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Stefano Mizzella – [email protected]; [email protected] 1 Sharing Ideas I principi della Wikinomics applicati ai casi di Qoob, SciVee e Zooppa STEFANO MIZZELLA Dottorato “Società dell’Informazione” Abstract La recente pubblicazione in italiano del testo di Don Tapscott ed Anthony D. Williams, “Wikinomics”, ha aperto negli ultimi mesi un acceso dibattito sia in ambito accademico che nel web e, in modo particolare, all’interno della blogosfera. Quella proposta da Wikinomics è l’analisi delle nuove forme di collaborazione di massa che stanno sempre più velocemente rivoluzionando tanto la società quanto l’economia. Il successo di una piattaforma collaborativa come Wikipedia viene infatti eletto a metafora di un nuovo modo di concepire la produzione e la distribuzione di conoscenza, ma rappresenta anche un inedito approccio a forme di business capaci di trarre vantaggi economici dalla partecipazione attiva degli utenti. Il pensiero portante alla base del concetto di wikinomics può essere riassunto come “arte e scienza della peer production”. Con quest’ultimo termine i due autori intendono l’affermarsi di una produzione orizzontale e democratica di informazione e conoscenza in qualsiasi ambito della società contemporanea. Tale modello di sviluppo ha radice, sia in termini tecnologici che teorici, all’interno delle dinamiche di condivisione del file-sharing e delle reti peer-to-peer. Si è scelto, pertanto, di dedicare la trattazione del primo capitolo ai risultati di alcune ricerche che hanno provato a fotografare, a livello nazionale ed internazionale, l’andamento dei comportamenti di produzione, consumo e condivisione di contenuti digitali. Il secondo capitolo è incentrato invece sull’analisi specifica dei quattro principi che costituiscono le fondamenta dell’idea di wikinomics: l’apertura, il peering, la condivisione e l’azione globale. Nel terzo e conclusivo capitolo, gli stessi principi sono stati messi alla prova attraverso il confronto con tre case histories che riguardano particolari piattaforme collaborative di nuova generazione. Si è scelto, nello

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Paper presentato presso il Corso di Dottorato internazionale in Società dell'Informazione dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca http://www.quasi.unimib.it/La recente pubblicazione in italiano del testo di Don Tapscott ed Anthony D. Williams,“Wikinomics”, ha aperto negli ultimi mesi un acceso dibattito sia in ambito accademico che nel webe, in modo particolare, all’interno della blogosfera. Quella proposta da Wikinomics è l’analisi dellenuove forme di collaborazione di massa che stanno sempre più velocemente rivoluzionando tanto lasocietà quanto l’economia. Il successo di una piattaforma collaborativa come Wikipedia vieneinfatti eletto a metafora di un nuovo modo di concepire la produzione e la distribuzione diconoscenza, ma rappresenta anche un inedito approccio a forme di business capaci di trarrevantaggi economici dalla partecipazione attiva degli utenti.

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Stefano Mizzella – [email protected]; [email protected] 1

Sharing Ideas

I principi della Wikinomics applicati ai casi di Qoob, SciVee e Zooppa

STEFANO MIZZELLA Dottorato “Società dell’Informazione”

Abstract

La recente pubblicazione in italiano del testo di Don Tapscott ed Anthony D. Williams, “Wikinomics”, ha aperto negli ultimi mesi un acceso dibattito sia in ambito accademico che nel web e, in modo particolare, all’interno della blogosfera. Quella proposta da Wikinomics è l’analisi delle nuove forme di collaborazione di massa che stanno sempre più velocemente rivoluzionando tanto la società quanto l’economia. Il successo di una piattaforma collaborativa come Wikipedia viene infatti eletto a metafora di un nuovo modo di concepire la produzione e la distribuzione di conoscenza, ma rappresenta anche un inedito approccio a forme di business capaci di trarre vantaggi economici dalla partecipazione attiva degli utenti. Il pensiero portante alla base del concetto di wikinomics può essere riassunto come “arte e scienza della peer production”. Con quest’ultimo termine i due autori intendono l’affermarsi di una produzione orizzontale e democratica di informazione e conoscenza in qualsiasi ambito della società contemporanea. Tale modello di sviluppo ha radice, sia in termini tecnologici che teorici, all’interno delle dinamiche di condivisione del file-sharing e delle reti peer-to-peer. Si è scelto, pertanto, di dedicare la trattazione del primo capitolo ai risultati di alcune ricerche che hanno provato a fotografare, a livello nazionale ed internazionale, l’andamento dei comportamenti di produzione, consumo e condivisione di contenuti digitali. Il secondo capitolo è incentrato invece sull’analisi specifica dei quattro principi che costituiscono le fondamenta dell’idea di wikinomics: l’apertura, il peering, la condivisione e l’azione globale. Nel terzo e conclusivo capitolo, gli stessi principi sono stati messi alla prova attraverso il confronto con tre case histories che riguardano particolari piattaforme collaborative di nuova generazione. Si è scelto, nello

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specifico, di analizzare gli inediti modelli di business di Qoob, piattaforma italiana dedicata alla musica e alla cultura underground, SciVee, piattaforma scientifica americana di condivisione multimediale e Zooppa, start-up italoamericana interamente dedicata al social advertising. Seppur presentando caratteristiche differenti, tutte e tre le piattaforme, caratterizzate dalla predominanza del video come elemento costitutivo, sembrano dimostrare l’efficacia di approcci aperti all’innovazione in cui le imprese che attirano e ricompensano i partecipanti più capaci hanno l’opportunità di creare nuove e reali fonti di vantaggio competitivo.

