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SIAMO IN GUERRA Testimonianze, interviste, poesie di chi direttamente o indirettamente ha vissuto e conosciuto la guerra

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Testimonianze, interviste, poesie di chi direttamente o indirettamente ha vissuto e conosciuto la guerra Comune di Santarcangelo di Romagna FOCUS – Fondazione Culture Santarcangelo Istituto dei Musei Comunali In collaborazione con Malafesta Melania Marcatelli Eugenio Tontini

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SIAMO IN GUERRA

Testimonianze, interviste, poesie di chi direttamenteo indirettamente ha vissuto e conosciuto la guerra

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Copyright 2014Comune di Santarcangelo di RomagnaFOCUS – Fondazione Culture SantarcangeloIstituto dei Musei Comunali

Via F. Montevecchi 41 – 47822 Santarcangelo di RomagnaTel. 0541.624703 – wwww.metweb.org – mail: [email protected]

In collaborazione con MalafestaMelania MarcatelliEugenio Tontini

È vietata la riproduzione non espressamente autorizzata, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata.

Si ringraziano le persone che hanno partecipato all’iniziativa Siamo in Guerra, all’interno della manifestazione Malafesta (giugno 2013), inviando racconti, poesie, testimonianze, ricordi, legati alla guerra.

INTERVISTE E TESTIMONIANZERiportiamo alcune testimonianze, raccolte dal Museo Etnografico di Santarcangelo, relative al periodo della seconda guerra mondiale, in particolare i mesi vissuti nelle grotte, prima della liberazione del paese avvenuta nel settembre del 1944.Un ringraziamento particolare va agli intervistati, che hanno raccontato la vita santarcangiolese durante la guerra, i momenti più difficili, ma anche la solidarietà e l’aiuto reciproco delle persone, che si sentivano parte di una comunità.

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GIANNI FUCCI Intervista del 24 settembre 2007

Gli ultimi mesi della guerra tutto il paese, e non solo, viveva nelle grotte, non è che si rifugiava o andava in quei momenti e poi tornava alle proprie attività e alle proprie abitazioni, ma tutto era paralizzato… c’era la guerra… eravamo al centro, all’estrema propaggine della linea gotica, quindi furiosi combattimenti poco distanti, e in questi paesi piovevano le granate, le bombe di cannone di lunga gittata e bombardamenti degli aeroplani. La gente ormai viveva in modo molto precario nelle grotte, che sono piene di nicchie e in queste nicchie c’era come il dormitorio, in cui dormiva una famiglia… alla peggio, tranne coloro che erano sfollati perché non si fidavano probabilmente delle grotte, erano sfollati fuori in campagna, in collina a Montalbano, e si sono trovati anche peggio perché hanno rischiato di più, gli altri erano tutti rifugiati nelle grotte. Non era una forma di ritiro durante certe fasi e poi la vita continuava; negli ultimi mesi si può dire che la vita era paralizzata… non c’era più niente, la gente aveva un poco di provviste racimolate, c’era qualcuno che si azzardava, come il sottoscritto, ad andare in mezzo ai campi a raccogliere la frutta, che era appesa agli alberi… a settembre, ottobre c’erano le mele, le noci, le mandorle, l’uva, soprattutto le mele, perché sono a lunga conservazione era un alimento prezioso.

Siamo nel ’44, all’immediata vigilia della liberazione, perché Santarcangelo in questa fase è stata liberata il 24 settembre 1944. In questa tarda estate, era l’inizio dell’autunno, era impensabile in quei giorni poter stare fuori dalle grotte… i santarcangiolesi sono stati dentro le grotte ininterrottamente almeno 6 mesi, per quello che posso ricordare io, dall’inizio dell’estate fino alla liberazione, perché quello è stato il momento in cui è iniziata l’offensiva sulla linea gotica e naturalmente piovevano granate come se piovesse, e stando fuori dai rifugi, perché quelli erano designati come rifugi, si rischiava molto.Ci furono molti morti tra i civili e molti feriti, ma che venivano tutti dalla campagna… erano i contadini che venivano colpiti, perché i contadini avevano dei rifugi proprio rudimentali e spesso avevano il raccolto e cercavano di salvare il salvabile, erano esposti… c’era un gruppo di volontari fatto di giovani santarcangiolesi che correvano là dove arrivavano notizie che erano cadute delle granate e c’erano dei feriti, dei morti e c’erano i barellieri che andavano a raccogliere i feriti, i morti, li portavano nell’ospedale, che negli ultimi tempi era stato trasferito nel Convento delle Monache.Non so quantificare quanta gente vi fosse nelle grotte, ma tutto il paese: 5.000/6.000 persone e si immagini che vita… e infatti era un brulicare di pidocchi, ci fu un’epidemia di scabbia… i popolani la chiamavano e’ scadour, ma era scabbia, tutti rovinati con delle mani orribili da vedersi e non solo, in tutto il corpo. La vita era precaria, era un azzardo uscire, c’era chi usciva però rischiava la pelle fino all’ultimo. Questa situazione si è prolungata dopo la liberazione perché prima erano gli inglesi che bombardavano, poi i tedeschi… quindi fino a che il fronte non si è allontanato, al punto che non era più necessario bombardare Santarcangelo, perché erano a Cesena… però per mesi ancora delle bombe e delle granate sono continuate a cadere su Santarcangelo, quindi è stato un periodo piuttosto lungo di permanenza in questi cunicoli.

C’era solidarietà nelle grotte, chi aveva qualcosa in più lo dava a chi aveva di meno, era tutto al limite estremo della convivenza, della vita.

Io non sono mai stato in una grotta, ma mi ricordo perché ero nella Resistenza, anche se ero giovanissimo. Avevamo formato un gruppo di giovani della mia età, una decina, e avevamo la fortuna di poter girare durante il giorno, questo prima dell’offensiva quando ancora qui era relativamente calmo, ancora non arrivavano le granate… c’era qualche bombardamento e la gente correva e aveva già cominciato a frequentare i rifugi, durante gli allarmi quando si bombardava Rimini, capitava a volte che sganciassero le bombe su Santarcangelo e facevano la scia di esplosione fino a Rimini e la gente sentiva gli allarmi, c’era una sirena in un locale del Comune, che veniva azionata a mano e gestita da militari territoriali.La gente è nata nelle grotte. A casa mia c’era una piccola grotta e c’era una comunità (si trovava in Via dei Signori). Quando ci vivevo io le contrade erano una specie di kasbah dove viveva la gente più misera, che viveva di espedienti perché non c’era lavoro e vivevano di quelle poche risorse che davano le campagne agricole, la trebbiatura, la mietitura, che davano lavoro a un certo numero di gente, di donne e di uomini. Le donne si arrangiavano, andavano in campagna al mattino e tornavano la sera, andavano all’elemosina, davano qualche piccolo aiuto ai contadini e tornavano a casa con gli avanzi, con un po’ di pane secco, dei pezzi di piada, una manciata di farina, un po’ di polenta e con quello andavano avanti. Questa era la vita meschina e la situazione delle contrade prima della guerra e durante la guerra… questa situazione è andata peggiorando quando l’Italia è entrata in guerra… il razionamento è stato un disastro, perché nacque un fiorente mercato nero dove la gente che aveva i soldi poteva rifornirsi di tutto perché c’era l’olio, il sale, le derrate più varie, il pane, la farina, c’era di tutto, ma si pagava profumatamente decine di volte il valore di mercato… i poveri che già vivevano in modo precario da prima, quando arrivò il razionamento si trovarono in una situazione

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drammatica. Io ho sofferto la fame, non mi vergogno di dirlo, anche la mia famiglia, e con noi tanti altri hanno sofferto la fame per molti mesi. Con l’approssimarsi del fronte le contrade erano tutte alla fame, perché non potevano più andare in campagna, non avevano più niente… avevano qualche piccola riserva e con quella sono andati avanti.

Poi, poco prima del fronte, qualche mese prima, la Resistenza locale fu informata che sulla ferrovia, nel tratto Cesena-Rimini, sarebbe transitato un treno militare tedesco carico di armi, vettovaglie, munizioni, di tutto e allora attraverso una ricetrasmittente che era in possesso della Resistenza abbiamo avvertito gli alleati, i quali hanno provveduto immediatamente a bombardare il treno e l’hanno bloccato. Hanno bombardato i binari davanti, in modo che il treno non andasse oltre… tanto è vero che hanno colpito un vagone carico di munizioni e c’è stata un’esplosione che ha fatto crollare tutti i vetri del paese… un pezzo di rotaia delle ferrovia si è trovata sul sagrato della Collegiata… una cosa terribile, un botto così non si sentirà mai più a Santarcangelo, tutti i vetri, che erano ancora intatti nelle case, andarono in frantumi. Però questo ha significato la vita per i santarcangiolesi, perché sono venuti a sapere che c’erano dei vagoni carichi di farina, burro, di scatolame vario e allora è stato un assalto. I militari a un certo punto hanno tollerato; erano pochi e avevano un po’ di soggezione, quindi molti hanno potuto trafugare questo ben di Dio e farsene una scorta che è servita ad andare avanti. C’erano anche le armi e queste le abbiamo trafugate noi, ma per le armi la sorveglianza era rigidissima, c’erano delle guardie armate che giravano avanti e indietro nel luogo in cui c’erano i carri pieni di munizioni e di armi, ed era pericoloso e rischioso e anche difficoltoso. Noi avevamo trovato un sistema di notte, perché questo si poteva fare solo di notte, che guardie erano due di qua e due di là, da entrambe le parti del vagone… noi sceglievamo il momento giusto… prima per rompere il lucchetto e aprire uno spiraglio nel vagone e poi negli intervalli in cui le guardie si allontanavano e voltavano le spalle a quel vagone che avevamo preso di mira, in quell’attimo si saliva sul vagone, si prendeva un fucile, quello che si poteva… c’era un passamano e tutti in fila che prendevamo queste armi e si depositavano provvisoriamente in un canneto. Era un grande rischio ed era anche un’azione di grande sveltezza, abilità, coordinazione incredibile. Abbiamo trafugato parecchie armi, perché i partigiani di Santarcangelo non hanno combattuto, erano delle squadre SAP che avevano il compito di sussistenza ai partigiani combattenti che erano in montagna e noi raccoglievamo quanto era possibile sia in vettovaglie, vestiti, armi, medicinali, denaro, e c’erano delle staffette, in particolare ce n’era una che si chiamava Alba Mini (era una contradaiola, come quasi tutti i partigiani santarcangiolesi) che aveva un coraggio leonino, era una giovane ventenne che era stata dotata di un cavallo e di un biroccino e quando la raccolta era congrua lei partiva. Le armi erano depositate in luoghi segreti, non tutte erano nello stesso luogo, noi, per esempio, le depositavamo senza sapere chi ci abitava, chi le andava a ritirare, perché la resistenza lavorava a scatola chiusa, ogni reparto faceva il proprio lavoro ma non conosceva nessun altro ed era una misura di sicurezza per garantire l’integrità della Resistenza, altrimenti se tutti conoscevano tutti, se ne prendevano uno voleva dire prendere tutti. Noi andavamo in una casa di Via dei Nobili su per una scala, in fondo c’era una porticina a sinistra aprivamo e buttavamo la roba là, e poi via e non se ne parlava più. Questa roba veniva raccolta, consegnata all’Alba che caricava insieme ad altri il biroccino, sotto ci mettevano la paglia e sopra le armi e le munizioni e poi di nuovo sopra la paglia e delle cassette di frutta e verdura, e con questo biroccino attraversava i posti di blocco perché i tedeschi avevano pattugliato tutto, ogni luogo strategico della rete stradale di Santarcangelo e del contado, a cominciare dal ponte dell’Uso. L’Alba passava, era franchissima, dimostrava di essere tranquilla, sorridente. In genere le pattuglie addette a questa sorveglianza erano formate da tedeschi anziani i quali avevano probabilmente le tasche piene, vedevano passare una ragazza con un cavallo, la fermavano e lei sorridendo diceva che andava a vendere la frutta e cercava di rabbonirli offrendo delle cose, la lasciavano passare e lei doveva percorrere tutta la strada fino oltre Canonica dove c’era un punto di raccolta, e questo lo faceva una volta alla settimana.

