991), sia empiriche ^Giovani e generazioni, il Mulino, 1997; La cittadinanza societaria, Laterza, 2000; La società civile in Italia, Mondadori, 1997; Lo Stato sociale in Italia, Mondadori, 1999; So­ciologia del terzo settore, Carocci, 1996; Il lavoro che emerge, Bol­lati Boringhieri, 2000). Non è questa la sede per fare un bilancio di tutto ciò, né dare un giudizio su dove la sociologia relazionale sia arrivata.

Nel riconsegnare alle stampe questo volume, l ’intenzione è quella di mettere nelle mani dello studente uno strumento semplice, di pri­mo accesso alla disciplina sociologica, nello spirito di una cono­scenza sociologica che non intende rifiutare nessuna teoria, né "unificare” tutte le teorie sotto un'unica bandiera, ma prenderle tutte in considerazione e soppesarle al fine di valorizzare quelle ve­rità, anche parziali, che ciascuna di esse contiene.

Bologna, marzo 2002Pierpaolo Donati

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IN T R O D U Z IO N E

N O N UNA S O C IO L O G IA IN PIO, MA UN SENSO N U O V ODI FARE S O C IO L O G IA

1. Scopo del libro

Questo testo è nato dalla necessità di introdurre chi studia la sociologia (sia la disciplina generale che le sue specializzazioni par­ticolari) ai quadri mentali della conoscenza sociologica. È quindi un testo di introduzione con uno scopo essenzialmente didattico. Esso si rivolge allo studente che sente il bisogno di rispondere all’interrogativo « che cosa è la sociologia? » non già per riguardo ai suoi autori o alle sue tematiche o alle sue parti costitutive, ma nella sua propria « natura scientifica ».

Sugli autori classici e contemporanei e sulle tematiche affrontate dalla sociologia esiste una bibliografia immensa, anche se la qualità dei testi lascia spesso molto a desiderare: non è scopo, neppure secondario, di questo scritto cercare di riassumerli.

L ’intento che guida questo saggio è fondamentalmente di tipo epistemologico, ossia è quello di collocare la sociologia nel quadro delle scienze (in particolare deH’uomo). Si comprenderà il testo, per­tanto, ponendosi nell’ottica del suo interrogativo di fondo: quale (tipo di) conoscenza ci offre la sociologia? Un interrogativo che nel senso comune ne attrae subito un secondo, strettamente legato al primo: quale rilevanza (conseguenza, valore, utilità) ha la conoscenza sociologica sul piano pratico?

L ’impostazione del testo è dunque nel senso di chiarificare cosa si deve intendere per sociologia come disciplina teorico-pratica. G iac­ché questo è sempre il primo interrogativo di chi si accosta, per desi­derio proprio o per dovere, alla sociologia. Nella mia esperienza di­dattica, del resto, ho dovuto constatare come, lo studente che inizia un corso o che si accosta a un « discorso sociologico » (per esempio i»*

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una conferenza) non si chieda quasi mai — per prima cosa — : « che conoscenza mi dà la sociologia? », ma molto brutalmente: « a che serve la sociologia, il discorso sociologico, la ricerca sociologica e, alla fine, a che serve il sociologo? ».

È duro chiedere a una persona pressata da un problema pratico di fermarsi un momento a riflettere. Ma farò così. Chiederò a tale persona che si soffermi innanzitutto a considerare quale specifica conoscenza può darci la sociologia: questo è « il » problema priori­tario, perché le possibilità pratiche della disciplina deriveranno ne­cessariamente dal modo in cui verrà « risolto » 1 il primo problema, e cioè dalFindividuazione dell’oggetto e del metodo propri della so­ciologia, che qui verranno definiti in ultima analisi secondo l ’approc­cio del « realismo relazionale ».

Una volta compreso « l ’atteggiam ento» teorico con cui guardare alla sociologia, si riprenderà in mano il problema pratico, che giocava da premessa dello stesso interrogativo teorico (conoscitivo, gnoseo­logico), e si risponderà che la sociologia ha anche un aspetto p ra­tico molto consistente. La sociologia reclama delle precise pretese sul piano operativo (che ancora qualcuno tende a ignorare). Tali pretese consistono nella necessità non soltanto di chiarificazione del­le « barriere sociali » e delle « difficoltà situazionali », così come degli altri determinismi sociali (effetti strutturali, emergenti, perversi), ma anche di evidenziazione delle possibilità di dar corso a l l’azione so­ciale, la quale ha sempre valenze morali (e perciò politiche) sia nelle sue premesse che nei suoi esiti storici. A queste pretese, che certo sono tanto spesso falsate, mistificate o distorte, occorre dare un fondamen­to oggettivo. Ed ecco perché l ’aspetto conoscitivo è stato posto a fon­damento del problema pratico, e quindi perché si è definita la socio­logia come disciplina teorico-pratica.

2. L’intimo « nodo » della sociologia come scienza dell’uomo

Una volta chiarito lo scopo principale dell’opera, che è essen­zialmente didattico, vorrei evidenziarne il « filo rosso » che corre tra le sue righe. Questo « filo rosso » consiste nell’esigenza di reintrodur­re l’uomo e la realtà umana tutta intera nella sociologia. Non mi si fraintenda. Una disciplina particolare come la sociologia non può che affrontare aspetti specifici della realtà: ma una cosa è se questi aspetti sono lasciati a sé, parcellizzati e frammentati (e quindi estra­niati), con il continuo rischio di costituire l ’unico orizzonte della co­

1. « R iso lu z io n e » come riduzione sensata di alternative possibili.

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noscenza e della pratica sociale, e un 'a ltra cosa è se sono ricondoni sempre alla loro ragione di essere, che fa sì che la conoscenza, pur parziale e settoriale quanto all’oggetto e al metodo, sia inscritta e rap­portata ad un criterio di interezza.

Ritengo infatti che il problema di fondo da cui una introduzione alla sociologia deve partire sia precisamente il seguente: che la socio­logia specificatamente moderna, quella che si è costituita in forma autonoma, (e che è identilicabile, in prima approssimazione, anche se non senza riduzioni, con quella positivistica che va da Comte a Durkheim) nasce e si sviluppa sul terreno di un dualismo filosofico precondizionante. sorto già con Cartesio, che oppone fra loro l 'uomo come soggetto e l 'uomo come oggetto \ Questo dualismo persiste tuttora nella separazione fra sociologie che pongono al loro centro rispettivamente l'azione sociale oppure il sistema sociale, la sogget­tività da un lato e la struttura sociale dall’altro.

In base a tale dualismo, che è stato ed è tuttora una condizione al contorno non rimossa che storicamente delimita il campo dell 'os­servazione sociologica e della pratica sociale, l ’uomo appare nella sociologia essenzialmente come oggetto, come « attore » di un siste­ma sociale, come prodotto delle strutture e delle situazioni. E ciò perché l’uomo come soggetto, come agente o sostrato di azioni so­ciali. come portatore di una unica e irriducibile soggettività, è stato posto — per un assunto iniziale di tipo filosofico, non sempre espli­citato — nel campo del « non scientifico », quando non dell'irrazio- nale, con la conseguenza che anche tutte le forme primarie di vita sociale a base naturale (ad esempio la famiglia) vengono a cadere nella stessa sfera dell 'irrazionale (a meno che non si riesca a rintrac­ciare qualche fattore deterministico, per esempio di tipo biologico o economico, che le renda « plausibili »).

Chi ha voluto reintrodurre il soggetto umano nella sociologia (il che accade particolarmente con M. Weber, sempre pei stare sul piano didattico) si è trovato a sviluppare « altre » sociologie, a lungo sospettate e ancor oggi in odore di essere simpliciter non scientifi- fìche (quelle stesse sociologie che la cosiddetta gente comune re­puta solo chiacchiere, perché non hanno i caratteri delle scienze naturali, ossia non sono « precise », il che vuol dire traducibili in « misure », trascrivibili in manuali, sperimentabili nei laboratori o nelle cliniche o in luoghi similari). Così alle sociologie positiviste e razionaliste si sono venute opponendo le sociologie cosiddette ermeneu­

2. Su questi aspetti, particolarmente i l luminante è l’analisi svolta da Fou­cault (vedi bibl >.

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tiche, fenomenologiche, critiche e via dicendo. E ben vero che queste ultime si sono espresse sovente in modi estranei alla razionalità scien­tifica (così come è codificata nella cultura occidentale), dando peraltro luogo ad esiti anarchici, surrealisti, nichilisti e così via. Ma è indub­bio il loro significato e la loro tensione etica e politica, che è quella di recuperare l ’uomo nella sua interezza e, per così dire, nella sua « so- vrafunzionalità ». Al punto che oggi qualcuno punta su una nuova « sociologia umanistica » abbandonando la sociologia già costituita (quella accademica, di impianto funzionalista) al suo proprio « pec­cato originale ».

L ’intento di questo lavoro non è quello di percorrere quest’ultima strada. La sociologia relazionale non è una sociologia in più. Non è il tentativo, seppure generoso, di creare una nuova corrente o un nuovo approccio « umanizzante » al fianco di altri giudicati perdenti o ingua­ribili. È invece piuttosto il tentativo di rileggere quanto la sociologia ha detto e prodotto nella sua tradizione disciplinare secondo una nuo­va ottica, interpretativa ed esplicativa al contempo, che lega fra loro l ’uomo come oggetto e come soggetto, il sistema sociale e l ’azione sociale, la s truttura e la soggettività. La sociologia relazionale è la proposta di superare l ’attuale divisione fra sociologie azioniste e so­ciologie sistemiche mostrando la loro parzialità e riduttività. Ma non è in nessun modo il « ponte » o il « mix » fra le une e le altre. È— se si vuole — un nuovo atteggiamento teorico-pratico di fondo, un nuovo punto di vista prospettico che, criticando le parzialità e ri­duttività delle singole e diverse teorie sociologiche, tutte le rivalorizza ab imis, e può far questo solo in base alle proprie premesse e alle proprie tesi che affondano le radici in una gnoseologia e in una episte­mologia definibili come « realismo critico relazionale », il quale ri­parte là dove il dualismo filosofico moderno ha scisso l ’uomo e la realtà sociale umana in due tronconi opposti, in due mondi artifi­cialmente separati e sconnessi. La chiave di volta di questa ricostru­zione sta nel ripensare l ’oggetto proprio e specifico della sociologia che è la relazione sociale, ossia la società intesa come campo di sog­getti individuali e collettivi inter-relati. Risolvere questo intimo « no­do » della sociologia è dunque il « filo rosso » del libro e insieme il senso delia sociologia relazionale.

Per dare una legittimità accademica a questo proposito avrei do­vuto (e voluto) basarla sull’esame attento dei principali sociologi moderni e contemporanei, per mostrare quella che ritengo la più si­gnificativa e sorprendente convergenza fra i vari tipi di sociologie si­nora sviluppate, ossia l ’identificazione della relazione sociale come „ambito proprio e autonomo della disciplina. Ma una tale impresa

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eccede i miei limiti, anche quelli di tempo e di spazio, e forse un giorno potrò affrontarla magari limitandomi a mostrare tale con­vergenza in alcuni classici (Marx, Durkheim, Weber, G. Simmel), nei più recenti M. Scheler, Th. Adorno. L. Wittgenstein, A. Schiitz, T. Parsons, e nei contemporanei Habermas, R. Boudon, A. Giddens, che sono appunto i principali autori cui mi rifarò in queste pagine. Ma per ora questa analisi deve rimanere nel limbo delle cose non dette.

Posso però aggiungere che essa è in linea con la riflessione di A. Giddens laddove questi fa osservare che l’acquisizione più significativa del moderno pensiero sociale non sta tanto, come ha sostenuto T. Par­sons, nel concetto di « interiorizzazione dei valori » elaborato per vie indipendenti da Durkheim e da Freud, quanto piuttosto nella « consa­pevolezza della fondazione sociale (e linguistica) della riflessione sui contenuti dell’io, raggiunta autonomamente, percorrendo vie diverse, da Mead, da Wittgenstein e da Heidegger (nonché, sulla scia di que­s t’ultimo, da Gadamer) » (Giddens, 1979a, p. 21, corsivo dell’autore). La logica della « interiorizzazione dei valori » è infatti ancora una lo­gica positivistica (come verrà definita nel cap. 1), mentre è realistica e critica in senso relazionale l ’osservazione che la riflessione sui conte­nuti de ll’io ha una « fondazione sociale », sempre a patto — s ’intende— che i suoi svolgimenti evitino il re la tiv ismo3 e assumano l ’io nella sua libertà ontologica \ senza con questo cadere nel soggettivismo.

3. La contrapposizione fra sociologie dell’azione e del sistema sociale: l ’approccio relazionale

Questo testo avanza dunque, anche se in modo ancora molto mo­desto, la pretesa di offrire una primi* introduzione all’approccio rela­zionale come quello più appropriato — quello, per così dire, « con­naturale » — alla sociologia. Mi corre dunque l ’obbligo di spendere qualche parola per elucidare già in partenza il senso e la logica di questo approccio.

Solitamente il fenomeno sociale umano (i due termini non sono scindibili in sociologia) si trova sottoposto a due interpretazioni dif­ferenti, molto spesso di fatto opposte:

a. da un lato può essere ricondotto ad orientamenti di valore e normativi de\V individuo (non in quanto personalità in se stessa,· ciò

3. Pericolo che G iddens avverte (I979a, pp. 205-210) e coerentemente di chiara di voler evitare.

4. Cfr. Aa.Vv., Teoria e prassi, numero speciale di « Incontri culturali », a XI. n. 1-2. 1978.

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che è piuttosto oggetto della psicologia, ma in quanto agente sociale), di un individuo che è immerso in una certa cultura o sub-cultura (si pensi, ad esempio, alle ricerche di M. W eber sull’etica protestante come fattore propulsivo del capitalismo);

b. da l l’altra il fenomeno sociale può essere ricondotto a dati strut­turali, alla situazione e alle istituzioni, cioè alla rete degli status-ruoli e delle relazioni oggettive in cui vengono organizzati i processi sociali e attraverso cui le posizioni degli individui e dei gruppi e sotto­gruppi vengono differenziati (si pensi ad esempio a certi aspetti delle analisi di Marx sulle strutture di classe oppure allo studio di Simmel sulle coalizioni nelle triadi).

Su questa base si è sviluppata la distinzione fra sociologie « azio- niste » e sociologie « sistemiche ». Le difficoltà della loro integrazione derivano dal fatto che, se l ’individuo è una realtà concreta osservabile ( l ’tfrts realissimum della sociologia), la stessa cosa non si può dire delle relazioni sociali strutturali o sistemiche, colte per via di astrazio­ne e tipizzazione. Per conseguenza la teoria della società è divisa in 7 due paradigmi in competizione fra di loro, che ovviamente hanno im­plicazioni metodologiche particolari e differenti.

a. Da un lato, il paradigma teoretico deM’azione sociale, che è basato sulla conoscenza sociale « comprendente » (il che non significa ipso facto empatetica o intuitiva) degli agenti individuali, la qua­le cerca di render conto del mondo sociale adottando una prospet­tiva interna di indagine che concepisce la realtà come realtà simbolicamente strutturata, cioè come « mondo vitale » intrin­secamente significativo perché intersoggettivo.

b. Dall’altro, il paradigma teoretico sistemico, che si presenta come analisi dei rapporti strutturati e istituzionalizzati del mondo so­ciale, e quindi adotta una prospettiva esterna, quella che cerca di spiegare i nessi e le regolarità non intuitive dei processi di azio­ne produttivi di ordine sistemico a prescindere dalle soggettività coinvolte.

Da Marx in poi (filosoficamente da Cartesio in poi), la storia della teoria sociale si sviluppa come biforcazione di questi due grandi pa­radigmi. Per cui sembra che il sistema sociale e il mondo vitale non possano essere integrati in una concezione unitaria, o anche soltanto « a due gradini » (two-step), che permetta di porli in connessioni si­gnificative, necessarie ed esplicative, fra di loro. 11 più grande tentativo

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di trovare una reciproca integrazione è- stato senza dubbio quello di T. Parsons. Ma anche questo tentativo è incorso in gravi deficienze e viene oggi sottoposto a radicali revisioni, in sostanza perché ha privilegiato il sistema sociale (e la * filosofia » sistemica) rispetto al mondo vitale (e quindi ai problemi di legittimazione in base al « senso ») \

La sociologia relazionale è precisamente il tentativo di riconnet­tere questi due paradigmi a partire non da una nuova teoria ma dalla stessa realtà sociale, che è supposta non solo esistente in sé e intcllegibile. ma essa stessa compenetrala di azione e di sistema, di spontaneità-familiarità e di routine-stereotipizzazione. L'integrazione sociale (di mondo vitale) e l ’integrazione sistemica (dei rapporti so­ciali obicttivati) non sono due realtà discrepanti o addirittura incom­mensurabili, ma sono realtà compenetrate e compresenti poste in rela­tiva continuità fra loro, e di cui si può dare conto in termini com- prensivo-esplicativi. Per legittimare queste asserzioni sarà però neces­sario puntualizzare il fatto che le premesse epistemologiche debbono oggi andare oltre i limiti sia del razionalismo che dall’empirismo (e per conseguenza sia ddl'epistemologia kantiana che di quella hege­liana e marxista),per non parlare dei vari compromessi pragmatistici, onde recuperare un fondamentale atteggiamento di « realismo critico ».

In effetti, la situazione sociologica odierna è caratterizzata dal fatto che alcuni (t razionalisti) attribuiscono al concetto di sistema sociale un carattere puramente formale e analitico*; altri (empiristi) tendono invece a materializzare o sostanzializzare la struttura socia­le in senso empirico forte 7; altri ancora (pragmatisti) usano tali con­cetti in senso puramente metodologico senza farne una questione gno­seologica (e ontologica). In ogni caso, il risultato cui si perviene è una distinzione d d l ’atto sociale in (/) azione sociale se e in quanto l ’atto è descritto come finalizzato (ossia c ’è un individuo agente che opera per propria singolare intenzionalità) e in (li) comportamento sociale se e in quanto l'azione non è descritta come atto finalizzato bensì come atto determinato da certi fattori antecedenti, ossia in quanto

5. Per dirla con Habermas (1981). Parsons è rimasto prigioniero della tradi­zione positivista. il che lo ha porlato a reificare il mondo vitale. Habermas, dal canto suo, manca però di evidenziare il fallo che il fallimento della teoria par* sonsiana deve essere ricondotto ai suoi limiti epistemologici, segnatamente a quel neo-kantismo che neppure Habermas riesce a superare.

b. Oltre alle sociologie formaliste <L. von Wiese) c ami-sistemiche (per es.I. Baudrillard) è il caso anche di quel funzionalismo che rifiuta di altribuire una priorità causale ai vari fattori in gioco nella spiegazione del fenomeno sociale e si attiene al principio deir individualismo istituzionalizzato.

7. Cfr. per es. Bauman. 1980. Come vedremo, per i marxisti vi è una prio­rità logica e storica della struttura (ovvero del sistema).

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l ’individuo agisce come attore di un sistema funzionale, conforman­dosi semplicemente agli obblighi di ruolo o a certe costrizioni soc ia l i8. T ra i due aspetti (il fenomeno in quanto azione e in quanto comporta­mento) manca comunque l'integrazione sia teorica che pratica.

Ecco: la sociologia relazionale tende a dare una sua precisa rispo­sta a questo problema, certo molto più complesso di quanto qui non appaia per le implicazioni che ha proprio sulla natura, sul senso e l 'operare della sociologia. Cosa dice in pratica la sociologia relazionale? Essa afferma che:

— contrariamente alla prima posizione (di tipo individualistico op­pure formalista), al fenomeno umano in quanto sociale deve essere attribuita una realtà collettiva (una realtà sui generis) che è la rela­zione stessa, in quanto è certo messa in atto dai soggetti in intera­zione, ma è modellata anche secondo elementi che non dipendono Ja questi stessi soggetti (ovvero dai soggetti che l ’osservatore analizza in una certa situazione); si deve pertanto parlare di «effetti strutturali » come realtà non riconducibile all’in d iv id u o 9;

— contrariamente alla seconda posizione (materialistica), il fenome­no umano sociale non è però sostanzializzato nel suo aspetto rela­zionale, al punto da far agire le strutture come attori indipendenti dai soggetti che le incarnano in una certa situazione; infatti gli aspetti sistemici (strutturali, o « ecologici » o di aggregato o di composizione) operano come rappresentazioni simboliche nei e per il tramite degli stessi soggetti sociali; la realtà sociale è dun­que ontologicamente derivata, anche se empiricamente può essere antecedente e logicamente prioritaria rispetto al singolo caso os­servato-,

— infine, accetta il punto di vista metodologico (che include il consi­derare la distinzione analitica secondo la quale in ogni fenomeno c ’è sempre un aspetto culturale-soggettivo e uno strutturale o siste- mico-oggettivo); e tuttavia l ’approccio relazionale ritiene che l ’attoo il fenomeno sociale prima di essere « spiegato » sul piano causale (attraverso procedure quantitative) vada « compreso » soggettiva­mente come « intenzionale » nell’agente (o agenti); e ciò anche

8. Così, per cs., Boudon, 1981, p. 181.9. Per « effetto strutturale » si intende l ’effetto che la coscienza sociale di un

gruppo (come autorappresentazione collettiva di una certa situazione o contesto, linguisticamente trasmessa) esercita sui membri del g ruppo indipendentemente dagli orientamenti di valore (credenze, fini propri) interiori degli stessi individui che fanno parte del gruppo (cfr. Blau, 1960).

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nel caso di un puro « comportamento di ruolo » o di un comporta­mento « coatto » (cioè assoggettato a costrizioni sociali « totali »). Per fare « questa » sociologia, l’approccio relazionale individua

alcuni assunti che giocano anche sempre come premesse della ricerca empirica. Qui mi limito a indicarli.1. Si deve considerare sempre l ’atto e l ’attore sociale come fenome­

no e come agente sovrafunzionali (essi, cioè, non sono « spiegabili » mai soltanto in base alle funzioni che sembrano assolvere in una data situazione o contesto): si deve dunque assumere un atteg­giamento anti-riduzionistico.

2. La realtà sociale è analizzabile in termini strettamente causali solo in condizioni particolari, cioè laddove e solo laddove sia pos­sibile operare sotto due condizioni: (i) quella di poter controllare le variabili rilevanti (condizione del ceteris paribus)·, (ii) e che sia possibile stabilire senza equivoci un ordine di priorità per cui la variabile indipendente x precede logicamente quella d ipenden­te y I0.

3. Il determiniamo sociale non è mai assoluto, ma solo un caso-limite che affiora da una assenza di finalismo o da un blocco strutturale che è eccezionale piuttosto che « normale » nella fenomenologia sociale.