Indice

1. Il paradigma dell’economia collaborativa ………………………………………………….….p. 3

2. I quattro principi della wikinomics…………………………………………………………….p. 11

3. Peer Production e User Generated Content ……………………….........................................p. 15

3.1 Qoob – Broadcasting Ideas.................................................................................................p. 17 3.2 SciVee – The free and widespread dissemination and comprehension of science..............p. 21 3.3 Zooppa – Advertising goes social........................................................................................p. 26 Conclusioni…………………………………………………………………………………….…p. 30 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………………….p. 32

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1. Il paradigma dell’economia collaborativa

Quando una rete ha lo scopo di diffondere qualcosa che ha un valore per le

persone come nel caso di una rete televisiva, il valore dei servizi è lineare. Se la

rete consente transazioni tra nodi individuali, il valore aumenta al quadrato.

Quando la stessa rete include la possibilità che gli individui formino gruppi, il

valore è invece esponenziale.

Donald Reed È possibile definire nei termini di “economia collaborativa” il consolidarsi di un inedito modello economico in cui le aziende entrano in contatto con milioni di produttori autonomi, al fine di co-creare valore all’interno di reti a maglie larghe. Tale affermazione costituisce uno dei passaggi più significativi del recente studio di Don Tapscott ed Anthony D. Williams dedicato alla “wikinomics”. Il concetto di wikinomics rappresenta, nelle parole dei due autori, l’insieme di “profondi cambiamenti strutturali e operativi che la grande impresa e la nostra economia stanno vivendo, cambiamenti basati su nuovi principi competitivi come l’apertura, il peering, la condivisione e l’azione su scala globale” (Tapscott, Williams, 2006, p. XI). Dovendo scegliere uno slogan capace di racchiudere in una singola frase il senso complessivo del lavoro di Tapscott e Williams, potremmo provare a definire il concetto di Wikinomics come “l’arte e la scienza della peer production”, intesa nei termini di una produzione orizzontale e democratica di informazione e conoscenza. Esiste un nesso sempre più stringente che tiene legate le dinamiche di condivisione del file-sharing e delle reti peer-to-peer con questo nuovo modello di produzione di informazione e conoscenza. È possibile ritrovare tracce di questo legame all’interno di alcune ricerche che hanno provato a fotografare, a livello nazionale ed internazionale, l’andamento dei comportamenti di produzione, consumo e condivisione di contenuti digitali. Henry Jenkins è Direttore del Comparative Media Studies Program presso il Massachusetts Institute of Technology1. All’interno della ricerca “Confronting the Challenges of Partecipatory Culture: Media Education for the 21st Century”2, Jenkins definisce come “participatory culture”:

a culture with relatively low barriers to artistic expression and civic engagement, strong support for creating and sharing one’s creations, and some type of informal mentorship whereby what is known by the most experienced is passed along to novices. A participatory culture is also one in which members believe their contributions matter, and feel some degree of social connection with one another (p. 4).

1 http://cms.mit.edu/ 2 Henry Jenkins (con Ravi Purushotma, Katherine Clinton, Margaret Weigel, Alice J. Robison), Confronting the

Challenges of Participatory Culture: Media Education for the 21st Century, in http://www.projectnml.org/files/working/NMLWhitePaper.pdf

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In accordo con l’impostazione della ricerca, è possibile enucleare dalla definizione generale le seguenti forme di partecipazione:

Affiliations: appartenenza, formale e informale, a comunity online centrate intorno a varie tipologie di media (come Friendster, Facebook, bacheche on line, metagaming, gruppi di gioco, o MySpace);

Expressions: produzione di nuove forme creative (come il campionamento digitale, lo skinning e il modding, le produzioni testuali e multimediali degli appassionati, pubblicazioni underground e mash-up); Collaborative Problem-solving: lavoro di gruppo, formale e informale, al fine di svolgere compiti e sviluppare nuovo sapere (come Wikipedia, giochi di immaginazione e sabotaggi creativi); Circulations: formazione del flusso mediatico (come podcasting e blogging)3.