Nelle grotte c’erano anche gli uomini, ovviamente la maggioranza erano donne e bambini, perché molti uomini erano in guerra, pochi erano riusciti a ritornare a piedi in Italia, a casa, ma gli altri erano rimasti prigionieri in altri paesi, in Francia, nei Balcani, in Grecia, in Africa orientale e occidentale. Gli uomini non ce n’erano molti e alcuni erano rifugiati… sapevano che ogni tanto c’erano dei rastrellamenti e gli uomini venivano portati via. I tedeschi facevano delle irruzioni ma non si azzardavano troppo perché le grotte erano brulicanti di persone, si passava uno alla volta dentro con difficoltà, bisognava scavalcare i corpi, andare lì in mezzo… anche se un soldato era armato fino ai denti non andava tanto tranquillamente, quindi preferivano non andare. Qualche volta è successo che per un tratto sono arrivati cercando… ma la gente poi si nascondeva fra gli altri, fra i bambini.

Le grotte erano collegate fra loro… ma non sono nate collegate. I cittadini, previdenti di quello che sarebbe successo poi, durante la seconda guerra mondiale, hanno deciso di collegare le grotte più importanti, scavando dei cunicoli di collegamento, ma non era semplice, si andava a naso, c’erano i dislivelli da superare, l’orientamento e fortunatamente c’era un cittadino italiano di origine inglese, Aroldo Ricci, la madre era inglese, il padre era stato un grande ingegnere meccanico… avevano vissuto a Londra per tanto tempo e lui era un mezzo geniaccio, sapeva fare un po’ di tutto, aveva un teodolite e con questo ha consentito che gli errori di percorso fossero minimi. Cinque o sei grotte sono state collegate e questa era una grande precauzione perché non si poteva prevedere cosa sarebbe successo… un bombardamento a tappeto per esempio avrebbe potuto ostruire l’ingresso di una o più grotte, ma c’era sempre la possibilità che almeno una di queste uscite fosse libera.

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Il paese di bombardamenti aerei ne ha subito uno, che secondo me è stato un errore di misura, un cacciabombardiere che anziché sganciare le bombe sul ponte del Marecchia, perché quasi quotidianamente arrivavano delle pattuglie aeree per abbatterlo, probabilmente ha sganciato su Via dei Nobili e distrutto 8/10 case… per fortuna erano deserte, perché quando suonava la sirena, ci si rifugiava nelle grotte e vittime non ce ne sono state. Quello che fece danni, anche morti, soprattutto nella popolazione civile della campagna, sono stati i bombardamenti dei cannoni da terra, quelli hanno fatto molti danni, feriti… morì un giovane veterinario che era il fratello del primario dell’ospedale, che andava a soccorrere i feriti nella grotta di Via dei Nobili… nel momento in cui erano sull’ingresso cadde un’altra granata e il fratello di Evangelista, il dottore primario, rimase ucciso. Ci furono parecchi danni, molta gente ferita, qualche morto… perché poi morivano per infezione, perché non c’erano medicamenti, non c’era la penicillina che arrivò con gli alleati, da noi era sconosciuta. Quando arrivarono le truppe alleate i feriti che venivano curati riuscirono a scamparla. In genere i più gravi venivano trasportati ad Ancona, c’era un ospedale da campo molto attrezzato e venivano curati lì… quasi tutti si sono salvati, mentre prima se ne salvava solo il 10%, gli altri morivano di infezione.

Il rapporto con le truppe tedesche era di non belligeranza, di assoluta diffidenza… i tedeschi erano visti come degli occupanti (come in realtà era)… tranne pochi che aderirono alla Repubblica sociale, una decina di persone in tutto, tutti gli altri vedevano i tedeschi come degli occupanti. Si cercava di non avere rapporti, di stare alla larga perché facevano paura.Qualche volta hanno tentato di fare incursione nelle grotte quando facevano i rastrellamenti, ma erano rastrellamenti non per deportare la gente, a loro serviva la manodopera per fortificare la linea gotica, avevano bisogno di gente… io sono stato preso tre volte, ero un ragazzino e per tre volte mi hanno condotto insieme ad altri a fare degli scavi per collocare i carri armati che ormai non giravano più perché non avevano più la benzina. I tedeschi facevano le case matte con i carri armati, venivano piazzati su degli spiazzi adibiti in proposito, magari interrati in parte e rimaneva fuori la torretta e sparavano come se fosse la torretta di un fortilizio. Alla sera ci riportavano a casa, cercavano di ingraziarci perché magari il giorno dopo ne prendevano altri e avevano depredato tutti i contadini del loro bestiame, Santarcangelo era un centro di raccolta, nel campo della fiera, che era zeppo di bestiame, vitelli, vacche, tori, buoi, e quando il territorio era saturo, loro provvedevano a raccogliere la mandria e attraverso la campagna portavano il bestiame a Cesenatico, dove lo imbarcavano per Trieste e per la Germania. Io per due volte sono andato a fare le piazzole, la terza volta mi hanno preso e hanno preso anche mio padre e altri e abbiamo fatto i mandriani… abbiamo fatto tutta la strada, ci abbiamo impiegato tre giorni da Santarcangelo a Cesenatico con il bestiame e devo dire che è stato un viaggio travagliato ma anche vantaggioso perché ogni sera ci si fermava in un’aia di contadini… i tedeschi ammazzavano un vitello e avevano il loro pentolone da campo, e davano da mangiare anche a noi, la carne erano mesi che non la vedevamo, ci si sfamava quei tre giorni.Altra volta mio padre si fece catturare di proposito perché voleva vedere cosa mi succedeva, era la vigilia della liberazione e una settimana prima eravamo stati portati a Spinalbeto dove stavano erigendo un fortilizio perché sapevano che gli inglesi sarebbero arrivati attraverso il Marecchia e avevano preparato delle piazzole per mettere i carri armati orientati verso il Marecchia e arrivavano delle granate e noi avevamo il piccone e la pala e ogni tanto giù per terra d’istinto… e questo lo facevano anche i tedeschi e noi approfittavamo di quei momenti per allontanarci un po’ perché eravamo sul crinale della collinetta e da una parte si scendeva giù verso Santarcangelo, dall’altra si andava nell’Uso e ai bordi di questa piazzola c’era un canneto folto e ogni volta che arrivavano i fischi delle granate ci si buttava per terra e si faceva 4–5 passi verso il canneto finché arrivò il momento in cui ci trovavamo dentro il canneto e poi con le gambe in spalla giù nell’Uso a correre fino a Santarcangelo e i tedeschi non ci hanno visto più.Quando arrivarono le truppe tedesche fu una festa anche se i primi che sono arrivati a Santarcangelo non avevano un atteggiamento amichevole perché hanno spiegato le armi… loro non sapevano che c’era una popolazione inerme che non vedeva l’ora che arrivassero, c’era per fortuna un ufficiale tra di loro e le cose si sono subito sistemate… si sono insediati in tutte le vie con le loro camionette.

Prima della guerra le grotte servivano come deposito di vino. Secondo me le grotte furono costruite con questa intenzione. I documenti più antichi risalgono al 1500. Siccome Santarcangelo era un luogo in cui c’era un’ottima produzione di vino fin dall’antichità, probabilmente per conservarlo a scopo commerciale i produttori, che erano in genere dei nobili, avevano costruito queste grotte… sono fatte apposta perché le nicchie sembrano dei loculi per mettervi le botti. Sono ottimi magazzini per il vino perché hanno un certo grado di umidità, la temperatura costante inverno ed estate, il buio e il silenzio, sono quattro elementi con cui il vino si mantiene in modo perfetto. Il colle è in prevalenza fatto di tufo, abbastanza tenero, che si può lavorare e scavare bene, i nostri avi hanno approfittato di questa contingenza per sfruttare il terreno. Le grotte erano snobbate dai paesani, ci tenevano solo qualche damigiana di vino, le patate, le cipolle.

Le giornate si trascorrevano cercando di stare allegri, tranquilli… ogni tanto fuori a prendere una boccata d’aria per pochi minuti. Ogni tanto qualcuno ci rimaneva perché era rischioso, cadevano molte granate, il paese era tutto danneggiato. Il

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dopo guerra è stato una festa perché gli americani, gli inglesi avevano di tutto… non erano molto generosi però erano di “manica larga” nell’osservazione: avevano le loro razioni di viveri, le loro cucine ed erano divisi in piccoli gruppi. Quello che rimaneva del mangiare non veniva distribuito, ma seppellito, lo trasportavano in un campo e facevano delle buche, perché non volevano che ne facesse uso la popolazione… come controparte loro avevano dei magazzini alimentari e magazzini di prodotti diversi (vestiti, calze, scarpe, giubbotti, stivali di gomma, sapone, suole di scarpe) e a gestire questi magazzini c’erano dei civili italiani che durante il giorno, mentre caricavano e scaricavano, nelle pause, si facevano dei mucchietti di cose, che durante la notte si portava via… per la mia famiglia questo ha significato il sostentamento per due / tre perché io ho rubato tanta roba (giubbotti, sapone, scarpe).

ANTONIO GIORGETTI Intervista del 12 ottobre 2007

Io sono stato rifugiato nella grotta che si trovava in Piazzetta Monache, l’altra era in Via Tavernello. Sono stato nelle grotte circa 1 anno e mezzo… noi una volta abitavamo giù in Via della Costa 20. Io ero sempre fuori perché c’erano dei feriti… l’ospedale era stato trasferito dalla Suore Bianche, mentre un altro ospedale era stato organizzato nella Villa Borghesi, per andare a Canonica, e noi a piedi attraversavamo l’Uso e portavamo i feriti. Una volta è successo che hanno tirato delle granate, è morto il fratello del Dott. Evangelista… noi con una rete da letto, attraversando l’Uso l’abbiamo portato lassù, a piedi, rischiando molto… in quel momento non avevamo la testa.C’era una squadra di giovanotti che, quando arrivava la notizia di un bombardamento, andavano a recuperare i feriti con le barelle.All’interno delle grotte si dormiva con la paura e con i pidocchi. Eravamo un migliaio nelle grotte, in ogni nicchia c’erano 6/7 persone… durante la guerra le grotte sono state collegate tra loro, quella di Via Tavernello fu collegata con quella degli Amati in Via Ruggeri, così se era chiusa un’uscita si poteva fuggire da un’altra. Io da ragazzino facevo il barbiere e sotto casa mia, nella Contrada dei fabbri, c’era una scala e io andavo giù da questa scala e arrivavo all’interno di una grotta a tagliare i capelli a chi era rifugiato… avrò avuto 15/16 anni… allora bisognava arrangiarsi.C’erano migliaia di pidocchi, erano più della gente. C’è stata anche la scabbia, anche io l’ho presa, anche perché le condizioni igieniche erano pessime. Nessuno aveva il coraggio di uscire. Alle 6 di sera avevamo il coprifuoco e mi ricordo che c’erano dei tedeschi in Via della Cella e una persona che abitava in Via Tavernello aveva la luce in casa, mentre ci doveva essere il buio totale… lui aveva acceso una candela in casa e nel momento in cui chiudeva le tapparelle per fare il buio… in quel momento lì gli hanno sparato. Era un ragazzo di 18–19 anni. Il coprifuoco iniziava alle 6, a me ha fermato un santarcangiolese che si era arruolato nella Repubblica sociale italiana, io venivo giù da Via dei Signori, dove abitavano i miei nonni verso via della Costa a casa mia… erano le 6.10–6.15 e correvo veloce e lui mi ha fermato e mi ha detto <Tu lo sai che non devi uscire perché c’è il coprifuoco, per stavolta puoi andare, ma la prossima volta non te la perdono>. Quando è passato il fronte mi sono ribellato, lo hanno anche picchiato.