4. Si deve comprendere il fenomeno sociale come mi jatto relaziona­le di reciprocità (anche distorta o tendente a zero) ossia come reci­proco coinvolgimento condizionato e condizionale fra soggetti che danno vita, per il fatto stesso di inter-agire, a forme sociali di aggregazione e disaggregazione dotate di una realtà sui generis, che va incontro a tipi e gradi differenti di istituzionalizzazione e de-istituzionalizzazione. Di tutto ciò si può dare conoscenza scien­tifica se e nella misura in cui la realtà sociale, sia in quanto pro­dotto dell 'azione umana sia in quanto manifestazione della vita, (bios, come natura interna ed esterna), è intellegibile

5. L ’analisi sociologica deve, per quanto possibile, mantenere l'unità del suo oggetto come compenetrazione, interdipendenza e reciproca determinazione fra dimensioni soggettive e oggettive dei fenome­ni, il che può farlo adottando il paradigma relazionale (appro­fondito nel corso dell’esposizione e poi. in sintesi, al cap. 7).

10. Il d ibatti to sul realismo causale (contro lo s t ru m en tam m o causale) può essere qui solo ricordato e non analizzato, anche se dovrebbero risultarne chiari i termini dalla critica al nominalismo sociologico.

11. Il problema dell"intcllcgibilità dell 'azione umana, passata o in atto o potenziale, è al centro della riflessione di Schütz (1974. 1979) che per molti versi è un realista relazionale.

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4. Piano dell’opera

Lo svolgimento del lesto corrisponde alla duplice esigenza di for­nire una prima introduzione di base alla sociologia come disciplina generale e insieme di mostrare come l'approccio relazionale sia il più adeguato per raggiungere le sue specifiche finalità.

Nel primo capitolo viene introdotto il termine e l'idea di socio­logia. Particolarmente importante, a questo proposito, è l’osservare che la sociologia, in quanto· scienza moderna, si è intrinsecamente costituita su un impianto concettuale positivistico, in antitesi alle prospettive cosiddette metafìsiche o utopistiche (tra queste ultime lo stesso marxismo, che però, in quanto mutua largamente anche assumi positivistici, sta nell’un campo e nell’altro). Ora, è ovvio che i fondatori di una nuova disciplina abbiano teso a distinguersi nettamente dal pas­sato e in questo modo a rinnegare tutto quanto, di riflessione almeno indirettamente sociologica, era contenuto nei secoli (e millenni) prece­denti. Meno giustificato però è che ancor oggi questo assunto venga ri­petuto in modo acritico e stereotipato, come quando si asserisce che la sociologia nasce (e può nascere soltanto) con l’emergere del « sociale » in quanto tale, cioè poi con le varie rivoluzioni moderne (illuminista, industriale, borghese), ovvero quando la società riflette per la prima volta su se stessa indipendentemente da ipoteche religiose e metafi­siche. In realtà, come ha di recente sottolineato A. Giddens (N 7 9 b ) . la sociologia del XIX secolo è solo una forma in cui può essere con­dotta. e invero in modo del tutto limitato e riduttivo, la riflessione so- etologica. La sociologia, è vero, si costituisce legittimamente come disciplina autonoma neH’Ottocento, ma ciò non significa che essa « nasca » e /o possa essere ritenuta « scientifica » a partire o entro l'orizzonte culturale di quel secolo. Un ripensamento critico della disciplina deve dunque farsi carico di relativizzare anche il « mo­mento fondazionale » come un evento particolare, non avulso dalla continuità storica di ciò che precede e di ciò che segue.

Nel secondo capitolo vengono mollo brevemente tratteggiati i prin­cipali approcci sociologici u . Il criterio peculiare di analisi qui adot­tato è rappresentato dall 'interrogarsi sul doppio livello in cui ogni approccio sociologico si pone: quello teoretico-conoscitivo e quello etico-pratico. Si vuole cioè mostrare come la sociologia, nel modo in cui di fallo si pone e opera, coscientemente o meno, è una disciplina teorico-pratica e non può essere intesa diversamente. Notevoli proble-

12. Rsistono trattati e manuali molto più ampi al riguardo, cui devo pei forza di tose rimandare, ad esempio Bollomore-Nisbel. 1478 ·

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mi sorgono sia per quanto riguarda la capacità conoscitiva di ogni ap­proccio, sia per quanto concerne le implicazioni pratiche, sia ancora per quanto attiene alla congruenza fra i due livelli anzidetti. In ultima analisi si intende mostrare la parzialità degli approcci esaminati.

Nel terzo capitolo si evidenzia il fatto che, dal confronto fra i pa­radigmi sociologici attualmente prevalenti, emerge un elemento com u­ne: la tentazione del sociologismo. In questo capitolo, pertanto, si cerca di definirne la natura, approfondendone gli aspetti sia di pretese cono­scitive che di pretese pratiche. Queste pretese vengono poi criticate e messe in relazione con l’immagine dell 'homo sociologicus.

Nel capitolo quarto si propone di analizzare le attuali teorie della riproduzione sociale come esempio concreto di sociologismo. Queste teorie si ispirano infatti ad uno schema (tuttora dominante, anche se di ascendenza idealistica e marxiana) in base al quale la società è con­cepita come un tutto chiuso in se stesso, pura opera deWhomo ¡uba. dato dai tre momenti (o sotto-sistemi come qualcuno li chiama) della produzione-riproduzione-governo, fra loro in rapporti eu/dis-l’unzionali continui, allo stesso tempo consensuali e conflittuali. Nel capitolo si cerca di mostrare la scarsa tenibilità di questo schema, che corrispon­de ad un paradigma sociologico definibile di « realismo totalitario » (che usa i concetti di produzione e riproduzione sociale in senso em- pirico-sociologista-polare), e si propone quindi il passaggio ad un nuo vo paradigma critico relazionale (in cui gli stessi concetti sono usali in senso analitico-interazionista-transazionale), nella prospettiva — ap­punto — di trattare la riproduzione sociale in termini ili relazione sociale.

Per uscire dagli attuali equivoci del sociologismo si propone quindi, nel capitolo quinto, di chiarire le finalità conoscitive e le finalità pra­tiche della sociologia alla luce della sua posizione nel quadro comples­sivo delle scienze, a l l’interno del quale viene collocato l ’approccio relazionale.

(I capitolo sesto intende fornire un esempio applicativo in positivo, l ’edificazione di una nuova sociologia della salute, avendo come base l ’approccio relazionale. Si inizia con il porre il problema della identi­ficazione dell’oggetto specifico (la salute come fenomeno sociale rela­zionale) e poi viene criticato l ’impianto positivistico (soeiologislieo) che corre da Durkheim a Parsons e che rischia di proseguire in quella sociologia tradizionale della medicina che è essenzialmente sociologia del « sistema (o complesso) sanitario », incapace di integrarsi con la prospettiva dell’azione sociale e dei mondi vitali. Non è un caso che queste ultime prospettive, non trovando spazio nella sociologia dom i­nante. diano luogo ad approcci « altri ». sovente assolutizzati a loro

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volta, che configurano quello che qui chiamo il «paradigma nomina­listico» della salute. Se si vuole capire sociologicamente un fenomeno sociale come quello della salute — questa la tesi del capitolo — oc­corre passare ad un paradigma relazionale che presuppone un suo episte­m a e implica una sua pragmatica, congruenti fra loro e corrispondenti al realismo critico relazionale.

Nel capitolo settimo, infine si esplicitano i riferimenti teoretici generali d d l ’approccio relazionale in sociologia. L’intento è quello di for­nire le coordinate, il framework, per una discipina teorico-pratica consapevole delle proprie potenzialità così come dei propri specifici assunti e dei propri limiti, sia esplicativi che operativi.

Accennando al « senso nuovo » di fare sociologia oggi, si vuole qui intendere la necessità di ripensare la sociologia fuori del dominio del­l ’economia politica, in cui è nata e di cui è sempre rimasta, in fondo, u n ’appendice. Nell’età moderna, infatti, gli oggetti della sociologia sono stati presi dal campo dell’economia e rivestiti di forme sociali. Sono stati studiati gli oggetti materiali (il benessere, la produzione e riproduzione, la salute, e così via) in quanto inseriti in rapporti sociali, non i medesimi oggetti (il benessere, la riproduzione, la salute, e così via) in quanto essi stessi fenomeni sociali, cioè relazioni sociali. Si chiarisce così, allora, anche il rapporto equivoco tra sociologia e poli­tica sociale: come la prima è stata subordinata alla economia politica, la seconda è stata subordinata alla politica economica, nella quale oggi va peraltro sempre più stemperandosi, anche per l ’inesorabile proce­dere dell’influenza culturale economicistica del capitalismo. Liberare la sociologia dal dominio dell’economia politica significa pertanto libe­rare la politica sociale dal rapporto di sudditanza che ha nei confronti della politica economica. Per fare un esempio, è chiaro che il « benes­sere » oggetto della sociologia è stato sinora il benessere così comelo ha inteso la moderna economia politica. E la politica sociale per il benessere, che domina gli attuali Stati di welfare, è stata un sottopro­dotto della politica economica. Uscire da tale situazione, peraltro assai complessa per la quantità di variabili in gioco (che qui non pos­sono neppure essere richiamate), significa in nuce ritematizzare il benessere (ed ogni altro oggetto della sociologia) non già come stato di cose o condizione od oggetto materiale inserito in certi rapporti sociali, ma esso stesso come relazione sociale, come relazione fra uomini, relazione che è — come vedremo — normatività. In ultima analisi, la sociologia studia le relazioni sociali come nessi che costan­temente congiungono l ’azione e il sistema (o struttura) sociale.

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1. S P IE G A Z IO N E DEL TER M IN E DI « S O C I O L O G I A »E CENNI SULLA F O N D A Z IO N E STORICA DELLA D ISC IPLIN A

1. Il termine e l ’idea

La parola « sociologia » è un composto linguistico per metà latino (socielas, socius) e per metà greco (logos). E evidente quindi il suo carattere artificiale e relativamente arbitrario. Storicamente appare solo all’inizio dell’Ottocento, coniato per la prima volta da A. Comte, che è stato a lungo (anche se impropriamente) considerato il « fon­datore » della disciplina medesima *.

Utilizzata già in una lettera del 25 dicembre 1824 a M. Valat, la pa­rola « sociologia » viene presentata e spiegata nell’opera fondamentale di A. Comte, il Cours de philosophie positive (Paris, 1830-1842), e precisamente nel voi. IV apparso nel 1839, in cui l ’A. afferma:« penso di dover osare, di qui in poi, l ’uso di questo nuovo termine,esattamente equivalente alla mia espressione di physique sociale, già introdotto in precedenza, allo scopo di designare con un unico nome questa parte complementare della filosofia naturale relativa allo studio positivo delle leggi fondamentali che sono proprie dei fenomeni so­ciali » 2.

All’inizio, dunque, la sociologia si pone come parte della « filosofia

1. Altri autori considerano come fondatore Saint-Simon (maestro di A.Comte), perche - a loro avviso - in tale A. si r itroverebbe già ben delineata lasociologia anche se il termine non è da lui utilizzato. Cercare il « padre fonda­tore » della sociologia è com unque un falso problema. Si tratta piuttosto di chia­rificare il senso e i percorsi attraverso cui, storicamente, la disciplina si è a poco a poco costituita.

2. Cfr. A. Comte, Cours de philosophie positive, Paris, tome IV. 1839, p. 252 nota. L'espressione « fisica sociale » era mollo in voga negli anni '20 e '30 del­l ’Ottocento e fu al centro di una forte polemica tra A. Comte e A. Quetelet (autore di un Essai de physique sociale. 1835), che la intendeva - da buon astro­nomo del tempo - in termini ancor più fisicisti di Comte.

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naturale » applicala ai fenomeni sociali. Il senso dellespressione « fi­losofia naturale » va inteso come termine apertamente polemico nei confronti di lutie le filosofie della natura precedenti il positivismo. Il significato più immediato di sociologia, dunque, conservatosi per tra­dizione di senso comune fino ad oggi, è quello di « scienza della so­cietà ». laddove il termine « scienza » viene inteso secondo i canoni della filosofia e del metodo posi t i vista : « sociologia » equivale a « fisica sociale » (ovvero fisica dei costumi, dei comportamenti e azioni umane, e così via).

Secondo l’intenzione di chi ne ha coniato il termine, la sociologia sarebbe, insomma, l ’ultima (in ordine storico) delle scienze liberatesi dai legami della teologia e della metafisica, dopo l’aritmetica, l’astrono­mia. la fisica, la chimica, la biologia. « Figlia del positivismo, essa nasce dalla volontà di liberare il sapere dalla fede e dalla speculazione metafisica» (Adorno. Horkheimer, 1966, p. 13).

La grossolanità della trasposizione di questa intenzionalità dalle scienze della natura (fisica, chimica, biologia, ecc.) alle scienze del comportamento umano è evidente. L’assunto di sfondo è quello per cui la società umana potrebbe/dovrebbe essere studiata esattamente come la natura inanimata.

Appare pertanto ridicola la pretesa di A. Comte di fare della so­ciologia la scienza più elevata, sia perché l’ultima ad umergere (e ciò che è più recente sarebbe sempre più « evoluto », più « civilizzato », più « progredito »), sia perché essa si presenterebbe come la più com­pleta (e complessa), avendo come oggetto ciò che vi è di più elevato nel mondo, cioè l ’uomo e la sua società. Invero, tale apparente esalta­zione della nuova disciplina avviene alle spese del suo stesso oggetto di indagine, l ’uomo come soggetto storico, che viene « ridotto » — co­me diremmo oggi — ad un mero « attore di sistema ». Questa (er­rata) ipervalutazione della sociologia, posta a fondamento di una nuova « morale positiva ». deriva ad A. Comte, tra le altre cause, dal­l’essere stato allievo di Claude-Henri de Saint-Simon. del quale è ben noto il messianismo immanentistico (cfr. Le nouveau chrislia- nisnte).

Va dunque sottolineato il fatto che, sin dall'inizio, l'idea di socio­logia è di matrice strettamente positivistica e che tale resterà nonostantei numerosi suoi travestimenti \ Come « scienza positivista » essa si pone precisi obiettivi e opera con precisi assunti che hanno determina*

l% b . cap I.

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te conseguenze sul piano conoscitivo e pratico. Qui di seguito ne ven­gono sintetizzati i principali obiettivi, assunti e conseguenze pratiche.

a. Obiettivi

— Oggetto è la realtìi esteriore (o fenomenica). Attenendosi « rigoro­samente » ai fatti (sociali) intende raggiungere la stessa obietti­vità di cui sono modello le scienze naturali; come nuova scienza, essa esclude — come afferma Io stesso A. Comte — « ogni vana e inaccessibile ricerca della intima natura o del modo essenziale di produzione di un qualunque fenomeno ».

— Lo scopo è stabilire le leggi che governano i fenomeni. Essa intende pervenire al riconoscimento di « leggi naturali » concepite come « immutabili ». supposto che « il moto sociale (è) soggetto neces­sariamente a leggi naturali invariabili (e non) a volontà qualsi- vogliano » (A. Comte).

— Strumento è il metodo « esatto ». La sociologia non si pone né il problema della verità (assoluta) né quello della società « giusta » (moralmente e politicamente), ma si interessa solo alla « esattezza » della constatazione ovvero alla « perfetta misurazione » del feno­meno, per mezzo del l'osservazione pura, del l ’esperimento in sen­so proprio e del metodo comparativo.

b. Assunti

Gli assunti intrinseci a tale impostazione della disciplina sono che:— in quanto « scienza », la sociologia (positivistica) è basala su una

netta separazione fra teoria e prassi (ossia fra conoscenza e coin­volgimento etico e politico):

— la teoria viene costruita su basi strettamente empirico-induttive:— le « leggi » sono supposte strettamente deterministiche, nel senso

che « non vi è influenza perturbatrice, vuoi esterna che umana, che... nel mondo politico reale possa... alterale a qualsiasi titolo le vere leggi naturali dello sviluppo dell 'umanità » (A. Comte).

c. Conseguenze pratiche

Sul piano pratico (della condotta umana), gli obiettivi e gli assunti della sociologia (positivistica) ne fanno una disciplina che ha come atteggiamento pedagogico una intrinseca tendenza all’accettazione pas­siva di ciò che accade nel mondo come frutto di una evoluzione neces-

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saria c necessitante. Possiamo dare a questa tendenza tre qualificazioni.

— La a-moralità pratica. La sociologia (positivistica) propone una « morale a-morale » nel senso che respinge ogni morale (conosci­bile per altre vie che non siano di origine empirica, per esempio per via metafisica), ma indirettamente propugna una sua « morale ». Secondo A. Comte, infatti, i fenomeni sociali non debbono essere controllati in base ad un'esigenza etica, ma debbono essere control­lati secondo il loro « decorso spontaneo ». Dato per presupposto che gli eventi seguano certe leggi che possono essere conosciute, la morale positivistica consiste nell’adattarsi ad essi. « L’impulso alla possibile trasformazione dell’essere per opera del dover essere, pro­prio della filosofìa, cedeva il passo al sobrio zelo di chi accetta l ’es­sere come dover essere » (Adorno, Horkheimer, 1966, p. 19).

— L ’a-fmalismo gnoseologico. La posizione a-morale di cui sopra discende da un assunto ontologico e gnoseologico di a-finalismo della realtà empirica. L ’ordine positivo delle cose è indagato a prescindere dalla finalità (etica) dei fenomeni. Come poi dirà E. Durkheim, il termine « scopo » o « fine » non ha posto in socio­logia, e deve essere sostituito con quello di « funzione », perché « in generale i fenomeni sociali non esistono in vista dei risultati utili che essi producono » (ossia l ’azione non esiste perché corri­sponde a una precisa utilità: il positivista Durkheim confonde qui il fine con l ’utilità, e ciò è dovuto alla polemica che egli condusse contro l ’utilitarismo, la sola versione « finalistica » allora esistente nella sociologia). Per dirla con M. Horkheimer e T. Adorno: « La grande tradizione filosofica svolgeva la dottrina della società in rap­porto a un ideale tratto dai principi assoluti dell’essere: la socio­logia invece, da quando esiste il suo nome, ha avuto u n ’ambizio­ne esattamente opposta, liberarsi come le scienze naturali da ogni teleologia e appagarsi nella constatazione dei nessi causali rego­lari » (Adorno, Horkheimer, 1966, p. 18).

— La a-criticità teoretica. Conseguente alle assunzioni precedenti, vi è l ’accettazione acritica dell’esistente come forma mentale che finisce per essere decisiva nei quadri mentali del sociologo. È noto infatti che quando si rinuncia a mettere a confronto la cosa-evento con il suo concetto, si finisce per non commisurare le cose umane a ciò che esse vogliono significare, e ciò porta alla fine a vederle non solo in modo superficiale, ma falso. La sociologia positivistica dell’Ottocen­to non ha smarrito ancora il momento della teoreticità, come accadrà in seguito. « Ma questo momento si è spezzato nella scienza sociolo-

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ni n o s t r i4. Ma soprattutto l’urgenza è dovuta al persistere dell’equivoco secondo cui sarebbe possibile una sociologia come « sapere scientifico neutro », laddove invece l 'atteggiamento razionalista (positivista) di studio della realtà sociale è sempre commisto, in forme mascherate più o meno consapevoli, con giudìzi di valore (giudizi valutativi di ordine etico e politico) sui medesimi fenomeni sociali in modo tale che le cosiddette « proposizioni di fatto » veicolano in realtà un’ideologia o una Weltanschauung senza che il recettore se ne accorga. Come vedre­mo il rapporto fra conoscenza (teoria) e prassi (valutazione della realtà in rapporto al dover essere) è il nodo cruciale — e irrisolto — della sociologia.

2. Sociologie positivistiche e non

Ci si può chiedere: la sociologia è rimasta positivistica sempre,ovvero esistono sociologie non positivistiche? Per esempio, quali rap­porti intercorrono fra sociologia e marxismo, dato che spesso, in certi stereotipi dellop in ione pubblica, essi sembrano assai vicini se non pro­prio sinonimi?

Rispondere all 'interrogativo di cui sopra non è semplice quanto sembra. Infatti, se da un lato è vero che storicamente esistono socio­logie non positivistiche (idealistiche, dialettiche, formaliste, fenome­nologiche. ecc.). da l l’altra però è molto comune che ad esse non venga riconosciuto lo status di « scienza » in tanto in quanto non adottano un « metodo positivo » di indugine. Ovvero, per dirla in altri termini, sembra prevalente l'opinione che. benché possano certo esistere socio­logie non positivistiche, queste ultime debbano necessariamente pas­sare — per essere delinite ancora « sociologie » — attraverso il pa­radigma scientifico della falsificabilità di K. Popper (1977), che è no­toriamente un paradigma neo-positivistico.

Lo status situulionis è quindi caratterizzato dal fatto che:— esistono tante sociologie quante sono le teorie filosofiche (rimon­

tando sino a Platone e Aristotele) ovverossia non esiste teoriasociologica che non sia più o meno direttamente legata a un parti­colare sistema filosofico;

— tuttavia sono ritenute specificatamente sociologiche solo quelle teorie che si basano sui canoni delle scienze che si servono del

4. C’Ir, per es. la definizione di « sociologia » in Gallino. 1978. Per una più ampia visione critica: cfr. Lorcnzen, 1974.

5 Per una storia Jella sociologia in tal senso cfr. Schoeck. 1980

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metodo positivo (cioè di osservazione e /o di sperimentazione, ri­spondenti a canoni di misurabilità, validità e attendibilità, e qu in­di di prevedibilità).

Come si può uscire da tale incongruenza? Lo scopo di questo scritto è appunto quello di rispondere a tale complesso quesito. Per anticipare quanto sarà approfondito in seguito, enuncerò subito le tesi che verranno qui sostenute.

Primo. Le sociologie esistenti sono di fatto tutte inserite in siste­mi filosofici o meglio in antropologie filosofiche, e non può essere diversamente perché il discorso è un « discorso sull’uomo ». Di fatto la stessa sociologia positivista, che vorrebbe essere la sola versione « scientifica » slegata da qualunque valore (o ideologia o filosofia), proprio in quanto rivendica al « metodo positivo » la superiorità e l ’esclusività scientifica (di conoscenza oggettiva, universalmente certa) rispetto ad ogni altro metodo, si scopre via via come dipendente da una precisa visione (riduttiva) del mondo. Tale « riduttività » non può certo scandalizzare, a patto però di rispettare due condizioni: a) che se ne sia consapevoli; b) che il tipo e il livello di riduzione cono­scitiva operata non siano tali da dare una conoscenza offuscata e /o distorta dell’oggetto indagato. Queste due condizioni impongono che le riduzioni scientifiche, pur legittime, avvengano in un sistema cono­scitivo più complesso (antropologia filosofica), pena la perdita del­l ’oggetto che pure vogliono conoscere.