Uno dei principali obiettivi proposti dalla ricerca è stato quello di legittimare la “New Media Literacy” non soltanto da un punto di vista accademico, ma anche come valido strumento di crescita e formazione per i ragazzi in età scolare. Le diverse attività collaborative proposte, modellate intorno ai principi della cultura partecipativa, hanno infatti favorito lo sviluppo e la condivisione di capacità e saperi nei ragazzi che hanno partecipato alla ricerca. Tra le nuove tipologie di “skills” sviluppate attraverso le attività proposte dal gruppo di ricerca di Jenkins, si vuole qui concentrare l’attenzione su tre concetti specifici: “Appropriazione”, “Intelligenza collettiva” e “Networking”. Il termine “appropriazione” viene utilizzato per designare l’abilità di fruire in modo significativo di contenuti mediali, unitamente alla possibilità di “remixarli” tra loro in maniera creativa e originale. Tale forma di prosuming rimarrebbe tuttavia una sorta di monade non comunicante con l’esterno se non fosse parte di un’abilità, più estesa, che permette di riunire saperi diversi e di comparare le critiche e i suggerimenti altrui, finalizzati al raggiungimento di un obiettivo finale comune. Senza cadere nelle ingenuità della formulazione originaria di Pierre Lévy (1994), Jenkins racchiude queste capacità nella definizione di “intelligenza collettiva”, attualizzando però il concetto rispetto a quelle che sono le nuove piattaforme comunicative di tipo Web 2.0. Ciò significa applicare la semplice teorizzazione di intelligenza collettiva a un preciso modello operativo – il “networking” – che consente di ricercare, sintetizzare e disseminare informazione all’interno di una determinata architettura di rete:

In a world in which knowledge production is collective and communication occurs across an array of different media, the capacity to network emerges as a core social skill and cultural competency. A resourceful student is no longer one who personally possesses a wide palette of resources and information from which to choose, but rather, one who is able to successfully navigate an already abundant and continually changing world of information (p. 49).

3 Traduzione a cura dell’Autore.

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L’applicazione dei principi di networking implica dunque una fruizione attiva e partecipativa degli utenti nei confronti dei prodotti mediali, a cui fa seguito una sorta di etica incentrata sullo scambio orizzontale di saperi e competenze. Di conseguenza, anche il semplice consumo di contenuti digitali assume all’interno di tale scenario una nuova significazione, caratterizzata in primo luogo dall’ormai assodata abitudine di scambiare file gratuitamente attraverso circuiti e motori di ricerca peer-to-peer. Una recente ricerca sul “file sharing” promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma insieme a Libercom – Osservatorio su Libertà e Comunicazione4 ha provato a sintetizzare il consumo di contenuti digitali in Italia attraverso l’enucleazione di tre diverse tipologie di utenti:

1. Non downloader consapevoli: utenti che non hanno scaricato contenuti digitali nell’ultimo anno ma sono consapevoli della possibilità di acquistare contenuti culturali da Internet;

2. Downloader pay: utenti che hanno scaricato contenuti digitali da Internet nell’ultimo anno a pagamento;

3. Downloader free: utenti che hanno scaricato contenuti digitali da Internet nell’ultimo anno gratuitamente da altri utenti.

Su un campione di 1600 utenti internet italiani, rappresentativi dell’intera popolazione internet nazionale, la ricerca ha dimostrato come, in maniera per certi versi inattesa, la fetta più grande della torta (67% - 1075 rispondenti) appartenga ai non downloader. Questi, si dividono a loro volta tra coloro i quali, pur non avendo scaricato contenuti digitali nell’ultimo anno, sanno della possibilità di acquistare musica/video da Internet (84% - 904 rispondenti) e coloro, invece, che non si dichiarano consapevoli di tale possibilità (16% - 171 rispondenti). Si dividono il resto della torta i downloader pay (7% - 119 rispondenti) e i downloader free (25% - 406 rispondenti). Come è lecito attendersi, i risultati più interessanti sono quelli che emergono dal confronto tra queste ultime due tipologie di utenti. Se lo squilibrio di percentuale può essere giustificato dalla fruizione limitata di portali di musica e video a pagamento, l’analisi dei comportamenti di consumo e, in particolare, le tipologie di prodotti scaricati, sembrano invece raggiungere percentuali decisamente più equilibrate.

4 I comportamenti di consumo di contenuti digitali in Italia. Il caso del file sharing, Direttore della ricerca: Davide Bennato. Comitato scientifico: Alberto Abruzzese, Fausto Colombo, Giuseppe Corasaniti, Alberto Marinelli, Giovanni Orsina, Gustavo Piga. In: http://www.libercom.it/

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Fig. 1. Le tipologie di prodotti scaricati dai downloader pay.