C’era molta solidarietà tra gli sfollati, ci si aiutava… una volta eravamo tutti poveri, ci si aiutava e si viveva con la paura. Santarcangelo alta, delle contrade, non era come adesso, la gente viveva di espedienti. La mia casa, in Via della Costa, è stata bombardata, per sbaglio, volevano bombardare il Francolini dove c’era il comando, invece con gli aerei si sono sbagliati e hanno bombardato la mia casa. Si è sentito un botto enorme, un fumo che non si vedeva niente.Il morale a quell’epoca era veramente basso… si viveva proprio con la paura. Il 95% delle persone che vivevano nelle grotte erano santarcangiolesi, ma c’erano anche persone del circondario. Nella palestra della scuola elementare avevamo allestito una mensa, davamo da mangiare a chi arrivava dal circondario… davamo un piatto di minestra. Si cucinava anche nelle grotte, anche perché la maggior parte delle persone per mesi e mesi non è mai uscita dalle grotte… sono nati anche dei bambini lì dentro.In Via dei Signori, dove stava la mia sorella, c’è una grotta e c’era un finestrino che dà su Via Maggioli, lì passavano i tedeschi e noi avevamo coperto questa finestra perché facevamo da mangiare… doveva essere fatto sempre tutto in silenzio, sentivamo i tedeschi passare su.Io che allora abitavo in Via della Costa e andavo a portare da mangiare nella grotta di Via Tavernello, una volta ho incontrato un plotone di tedeschi e ho avuto così tanta paura che la prima porta che ho trovato mi sono nascosto, sono andato di sopra e sono salito da una finestra e mi sono nascosto dietro un camino… dicevo che mi amazzavano, perché era il momento che andavano via i tedeschi.

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NINO GIACOMINI Intervista del 02 ottobre 2007

Io abitavo nelle prigioni vecchie, dove c’è anche il museo del tamburello… ero nella parte dove ci stavano i custodi… era un appartamento. Quando suonava la sirena e arrivavano gli apparecchi per bombardare, nel periodo del fronte… si andava tutti nelle grotte, si lasciava la casa e si andava nella grotta e si stava fisso lì. Io andavo nella grotta vicina di Meldoli in via dei Nobili. Noi stando lì nelle prigioni vecchie, un giorno era arrivato un gerarca fascista, Tacchi, che ci aveva detto di andare via perché avevano dei prigionieri da mettere in prigione, nelle celle. Mio babbo, siccome commerciava nei maiali e andava alle fiere, ai mercati, non c’era ed eravamo io, mia mamma e mia sorella, che adesso sta in Argentina, era un pezzo di donna grande… e Tacchi ci aveva detto di sgombrare (Tacchi è stato quello che ha fatto fucilare ed impiccare a Rimini i tre martiri) e allora mia sorella si è messa sulla porta per non farli entrare… era un pezzo di donna e faceva paura…lei ha detto <dove dobbiamo andare? Mio babbo non c’è > e mia mamma si era messa un po’ a piangere… e allora questo Tacchi ha preso mia sorella per un braccio, la strattonava, e io sono andato in difesa di mia sorella e lui mi ha dato un calcio nel sedere… e allora abbiamo deciso di trovarci una casa, perché avevamo anche i mobili, un po’ li avevamo lasciati lì, un po’ li abbiamo portati dietro e ci hanno mandato lì in Via dei Nobili dove hanno fatto le scuole medie. E dopo di lì andavamo nella grotta dove adesso c’è il Ristorante.

Con i bombardamenti si girava, si sentiva la sirena e dopo un quarto-venti minuti si sentivano gli apparecchi passare. Quando invece il fronte passò proprio qui arrivò il cannoneggiamento, con i carri armati, le granate… quando si sentiva il fischio il bombardamento era già passato, e invece non si sentiva il colpo del cannone quando partiva, era pericoloso. Chi aveva coraggio girava, ma era pericoloso. Queste donne che avevano il coraggio andavano in campagna per recuperare qualcosa e portavano a casa qualche gallina e facevano il brodo nella grotta e così si viveva. Noi ragazzini non conoscevamo il pericolo e un giorno eravamo andati a prendere l’acqua alla fontana, perché l’acqua dentro la grotta non c’era… in fondo al vicolo Amaduzzi c’era un fontana ed ero andato con un secchio a prendere l’acqua e in quel momento sento una ventata di caldo e vedo giù come dei bambocci, e ho pensato che forse facevano una festa la sera… invece erano morti… era un giorno bello ed era un po’ di giorni che non sparavano, il fronte era al di là di Savignano, e c’erano già gli alleati e ho visto questi corpi… perché sono usciti dalla grotta e si sono messi al sole perché era bello… queste bombe sono cadute sotto il tetto dove c’è il portone delle ex scuole medie e ci sono stati dei morti (uno era magrin che commerciava nei maiali, la Gustina ad Balarin, il fratello del Dottor Evangelista) e dei feriti come Aldo Antolini il falegname. E dopo dal di lì hanno cominciato a stare dentro, non uscivano più… siamo stati più di due anni… dal ’44 al ’45 e più. Anche il mangiare era un problema, noi ragazzini non conoscevano il pericolo… mio babbo stava sempre in fondo alla grotta anche perché i tedeschi facevano le retate e siccome quando c’erano i bombardamenti con gli apparecchi c’era il pericolo che le bombe cadessero dove c’erano le entrate delle grotte… si faceva la morte del topo e allora iniziarono a scavare per andare in un’altra grotta o uscire in un giardino e noi bambini eravamo sempre lì. I tedeschi arrivavano sulla porta ma dentro non si azzardavano perché avevano paura, perché poi le grotte erano diventate un formicaio, c’era un sacco di gente. Eravamo una cinquantina di famiglie, c’erano i letti all’inizio e poi c’erano le nicchie e ognuno aveva la sua nicchia fino in fondo. E la vita era sempre stare lì, noi ogni tanto andavamo in campagna a rimediare un po’ di frutta e la sera si diceva il rosario prima di andare a letto e a me facevano dire il rosario, perché io ero stato nel collegio delle suore prima della guerra, poi ci hanno mandato a casa con l’inizio della guerra e allora dovevamo pregare e io saltavo qualche granello, avevo circa 12 anni.

I tedeschi facevano i rastrellamenti e andavano dietro a Para il sarto, lui scappò e si infilò in via Tavernello, nel portone della casa dove adesso sta Bugli, e dietro il tedesco che sparava, perchè lo voleva prendere. Poi c’erano delle donne un po’ di facili costumi e ci andavano questi tedeschi, e un giorno eravamo tutti lì di fuori ed è arrivato un tedesco ubriaco e ha cominciato a ridere e poi a sparare e noi siamo scappati dentro la grotta. C’era anche gente di fuori che si rifugiava dentro le grotte… noi bambini andavamo in campagna a prendere qualche pollo, qualcosa da mangiare, perché il mangiare era un bel problema.Le grotte erano i rifugi principali… ogni casa aveva una sua grotta e si andava nelle più sicure. I vicini andavano nelle grotte delle altre case.Si andava d’accordo, qualche litigio c’era, ma niente di più. Quasi tutti i santarcangiolesi sono stati rifugiati nelle grotte. Il treno tedesco trasportava della margarina, del burro, e noi siamo andati giù con dei secchi, tegami a prendere questo burro e poi via a casa di corsa. Quando sono arrivati gli alleati, noi bambini aiutavamo gli inglesi, i polacchi a lavare i camion, il carro armato e loro ci davano il cioccolato, le sigarette… con gli alleati è arrivata la penicillina, c’era da mangiare, perché prima c’era una miseria enorme, molti sono emigrati in Francia, in America, qui si era spopolato, erano rimasti solo i vecchi. Dopo la guerrà è iniziata la ricostruzione.

Ognuno aveva la sua grotta… in via dei Nobili c’erano 7–8 grotte. Si erano portati i letti, si erano portati tutto, perché dopo si stava fissi, invece prima, quando c’erano i bombardamenti, si andava solo in quel momento, però è stato in quel

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momento lì che si scavava, perché le granate potevano chiudere le entrate, invece con le bombe crollava la casa. Scappavano via quando c’erano i rastrellamenti tra le grotte che erano state collegate. La sera c’era il coprifuoco. Tonino Guerra aveva una morosa che stava lì dove c’è la curva di Babbi, era lì al telefono pubblico e lui andava “a fare l’amour” di notte, che c’era il coprifuoco, attraversava la piazza e si era imbattuto in una ronda tedesca, è stato preso e portato in Germania… ha azzardato perché c’era il coprifuoco, la notte non si poteva girare… solo coi permessi, come i dottori. Mi ricordo che una volta avevano preso mio babbo e fatalità lì c’era il dottor Evangelista che ha detto che era il suo infermiere e l’ha salvato, così l’hanno lasciato altrimenti lo portavano in Germania. Succedevano queste situazioni qui…Nel Convento delle suore avevano fatto l’ospedale, io ho fatto il collegio lì. Le condizioni igieniche nelle grotte erano precarie, c’erano i pidocchi, eravamo tutti lì… allora si badava a salvare la vita, il mangiare si mangiava come era… c’era della gente che soffriva la fame, poco prima della guerra, durante il fascismo, c’erano delle famiglie nel centro storico, dove gli uomini erano antifascisti e li portavano al confino e queste povere donne con otto-dieci figli come facevano? Andavano in campagna a chiedere la carità per rimediare qualcosa… erano i confine, erano chiamati così perché il babbo era sempre al confine.

Noi non abbiamo sofferto tanto la fame perché mio babbo commerciava nei maiali e avevamo la farina, perché invece di farsi dare la caparra si faceva dare il grano dai contadini. Parlavo un giorno con una persona che si ricorda che sua mamma aveva rimediato un po’ di maccheroni… li ha messi dentro quei caldai, e fatalità è caduta un po’ di fuliggine nel caldaio e non li ha mica buttati via, ma li ha fatti mangiare, li pulivano e li hanno mangiati tutti per la fame. Chi non aveva paura usciva e riusciva a rimediare un po’ di mangiare, ma quelli che avevano paura stavano dentro nelle grotte e vivevano un po’ così. Molti uomini erano ancora soldati, molti erano andati a lavorare all’estero, molti stavano nascosti che non si facevano vedere, molti erano con i partigiani… quindi c’erano donne, bambini e vecchi. Non c’era un gran rapporto con i tedeschi, alla Rocca c’era il comando tedesco e ogni tanto davano un po’ di pane… dopo c’è stato anche il comando inglese, anche loro davano qualcosa da mangiare. Gli inglesi bruciavano i mobili di legno per scaldarsi e c’era un ufficiale inglese, che dopo la guerra è venuto in Italia, è venuto qui e mancava un piede ad un mobile e ha detto al custode <Lo sai dov’è quel piede? L’ho messo via io perché lo stavano bruciando i miei uomini> e ha aperto un’apertura da dei grossi mattoni e ci ha dato questo piede e poi gli abbiamo chiesto nome e cognome e gli abbiamo fatto i ringraziamenti… si vede che era un appassionato… però hanno bruciato diversa roba.La piazza era stata occupata, c’erano i carri armati. Mi ricordo che andavamo a pulirli e dopo ci davano qualcosa da portare a casa. Nelle grotte l’umidità era tremenda, tutti quelli che sono stati nelle grotte soffrono di artrite. È l’umidità che rende morbido il tufo perché altrimenti è molto duro. Gli uomini stavano dentro e hanno scavato collegando le grotte. In un primo tempo, quando sono iniziati i bombardamenti, i tedeschi non portavano via gli uomini perché c’era ancora l’esercito tedesco, dopo hanno cominciato a fare i rastrellamenti e a portare la gente in Germania a lavorare o nei campi di concentramento. Si sarà salvato anche qualche ebreo, perché una volta il Monte di Pietà era degli ebrei, portavano la roba e loro davano i soldi.

La Resistenza è nata tardi perché qui le montagne non c’erano e stare nascosti era difficile. Ci si nascondeva nelle grotte. Dopo il passaggio del fronte ognuno è ritornato nella propria casa. È stato duro il periodo dopo la guerra perché non c’erano servizi, molti giovani dalle contrade andavano via perché si vergognavano, molti emigravano perché non c’era il lavoro… noi siamo stati sempre qui.