Secondo. Rilevare che ogni sociologia è di fatto legata a un sistema filosofico non significa che essa non possieda un corpus di conoscenze scientifiche (cioè oggettivamente valide) autonome rispet­to ai valori incorporati nel sistema filosofico cui rimanda. Occorre, per questo, distinguere fra: a) la sociologia come scienza (positiva), che è un insieme più o meno sistematico di proposizioni verificabili sul piano storico o empirico svincolate da presupposti a-priori di or­dine ideologico; b) la sociologia come forma di sapere (o dottrina o pensiero sociologico) che consta di proposizioni o giudizi di fatto e di valore; questi ultimi esprimono valutazioni in cui — per il fatto stesso che ci si rapporta a dei valori — è presente il riferimento a un « dover essere » etico o politico. Anche questa seconda forma di co­noscenza può essere detta « scientifica », a patto però di riconoscere che essa non è fondante dei valori cui si riferisce, ma semplicemente li accetta e li riceve da altre discipline dell’uomo.

Terzo. In sostanza, la sociologia è una disciplina teorico-pratica. Non può essere puramente speculativa, né puramente pratica, ma è

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invece una disciplina di congiunzione. Essa è dunque « conoscitiva in ordine a l l’agire umano ». Come « scienza » essa possiede u n ’autono­mia e non può non essere rapportata ad una visione filosofica d d l 'u o m o .

La risposta alPinterrogativo iniziale è dunque questa: esistono cer­tamente sociologie non positiviste e anzi è sociologia autentica solo quella che, basandosi su un metodo positivo, sa riconoscere di essere legata ad una antropologia filosofica che non può fondare da sé, ma semmai solo riconoscere e accettare come giustificata e razionale per­ché congruente con (ma non mai riducibile a) il « metodo positivo ».

Come si colloca, allora, per fare un esempio, il marxismo rispetto alla sociologia? I rapporti sono molto complessi, e per certi versi anzi contraddittori perché:— storicamente, tra sociologia e marxismo vi è un’antitesi radicale,

in quanto il marxismo (dialettico) accusa la sociologia (positivi­stica) di essere una mera razionalizzazione conformistica dell’esi­stente; l ’accusa, evidentemente etico-politica prima di tutto, è quel­la di essere una scienza rassegnata e passiva rispetto alla realtà, cioè alle forme di dominio e di ingiustizia dell’ordine sociale « dato »;

— filosoficamente, invece, vi è una certa (ampia) sovrapposizione in quanto sia la sociologia positivistica che il marxismo: a) soffrono di « realismo totalitario » (o materialismo) in quanto « sostanzializ- zano » la società, e b) soffrono di storicismo evoluzionistico, in quanto entrambi si affidano a (pur differenti) « leggi di progresso dell’umanità ».

Nonostante la radicale antipatia del marxismo per la sociologia, gli aspetti di convergenza fra i due sono venuti aum entando nel corso del XX secolo, tanto che si è sviluppata quella che oggi si suole chia­mare la «sociologia m arx is ta» (Bottomore, 1977, Podgorecki, 1978), la quale mantiene un equivoco compromesso fra componente dialettica (propria del marxismo come filosofia) e componente organicista (pro­pria del marxismo come metodo positivista).

Dovendo esprimersi sinteticamente si può dire che il marxismo offre una sua prospettiva (dottrina) sociologica che è molto vicina alla sociologia positivistica sotto l ’aspetto conoscitivo di analisi della real­tà, ma vi innesta sopra una carica utopica (dialettica e critica) che ha una direzione opposta a quella del positivismo, nel senso che ten­de a « rivoluzionare » la realtà anziché adattarsi ad essa.

Secondo la maggior parte degli studiosi di storia del pensiero sociologico, comunque, marxismo e sociologia dovrebbero essere te­nuti nettamente distinti, in quanto la sociologia classica dell’Ottocen­

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to nasce proprio per reazione al marxismo come filosofia e come ideo­logia (Durkheim, Pareto, Weber, contro Marx). In merito a questa tesi, si deve osservare che l ’interpretazione della sociologia come scienza nata per opposizione totale a Marx è una interpretazione pa r­ziale: sia perché la sociologia precede in qualche misura Marx sia soprattutto perché anche i sociologi cosiddetti classici (Durkheim, Toennies, Pareto, W eber e altri) sono d ’accordo su molti punti (e non solo metodologici ma anche filosofici) con Marx, anche se ne respingono la posizione etico-politica di fondo.

Da ultimo, quindi, si deve ricordare che la sociologia come « scien­za » ha un suo statuto epistemologico specifico e che, in tal senso, essa si oppone al marxismo così come ad ogni forma di ideologia che voglia condizionare a-priori l ’accostamento « oggettivo » alla realtà sociale.

3. Una periodizzazione storica

Se si intende veramente fare un discorso critico intorno alla socio­logia, è utile e necessario guardare più a fondo le origini e i fondamenti storici della sociologia. In altri termini, occorre relativizzare l ’imposta­zione tradizionale che si concentra tutta sull’Ottocento, risalendo al più al secolo X V III . Bisogna recuperare tutto l 'arco storico del pensie­ro sociologico (cfr. in tal senso Schoeck, 1980).

Per ragioni di brevità, possiamo distinguere quattro periodi storici.

I. Il periodo pre-moderno (grossomodo fino al secolo XVI)

In questo periodo il « pensiero sociologico » è contenuto nelle « dot­trine filosofiche della società ». La forma in cui la sociologia si presenta è quella di una filosofia sociale e politica. La forma filosofica in cui si esprime ha il vantaggio di dare alla sociologia quella connotazione di « antropologia sociale » che ancora mantiene u n ’idea di uomo, sino ai nostri g io rn i6. L ’aspetto non scientifico è dato dal fatto che molte pro­posizioni (o giudizi) di fatto riflettono dei pre-giudizi, ossia non si con­frontano con la realtà, empirica o storica, obiettivamente esistente. Sa­rebbe errato, tuttavia, pensare che in questo periodo non si dia alcuna analisi sociologica dotata di un suo statuto scientifico. Lo studio delle costituzioni delle città greche in Aristotele, per esempio, è un modello

6. Per esempio nell’approccio sociologico di L. Sturzo. Per un panoram a di tale pensiero cfr. Barbano. 1971; Morra (a cura di), 1979.

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classico di analisi sociologica comparativa che si basa su strumenti descrittivi e morfologici (De Laubier, 1980). anche se — ovviamente— non senza difetti. Un altro esempio di analisi sociologiche è rinve­nibile nelle opere storiche di Ihn Khaldun.

II. Il periodo proto-sociologico moderno (dal secolo XVII al secoloXVIII)

In questo periodo si forgiano le premesse filosofiche e in parte anche metodologiche della sociologia moderna.

Dal punto di vista filosofico vi è la nota scissione fra pensiero ra­zionalista (Cartesio) e poi idealista (Hegel) da un lato, e pensiero empirista dall 'altro (da Bacone a Locke). La sociologia non potrà non risentire di questa scissione nel suo impianto gnoseologico ed episte­mologico. Già a cavallo fra il Settecento e l ’Ottocento abbiamo proto­sociologi ad indirizzo razionalista e altri a indirizzo empirista. Di fallo la sociologia ha i suoi prodromi nel clima dell'illuminismo, prima di prendere il suo avvio « scientifico » con il positivismo.

L’autore sociologicamente più interessante del periodo illuminista è Montesquieu 1.

III. Il periodo moderno (secolo XIX)

La sociologia moderna in senso proprio nasce allorché « la società si coglie come prodotto della sua stessa azione » \ Cioè allorquando le istituzioni sociali (famiglia, città. Stato, ecc.) non sono più viste come « forme naturali » (secondo l’espressione di Aristotele), ma come costruzioni dell 'uomo storico. La nuova regola. Dosta a fondamento della nuova scienza, è quella di spiegare il sociale con il solo sociale, cioè di dare ragione completa della condotta umana in base al puro sistema di relazioni (storiche, contestuate) di cui fanno parte.

Il principio che sta a fondamento dell’analisi sociologica è in se stesso ambiguo perché, in generale, viene enunciato senza specificare se si tratta: a) soltanto di un particolare punto di vista da cui si guarda la realtà (aspetto formale), oppure b) di una analisi che intende defi­nire il processo in se stesso nelle sue proprie e vere cause (materiali o sostanziali). La sociologia deH'Oitocento, in realtà, si esprime in genere in questo secondo senso, e ciò fa si che essa si connoti sovente di riduzionismo materialista.

7. Cfr. il capitolo su questo autore in Aron. 1972.8 Cosi secondo Touraine, 1975, p. 75.

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IV. Periodo contemporaneo (secolo XX)

La sociologia post-moderna o contemporanea (grossomodo suc­cessiva alla prima guerra mondiale) è caratterizzata da una relativiz- zazione delle pretese materializzanti e positivistiche del periodo pre­cedente. Si tende qui a dare più spazio alla soggettività e insieme al carattere più probabilistico (non strettamente causale in modo lineare e sostanzialistico) dei fenomeni sociali.

Se la sociologia dell’Ottocento aveva enfatizzato il fatto che i processi sociali non devono essere spiegati in base a fattori extra o meta-sociali (come la natura, la coscienza dell’uomo, Dio), ma pura­mente sociali, era d ’altra parte incorsa in un evidente determinismo (più o meno) meccanicistico secondo cui certi fattori sociali avrebbero il dominio sull’intera vicenda um ana e storica della società. 11 periodo contemporaneo non respinge l ’impostazione anti-metafisica dell’O tto­cento (e pertanto resta fondamentalmente positivista), ma relativizza anche la portata delle s trutture e leggi di statica e dinamica immanenti alla società.

Per dirla nella sua formulazione più recente, il principio fonda- mentale de ll’analisi sociologica contemporanea afferma che il senso delle condotte umane deve essere spiegato non già attraverso la co­scienza dell’attore o attraverso la situazione in cui si trova, ma attra­verso le relazioni sociali interattive nelle quali l ’attore è implicalo (Touraine, 1975, p. 23). Di per sé questa formulazione (che è certo più accettabile del positivismo ingenuo dell’Otlocento) può non essere errata, m a a patto di specificarne gli assunti, gli obiettivi e il modo di essere applicata. Soprattutto, come vedremo, occorre non sostanzializ- zare la relazione sociale in quanto tale, giacché « sostanza propria » l ’hanno soltanto i soggetti umani in interazione (su ciò, ritorneremo in seguito e in particolare nell 'ultima parte).

Con la periodizzazionc qui presentata si intende accentuare l ’im­portanza della cesura tra sociologia pre-moderna e moderna.

La sociologia (pre-moderna) è consapevolmente e intenzionalmen­te parte di una filosofìa (sociale e / o politica) e opera all’interno di un principio di totalità, secondo un approccio di filosofia della natura. Con ciò essa confonde il metodo filosofico (inteso propriamente e le­gittimamente come metafisico) e il metodo scientifico-positivo (che deve invece rifarsi alla sperimentazione empirica).

La sociologia moderna (e oltre) enfatizza la propria autonomia che, se intesa in senso relativo, è legittima. Ma, a sua volta, preten­dendo di sostituirsi alla filosofia, ne invade il campo, e rovescia la situazione in quanto confonde — in senso inverso — il metodo filo-

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sofìco con quello positivo. Di fatto, come vedremo, la sociologia pre­tende spesso di fare pure affermazioni « positive » mentre enuncia— al contrario — vere e proprie proposizioni metafisiche; ovvero dà valore filosofico ad affermazioni (siano ipotesi, assunti o generaliz­zazioni empiriche) che sono valide solo entro le (necessarie) r idu­zioni di scienza positiva. Ne vedremo alcuni esempi eclatanti parlando di « sociologismo ».

In sostanza, se la sociologia moderna è nata come « scienza nuo­va » dalla filosofia9 (intesa propriamente come metafisica e come me­diazione con la teologia) ciò è avvenuto non solo per intenti conoscitivi nuovi, ma anche e soprattutto allo scopo di rifondare (i fondamenti conoscitivi, ontologici de) la condotta sociale (etica e politica, indivi­duale e collettiva). Come vedremo più oltre, in questo ultimo intento essa ha decisamente fallito. Di fatto, la sociologia contemporanea si ri­duce oggi — nel migliore dei casi — ad una certa modalità conosci­tiva della realtà sociale senza alcun potere e legittimazione di ordine normativo. La pretesa di trovare nei « fatti sociali » l ’origine dei valori non può più essere sostenuta, né sul piano conoscitivo né tantomeno su quello normativo (etico-pratico).

In conclusione, circa la storia della sociologia è opportuno chia­rire che:— il « pensiero sociologico » rimonta agli albori della cultura, se e

in quanto tale pensiero esprime una conoscenza basata sull’osser­vazione dotata di rigore scientifico (in qualche modo misura­bile e ripetibile, quindi in certa misura anche prevedibile); è quindi essenziale distinguere sempre il pensiero sociologico (co­me tale) dalla filosofia (come metafisica, o come filosofia sociale o politica);

— la sociologia strido sensu, cioè come scienza non solo di osser­vazione descrittiva ma anche di « sperimentazione » (nel senso di verifica di ipotesi), che fornisce una conoscenza non a-priori- stica e non dogmatica dei fenomeni sociali, avente un proprio oggetto e metodo specifici, nasce — in quanto disciplina posi­tiva — nel corso dell’Ottocento (il primo esempio in tal senso non è allora dato tanto da A. Comte, che è in gran parte ancora entro il « pensiero sociologico » e non entro il paradigma scien­tifico, quanto piuttosto da ricerche sul tipo di quelle di F. Le Play).

9. Scienza nuova , non a caso, è il titolo dell’opera più nota di G iovanba t­tista Vico che alcuni considerano il « vero precursore » della sociologia: così, per esempio. Bottomore. Nisbet, 1978.

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— la sociologia marxista è un tipo particolare di sociologia che dà per scontati alcuni assunti o ipotesi di lavoro mutuati dal si­stema filosofico di Marx e deve pertanto essere sottoposta a veri­fica come ogni altro approccio sociologico che pretenda di essere « scienza » e non semplicemente « pensiero ».

Come ogni altra disciplina, la sociologia ha attraversato alcune fasi paradigmatiche nella ricerca della scientificità: 1) dapprim a essa si è interessata dei princìpi fondanti (è questa la caratteristica del « pensiero sociologico » ancora legato alla filosofia); 2) si è poi rivolta alla descrizione dei fatti, a l l’accertamento empirico dei fenomeni e degli eventi (è questa la caratteristica della prima fase « scientifica » in senso positivo); 3) in seguito ha riflettuto sulla rigorosità dei criteri metodologici, ovvero sulla logica delle procedure (è questa la fase più recente nel secolo XX). Alla fine, ed è questa la situazione attuale, si è accorta di essersi staccala da l l’antropologia, cioè dal problema dei valori e in ultima analisi dal « senso » del suo farsi. Si tratta, quindi, oggi, di discutere gli esiti di questa evoluzione, non per rinnegare tutto ciò che è stato, ma per « ri-comprenderlo » nel suo significato e nella sua intenzionalità.

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di tipo interazionistico e non meccanicistico (cfr. Boudon, 1981, pp. 225-26).

Paradigma

Può essere inteso come un insieme di proposizioni che formano una base di accordo su cui si sviluppa una tradizione di ricerca scientifica (T. Kuhn) oppure come il linguaggio con cui sono formulate le teorieo anche sottoinsiemi importanti di teorie prodotte nell’ambito di una disciplina (R. Boudon). In ques t’ultimo senso, che sarà anche quello qui utilizzato, il paradigma è sinonimo di un tipo di prospettiva con cui guardare la realtà sociale, che utilizza una specifica logica di ragio­namento, quindi si avvale di determinati modi espressivi (linguaggio) che possono e debbono essere ricondotti al più generale « approccio » sotteso al paradigma.

Possono essere deterministi (iperfunzionalisti, iperculturalisti, o di realismo totalitario) oppure interazionisti (basati sul principio della libertà — seppure condizionala — degli agenti) (cfr. Boudon. 1981. cap. 6).

Approccio

È una teoria complessa (o globale) sull’intera realtà sociale (non su singoli aspetti o fenomeni) guidata da scopi/interessi specifici (inten­zioni della « teoria » ivi contenuta) basati su « assunti di rilevanza » \ espliciti o impliciti, a riguardo di ciò che si vuole conoscere. Un ap­proccio può utilizzare metodi difTerenli e anche diversi paradigmi con­temporaneamente.

È importante rilevare che, come tale, l ’approccio mescola assieme:a) giudizi di fatto (teorie scientifiche verificabili), con b) giudizi di va­lore (valutazioni di fatti e teorie secondo un certo sistema di valori), i quali inlluiscono (i) sugli assunti di rilevanza (ciò che ritengo rilevante conoscere) e (ii) quindi sugli scopi/interessi della teorizzazione. Nel­l 'approccio sociologico si operano pertanto delle scelte di valore che sono pre-scientifiche (assunti di rilevanza) e meta-scientifiche (scopi/ interessi della teoria). Queste scelte di valore si presentano spesso sol­tanto in modo implicito (A. G ouldner parla di background assumptions) nella metodologia e nel paradigma (condizionando ovviamente anche la teoria). E, dunque, per essere esplicitate esigono che il ricercatore ricostruisca l ’approccio sotteso (o sottinteso) (ne daremo un esempio

> Sul problema della rilevanza cfr Schiiiz, 1977

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a z io n e )7. L'analisi della realtà sociale è e deve essere governata dall’azione: « la questione di sapere se debba riconoscersi al pen­siero umano una verità oggettiva non è una questione teorica, ma una questione pratica » (11 tesi su Feuerbach). È evidente che questo assunto è basato su una metafisica del divenire, e come tale condizionerà tutta la sociologia che in qualche modo si ispira a Marx.

Portata alle sue estreme conseguenze, la sociologia marxista do­vrebbe negare qualunque validità agli strumenti « scientifici » di conoscenza della realtà sociale, specie in quanto essi abbiano come referente ultimo una metafisica dell’essere ®. Di fatto il Marx storico- economista accetterà in certa misura il metodo positivista, accedendo ad una sorta di approccio realistico « organicista » alla società. Resta tuttavia che, per la sociologia marxista, gli strumenti conoscitivi sono « scientifici » se e nella misura in cui sono verificabili in termini di azione (rivoluzionaria) sul mondo, cioè di efficacia per realizzare ciò che è allo stesso tempo un esito storico ineluttabile e un messianismo politico, la rivoluzione proletaria. Il sociale non va conosciuto e inter­pretato, ma « fatto », « agito ».

In sostanza, l ’orizzonte della sociologia marxista come disciplina teorico-pratica si chiude in un circolo vizioso: il sociale è inteso come l ’auto-creazione della prassi. Fine della soggettività umana e del distanziamento critico. Totale immersione dell’analisi conoscitiva nella pratica, senza distinzione 9 fra momento teoretico (conoscitivo) e momento pratico (di azione e /o di valutazione etica e politica).

2.2. L’approccio positivista IO

Fu codificato in maniera cosiddetta « scientifica » per la prima volta da E. Durkheim (opere fondamentali: La divisione del lavoro sociale, 1893; Il suicidio, 1897; Le regole del metodo sociologico, 1895; Le forme elementari della vita religiosa, 1912)

7. Cfr. De Laubier, 1980, pp. 26-30. Dirà in seguito F. Engels: « più la scienza procede con intransigenza e senza prevenzioni, più essa si trova in accor­do con gli interessi c le aspirazioni della classe operaia ».

8. Metafisica del l’essere quale si è espressa nel pensiero di Tom m aso d ’Aqui- no. Per una rassegna bibliografica su tale A. cfr. T.L. Miethe, J. Bourke, 1981.

9. Come vedremo, secondo la sociologia relazionale fra i due momenti teo­retico e pratico corrono rapporti di distinzione, ma non di separazione (come per il positivismo) né tantomeno di fusione (come per il marxismo).

10. Per le varianti neo-positiviste si vedano le voci relative in Gallino, 1979.11. Per riferimenti più specifici: cfr. E. Durkheim, Antologia di scritti socio­

logici. a cura di A. Izzo, Bologna, Il Mulino, 1978.

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Questo A. è stato ed è tuttora molto discusso perché in lui non è assolutamente chiaro il rapporto di reciproca determinazione (filoge­netica e ontogenetica e quindi anche gnoseologica) fra individuo (per­sona) e società. Talora sembrano distinguersi e inter-agire fra di loro, talora sembrano essere totalmente compenetrati al punto che la società determina « punto per punto » l ’individuo.

La maggior parte degli studiosi, crediamo a ragione, lo considera comunque più vicino alla seconda prospettiva, quella che reifica e idea­lizza al contempo la società, facendone un sostituto della divinità: « tolti gli individui — afferma il Nostro — resta la società ». Per que­sto ha ragione H. Schoeck quando lo definisce « già un sociologista » (Schoeck, 1980. p. 202).

In effetti, Durkheim tentò per la prima volta in modo sociologico (Marx l’aveva proposto, ma sul piano filosofico, nelle Tesi su Feuer­bach) di dimostrare nel dettaglio come le categorie fondamentali della nostra coscienza siano formate dalla società, intesa come « coscienza collettiva » (una sorta di super-coscienza reificata in cui si raccolgo­no i simboli e le rappresentazioni mentali dominanti di una società).

Durkheim credeva addirittura di poter dimostrare che le stesse categorie del pensiero (di tempo, spazio, e lo stesso principio di non contraddizione) sarebbero un prodotto (o una funzione) della società. In modo analogo egli trattò i miti, i riti e tutto ciò che ha a che fare con la sfera religiosa (la stessa idea di Dio fu da lui attribuita ad una mera creazione sociale). Questa impostazione risentiva chiaramente del clima evoluzionistico e positivista deH’Ottocento, e va giudicata da tale angolatura. Qualcuno, infatti, ha voluto e vuole ancora « giusti­ficare » Durkheim con il dire che tale A. intendeva soltanto analiz­zare e spiegare un aspetto (quello « sociale ») della realtà, senza per questo porsi su un piano « essenzialistico » (metafisico). In realtà è vero il contrario: Durkeim intendeva fondare una scienza sostitutiva di altre discipline (come la filosofia) e le sue affermazioni hanno ap­punto il senso di rimpiazzare una disciplina (la filosofia) ritenuta in­capace di spiegare il reale.

Per capire il metodo positivista ci si può rifare alle cinque « regole del metodo sociologico » enunciate dal Nostro.

Alla base di tali regole sta la definizione di « fatto sociale ». è tale, per Durkheim, ogni modo di fare, più o meno fissato, capace di esercitare sull 'individuo una costrizione esterna, oppure un modo di fare che è generale nell'estensione di una società data, avendo esisten­za propria, indipendente dalle sue manifestazioni individuali. 11 « fatto sociale » è per definizione ciò che è « esterno » e « coercitivo » per l 'individuo. Ma questi caratteri, nota Durkheim, sono propri della

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norma: e dunque « ¡1 sociale » è il « normativo »; la società è integra­zione normativa. E poiché, a sua volta, tutto ciò che è capace di « in­tegrare » (creare solidarietà) ha i caratteri della re-ligione (del « legare insieme »), la società è « religione ». E, naturalmente, viceversa: religione sarebbe la società intesa come « coscienza collettiva ».