Le percentuali della Figura 1 evidenziano infatti una tendenza ad utilizzare i portali di musica a pagamento principalmente per scaricare singole tracce musicali (92%) piuttosto che interi album musicali (solo il 17%). Risultano molto basse anche le percentuali degli utenti che acquistano prodotti video dai portali a pagamento: 5% per i serial tv, 9% per le trasmissioni tv e non oltre il 12% per quanto riguarda il download di film. Confrontiamo ora questi dati con quelli riassunti nella Figura 2, dedicata ai prodotti scaricati dai downloader free:

Fig. 2. Le tipologie di prodotti scaricati dai downloader free. In questo caso, se la musica rimane la “killer application” con un aumento degli album (21%) rispetto ai downloader pay, è possibile notare percentuali più elevate soprattutto tra i contenuti audiovisivi, in modo particolare per ciò che concerne il download di film (30%) rispetto a quello dei serial televisivi (7%). L’11% relativo agli utenti che dichiarano di scaricare altri programmi televisivi testimonia il modo in cui questa tipologia di utenti utilizzi le reti per il file sharing al fine di creare una sorta di canale fruitivo alternativo alla televisione tradizionale. Osservando le motivazioni alla base delle abitudini di consumo dei dowloader free (Figura 3), vediamo come la possibilità di ottenere contenuti in maniera gratuita rappresenti certamente la percentuale più alta (45%). Tuttavia, ben il 34% afferma che è la comodità di poterlo fare a casa a

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rappresentare un benefit, mentre il 21% considera l’attività di file sharing come un modo alternativo per scegliere i prodotti consentendo di valutare la qualità del contenuto prima di acquistarlo. Tali percentuali esemplificano un mutamento sempre più radicato nelle abitudini di consumo degli utenti. Un consumo, come evidenziano i dati riportati, basato non esclusivamente sulla gratuità dei contenuti, ma dettato in larga parte da più profonde motivazioni legate a un atteggiamento critico e consapevole nei confronti dei prodotti che si desidera fruire.

Fig. 3. Le motivazioni dei downloader free.

Emergono infatti da questa partizione voci come “condivisione” (14%), “specializzazione del database” (15%) e “ampiezza del database” (19%) che, considerate nell’insieme, rappresentano indicatori importanti di nuove e sicuramente più complesse tipologie di utenti. Al di là di qualsiasi teorizzazione sulla tradizionale dicotomia spettatore attivo/passivo, il peer-to-peer sembra rappresentare uno strumento assolutamente efficace non solo per il recupero di contenuti di nicchia introvabili nei tradizionali canali mainstream, ma anche e soprattutto per la possibilità di mettere in condivisione tali contenuti con gli altri utenti. Se a questo aggiungiamo anche una conseguente destrutturazione del flusso mediatico – televisivo in particolare – dovuto a una possibilità di fruizione svincolata dalla regolarità del palinsesto, vediamo come sia pressoché impossibile adattare vecchie categorie interpretative per spiegare nuove abitudini di consumo che potremmo definire “post-broadcasting”. Rimanendo ancora nel solo versante video, una recente indagine condotta da Pew Internet & American Life Project5 ha evidenziato come il 57% degli internauti adulti statunitensi abbia utilizzato la Rete per guardare e scaricare contenuti video (tra questi, il 19% dichiara di farlo abitualmente). Allo stesso tempo, i tre-quarti degli utenti (74%) che dispongono di una connessione veloce, sia a casa che in ufficio, hanno dichiarato di guardare e scaricare abitualmente video on line. Ma il dato della ricerca su cui vale la pena riflettere maggiormente è quello relativo alla percentuale di coloro che hanno dichiarato di scambiare e condividere i link dei video con altri utenti: il 57%,

5 Mary Madden, Online Video, Pew Internet & American Life Project, 2007, in: http://www.pewinternet.org/pdfs/PIP_Online_Video_2007.pdf

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ovvero più della metà del totale degli utenti che guardano video on line. Infine, tre-quarti degli utenti che guardano video on line (75%) hanno dichiarato di ricevere abitualmente link e segnalazioni di video da parte di altri utenti.

Fig. 4. Le abitudini di consumo degli utenti che guardano e scaricano contenuti video (Source: Pew Internet &

American Life Project Tracking Survey, February 15 – March 7, 2007). Provando a riflettere su tali dati e percentuali, alcune possibili considerazioni sono le seguenti. La propensione al video-sharing risulta più forte – come era lecito attendersi – nella fascia d’età dei “giovani adulti”, compresa tra i 18 e i 29 anni. Sono questi ultimi, infatti, a scambiare più frequentemente video in maniera virale con i propri contatti on line e a guardare i video in compagnia di amici e parenti (73%). Ancora, sono sempre i giovani adulti a privilegiare una fruizione maggiormente attiva e partecipativa dei contenuti video, attraverso azioni come l’upload dei propri video o l’aggiunta di punteggi e commenti ai video inseriti dagli altri utenti. Lo scarto generazionale tra gli utenti è riscontrabile anche per ciò che riguarda le diverse tipologie di video fruiti.