Sig.ra VLADIMIRA STACCHINI Intervista del 19 giugno 1997

La mia grotta tempo fa era della Famiglia Felice, in un secondo momento è subentrata mia nonna, quando ha comprato tutta la casa, di cui faceva parte anche la grotta; adesso che sono subentrata io si chiama Balducci, come il mio cognome. Nel ’43 abbiamo cominciato a subire delle ondate di bombardamenti, noi ci siamo rifugiati nella grotta nel giugno del ’44 e siamo stati lì dentro un mese. Avevamo portato i letti in un’ala della grotta, tutta la mia famiglia, c’era la mia nonna, mio padre, le mie due sorelle, io e c’era anche la donna di servizio. Dormivamo lì, non siamo mai usciti per un mese. Uscivamo di giorno quando non c’erano i bombardamenti, perché nella grotta c’è una scala e una botola che accede alla casa, si passava di lì e si andava a fare qualcosa da mangiare. Noi che avevamo la grotta potevamo andare in casa a preparare qualcosa da mangiare, mentre gli altri che erano lì con noi mangiavano marmellate, quello che potevano, cose che erano state rubate alla stazione. Siccome c’era un treno dei tedeschi che era stato bombardato e non era più custodito, la gente correva come poteva coi carretti, con le carriole, per andare a prendere questa roba, altrimenti andava a male, non se la godeva nessuno. C’erano marmellate, c’era del burro… adesso io di preciso non lo so cosa c’era… io ero una ragazzina, avevo 18 anni, ero fidanzata avevo la testa un po’ fra le nuvole.

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Eravamo 1.000 persone in questa grotta, parenti, amici, anche gente che non si conosceva, chi arrivava, se c’era posto veniva accolto. Era mio babbo che faceva, io non mi interessavo di queste cose. La mattina mio babbo faceva togliere tutto, quando non c’erano i bombardamenti , faceva mettere tutto sulla piazzetta e faceva distribuire la calce per disinfettare tutto intorno, e poi si rimetteva tutto dentro. Era pieno di pidocchi, perché lavarsi non era possibile, le condizioni igieniche erano proprio infami. Quando c’erano i bombardamenti, che la gente rimaneva ferita, siccome le grotte erano tutte collegate (la nostra era collegata con quella di Bruni e con quella delle suore bianche e allora i feriti passavano di lì, la nostra perché le suore bianche avevano una specie di ospedale); e poi sono nati due bambini nella mia grotta. In casa mia lì non è morto nessuno.Il mese di giugno è stato il più terribile, il più brutto, anche a Rimini… tremava la terra, tante ondate di bombardamenti, le bombe le buttavano dove gli pareva.

Quando sono arrivati gli americani eravamo ancora nelle grotte, e siamo tornati nelle nostre case. C’era stato come un armistizio e pareva che la guerra fosse finita, e invece cominciò allora, perché durante la ritirata dei tedeschi buttavano giù le bombe e per noi la guerra cominciò in quel periodo, poi dopo sono arrivati gli americani piano piano… la gente è tornata nelle proprie case. In casa mia era arrivata una granata nella mura del giardino e poi era caduta una parete nella camera da letto che divideva dall’altra famiglia che abitava dall’altra parte. Noi abbiamo avuto dei danni nel negozio, molto rifornito ma ci hanno portato via tutto, in Via Cavour, non abbiamo salvato niente.Erano le grotte le uniche forme di rifugio. Erano tutte collegate, la gente aveva lavorato molto, erano state collegate per il periodo della guerra. Le grotte fungevano da cantina, le cose si conservavano fresche, noi ci mettevamo i cocomeri, il vino. Erano molto fresche. È stata proprio una necessità rifugiarsi nelle grotte. C’era chi andava in campagna, ma le grotte erano più sicure. Non potevi uscire, non potevi fare niente. Passavo il tempo facendo le maglie, c’era chi giocava a carte, chi bisticciava. La notte qualche moglie andava con un altro marito, o viceversa, era promiscuo. La vita continuava, malamente ma continuava. Ci si andava a lavare quando si poteva, in dei momenti non c’era la luce, non c’era acqua. Quando hanno bombardato la stazione si sono rotti tutti i vetri rotti anche a casa mia, perché in linea diretta non è lontano la piazzetta delle Monache, abbiamo dovuto rimettere i vetri. Quando sono arrivati gli americani, noi avevamo molti amici militari, russi, americani, inglesi …Il primo giorno che sono uscita dalla grotta insieme al mio fidanzato, siamo andati nella piazza Ganganelli, che sembrava un campo arato per quanto era messo male, pieno di carriarmati, di camion. Allora mentre io e il mio fidanzato davamo un’occhiata camminando davanti al Caffè Roma, sento uno che fa dal camion, ma io non lo vedevo perché andavo per la mia strada, e lui mi dice <Miss, miss> e mio marito che era geloso mi diceva di non voltarmi, ma lui continuava. Io ho risposto e mi ha detto <Come, come> e siamo andati allo sportello del camion. Aveva un pacco e mi ha detto che era per me. Il pacco era tutto pieno di cioccolatini, io l’ho ringraziato. Lui mi ha chiesto se avevo del vino e io ho detto che mio babbo aveva del vino, dei liquori, li avevamo sepolti nel giardino. Lui è venuto su con noi, è rimasto su il pomeriggio, ha mangiato con noi, avevamo fatto il coniglio, che noi li rimediavamo, avevamo gli amici in campagna. Io avevo due sorelle di 4 e 12 anni…Lui si è bevuto tutto un bottiglione di vino bianco e uno di vermut e tutti i giorni così, perché cominciò a venire tutti i giorni, veniva su con i biscotti, i cerotti per le escoriazioni, che noi non li conoscevamo ancora, il petrolio. Io mi ricordo che avevamo un tavolo grande e lui veniva su con delle sacche, le calze; ha continuato per mesi, e prima di andare a letto metteva 1.000 lire nel grembiule delle mie sorelle. Lui è stato qualche mese, ci portava su le coperte, tanta roba, e io dicevo: <Dove la prendi Bill?>, perché dopo un po’ ci si capiva. Gliela mandavano da casa, diceva che aveva una sorella attrice, una persona facoltosa dalle fotografie che faceva vedere… è vero? Dopo un mese e mezzo che è stato, è venuto a casa mia e ha detto a mio babbo che doveva andare al fronte, ho 12.000 sigarette e non so quante migliaia di lire… <le do a te, se torno le vengo a prendere, se no le lascio a te>, ma mio babbo ha detto no, non ha voluto niente. Noi avevamo anche un grande garage, dove avevamo la gente a dormire, e mio babbo aveva fatto fare delle grosse buche, dei mastelli di zinco con la chiusura ermetica e lì aveva fatto mettere del sapone, pezzi di cuoi, della farina, perché diceva che dopo il fronte, se non abbiamo più niente, almeno qualcosa rimane, e nel giardino aveva messo dei liquori, il grano, il mio corredo… quelle cose lì le abbiamo salvate tutte. Quando mi sono sposata, Zavatta, un amico di mio marito, ci ha dato l’appartamento. Mio marito l’ha fatto mettere a posto, perché erano arrivate delle bombe anche lì, ha fatto mettere le porte. Una notte gli americani hanno portato via tutte le porte, e la mattina quando va mio marito trova subito questa sorpresa, e abbiamo visto che spaccavano tutte le porte per fare legna, perché anche loro avevano poco. Insomma abbiamo rimediato le porte, ma mio marito ha sempre dovuto dormire in casa, prima che ci sposassimo, perché non ce le riportassero via.La mia vita è cominciata senza luce, senza gas, dovevo cucinare col carbone, la mattina mi alzavo con le candele per vedere lume, con le narici tutte nere e anche le lenzuola tutte nere, piangevo sempre perché non ero abituata… insomma tutti i disagi che porta la guerra. E poi io ero fra le fortunate, non era morto nessuno.Nella nostra grotta c’erano solo i nostri letti, della mia famiglia, il mio fidanzato, mio babbo, le mie 2 sorelle e la donna di servizio, mia nonna e tutte le altre persone come potevano, coi pagliericci, prima tutti lì nell’ingresso e poi nelle nicchie. Ognuno aveva il suo sacco, con dei ricordi di famiglia. Nelle grotte era tutto buio, le luci non si dovevano vedere, era fatica accendere una sigaretta di notte. Durante il giorno stavamo fuori e di giorno nelle grotte si usavano i lumi a petrolio

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e venivano spenti di sera. Quando arrivavano i tedeschi, molte volte facevano razzia degli uomini. Molti uomini per salvarsi dalle retate dei tedeschi si iscrivevano alla tot.

SIG.RA FORNARI Intervista del 25 giugno 1997

Avevo 9 anni ai tempi della guerra. Mi ricordo che abbiamo passato gli ultimi mesi nelle grotte, quando arrivavano le granate senza avviso, non c’erano più gli allarmi, non ci si azzardava più a stare nelle abitazioni. Mia mamma era in stato interessante alla fine, doveva partorire e ha partorito nella grotta. Noi siamo andati nella grotta di un vicino di casa; ogni grotta aveva lo sbocco nelle altre, erano tutte collegate. Perché una volta che veniva ostruito il passo davanti, uno aveva il modo di fuggire nelle altre. Mi ricordo che una volta è scoppiata una granata sulla porta, c’era un gran fumo e tutti sono scappati via. Era la grotta della Sig.ra Norma, perché una signora che aveva una casa nel centro storico, una delle più belle dell’epoca, era una signorotta. I rifugi durante la guerra erano le grotte, oppure si andava in campagna dove si pensava di stare meglio, infatti un mio zio che aveva un amico in campagna ci ospitò per un periodo di tempo (per andare là mi ricordo che abbiamo preso una mitragliata nel fiume Uso), ma non era sicura neanche la campagna. Siamo stati nella grotta giugno e luglio… il periodo estivo, quei due-tre mesi. Mi ricordo quando i tedeschi cercavano gli uomini, io avevo una nonna molto alta e molto battagliera… mio padre era già ammalato poveretto, era stato in Germania a lavorare, venne a casa ammalato di cuore e morì a 42 anni. Eppure si dovevano nascondere e avevamo fatto un buco lì nel giardinetto, e poi con una grata si erano nascosti questi uomini, ma quei pochi che c’erano erano malati, perché gli altri erano al fronte. E mia nonna con tutti i bambini attorno, diceva, quando arrivavano i tedeschi <qui non uomini, qui donne e bambini> avevo una nonna coraggiosa; era la giornalaia del paese; mio nonno che aveva anche lui poca paura andava a vendere i giornali in campagna e ci trovava un pugno di farina per fare 2 piade. Un giorno (perché abbiamo fatto anche il battesimo dentro la grotta) mio nonno era andato a fare 2 piade, perché avevamo invitato anche il prete, perché non si mangiava niente, avevamo la tessera con le marmellate. Lui faceva la piada e nella camera di sopra era arrivata una granata e noi dicevamo è morto, è morto, e invece lui è venuto fuori con la piada già fatta. Sono stati dei giorni tremendi, era allora il periodo della fame, la sera si andava a letto con le lacrime agli occhi per la fame. C’era il ponte Uso che permetteva di andare in campagna a prendere qualcosa, però andò giù anche quello mi ricordo. Nelle grotte c’erano dei tunnel, ogni famiglia aveva un tunnel, e in più uno vuoto per scappare nelle altre. Nessuno aveva le armi, perché lì più che altro c’erano donne e bambini, gli uomini, quei pochi che c’erano, erano al fronte e quelli che c’erano erano vecchi o ammalati. Le grotte erano collegate da prima della guerra. Dicevano che erano il frigorifero di una volta, ma io penso che non sia così, era troppo caldo. Nella grotta eravamo circa 20, c’era una famiglia di Rimini, avevano portato i materassi. Usavamo l’acetilene, c’era un puzzo tremendo, la sera si andava a letto “con i polli”. I bambini giocavano sempre a nascondino in un buco o nell’altro. Io andavo a scuola nella piazzetta Monache, c’erano le suore di clausura e la prima e la seconda le feci lì; lì misero l’ospedale e le scuole; un po’ di scuola l’abbiamo fatta lì, c’erano anche delle orfanelle di Rimini; avevamo una superiora che era molto brava, era all’avanguardia per quei tempi. Avevamo anche il prof. Malaguti con noi, il primario di medicina, era un uomo molto umano.Le condizioni igieniche non erano delle migliori: pidocchi, pulci… mia mamma poi era una fanatica, tutte le mattine metteva i materassi e le coperte fuori al sole, non c’erano i disinfettanti. A noi ci tenevano puliti, prendevamo le botte sempre perché andavamo a giocare con gli altri, prendevamo i pidocchi giocando con gli altri.Avevamo qualche giocattolo perché mio babbo quando andò in Germania ci portò qualche bambola di celluloide da vestire, allora mia mamma ci fece il vestito, ma quelle non le abbiamo portate nella grotta perché era un peccato rovinarle. Le donne lavoravano a maglia, lavavano qualche straccio per la casa più vicina, andavano a lavare qualche panno. Si cercava di stare il più nascosti possibile, perché se si veniva sapere che c’era qualche uomo, prendevano su anche i ragazzini. A mio padre lo portarono via prima dello scoppio della guerra, c’erano già i bombardamenti. Si correva come dei pazzi appena si sentiva la sirena, mia madre mi ricordo che se era in piazza lasciava la roba lì sulla bilancia e correva a casa, urlava come una pazza. In più era in stato interessante, paurosa lo è sempre stata. Prima magari andavi a fare un giretto giù in paese, a prendere l’acqua, perché allora non c’era l’acqua corrente, per noi era già un divertimento al campo fierato, dove c’era la fontana, c’era una casa di contadini lì vicino e davano l’acqua a tutti. Noi non avevamo tanti pensieri perché essendo bambini non pensavamo tanto al futuro. Mancava la libertà di girare e mancava il mangiare. Eravamo tutti nella stessa barca, ci volevamo tutti bene, non c’erano rivalità anzi, era una convivenza umana. C’era solo un anziano che a noi bambini ci sgridava e ci dava dietro col bastone, era il babbo di Astolfi… se facevamo una corsa, una risata… lui i bambini non li sopportava. C’era dialogo tra le famiglie, c’era affiatamento, non c’era invidia perché a quei tempi cosa c’era da invidiare? Invidiavamo la salute, la vita.