Vedremo più oltre il carattere totalmente « chiuso » di questa prospettiva, il suo deificare la società come entità suprema che tutto crea e tutto determina. La principale critica che si può fin d ’ora anti­cipare è che Durkheim perde il soggetto umano: forse l ’A. non è ancora consapevole di tutte le implicazioni, ma certo questo è stato l ’esito della teoria una volta portata avanti nei Novecento. Se pur si parla di libertà e di coscienza umana, questi sono solo nomi (conven­zionali) per designare il fatto che ogni individuo agisce come un gioca­tore singolo: ma, tutto sommato, giocando sulla scena sociale egli è determinato già prima dalle regole (norme e strutture) del contesto in cui si muove. Alla fine, le strutture sociali diventano una sorta di leggi ineluttabili che gli uomini, anche non volendole, producono e ripro­ducono in modo « perverso » 12.

Per capire, comunque, il contributo e il ruolo della sociologia dur- kheimiana nella fondazione di una scienza sociologica, è necessario analizzare, seppur brevemente, le regole del metodo sociologico.

La prima regola, che è anche quella fondamentale, impone di considerare i fatti sociali come « cose ». È la sociologia intesa come una vera e propria fisica del sociale.

Ne derivano due corollari:i. occorre scartare sistematicamente tutte le prenozioni;

ii. occorre assumere sempre e soltanto come oggetto di ricerca un gruppo di fenomeni precedentemente definiti mediante certi ca­ratteri esterni — ad essi comuni — e comprendere nella stessa ricerca tutti quelli che rispondono a questa definizione; quando il sociologo si accinge ad esplorare un qualsiasi ordine di fatti sociali, egli deve sforzarsi di considerarli sotto l ’aspetto in cui si presentano spogliati e isolati dalle loro manifestazioni individuali (e pertanto soggettive, quindi trascurando la loro singolarità).

La seconda regola riguarda la distinzione fra normale e patolo­gico. Può essere estrinsecata in tre punti:

i. un fatto sociale è normale per un tipo sociale determinato, consi­derato in una fase determinata del suo sviluppo, quando esso si presenta nella media delle società di quella specie, considerate

12. Questo esito interpretativo è evidente, per es.. in Boudon (opere citate).

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nato dd l 'agen te è riferito ad un altro agente o gruppo di agenti, E « sociale » nella misura in cui tiene (soggettivamente) conto dell’agire (soggettivo e oggettivo) altrui. Ci sono due modi in cui il senso di u n ’azione può essere analizzato: o in rapporto al senso concreto che l ’azione possiede per un dato agente individuale, oppure in rapporto ad un tipo ideale di senso intenzionato soggettivamente da un agente ipotetico.

Le azioni sociali vengono classificate in quattro tipi:

— razionale rispetto al valore ( Wertrationalität), allorché tende a un valore in qualche modo incondizionato, cercato come fine a sestesso;

— razionale rispetto allo scopo (Zweckrutionalitat), allorché tende ad un line secondo lo schema mezzi-fini, cioè calcolando i mezzi (utili e strumentali) per raggiungere un fine;

— tradizionale, allorché è dato dalla tradizione, abitudine, costume, usanza, routine;

— affettivo, allorché è orientato in base ai sentimenti, agli stati emo­tivi, alla espressività.

Weber, in realtà, distingue due tipi principali di comprensione in­terpretativa dell’agire (ciascuno dei quali può essere ulteriormente suddiviso secondo che implichi la comprensione di azioni razionali op­pure emotive).

a) Da un lato, abbiamo la « comprensione diretta », per cui affer­riamo il senso di u n ’azione mediante osservazione diretta (per esempio nel caso di una proposizione matematica: 2 x 2 = 4 per le azioni razionali; oppure nel gesto irrazionale di collera per uno stato emotivo).

b) Il secondo tipo di comprensione è 1’« intendere esplicativo » (erklärendes Verstehen) che si differenzia dal primo nella misura in cui comporta la specificazione di una motivazione che colleghi il com­portamento osservato al senso intenzionato da l l ’agente. La forma razionale consiste neH'intendere un'azione di tipo tale da implicare, da parte deU’individuo che la esegue, l ’uso di dati mezzi per realiz­zare uno scopo particolare (se un uomo sta tagliando della legna vicino a casa sua, probabilmente desidera procurarsi del combusti- bile per accendere il fuoco) 1J. Nel caso dei comportamenti « irra­zionali » può essere applicato un processo indiretto di inferenza moti­vazionale (possiamo spiegare perché una persona piange se sappiamo che ha subito u n ’amara delusione o ha avuto un grave dolore). Nel-

13. L'esempio c fatto da Schütz (I979> neH’interpretazione che tale A. dà di Weber.

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soggettivi — certe valutazioni (anch’esse mentali) costruite in maniera più o meno arbitraria (Matza, 1969).

Siamo con ciò non lontani da l l’epistemologia sociologica che deriva dalla radicalizzazione dell’approccio marxiano, ove si rifletta su certi esiti ultimi cui può condurre l'affermazione secondo cui la verità è la stessa prassi. I sempre più numerosi riferimenti degli interazioni­sti simbolici (già a partire da | . Piaget) a Marx e ad autori marxisti rendono evidenti queste connessioni w.

II loro comune punto d ’approdo può essere espresso in due propo­sizioni speculari:1. da un lato non esiste una « natura umana » anteriore alle intera­

zioni sociali (ossia non esistono limiti alla socializzazione della « natura interna »);

2. da ll’altro, le istituzioni sociali, non essendo in alcun modo espres­sione di una natura umana con determinate tendenze e intenzio­nalità ad essa oggettivamente inerenti, sono puri prodotti del flus­so-processo delle interazioni sociali (ed anche la « natura esterna » non ha limiti di socializzazione).

Si perviene quindi ad un approccio verso l’uomo e la società i cui pilastri basilari sono:— l’azione di un individuo e il suo comportamento mentale sono fun­

zioni della totalità sociale w;— come ciò avvenga è una questione di « logica genetica » che è pa­

rallela per i fatti sociali come per i fatti mentali, con la sola dif­ferenza che nei primi vale il « noi » e la « cooperazione » mentre nei secondi esiste 1’« io » e l’operazione semplice (Piaget, 1973);

— gli atti costitutivi dei fatti sociali sono le regole, i valori di scambio,i segni (convenzionali): la società è « un compromesso fra due tipi di totalità »: la totalità delle regole-segni « polarizzati » (cioè cri­stallizzati. istituzionalizzati, tipizzati) e la totalità-miscuglio di in­terazioni continuamente modifìcantesi (cioè probabilistiche) (Pia­get. 1964. pp. 25 ss.).

Totalizzazione e contingentismo sono, dunque, i caratteri propri del sociale, i poli entro cui si dispiega la dinamica sociale. Per quanto,

19. Occorre però ribadire chc questo è solo un aspetto della epistemologia sociologica marxiana che, per l ’altro aspetto, è invece stre t tamente positivistica. Si tratta, invero, delle due anime della sociologia, chc nessun approccio ha sa­puto comporre, fra teoria de l laz ione (che significa soggettività, creatività) e teo­ria del sistema (che significa oggettualità, causalità, funzionalità).

20. I concetti qui sintetizzati si riferiscono a [. Piaget. 1964. pp. 27 ss.

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zione dell’uomo e della società. Non è quindi la sociologia legittima- mente intesa quale teoria del « condizionamento sociale », come spesso viene intesa 2. Si tratta invece di una forma di riduzionismo per il qua­le « la totalità della vita spirituale um ana » viene definita nella sua genesi e nelle sue finalità attraverso il condizionamento sociale (Morra, 1971, p. 14). Lo si voglia o no è dunque una antropologia. Ed è u n ’an­tropologia filosofica immanentistica, che può presentarsi nelle due ver­sioni materialistica (iperstrutturalista) oppure soggettivistica (ipercultu- ralistai-

Si tratta dunque di una forma mentis, di un atteggiamento filosofico di fronte a l l’uomo e alla società, che tende a ricondurre la spiegazione e /o la comprensione di u n ’azione o evento sociale a fattori determini­stici di ordine collettivo. Questi fattori possono essere di vario genere. Possiamo distinguerli in due tipi fondamentali (anche se spesso la distinzione può essere solo analitica e non empirica):a. fattori strutturali (o materiali di tipo tecnico ed economico come

in Marx, o biologico-culturali come è ad esempio la divisione del lavoro in u n ’opera classica di E. Durkheim);

b. fattori culturali (la società intesa come insieme di orientamenti divalore e norme che definiscono una « coscienza collettiva » in cui si condensano conoscenza e moralità prodotte dalle interazioni col­lettive e ricadenti coercitivamente sugli individui; un esempio clas­sico sta nell’opera di Durkheim su « Le forme elementari dellavita religiosa », in cui il sociologismo appare come « teoria dogma­tica della coscienza collettiva »)*;

c. oppure in un misto di interdipendenza e compenetrazione fra fat­tori strutturali (oggettivi, esterni) e culturali (modelli e rappresenta­zioni soggettive di vita); ciò è evidente nello struttural-funzionali- smo che definisce la « struttura » come un modello culturale (cui- turai pattern) e così lega gli aspetti a) e b) in modo inter-penetrato e inter-dipendente.

Dal fatto che prevalgano i primi fattori oppure i secondi si hanno le due varianti polari di sociologismo di cui si è parlato in precedenza: a) il sociologismo iperstrutturalista oppure b) il sociologismo ipercul- turalista. È chiaro, però, come si è già detto, che essi nascono da una stessa matrice, da una stessa opzione metodologica e filosofica, da una stessa antropologia.

2. Cosi, per es., Morra: « la sociologia contem poranea potrebbe essere defi­nita come la scienza del condizionamento sociale deU'attìvità spirituale umana » (1971. p. 15).

3. Cosi secondo G. Brunschvicg. I960, lomo II. pp. 536-540.

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ticolari momenti causali » 6. Nella sociologia, come per il diritto o la storia, l ’imputazione causale avviene con l’esclusione di u n ’infinità di elementi del processo reale in quanto « causalmente irrilevanti »: tale « irrilevanza » non è, evidentemente, nel processo reale delle cose, ma nella astrazione dello studioso. 11 processo causale lo si può co­gliere nell’astrazione logico-concettuale, entro una certa selezione (ri- duttività) delle variabili e fattori sociali in gioco.

ii. In secondo luogo la sociologia, come vera e propria scienza specifica, è interazionista, non deterministica: « la relazione di cau-

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salita esistente tra le proprietà del sistema di interazione (e il loro cambiamento) e il comportamento degli attori è tale non solo da es­sere compatibile con l'autonomia decisionale degli attori, ma precisa- mente la richiede» (Boudon, 1980, p. 32). « S p ie g a re » un sistema sociale vuol dire innanzitutto « comprenderlo » come un insieme di attori autonomi: è proprio perché gli attori vogliono realizzare (at­tivamente, autonomamente) certi loro fini in un determinato sistema di inter-azioni che essi assumono un certo comportamento e ne sorti­scono determinati effetti. « La relazione causale esistente fra i para­metri del sistema di interazione e il comportamento degli attori è com­prensibile solo se intesa come il risultato di un comportamento teleo­logico realizzato da attori autonomi » 7.

In realtà, prosegue questo A., il determinismo in sociologia nasce:a) dal ridurre il sistema sociale a un organismo biologico; b) dal ri­durre il comportamento umano a un comportamento di ruolo, cioè pri­vandolo di quel quid di soggettività che c ’è sempre e non può essere annullato che in casi-limite (di incapacità di intendere e di volere del soggetto) (Boudon, 1981, p. 228).

In sostanza, solo i modelli interazionisti sembrano capaci di fon­dare l ’analisi sociologica: « in tutti i casi in cui i sociologi sono riu­sciti a decifrare fenomeni oscuri, hanno utilizzato analisi di tipo interazionista: il fenomeno in questione è spiegato con la composi­zione di azioni individuali la cui logica non può essere ricondotta a schemi di tipo stimolo-risposta o causa-effetto. Anche nel caso limite dei comportamenti rituali, la nozione di intenzionalità non può mai essere scartata. Negli altri casi le intenzioni e le preferenze degli at-

b. Cfr. M. Weber, Possibilità oggettiva e causazione adeguata, in II metodo delle scienze storico-sociali, c i t .. pp. 212-213.

7. Sarebbe eertamenle utile qui proseguire l ’analisi di questo A. per le im­plicazioni anti-deterministiche del suo metodo che è, lo ripetiamo, strettamente sociologico e si basa sulla distinzione fra « sistemi funzionali » e « sistemi di in terdipendenza ».

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rendere conto dei fenomeni sociali. Anche degli effetti perversi e non intenzionali (che seguono sempre ad azioni, per loro natura intenzio­nali). In questo sta la specificità della sociologia che non si riduce a semplice statistica, né ad una estensione delle ipotesi della teoria economica ad aspetti e comportamenti non economici della vita so­ciale.

Di fronte ad una ricerca o ad un approccio sociologico bisogna quindi sempre chiedersi: l ’uomo di cui si parla è riconducibile (ri­specchia, viene riferito) a un paradigma deterministico o interazioni- stico? 11 primo può essere « accettato ». entro certi limiti di riduzio­ne, da u n ’analisi funzionalistica attenta ai ruoli e ai comportamenti di ruolo in un sistema di divisione rigida e definita del lavoro. Il secondo, in realtà, potrà meglio cogliere la natura più profonda del- l ’agire sociale e « comprendere » l ’agente che ne è soggetto e prota­gonista.

In ultima istanza, il sociologismo va quindi criticato rilevandone il carattere di « antropologia riduttiva » e va superato aprendosi ad una antropologia più integrale in cui abbia posto la sociologia come antropologia sociale, seguendo un paradigma che sappia contempera­re le libertà individuali (il principio deH’individualismo metodologico) e le finalità sociali (il principio del collettivismo metodologico) secon­do rapporti di reciproca trans-azionalità.

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— la riproduzione sociale della specie ( = famiglia e strutture paren- tali) è assunta tout court come una forma di produzione econo­mica; secondo Marx ed Engels sarebbe dello stèsso genere, ma in realtà ciò risulta riduttivo oltre ogni ragionevole limite, per la specificità non-economica delle sfere cd. riproduttive, in primis della famiglia (Goode, 1974);

— il termine di riproduzione sociale risulta coincidere allo stesso tempo con una parte della società e con la sua totalità; esso cadreb­be sotto le stesse leggi generali, che poi sarebbero quelle della produzione, mentre invece è noto che la riproduzione segue pro­cessi, se non del tutto, almeno in parte specifici.

2. La correlazione inversa e la dialettica progressiva tra famiglia e divisione sociale del lavoro sono problematiche in quanto:

— i rapporti tra famiglia e divisione sociale del lavoro sono mediati sempre da una serie di fattori e di variabili intervenienti (quali i sistemi culturali, politici, religiosi) che non permettono di rinve­nire una legge generale di sviluppo inverso, che può essere reale soltanto per fasi o periodi limitati;

— così dicasi per l ’esistenza di una antitesi dialettica progressiva tra determinate forme familiari e determinate (successive) forme di divisione sociale del lavoro; i loro rapporti comunque non seguono modelli lineari o anche multilineari: anzi, spesso si osservano « ri­torni » o « ricomposizioni » incomprensibili per la teoria evolutiva della contraddizione dialettica.

3. Verifica:— possiamo pertanto asserire che la teoria sopra ricordata, da cui

muove il senso odierno della riflessione sulla « riproduzione so­ciale », presenta gravi lacune, se non proprio che essa appare non utilizzabile; come prova si potrebbe ricordare il continuo tenta­tivo odierno di ridefinire in campo marxista una teoria r ip rodut­tiva minimamente valida quando venga applicata ai rapporti tra famiglia e welfare state, e le infinite variazioni e revisioni che essa comporta 5.

In sostanza, gran parte della sociologia contemporanea, nel mo­mento in cui riprende l ’impostazione marx-engelsiana, anche quandolo fa inintenzionalmente, mutua un termine (quello di riproduzione)

5. Questo pezzo di storia della teoria sociologica r imane ancora da sistema­tizzare, ma esistono già abbondanti dati per poterlo fare.

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A queste impasses dovremmo essere in grado di rispondere pro­ponendo nuovi orientamenti concettuali.

5. Approcci e definizioni

Comincerò con il richiamare le principali definizioni correnti di « riproduzione sociale », per mostrarne appunto gli equivoci, gli as­sunti sociologistici e le contraddizioni. In sostanza si tratta di andare alla ricerca di un nuovo paradigma — se mai esiste — che possa far meglio comprendere la realtà della riproduzione sociale in una società complessa (post-capitalistica o post-moderna, che dir si voglia).

Se si fa un sommario esame dei principali approcci contemporanei, in qualche maniera ideal-tipici del modo in cui il nostro tema può es­sere affrontato, si potrà constatare che i più rilevanti sono: la teoria critica della società, l 'etnometodologia, lo strutturalismo, il neo-positi­vismo sia a orientamento marxista che interazionista, le teorie sistemi­che. In tutti questi approcci il dosaggio marxiano può essere il più vario e sarà pertanto opportuno esplicitarlo.

5.1. La teoria critica della società

Questo approccio, specie con Adorno e Marcuse, riprende all’ini­zio il paradigma marxiano della riproduzione sociale, ma con l’esten­derlo progressivamente dal campo dei rapporti economici al campo dei rapporti sociali generalizzati evidenzia via via le ambiguità e le dif­ficoltà teoriche e pratiche di fondo anzidette.

L’itinerario di J. Habermas, a questo proposito, può essere illu­minante. A ll’inizio egli mantiene una concettualizzazione di totalità (che è ancor più evidente in H. Marcuse, decisamente il più sociologi­stico della scuola di Francoforte): « il principio di reciprocità è ora principio organizzativo degli stessi processi di produzione e r ip rodu­zione sociale » (Habermas, 1974, p. 209). In Habermas, tuttavia, la mediazione struttural-funzionalista si fa via via sempre più forte, e con tale mediazione il concetto di riproduzione sociale tende ad essere ap­plicato a quelle istituzioni socio-culturali che Parsons aveva proposto di inserire sotto le caselle L (latenza) e I (integrazione) nel suo schema quadrifunzionale ". Cominciano così, anche per la teoria critica della

11. Com'è nolo, T. Parsons pensa alla società (a qualsiasi realtà sociale) come a una s tru ttura caratterizzata da qua t t ro imperativi funzionali (L IG A ): L (latenza), I ( integrazione). G (realizzazione delle mete), A (adattamento , ossia ricerca dei mezzi per la funzione G). Questi imperativi sono di carattere anali-

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La riproduzione è qui essenzialmente considerata come (ossia in funzione di) condizione della produzione, e può essere « semplice » (quando riproduce solo le condizioni della produzione anteriore) op­pure « allargata » (quando le estende) (Althusser, 1970, p. 23). Althus­ser fa inizialmente una dichiarazione, secondo cui per riproduzione egli intende, in modo strettamente marxiano, la riproduzione: 1) dei rapporti di produzione (capitale); 2) delle forze produttive (forza-la­voro). A ndando avanti nel suo tentativo di spiegazione (e non solo di descrizione) del perché le s trutture societarie non cambino (se non in casi eccezionali) egli ne intravvede le ragioni in un particolare « blocco » del rapporto struttura(economica)-sovrastruttura(ideologica). Blocco che funziona grazie alla riproduzione che « viene assicurata in gran parte dalla sovrastruttura, giuridico-politica e ideologica ». La quale poi viene identificata negli apparati repressivi e ideologici di sta­to (chiesa, famiglia e, dopo di esse, l ’apparato ideologico scolastico, il binomio scuola-famiglia).

Il salto logico-concettuale, storico ed empirico rispetto a Marx è notevole. Probabilmente non ancora ben valutato. Che lo stato, con i suoi apparati (peraltro diversi in diverse formazioni sociali), abbia sempre funzionato da condizione della produzione e quindi da garante della riproduzione delle condizioni della produzione, non è certo u n ’af­fermazione nuova. Come l ’ha fatta Marx, l ’hanno espressa anche autori quali T. Parsons e N. Smelser (1970), così come tutti gli economisti, i sociologi, i politologi che si rispettino. Ma finire per identificare la riproduzione con certi apparati ideologici di stato e questi ultimi con chiesa, famiglia e scuola, va ben al di là di ogni pur plausibile « im­maginazione sociologica ».

Gli esiti disastrosi di questi cortocircuiti sono evidenti in P. Bour­dieu (1972). La teoria della riproduzione di tale A. diventa talmente iperfunzionalista (cfr. Bourricaud, 1975) che il soggetto umano vi è ridotto, pressappoco, a un manichino, molto peggio che nello struttu- ral-funzionalismo di T. Parsons (il che è tutto dire), in cui è ridotto a un fascio di ruoli, ma dove conserva una sua volontà formale e sostanziale (cfr. Alexander, 1978). Secondo Bourdieu, grazie al mec­canismo de\Vhabitus (che chiaramente riprende il termine aristote­lico, di ben altra portata, stravolgendolo completamente), le classi sociali agirebbero, si esprimerebbero e si r iprodurrebbero attraverso gli individui come semplici esecutori dei ruoli definiti dalla s truttura di classe. Siamo in pieno paradigma deterministico ” .

19. Sulla riduzione dei soggetti ai ruoli si veda la critica di Boudon, t980, pp. 189-197. Sul paradigma determinista cfr. Boudon, 1981, pp. 224-225.

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vivenza. Ma sempre è ¡1 cambiamento (la pro-duzione) che deve essere considerato problematico e spiegato.

Anche in questo approccio, che qui sintetizzo in modo assai sche­matico, mi pare si incontrino grosse difficoltà.

a) Si mantiene una equivocità (seppure relativa) del termine, per­ché da un lato la riproduzione è intesa come una funzione del sistema, ma da ll’altro viene reificata in certe sue is t i tuz ion i21. Ora, se il « man­tenimento del modello » (patlern-maintenance) è un imperativo fun­zionale che caratterizza ogni sistema sociale, dal più complesso al più elementare, diventa equivoco riferire lo stesso termine a deter­minate strutture che dovrebbero essere rintracciate in ciascuno dei si­stemi sociali di cui si parla. A meno che il termine riproduzione socia­le non sia usato come buono per tutti gli usi, un concetto indefinito che sta per ogni dove grazie alle sue ambiguità e fungibilità semantiche. Qualcosa di strettamente analogo a ciò che è accaduto al concetto di « funzione » (Boudon, 1967), il quale pure è andato incontro a un processo di radicale relativizzazione concettuale.

Non a caso, infatti, autori come L. Gallino e N. Luhmann, cercan­do di evitare l’equivocità di cui si è detto, cioè tentando di connettere la riproduzione più ai processi che alle strutture, in modo da non rei­ficarne il contenuto, sono giunti a una relativizzazione molto spinta. La riproduzione sociale si stempera nel sociale come imperativo primo di esistenza di qualunque sistema, e quindi viene definita come fun­zione di mantenimento dei « modelli culturali e delle pratiche che lo distinguono » (Gallino, 1978, p. 639). Come tale essa risulta diffusa ne « l ’insieme dei processi di breve, medio e lungo periodo tramite i quali una società riproduce gli elementi della sua cultura, i modelli di rap­porto e di relazione sociale, le strutture di personalità caratteristici del suo ordine sociale e necessari al mantenimento di questo a un dato stadio di sviluppo economico, politico, tecnologico, ovvero a un dato livello di civiltà » (ibid., p. 577). L ’equivocità è quindi relativa, come accade nel neo-positivismo marxista, nel senso che prevale u n ’accezio­ne di riproduzione generalizzata a tutte le relazioni e processi sociali.

