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Sistema diagnostico integrato per la valutazione del benessere nella vacca da latte. Workshop Stato dibenessere ed efficienza riproduttiva degli animali di interesse zootecnico, Viterbo, 3-4 maggio, 51-80
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SISTEMA DIAGNOSTICO INTEGRATO PER LA VALUTAZIONE DELBENESSERE NELLA VACCA DA LATTE
Calamari L.
Istituto di Zootecnica – Facoltà di AgrariaUniversità Cattolica del Sacro Cuore - Piacenza
Riassunto
Il termine benessere non ha ancora ricevuto una definizione univoca da parte
dei vari ricercatori che se ne occupano. Tra gli approcci che vengono suggeriti per la ricerca
scientifica sul benessere troviamo quello funzionale. Esso si basa sul concetto che il benessere
degli animali è legato al buon funzionamento dei loro sistemi biologici, quindi alle condizioni
sanitarie, nutrizionali e produttive degli animali. L'approccio che proponiamo come primo
tentativo per accertare il grado di benessere degli animali di un allevamento di bovine da latte
è di tipo integrato, cioè composto da tanti elementi conoscitivi diversi e che vengono
affrontati su tre livelli successivi di approfondimento per contenere i costi ed abbreviare i
tempi di risposta. Gli elementi conoscitivi fondamentali sono il sistema allevamento
(strutture, attrezzature ed impianti, management, ecc..), il sistema alimentazione (alimenti,
razioni, modalità di distribuzione degli alimenti, ecc..) ed il sistema animale (quantità e
qualità del latte, efficienza riproduttiva, comportamento, condizioni metaboliche, ecc..). Tutto
ciò nella precisa logica della stretta interdipendenza fra fattori produttivi, sanitari e di
benessere degli animali.
Parole chiave: benessere animale, bovine da latte, sistema diagnostico
Introduzione
Il termine benessere non ha ancora ricevuto, proprio a causa della sua complessità, una
definizione univoca da parte dei vari ricercatori che se ne occupano. Esistono infatti numerose
definizioni in funzione del tipo di considerazioni che tale termine ha suscitato. L’approccio
che oggi viene suggerito per la ricerca scientifica sul benessere, proposto dalle varie scuole di
pensiero presenti attualmente a livello internazionale, è sostanzialmente basato su tre
differenti concetti (Duncan e Fraser, 1997):
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- approccio basato sui feelings, cioè sulle sensazioni soggettive degli animali;
- approccio funzionale, basato sulle funzioni biologiche normali degli animali;
- approccio naturale, basato sulla possibilità, per l’animale, di esprimere il repertorio
comportamentale della specie cui appartiene.
Nel caso dell’approccio basato sui feelings l’aspetto etico si unisce strettamente alla
considerazione che gli animali possano avere esperienze soggettive, quali stati affettivi od
emozioni e di conseguenza possano percepire determinate situazioni come piacevoli o
spiacevoli, che si potrebbero tradurre in uno stato di felicità o infelicità inteso a livello
soggettivo individuale. Questa posizione si richiama al quesito posto da Bentham (1789)
relativo al fatto che gli animali possano o meno soffrire. Secondo questo approccio etico-
animalista Duncan (1993) ritiene che il benessere non dipenda né dallo stato sanitario, né
dalla mancanza di stress, né dal grado di fitness, ma solo da ciò che l’organismo sente.
L’approccio funzionale si basa sul concetto che il benessere degli animali è legato al
buon funzionamento dei loro sistemi biologici. Quindi situazioni di ridotto benessere sono
associate a presenza di patologie, di lesioni, di malnutrizione, ecc... Al contrario una buona
situazione di benessere è associata ad alti livelli di accrescimento, di fertilità, di qualità delle
produzioni, ecc.. Negli animali in condizioni naturali come negli animali allevati c’è un
adattamento alle modificazioni ambientali e l’organismo mette in atto una serie di meccanismi
con effetti a livello fisiologico, immunitario e comportamentale. La quantità di sforzi che
l’organismo deve compiere per adattarsi, e di conseguenza il loro successo od insuccesso,
determinano anche il livello di benessere. Questo approccio implica che si debbano
identificare e quantificare il più precisamente ed oggettivamente possibile gli indicatori di
benessere e che si possono far rientrare nelle seguenti categorie: indicatori patologici,
fisiologici, comportamentali e produttivi.
Nell’approccio naturale il concetto base è che gli animali dovrebbero essere allevati in
un ambiente naturale, tale cioè che consenta loro di comportarsi naturalmente, o meglio
abbiano la libertà di manifestare tutti i loro comportamenti naturali. I problemi collegati a
questo approccio consistono soprattutto nella difficoltà di identificare il significato di naturale
in relazione all’evoluzione dell’habitat. In particolare una serie di attività che consentono
l’adattamento degli animali in condizioni naturali possono avere una funzione ma un’utilità
scarsa o nulla nell’animale domestico. Un esempio può essere la riduzione della distanza di
fuga davanti all’uomo e l’accettazione di ripari o fonti di cibo direttamente forniti.
Indubbiamente la selezione genetica che, pur essendo mirata agli aspetti produttivi, può in
modo indiretto aver condizionato una serie di tendenze reattive di base degli animali. Infine
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occorre anche tenere presente che per garantire agli animali di poter esprimere a pieno il loro
repertorio comportamentale può comportare spesso una riduzione del benessere sotto altri
punti di vista.
L’argomento benessere è quindi fortemente dibattuto anche se le tre concezioni del
benessere animale sopra descritte, quantunque basate su differenti principi di base, possono
poi condurre, sotto certi punti di vista, alle stesse conclusioni. Se da un lato vi sono comunque
punti di vista molto diversi sulla definizione di benessere, dall’altro non vi sono dubbi che
l’uomo deve porre gli animali in condizioni ottimali di benessere garantendo loro un
soddisfacente ambiente di allevamento. Secondo Webster (1983) le condizioni di allevamento
sono soddisfacenti per un ottimale benessere degli animali quando garantiscono:
- comfort termico. L’ambiente non dovrebbe essere né troppo caldo e né troppo
freddo, situazioni che possono penalizzare la produzione e causare discomfort;
- comfort fisico. Lo spazio disponibile per gli animali e le superfici con le quali gli
animali vengono a contatto (pavimentazioni, attrezzature, ecc..) non devono
causare dolore o ferite o provocare discomfort cronico;
- controllo delle malattie. L’ambiente di allevamento deve essere tale da
minimizzare le malattie, sia attraverso il controllo degli agenti infettivi e sia
attraverso il controllo dei vari fattori di stress che riducono la resistenza degli
animali alle infezioni;
- comportamento soddisfacente. Gli animali non dovrebbero essere seriamente
impediti nel poter manifestare il proprio comportamento naturale tipico della
specie di appartenenza. Inoltre l’ambiente di allevamento non dovrebbero creare
stati di paura ed ansietà.
Non molto diversi sono i concetti che 10 anni dopo (F.A.W.C., 1993) sono stati
riassunti nelle cosiddette 5 libertà: 1) da fame, sete e malnutrizione; 2) da situazioni non
confortevoli; 3) dal dolore, dalle ferite e dalle malattie; 4) di poter esprimere il proprio
comportamento naturale; 5) dalla paura e da stress eccessivi. Alcuni di questi criteri sono
facilmente accettabili come il corretto apporto di alimenti e bevande, la prevenzione e cura di
malattie, traumi, ecc… Al contrario altri non sono facilmente comprensibili o comunque
difficili da soddisfare in maniera completa. Ad esempio l’ambiente confortevole nel periodo
estivo in molte zone d’Italia non si può sempre garantire in maniera ottimale anche con
l’ausilio dei vari sistemi di controllo del microclima (ventilazione, nebulizzazione,
raffrescamento evaporativo, cooling, ecc..). Anche la libertà di poter esprimere il proprio
comportamento naturale non è di facile soddisfacimento ed al tempo stesso discutibile. Le
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difficoltà sorgono in considerazione del fatto che il processo di domesticazione tende a
selezionare i soggetti che più si adattano all’uomo ed all’allevamento in cattività e questo
comporta dei cambiamenti nelle esigenze naturali degli animali. D’altra parte le stesse
condizioni naturali non sempre garantiscono le 5 libertà (si pensi solo al fatto che lasciare gli
animali allo stato brado comporta anche periodi in cui alimenti ed acqua sono scarsi o
mancanti).