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Fig. 5-6. Il gap generazionale riscontrabile tra le preferenze degli utenti giovani e di quelli più adulti. In prima istanza, i dati della ricerca evidenziano un netto 62% di coloro che preferiscono vedere video prodotti in maniera professionale, rispetto al 19% di utenti che dichiara la propria preferenza nei confronti dei video amatoriali. Tuttavia, se rapportiamo tali percentuali alle fasce d’età secondo cui sono stati divisi gli utenti, vediamo come il 30% dei giovani adulti dichiari di preferire video amatoriali, mentre il 16% degli stessi ammetta di apprezzare allo stesso modo video di stampo professionale e amatoriale. Ciò testimonia una differenziazione evidente, proprio nelle abitudini di consumo, tra quella che potremmo definire “YouTube Generation” e gli utenti di età elevata. Se, infatti, per gli utenti più adulti è quasi scontato chiedere alla rete la stessa professionalità richiesta, seppur con le ovvie differenze del caso, ad altri mezzi di comunicazione tradizionali come tv, cinema e stampa, in maniera inversa sono proprio gli utenti più giovani a decretare l’affermazione degli User Generated Content come nuovo paradigma comunicativo. Uscire dalle ristrettezze interpretative di questa dicotomia – professionale versus amatoriale – è il necessario punto di partenza per osservare e capire il successo e la pervasività di fenomeni come YouTube, MySpace o Wikipedia. Ne è consapevole anche Chris Anderson, che nel suo studio illuminante sul concetto di “Long Tail”, decreta l’avvenuta disintegrazione del mainstream in milioni e milioni di frammenti culturali

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diversi come la causa più profonda capace di sconvolgere profondamente sia i media che l’intrattenimento tradizionali: “l’era del one-size-fits-all è al capolinea, rimpiazzata da qualcosa di nuovo: un mercato di moltitudini” (Anderson, 2006, p. XIX).

Fig. 7. Il modello di distribuzione a “coda lunga” proposto da Chris Anderson. All’interno di questo mercato di moltitudini, un mercato invisibile divenuto finalmente visibile grazie all’economia della distribuzione digitale, “hit” e “nicchie” convivono per la prima volta nella storia sullo stesso livello economico: “entrambe voci in un database che vengono richiamate a richiesta, entrambe ugualmente degne di essere trattate. All’improvviso, la popolarità non detiene più il monopolio della redditività” (p. 13). Se nel ragionamento di Anderson la distinzione fondamentale è dunque quella tra prodotti ideati per raggiungere il consenso del più alto numero di persone nel più breve tempo possibile (hit) e prodotti destinati a vendite marginali ma tuttavia costanti nel tempo (nicchie), nel caso di un fenomeno come YouTube tale ragionamento è ancor più valido se applicato al rapporto tra contenuti professionali e amatoriali. Non solo, infatti, contenuti di nicchia convivono in YouTube accanto a video creati appositamente dai più importanti network televisivi mondiali. Ma casi eclatanti come il videoblog di “Lonelygirl5” o le performance musicale degli “Ok Go” testimoniano quanto quella sorta di “aurea amatoriale” – vera o presunta non importa – che aleggia intorno ad alcuni video costituisca il vero valore aggiunto alla base del successo planetario di questa piattaforma. Di conseguenza, prodotti ideati e realizzati in modo del tutto amatoriale non solo garantiscono, in accordo col principio della coda lunga, un consumo marginale ma pur sempre costante e redditizio, ma in alcuni casi possono raggiungere picchi di notorietà e vendibilità che si addicono maggiormente alla parte di sinistra della curva. YouTube rappresenta a tutti gli effetti l’esempio più eclatante di tale rivoluzione, anche se negli ultimi mesi si sono sviluppate nuove e altrettanto interessanti piattaforme votate al video-sharing e alla valorizzazione, sotto diversi aspetti, degli User Generated Content. Di queste piattaforme ci

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occuperemo all’interno del terzo e conclusivo capitolo, dopo aver analizzato e approfondito i principi fondamentali che risiedono dietro al concetto di wikinomics.

2. I quattro principi della wikinomics

L’assunto originale che ha condotto Tapscott e Williams alla stesura del testo, giunta a compimento dopo 5 anni di ricerca preliminare, è dettato dalla presa di coscienza del ruolo crescente che la collaborazione di massa sta avendo sulla trasformazione – in alcuni casi già avvenuta, in altri soltanto ipotizzata – di ogni singola istituzione della società attuale:

A causa dei profondi cambiamenti che si sono verificati nel campo della tecnologia, dello sviluppo demografico, del business, dell’economia e del mondo intero, stiamo entrando in una nuova era nella quale la gente parteciperà all’economia come non ha mai fatto finora. Questa inedita partecipazione ha raggiunto un punto critico, nel quale le nuove forme della collaborazione di massa stanno cambiando il modo in cui i beni e i servizi vengono inventati, prodotti, promossi e distribuiti in tutto il mondo. Tale cambiamento offre opportunità di vasta portata a qualunque impresa, o individuo, si connetta a questa rete collaborativa. (…) Oggi è in atto una rivoluzione. La crescente accessibilità delle tecnologie informatiche fa sì che gli strumenti necessari per collaborare, creare valore e competere siano alla portata di tutti. Ciò permette alla gente di partecipare all’innovazione e alla creazione della ricchezza in tutti i settori dell’economia (p. 5).