Ma l ’equivocità permane, evidente, se e nella misura in cui il con­cetto può indifferentemente essere usato in senso generico e analitico e allo stesso tempo specifico ed empirico (quando viene applicato a strutture sub-societarie).

b) In secondo luogo si può dire che ci troviamo ancora all’interno

21. Per esempio, L. Gallino ritiene che « la classe degli intellettuali » tout court faccia parte « dei membri del modo di r iproduzione soc iocu l tu ra le », (1980 p. 63).

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un quanium di soggettività25; non si può limitare il sistema (o processo) di comunicazione riproduttiva solo al punto della reifi­cazione totale, tantopiù in sistemi complessi;

— benché l ’emittente tenda a dominare le comunicazioni, il messag­gio viene decodificato dal ricevente generalmente in termini che presentano un quantum di discrepanza con il senso ( l ’intenziona­lità e il significato) dell’e m it te n te26;

— benché esista sempre (per definizione) nei sistemi riproduttivi una tendenza alla routinizzazione (stereo-tipizzazione, e così via) del­la comunicazione, l ’identità (ri-produzione) perfetta del messaggio umano non è mai assicurata, ma in generale deve essere considerata problematica.

In sostanza, la comunicazione avviene sempre entro il teorema del­la doppia contingenza. È transazione più che ripetizione tout court.O, se si vuole, per dirla con R. Merton (1976), la comunicazione vive nella e della « ambivalenza sociologica » anche quando la si consideri in un contesto o da un punto di vista « riproduttivo ». E, dunque, il paradigma B è molto più fecondo, utile e realistico, del paradigma A, che può essere applicato solo ai casi e situazioni liminali.

II. La socializzazione

Considerazioni similari valgono anche per la socializzazione sia primaria che secondaria (e, a maggior ragione ancora, terziaria).

Il paradigma A presuppone che il tutto societario possa riprodursi nelle sue singole parti ad opera di agenti socializzatori che funzione­rebbero in e attraverso ruoli talmente conformistici e conformizzanti da annullare ogni variazione, ambivalenza, soggettività.

Ciò accade di rado, in casi che vengono di solito definiti come « pa­tologici » (come le « istituzioni totali »). Particolarmente i sistemi di socializzazione primaria e secondaria sono « sistemi di in terdipenden­za » piuttosto che « sistemi funzionali » (secondo la terminologia di R. Boudon, 1980, capp. 3 e 4). Gli attori che agiscono in tali ruoli sono, sia da una parte (agente socializzante) che dall’altra (socializ­zato), attori dotati di una certa autonomia (soggettiva e contestuale, intenzionale e non) quale si manifesta:

25. Potremmo anche parlare di una « qualità comunicativa »: cfr. E.R. Lorch, 1976.

26. Così è accaduto per esempio a certi movimenti collcttivi (ad es. femmi­nisti) quando sono stati portati da aree centrali ad arce periferiche: cfr. P. D o­nati. I978a. capp. 3, 4. Per un 'a l tra ricerca in conlesto metropolitano: cfr. S.S. Acquaviva et al.. 1980

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netta fra pubblico e privato, fra produzione e consumo, fra centro e periferia, e così via. A questo punto diventa improponibile la stessa reinterpretazione del welfare state in chiave dualistica, ad esempio, come sistema basato sul capitalismo neo-corporativo della produzione e il socialismo nella riproduzione3I. A ppunto perché la cd. riproduzio­ne (che sarebbe « socialista » nei servizi per esempio) è anche produ­zione, il privato si è fatto pubblioo e viceversa, e così via.

La realtà è che in sistemi di welfare avanzato tale dualismo è solo, c in buona parte, apparente (Donati, 1982) e il concetto stesso di ripro­duzione sociale — in quanto, in fondo, ha mantenuto sempre i presup­posti della distinzione smithiana tra lavoro produttivo e lavoro impro­duttivo — va decisamente abbandonato nella sua forma classica. È dubbio se la sua riproposizione alla maniera di C. Offe, fra lavoro concreto e lavoro astratto (Offe, 1977), possa evitare gli equivoci e le contraddizioni, dal momento che anche ques t’ultima accezione ri­manda pur sempre alla distinzione fra valori d ’uso e valori di scam­bio, che è una polarità (anzi la polarità sociologicamente più rilevante nella teoria della riproduzione) che necessita oggi di essere rivista alla luce del fatto che l ’uso può assumere una forma di scambio e che lo scambio (ad esempio nei servizi) può proporsi in forme non mercan­tili, spesso in transazioni simboliche (scambio simbolico).

Come giustamente ha ricordato F. Barbano (1980), le nuove po­larizzazioni, nei bisogni come nei servizi, nel modo in cui l ’utenza manifesta i bisogni e usufruisce dei servizi, nel modo in cui agiscono gli operatori sociali, non coincidono più con gli schemi elaborati nel ’700 e nell’ ’800. Secondo la presente ottica, questi cambiamenti vanno interpretati nel senso che la produzione ha perso il suo centro e ha trascinato nel vortice la sua stessa immagine speculare, la riproduzio­ne sociale appunto.

Su questa linea, il discorso a proposito dei servizi sociali (e della stessa famiglia, che ne è intimamente interdipendente e intercompe- netrata), come momento di riproduzione sociale deve farsi più intel­ligente. A m o’ di sintesi indicherei tre direzioni di ricerca in questo campo al fine di sviluppare una teoria critico-relazionale della ri- produzione:1. (quanto agli aspetti relazionali) la relazione sociale (nella fami­

glia e nei servizi sociali, e tra di loro) dovrebbe essere in gene­rale considerata come « sovrafunzionale », ossia non riducibile al numero discreto di funzioni che — esternamente o intenzio­nalmente — può esercitare;

31 è questa l ' interpretazione oggi prevalente del welfare state.

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xista ed organicismo positivista, che tra loro non convergeranno se n o n . sul nulla, come stanno a dimostrare le attuali tendenze (nichiliste, no- minaliste e anche neo-funzionaliste) a proposito della riproduzione so­ciale.

L’esempio de\V impasse a proposito della crisi del welfare state po­trebbe essere discusso a lungo. Non c ’è infatti teoria critica del welfare state che riesca a identificare, come (vanamente) vorrebbe, il locus pro­prio della riproduzione.

Per questo mi sembra urgente passare da un paradigma in cui la ri- produzione sociale è intesa in senso empirico-sociologista-polare ad un nuovo paradigma analitico-interazionista-transazionale. Per la costru­zione di quest’ultimo non basta rovesciare, con vecchi artifici, l ’omeo- stasi o morfostasi nella dialettica, ma bisogna fare concreti passi avan­ti verso una prospettiva sociologica relazionale di tipo morfogenetico.

6. Sommario

Questo capitolo ha preso le mosse da una insoddisfazione di fondo per il punto di arrivo attuale dello schema sociologico dominante in base al quale la società viene concepita come dialettica fra i tre « mo­menti » della produzione, riproduzione e governo.

L’insoddisfazione è giustificata dal fatto che:

— lo schema resta, in fondo, quello idealistico-marxiano, e quindi risente di una impostazione che la sociologia, come disciplina au­tonoma, dovrebbe aver superato;

— suppone dei giudizi di valore (indebiti) in base ai quali la « p ro ­duzione » sarebbe sinonimo di « innovazione » e la riproduzione sinonimo di « conservazione »;

— reifica le istituzioni che cadono sotto le varie etichette (per es. la famiglia sarebbe pura riproduzione, mentre tutte le ricerche em­piriche mettono in rilievo il suo ruolo insieme produttivo-ripro- duttivo, ecc.);

— soprattutto è scarsamente sociologico, perché nella riproduzione (intesa come biologia, sessualità, maternità, salute, lavoro dome­stico e di servizio, ecc.) si vedono gli aspetti della pura necessità (il dominio dei bisogni primari della « sopravvivenza ») in termini bio­logici, economici, anche psicologici (affettivi) ma non propriamente sociali.

Lo scopo del capitolo è teoretico e consiste nella proposta di pas­sare dal paradigma oggi prevalente (empirico-sociologista-polare) a un

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forma di organizzazione... insieme più progressiva e più stabile » in seguito, constatata l ’indebita ingerenza del pensiero sociologico dentro la morale (e la politica in quanto legata alla morale), la finalità prati­ca è venuta meno dal lato dei positivisti, ma si è riaccesa nelle altre correnti del pensiero sociologico, al punto che — più spesso in forma inconscia e inintenzionale che in forma conscia e intenzionale — sem­pre vi è una « latenza » della finalità pratica, che non sembra annulla­bile; pu r restando ferma, s ’intende, la distinzione netta fra sociologia e ideologia.

In Comte, e in generale nei positivisti, si cerca di mantenere una netta distinzione fra le due finalità, ma ciò non riesce che raramente. Dopotutto il positivismo ritiene di essere « distaccato » rispetto ai valori e alle passioni in gioco: « la vera scienza — dice Comte — deve accettare in genere la sua impotenza momentanea di fronte a di­sordini o tendenze irresistibili »; tu t t ’al più essa potrà « contribuire utilmente a lenire e soprattutto ad abbreviare le crisi grazie alla valuta­zione esatta del loro carattere principale e alla previsione razionale del loro risultato finale » \ Tuttavia, al di là della posizione dichiarata di « distacco » sul piano valutativo è evidente il carattere pervasivo, an­che se latente, della posizione pratica del positivismo, che è quella di dar spazio al « corso spontaneo » degli eventi (Adorno, Horkheimer, 1966, pp. 17-18). Corso spontaneo che, in ultima istanza, significa accettazione delle leggi di forza che si manifestano nel campo sociale.

Molti autori hanno quindi sottolineato come la sociologia contenga sempre, quali che siano le sue intenzioni dichiarate, una intenzionalità pratica di legittimazione dell 'ordine sociale esìstente o in fieri o da instaurare. Per dirla con R. Aron (1972, p. 85), « la sociologia ha come scopo quello di risolvere la crisi del mondo moderno, ossia di fornire il sistema dì idee scientifiche che presiederà alla riorganizzazio­ne sociale ». Ciò, del resto, era già del tutto evidente in Saint-Simon.

Fin dal suo sorgere, quindi, la sociologia porta con sé il problema radicale del rapporto fra teoria e prassi. Questa è, del resto, la chiave di lettura cirtica che si c proposta in questo testo. Per sintetizzare l ’in­quadram ento critico-positivo che si è venuto elaborando a poco a po­co si veda lo schema 2, il quale intende essere uno strumento di ri­ferimento concettuale sia per la disciplina in quanto tale (considerata in sé e nelle sue articolazioni), sia per ogni nuova ricerca che si voglia condurre in sede sociologica.

1. Cfr. A. Comte, Cours de philosophic, cit-, p. 9.2. Cfr. Ibidem, p. 407.

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La scelta delia terza posizione presuppone comunque una risposta al quesito gnoseologico: in che modo la sociologia ci fa conoscere, e che cosa ci fa conoscere?

Dal punto dì vista della conoscenza, il problema è quello di sa­pere se le idee e i concetti che abbiam o nella mente corrispondono a a fa t t i /fenom eni reali (e allora conosciamo la verità, come « adegua­tezza » di una idea-concetto al suo proprio oggetto) oppure no (e allora le nostre idee e concetti sono puri enti di ragione, sensazioni, immagini, fantasie, rappresentazioni e così via che non ci fanno conoscere — nel senso proprio di intus-legere — il fenomeno qual è in se stesso).

La sociologia, insomma, ci dà una « verità » o no? 11 quesito, evi­dentemente, non si riferisce a singole affermazioni che si danno di volta in volta: alcune possono essere « vere », altre no, in dipendenza da certe condizioni che debbono essere rispettate per poter asserire se ci si trova nel primo o nel secondo caso. Prescindendo dalla situazione empirica concreta, nell 7i/c et nunc, ci si chiede se — in astratto, veri­ficandosi certe condizioni — è possibile al sociologo attingere la realtà in sé, così come è anche al di là di certe apparenze e al di là delle forme e tipi soggetti a variabilità.

Qui entra in gioco, e non può essere altrimenti, ^una scelta o un atteggiamento filosofico di fondo. Esistono, al riguardo, tre posizioni.

I. Posizione idealista (cartesiana e poi hegeliana in fdosofia; webe-riana in sociologia)

Secondo Cartesio il pensiero conosce le cose grazie a delle rappre­sentazioni distinte sia dal pensiero che dalle cose, rappresentazioni che sono state chiamate « idee-quadri ». 11 punto di partenza della riflessio­ne idealistica è fondamentalmente soggettivo, nel senso che la coscienza comincia col porsi il problema dell’esistenza delle cose esteriori e, con­statando l’opposizione esistente tra il pensiero e l'estensione (res extensa contrapposta al cogito), la quale caratterizza le cose m a­teriali, la coscienza stessa crede di trovare nelle « idee-quadri » una va­lida mediazione, un ponte attraverso cui collegare due realtà radical­mente incomunicabili (eterogenee).

Questo approccio conoscitivo si connota per tre rischi caratteristi­ci: soggettivismo (si parte da ll’autocoscienza), dualismo (esiste una incommensurabilità, inadeguatezza, incomunicabilità, eterogeneità tra il pensiero e le cose esterne conosciute), idealismo (la coscienza che il soggetto ha delle cose deve essere mediata da « idee-quadri » — co­me i « tipi ideali » in M. W eber — che consentono di collegare il pen­siero e la cosa, ma in modo tale che questa è conosciuta solo in parte,

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ente che abbia una sua autonomia (nel senso letterale di autos-nomos di capacità di regolarsi da sé), bensì « un modo di essere » che esige dei soggetti-supporti e che possiede una realtà oggettiva (sui generis) allorché i soggetti in relazione sono reali5.

La realtà umana del sociale, secondo il modo relazionale, è d ’al­tronde implicita nella concezione aristotelica deH’uojno come « ani­male politico ». Va aggiunto che tale relazione sociale deve essere reciproca, e non unilaterale, per avere una realtà oggettiva distinta da un semplice rapporto a l l’altro, co m ’è per la relazione conoscente­conosciuto che non è reciproca. Nella relazione umana troviamo non­dimeno dei rapporti unilaterali allorché uno dei soggetti umani non si comporta o non è riconosciuto come tale. Un esempio classico è quel­lo della relazione del padrone nei confronti dello schiavo considerato come una cosa. La denuncia moderna dello sfruttamento dell’uomo, della sua « cosifìcazione » trova qui il suo fondamento non solo etico ma anche ontologico. La sociologia aristotelica è perciò fondata su una base oggettiva (« reale »), non reificante ma relazionale, o meglio inter­relazionale, e non solleva né le difficoltà del nominalismo riconducenteil sociale a un ente di ragione, né quelle di un sostanzialismo che de­finisca il sociale come una « cosa ». Non si tratta qui di una soluzione intermedia, bensì proprio di una visione realistica del sociale che si presenta veramente come inseparabile dagli individui concreti pur manifestando un carattere oggettivo sui generis nelle sue numerose espressioni (famiglia, comune, stato, associazioni, ecc.), che tuttavia non diventano delle persone collettive, se non in senso metaforico (De Laubier, 1980, pp. 21-22).

Diversamente da P. De Laubier, chi scrive è propenso tuttavia ad attribuire alla relazione sociale un carattere costitutivo della per­sona umana e perciò della forma sociale del convivere (famiglia, sta­to, associazione) in cui si realizza. La persona « collettiva » non è un ente puramente astratto, ma dotato di una sua « realtà » oggettiva esterna che « specifica » le persone se e in quanto esse la « vivono » interiormente. Così è della famiglia che ha una realtà relazionale og­gettiva al di là delle persone, le forgia e le condiziona e quindi esiste come tale, cosa che del resto si può ben comprendere osservando i suoi propri effetti strutturali. Così è, per fare un altro esempio, della classe sociale che non è né un insieme di individui aggregati eonvenzional-

5. Nel caso si tratti di una relazione di ragione senza che i soggetti siano reali (come una relazione matematica presa in astratto, per esempio un rapporto numerico o il rapporto tra il tutto e una parte) la relazione è di tipo ideale e non reale (cioè non ontologica).

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Schema 3 · II posto della sociologia nell'epistemologia classica

Attività umane e tipi di sapere Carattere delFattività:

(A ) Interiore(im m anente o riflessa nel soggetto)

(*)I. Ragione teoretica

(speculativa)

Secondo i modi e gradi deU’astrazione filosofica:

- Metafisica- Matematica- Filosofìa della natura

t

(*)III. Ragione pratica

1. Relativa alle attività etico-sociali (praxis):

Morale (individuale)

2. Relativa alle attività artistiche e tecniche (poiesis):

( * ) Inter-relazioni o interazioni.

( B) Verso l’esterno(transitiva ovve­ro trans-attiva)

Politica (scienza ar­chitettonica ovvero direttrice)

SociologiaEconomia

Arte (agire espressi­vo)Produzione / fabbri­cazione (agire stru­mentale)

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(conoscitivi e / o pratici) su y, cosa che invece viene fatta assai di fre­quente.

Occorre pertanto ribadire, ancora una volta, che quando si evoca « il sociale » si fa sempre di necessità riferimento a una categoria che è per sua natura metafisica in quanto « modo relazionale dell’essere ». Ciò può scandalizzare solo chi è sprovveduto sul piano scientifico. La metafisica (come studio della realtà ontologica e come forma del sapere, sebbene non « scientifico » secondo il paradigma galileiano) è quindi sempre presente, almeno implicitamente, nella conoscenza sociologica e non se ne può prescindere. È veramente scientifico l ’atteggiamento di chi, sapendo che il fenomeno da studiare è un « fatto sociale totale », sa poi distinguere i vari modi e gradi di conoscenza.

Ciò che di meglio il pensiero moderno (filosofico e sociologico) ha prodotto non si oppone alla metafisica, anzi la richiede, in quanto da essa trae il suo scopo, i suoi limiti e la chiarezza per le utilizzazioni che delle scoperte scientifiche possono essere fatte.

Solo in un corretto approccio metafisico, infatti, si potrà distinguere tra il sociale come « ente di ragione » (cioè puro costrutto mentale, qual è per la sociologia idealistica, per l ’interazionismo simbolico puro e, in parte, per una certa fenomenologia) e il sociale come una « cosa » (cioè come pratica materiale, s truttura esterna e coercitiva, qual è per la sociologia materialistica e positivistica): sapendo che tali approcci, se possono avere certo un « senso metodologico », non sono però validi sul piano gnoseologico (perché non hanno una valida base ontologica). E, pertanto, privi del loro fondamento e del­la consapevolezza dei propri limiti (inerenti alla riduzione totalitaria che operano sulla realtà) possono condurre a drammatiche distorsioni nell’attività conoscitiva e pratica. Una conoscenza sociologica autentica, base per un operare valido e corretto, non può trattare il sociale né come una semplice « rappresentazione mentale », né come una « cosa », ma come una realtà oggettiva inter-relazionale, dove la relazione (me­diata simbolicamente, e perciò mentalmente) trae consistenza dai ter­mini (soggetti agenti, gruppi) che mette in connessione e, a sua volta, li con-jorma.

Da un punto di vista operativo, cosa vuol dire « fare sociologia »? È qui importante rendersi conto della specificità della sociologia come studio dei processi collettivi. Quello che la psicologia fa per l ’indivi­duo, la sociologia lo fa per i gruppi e per le collettività, senza che que­sto significhi — come alcuni dicono — che la sociologia sia collettivi­stica o collettivizzante nella sua propria natura. Si comprende allo­ra anche la tendenza della sociologia a inglobare in sé la psico­logia, ovvero la tendenza della psicologia a esprimersi in modo socio-

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gazzo che si droga). In seguito dovrò scegliere il paradigma e il me­todo, in modo da giungere alla teoria. In tutta questa procedura si re­sta ancora sul puro terreno conoscitivo, non operativo, ma la fina­lità pratica è già presente, evidentemente in forma implicita. È ne­cessario scendere sul terreno pratico? È necessario, voglio dire, ai fini della stessa conoscenza (teoria) cui voglio pervenire? Evidente­mente sì, occorre esplicitare l ’intenzionalità pratica, anche se non è detto che poi io stesso agisca in termini di intervento sociale; e que­sto perché — prima ancora di conoscere — potrei aver introdotto degli atteggiamenti, delle scelte di valore, dei sentimenti soggettivi che giocano da premesse condizionanti della stessa procedura cono­scitiva. Esplicitarla significa però non confonderla con l ’analisi scien­tifica, anche delle proposizioni operative che ne possono scaturire. In mezzo fra l ’analisi puram ente teoretica e il discorso pratico intercorro­no tante e tali scelte di valore, che non sono deducibili da l l ’analisi dei fenomeni osservati, che sarà necessario almeno esplicitarle, anche se la loro legittimazione e validazione dovrà ricorrere ad argomentazioni meta-sociologiche;

4) a questo punto sono pronto per entrare nella vera e propria ana­lisi (ricerca sociologica). Debbo scegliere il mio approccio.

Posso allora ragionare in due modi:a) pongo l’evento y alla fine di una catena multilineare di eventi

Xi...Xn che spiegano que ll’esito (l’assunzione di droga). Nella sua forma più semplice lo schema è il seguente:

X] = classe socialeX2 = etàXj = sessoX4 = istruzione | evento yX 5 = tipo di famiglia (di origine) \ __^ (assunzioneX6 = posizione rispetto al mercato / di droga)

del lavoro

X„ = altri variabili che ritengo « rilevanti »

L’assunto sociologico è che la « trama » dei rapporti sociali (data dal­l ’intersezione complessa delle variabili Xi...Xn) « spiega » il compor­tamento dell’individuo.

Fin qui siamo in un approccio di tipo « deterministico ». Per spie­gare in senso sociologico, e non per esempio puram ente statistico-so­ciale, debbo però anche « comprendere » l ’evento y e il senso delle

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ne », a patto però di evitare il nominalismo e il sociologismo: è un porre e un riconoscere piuttosto che un « creare » l ’oggetto (se si vuo­le, è un « pro-durre », nel senso etimologico dell’espressione).

Fin dalla sua nascita, e non poteva essere altrimenti, la sociolo­gia ha sempre mostrato interesse per la salute e la malattia de ll’uomo. Ma, come vedremo, varie sono state le modalità di concepire la sa­lu te /m ala t t ia come « fatto sociologico », e di trarne implicazioni pratiche sul piano operativo.