Con questo non si intende destituire di fondamento la necessità di “mettere gli animali
nelle migliori condizioni possibili”, al contrario si vuol dire che non sempre è facile capire
quando queste condizioni si verificano o quale sia la causa della loro mancanza. Né possiamo
permetterci di dire … “tanto sono bestie” ..., primo perché nonostante gli animali non abbiano
diritti propri – almeno nella nostra opinione che deriva da quella della Chiesa Cattolica – li
acquisiscono indirettamente in quanto l’uomo ha il dovere di salvaguardare il creato; in
secondo luogo perché solo l’animale ben curato risponderà nel migliore dei modi in termini di
produzione quanti-qualitativa, di salute e di fertilità (Bertoni, 1999). C’è infatti una stretta
interdipendenza fra fattori produttivi, sanitari e di benessere che Bailey e coll. (1998) hanno
avuto il merito di organizzare in un acronimo: PURRDEA, cioè Production, Udder health
(salute mammella), Reproduction, Replacement rearing (allevamento rimonta), Disease
control (controllo malattie), Environmental concern (aspetti ambientali), Animal well-being
(benessere animale). Con tale acronimo vengono infatti raggruppate le aree del management
di un allevamento di lattifere. Aree fra loro interrelate poiché la riproduzione influenza la
produzione di latte, il controllo delle malattie influenza produzione, riproduzione e l'entità
della riforma. Così la sanità mammaria migliora la produzione, mentre la nutrizione influenza
produzione, salute, fertilità ecc. che poi hanno ovviamente riscontro sul benessere degli
animali e sulle loro condizioni di salute.
E’ quindi nostro compito primario mettere in atto tutti gli accorgimenti tesi a far sì che
gli animali godano delle migliori condizioni possibili: ambienti idonei e proporzionati al
numero di capi, disponibilità corretta di alimenti ed acqua, gestione appropriata del
microclima e delle operazioni quotidiane o saltuarie ecc.. Operare in questo modo è di
interesse anche per l’allevatore perché, oltre a migliorare le condizioni di benessere degli
animali, si ottengono anche, conseguentemente, migliori condizioni di salute degli animali,
una maggiore risposta produttiva e riproduttiva con un maggiore reddito per l’allevatore.
Tuttavia non vi è dubbio che da un lato esiste una serie di incompatibilità soprattutto di tipo
economico – già richiamate – alla ottimale applicazione di certe regole, ma d'altro canto la
risposta animale a queste ultime situazioni non perfette può essere notevolmente diversa
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(figura 1) per ragioni genetiche, di esperienza o connesse ad altri fattori concomitanti, di tipo
fisiologico e non (ad es. uno stress alla messa in asciutta non fa nulla o quasi, al momento del
parto può essere una “bomba ad orologeria” ).
Per tutte queste ragioni è opportuno saper giudicare lo stato di benessere attraverso
una serie di segnali che si possono rilevare in allevamento. Così Curtis (1985) proponeva che
i migliori indicatori del benessere degli animali allevati erano le condizioni di salute, gli
aspetti produttivi e riproduttivi. In sintonia con questa proposta sono anche i suggerimenti di
Sandoe e coll. (1997) e di Johannesson e coll. (1997) che includono nei modelli di valutazione
del benessere a livello di azienda il controllo e la registrazione delle condizioni di allevamento
e del management e l’osservazione della risposta degli animali (comportamentale, produttiva,
riproduttiva e sanitaria). Probabilmente questi rilievi non sono in grado di fornire indicazioni
complete circa il benessere degli animali allevati. Infatti Appleby e Hughes (1997) affermano
che il benessere, dal momento che non è una variabile semplice ed unitaria, non è possibile
misurarlo nello stesso modo in cui si misura la massa, la lunghezza o il tempo. Fraser (1995)
indica che la scienza da un lato è in grado di fornire molti vie per identificare, risolvere e
prevenire problemi di benessere degli animali, mentre dall’altro non è in grado di fornire
strumenti per “misurare” il benessere complessivo dell’animale perché non c’è una singola
misura e nemmeno l’impiego di una combinazione di misure differenti può fornire risultati
assoluti. Tuttavia il benessere si può accertare considerando i vari aspetti del benessere stesso
ed i problemi interrelati ad esso. Riteniamo quindi che questi controlli, quando inseriti in
protocolli come il Sistema Diagnostico Integrato, possano fornire indicazioni soddisfacenti
per una prima valutazione del benessere degli animali.
Il Sistema Diagnostico Integrato (SDI) ed i suoi obiettivi
Il Sistema Diagnostico Integrato (SDI) è, nella logica di chi lo ha proposto (Bertoni,
1992), la naturale evoluzione dei cosiddetti profili metabolici. Di questi ultimi infatti si
compone per una certa parte, benché siano stati completati – sia per ragioni tecnico-
scientifiche, ma anche per ragioni di compatibilità economica – da altri criteri di valutazione–
rilevazione con le seguenti finalità fondamentali: “affrontare passo-passo i problemi di
diagnosi nell’allevamento per scoprire, con il minor dispendio possibile di tempo-denaro, le
cause alimentari–ambientali di problemi di salute/fertilità”. Anche se oggi si può intendere,
con una ulteriore estensione, nell’ottica di uno strumento atto a:
- verificare la “risposta animale” al management (relazione genotipo-ambiente);
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- individuare le cause più verosimili di svariati problemi di allevamento: quanti-qualità del
latte, malattie dismetaboliche, ipofertilità ecc.;
- accertare il grado di benessere (o minore stress) per le bovine.
Tutto ciò nella precisa logica della stretta interdipendenza fra fattori produttivi, sanitari e di
benessere a cui si è accennato in precedenza. Ne consegue che, un approccio corretto al
controllo delle condizioni in cui si trova un allevamento, altro non può essere se non
integrato, cioè composto da tanti elementi conoscitivi diversi che tengano conto di tutti gli
aspetti – fra loro interrelati – che contribuiscono al PURRDEA. Ma prima di illustrare
materialmente in cosa consiste lo SDI, un breve richiamo alle ragioni dei suoi 3 obiettivi
prima menzionati.
Verifica della risposta animale
Per quanto possa sembrare un retaggio del passato, giacché oggi ci si "illude" di prevedere
tutto con analisi e computer, nella realtà costituisce un momento indispensabile della gestione
tecnica degli allevamenti, esattamente come il collaudo di un ponte rappresenta l’ultimo atto
dell’opera di uno studio ingegneristico. D’altra parte, come si è già avuto modo di sottolineare
(Bertoni e Bani, 1996), la pratica del razionamento animale poggia su basi non del tutto certe:
fabbisogni degli animali, caratteristiche degli alimenti e capacità di ingestione.
Proprio questa relativa incertezza dei tre principi basilari del razionamento, rende
indispensabile una valutazione accurata della risposta degli animali, benché altre motivazioni
legate al management non manchino; purtroppo essa non può coincidere con la produzione
soltanto, anche perché nessuno può conoscere la reale capacità produttiva potenzialmente
raggiungibile dagli animali e comunque non è detto che sia conveniente per l’allevatore
raggiungere tale limite massimo. Come si può notare dalla figura 2, l’apporto di quantità
crescenti di fattori della produzione (ad es. concentrati, ma non solo essi), comporta una
crescita del latte prodotto di tipo decrescente e comunque diversa in relazione con la capacità
genetica degli animali, ma soprattutto comporta ad un certo punto l'accresciuto rischio di
problemi che possono progressivamente rendere negativa la risposta. Se ciò è vero, appaiono
poco credibili affermazioni del tipo: “dare molto concentrato significa sfruttare maggiormente
l’animale”; infatti, può esserlo se gli animali sono a bassa potenzialità genetica, ma non lo è –
a meno che si raggiungano livelli di gran lunga superiori – per quelli ad alta potenzialità.