“L’era della partecipazione”, come la definiscono i due autori, è resa dunque possibile dall’emergere di nuove infrastrutture collaborative a basso costo – telefonia gratuita su Internet, piattaforme globali per l’outsourcing, software open source – che consentono a migliaia e migliaia di individui e piccoli produttori non solo di “co-creare” i prodotti, ma anche di eguagliare le grandi corporation nell'accesso ai mercati e nella soddisfazione dei clienti a cui rivolgono la propria offerta (p. 6). All’interno di tale scenario, è l'evoluzione costante di Internet a funzionare da propulsore per il progresso di queste nuove forme di economia collaborativa. Attenti nell'evitare i vizi di forma di etichette di successo come quella di Web 2.0, spesso utilizzata in maniera erronea, Tapscott e Williams preferiscono parlare dell’affermazione di

una piattaforma globale e ubiquitaria per il calcolo computazionale e la collaborazione, che sta ridefinendo quasi tutti gli aspetti dell’attività umana. Mentre la vecchia Rete era fatta di siti web, di click e di occhi puntati sul monitor, la nuova Rete è fatta di comunità, di partecipazione e di peering. A mano a mano che gli utenti e la potenza computazionale si moltiplicano e gli strumenti di facile utilizzo proliferano, Internet si sta evolvendo in un computer globale, vivo e reticolare che chiunque è in grado di programmare (p. 15).

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Ciò che questa nuova forma di collaborazione di massa sta cambiando è il modo in cui le imprese e le società sfruttano le loro conoscenze e capacità per innovare e creare valore. Così come è lecito parlare di un “upgrade” per ciò che concerne il Web, allo stesso modo è possibile ipotizzare l’avvento di un nuovo tipo di impresa capace di aprire le porte al mondo ai fini dell'innovazione, condividendo con altri, soprattutto con i clienti, risorse ritenute un tempo inaccessibili. Un modello imprenditoriale, dunque, in grado di far leva sulla collaborazione di massa come fonte principale di sviluppo e capace, allo stesso tempo, di raggiungere un’estensione realmente globale (pp. 16-17). Proviamo ora a sintetizzare e a passare brevemente in rassegna i quattro principi che Tapscott e Williams pongono alla base della wikinomics:

L’apertura

“Oggi le imprese che fanno in modo di avere confini 'porosi', aperti alle idee e al capitale umano esterno, battono quelle che fanno affidamento soltanto sulle proprie risorse e capacità interne (p.18)”. Apertura implica dunque lo sdoganamento di informazioni aziendali precedentemente tenute nascoste e la conseguente comunicazione di queste a partner, dipendenti, clienti o azionisti. Il concetto di apertura è strettamente legato, nella trattazione dei due autori, all'altrettanto fondamentale concetto di “trasparenza”, intesa qui come la divulgazione di informazioni pertinenti, che rappresenta un trend sempre più consolidato all'interno della networked economy.

Un atteggiamento aperto e trasparente rappresenta dunque un vantaggio notevole sia per i clienti che per i dipendenti dell'azienda: i clienti hanno così l'opportunità di verificare con più precisione il reale valore del prodotto, mentre i dipendenti ne traggono una conoscenza molto più profonda della strategia, del management e delle sfide che la loro azienda si trova ad affrontare.

Il peering

“Benché sia improbabile che le gerarchie spariscano nel prossimo futuro, sta emergendo una nuova forma di organizzazione orizzontale che fa concorrenza all’azienda gerarchica rispetto alla capacità di creare prodotti e servizi basati sulle tecnologie informatiche e in alcuni casi anche oggetti materiali” (p. 21). Se questa nuova forma organizzativa può essere definita peering, Linux ne rappresenta l'esempio più significativo. Tuttavia, la crescente facilità con la quale soggetti diversi hanno ora la possibilità di organizzarsi in maniera autonoma per progettare beni o servizi, creare conoscenza o dare vita a esperienze dinamiche e condivise, fa sì che i modelli peer-to-peer di organizzazione dell’attività economica si stiano sempre più sviluppando al di là del software open source. Il successo, nel campo del sapere, di un servizio come quello offerto da Wikipedia, testimonia la capacità del peering di generare uno stile di produzione molto più efficace, rispetto al modello di gestione gerarchica, ai fini dello svolgimento di attività sia interne che esterne al servizio stesso.