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Una volta che a Rimini ci fu il bombardamento per noi bambini fu un avvenimento, perché si vedevano queste luci dei bengala nel cielo, per noi erano fuochi artificiali, dopo si seppe che ci fu un bombardamento tremendo, si sentirono i boati fino da noi. Quella volta che vennero a bombardare la stazione io ero dalle suore a scuola e ancora non si sapeva che era stata la nostra stazione ad essere bombardata, sembrava fosse stato a Rimini e c’erano tutte queste bambine che urlavano tutte spaventate. C’era molta paura. Si sapeva che queste grotte erano abbastanza sicure e anche molte famiglie da Rimini vennero su. Gli abitanti a Santarcangelo in quel periodo erano sugli 8.000. I partigiani erano più nelle campagne, nelle colline. Avevano qualche nascondiglio i partigiani qui a Santarcangelo alta, ma non nelle grotte perché le grotte erano conosciute dai tedeschi. Siccome i tedeschi erano nell’ultimo periodo guidati dai repubblichini di Salò, che c’erano anche a Santarcangelo, ciò che non sapevano i tedeschi, erano i repubblichini ad informarli; avevano il comando alla Rocca. Qui è passato il fronte, e non c’è niente di normale quando passa il fronte anche perché il dopo non è facile, c’è stata la fame anche dopo. Chi era nella campagna ha avuto pochi pericoli, gli altri invece no, soprattutto per la fame. È stato più preoccupante il dopo. Da quel momento è cambiato tutto, è cambiato lo stile di vita, la mentalità, il modo dei rapporti. Durante la guerra c’era proprio una solidarietà tra i vicini di casa, dopo è cambiato tutto, anche l’economia. I pericoli sono durati per tanti tempo. La gente si muoveva di più, ma stava attenta quando sono arrivati gli alleati.

SIG.RA VENTURINI Intervista del 26 giugno 2007

Quel po’ di ospedale che c’era l’avevano trasferito dalla suore Bianche. Nella grotta c’erano 120-150 persone. C’era un cunicolo grande nel mezzo, poi di qua e di là c’erano tutti questi vani, delle nicchie e nelle nicchie ce n’erano altre più piccole che ci appoggiavi quel che potevi… dei pentolini. Poi le donne avevano attaccato dei bastoni tra un muro e l’altro e ci attaccavano delle coperte per fare il separè. Mettevano giù le reti o i materassi, pagliericci e si stava lì, i bambini dormivano e i grandi stavano lì perché aspettavano che passasse il fronte. Nella nostra casa abbiamo un pezzo di cortile, si vedevano gli aerei. La grotta è conosciuta col nome della famiglia Venturini. Nel cortile c’era un pozzo e quando pioveva andava giù l’acqua fino alla grotta. Noi con gli orci andavamo giù a prendere l’acqua al pozzo lungo. Se le suore ci facevano passare (non è che facevano passare tutti) siccome avevano una scala a chiocciola di ferro con questi secchi andavamo giù, dovevamo attraversare il campo delle suore e poi si andava giù al pozzo lungo. Si faceva tutto sempre di corsa quando non c’erano gli allarmi. Quando suonava l’allarme mi ricordo che mia mamma ci prendeva a tutte e tre e poi di corsa dentro la grotta perché cadevano queste bombe. Dentro la grotta c’era molta gente; si litigava, anche le donne litigavano, tutti lì tutti appiccicati uno sopra l’altro; mangiavi quel che potevi, delle gran pentole di fagioli, nello spiazzo del cortile. Mio babbo faceva il barbiere, sempre con la paura che venissero i tedeschi. Una volta la mia mamma raccontava che c’erano i tedeschi in una casa e sono venuti giù e c’era un uomo… noi avevamo steso i lenzuoli di fuori e i tedeschi camminavano da una parte tra questi lenzuoli e dall’altra parte si nascondeva questo uomo, si rincorrevano, poi per fortuna è riuscito ad andare su per la scala, è scappato. Mi ricordo che quella volta hanno avuto un po’ da fare, dopo hanno voluto sapere chi fosse, quelle donne facevano finta di non capire. I tedeschi non l’hanno trovato.Noi avevamo un signore che si chiamava Andrea, padovano, che era stato a lavorare in Germania, faceva lo spaccasassi e quando c’era qualcosa venivano sempre a cercare Andrea. Ci svegliavano di soprassalto perché avevamo una specie di porta e quando venivano a bussare, che cercavano questo Andrea, erano i nostri che venivano a farsi tradurre dal tedesco. Io mi ricordo una volta, sempre lassù nelle contrade, vicino a Palazzo Cenci, stanno ristrutturando una casa che è della Santina Sghetta, l’ha venduta e deve averla lasciata al Comune o al ricovero vecchi. Questa Santina era giovane e una sera i tedeschi sono andati su, non è tanto alta la casa, sopra il tetto i nostri uomini volevano entrare perchè avevano preso la Santina, e sono venuti a chiamare Andrea perché i tedeschi avevano preso la Santina e Andrea andò a parlare il tedesco. Quando sono arrivati gli americani, ne è venuto uno, forse era un ufficiale, dentro la grotta, mio babbo era seduto su una sedia e mangiava nella “gameina” (gavetta) delle patate; e mio babbo gli ha offerto da mangiare, e lui in italiano <no, mangia mangia te che è poco>. La gente non raccontava molto perché erano brutti ricordi. Le grotte erano un rifugio molto sicuro, erano sottoterra.Eravamo: mio babbo, mia mamma incinta della 4 sorella, noi tre figlie. Mia mamma cercava sempre di andare di sopra, all’aria aperta. C’erano la moglie e le figlie di Andrea perché erano i nostri inquilini; c’erano i miei zii con mia nonna, poi un sacco di gente che veniva dalla campagna, dalla Giola (Colombarone). Erano contadini che stavano lì per il periodo più grosso (nel ’44) – dall’estate fino a settembre. La mia casa mi ricordo aveva un buco nel muro grosso e un pezzo di parete era andata giù. Mi ricordo che andavamo a prendere l’acqua. Noi stavamo in questa grotta e giocavamo in mezzo a tutto quel tufo, era umido. Il bagno era un buco con tutti i mattoni sopra. Poi c’erano le grotte della Vladimira, la sua grotta ha le arcate e attorno alle arcate ha i mattoni, sono rivestite di mattoni, lì ci stava tantissima gente. E poi c’erano le grotte delle suore bianche, nel convento c’era un’altra grotta. C’erano tanti bambini nella mia grotta; giocavamo con i sassi, facevamo le compravendite, grattavamo i pezzi di mattoni, le macerie, le battevamo per ridurle in polvere e quelli

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diventavano per giocare zucchero, farina. Li pesavamo con delle bilance… si passava il tempo così, perché altro cose non c’erano. Le donne facevano le calze, lavoravano ai ferri, cucivano i panni, andavano anche nei campi, quelle che riuscivano ad andare, avevano il grano, le galline, poi tornavano su e portavano un po’ di roba, un panetto di farina. Mangiavamo soprattutto fagioli – patate – poco pane e nero e le donne quando portavano su un po’ di farina riuscivano a fare la spoglia con acqua e farina e così si mangiava anche un po’ di minestra e se no si faceva l’impasto di panetti, un impasto con farina e acqua, poi li tagliavano tutti, li grattugiavano e poi li cocevano nell’acqua e li condivano con un brodo lungo di pomodoro. Erano tipo palline, “i grattini”. Essendoci tutta questa gente di campagna qualcuno portava sempre qualcosa, ma la fame c’era, forse noi bambini meno perché i genitori davano più da mangiare ai bambini che agli adulti, però io mi ricordo che dopo il fronte non c’era più niente, avevano portato via tutto, mio babbo aveva un carretto e ci metteva sedute sul carretto, lui tirava e la mamma dietro e andavamo in campagna; faceva la barba agli uomini, tagliava i capelli ai bambini e alle donne e per ricompensa non gli davano i soldi, ma la farina, il pane, la piada, la piada la facevano con la farina di polenta perché la farina bianca era rara; i fagioli. C’era sempre qualcuno che sparlava, succedevano dei battibecchi, ma si doveva comunque andare d’accordo, perché dovevi stare nascosto lì per forza. Gli sfollati erano questi contadini delle campagne. Era sempre la mia mamma che girava, perché mio babbo stava piuttosto nascosto per via dei rastrellamenti, a Rimini c’era il comando dei tedeschi.Noi eravamo molti bambini, si giocava, si litigava… si sentivano queste sirene e via di corsa… però mancanza di qualcosa no, anche perché ce n’era talmente poca che non potevi dire <mi mancano i vestiti…>. Io sono nata nel ’39 ed è scoppiata quasi subito la guerra; la roba era poca dappertutto. Mi ricordo che mia mamma aveva questa tessera con cui andava a prendere il pane, però noi probabilmente non siamo mai andati con lei a prendere la roba in giro.Mi ricordo, prima di venire giù nella nostra grotta, perché eravamo sfollati con degli zii lassù nelle fosse, una mattina, era appena giorno, io e la mia sorella per mano, una alla mamma e una al babbo, il babbo teneva la più piccola in braccio, siamo scappati via perché era arrivata la cucina da campo inglese, e si erano messi in quest’aia di contadini, tutti questi camion erano tutti in cerchio, e zitti zitti noi siamo passati giù nei campi e poi via… perché forse avevamo paura… perché lassù da questi zii o lì vicino, che c’era il mulino di “gnocco”, c’erano 2 o 3 tedeschi e lì una sera venivano a mettersi a sedere con le cugine della mia mamma che erano ragazze… forse erano tedeschi giovani, alcuni erano buoni, davano anche le gallette ai bambini. Ecco perché siamo scappati via dai campi, perché i tedeschi erano là e di qua era arrivata questa cucina da campo inglese, nella zona di San Michele.Mino Stargiotti aveva anche lui la grotta nella sua casa, era partigiano e io me la ricordo la sua grotta, perché la sorella di Mino veniva a imparare il mestiere di ricamare dalla mia mamma che eravamo a 50 metri . Nella loro grotta si andava giù e c’era una finestra che si infilava. Nelle grotte non c’erano armi. Nella nostra grotta c’erano soprattutto donne e bambini, gli uomini erano pochi e stavano nascosti. Mi ricordo di questo Andrea che stava nella nostra casa, era sempre in giro per fare da interprete; c’era mio babbo, mio nonno, “gianin”, Giuseppe. Al momento cruciale c’erano 120-150 persone tra tutti. Non mi ricordo quante persone c’erano a Santarcangelo a quei tempi. Mio babbo era quasi una figura leggendaria, è stato il barbiere da sempre. C’era tanta gente sfollata in giro, che non stavano da noi, erano “i sfulet” come si diceva, che sembrava fossero stranieri e invece potevano venire anche da Rimini. Mino era partigiano, Guerrino era partigiano, Fafin, Bagi, Belli era reduce, partigiano era anche il babbo dei Razzani. I partigiani erano tutta gente delle contrade, poi c’era Gianni e suo fratello Luciano e suo babbo Mario e la Caterina …