Dunque, la realtà è altra cosa e può essere così espressa: l’effettiva capacità produttiva degli
animali è sempre difficile da prevedere poiché sul livello produttivo “attuale” agiscono vari
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fattori fra cui l’ottimale copertura da ogni punto di vista dei fabbisogni. Ne consegue che
gestire meglio l’animale implica spesso un aumento produttivo e quindi dei fabbisogni; si
tratta cioè di un ciclo tipo “cane che si morde la coda” il cui sviluppo non può essere infinito,
ma implica delle regole certe a cui ispirarsi per conseguire la “massima” risposta degli
animali senza raggiungere il punto, sulla funzione di produzione, in cui il costo dei mezzi
“investiti” tende a superare il vantaggio a causa di un miglioramento produttivo ormai
insignificante e del rischio sempre più serio di problemi. Tali regole non sono tuttavia facili
da quantificare e comunque implicano il ricorso ad altri criteri (Bertoni, 1996); in particolare,
si tratta di rendere massima la produzione tenendo tuttavia presente che – oltre al rapporto fra
costo e prezzo del latte – due ulteriori fatti sono da considerare:
- gli animali debbono sempre essere in buona salute (quindi in allevamento devono
verificarsi pochi casi di malattie conclamate di qualsiasi genere e le bovine debbono
mostrare buon aspetto generale, elevata ingestione degli alimenti e normali funzioni
digestive) mostrare una soddisfacente fertilità e godere di un sostanziale benessere;
- lo stato nutrizionale (o “body condition score” = BCS) degli animali deve essere usato
come indice del rapporto fra capacità produttiva da un lato e grado di soddisfacimento dei
corrispondenti fabbisogni alimentari (specie energetici) dall’altro.
Come ovvio, si tratta di valutazioni per molti versi soggettive, ma sembrano le sole
capaci di porre in risalto una sorta di “sostenibilità” della produzione lattea nell’ambito di una
infinita gamma di potenzialità, per nulla facili da prevedere. Possiamo semmai aggiungere, in
accordo con Bertoni e Piva (1997), che altri parametri quali le caratteristiche del latte possono
fungere da indici della predetta sostenibilità, ci riferiamo in particolare ai tenori in grasso e
proteine.
Diagnosi delle cause alimentari (o gestionali in genere) di problemi d’allevamento
riguardanti: qualità della produzione, condizioni di salute, attività riproduttiva ecc.
E’ un obiettivo fra i più ambiziosi, molti ricercatori infatti - con varie modalità - hanno
inteso perseguirlo; citeremo Payne e coll. (1970), che propose per primo il profilo metabolico,
ma altresì Kelly e coll. (1988), Ferguson (1991) che hanno fornito proposte parziali di un
certo interesse ed ancor più recentemente il gruppo olandese di Brand A., Noordhuizen
J.P.T.M. e Schukken Y.H. che nel 1996 hanno pubblicato un libro dal titolo “Herd health and
production management in dairy practice”. In quest’ultimo vengono individuate le principali
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fasi di vita nell’ambito degli allevamenti di lattifere per valutarne i rischi gestionali e le vie
per prevenirli.
Quello della diagnosi degli errori alimentari è stato il primo, fra gli obiettivi perseguiti
dai profili metabolici, e quello che ancora oggi riveste la maggiore importanza. Infatti si è
constatato che l’alimentazione può, in tanti modi diversi, esercitare la sua influenza negativa
sullo stato di salute in generale e sulla fertilità in particolare. Tuttavia, quando in un
allevamento si debba precisare la sua reale responsabilità nel determinismo dei problemi, od
ancor più si debba individuare lo specifico aspetto alimentare coinvolto, nascono varie
difficoltà. Un po’ per tutti gli aspetti, ma soprattutto nel caso della attività riproduttiva, ci si
scontra con vari fattori di disturbo che vanno dall’esistenza di numerose altre cause non
alimentari, alla mancanza di specificità dei sintomi e alla non contemporaneità fra l’errore
alimentare e la manifestazione dell’ipofertilità, nonché al fatto che l’alimentazione stessa
predispone a malattie metaboliche od infettive concausa di ipofertilità a lungo termine.
Inoltre il management ed in particolare la gestione dell’attività riproduttiva e la eventuale
presenza di fattori stressanti, rientrano in una visione complessiva dell’allevamento, in cui
l’alimentazione è inclusa senza essere esclusiva (si ricordi il PURRDEA). D’altro canto,
l’approccio alle cause alimentari e gestionali non può avvenire con criteri uguali in tutti i casi,
partendo – come fu suggerito da Payne e coll., 1970 - dai profili ematici, ma deve essere
graduato in rapporto alla difficoltà della diagnosi, nonché ai costi dei mezzi adottati.
D’altro canto, si può affermare che l’alimentazione è causa diretta od indiretta di
malattia, sia per la specie umana e sia per gli animali. Non di rado si tratta di malattie
“condizionate” in cui cioè uno o, più spesso, vari errori alimentari provocano “alterazioni
biochimiche” e quindi dismetabolie o facilitano l’azione di germi patogeni (o patogeni
facoltativi) aumentando così le forme manifeste di malattia vera e propria. Il fatto che trattasi
prevalentemente di forme “condizionate” rende molto importante anche il fattore ambiente in
senso stretto (caratteri costruttivi ed igienici dei ricoveri) e l’intervento “manageriale” degli
addetti; per cui, ad esempio, gli stessi errori potranno portare problemi diversi perché se è
poco curato il “piede” insorgeranno zoppie e se invece è poco curata la “sfera genitale”
insorgeranno forme varie di ipofertilità.
Con questa premessa si vuole togliere importanza, specie nel caso delle “malattie”
plurifattoriali (ipofertilità, zoppie), al tentativo di ricercare sempre e comunque una relazione
fra sintomo-anomalia biochimica-errore alimentare che viceversa c’è solo nelle forme gravi
(es. ipomagnesiemia con tetania) od in fase terminale di forme meno gravi, ma prolungate (es.
miodistrofia per carenza di selenio e/o vitamina E), che in genere ricadono nel campo della
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clinica medica. Viceversa noi sappiamo che, nel caso delle lattifere, l’alimentazione è sempre
relativamente curata proprio per il diretto riscontro razione:produttività, per cui si riduce
l’incidenza di errori gravi (e, quando siano presenti, la loro individuazione non pone problemi
tanto difficili), mentre cresce l’importanza di quelli “lievi”, ma per questo più subdoli e di più
difficile individuazione. Parimenti aumenta la possibilità che, problemi “dismetabolici”,
condizionino la comparsa di altri problemi più o meno gravi. Infatti essi si verificano
generalmente in un periodo di vita produttiva della lattifera (il periparto o fase di transizione)
che costituisce il clou dell’intera lattazione e quand’anche apparentemente modesti – se non
prontamente e correttamente curati – possono costituire l’innesco per eventi “a cascata” che
progressivamente si ingigantiscono dando origine a forme secondarie (ad esempio chetosi e/o
steatosi, metriti, ecc.), causa di minor produzione e di ipofertilità, se non addirittura di
riforma.
In realtà, quindi, più che di errori alimentari, sarebbe bene parlare di cause alimentari-
gestionali di problemi concernenti la produzione: quantità e/o qualità del latte, ma anche lo
stato di salute degli animali ed in ultima analisi il loro benessere. Inoltre, da un lato vi sono
errori alimentari veri e propri:
a) mancato adeguamento a quanto già noto circa gli apporti dei diversi principi alimentari
(energia, proteine, minerali ecc.);
b) insufficiente attenzione alle modalità di associazione e successione di vari alimenti per
rendere ottimali i processi fermentativo-digestivi.
Dall'altro lato esistono anche fattori avversi che, pur agendo per la “via alimentare”, non si
possono ritenere errori veri e propri. Si tratta in particolare di:
- presenza di sostanze tossiche (spesso non prevedibili con facilità) negli alimenti e frutto di
varie circostanze: naturalmente presenti, conservazione non perfetta, inquinamento
agricolo ed ambientale ecc.;
- alterazioni nell’attività digestiva per concause diverse: sbalzi climatici, stress, ecc..