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Condivisione

“Le imprese illuminate stanno trattando la proprietà intellettuale come un fondo comune e gestiscono un portafoglio equilibrato di asset legati a essa, in parte protetti e in parte condivisi” (p. 24). Quella che si sta delineando è una “nuova economia della proprietà intellettuale” in cui autori e consumatori sono posti al centro di una vasta rete dedita alla creazione di valore. Gli esempi offerti dalla musica digitale testimoniano la facilità con cui gli utenti possono condividere, remixare e replicare opere tradizionalmente coperte da copyright. La capacità di creare e condividere valore finisce per scontrarsi inevitabilmente con il sistema proprietario del patrimonio intellettuale. Tuttavia, se per le società diventa quasi impossibile rinunciare alla possibilità di proteggere la loro proprietà intellettuale di maggior rilievo, l'avvio di una estesa e oculata contribuzione ai commons rappresenta “il modo migliore per sviluppare ecosistemi di business vivaci che facciano leva su un corpus di base di tecnologie e conoscenze condivise per accelerare il passo della crescita e dell'innovazione” (p. 25). L’azione globale

“Per mantenere la propria competitività globale, bisogna monitorare gli sviluppi del business sul piano internazionale e attingere a un bacino globale di talenti molto più ampio” (p. 27). Innovare e produrre all'interno di un mercato globale significa per un'azienda “gestire le risorse umane e intellettuali superando i confini culturali, disciplinari e organizzativi” (ib.). Per agire globalmente, non limitandosi dunque al solo pensare globalmente, sono necessari alleanze globali, mercati del capitale umano e comunità dedite alla peer production, al fine di accedere a scenari più ampi di mercato, idee e tecnologie. Quattro semplici principi, quelli qui sopra riportati, che hanno però la forza di tracciare un nuovo percorso per quanti – società, singoli o organizzazioni – vorranno innovare attraverso strategie votate alla condivisione di conoscenza. Perché le organizzazioni e le società di successo saranno proprio quelle “che si abbevereranno al fiume della conoscenza umana e la incalaneranno in una serie di nuove e utili applicazioni” (p. 29). Ma cosa accade quando si prova a ribaltare il punto di vista e ci si pone dalla parte non più delle aziende o delle istituzioni ma degli utenti e dei consumatori? Quali sono i reali vantaggi che un approccio votato alla wikinomics può generare nei confronti non solo delle “corporate” ma anche del versante “consumer”? Del resto, le medesime problematiche sollevate dal lavoro di Tapscott e Williams possono essere ritrovate nell’affermarsi di quella che Yochai Benkler, docente di diritto all'università di Yale, ha definito “economia dell'informazione in rete” [networked information economy]:

L'economia dell'informazione in rete sta sostituendo l'economia dell'informazione industriale che ha caratterizzato la produzione di contenuti a partire dalla seconda metà circa del XIX secolo e per tutto il XX secolo. Ciò che caratterizza l'economia dell'informazione in rete è che azioni individuali decentrate – cioè le nuove e rilevanti condotte cooperative coordinate per mezzo di meccanismi non commerciali radicalmente distribuiti, che non dipendono da strategie proprietarie – giocano un ruolo molto più grande

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di quanto non fosse, o avrebbe mai potuto essere, nell'economia dell'informazione industriale (Benkler, 2006, pp. 3-4).

Quella tratteggiata da Benkler è, dunque, una rivoluzione profonda, strutturale, all’interno della quale Internet assume un ruolo assolutamente prioritario e determinante. La rete rappresenta, infatti, il “primo mezzo di comunicazione moderno capace di espandere il proprio raggio di diffusione decentralizzando allo stesso tempo la struttura economica della produzione e distribuzione di informazione, cultura e conoscenza” (p. 38). La decentralizzazione radicale dell’intelligenza nelle reti permette una distribuzione di idee, informazione, cultura e conoscenza svincolata da quelle stesse economie di scala colpevoli di aver favorito l’espansione dei mezzi di comunicazione di massa sotto l’egida della concentrazione e del controllo (p. 40). Ecco perché il modello di sviluppo del free software appare a Benkler come l’esempio più evidente di una nuova modalità di organizzare la produzione “radicalmente decentrata, collaborativa e non proprietaria; basata sulla condivisione delle risorse e degli output tra individui dispersi nello spazio e variabilmente connessi, che cooperano senza dipendere né dal mercato né dagli ordini dei manager” (p. 76). Quella a cui Benkler si riferisce è dunque una “produzione orizzontale basata sui beni comuni” [commons-based peer production], attorno alla quale si possono sviluppare sistemi produttivi [peer

production] che dipendono dall'azione individuale autodeterminata e decentrata, piuttosto che gerarchicamente assegnata (p. 79). È questo il senso di una precisa chiave di lettura che John Maeda ha proposto all’interno del suo studio sulle leggi della semplicità: “L’apertura semplifica la complessità. Con un sistema aperto, il potere dei molti può compensare il potere dei pochi” (Maeda, 2006, p. 126). Similmente a quanto teorizzato da Benkler, Maeda individua in un sistema operativo open source come Linux così come nelle possibilità di innovazione messe a disposizione dalle API (Application Programming Interface), gli esempi vincenti di un nuove modalità partecipative votate alla produzione orizzontale di informazioni e conoscenza.