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Dall’archivio fotografico Umberto Macrelli, in deposito presso il Museo Etnografico di Santarcangelo

Altre testimonianze importanti… Ricordi da Gabicce Estratti dalla ricerca storica di Daniele Celli “Un ME 323 a Gabicce” – dicembre 2012

GIUSEPPE FABBRI

Durante la guerra il sale era difficile da trovare, all’inizio era tesserato e più di un certo quantitativo non te ne davano, poi ad un certo punto era divenuto quasi introvabile. Quello che c’era costava troppo e non potevamo permettercelo, così ci si doveva arrangiare. La mamma mi mandava a prendere l’acqua di mare, allora era pulita, con la quale preparava la piada, che in quegli anni a cena non mancava mai sulla nostra tavola. Io ero addetto alla macinatura del grano, con il macinino del caffè. Il grano ce lo dava molto spesso “Tugnin dla Betta”, il nostro vicino di casa, lato Rimini. A volte invece lo portava “Vanecca ad Burgogna” che abitava a circa duecento metri da noi in direzione di Riccione. Quanto ci ha aiutato la famiglia di Tugnin, non potremo mai ringraziarli abbastanza. L’acqua l’andavo a prendere in media due volte alla settimana, portando due fiaschi da due litri ciascuno. Ricordo che la paglia di rivestimento dei fiaschi si era rotta, così mio babbo li aveva rivestiti con rametti di vimini. Da un padellone per la cottura delle lasagne, riempito di acqua di mare e messo a bollire, usando come combustibile le radici di gramigna seccate, si poteva ricavare un cucchiaio di sale. La spiaggia quella volta non era piana come adesso, ma era formata da dune di sabbia. Durante l’inverno, quando uscivo di casa, per ripararmi dal freddo usavo la “caparela” (mantella) che mio nonno paterno aveva portato con sé dal fronte, lui aveva combattuto la Prima Guerra Mondiale. Un giorno in particolare mi è rimasto impresso nella memoria per quanto avevo visto. Era una giornata grigia e fredda con nuvole molto basse, saranno state circa le 9:00, forse le 10:00. Come al solito sono andato sulla spiaggia a prendere dell’acqua. Ad un tratto ho visto passare, a qualche centinaio di metri dalla riva, un grande aereo con sei motori diretto verso Pesaro, volava molto basso. Non avevo mai visto nulla del genere, così da vicino. Dopo averlo osservato passare, mi sono messo a fare il mio lavoro. Mi sono avvicinato alla riva e con le mani ho scavato una buca nella sabbia creando una piccola pozza d’acqua che raccoglievo con un contenitore e riversavo nei fiaschi utilizzando un “pidriul” (imbuto). Ad un tratto, ho visto con la coda dell’occhio come un lampo in direzione di Gabicce e qualche attimo dopo ho sentito il rumore di una esplosione. Quell’aereo doveva essere andato a sbattere contro la collina.

BRUNO BALDELLI

Sono nato a Casteldimezzo nel 1926 e qui abitavo durante la guerra. Un giorno di nebbia molto fitta, potevano essere le 9-9:30 del mattino, in paese abbiamo sentito un gran botto verso Vallugola e con un gruppo di paesani siamo corsi a vedere cosa era successo. A circa un chilometro dal paese, abbiamo visto ai piedi della collina un grosso aereo che bruciava. Tra le fiamme si vedevano ancora alcuni uomini che si muovevano. Ricordo che qualcuno ha detto che bisognava andarli ad aiutare ma cosa potevamo fare, chi si avvicinava a quell’inferno. Tra la gente si diceva che l’aereo avesse quattro motori, altri dicevano sei. Sembrava che l’aereo trasportasse dei motori e che a bordo vi fossero tredici persone, tutte morte nell’incidente. Questo fatto deve essere avvenuto tra Ottobre e Novembre, ma non saprei dire in che anno, sicuramente era inverno. In quel periodo io ed altri cinque miei compaesani lavoravamo nella Todt, alla costruzione di un fortino scavato nella collina vicino al cimitero di Casteldimezzo. Oltre a me c’erano Enrico Vimini, che abitava la casa lì vicino, Dino Druda e… non ricordo il nome degli altri. Di quel gruppo ormai sono rimasto solo io. Il lavoro consisteva nello scavare una camera centrale, delle dimensioni di metri 4x5 alta 2,5, da cui si dipartivano tre gallerie, una rivolta verso il mare, una verso la Siligata ed una verso Gradara. La stanza centrale avrebbe dovuto contenere un cannone da orientare a seconda dell’esigenza verso le tre direzioni delle galleria. Eravamo alle dipendenze di un gruppo di cinque militari tedeschi comandati da un sergente. Si chiamava Walter ed era una persona veramente per bene, ho un ottimo ricordo di lui. Il cannone non è mai stato portato nel fortino, sebbene abbiamo lavorato sino a qualche giorno prima del passaggio del fronte. I tedeschi ne avevano uno molto grosso su ferrovia, lo tenevano nascosto nella galleria sotto Casteldimezzo. Dicevano che doveva essere un 381 mm. Io non l’ho mai visto, non mi sono mai avvicinato a quella zona, però posso dire di averlo sentito sparare, faceva un rumore veramente forte. Ha sparato poco, tirava una botta poi rientrava in galleria. Quando i tedeschi si sono ritirati hanno fatto saltare la ferrovia e pure il faro navale di Casteldimezzo, una struttura veramente bella, lo ricordo bene perché abbiamo portato noi le sei mine per demolirlo. Non è più stato ricostruito. Dalla zona dove stavamo lavorando, sulla parte alta della collina, si vedeva un ampio panorama, i tedeschi avevano piazzato un grande cannocchiale per controllare sul mare l’arrivo delle navi. Walter

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qualche volta ha fatto guardare anche me. Nella casa di Enrico Vimini, i tedeschi avevano posizionato una radio alla quale erano sempre addetti due militari. Loro sapevano in anticipo quando arrivavano le formazioni di bombardieri o le navi alleate per bombardare e ci avvertivano. A volte mi è capitato di vedere le navi alleate, erano tre o quattro e di grosse dimensioni. Tra la gente si diceva che erano venute nella zona per colpire il deposito di munizioni in zona Monteluro, ma non l’hanno mai colpito. Io non ho mai saputo dove fosse. Una “checca” (aereo da ricognizione) volava sul terreno da colpire e dava le indicazioni alle navi su dove dirigere il tiro. I proiettili ci passavano sulla testa producendo uno strano sibilo. Uno di quei colpi, che doveva essere difettoso, aveva colpito una casa del posto passando attraverso i muri senza esplodere. Walter una volta mi ha tolto dai guai. Una mattina sono stato catturato da un tedesco sulla statale Pesaro Rimini. Avrei dovuto accompagnare una mandria di bestiame diretto al Nord. Gli ho mostrato il “papir”, i documenti che provavano che stavo lavorando per la Todt. <No papir, tu venire> e mi ha obbligato a seguirlo. Walter o ha assistito alla scena, oppure è stato avvertito da qualcuno,ma comunque sia andata è sceso dalla collina e mi ha raggiunto. A quel soldato gliene ha dette di tutti i colori, ma così tante da farlo nero e per fortuna mi ha tolto dall’impaccio. Chissà dove sarei finito. Walter con i suoi uomini è rimasto in zona sino a qualche giorno prima dell’arrivo degli alleati, ci ha salutato cordialmente e da quella volta non ci siamo più visti. Chissà che fine avrà fatto?

DOMENICO DEL MAESTRO

Da ragazzo abitavo a Colombarone, una frazione di Pesaro, lungo la Flaminia, alle pendici della collina di Gabicce. Un giorno mentre mi trovavo in casa mia, ho sentito un botto e sono subito uscito per andare a vedere cosa era successo. Arrivato sul posto ho visto i resti di un aereo in fiamme a circa un chilometro dalla Flaminia. Dicevano che era un aereo con sei motori, un modello che aveva progettato un ingegnere donna. Anche il giorno dopo sono tornato sul posto. Era arrivata una squadra di militari italiani, 6 o 7, per recuperare i corpi carbonizzati dei 10 militari deceduti nell’incidente. Avevano due barelle sulle quali venivano caricati poi a piedi li portavano fino alla strada dove era parcheggiato il loro camion. Erano presenti anche alcuni ufficiali tedeschi che supervisionavano le operazioni. I resti dell’aereo sono rimasti su quel campo per più di un mese prima di essere recuperati. Essendo nato nel 1924, per non essere richiamato sotto le armi mi sono iscritto alla Todt. Ho lavorato a Montecchio e ai fortini realizzati a Gabicce Mare. A Montecchio ero di servizio proprio nel periodo in cui è stato fatto saltare dai partigiani il deposito delle mine che ha distrutto il paese e ha causato la morte di molte persone. Quella sera in paese c’era una festa dove si ballava ed alcuni miei compagni di lavoro volevano rimanere, chiedendo anche a me di partecipare. Io ho deciso di tornare a casa dalla mia “morosa”. Chissà cosa mi sarebbe successo se fossi rimasto là?

LE LETTERE RUBATEMassimo Conti

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Riposa nel cassetto anche quella insieme alle altre due. Allora non sapevo che sarebbe stata l’ultima. Erano arrivate a cadenza regolare, ogni sei mesi. Ne sono sicura perché spettava a me il compito di recapitarle. Cosa che non feci. E adesso dopo tanti anni mi capita ancora di aprire quelle tre buste ingiallite e leggerne per l’ennesima volta il contenuto. Nel tentativo, sempre fallito, di cercare una risposta ad un dilemma che mi perseguita da allora: avrò fatto la cosa giusta? Trovo una pace momentanea al mio tormento solo ripensando a come ho reso felice almeno una famiglia. La prima lettera indirizzata a Maria arrivò dall’Unione Sovietica: la guerra era finita da due anni. Per i postini come me, a quel tempo era penoso consegnare missive e dispacci. Conoscevo quella donna come tante altre persone del quartiere, la loro storia, i loro drammi. Una sposa di guerra con il marito disperso in Russia. Si era risposata dopo aver aspettato invano sue notizie. Rassegnata ma con una prepotente voglia di vivere si era presto gettata il passato alle spalle e si era rifatta una vita con il giovane sarto. Vivevano felici e lei aspettava un bambino. Che diritto avevo io di distruggere il loro futuro? Ecco il motivo per cui mi sentii di non tradire la loro fiducia aprendo quella prima busta con Stalin sul francobollo. Volevo sapere e giudicare con la supponenza di chi si crede al di sopra delle parti. Ho peccato di superbia? La lettera inizia così: 4 marzo 1947. Cara Maria vengo a te con questo mio scritto per darti, dopo tanto tempo, mie notizie dalla clinica psichiatrica di Timbov. Ó avuto delle gravi ferite alla testa così mi anno trasportato in questo spedale per matti. Ma io non sono tocco! e termina supplicando vieni a prendermi e prega per me. Le altre due lettere che seguirono erano appelli sempre più accorati, richieste d’aiuto di un naufrago alla deriva nel grande cataclisma che aveva investito l’Europa. Era orfano, con lontani parenti sfollati chissà dove. Non ottenendo risposta smise di scrivere. Il dopoguerra fu un grande lavacro collettivo che spazzò via tante storie individuali come questa. E io, nel mio piccolo, ne fui una degli artefici. Oggi mi capita di incontrare ogni tanto la signora Maria a passeggio con i figli e il sarto. Quando accade però, il ricordo di quei giorni riaffiora e una volta a casa non posso fare a meno di aprire quel cassetto e piangere.