Come si vede, il quadro è estremamente ampio e presupporrebbe – se affrontato con i
profili metabolici - un ventaglio di verifiche chimico-cliniche pressochè infinite e pertanto
“quasi” impossibili per ragioni di costi, di mezzi tecnici od anche di semplice opportunità (a
che scopo percorrere vie diagnostiche “impervie” se hanno ben poche probabilità di essere
utili oppure se altri mezzi più semplici possono sortire gli stessi risultati?). Ne consegue che
interventi di “medicina preventiva” a 360°, cioè con l’intento di prevenire la comparsa di
qualsiasi problema di origine alimentare, o comunque da adottare in prima istanza, non hanno
ragione d’essere. Forse per queste ragioni, il profilo metabolico nel significato ad esso
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conferito da Payne e coll. (1970): individuare, attraverso esami ematici su un congruo numero
di capi opportunamente scelti, se l’allevamento è o meno a rischio di comparsa di “malattie
della produzione” (o metaboliche o dismetaboliche), ha oggi più detrattori che non sostenitori.
Per contro non v’è dubbio che sia necessario disporre di strumenti diagnostici atti ad
individuare le possibili cause assai numerose e differenziate, dei predetti problemi e di altri
non meno importanti: qualità della produzione, fertilità ecc.; ciò senza necessariamente
ricorrere a frequenti e dispendiosi esami di laboratorio (in questo contesto ematici, ma anche
quelli sugli alimenti devono essere effettuati soltanto se strettamente necessari).
Accertamento dello stato di benessere (welfare) delle bovine
Con lo SDI l’accertamento delle condizioni di benessere degli animali viene effettuato
sostanzialmente con l’approccio di tipo funzionale. Con questa logica il benessere animale si
può valutare attraverso una serie di indicatori che rientrano nella logica dello SDI e che si
possono classificare in indicatori patologici, fisiologici, comportamentali e produttivi.
Uno dei criteri per vedere se gli animali si trovano in condizioni ottimali di benessere
è quello di considerare le condizioni di salute ed una ridotta condizione di benessere è una
delle cause di malattia. Per Broom (1988) il benessere è la situazione di un individuo in
relazione ai suoi tentativi di superare le difficoltà ambientali. Questo indica che l’animale
sostiene un extra-costo in termini di energia, proteine, ecc.. per recuperare una situazione di
benessere accettabile. Tuttavia la reazione potrebbe essere difficoltosa e richiedere un periodo
lungo di tempo. In questo caso il benessere diventa mediocre e le condizioni di stress a cui
l’individuo viene esposto possono favorire una risposta patologica come mostrato in figura 1.
Quindi uno scarso benessere rende l’organismo più sensibile allo stress con conseguenze
negative (distress). In allevamento ci sono molti tipi di stimoli che possono essere
responsabili di stress (tabella 1), sotto l’azione di questi stimoli si ha un aumento della
suscettibilità alle malattie solo dove ci sono anche cattive condizioni di allevamento e quindi
gli animali sono probabilmente già in una condizione di più ridotto benessere (Verga e
Carenzi, 1998).
Nella logica dello SDI non c’è tuttavia solo il controllo della risposta dell’animale ma
viene effettuato un minuzioso rilievo delle condizioni di allevamento per verificare se sono
sufficientemente confortevoli e quindi se ci sono i presupposti per mantenere buono il
benessere. Questi rilievi riguardano le strutture, gli impianti, la gestione degli animali, il
personale, l’alimentazione ed altre condizioni ambientali che possono influenzare il benessere
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degli animali. Alla luce di quanto indicato in precedenza, il rilievo di queste condizioni di
allevamento è importante per valutare più correttamente la risposta degli animali.
L’effetto negativo dello stress attraverso la riduzione delle difese immunitarie è noto
da tempo e le relazioni fra stress e le conseguenze sui meccanismi di difesa sono state poi
discusse da Hartmann (1988). Lo stress (distress) influenza negativamente rilevanti aspetti
delle funzioni biologiche come la salute, il metabolismo e la crescita, la riproduzione e le
performance.
Se da un lato ogni condizione di stress può essere una causa diretta di riduzione del
benessere può anche, indirettamente, causare una riduzione del benessere attraverso una più
elevata suscettibilità alle malattie, da cui stress da malattia. Con lo stress da malattia si ha la
liberazione di una dozzina o più di mediatori peptidici che sono collettivamente chiamate
citochine e che influenzano il metabolismo intermedio durante la risposta alla malattia. Le
risposte comuni dell’organismo a infezioni batteriche, virali e parassitarie, ma anche a ferite e
malattie neoplastiche, sono l’infiammazione, la febbre e l’anoressia acuta. In altre parole la
liberazione delle citochine (ad esempio IL-1, IL-6 e TNF rilasciate dai macrofagi e IL-2, IL-3
e IL-4 rilasciate dai linfociti), nonostante l’effetto positivo sulle funzioni immunitarie, può
comportare molte conseguenze negative come una minore ritenzione azotata, un danno
ossidativo, shock anafilattico, ecc.. Tutte situazioni che riducono il benessere degli animali e
peggiorano la loro efficienza (Elsasser e coll., 1995).
Tutte queste condizioni negative possono essere utilizzate per misurare lo scarso
benessere, in accordo con Broom e Johnson (1993): riduzione delle aspettative di vita,
riduzione dell’abilità a crescere e riprodursi, malattie, immunosoppressione, patologie
comportamentali, riduzione delle manifestazioni del repertorio comportamentale, stereotipie,
ecc… Tuttavia, in accordo con Broom e Johnson (1993), c’è un ampio range di situazioni che
inizia con l’ottimo benessere e termina con ogni sorta di problemi e con condizioni di
benessere molto ridotte. In altre parole c’è un graduale crescendo che è utile conoscere. In
accordo con Moberg (1987), un management inadeguato determina innanzitutto cambiamenti
fisiologici (stato pre-patologico) che possono essere di aiuto per predire i successivi problemi.
I primi sintomi che si possono rilevare sono rappresentati da un cronico aumento dei livelli
plasmatici di corticosteroidi, da un’anormale reattività del sistema neuro-endocrino
(specialmente battito cardiaco e cambiamenti di temperatura), da ridotte difese immunitarie e
da riduzione della capacità riproduttiva. Tuttavia queste variazioni non sono facilmente
misurabili in campo, ad eccezione dei parametri riproduttivi. Le ridotte difese immunitarie
predispongono alle malattie e queste inducono lo stress da malattia con un ulteriore
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peggioramento delle condizioni di benessere. La buona salute è infatti qualcosa di più della
semplice assenza di malattie (Hughes e Curtis, 1997). Ci sono alcuni segni fisici di buona
salute come l’attività, la brillantezza degli occhi, la lucentezza del pelo, il portamento delle
orecchie ed il buon appetito. Ci sono anche segni mentali come la vigilanza, la prontezza a
rispondere agli stimoli, il mostrare interesse all’ambiente circostante che sono però meno
facili da rilevare ed apprezzare. Questi possono essere segnali che si possono utilizzare per
vedere se, pur senza malattie manifeste, le condizioni di benessere non sono ottimali e che
possono quindi predisporre alle patologie.
Se la situazione evolve verso lo sviluppo delle patologie nella mandria si possono
osservare sintomi come il perdurare della condizione di pre-patologia, la manifestazione di
malattie anche gravi, danni esteriori e/o ad organi interni, comportamento in relazione alla
malattia, espressione di paura, stereotipie (Blokhuis e Wensing, 1999).
Le condizioni di scarso comfort, che sono per se cause di ridotto benessere, possono
essere anche causa di problemi digestivi, di ridotta risposta immunitaria, di maggiore lentezza
nella risoluzione delle lesioni, ecc.., che aggravano ulteriormente la situazione di benessere
già ridotta. Queste condizioni vanno attentamente valutate nella mandria perché sono causa di
una severa riduzione dell’efficienza e, più tardivamente, compaiono altri sintomi come un
cattivo aspetto fisico, gravi disturbi nel comportamento con stereotipie, posture anomale
(Blokhuis e Wensing, 1999).