All’inizio e per molto tempo dopo la sua nascita, l ’approccio socio­logico alla salute è stato e tuttora rimane imbrigliato in quella tradi­zionale « sociologia della medicina » che, nella sua essenza, pratica- mente si confonde con una sorta di « medicina sociale », ovverossia con un interesse vagamente « sociale » — a carattere um anitario — per la cura delle malattie e per i mezzi che possono alleviare le soffe­renze umane, in un quadro di giustizia sociale che si rifà di volta in volta a criteri basati sui bisogni, sull’equità o sull’eguaglianza.

Occorrerebbe qui rifare la storia sia della medicina che della so­ciologia, a partire dal ’700 e poi lungo tutto l ’Ottocento, per consta­tare come la m alatt ia /sa lu te sia considerata nella ricerca sociologica come una entità fisica (deH’organismo individuale o dell’ambiente biologico) 1 che definisce la situazione umana secondo le categorie pro­prie delle scienze naturalistiche afferenti alla medicina. La sociologia, insomma, a l l’inizio mutua la definizione medica di m alatt ia /sa lu te e continuerà a farlo fino ad anni relativamente recenti (potremmo dire: fintanto che persiste l ’omologia tra positivismo medico e positivismo sociologico).

Per sociologia tradizionale della medicina intenderemo dunque l ’applicazione delle metodologie e tecniche di analisi sociologica nella medicina considerata come scienza e apparato sociale di cura delle malattie.

Dalle prime inchieste sulle condizioni di vita delle popolazioni europee, fino alle ricerche della scuola di Chicago sull 'ambiente ur­bano, la sa lu te /m ala tt ia è concettualizzata come fatto fìsico di cui al sociologo spetta studiare la distribuizone sociale (per classi, per aree residenziali, per razze, e così via), i modi di diffusione e, al più, i fattori eziologici pure di tipo sociale. Più tardi verranno inclusi anche

1. Una accurata storia sociale della medicina rivela però che il concetto « fìsicista » della sa lu te /m ala tt ia è una emergenza e una riduzione tipica del periodo che va dall 'illum inism o al positivismo, mentre, anche in epoche an te ­riori, gli aspetti e le connessioni sociali della sa lu te /m ala tt ia erano stati già evi­denziati e valorizzati, come poi accadrà dopo l ’era della teoria batterica (cfr. A.C. T w addle , R.M. Hessler, 1977. cap. 1).

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auto-controllo sanitario dei gruppi sociali, di varia dimensione e na­tura, sul territorio. Per giungere a tale meta, essa deve analizzare nel modo più ampio possibile i sistemi di scambio fra bisogni (needs) e domanda (wants) del mondo vitale da un lato e il complesso sanitario istituzionale da l l’altra. Dunque, ridiscutere temi quali: la istituziona­lizzazione del ruolo del paziente, la stigmatizzazione di certe condi­zioni di malattia e /o di handicap, la segregazione dell’anziano, del­l ’infanzia e in generale di gruppi di persone socialmente deboli o « a rischio », la medicalizzazione della vita, e così via.

In sintesi, mentre la sociologia tradizionale della medicina ha spo­sato un modello analitico-operativo di controllo sociale dei bisogni di salute per via sistemica \ in fondo una forma di medicina sociale o di epidemiologia, la sociologia sanitaria o della salute assume invece c o me modello analitico di interpretazione e di azione un quadro di ri­ferimento in cui la soddisfazione umana dei bisogni passa attraverso un corretto rapporto comunicativo tra mondi vitali e istituzioni socio-sa­nitarie. Non si tratta, come ho già detto altrove (cfr. Donati, 1981d), di una estensione o di un affinamento, ma di una radicale ridefinizio- ne del campo medico-sanitario considerato dal punto di vista della salute come realtà integrale e valore (simbolico) generalizzato. Ci sono, insomma, sia elementi di continuità che elementi di discontinui­tà tra il vecchio e il nuovo approccio, ma questi ultimi sono più « for­ti » dei primi e non implicano soltanto l ’aggiunta o l’integrazione del problema medico della salute con una prospettiva genericamente, per quanto meritoriamente, « sociale ».

E questo possibile? se sì, in che forma? e quali ne sono le impli­cazioni teoriche ed operative in vista di una gestione non alienata del­la salute? Si tratta di un esempio applicativo lampante in cui la socio­logia deve identificare il proprio oggetto distinguendo chiaramente fra aspetti conoscitivi e aspetti pratici. In tale sforzo, è evidente non soltanto che questi ultimi sono inevitabili, ma che essi richiamano di­rettamente problemi di ordine politico ed etico.

Procederemo nel modo seguente. Anzitutto (pr. 2) affronteremo il problema epistemologico, ossia come la sociologia intende la salute, come la conosce, come considera gli eventi che hanno a che fare con la malattia, e come organizza concettualmente tale conoscenza (epi­stema). In un secondo momento vedremo brevemente i paradigmi at­tuali di sociologia della medicina, laddove per paradigma intendo dei modelli di pensiero caratterizzati da un proprio tipo di ragionamen-

3. La rilevazione dei bisogni può essere fatta attraverso metodologie che appartengono a due m odalità com pletam ente distinte che ho chiam ato « per via sistemica » e « per via di m ondo vitale »: cfr. Donati, 198le.

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disciplina autonoma. E spetta, appunto , a Durkheim l’averlo eviden­ziato. Senonché è anche evidente che l ’intendere la norma in senso statistico presenta enormi limiti, proprio dal punto di vista della so­ciologia più matura, in quanto spesso tale assunto porta a « colletti­vizzare l ’individuo », ossia a dare rilevanza agli aspetti uniformiz- zanti e, in ultima istanza, a studiare e interpretare il soggetto agente co­me un epifenomeno del sociale anziché farne il suo proprio supporto costitutivo 7.

2) In secondo luogo, per Durkheim, non si può definire la sa lu te / malattia da certe sue manifestazioni o sintomi (come per esempio il dolore). Questa posizione, che nega valore e rilevanza ai sintomi e ai modi di esprimerli, sta al cuore del « modello medico biologistico » del­la sa lu te /m ala tt ia e dovrà essere messa in seria discussione (Engel, 1977, pp. 133 ss).

3) Parallelamente, proprio in quanto — secondo Durkheim — la salute non può essere definita in termini di sintomi o di assenza di do­lore, essa non consiste neppure in un « perfetto adattamento » dell’or­ganismo al suo ambiente. La salute può anche consistere in situazioni in cui l ’individuo sta male (mestruazioni, parto), o si sente in crisi (menopausa), o subisce un decadimento (condizione anziana) — tutte situazioni di non perfetto adattamento — , laddove ciò sia « implicato nella costituzione regolare dell’essere vivente ».

Da questo punto di vista, il Nostro sembra in sostanza avanzare un concetto di salute che si identifica con la « normalità di vita » intesa come decorso naturale dei fatti bio-fisiologici. Vale la pena però di osservare, anche a questo proposito, che Durkheim presenta una forte contraddizione: da un lato si rifiuta di considerare il criterio del « mi­glior adattamento » aH'ambiente come criterio oggettivo di salute, dal­l ’altro però concluderà che « normale » è ciò che ha potuto generaliz­zarsi perché forma di organizzazione, nel suo complesso, più vantag­giosa e più capace di resistere alle cause di malattia e di distruzione. La contraddizione potrebbe essere spiegata osservando che Durkheim rifiuta il criterio de ll’adattamento in quanto esso comporti un giudi­zio di valore (il che sarebbe fare deU’ideologia), mentre lo accetta co-

7. Al riguardo esiste un 'enorm e letteratura, la quale storicam ente prende avvio proprio dalle am biguità di D urkheim . Secondo alcuni, tale A. subord ina com pletam ente l ’individuo alla società e secondo altri ne rispetta invece l’au to ­nom ia relazionale. La prim a tesi è prevalente, la seconda, sviluppata più di re­cente, rimonta agli studi, in particolare, di Alpert, 1961.

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si confonde con quello della specie. Non si può, senza contraddizione, concepire una specie, che di per se stessa ed in virtù della sua costitu­zione fondamentale, sia irrimediabilmente malata. Essa è la norma per eccellenza e, perciò, non può contenere niente di anormale ».

Così la malattia, per Durkheim, è tanto specifica e naturale quanto10 è la salute, per ogni specie vivente. Solo, la salute è la condizione propria della « natura normale », mentre la malattia è il suo « tempera­mento » « non ordinario » ovvero la sua esistenza in condizioni non usuali (quelle da cui l’essere vivente dipende). II concetto-chiave at­torno a cui ruota tutto il ragionamento de! Nostro, come si è già det­to più volte, è quello di norma. La difficoltà di definizione della salu­te sta nel rinvenire la « normalità » che, pur essendo riferita a dati empirici, viene pur sempre stabilita — per la sua natura statistica — ad una classificazione convenzionale. Alla fine, il criterio esterno e oggettivo cercato da Durkheim per separare il normale dal patologico diventa una questione di norme che sono bensì riferite al reale, ma vengono costruite in modo convenzionale. Durkheim apre così una profonda ambivalenza: la salute, come oggetto della sociologia, ap­pare infatti tanto come una condizione che si dovrebbe identificare oggettivamente per via empirica (sulla base di un paradigma biolo­gico), quanto come una « costruzione sociale » che ha i caratteri del­la classificazione convenzionale. Qui è la breccia su cui si innesterà la teoria della pura « definizione sociale » della salute/malattia .

Attraverso questi passaggi, Durkheim sfalda a poco a poco la nozione (anzi qualsiasi nozione) « assoluta » di sa lu te /m alatt ia , sia essa di natura filosofica (metafisica) che bio-medica, per farne una questione tassonomica ed empirica, di « tipi sociali » inerenti le spe­cie e. al loro interno, le diverse fasi di evoluzione.

È importante osservare che lo sfaldamento di un possibile con­cetto sostantivo e universale si verifica proprio in quanto Durkheim in­tende portare coerentemente sino in fondo il suo metodo positivo, che esige di pervenire ad una distinzione oggettiva (dal punto di vista delle cose) del normale e del patologico.

Ma « la cosa » (il fatto sociale), proprio in quanto è vista come cosa (reificata), non si lascia mai distinguere definitivamente, sicché la nozio­ne di sa lu te /m ala tt ia diventa del tutto relativa e il confine sociologico tra l ’una e l ’altra rimane definito in termini puramente quantitativi (sa­no è ciò che si riscontra nella maggioranza; patologico è l ’eccezionale,11 marginale, il deviante).

Partito alla ricerca di un « criterio oggettivo inerente ai fatti stes­si », Durkheim finisce per identificare la salute con la pura normalità delle situazioni, ovvero delle « singole specie » così come sopravvivono

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Del resto, Parsons si rifiuta esplicitamente anche di riferire il con­cetto di salute, al di là dell 'individuo umano, alle collettività come le popolazioni o le specie (si ricordi Durkheim) ovvero a gruppi di so­cietà. Tale ampliamento non è in alcun modo possibile secondo Par­sons.

Tuttavia egli riconosce la possibilità di estendere il concetto di sa­lute, dal punto di vista simbolico, dal livello organico a quello « socia­le » de ll’azione (come investimento simbolico). Nella prospettiva del­la teoria dell’azione, la salute può, anzi dovrebbe essere considerata come mezzo simbolico generalizzato di interscambio. Come tale, essa si colloca a un livello intermedio fra i mezzi generalizzati di azione quali il denaro, il potere e il linguaggio da un lato, e i mezzi intraor- ganici come gli ormoni e gli enzimi da l l ’altro. È una « dotazione » (endowment) de ll’individuo, che circola entro l ’organismo, entro la personalità e tra organismo e personalità: può essere utilizzata per « mobilitare e acquisire risorse essenziali per un funzionamento sod­disfacente » dell’individuo, ma non può essere « accumulata » (hoar- ded).

In questa direzione si perviene così a una definizione piuttosto ampia: «la salute — conclude Parsons (1978, p. 82) — concerne le condizioni sottostanti della vita organica degli esseri umani, la loro nascita biologica, la loro morte, e i livelli di funzionamento tra di essi, ma allo stesso tempo concerne il problema del significato di que­sta vita e le sue vicissitudini. Espungere l ’uno o l ’altro aspetto porte­rebbe a viziare il significato (significance) del concetto come un tutto ».

Contro queste « aperture » (e le possibili implicazioni) resta però la teoria del sistema sociale che chiude, anziché arricchire, gli svolgi­menti deducibili in chiave di teoria dell’azione (per questo sarà ne­cessario passare al paradigma relazionale: cfr. tab. 1 più oltre). Ve­diamo come e perché.

A Parsons, come abbiamo visto, preme soprattutto esplicitare una connotazione della malattia: non ci deve essere « colpa » del soggetto ( l’essere malato non può essere considerato un atto o un effetto volon­tario e quindi colpevole de ll’individuo). Questo aspetto non era stato considerato da Durkheim, mentre Parsons lo rende evidente per accen tuare l ’aspetto « oggettivo » socialmente identificabile della malattia e insieme per porre le premesse della sua teoria sul ruolo del paziente (sick role) come ruolo « oggettivamente » deviante per il sistema so­ciale (essendo tale in primis non per l ’esplicita intenzione de ll’attore, ma per le implicazioni obbiettive che ha sul e dal punto di vista del sistema sociale).

È in questa linea che, secondo Parsons, la malattia diventa e deve

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¡'ab. 1 - Gli approcci tradizionali di sociologia della medicina e il paradigma relazio­nale della salute

Paradigma bio-medico

a orientamento individuale

(T. Parsons)*

Paradigma bio medico

a orientamento sistemico

(A.C. Twaddle)

Nuovo paradigma sociologico relazionale

(da sviluppare)

Definizione normalità/ adattam ento / relaz. valida/sociologica di salute/ 'malattia

/devianza /disadattam ento /relaz. distorta

Unità di individuo individuo soggetto agenteanalisi nei ruoli nel rapporto (individuo o gruppo)sociologica (o role-set) fra sotto-sist. nel rapporto

del sistema soc. e ambiente fra m ondo vitalesociale societario e sistema sociale

Livelli di attribuz. organico, organico, organico,di realtà psichico psichico, psichico,alla salute ** sociale sociale,

culturale

T eoria teoria dei teoria teoriasociologica ruoli sistemica relazionaleutilizzata (struttural-funz.) (funzionalista a

sfondo biologico)

(integrazione della teoria dell’azione soc. e dei sistemi

soc.)

Impostazione la malattia la malattia la malattiadal pun to è un probi, di è un probi, di è un probi, didi vista integrazione adattam ento comunicazionepratico circa soc. dal punto fra sist. soc., valida tra m ondola malattia di vista del sist. psicol. e vitale e sist. soc.( sickness) sistema sist. biologico (a livello micro

e inaerò)

* Ci si riferisce in particolare alla prima riflessione di T. Parsons sulla salute (scrit­ti fra il 1949 e ii 1958) essendo chiaro che in tale A. vi sono tu tte le premesse per il paradigma sistemico successivo.

** Si tratta , in altri termini, delle categorie che possono essere riferite alla salute in senso empirico (e non solo analitico).

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In base a queste premesse si arriva alla conclusione che una entità o una condizione è una malattia (discase o illness o sickness) solamente se e in quanto è riconosciuta e definita come tale da una cultura.

La malattia è dunque vista sotto Vunica ottica della costruzione sociale della realtà. Nelle versioni più radicali è una pura costruzione sociale. Non ci sarebbe malattia nella realtà “na tu ra le” e “oggettiva" che sta al di là del (in quanto precede e ha una consistenza propria esterna al) significato che le assegna l ’uomo (cfr. ad es. Conrad, Schneider, 1980). Dire che non c e malattia nella «natura delle cose», ma che esiste solo la relazione di attribuzione di senso, significa evidentemente soggettivizzare in modo assoluto sia la malattia sia la relazione sociale.

La malattia diventa allora un « pregiudizio sociale ». Per dirla con un esponente di questo approccio, J.R. Gusfìeld (1967), « l a malat­tia (illness) è una designazione sociale, in nessun modo data dalla natura del fatto medico ». Poco importa che vi sia un generale con­senso soggettivo, perché sempre di soggettività si tratterebbe.

La malattia, nella versione dei Chicagoans, si trasforma in sino­nimo di « etichetta »: è, in altri termini, la designazione artificiale di un fatto socialmente considerato e vissuto, per motivi che nulla hanno a che vedere con la salute, come indesiderabile. Si riconosce, ovviamente, che qualche rapporto con un disordine organico o m en­tale esiste, ma questo paradigma enfatizza il carattere assolutamente non biunivoco (bensì del tutto contingente) della relazione tra il « fatto » e la sua designazione sociale.

b) Le implicazioni operative come totale de-istituzionalizzazione delle pratiche di cura. Il punto di partenza del risvolto pratico di que­sto approccio sta neH’assunto che chiamare qualcosa « malattia » nei rapporti sociali ha conseguenze indipendenti sul paziente desi­gnato dagli effetti che i fattori organici esercitano sulle condizioni biologiche deH’organismo. In altri termini, definire una persona come « malata » aggiunge al suo stato organico una condizione sociale to­talmente artificiale, la quale influenza (in genere negativamente) il suo status-ruolo, la posizione complessiva che occupa nella società e in generale tutte le possibilità di vita. Tra condizione « biologica » e condizione « sociale » vi sarebbe insomma, una discrasia e una contingenza pressoché totale in balìa di interessi e relazioni di potere riconducibili allo schema sfruttato-sfruttatore.

conto è affermare che essa semplicemente non esiste, negando peraltro la possi­bilità di form ulare teoremi di approssim azione successiva.

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c. ci si attende da lui che voglia abbandonare il ruolo di malato e ritornare a star bene il più presto possibile, cioè che egli con­sideri indesiderabile il suo stato (il che soltanto può legittimare le sue esenzioni di ruolo);

d, ci si aspetta che egli cerchi un aiuto terapeutico « tecnicamente competente »> che, « nel caso più usuale », sarà un medico.

La malattia è considerata sotto l ’aspetto di ruolo sociale deviante, oggettivamente disfunzionale per la società prima ancora che per la persona, ruolo che può essere legittimato solo dal medico. 1 due am­biti ritenuti più rilevanti, perché più produttivi di tensioni, sono la famiglia e il sistema industriale che pertanto, in quanto cause emi­nenti di fallimento del ruolo sociale (in società occidentali industria- lizzate), sono anche i luoghi e i referenti privilegiati del lavoro del medico.

Mentre riconosce questi fatti, l’approccio struttural-funzionalista è ben lungi dal trarne tutte le implicazioni critiche che si potrebbero facilmente derivare qualora si ponesse in questione il fatto che sia il medico a dover « assolvere » le forme di « devianza » che, pur manifestandosi come malattie, provengono da stress e conflitti nel si­stema sociale. Parsons stesso non ha mai analizzato a fondo come e perché tutto ciò si compia, e in particolare ha mancalo di indagare l ’agire del medico allorché questi designa una condizione o compor­tamento come « sintomo » o come un « indicatore » (o « informato­re ») di malattia, malessere, disagio, indisposizione e così via. È in­fatti il medico che media fra il soggetto e il sisiema, perché è lui che decide se un particolare insieme di « simboli » riflette o no una ma­lattia. In questo il suo compito eccede di molto le competenze tecni­che, per divenire un ruolo che è in qualche modo « sovrafunzionale », perché è allo stesso tempo politico, etico, giuridico, economico, edu­cativo, e così via.

La diagnosi medica è, quindi, u n ’attività di controllo sociale isti­tuzionale riconosciuta anche legalmente dal sistema sociale (dallo sta­to, da l l’azienda, ete.). Così come il giudice e la polizia certificano legalmente la devianza (penale e civile), i) medico certifica chi e ciò che è malato. Nel fare ciò il medico pone sotto una precisa giurisdi­zione (quella della corporazione) determinali comportamenti e situa­zioni che potrebbero in linea di principio essere invece di pertinenza di altre sfere e di altri ruoli o figure competenti, ad esempio del sociologo, o del giurista, o deU’educatore, o del sacerdote, o del poli­tico o altro (che di fatto lo sono in certe società) (Manning, Fabre- ga jr., 1973).

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(e, secondo lui, l ’inevitabilità) di subordinare lo stato alla società c iv i le31. Un « r iba l tam en to para lle lo» che dice molto sul carattere insieme meccanico, utopico ed estrinseco con cui viene trattato il pro­blema della salute allorché viene affrontato più in termini economici e politici che sociologici.

4.4. L'approccio radicale

Questo approccio è spesso mescolato e confuso con altri (specie quello marxista) per la carica critica che contiene, ma occorre distin­guerlo a sé per almeno due buoni motivi.

Primo, perché le cause dei caratteri alienanti della medicina ven­gono ricondotte non già al capitalismo come tale, ma al più generale « modello culturale » di industrializzazione e di razionalizzazione burocratica della società occidentale di cui il capitalismo è solo un aspetto, una versione o una fase (in ciò l ’analisi è più weberiana che marxiana).

Secondo, perché si problematizza radicalmente la definizione so­ciologica di sa lu te /m alatt ia , la quale viene elaborata assai più che nella versione — tutto sommato positivista — del marxismo orto­dosso, sulla base di una epistemologia e di un paradigma largamente mutuato dalla fenomenologia con componenti, a dosaggio misto, di istanze esistenzialistiche, illuministiche, vitalistiche.

Per I. Illich (1977), ad esempio, la iatrogenesi medica e, più in generale, la medicalizzazione della vita vanno ricondotte a l l’indu­strializzazione e alla tecnologia come tali, piuttosto che alla struttura politico-economica capitalista in senso strettamente marxiano. £. il mo­do culturale occidentale di trattare e aggredire la malattia che fa problema.

J. Ehrenreich (1978), dal canto suo, rimprovera apertamente ai marxisti il fatto che essi, senza mettere in seria discussione il con­cetto occidentale di salute, reclamino sic et simpliciter l ’egualitarismo delle cure mediche per tutti i cittadini e per tutte le classi sociali, e in tal modo contribuiscano quindi a diffondere proprio i modelli tera­peutici (borghesi) più medicalizzati. 11 che significa una più accen­tuata e generalizzata alienazione umana, e non solo sociale, inerente l’uomo interiore al di là delle relazioni oggettive esterne.

31. Per dirla con V. N avarro (1978, p. 449), ci si rivolge « a coloro che con­dividono la prassi di costruire una società in cui. come Marx ha indicalo, lo stato (e io aggiungerei - dice N avarro - la medicina) sarà trasform ato da organo s o v r im p o s to alla società in organo subord inato ad essa ».

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« forza » in risultati apprezzabili di efficienza e di efficacia. Una si­tuazione che sembra ben lontana dall'essere raggiunta, e invero sem­pre più rara, considerata la crescente scarsità di risorse (economiche e motivazionali) cui vanno incontro gli attuali sistemi a regime di welfare.

II) L’approccio radicale della demedicalizzazione, come abbiamo visto, si definisce più per l ’antitesi e il ribaltamento che opera rispetto al quadro neo-funzionalista che per la chiarezza, concretezza ed effi­cacia delle proposte in positivo. Nonostante le sue pretese alquanto « vaghe », possono comunque essere rintracciate alcune direzioni ope­rative.