LE OSSA DEGLI ZIIUna storia di ordinaria tragedia nella seconda guerra mondiale Cinzia Lisi Quando ero bambina la mia famiglia mi portava spesso al cimitero di Santarcangelo, nella zona dei vecchi ossari ora demoliti, a visitare la minuscola tomba di due ragazzini morti molto prima che io nascessi, prima ancora che fosse nato il babbo: <qui ci sono le ossa degli zii> mi sentivo ripetere ogni volta. Gli zii erano fratelli di mio padre, ritratti sulla tomba in una fotografia struggente per quanto inquietante, l’unica che gli fosse stata scattata nella loro breve vita: in bianco e nero, con le faccine scure per la cattiva qualità della stampa e le magliette colorate di un acquerello celeste. Quella foto la conoscevo bene, perché ce n’era una identica nel tinello di casa nostra, con sotto un lumino sempre acceso. La nonna, che viveva con noi, non parlava mai della terribile tragedia chiusa nell’ossario, ma io conoscevo bene la storia: mia madre e gli altri in famiglia me l’avevano raccontata spesso, ogni volta con particolari diversi. Una tragedia di guerra, come il nostro paese ne vide a migliaia durante la seconda guerra mondiale, una ferita incisa nel profondo nella storia della mia famiglia.Nel luglio del 1944 le colline a sud di Rimini subivano l’occupazione tedesca mentre il fronte avanzava. Gli occupanti intimidivano la popolazione locale con rappresaglie e rastrellamenti contro i civili e seminavano il terrore in tanti modi. Nel primo pomeriggio dell’11 luglio i fratelli Mario e Nicola Lisi, rispettivamente di 14 e 12 anni, escono nel caldo afoso con l’incarico di “fare l’erba” per i conigli. Salutano la madre dicendo che poi si sarebbero fermati a fare il bagno nel torrente che scorreva sotto al podere che abitavano a mezzadria, nel comune di Mulazzano. Verso le due dalla casa si sente un forte boato: sono presenti a quell’ora, oltre ai genitori dei ragazzi, anche lo zio paterno con la moglie. Ci sono poi i vicini del casolare. L’allarme è pressoché immediato, la madre ha la sensazione che lo scoppio provenga proprio giù dal fiume. Lo zio esce, seguito dal padre, mentre convincono le donne a restare a casa ad aspettare. Gli uomini scendono al torrente, cercano e subito trovano l’orrore: il corpo di Mario a brandelli, dilaniato da un’esplosione che ne ha sparso gli arti in giro per il campo; il fratello si trova alla distanza di alcuni metri, con il volto gravemente sfigurato, tutto sanguinante. Lo zio torna indietro, chiama a raccolta i vicini e torna al fiume con un grosso paniere per raccogliere i resti del povero Mario. Il corpo verrà ricomposto alla meglio per la sepoltura ed era talmente malridotto che non sarà mai mostrato alla madre. Intanto Giuseppe, il padre, porta soccorso all’altro figlio agonizzante. Prima di perdere i sensi il ragazzo farfuglia che avevano trovato una “palla rossa” con cui si erano messi a giocare: la “palla” era poi esplosa tra le mani di Mario. Probabilmente si trattava di una bomba a mano tedesca: persa durante le manovre militari, lasciata in giro proprio allo scopo di attirare i bambini? Non si sa. I tentativi di salvare almeno Nicola, 12 anni, sono disperati: non ci sono medici in zona, l’ospedale più vicino si trova a Montescudo, distante da Mulazzano alcuni chilometri in salita. Giuseppe porta il figlio in casa, gli vengono praticate alcune fasciature per fermare le forti emorragie, poi viene caricato su un biroccio. Trascinando quel carico di dolore, il padre bussa alla canonica lungo la via di Vecciano per chiedere

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aiuto al parroco, Don Serafino Tamagnini. Partono sotto il sole di luglio, a piedi e con il ragazzino moribondo alla volta di Montescudo. Don Serafino ha parlato di quel terribile viaggio nel suo diario e così lo descrive: <Sono stati 4 Km di salita percorsi tra i gemiti del padre, i fievoli lamenti del ferito e le mie preghiere. E’ stato un calvario su quel biroccio traballante, con quel carico morente e il nostro strazio impotente>. Giungono all’ospedale di Mulazzano con il ragazzo ancora vivo. A quel che racconta Don Serafino, i medici non possono più fare niente e Nicola muore di lì a poco. Ma la versione dei fatti raccontata in famiglia è diversa. Nicola sarebbe sopravvissuto una settimana o più, con la madre e le altre donne che lo vegliavano mentre i medici cercano salvarlo: necessitava di un intervento alla testa, dove aveva da qualche parte conficcata una delle tante schegge che lo avevano colpito. Raccontava lo zio che fosse persino intervenuto per un consulto un ufficiale medico tedesco di stanza all’ospedale militare da campo di Riccione. Comunque sia l’intervento non si può effettuare e Nicola muore. Viene seppellito insieme al fratello nel cimitero di Mulazzano. La madre non riesce a riprendersi per il dolore. Senza antidepressivi a disposizione il medico ha un solo consiglio da dare: avere subito un altro figlio. Così nasce mio padre Guido, l’11 maggio del 1945, quando la guerra è finalmente finita e la vita può ricominciare per tutti.Nel 1960 la famiglia Lisi si trasferisce a Santarcangelo e terminata la casa, nel 1967, i miei nonni fanno riesumare i resti dei figli sepolti a Mulazzano per portarli vicino a loro. Adesso riposano tutti insieme, i nonni e le ossa degli zii, nella parte nuova del cimitero. Ho voluto raccontare questa storia per mia nonna, perché non si perda la memoria del dolore inumano che ha dovuto sopportare. Lei non avrebbe mai potuto farlo, era analfabeta.

I ricordi e le testimonianze di guerre più recenti e lontane

di Giovanni Porzio

Faccio l’insegnante. Nell’autunno del 2008, a scuola arriva l’invito a partecipare a un seminario di studi sulla Shoah, presso l’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme. Decido di partecipare, sebbene fino ad allora l’argomento, pur così importante, non avesse focalizzato più di tanto il mio interesse. Poco prima di partire, però, verso la fine dell’anno, scoppia l’ennesimo conflitto tra israeliani e palestinesi. Se ne parla tutti i giorni, si attende l’evoluzione di eventi concitati. Dopo i bombardamenti aerei seguiti al lancio di missili sul territorio d’Israele, il ministro della Difesa Ehud Barak decide di invadere la striscia di Gaza con un massiccio contingente di truppe di terra. Insomma c’è di nuovo la guerra. Mia moglie

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è incinta, gli organizzatori assicurano che ci verrà garantita la massima sicurezza. La responsabile dall’Italia, una collega insegnante, quasi se la ride: <non perdetevi quest’occasione> dice <e non stiamoci troppo a discutere>. Decido comunque di partire. Le assicurazioni sembrano sufficienti, italiani lì residenti ci dicono che per loro è quasi una routine, che non c’è nulla da temere. Sarà. Intanto comunico i miei dati al sito della Farnesina, ci dicono che saremo sempre accompagnati, e vado. E quei pochi giorni mi cambiano la vita. Ci insegnano come insegnare, nelle nostre scuole, uno dei peggiori massacri della Storia, come e (nei limiti del possibile) perché è successo. Mentre a poca distanza sta succedendo una guerra. Allora non è solo del passato che si può parlare, ma del presente. Non solo di Shoah ma d’Israele, della sua guerra infinita, dei suoi diritti ma anche dei suoi limiti e delle sue colpe. Ne parliamo in albergo, molto francamente, con i nostri ospiti. E quando usciamo, per una passeggiata o un’escursione, al muro del Pianto un uomo chiama dei giovani artificieri armati fino ai denti (con divise non di primissimo pelo, per la verità) perché ha visto gettare qualcosa di strano in un cestino. Di sera, in città, succede di nuovo che un negoziante chiami la polizia per lo stesso motivo. Non immagino neppure la possibilità di prendere un autobus, pure, ne passano eccome. Al ristorante non sarà tanto sicuro andarci ma ci andremo, per una cena insieme prima della partenza, a base di cibo kasher, buonissimo. Davanti ai supermercati c’è il metal detector, in albergo vanno e vengono compagnie di soldati, in transito per il fronte: sono quasi tutti ragazzoni, altro che piccoli ebrei, sembrano tranquilli nella divisa verde oliva e qualcuno di loro si mette a giocare a scacchi, un altro esce a comprare libri, un altro ancora si mette a suonare il piano. Per le strade, soprattutto nel quartiere arabo, guardie armate. Ci fermiamo a fare fotografie dal Monte degli Ulivi, vicinissimi alla più che mai contesa Gerusalemme est, e accanto a noi si ferma l’autobus di una gita scolastica locale (v. particolare nella foto allegata). I ragazzi ridono, e con loro c’è un muscoloso giovane in pantaloni di tela, maglietta a maniche corte e kalashnikov, che scherza pure lui. Un accompagnatore però, uno scanzonato signore di origine italiana, che ha conservato l’accento toscano, di sera va a bere e a mangiare in un ristorante arabo, e ci porta pure i turisti. Allo Yad Vashem, e di nuovo in albergo, riservisti in abiti civili col fucile mitragliatore: un uomo di mezza età, quasi vecchio, persino una ragazza. Alla stazione degli autobus una donna saluta un uomo in divisa che parte. Posti di blocco appena fuori la città. In aeroporto i controlli sono lunghi ma, occorre dire, non sfibranti. E gli addetti alla sicurezza quasi tutti molto giovani, pure loro. Per farsi capire meglio ci si rivolgono, a volte, in spagnolo, e più che nervosi o preoccupati sembrano quasi canzonatori. E quando ci hanno portato in gita, a Masada (teatro di guerra pure quello, secoli fa, contro i Romani) e sul Mar Morto, abbiamo visto il Muro. Insediamenti di case bianche, Gerico in lontananza, la più antica città del mondo, che sembrava davvero un miraggio. Qualche tenda beduina. Qui tutti hanno fatto la guerra, e giurano proprio su Masada, curatissimo sito archeologico, che “mai più cadrà” …

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Foto:Giovanni Porzio

POESIE DI GUERRAPOESIE SULLA GUERRA

URLA I TUOI VENT’ANNI

Urla i tuoi vent’anni,

urlali adesso.

Urla

se hai preso un pugno al cuore.

Urla il nome che sussurri sul cuscino.

Urla al capobranco che t’invidia

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la gioventù che non ti può rubare

ma t’inventa

mille e mille storie

per farti soffrire.

Urla la tua rabbia ad un fucile

che t’insegnano a vent’anni

a maneggiare.

Urla forte.

Più forte dello sparo

urla il tuo pensiero.

Urla la vita.

Dauro Pazzini

Un sègn ad rivólta e sta tal mèni armèdi ad carèzzi.

UN SÈGN AD RIVÓLTA

Ta n’è durmói

si su cavéll par cuscóin

e da la guèra

t ci artòurni sal feróidi.

U n’è cambié gnént.

U n gne la à fata,

l’oca,

a imitè e’cigno.

U t tòcca vlòi bén.

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L’amòur

l’è par se stèss

un sègn ad rivólta:

còuntra e’ silénzi

e còuntra e’ scaramaz

de mònd.

Dauro Pazzini

Un segno di rivolta sta nelle mani armate di carezze .

UN SEGNO DI RIVOLTA

Non hai dormito coi suoi capelli per guanciale e dalla guerra sei ritornato con ferite. Non è cambiato nulla. Non c’è riuscita, l’oca, ad imitare il cigno.

Ama.L’amore è di per sé un segno di rivolta: contro la solitudine e l’inquietudine del mondo.

US FA NÒTA

Us fa nòta , e un pò scapè nisoun :

e' rumor d'un aparèc e' s-cènta l'èria.

Al dòni al dis agl'urazión .

La mi ma , te scur d'una cantéina

du che un burdèl e' piegn , e u n'é ancora ned .

E pó dop , la matéina , la chèsa la n gn'era pió .

Us caméina t'una stesa ad calcinac

e la guera l'è 'na curtlèda ch'la vin gió .