Ci sono altre cause di riduzione del benessere che vengono prese piú raramente in
considerazione come l’elevata potenzialità genetica degli animali e gli errori alimentari e i
disordini digestivi. L’alta potenzialità genetica degli animali è spesso considerata una causa di
ridotto benessere (S.C.A.H.A.W., 1999). Pryce e coll. (1998) indica che c’è una correlazione
genetica negativa fra produzione di latte e salute o fertilità e potrebbe giustificare il
peggioramento della salute e fertilità nelle bovine ad alto valore genetico. Questo suggerisce
di considerare la salute (Uribe e coll., 1995) e taluni indici riproduttivi (Lee e coll., 1997) nei
programmi di selezione a lungo termine, sia per considerazioni etiche e sia per migliorare il
benessere animale.
Occorre tenere però presente che problemi di salute e fertilità vengono non di rado
segnalati anche in razze (Simmental, Brown Swiss, Ayrshire finlandese) con potenzialità
genetica molto più bassa della Frisona (Distl e coll., 1989; Harman e coll., 1996). Inoltre
nell’ambito di allevamenti con bovine di potenzialità genetica simile si riscontrano situazioni
molto diverse in termini di salute e fertilità. D’altra parte anche la relazione fra produzione,
salute e fertilità non è chiaramente definita e Van Arendonk e coll. (1989) hanno riscontrato
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una correlazione genetica fra produzione e fertilità molto bassa. I fattori manageriali sono
quindi di grande importanza come mostrato in figura 3 dove emerge che l’alta potenzialità
genetica unitamente all’ottimo management promuovono la produzione di latte, la buona
qualità del latte e le ottime condizioni di salute, di fertilità e di benessere.
In sostanza le bovine ad alta potenzialità genetica, rispetto a quelle a bassa
potenzialità, potrebbero avere una soglia più bassa di fronte agli stressori, alle restrizioni ed
alla malnutrizione con una più alta suscettibilità a queste condizioni avverse con un maggiore
effetto negativo a livello psicologico e fisiologico (Redbo, 1992). Per mantenere in buone
condizioni di salute le bovine ad alta potenzialità è necessario porre maggiore attenzione a
tenere più alta la soglia e migliorare le condizioni di benessere. E’ una situazione analoga a
quanto avvenne al momento dell’introduzione della Frisona in alcune zone d’Italia dove si
iniziò a gestire questa nuova razza con le stesse tecniche di allevamento delle razze locali. Ci
furono molti insuccessi proprio a causa delle maggiori potenzialità della Frisona che non
vennero adeguatamente supportate con un adeguato management.
La nutrizione ed i disordini digestivi possono influenzare il benessere. Se da un lato è
scontato che la scarsa disponibilità di acqua e la malnutrizione possono ridurre il benessere,
da un altro punto di vista si possono indicare anche altre cause alimentari meno note di
riduzione del benessere come i disordini digestivi, tra cui l’acidosi ruminale che può
contribuire alla dislocazione dell’abomaso. In generale tutti i disordini digestivi possono
favorire il rilascio e l’assorbimento di endotossine e/o batteri che possono indurre problemi
infettivi o infiammatori, con le conseguenze dello stress da malattia a cui si accennava in
precedenza. Tuttavia i disordini digestivi a cui si accennava prima possono essere favoriti
anche da molte condizioni di stress (Hutcheson, 1992). Infatti il ridotto benessere può
modificare la fisiologia dell’apparato digerente con diarrea, dolori addominali, vomito. Lo
stress può modificare la motilità del tratto digestivo, ridurre l’utilizzazione dei nutrienti e
l‘attività della micropopolazione. Cosí Andersen (1990) ha sottolineato una maggiore
sensibilità all’acidosi ruminale degli animali stressati, come conseguenza di un più elevato
rilascio dei mediatori del processo infiammatorio.
Per tutte queste ragioni è opportuno saper giudicare lo stato di benessere degli animali
attraverso una serie di segnali che rientrano appunto nella logica dello SDI: risposta
produttiva, salute, fertilità, aspetto generale, atteggiamento nei confronti dell’uomo,
manifestazioni stereotipiche (cioè atteggiamenti anormali quali leccare con insistenza
qualcosa, mordere legno od altro, movimenti strani), variazioni a livello di funzionalità
digestiva, anomalie ematiche ecc.. Condizioni che si riflettono poi sul reddito dell'allevatore.
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IL SISTEMA DIAGNOSTICO INTEGRATO
Dopo aver illustrato gli obiettivi che si prefigge lo SDI, possiamo entrare nella sua
descrizione riportandone i presupposti teorici e descrivendo le modalità pratiche di
esecuzione. Concettualmente, la logica già richiamata del sistema è quella di procedere
graduando lo sforzo alle difficoltà dei problemi da evidenziare; in altre parole, quando si
affrontano i problemi di un allevamento per la prima volta si inizierà con strumenti semplici,
rapidi e poco costosi. Solo nel caso di mancata soluzione ai problemi lamentati, si procederà
ad ulteriori approfondimenti - ma con la stessa logica e con i medesimi criteri generali - che
ovviamente richiedono tempi più lunghi e costi maggiori soprattutto perché implicano analisi
più o meno approfondite. In tal modo i problemi più semplici saranno risolti in breve tempo
ed a costi accettabili, mentre il dispendio elevato di tempo e di mezzi sarà limitato ai casi più
ostici e complessi, per la cui soluzione serviranno anche i rilievi iniziali, che quindi sono da
ritenere indispensabili comunque si proceda.
In buona sostanza, i livelli di progressivo approfondimento (e difficoltà) potrebbero
essere individuati nei seguenti tre:
1° livello: analisi anamnestica dell’allevamento basata sui dati reperibili nel corso di una
approfondita visita aziendale – utilizzando le apposite schede riportate da Bertoni e coll.,
1999- e riguardanti:
- le caratteristiche degli edifici e delle attrezzature, le modalità di gestione delle diverse fasi
produttive, della riproduzione, della mungitura, del microclima, dei rapporti uomo-
animale, i piani di profilassi da malattie infettive e/o parassitarie, ecc.;
- l’alimentazione delle diverse categorie di animali presenti con riferimento alla qualità di
ciascun alimento, alla correttezza “generale” delle razioni, alle modalità alimentari, all’uso
di additivi o meno, all’entità della sostanza secca ingerita, ecc.;
- l’aspetto ed il comportamento degli animali, ma anche gli indici del loro stato funzionale;
al riguardo si va dall’esame del mantello, allo stato di piedi-arti, alle condizioni
nutrizionali (BCS), al comportamento ruminativo, all’aspetto delle feci, all’andamento
produttivo e ad alcune caratteristiche del latte di massa fornite nell’ambito del pagamento
a qualità, alla presenza ed al tipo di problemi di salute e di fatti traumatici.