Le soluzioni proposte, mi sembra, sono ispirate alla diminuzione della complessità, sia a livello individuale che di gruppo, comunque fuori dal sistema sociale organizzato medicalmente. E ciò per il tra­mite della deistituzionalizzazione della pratica sanitaria e l ’assunzione di un impegno curativo da parte degli stessi soggetti di bisogno (Crawford, 1980). Cioè per il tramite di una completa abolizione del controllo sistemico (e il suo trasferimento al controllo sociale inteso come «w/ocontrollo dei soggetti individuali e collettivi).

Dopo i primi entusiasmi per la linea operativa della deistituzio­nalizzazione (che peraltro è stata piuttosto forte, anche in Italia, negli anni ’70) (Donati, 1 98 lb), forti limiti e carenze si sono via via evi­denziati anche per questo tipo di soluzioni operative. Particolarmente gravi appaiono oggi le conseguenze per quanto riguarda il trattamento dei malati mentali, dei tossicodipendenti, degli anziani non autosuffi- cienti, e di altre categorie di soggetti pesantemente e negativamente colpiti da questa logica di sfondamento del complesso culturale dei significati e degli interessi prevalenti.

Più in generale, però, deve essere evidenziato il carattere assai ambiguo di questa linea. Infatti, se in apparenza il paradigma radi­cale cerca di opporsi alla medicalizzazione, non ci si può nascondereil fatto che, al contrario, c ’è il pericolo che la favorisca. Per tutti i soggetti deboli sopra richiamati, infatti, sono sorte nuove e spesso assai poco umanizzanti tecnologie di gestione per rimediare alla man­canza dell’intervento istituzionale. Detto con una battuta, la linea neo-funzionalistica alla Parsons favorirà certo la parcella dei medici e gli interessi della corporazione, ma questa seconda linea — alla fine — sembra solo favorire gli interessi delle industrie sanitarie per le quali si apre un ampio mercato di domanda di nuovi prodotti per la salute sotto l ’etichetta dell’« autocura ». Occorrerà dunque riana­lizzare, con un serio schema di analisi, il rapporto bisogni-servizi in

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oppure sottende un riferimento a fatti reali, dotati di un senso e di una concretezza? I dati reali, si è detto, stanno negli individui, che sono il concreto dell’esperienza della salute/m alatt ia . Ma è pur evi­dente che anche le altre entità di riferimento, i gruppi sociali, hanno una loro « realtà » di salute/m alatt ia . Come deve essere concepita tale « realtà »?

Terzo, quanto all’aspetto pratico (pragmatica), si è detto che la cura della sa lu te /m ala tt ia non può essere compresa né come sem­plice compito sistemico, né come compito di puro mondo vitale, ma di reciproca comunicazione fra i due poli. Esistono però condizioni di incapacità e di impossibilità di comunicazione, e l ’esito sta in situazioni di più o meno completo isolamento e alienazione dei due. Chi attiverà, in tal caso, il reciproco rapporto comunicativo?

Ho formulato questi interrogativi sapendo di aver già dato, al­meno in parte, una linea di risposta allo scopo di sollecitare l ’imma­ginazione sociologica dell’interlocutore. Concludendo mi limito a ri­badire che le estensioni di cui sopra mi sembrano non solo inevita­bili ma anche auspicabili. E che la generalizzazione simbolica della salute e l ’attivazione di nuovi operatori della salute definiscono per l ’appunto un nuovo campo, teorico-pratico, al quale spetta il com­pito di studiare i caratteri e le condizioni patogenetiche delle rela­zioni e dei sistemi sociali e culturali. Questo campo è la sociologia della salute, potenzialmente capace di definire un proprio profilo pro­fessionale distinto dalle figure sia del medico sociale che dell epi­demiólogo.

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altri) gli confermeranno, per esempio, che i tassi di nuzialità — negli ultimi anni — sono calati notevolmente. Potrà scegliere altri indi­catori (avere figli, essere membro di organismi di partecipazione ci­vica, sociale, politica, aver votato nelle ultime elezioni, e così via). A questo punto predisporrà un questionario in cui le domande ri­flettano un certo quadro concettuale di ipotesi sull 'andamento del fenomeno, le correlazioni, le relazioni causali, e così via. Formerà poi un campione rappresentativo di popolazione (se vuole arrivare ad una stima del fenomeno nella popolazione universo), secondo le normali procedure statistiche. In seguito condurrà le interviste, e poi elaborerà i dati secondo il piano di lavoro (disegno sperimentale di ricerca) precedentemente ideato.

Supponiamo che, alla fine, verifichi che sì, effettivamente la ten­denza che Tizio ha chiamato « disimpegno sociale » è forte e diffusa (nel senso che, rispetto a certi parametri, per esempio al 50% della popolazione, è più elevata e tocca in modo esteso tutti i gruppi so­ciali, chi più chi meno attorno a una certa media, secondo certi indici di variazione, e così via). Fin qui egli ha fatto della pura sociografia. E tale resta anche l ’analisi dei trends qualora possa avere le serie storiche sugli indicatori e possa condurre u n ’indagine longitudinale.

A questo punto sorge il problema: come interpretare il fenomeno (che ha chiamato del « disimpegno sociale »). Il « puro » problema sociologico nasce quando Tizio si chiede: « perché » (cresce) il disim­pegno sociale?

Il perché, come già si è detto, (ma vale la pena ripeterlo tanto è importante), può essere enunciato in due sensi: a) nel senso « da quali cause » {Weil-Moliv) è generato, oppure b) nel senso « a che scopo » tende (Umzu-Motiv), ossia quale ne è il significato e l ’in­tenzionalità \ Verrà poi un ulteriore stadio dell’analisi sociologica: c) lo studio degli effetti (possibili e probabili) del fenomeno y.

Comunque, è dal « perché » che inizia la sociologia. Vediamo i tre problemi distintamente.

«

a. Il primo problema consiste nell’analisi causale che dovrà es­sere fatta se si vogliono conoscere almeno i principali fattori che spingono avanti il fenomeno y \

b. Il secondo problema pone una questione interpretativa che può essere quantificata entro certi limiti, piuttosto stretti (anche se « oggettivabili »), e per altri aspetti risolta attraverso analisi quali-

3. Ricordo che la distinzione fra Weil-Motiv e Umzu-Motiv è di Schütz. 1979.4. Non è qui possibile soffermarci sugli aspetti tecnici assai complessi del­

l’analisi causale in sociologia.

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sa di distanza dalle proprie opinioni personali, stati d ’animo sogget­tivi, interessi e fini particolaristici dell’osservatore/ricercatore.

Tale oggettivizzazione può essere ottenuta seguendo due tipi di paradigmi (e metodi), che hanno i loro propri limiti:

a. il paradigma (metodo) deterministico causale: qui la relazio­ne è intesa in modo causale (A —> B), il che viene fatto in sede di statistica sociale e di metodi quantitativi affini, secondo le forme e i limiti in precedenza ev idenz ia t i8;

b. il paradigma (metodo) interazionale: qui la relazione sociale è intesa come « rapporto fra » (essere in relazione con), risultante da azioni, o meglio inter-azioni, di soggetti intenzionali relativamente liberi; questo è il vero aspetto della sociologia, che fa precedere la comprensione alla spiegazione, e dà largo spazio ai metodi quali­tativi (che non sono quantificabili, spesso, neppure su basi probabi­listiche o tipologiche).

3. La sociologia relazionale riconosce, quindi, come propria pre­messa gnoseologica, la possibilità di attingere la realtà così come essa è. La realtà è supposta intelligibile. Ed è intelligibile nel senso che il sociologo può avere conoscenza dell’universale a partire dal particolare, in modo tale che il concetto (universale), anche sotto forma di tipologia, ha un fondamento nelle cose {in re) e non è soltanto una costruzione mentale.

Questo assunto è giustificato dal fatto che la relazione sociale è costitutiva del concreto soggetto agente così come della situazione (sebbene in modi differenti): la relazione sociale non è una mera invenzione o convenzione (nominalismo), perché ha una sua consi­stenza, né però è sostanza prima (materialismo o realismo totalitario) giacché non esiste a prescindere dai soggetti che sono in re laz ione9.

8. Mi s o n o m fa l to in ciò alla metodologia di R. Boudon (cfr. bibliografia). Aggiungo qui che l ’uso critico del m etodo causale secondo Boudon, a mio av­viso, non è incompatibile con la critica del principio di causalità svolta da N. Luhm ann (1982).

9. Un testo che chiarisce in m odo didattico questa posizione è quello di Giesen e Schmid (1982). Gli autori definiscono come realismo quella « d o t t r in a che parte dal presupposto di un significato reale - intensionale ed cstensionale - dei concetti teorici. Una loro riconduzione a concetti empirici è necessaria ai fini del controllo sugli enunciati universali, ma non basta ad esaurirne il significato » (ivi. p. 26). Il realismo si oppone a lYoperazionalismo che è quella do ttr ina che, al contrario della precedente, nega autonom ia di significato ai concetti teorici, riconduce il significato di questi ultimi a un num ero finito di operazioni em pi­riche, accen tuando fortem ente - per non dire esclusivamente - l ’elem ento em pi­ricamente osservabile (ricordo che per « concetto teorico » si in tende un con-

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l ’essere segno e lo « stare per » qualcos’altro — che può coincidereo meno con quello del soggetto agente (la conoscenza è « scientifica » nella misura in cui c ’è congruenza fra osservatore e realtà osservata).

2. Tale realtà è intelligibile e in sé non necessariamente contrad­dittoria; la contraddizione è data come comunicazione ed è colta in sede simbolica e logica (cioè nel pensiero riflesso, nei discorsi e nelle teorie).

3. La scienza procede per problemi (intesi come « perché ») e a partire da problemi, attraverso procedimenti di approssimazione che seguono il criterio della verità-corrispondenza (e non i criteri con- venzionalistici o contrattualistici della verità); pur potendo adottare sul terreno metodologico ed empirico il criterio della falsificabilità co­me regola procedurale in base alla quale una teoria è scientifica in senso positivo allorché in linea di principio è dimostrabile come falsa, tuttavia non ritiene tale criterio decisivo in ultima istanza agli effetti del sapere nelle sue varie forme, giacché il realismo critico non accetta il postulato del positivismo logico secondo il quale le asserzioni sono cognitivamente significanti se e solo se sono empiricamente verifica­bili; anche di ciò che non è verificabile (e quindi falsificabile) si può dare « scienza », ma è ovvio che questa deve ricorrere a procedure di altro ordine (queste sono in ultima istanza basate sul Verstehen e sulla comprensione intersoggettiva secondo modalità raz io n a l i ) ,3.

4. 11 metodo delle scienze può essere ricondotto ad un quadro unitario, nel senso che una distinzione netta fra la logica delle scienze naturali e la logica delle scienze sociali è infondata; tuttavia il rap ­porto tra « spiegazione » (causale) e « comprensione » (dei motivi) del fatto è diversamente strutturato nelle prime e nelle seconde, in quanto l ’oggetto delle scienze sociali — a differenza delle scienze naturali — è simbolicamente costituito e mediato (ossia i fatti sociali non si la­sciano identificare e spiegare senza il ricorso alle in terpre tazioni/rap­presentazioni che gli agenti si danno delle circostanze situazionali, delle finalità e delle modalità dell’azione); la differenza fra scienze naturali e sociali ex parte objecti non impedisce tuttavia che tale costituzione e mediazione simbolica sia « oggettivabile » da parte del­l’osservatore (e non solo come comprensione intersoggettiva univer­sale) e dunque sottoponibile a conoscenza razionale.

è soggetta la loro vita » (cfr. Th. Adorno, Sociologia e ricerca empirica, in Aa.Vv., 1972, p. 97).

13. Per un valido aggiornam ento sulle tesi e i limiti del falsificazionismo classico e metodologico: cfr. C iesen e Schmid. 1982, cap. 3.

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senta vari tipi e gradi di intensità di coscienza. Tuttavia sui prodotti deH’attività umana influiscono altri fattori: a) gli effetti dei grandi numeri o effetti di aggregato22 che sono pure essi sociali, e b) fat­tori riconducibili alla natura, interna ed esterna. Di conseguenza il fenomeno sociale, oggetto della sociologia, va scomposto nelle com­ponenti date dalle azioni intersoggettive, dagli effetti sistemici di com­posizione e dalle condizioni della natura interna ed esterna ai sog­getti agenti. Anche sulle strutture sociali che, al fondo, sono modelli culturali consolidati e che. come tali, rappresentano il prodotto di processi riproduttivi, cumulativi e di trasformazione (Boudon, 1980, capp. 5 e 6), agiscono le medesime componenti.

11 tesi) La parte « r e s id u a » dell’azione e della struttura sociale che non è oggetto diretto (materiale) della sociologia deve essere ricon­dotta a condizionamenti precostituiti che possono essere generica­mente definiti come vincoli di ambiente (i quali r imandano a fattori che sono in gran parte di carattere biologico, anche di « biologia cul­turale » e storica).

I l i tesi) Le strutture sociali vengono spiegate e comprese dalla sociologia come prodotto dell'azione di individui storicamente situati che si muovono come attori in sistemi funzionali (organizzati in ruoli) e come agenti in sistemi di interdipendenza (che prescindono da vin­coli organizzativi formalizzati in ruoli).

I sistemi funzionali (basati sulla divisione formale del lavoro, su ruoli e istituzioni come sistemi di ruoli) possono essere interpretati, spiegati e trattati come « precipitati storici » di sistemi di interdipen­denza aventi particolari effetti aggregati, compositi o « perversi ». I sistemi di interdipendenza sono situazioni relazionali di interazione fra soggetti aventi una libertà condizionata (cioè agenti con determi­nati motivi « a causa dei quali ») e condizionale (cioè aperti con determinati motivi « a fine dei quali ») che viene esercitata in forme di scambio (gli scambi possono essere di carattere simbolico, mercan­tile o politico).

IV tesi) Le strutture, che sono forme consolidate (un precipitato storico) di azioni sociali (cioè collettive), vanno considerate: a) sia come limite (vincolo) dato all’azione umana; b) sia come aiuto (ri­sorsa) per ulteriori capacità (padronanza di una crescente comples­sità). Esse non sono però mai fattori deterministici di azione per la natura ambivalente delle strutture medesime (ovvero delle norme e

22. Quelli che Boudon (1981) chiam a in generale «< effetti perversi

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5. Il postulato della compatibilità. Il sistema dei concetti e tipi ideali deve contenere solo presupposti veriiìcabili scientificamente (non si dice empiricamente), che devono essere pienamente compati­bili con la nostra conoscenza scientifica nel suo insieme 2\

Gli ultimi tre requisiti relativi alla costruzione dei tipi ideali vengono riassunti da A. Schütz nel postulato della razionalità, secondo il quale « il tipo ideale detrazione sociale deve essere costruito in modo tale che l ’attore nel mondo della vita eseguirebbe l ’atto tipificato se avesse una conoscenza scientifica chiara e distinta di tutti gli ele­menti rilevanti per la sua scelta e una costante tendenza a scegliere i mezzi più appropriati per la realizzazione del fine più appropriato ». Secondo Schütz, infatti, solo l ' introduzione del concetto chiave di razionalità (come sopra definito) permette di costruire la « teoria pura ». Con ciò egli propone una pesante mutilazione della conoscenza della realtà sociale come mondo della vita, nella misura in cui que­s t ’ultimo non segue « l’ideale della razionalità » (Schütz, 1979, p. 362). « Il postulato della razionalità implica — egli aggiunge — che ogni altro comportamento deve essere interpretato come una deriva­zione dello schema di base dell'agire razionale. La ragione di ciò è che solo l ’azione che si svolge entro lo schema delle categorie razionali può essere considerala scientificamente. La scienza non ha a disposi­zione altri metodi al di fuori di quelli razionali e non può, pertanto, verificare o falsificare proposizioni puramente occasionali. (...) In un sistema teorico, pertanto, sono ammessi solo tipi puramente razio­nali » (ibid., p. 369).

Questo esito razionalistico della fenomenologia schütziana non può essere accettato. Non è vero che lo scienziato sociale conosca solo le marionette o gli homuncoli che egli stesso ha creato. Non è vero che. « mantenendosi ai princìpi che lo hanno guidato, lo scienziato riesce davvero a scoprire nell’universo, così creato, la perfetta armonia da lui stesso stabilita » B. Basta infatti utilizzare coerentemente fino in fondo il principio di adeguatezza per rinvenire nel mondo sociale quei tipi di azioni non-razionali-in-senso-strumentale, quali sono ad esempio le azioni orientate in senso espressivo, in senso tradizionale e in senso razionale rispetto al valore v>, per le quali occorrono concettualizzazioni

24. Q u es t’ultimo postulato, a mio avviso, rappresenta il punto di massima concessione al neo-positivismu logico da parte di A. Schütz e può incorrere nelle critiche di eccessivo razionalismo che vengono qui svolte nelle pagine seguenti.

25. Così ironicamente conclude lo stesso Schütz, 1979, p. 47.26. Occorre insomma ritornare a M. W eber, riconsiderando le sue categorie

sociologiche alla luce, anziché deU'epistcmologia neo-kantiana, del realismo critico.

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Dire che la conoscenza sociologica (razionale) è sempre mediata simbolicamente significa asserire che tra il soggetto e l ’oggetto (realtà) della conoscenza operano princìpi di analogia simbolica e di co-rela­zione che hanno fondamento in re e non sono semplici stati o rappre­sentazioni mentali. Occorre recuperare l ’uso sintetico della ragione sociologica.

5. Il concetto di costruzione sociale della realtà (ovvero della realtà come costruzione sociale) può e deve quindi essere inteso in ter­mini di realismo critico, abbandonando sia gli schemi (neo)positivi- stici sia quelli (neo)nominalistici.

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traddizione permanga, la dom anda che a questo punto si pone è: si può/si deve scegliere? e, se sì, in base a quali criteri?

I l i* tesi. La risposta all’interrogativo se si possa scegliere dipende da quale concezione si ha della sociologia e del m odo conseguente in cui è espressa, se cioè la si intende come disciplina scientifica (orientata in primo luogo alla conoscenza razionale) oppure come disciplina espressi­va (cioè come peculiare — ovvero «altra» — espressione simbolica di certi aspetti della vita sociale). La differenza si manifesta nel tipo di codice simbolico utilizzato.

IV 11 tesi. Nel prim o caso la scelta è in linea di principio possibile in base al criterio della po r ta ta conoscitiva (razionale) delle singole socio­logie, vuoi secondo criteri di generalità o interezza (dunque, di inclusivi- tà), vuoi secondo criteri di decisività o com plem entarità irriducibile (dunque, di specificità).

Negli altri casi, invece, quando siamo in presenza di «sociologie espres­sive», abb iam o a che fare con approcci che danno una conoscenza pre­valentemente simbolica ed espressiva nella quale è cruciale la ricostruzione soggettiva e non è necessario scegliere, per via della qualità differente che non è comparabile (non è commensurabile). Norm alm ente , del re­sto, in ques t’ultimo caso non abb iam o a che fare tan to con filosofie o con approcci veri e propri, quanto piuttosto con paradigmi (ad es. d ram ­maturgici, letterari o estetici in generale, con giochi linguistici di ogni tipo, ecc.) il cui scopo non è tan to quello di offrire una conoscenza di natura razionale quanto piuttosto quello di rappresentare — come su uno schermo — la realtà, r icostruendola per via espressiva e simbolica. U na conferm a che ci si trova di fronte a una sociologia espressiva viene dal fatto che, in questi casi, l’impianto epistemologico (e gnoseologico) è spes­so non dichiarato, o solo implicito, se non addir i t tu ra assente, co m un ­que non primario e scarsamente rilevante. Altre volte, come ad esempio nella teoria dei giochi, il parad igm a è razionale, m a in senso puram ente metodologico (nella fattispecie, di simulazione) e si opera attraverso pu­ri modelli rappresentativi o di simulazione che manifestamente si riferi­scono a condizioni di per sé già definite, sociologicamente, irreali (il principio di causalità in tali casi è usato in senso puram ente strumentale).

V* tesi. E n tro e fra le sociologie puramente espressive non è possibi­le una scelta definita, in quan to esse hanno un carattere essenzialmente simbolico, che sta fuori dalla pretesa di conoscenza razionalmente fon­da ta della verità. Si tra t ta di «rappresentazioni», di simbolizzazioni, di «simulazioni» o ancora di prodotti dell’immaginazione, che a iu tano e a volte sono indispensabili per la comprensione razionale, m a che non si identificano con essa.

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(oggettive, esterne), queste ultime in quan to fattori determinanti che ope­rano su l /en tro il soggetto, azione o fenomeno. Nel pr im o caso (motivi soggettivi «a fine dei quali») la «razionalità» è vista dall’osservatore co­me interna al soggetto agente; nel secondo caso (motivi «a causa dei q u a ­li») la «razionalità» è vista come esterna al soggetto agente. M a sempre essa opera tan to nella realtà che nell’osservatore. E dunque la conoscen­za in quan to tale è sempre opera di «razionalità», intesa ap p u n to non solo come strumentalità , m a più am piam ente come comprensione delle «ragioni» (espressive, cognitive, simboliche e morali) del soggetto agen­te, dell’azione o del fenomeno-evento sociale.

Q uando le motivazioni seguono per l’agente lo schema mezzi-fine e /o il m odo sensato di agire o di accadere del fenomeno rientra per l’osser­vatore in tale schema parliamo di razionalità strumentale. Negli altri ca ­si in cui esistono ragioni non strumentali parliamo di razionalità verso un valore, che può essere espressivo, norm ativo o simbolico. La distin­zione può essere però, nella maggior parte dei casi, evidenziata solo in via analitica, d iventando strettamente empirica in casi m olto particolari. Ne consegue che è a-razionale quel soggetto, azione, fenomeno-evento che non ha ragioni (né motivazioni né cause) che operano in m odo ra ­zionalmente sensato né per l’agente, né per l’osservatore. Il che accade in situazioni-limite prive di finalismo, come nel caso di un comportamento pre-razionale (per es., puram ente emotivo).

U na sociologia (relazionale) m atu ra dovrà, per l ’appun to , e laborare la propria conoscenza sulla base di queste modalità secondo «ragioni», pre-razionali, razionali ed anche meta-razionali, e farsi per questa s tra­da universalisticamente intelligibile, a lmeno entro i confini in cui è da to all’uom o conoscere.

3. La «realtà» del sociale

In sostanza, il fondam ento della scelta epistemologica in sociologia sembra dover partire dal riconoscimento che il nodo cruciale di ogni so- ciologia, cioè il rapp o r to teoria-prassi, può essere sciolto solo attraverso un ’adeguata (non distorta) relazione che la ragione sociologica (specula­tiva e pratica) instaura con la realtà sociale.