Us fa nòta in mez a la strèda , e drénta la tu alma

dla guera , l'è arvenza la dèlma .

Enzo Travaglini

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DESERT STORM

(preghiere che sventolano gli alti piani dello sguardo, bianche lenzuola distendonodi casa in casa desideri di paci cittadine)

Perché l’anima ha un peso di monte

che va di faggio in faggio e s’apre

col vento alle punte del cielo

perché l’anima ha un peso di mare

che va di vela in vela a salutare il fondo

le ventose rapprese al braccio del corallo

perché l’anima ha un peso di terra

di braccia di pelle di panna a montare

su treni lanciati su ponti caduti o da cadere

ecco perché la gente non la dà a vedere

Marcella Corsi, Distanze, Archivi del '900, Milano 2006

Poesie e racconti estratti da Annamaria Ursi, Patriottismo ed eroismo nella letteratura sovietica sulla seconda guerra mondiale (Università Statale di Milano, 1999 – dottorato di ricerca)

Se domani ci sarà la guerra

Esli zavtra vojna,

Esli vrag napadet,

Esli temnaja sila nagrjanet,

Kak odin čelovek,

ves’ sovetskij narod

Za svobodnuju Rodinu vstanet

Se domani ci sarà una guerra,

Se un nemico attaccherà,

Se una forza oscura sopraggiungerà,

Come una sola persona,

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tutto il popolo sovietico

Per la Patria libera insorgerà.

Vasilij Ivanovič Lebedev-Kumač (1898-1949)

[...] Odinnadcat’ časov tridcat’ sem’ minut. Dokatilsja i do nas Novyj god... Velika naša rodina, tovarišči! Samomu zemnomu šaru nužno vraščat’sja devjat’ časov, čtoby ogromnaja naša Sovetskaja strana vsja vstupila v novyj god svoich pobed... [...] I kto znaet, tovarišči, kak privedetsja nam vstrečat’ Novyj god čerez pjat’, čerez desjat’ let? Po kakomu pojasu? Na kakom novom meridiane? S kakoj novoj stranoj, s kakim novym narodom budem my vstrečat’ Novyj god, esli budem tak že krepko bereč’ rodinu našu, gde dlja vsego čelovečestva zreet i krepnet sčast’e? Za mužestvo, za vernost’ partii, za rodinu, za pobedu nad vragom! - Ura!.. - vpolgolosa otvetili krasnoflotcy, i totčas gde-to okolo torpednych apparatov voznik “Internacional”. Ego peli čut’ slyšno, potomu čto voda mogla peredat’ zvuk v rastopyrennye storožkie uši vražeskich gidrofonov tam, naverchu. No etot sderžannyj golos boevogo kollektiva zvučal edinoj mogučej volej baltijskich podvodnikov, zvučal kak kljatva v vernosti rodine, vernosti do poslednego vzdocha.

[…] Ore ventitré e trentasette minuti. Anche da noi è arrivato l’anno nuovo. La nostra Patria è grande, compagni! Tutta la sfera terrestre deve girare nove volte affinché il nostro enorme paese sovietico entri tutto quanto in un nuovo anno di vittorie… […] E chissà, compagni, come ci toccherà festeggiare l’anno nuovo tra cinque, tra dieci anni? In che giro? Su quale nuovo meridiano? Con quale nuovo paese, con quale nuovo popolo festeggeremo l’anno nuovo, se custodiremo così fortemente la nostra Patria, dove per tutto il genere umano matura e si rafforza la felicità? Per il coraggio, per la fedeltà alla Patria e per la vittoria sul nemico! - Urrà! – Risposero a mezza voce i marinai della flotta e immediatamente vicino ai siluranti si sentì l’inno dell’“Internazionale!” Lo cantavano con un tono appena percettibile, poiché l’acqua poteva trasmettere il suono alle orecchie aperte e attente degli idrofoni nemici, lì, in superficie. Ma questa voce trattenuta del collettivo militare risuonava di una sola potente volontà, quella dei sommergibili baltici, risuonava come un giuramento di fedeltà alla Patria, fedeltà fino all’ultimo respiro.

Leonid Sergeevič Sobolev

Ne v Pariže, ne v N’ju- Jorke - V derevuške pod Moskvoj Rodilsja Vasilij Tërkin, Naš tovarišč boevoj.

Vsech sil’nee byl on v škole, Byl on lovok i plečist, Byl on pervyj v komsomole, Garmonist i futbolist.

Končil školu Vasja Tërkin Goda tri tomu nazad. Sdal ekzamen na pjatërki I pošel v voenkomat.

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Čto za paren’ v gimnasterke, V serom šleme so zvezdoj? Eto on - Vasilij Tërkin, Pulemetčik molodoj.

Pulemetčik on provornyj - Vse kampanii prošel: Byl na sopke Zaozernoj I na rečke Chalchin-Gol...

Otličilsja on v atake S boevym svoim polkom: Bral derevnju Pitkamjaki Pulemetom i štykom.

Pobyval on i v razvedke, Tišina stoit v boru, Tol’ko sneg ronjajut vetki Da moroz gryzet koru. [...]

I teper’ v ljuboj kaptërkeI v zemljanke vsech častej Pulemetčik Vasja Tërkin - Samyj lučšij iz gostej.

Ždut bojcy ego s ljubov’ju I poroj, sojdjas’ v kružok, P’jut za Vasino zdorov’e, Podnimaja specpaek.

Né a Parigi, né a New York –Ma in una casuccia nei pressi di Mosca Nacque Vasilij Tërkin, Il nostro compagno combattente. Era stato il più forte di tutti a scuola, Abile e spalluto, Primo nel komsomol, Fisarmonicista e calciatore. Finì la scuola Vasilij Tërkin

Circa tre anni fa. Sostenne l’esame con il massimo dei voti E si recò al commissariato di guerra. Chi è questo ragazzo con la giubba, con l’elmetto grigio e la stelletta?

È lui – Vasilij Tërkin, il giovane mitragliere. Mitragliere agile – ha partecipato a tutte le campagne: è stato sull’altura di Zaozernaja E sul fiume di Chalchin-Gol…

Si è distinto nell’attacco col suo reggimento: Ha preso il villaggio di Pitkamjaka Con la sola mitraglietta. Ha fatto anche l’esploratore,

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- Che silenzio nella pineta, Solo il rumore della neve che cade dai rami E un freddo che morde la pelle. [...]

Ed ora in qualsiasi Magazzino E nel rifugio di qualsiasi reparto Il mitragliere Vasja Tërkin – È l’ospite più gradito.

I combattenti lo aspettano con amoreE poi, riunendosi in cerchio, bevono alla salute di Vasja alzando la scodella del rancio.

Samuil Jakovlevič Maršak (1887-1964)

Ja tak bojus’, čto vsech, kogo ljublju,

utraču vnov’...

Ja tak teper’ leleju i koplju

ljudej ljubov’.

I esli kto smeetsja - ne bojus’:

nastanut dni,

kogda trevogu veščuju moju

pojmut oni.

Io temo tanto che tutti coloro che amo,li perderò di nuovo…

Io ora nutro le personedi coccole e d’amore.

E se qualcuno ride – non mi spavento:verranno giorni,

in cui essi comprenderannola mia ansia profetica.

Ol’ga Fëdorovna Berggol’c (1910-1975)

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Poesie tratte da Sotto il Filare di Davide Argnani

LA LUNA NEL POZZO

Riavere la nostra infanzianella penombra dei rifuginella lama di luce dei bengalasenza giochi e senza aquilonifu vivere nascosti dentro la terraspiando il silenzio a diventarestridore di civettafisso negli occhi bagliore di paureil suono di passi sulle teste

Al rinascere della luceci scoprimmo uomini fatticon occhi di bambinisenza voglia di giocare

IL VIAGGIO

La notte accesa da bagliorie il sangue giovane di trent’anniti facesti caricare sulla tradottaper forzae forte del silenzio dei tuoi avi− chè nessuno in casa parlava quando partivaCome − ricordo − era lo stile del nonno −nulla dicesti del viaggioalla foresta dei nibelunghie più tardi quando il messaggeroportò la pergamena− qualcuno doveva poi farlo! −parlavi solo di fame di fatica di pauranon che volevi ritornareci raccontavi le «meraviglie»dell’oro del reno

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e la fortuna delle valchiriee anche parole d’amore usavima che stridevano nel battito dei dentie la tua bocca si fermava a una smorfiaperché non sapevi non credeviper non ripetere la storia dei padrialla cattiveria del mondoanche se l’occhio non si fermava al filo spinatoe correva oltre inventando storie d’evasioneignorando la testa di bronzodel superuomo di klingere finivi la tua storiasenza indicare mai il punto:il numero 100395domicilio coatto a M. STÁMLAGER VI Gospite del CAMPO 619nella città di BONN a. RHEINdall’anno millenovecentoquarantatre in poi...

KAPUTT!

Al soleche il grano indoravanascosti tra gli alberinoi fanciulli in coroe l’urlo:− GUSTAV KAPUTT! −e tu.GustavSS in maniche di camiciata ta taci rincorrevicol mitra spianatoed era uno scherzoil tuo giocarealla guerrail nostro scappareper i campie come ridevi!Scoprendoci all’improvvisotra l’erba.

NOI DOBBIAMO ESSERE CRUDELI...IL PIU’ FORTE DEVE DOMINARE...NOI VOGLIAMO NUOVAMENTE LE ARMI...I FORTI CONTRO GLI INFERIORI...L’ISTINTO NATURALE ORDINAA TUTTI GLI ESSERI VIVENTIANCHEDI DISTRUGGERLI...!

e poi cioccolato e miele donaviportandoci in braccio− il mitra a terra −− scarico −nelle mani un pezzo di carta:Helga e i figli

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che aspettavanoe tu. ridevipiangendo

LA GUERRA È FINITA

La guerra è finita Ma adesso Adesso cammini cammini cammini e alla fine sei stanco nel buio mutilato ti hanno lasciato solo col cuore nel fumo dei ruderi Hai sparato hai gridato hai avuto coraggio hai mangiato droga allora eri coraggioso hai fatto il tuo dovere hai fatto tante coseORA ti sei dimenticato non sapevi nemmeno perché ti trovavi lí alla macchia con un mitra con un negro con un compagno che non avevi mai visto e adesso cammini e alla fine sei stanco annoiato scocciato con quelle intenzioni lasciate a metà POI ti sei seduto a dimenticare 60 milioni di morti

GIÀ L’ERBA DEI PRATI

nei mattini di poco solebruciata dalla brinae I rami della vignaneri secchitu. partivi con la valigettacolma di maglioni e di profumiavevi messo anche il saponee la crema contro le screpolaturedei primi freddi. Partisti

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per le colline a cercare compagniche non avevi mai volutolasciando a casa bambini donne vecchiad aspettare ancorae per segnaleal collo stringesti il fazzoletto rosso

Ma quando ritornarono dalla guerraandrea mario pino lodoviconelle lunghe notti di vegliaraccontarono al paesedi averti visto

prima

in terre stranierecorrere in camicia neraa fianco dei nemicia torturare bambinia strappargli le biglie degli occhi

Ora vivi nella tua carcassain compagnia di strani ricordie guardi di nascosto le colline

pensando forse ai morti sepoltiche un giorno avevi guardato negli occhi.

FAVOLE

Era nella tua stanzadove attendevi con pazienzache venivo a trovarti di nascostoperché la mamma non volevae mi facevi sedere sulla finestralontano dal letto e da quel contagiodi mortee mi raccontavi favole.Le sole raccolte nella mia infanzia.Gli altri erano tristi e duri.

IL FUNERALE

Anche il giorno del tuo funeralefu un giorno di festa.Erano venuti tutti dal paesea trovarticol vestito nuovo della domenica.Mi sorridevano

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mi accarezzavanoregalandomi caramelle- tutti i bambini sono felici così -e fuori era gran giornata di solevento e polvere di giugno.

Prima ricordo solo granate esplose in ariae corse, fughe nella nottenotti trapunte di bengalache finivano nel labirinto di un rifugio.

Dall’archivio fotografico “Umberto Macrelli” in deposito presso il Museo Etnografico di Santarcangelo