La nostra esperienza dimostra che, per il tecnico attento, preparato e coscienzioso,
questo primo livello consente di risolvere molti casi di aziende problema; ovviamente, anche
nel caso di impossibilità a formulare una diagnosi certa, il lavoro svolto non sarà perduto in
quanto consentirà di orientare verso gli approfondimenti dei successivi livelli ed inoltre di
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meglio interpretare i risultati conseguiti con questi ultimi. Pure evidente che, nel caso di
allevamenti sottoposti ad assistenza, tutti questi elementi conoscitivi costituiranno parte della
“scheda” che il tecnico avrà l’accortezza di aggiornare almeno ogni 6 mesi (semmai con
l’ausilio di mezzi informatici oggi facilmente reperibili), per cui la visita potrebbe essere
evitata, ma altresì parrebbe opportuno passare subito ai livelli successivi. Per quanto riguarda
il benessere questo primo livello può fornire informazioni sufficienti per un suo primo
accertamento e le informazioni che si possono raccogliere al livello 2 e 3 possono fornire
indicazioni utili soprattutto per individuare le cause di riduzione del benessere e fornire
suggerimenti per porvi rimedio;
2° livello: seguendo la falsariga del 1° livello, si tratta di approfondire i fattori potenzialmente
causa di problemi nell’allevamento, soprattutto con esami analitici studiati ad hoc (anche in
rapporto ad eventuali sospetti emersi al precedente livello o comunque ragionevolmente in
relazione col tipo di problemi da risolvere):
- circa le caratteristiche degli edifici ecc. si potranno ad esempio far eseguire controlli sulla
polverosità o presenza di gas tossici (NH3) nell’aria di alcuni ambienti, ma anche sulla
funzionalità dell’impianto di mungitura e sulla natura di fenomeni infettivi mammari nel
caso di mastiti, cellule alte ecc.. Altri controlli potranno riguardare gli impianti di
ventilazione–raffrescamento se d’estate, la presenza o meno di anticorpi-virus a livello
ematico o di uova-parassiti nelle feci ecc.;
- circa gli alimenti e le bevande, si provvederà in questo caso ad eseguire analisi sui primi
soltanto od anche sull’acqua a seconda delle circostanze. Così il tipo di analisi potrà
variare notevolmente limitandosi a quelle chimico-nutrizionali o potendosi estendere a
quelle microbico-tossicologiche. Per poi operare un più preciso calcolo delle razioni,
opportuna cura andrà posta nel misurare l’ingestione (somministrato - residui) degli
alimenti nei vari gruppi;
- con riferimento agli animali ed al loro aspetto, si potranno eventualmente misurare i tempi
di ruminazione su un congruo numero di animali, l’entità ed il tipo di lesioni agli arti, così
si potrà richiedere l’analisi di un certo numero di campioni di feci (es. pH e s.s.). Sul latte
di massa ed eventualmente sui campioni individuali raccolti per i controlli funzionali, si
potrà chiedere anche la determinazione di cellule, urea, corpi chetonici, ecc.;
3° livello: è ovviamente un ulteriore grado di approfondimento, necessario ancor più
raramente del secondo, ove si contemplano tipi di controllo sofisticati e/o costosi, in genere
non facilmente disponibili. Come ci si può facilmente rendere conto, fra 2° e 3° livello non
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esiste una netta demarcazione, potendo variare i predetti criteri in rapporto a varie circostanze
(ad esempio la vicinanza o meno di laboratori specializzati, la competenza dei tecnici locali
ecc.). Anche per questo livello illustreremo comunque i tipi di valutazione che più
comunemente si includono in esso:
- per edifici, impianti, stato generale di salute ecc. non è facile indicare qualcosa di diverso
dal 2°, salvo trattarsi di nuove malattie, o comunque di verifiche più accurate;
- per l’alimentazione appare ugualmente difficile indicare qualcosa di diverso, salvo nuove
ipotesi soprattutto nel campo tossicologico;
- per gli animali si tratta, a questo livello, di eseguire eventuali test sulla funzionalità
ruminale e su quella riproduttiva (es. progesterone), sulla presenza di "tossici" nel latte
quale l'aflatossina M1, ma soprattutto esami ematici di tipo metabolico ed eventualmente
endocrino.
Modalità di esecuzione dello SDI
E’ stato sin qui confermato che i 3 livelli illustrati non sono altro che successivi
approfondimenti su tre aspetti fondamentali che possiamo grossolanamente individuare nel
modo seguente: sistema allevamento, sistema alimentazione e sistema animale come riportato
sinteticamente nella figura 5. Poiché parlare dei 3 livelli significherebbe ripetere verifiche
riguardanti i 3 sistemi, sia pure in modo diverso, e poiché l'uniformità dei 3 sistemi ne
consente una trattazione più omogenea, abbiamo optato per quest'ultima soluzione. Pertanto,
verranno ora brevemente illustrate le procedure “diagnostiche” per questi tre sistemi,
rimandando al lavoro di Bertoni e coll. (1999) per la trattazione completa.
Il sistema allevamento
L’esame del sistema allevamento consente di inquadrare il contesto in cui si inserisce
la mandria e di verificare come questa si adatta o reagisce alle scelte organizzative attraverso
la valutazione della risposta produttiva, riproduttiva ed all'insorgenza di patologie.
Ovviamente, oltre alle performance degli animali si dovrà prestare particolare attenzione alla
valutazione del management nel suo complesso: aspetti gestionali della mandria, strategie
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alimentari adottate, tipologie degli edifici e dei ricoveri, caratteristiche degli impianti,
manutenzione delle strutture ed attrezzi ecc..
Al 1° livello dello SDI, quello dedicato all'anamnesi, è possibile acquisire gran parte
degli elementi necessari a conoscere l'allevamento in maniera relativamente superficiale, ma
assai utile, soprattutto per l'accertamento del benessere degli animali. In tale fase si aggregano
tutte le notizie utili e già disponibili, verificabili o deducibili durante una approfondita visita
aziendale avvalendosi di opportune schede (Bertoni e coll., 1999) e deve, necessariamente,
essere condotta da un esperto. Non si limita pertanto ad acquisire semplicemente i dati di cui
l’azienda dispone in modo sempre più articolato e dettagliato, ma rappresenta una
supervisione della gestione dell’allevamento nel suo complesso, una sorta di “istantanea
ragionata” per ciascuno degli aspetti rilevanti: presenza di problemi, condizioni e
comportamento degli animali, performance produttive e riproduttive, edifici ed attrezzature.
L'esperto deve pertanto acquisire, con "occhio clinico", anche quegli aspetti che difficilmente
o per nulla sono rilevabili dalla lettura dei dati già disponibili (es. giudizio sullo stato e sul
comportamento degli animali, gestione dei gruppi, procedure di mungitura o della
preparazione delle razioni ecc.), ma che possono essere raccolti solo "in campo" mediante
un'osservazione diretta, accurata, competente e critica. La visita aziendale potrebbe inoltre
costituire l'occasione per una raccolta più sistematica di alcuni dati di cui normalmente si
trascura la rilevazione (es. registrazione di ogni evento patologico, delle variazioni delle
partite di alimenti ecc.) ed il cui frutto potrebbe essere colto in un successivo momento, ad
esempio per meglio interpretare i risultati di 2° e 3° livello. La scheda è formulata per moduli,
al fine di aggiornarla periodicamente, almeno in relazione a quegli aspetti che sono in
continua evoluzione (es. stato di salute degli animali e performance produttive e riproduttive).
Ai successivi 2° e 3° livello SDI si procederà ad ulteriori approfondimenti per i quali
saranno richieste analisi o verifiche di vario genere suggerite dalle necessità di volta in volta
emergenti. Per ciascun aspetto considerato, si andrà precisando cosa è possibile ritenere
appartenente al 1° od ai successivi livelli.
Il sistema alimentazione
E’ stato constatato che l’alimentazione può, in tanti modi diversi, esercitare la sua
influenza negativa sulle condizioni di salute degli animali (comparsa di malattie metaboliche
o infettive), sulla quantità e qualità del latte, sulla fertilità e sul benessere degli animali.
Quando si debba tuttavia precisare in un allevamento la sua reale responsabilità nel
determinismo dei problemi, od ancor più si debba individuare lo specifico aspetto alimentare
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coinvolto, nascono varie difficoltà legate all’esistenza di numerose altre cause, alla mancanza
di specificità dei sintomi e, spesso, alla non contemporaneità fra l’errore alimentare e la
comparsa del problema (ad esempio l’ipofertilità). Inoltre, il management ed in particolare la
gestione dell’attività riproduttiva e la eventuale presenza di fattori stressanti -pure causa di
problemi-, rientrano in una visione complessiva dell’allevamento, in cui è inclusa anche
l’alimentazione.
Proprio per queste ragioni, un corretto approccio al sistema alimentazione di un
allevamento, risulta essenziale. Così lo studio e la verifica della razione in uso presso un
allevamento comporta per il tecnico o l’allevatore la necessità di stabilire:
- quali sono i fabbisogni degli animali (energia, proteine, minerali e vitamine);
- quanti principi nutritivi, in grado di rispondere ai fabbisogni precedentemente indicati,
possono realmente fornire gli alimenti di cui si dispone;
- quale quantità dei medesimi alimenti potrà essere ragionevolmente ingerita.