Si può dire, ed è questo un pun to da cui ripartire oggi riflessivamente in tu tto il cam po sociologico, che la realtà (sociale) è divenuta sempre più un problem a, se non un vero e proprio «mistero», per la stessa so­ciologia. È in questo processo storico-culturale di «perdita della realtà» che vanno rintracciati gli errori o qu an to meno le parzialità e i riduzioni­smi che hanno po r ta to alle impasses attuali della disciplina: il fa tto che la sociologia odierna non conosca, nel senso proprio di non riconoscere,

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bolica metarazionale. La tensione del cam po può essere concettualmente espressa in una specie di parad igm a quadrifunzionale (del tipo LIGA espresso da T. Parsons) -(cfr. fig. 2).

In un cam po semantico così s tru ttu ra to , la sociologia, intesa come form a di produzione culturale lungo l’asse (tensione) simbolico-scienza (fig. 2), si è per l’appun to divisa in due poli:

I) la sociologia «scientifica», cioè a base positivista, con la pretesa di essere «realista», nel senso di a fferm are che i fatti sociali sono t rad u ­cibili in linguaggio esatto e hanno una loro logica; la realtà, per questa sociologia, si costruisce bensì da e attraverso gli uomini, ma essi costrui­scono quello che, nei suoi esiti, è già dato (un eccellente esempio odierno è o ffer to da R. Boudon);

II) la sociologia puram ente «riflessiva», nella versione soggettivisti­ca di certe correnti derivate dalla sociologia com prendente e fenomeno- logica, che è divenuta sempre più autoreferenziale (va no ta to che, tra gli autori ascrivibili a questo «polo», può essere incluso anche N. Luhm ann, benché questi esprima una sociologia non semplicistica).

O ra , noi sappiam o che in questa polarizzazione il reale va perduto perché:

I) la sociologia c.d. «scientifica» attribuisce al sociale un carattere naturalistico (o strutturalistico) che esso non ha, se non mediatamente, cioè attraverso u n ’au to n o m a mediazione simbolica, per cui i valori e le norm e — tu t to il m ondo del simbolico — sono qui fraintesi e non rispet­tati nel loro m odo di essere e di porsi;

II) la sociologia puramente «riflessiva» mette da parte ciò che è «m on­do della na tu ra» non socialmente costruito e quindi finisce per incorrere in una costante fuoriuscita soggettivistica, nominalistica, in ultima a n a ­lisi succube di una logica narcisistica.

Invero, ¡’una sociologia è il simbiotico dell'altra, così come teorie di sistema e teorie dell’azione sono state sino ad oggi non autenticamente m a simbioticamente legate fra di loro, in una logica puram ente simulati- va del reale che resta assente, o quanto meno mutilato, distorto, rimosso.

Il nodo di tali distorsioni sta in un malinteso rapporto fra soggetto (conoscente e agente) e oggetto (di conoscenza e azione). Per i «positivi­sti» come per gli «idealisti», in senso lato, tale rapporto è in ultima istanza a una direzione, rispettivamente dall’oggetto al soggetto e, viceversa, dal soggetto all’oggetto. E ciò sia per riferimento al concetto di costruzione sociale della realtà che per rappor to al problem a, cruciale in sociologia, del rapporto fra azione e sistema sociale. L ’afferm azione po trà sem bra­re a qualcuno eccessivamente semplificante, come in effetti è, m a r im a­ne com unque giustificata.

Le attuali teorie neo-sistemiche (o neo-funzionaliste) sostituiscono a

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ciali, o del sistema sociale, e così via). Soltanto da pochi anni si parla in modo specifico di «sociologia relazionale». Probabilmente la difficoltà di cui si parla è dovuta al fatto che la relazione sociale non è facile da tematizzare in sé, e perciò è stata ed è tuttora studiata da angolature molto particolari o in modo derivato. Ossia i singoli approcci sociologici ne han­no evidenziato di volta in volta alcuni aspetti e proprie tà in conform ità con le loro presupposizioni generali e i loro metodi e scopi particolari. In generale si è cercato di definire la relazione sociale come oggetto frai tanti della sociologia (come i gruppi, le classi, ecc.), il che ha accentua­to le sue connotazioni socio-psicologiche come m odo di essere e di agire intermentale (da G. Tarde sino alle varie scuole contem poranee nord- americane di derivazione meadiana), anziché analizzarla come con tenu­to e costitutivo stesso del sociale, in senso tanto strutturale che simbolico.

È dunque essenziale vedere innanzitu tto questi approcci, che rappre­sentano ovviamente altrettante riduzioni.

a) Approccio marxiano. Secondo K. Marx l’uom o è un essere p u ra ­mente sociale in quan to essere determ inato dalle relazioni sociali m ate­riali (e perciò chiamate « rapport i» sociali) in cui viene a trovarsi s toricamente (Tesi su Feuerbach, 1845). Le relazioni sociali sono qui so- stanziaiizzate secondo un realismo assoluto (materialistico) che le conce­pisce come condizionamenti concreti intersecantesi in un corpo materiale (biologico) do ta to di un app ara to psichico capace di assorbirli e rielabo- rarli. Marx non espresse mai una teoria com piuta delle relazioni sociali, che definì (ridusse) prevalentemente come rapporti di classe derivanti dalle forme di scambio economico. N onostan te questo è possibile rintracciare nella sua opera una concezione tan to del m ondo vitale che del sistema sociale come campi costituiti da interazioni (che sono però solo l’aspetto attivo, prassistico, delle relazioni). Il mancato sviluppo di una teoria delle relazioni sociali deve essere principalmente im puta to all’adozione di una posizione essenzialmente storicistica che impedì l’elaborazione di una teo­ria analitica generalizzata.

b) Approccio positivista. Con E. Durkheim nasce una prima teoria sociologica rilevante per l ’analisi delle relazioni sociali, che però rimase del tu t to insufficiente, oltre ad essere densa di contraddizioni, principal­mente a motivo di carenze epistemologiche. Probabilm ente l’incapacità di Durkheim di definire in m odo soddisfacente il rapp o r to tra individuo e società (il p rim o ta lora è ridotto completamente alla seconda, talaltra sembra possedere una sua autonomia) è legato al fatto che neppure D urk­heim tematizzò la relazione sociale in sé (come poi dirà Parsons, nel p ro ­cesso di socializzazione si internalizzano le relazioni e non gli oggetti sociali...). Per di più egli considerò sempre la relazione come un fa tto

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tali dualismi, riduzionismi e confusioni, tan to a livello epistemologico che negli aspetti teorici, metodologici ed empirici.

Q uando J. H aberm as (1981) osserva che permane una opposizone fra teorie dell’integrazione sociale (basate sugli orientamenti dell’azione) e teorie dell’integrazione sistemica (che presuppongono azioni m a si basa­no su meccanismi «funzionali» che operano non-normativamente, a t t ra ­verso «conseguenze»), egli rileva in sostanza che non abb iam o ancora compreso come la società riesca a risolvere il problema del coordinamento delle azioni di m ondo vitale da un lato e dei meccanismi impersonali da l­l’altro («che genere di meccanismi — egli si chiede — relazionano le azioni di alter a quello di ego in maniera tale che i conflitti che potrebbero m i­nacciare la relazionalità (,relateciness) delle loro azioni siano evitati o al­m eno sufficientemente controllati per mantenere quella relazionalità?»). Il difetto di H aberm as, come di molti altri, è quello di non comprendere le caratteristiche proprie della relazione sociale come realtà complessa conduttrice di una normativa che «connette» azioni e sistema sociale, sog­getto e strutture, in m odo tale da non opporle alla maniera dialettica (he­geliana, marxiana), ma da differenziarle in processi e s tru tture sempre più complessi. Per risolvere i propri dilemmi, ogni sociologia che scopre di incorrere in dualismi, riduzionismi o «conflazioni» deve elaborare una teoria adeguata della relazione sociale. Q uest’ultima, infatti, è in ultima analisi il tessuto connettivo di tutti i concetti sociologici fondamentali, da quello di azione (e quello derivato di inter-azione) a quello di ordine e di sistema sociale. Le stesse insufficienze di Parsons, allorché oscilla fra teoria dell’azione e teoria sistemica, sono dovute al non aver tem a­tizzato adeguatam ente il carattere relazionale della realtà sociale.

Il p rog ram m a della sociologia relazionale è ap p u n to quello di porsi come superam ento di queste insufficienze e difficoltà, a ttraverso un p a ­radigma sintetico-analitico, integrato-articolato, alla fine multidimensio- nale, che si basa sulle seguenti presupposizioni generali, (i) La realtà è un «intero» che la sociologia studia sotto l’aspetto particolare della co­struzione sociale attraverso relazioni sociali, (ii) Studiare la realtà come costruzione sociale significa cogliere (comprendere/spiegare) la realtà in qu an to è da ta al pensiero scientifico come relazione sociale in sé e per il soggetto (individuale o collettivo) conoscente. Il carattere relazionale è costitutivo tan to del farsi della realtà che della sua conoscenza, (iii) La relazione sociale è alio stesso tem po oggettiva (storica, concreta) e sog­

g e t t iv a (do ta ta di senso per l ’agente e / o il conoscente). Occorre pertan to fare l’analisi delle dimensioni oggettive (indipendenti dal soggetto), del­le dimensioni soggettive (dipendenti dalla soggettività) riconducendole al principio di unità del fa tto come fenom eno sociale, (iiii) C om e tale, la sociologia chiarifica che la costruzione simbolica nelle scienze (in tut-

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normalità deve insomma essere ridefinita e r ia ttin ta a un livello post­convenzionale27. Si tra t ta di vedere se essa possa trovare un radicam ento nelle s tru tture p ro fonde della vita, a partire da condizioni liminali 8.

Affinché la normatività insita nella relazione sociale possa essere spie­gata (analizzata) e resa operativa (anche in senso terapeutico), occorre che il livello empirico-fattuale (il suo «m odo di essere» o «condizione di esistenza» secondo regole costitutive di razionalità orienta ta allo sco­po) e il livello etico-deontologico (il suo «dover essere» secondo regole prescrittive di razionalità orientata al valore)29, benché distanziati a m o­tivo della crescita di complessità sociale, trovino forme di reciproca inte­grazione e comunicazione significante. Senza però esagerare i requisiti di tali «connessioni», le quali peraltro po tranno operare attraverso sia mediazioni di tipo analogico che di tipo paradossale.

Essendo il raggio delle condizioni e possibilità ammesse enorm em en­te più ampio (cioè contingente) di un tem po, questo requisito di integra­zione può essere soddisfatto (e in maniera sempre attualm ente parziale) solo con un meta-codice comunicativo che risponda insieme alle esigen­ze della differenziazione e della generalizzazione, della distinzione e del­l ’eguaglianza.

Com e ha ben chiarito G. Piazzi30, un individuo è tan to più individuo quan to più è capace di p rodurre la sua differenza (acquisività, disconti­nuità, Gesellschaft). E tuttavia ego si costituisce presupponendo alter- ego (che, perciò, rappresenta l ’appartenenza, la continuità , la com uni­tà). Qui sta il paradosso della relazione sociale, che consiste app un to nel fatto che il suo soggetto è /deve essere allo stesso tem po eguale e diffe­rente (rispetto all’altro termine: alter ego, società, ecc.). H a ragione G. Piazzi quando dice che il senso è «mediazione fra i due princìpi (deH’eguaglianza-continuità e della differenza-discontinuità)», cioè è la possibilità di realizzare la differenza (acquisività) nel m ondo dell’egua- glianza (appartenenza). Questa possibilità, però, può essere attualizzata solo se esiste una capacità simbolica del sistema, e perciò dei soggetti, di connettere significativamente identità-eguaglianza e identità-differenza, il che r im anda all’esistenza (o meno, e in gradi diversi) di meccanismi di generalizzazione simbolica dei valori, al di là delle particolarità- specificità, e proprio come composizione di queste ultime ad un livello

27. Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Bari, 1985.28. Cfr. P. Donati, Alla ricerca di una cultura della vita, prefazione a M. Boggio,

La casa dei sentimenti. Itinerario per uscire dalla droga, Eri, Torino, 1985.29. Cfr. E. Agazzi, lì problema delia caratterizzazione conoscitiva della normalità e

della devianza, in Aav.Vv., Normalità e devianza, Angeli, Milano, 1981.30. Cfr. G. Piazzi, Teoria detrazione e complessità, Angeli, Milano, 1984.

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Paolo Guidicini, Nuovo manuale della ricerca sociologica Enea Cerquetti (a cura di), Sociolo­gia dell’educazione Bernard Berelson, Gary A. Steiner, Il comportamento umano James H.S. Bossard, Eleanor Sto- ker Boll, Sociologia dello sviluppo infantileJiri Musil, Sociologia della città Huguette Dautriat, Il questionario Alberto Izzo (a cura di), Alienazio­ne e sociologiaMino Viancllo, Contributo alla cri­tica della teoria classica dell*orga­nizzazioneSylvain De Coster, Fernand Hotyat, La sociologia dell·educazione Vincenzo Cesareo, Socializzazione e controllo socialeEugenio Pennati, La difesa de! si­stemaGeorge C. Homans, Le form e ele­mentari del comportamento Inrca (a cura di), La popolazione anziana ne! contesto urbano. Un ca­so: la città di Ancona A. Bonzanini, F. Salerno, Conflit­tualità e crisi nella società industriale A.S. Tannenbaum, B. Kavcic, M. Rosner, M. Vianello, G. Wieser, Operai e dirigenti. Una ricerca com­parata in cinque paesi: Australia, Israele, Italia, Jugoslavia, Usa G. Pellicciar!, G. Tinti, Tecniche di ricerca socialeMassimo Martini (a cura di), Psico­logia sociale deirorganizzazione Charles Perrow, Le organizzazioni complesse. Un saggio critico Raimondo Strassoldo, Sistema e am­biente. Introduzione all\ecologia umanaGiovanni Gasparini (a cura di), Sin­dacato e organizzazione R. Mannheimer, G. Micheli, F. Zajczyk, Mutamento sociale e com­portamento elettorale. / / caso del re­ferendum sul divorzio Mauro Proni, Homo Theoreticus. Saggio su Adorno Mario A. Toscano (a cura di), In­troduzione alla sociologia

33. M. Vianello, J. Risum, C. Vallauri, C. Sbordoni, E. Di Meo, L* Scar­pa, S. Salvatore, R. Soccorsi (a cu­ra di) con la collaborazione dellO- din Teatret, Fantasia e sovversione. Una ricerca sulle organizzazioni al­ternative

34. A. Bonzanini, G. Canavese, R. D’Andrea, M. Gori, M. La Rosa, U. Livini, L. Mattalucci, E. Minar­di, G. Morelli, V. Meginato, G. Sar­chielli, Sviluppo capitalisticot orga­nizzazione del lavoro e professiona­lità operaia

36. Antonio Scaglia, Illusione capitali­stica e utopia marxista. Elementi di teoria sociologica e problematiche istituzionali

37. Ester Monti Civelli, La socializza­zione del fanciullo non vedente

38. G. Braga, V. Braitenberg, C. Ci- polli, E. Coseriu, S. Crespi-Reghizzi, J. Mehlcr, R. Titone, L'accostamen­to interdisciplinare allo studio del linguaggio

39. Lorenzo Infantino (a cura di), So­ciologia dell'imperialismo. Interpre­tazioni liberali

41. Bernardo Cattarinussi, Carlo Pelan- da (a cura di), Disastro e azione umana. Introduzione multidiscipli­nare allo studio del comportamento sociale in ambienti estremi

42. Carlo Montaleone, Biologia sociale e mutamento. Il pensiero di Durk­heim

44. Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, La società industria­le metropolitana e i problemi del­l'area milanese. Scritti di F. Albe- roni, A. Ardigò, G. Baglioni, L. Bal­bo, F. Barbano, A. Cavalli, G. Cel­la, V. Cesareo, G. De Rita, G. Fa- bris, F. Ferraresi, F. Ferrarotti, L. Gallino, G. Germani, R. Guiducci,F. Leonardi, G. Marselli, G. Marti­netti, M. Paci, A. Palazzo, A. Piz- zorno, F. Rositi, G. Rusconi, B. Sec­chi, C. Tognoli, A. Tosi

45. Teresa Borrello, Pier Giorgio Rau- zi, Il velo bianco

46. Antonio Condini, Antonio Scaglia, Il bambino e gli altri: socio-psico­patologia del nascosto

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118. Angelo Agostini, Dentro la notizia. Inchiesta e cronaca nella stampa quotidianaConsuelo Corradi, Metodo biogra­fico come metodo ermeneutico. Una rilettura de "Il contadino polacco ”Giovan Battista Sgritta, La condi­zione dell’infanzia. Teorie, politiche. 138.rappresentazioni sociali Sandro Bernardini, La società an­ziana. Ovvero: l ’altra faccia delle so­cietà avanzate 139.Emilio Gerosa, La popolazione an­ziana nel Canton Ticino. Un’inda­gine sui bisogni e sui modi di vita Mara Tognetti Bordogna (a cura di),/ confini della salute. Paradigmi da 140. contestualizzare 141.Ester Monti, Le radici dell’intera- zionismo simbolico americano con- 142. temporaneo. Un primo approccio Luigi Bobba, Dario Nicola (a cura di), L ’incerta traiettoria. Rapporto sui giovani 1987 143.John Millar, Osservazioni sull’ori­gine delle distinzioni di rango nella società. A cura e con introduzione 144.di Enzo Bartocci Roberto Cipriani, Vittorio Cotesta, Angelomichele De Spirito, John Fra- 145. ser, Maria Mansi, Salvatore Di Ri­so, La lunga catena. Comunità e conflitto in Barbagia 146.Antonio Schizzerotto (a cura di).Classi sociali e società contempora­neaAntonio Scaglia, Comunità e strale- 147. gie di sviluppo. Roncegno Valsuga- na tra identità affettive e calcolo ra­zionaleAndrea Bixio, Contingenza e socia- 148.lità dell’azioneN. Corradini, L ’arte, la società, l ’im­pegno. La critica figurativa sulle pa- 149.gine di «Rinascita» (¡962-66)N. Salamone, Frammenti e sintesi. 150.Strutture e diseguaglianze sociali tra realtà e immagine Giampaolo Catelli, Socioanalisi. So­ciologia dei comportamenti latenti 151.della comunitàG. La Grassa, E. De Marchi, F. Sol- dani. Capitalismo e costituzione di società 152.Gabriele Orsini, Regione in movi­mento. L ’Abruzzo, da terra di pa- 153.stori a terra di imprenditori

136. Giuseppe Bonazzi, Storia del pen­siero organizzativo

137. Lino Rossi (a cura di), Infanzia: edu­cazione e complessità. Prospettive psicologiche e pedagogiche per una cultura postprogrammazione al ni­do e aila scuola dell’infanzia Rocco Verna, Una base per la tra­sformazione. Pensare la complessi­tà in maniera complessa. Introdu­zione di Pietro Barcellona Nicoletta Pellegrino, Alle origini del pensiero sociale in Italia: sperimen­talismo, pragmatismo e fenomeno­logia in Antonio Aliotta. Introdu­zione di Paolo De Nardis Carlo Mongardini, Saggio sul gioco Paolo Jedlowski, Memoria, esperien­za e modernitàSalvatore La Mendola (a cura di), I soggetti della pratica sportiva. Pro­fessioni e organizzazioni delle atti­vità sportive in provincia di Modena Luciana Bellatalla, Tra cuore e ra­gione. La «filosofia filantropica» di Jane AddamsAmbrogio Santambrogio, Totalità e critica del totalitarismo in Karl Man- heimGiuseppe Colasanti (a cura di), Lco­sentini. Inchiesta sulla nuova socie­tà meridionaleFranco Crespi (a cura di), Sociolo­gia e cultura: nuovi paradigmi teo­rici e metodi di ricerca nello studio dei processi culturali Angela Cattaneo, Marina D’Ama­to, La politica della differenza. Da­ti e analisi per uno studio del rap­porto donne/partiti Anna Maria Curcio, La moda: iden­tità negata. Prefazione di Franco FerrarottiEugenio Rossi (a cura di), Adole­scenza, identità e droga Pina Lalli, Essere anziani oggi. In­dagine sociale sulla realtà dei citta­dini riccionesi con età pari o supe­riore ai 60. anniFrancesco Paolo Cerase, Un’ammi­nistrazione bloccata. Pubblica am­ministrazione e società nell’Italia dioggiEnzo Rutigliano, Sociologi. Uomi­ni e problemiClemente Lanzetti (a cura di). Qua­lità e senso della vita in ambiente

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La sociologia, come scienza mo- tenuto nelle teorìe contemporaneedem a, è caratterizzata da un dua- della riproduzione sociale; e, inlismo di fondo che, mettendo in positivo, a fornire un esempio, ap-opposizione l’uomo come soggetto plicato al tema della salute, die l'uom o come oggetto della so- come la sociologia relazionale,cietà, si traduce in due paradigmi identificando secondo nuovi critericonoscitivi praticamente alternati* il proprio oggetto, possa costruirevi e spesso incomunicabili: da un il suo ambito teorico e pratico,lato il paradigma detrazione socia- In definitiva, il libro si propone dile, basato sulla soggettività, e dal- esporre i fondamenti teorici dellal'altro il paradigma del sistema so- sociologia relazionale, valutando-ciale, focalizzato sulle strutture so- ne potenzialità e limiti non comeciati oggettivate. un approccio in più rispetto aLa tesi di Donati è che la sodalo- quelli già esistenti, ma piuttostogià, in quanto disciplina teorico- come proposta di un quadro con­pratica, dovrebbe connettere fra cettuale di riferimento generaliz-loro questi paradigmi e pervenire zato per approcci più specifici,così a modalità più profonde e Come tale, l'opera si rivolge a tuttimeno riduttive di comprensione e coloro che desiderano insieme ave-spiegazione del mondo sociale re una ‘introduzione di base" allaumano, evitando il sociologismo. sociologia e capire la ‘iia tu ra”A questo scopo, Donati, dopo aver scientifica, ossia i quadri mentalibrevemente esaminato in modo di conoscenza e di rilevanza prati­critico alcuni fra i più significativi ca, di tale disciplina,approcci della sociologia odierna, perviene a definire l'oggetto e ilmetodo della sociologia in quanto Pierpaolo Donati è ordinario di So-“scienza delle relazioni sociali in- etologia della famiglia e insegnatersoggettive e strutturali". Il pa· Sociologia (corso avanzato) nell'U-radigma (“relazionale") che ne de- niversità di Bologna. Già Presi-riva permette di ri-comprendere dente dell'Associazione Italiana digli approcci e le teorie sociologiche Sociologia, dirige la rivista “Socio-in un quadro non dualistico, aper- logia e Politiche Sociali". Ha puh-to - almeno intenzionalmente - a blicato: Teoria relazionale della so-tutte le altre discipline dell'uomo, cietà, Angeli, 2000*; La cittadinan-Due capitoli sono dedicati rispetti- za societaria, Laterza, 2000; Il la-vamente: in negativo, ad esempliti- voro che emerge, Bollati B olin ­ea re la critica al sociologismo con- ghieri, 2001.