Per procedere poi alla reale verifica della razione, confrontando quindi gli apporti con i
fabbisogni e la effettiva ingestione di sostanza secca con quella teorica possibile, occorre
rilevare l’ingestione di alimenti della razione in uso. E’ pure evidente che per analizzare con
la massima precisione la razione bisognerebbe effettuare sugli alimenti tutte le analisi
possibili, sia per ottenere informazioni per stimare con maggiore precisione il valore nutritivo
degli alimenti, sia per valutare l’alimento dal punto di vista igienico-sanitario (presenza di
sostanze tossiche, antinutrizionali, ecc..). Un procedimento di questo tipo non è però
proponibile per i seguenti motivi:
- costi pressoché insostenibili e tempi di risposta (attesa di tutte le analisi) troppo lunghi;
- puntare ad avere la massima precisione possibile nei dati analitici di tutti gli alimenti
(attraverso l’analisi) non sembra necessario tenendo conto del fatto che per taluni
parametri la variabilità dei valori è molto limitata (ad esempio le proteine nel mais silo). A
questo va aggiunto l’incertezza nella definizione dei fabbisogni teorici (non sono qualcosa
di assoluto) e nella stima del valore nutritivo degli alimenti; risulta quindi evidente che
non sempre le maggiori spese per le analisi sono effettivamente valorizzate da una
maggiore precisione nella valutazione della razione.
Uno dei problemi principali è quindi definire quali analisi fare, su quali alimenti e con
quale frequenza. La cosa ben si addice alla filosofia del sistema diagnostico integrato che è di
procede per passi successivi indagando sempre più a fondo sui sistemi allevamento,
alimentazione ed animale, risparmiando così tempo e denaro. Per quanto concerne il sistema
alimentazione (e bevande) si suggeriscono quindi i seguenti passi successivi:
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1) raccolta delle informazioni ed analisi semplificata della razione in uso (1° livello SDI);
2) esame più approfondito della razione sulla scorta di risultati analitici e di verifiche sui
consumi (2° o 3° livello SDI).
Il sistema animale
In questo ambito si sarebbero dovuti includere anche gli aspetti sanitari che tuttavia esulano
dal tipo di logica dello SDI, essendo oltretutto di competenza unicamente veterinaria, per cui
si è preferito lasciarli – ed unicamente quali notizie generali - nell’ambito del “sistema
allevamento” senza con questo esprimere giudizi di merito. Lo stesso dicasi per l'aspetto
esteriore degli animali e per alcuni loro comportamenti, sia pure per ragioni diverse. Per
contro, riteniamo qui utile considerare due aspetti prioritariamente: la funzionalità digestiva e
quella complessiva dell’organismo da vedere sia attraverso il latte (pure utile quale indice
della funzionalità mammaria) e sia attraverso il sangue ed, eventualmente, a livello delle
urine.
La funzionalità del digerente, a parte una serie di valutazioni esteriori altrove ricordate: tempi
e intensità di ruminazione, sostanza secca ingerita, tipo di feci, odore aria espirata, ecc., tutti
rilievi di 1° livello, può essere oggettivamente misurata attraverso esami sul contenuto del
rumine o sulle feci.
Per quanto riguarda il latte occorre anzitutto effettuare un esame importante di “facile”
realizzazione e comunque da inserire sempre al 1° livello che è quello dei capezzoli. Esame
che si può effettuare al momento del distacco del gruppo mungitore (arrossati o cianotici) o in
qualsiasi momento della giornata (presenza di callosità).
Circa la produzione, è evidente che non può avere un valore assoluto, ma dovrà essere
rapportata alla supposta potenzialità genetica degli animali. Oltre alla valutazione della
produzione totale può essere utile lo studio delle curve della lattazione.
Circa la composizione del latte, possiamo anche qui distinguere i dati già disponibili in
allevamento e riguardanti la massa: grasso, proteine, lattosio, numero di cellule (talvolta
anche l’urea o qualche parametro della caseificabilità) in quanto controllati quindicinalmente
per il pagamento del latte a qualità; per gli allevamenti iscritti al Libro genealogico, gli stessi
parametri, o comunque alcuni di essi, sono disponibili mensilmente e per ciascun soggetto.
Questi dati possono entrare già al 1° livello dello SDI, unitamente a quelli forniti da eventuali
sistemi integrati che giornalmente misurano anche la conducibilità elettrica del latte prodotto
nei singoli quarti, indice questo assai precoce dell’alterata funzionalità mammaria.
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Prevalentemente finalizzati ad un 2° livello sono invece approfondimenti analitici, sulla massa
o su un congruo numero di animali appartenenti alle singole categorie (es. fresche, lattazione
media ed avanzata), riguardanti la normale composizione del latte ed anche la presenza di
urea, di corpi chetonici, i parametri della coagulazione, la presenza di sostanze tossiche, il
progesterone, ecc..
I controlli di parametri metabolici ed endocrini a livello ematico, tenuto conto dei costi e dei
tempi richiesti per questo tipo di valutazioni, appare evidente che solo come ultima “chance”
varrà la pena farvi ricorso, pertanto, solo in un numero limitato di allevamenti. In questa sede
non si entrerà certo nei dettagli dei profili metabolici, oltretutto illustrati – almeno per la fase
interpretativa – in una nostra recente pubblicazione (Bertoni e coll., 1999); tuttavia si vuole
sottolineare l'importanza dii due momenti principali: esecuzione ed interpretazione.
Per quanto riguarda l'esecuzione dei profili metabolici, stante la necessità di operare su
individui sani, risulta indispensabile procedere con “esasperata” precisione per far si che le
numerose cause “non alimentari” di variazioni ematiche (patrimonio genetico, età, fase
fusiologica, stato salute, stagione, variazioni nella razione, pasto, stress da prelievo,
manipolazione del sangue e tecniche analitiche) vengano minimizzate riducendo così le loro
interferenze nella valutazione di quelle alimentari ed ambientali.
Quando si è in possesso dei valori ematici, correttamente ottenuti seguendo le predette
indicazioni, segue una fase cruciale: l’interpretazione, per stabilire quali dati sono da
considerare anomali e soprattutto per trarre utili indicazioni nella diagnosi dei problemi o per
accertare il grado di benessere degli animali nell’allevamento.
In generale, appare inutile fissare l’attenzione su una possibile relazione semplice (causa-
effetto) fra alimentazione e malattie della produzione, perché quasi sempre di origine
polifattoriale, ma anche fra alimentazione e variazioni ematiche, perché i meccanismi
omeostatici (riserve, ormoni, ecc.) attenuano tale rapporto. Comunque, l’interpretazione dei
profili non è certamente facile poiché esistono almeno due grosse difficoltà da superare:
- non sempre è chiaro quando i valori ottenuti si possono considerare anomali, od in altre
parole quale è l’intervallo di riferimento (da taluni detto “range di normalità”);
- inoltre la relazione fra anomalie ematiche ed errori alimentari (significato biochimico-
nutrizionale) non è sempre inequivocabile, ne consegue che spesso non bastano gli esami
ematici e la normale conoscenza dei fattori che ne causano la variazione.
Circa l’intervallo di riferimento, precisiamo anzitutto che appare ormai privo di significato
definire dei limiti unici per le categorie diverse nell’ambito di una specie (es. bovini, ovini
ecc.), per contro andrebbero precisati con estremo rigore e per categorie omogenee, nel nostro
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caso distinguendo anche fra bovine in asciutta e bovine in lattazione (od anche separatamente
manze, vitelli, ecc.). Inoltre, trattandosi di problematiche connesse con l’alimentazione,
parrebbe logico che tali valori di riferimento venissero ricavati con appositi programmi di
raccolta ed analisi del sangue prelevato da animali scelti dopo aver accertato un’alimentazione
sostanzialmente corretta. In generale appare comunque privo di significato l’uso di “range”
molto ampi, anche perchè il PMP fa riferimento ad un gruppo di animali e quindi la variabilità
individuale - fra le più importanti cause della espansione dei limiti - viene ad essere
fortemente diminuita insieme a quella causata dalla mancanza di regole nella esecuzione,
come precedentemente illustrato.
Circa il significato biochimico-nutrizionale dei parametri ematochimici, si è già detto che non
sempre è facile ottenere dal sangue un responso “senza dubbi”; per tale ragione è
indispensabile - oltre alla profonda conoscenza dei meccanismi biochimici - disporre di
informazioni sintetiche, ma non sommarie, dell’allevamento e dei suoi problemi, degli
animali controllati e delle loro caratteristiche, nonché dell’alimentazione vista in tutti i suoi
particolari ivi comprese le modalità di somministrazione. Fortunatamente, nella logica dello
SDI, gli esami ematici si collocano al 3° livello e sono pertanto già disponibili le informazioni
raccolte al 1° livello e – non di rado – anche al 2° od in sua parte. Per quanto riguarda le
caratteristiche degli animali sottoposti a prelievo, pure utili allo scopo, è indispensabile
conoscere: n° dei parti, data ultimo parto, data concepimento (se asciutta) e la produzione
attuale, mentre sarebbe utile avere il punteggio BCS, le eventuali malattie degli ultimi mesi e
le possibili difficoltà durante il prelievo di sangue.
Conclusioni
Al termine di questo tentativo di fornire dei criteri, per quanto possibile oggettivi, che
consentano al tecnico di rendersi conto delle condizioni di vita nei singoli allevamenti di
lattifere, vorremmo richiamarne i fondamenti ed i momenti essenziali. In primo luogo il
metodo proposto: Sistema Diagnostico Integrato (SDI) trova una sua motivazione
fondamentale nel fatto che esiste una stretta interdipendenza fra i diversi ambiti in cui si
articola il management di un allevamento (PURRDEA, da noi suddiviso nei 3 sistemi), per cui
è possibile – verificandone alcuni – rendersi conto di cosa accade in altri. E’ così possibile, fra
l’altro, affrontare il problema di un allevamento con la dovuta gradualità che consente la
soluzione in tempi brevi ed a bassi costi per i casi più semplici, mentre limita gli approcci
costosi e di lunga durata a pochi casi molto complessi.
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Il tipo di problemi che si ritiene utile e possibile affrontare con lo SDI appartengono
schematicamente a 3 categorie: la corrispondenza fra potenzialità genetica e risposta degli
animali, la individuazione delle cause di inadeguate performance (quanti-qualità del latte,
malattie varie, ipofertilità ecc.) la definizione dello stato di benessere delle bovine. In buona
sostanza con lo SDI proponiamo un metodo di progressivo approfondimento
(convenzionalmente su 3 livelli) dei 3 sistemi in cui, pure convenzionalmente, abbiamo inteso
suddividere l’allevamento nel suo complesso: sistema Allevamento, sistema Alimentazione e
sistema Animale (3A). Benché questi ultimi vengano illustrati separatamente, soprattutto per
ragioni “didattiche”, nella realtà essi devono essere affrontati nel loro insieme e secondo una
piramide a 3 gradini (figura 6) in cui l'incidenza di ciascuno può essere diversa, ma ciò che
viene eseguito ai piani “alti” poggia saldamente su quanto è stato fatto ai piani “inferiori” e
non solo all’interno dei vari sistemi, ma con profonde e reciproche interazioni.
La differenza principale fra i 3 livelli (gradini) è dunque insita nella difficoltà (tempi,
competenze e costi) per ottenere i dati necessari nell’ambito dei 3 sistemi, per cui al 1° livello
si raccoglie quanto è immediatamente e facilmente disponibile o rilevabile senza costi che non
siano compresi nella visita di un tecnico e nella elaborazione di quanto raccolto (molti casi e
modesto approfondimento). Al 2° livello, se necessario, si aggiungeranno valutazioni più
approfondite e soprattutto analisi atte a meglio definire la situazione dei 3 sistemi; tuttavia,
costi e tempi saranno ancora relativamente contenuti (pochi casi e maggiore
approfondimento). Infine al 3° livello, sempre se necessario, si farà ricorso ad analisi più o
meno sofisticate ed onerose nel tentativo di giungere finalmente a soluzione dei casi (pochi si
spera) che risultano essere più ostici (numero limitato di casi e massimo approfondimento).
Il modello così come è proposto può indubbiamente fornire indicazioni molto utili sul
grado di benessere degli animali, tuttavia, per giungere ad una quantificazione più oggettiva
del animal welfare di un allevamento, è necessaria una più precisa definizione:
- degli indicatori di benessere più appropriati per la bovina da latte, soprattutto per quanto
concerne il comportamento ed i parametri ematici. In particolare gli indici indiretti in
quanto dimostrano, nel lungo periodo, squilibri, fatti infiammatori, disfunzioni,
depressione del sistema immunitario; situazioni generalmente associate a stati di
malessere;
- della loro variabilità e dei loro valori di riferimento, soprattutto per i nuovi indicatori di
benessere che si riterranno più adeguati;
- della importanza relativa dei singoli indicatori per giungere alla quantificazione più
oggettiva del benessere, possibilmente attraverso un punteggio.
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Bibliografia
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SSttiimmoolloo aammbbiieennttaa llee
PPoossssiibbiillee aaddaattttaammeennttoo iinn ffuunnzziioonnee ddii::
* EEssppee rriiee nnzzaa* CCaarraattttee rriisstt iicchhee ggeenneettiicc hhee
CCoonnsseegguuee nnzzee::
CCoommppoorrttaammee nnttaallii NNeeuurroo--oorrmmoonnaa llii
SSttrruuttttuurraallii FFuunnzziioonnaallii
MMaanniiffeessttaazziioonnii ppaattoo llooggiicchhee
Figura 1 - Risposta degli animali ai fattori stressanti (stimoli) e cause di variazioneindividuale di tale risposta (Verga e Canali, 1998)
MMooddiiff iiccaazziioonnii
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Produzionedilatte
Concentrazione energetica
Figura 2 - Andamento ipotetico delle variazioni nella produzione di latte, inconseguenza dell’aumento della concentrazione energetica, in bovine di differentemerito genetico (Bertoni e Piva, 1997).
qualemeritogenetico?
ottimale
rischioso
basso meritogenetico
alto meritogenetico
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Tabella 1 - Principlai categorie di stress presenti in allevamento (Napolitano e De Rosa, 1997)
animale-animale animale-uomo animale-ambiente
Gerarchie sociali Confinamento Fattori climaticidominanti Formazione di gruppi temperaturadominati Immissione in ambienti nuovi umidità
Sovraffollamento ventilazioneStati fisiologici Separazione dalla madre
pubertà Svezzamento Luceestro Tosatura Rumoriaccoppiamento Interventi vaccinali e terapeutici Traumigravidanza Trasportolattazione Modalità di abbattimento
Interazioni
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Alta genealogia (*) Rischio problemi(?)
=
Cattivo management(Si) Buon management(non privo di affetto)
(No)
Problemi vari Buona salute e fertilità
Bassa/scadente produzione Alta/buona produzione
(*) per gli animali a bassa genealogia il rischio connesso al managementèsemplicementeminore
Figura 3 - Relazione fra potenzialità genetica e management nel condizionare lo stato disalute, la produzione e la qualità del latte (Bertoni, 1996).
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Rischio malattieAnomalie digestive
Apprensione
MALESSERE
Malattie graviLesioni varieDisagio grave
Stereotipie varie
MALESSERE GRAVE
Minore efficienzaMinore fertilità
Minore produzioneMinore qualità
Minore INCOMEMaggiore OUTCOME
STRESSe scarsa cura
Riduzione malattieMigliore status digestivo
Attenuazione disagio
BENESSERE
Resistenza malattieOttimale utilizzo alimenti
Animali “sereni”
BENESSERE OTTIMALE
Maggiore efficienzaMaggiore fertilità
Maggiore produzioneMigliore qualità
Maggiore INCOMEMinore OUTCOME
Applicazione corretta regole diallevamento
Figura 4 - Relazione fra condizioni di allevamento, benessere/malessere degli animali, loro performance ereddito dell’allevatore (Bertoni, comunicazione personale).
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Figura 6 - Piramide del sistema diagnostico integrato con tre successivilivelli di difficoltà (costi), ma tutti basati sul monitoraggio dei 3 sistemi incui può essere schematicamente suddiviso l’allevamento (Bertoni e coll.,
1° livello
3° livello
2° livello
Sistema
Sistema
Sistema