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3. Peer Production e User Generated Content

All'interno di questo terzo e conclusivo capitolo proveremo a “testare” i quattro principi della wikinomics su tre diversi servizi web di ultima generazione:

Qoob - http://it.qoob.tv/ SciVee - http://www.scivee.tv/ Zooppa - http://zooppa.com/

Ci troviamo di fronte, nel primo caso, a una piattaforma totalmente italiana, americana nel caso di SciVee e, infine, a una start-up italoamericana nel caso di Zooppa. Pur presentando caratteristiche e modelli di business differenti, le tre piattaforme web selezionate come case histories risultano accomunate dalla produzione orizzontale (peer

production) di informazioni e contenuti, unitamente alla legittimazione degli User Generated Content come nuovo standard comunicativo di riferimento. Altro elemento caratterizzante delle tre piattaforme scelte è la presenza predominante di contenuti video rispetto alle immagini statiche o al testo scritto. Ciò è in linea con le tendenze registrate dalle numerose ricerche che hanno decretato il video come uno dei fattori principali di crescita del Web 2.0. Tuttavia, non ci troviamo di fronte a esempi tradizionali di aggregatori video, ma a piattaforme complesse modellate intorno al social networking e votate alla valorizzazione dei contenuti prodotti in maniera autonoma e originale dagli utenti. Considerata la particolare architettura web utilizzata, unitamente ai servizi offerti agli utenti per accrescerne la partecipazione e migliorarne la web experience, sembrerebbe quasi che le tre piattaforme qui proposte siano esempi diversi di spin-off derivati da un macro-aggregatore video come YouTube, capace di contenere al suo interno pressoché qualsiasi tipologia di contenuti video prodotti sia da professionisti che da utenti amatoriali. Filmati a carattere scientifico, dunque, che coabitano con video realizzati al solo scopo di divertire e far strappare un sorriso a chi li guarda. Non è certo questa la sede per mettere in evidenza, semmai ce ne fosse ancora bisogno, lo straordinario portato sociale, oltre che meramente tecnologico, di una “giant application” come YouTube. Tuttavia, preme qui riportare una breve riflessione condotta da Henry Jenkins proprio intorno al fenomeno YouTube, contenuta all’interno della postilla all’edizione italiana di “Cultura convergente”:

YouTube si è affermato come punto di incontro fra una serie di comunità grassroots diverse, coinvolte nella produzione e nella distribuzione dei contenuti dei media. Molto di quello che si è scritto su YouTube dà per scontato che la disponibilità di tecnologie Web 2.0 ha reso possibile la crescita di culture partecipative. Io direi proprio il contrario: è l’emergere di culture partecipative di ogni tipo negli ultimi decenni che ha preparato la strada all’interessamento prima, poi alla rapida adozione e all’uso diversificato di piattaforme come YouTube. Ma, incontrandosi attraverso questo portale comune, le varie comunità di fan, comunità di brand e sottoculture apprendono tecniche e pratiche le une dalle altre, facendo accelerare l’innovazione entro e fra le diverse comunità di pratica. Ci si potrebbe chiedere se

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quello “You” in YouTube sia singolare o plurale, visto che nella lingua inglese la stessa parola vale per entrambi i pronomi di seconda persona. YouTube è un sito di espressione personale, come dicono spesso i giornalisti, o per l’espressione di visioni condivise entro comunità comuni? Il contenuto più potente su YouTube arriva, ed è utilizzato, da specifiche comunità di pratica e perciò, in questo senso, è una forma di collaborazione culturale (Jenkins, 2006, pp. 300-301).

Le parole di Jenkins, se per un verso invitano a evitare l’unilaterialità di un approccio tecnologicamente determinato, dall’altro hanno il merito di fotografare in modo puntuale i possibili incroci di varie culture partecipative all’interno di un unico spazio sociale come quello offerto da YouTube. L’incapacità, o meglio, l’impossibilità di discernere in modo non ambiguo la singolarità o la pluralità dello “You” equivale in questi termini alla definitiva presa di coscienza dell’affermarsi di una cultura della partecipazione che, invece di essere univoca e universalmente riconoscibile, si manifesta volta per volta sotto diversa forma e tipologia. Per tale ragione, si potrebbe affermare che le community proposte da Qoob, SciVee e Zooppa – rispettivamente legate alla cultura e alla musica underground, alla ricerca scientifica o alle nuove forme di advertising – abbiano trovato all’interno di queste tre piattaforme uno spazio autonomo e riconoscibile, impossibile da ottenere all’interno del mare magnum di YouTube. Ciò nonostante, in accordo con uno dei presupposti teorici più importanti del Web 2.0, ogni singolo contenuto, anche se originariamente uploadato su una determinata piattaforma, è capace di incrociarsi con altri contenuti e di migrare in maniera nomadica su altre piattaforme, spesso divergenti rispetto a quella di origine. Ipotizziamo infatti la possibilità di registrare con una videocamera o con un videofonino un episodio divertente o un evento che riteniamo particolarmente interessante. Tali riprese possono essere editate, ora anche direttamente on line, e caricate su una piattaforma di condivisione come YouTube. Nel momento in cui il video viene postato e reso pubblico insieme ala striscia di codice utile per l’embedding, quel determinato video può essere trasferito su altre piattaforme di video-sharing ma anche su blog e siti personali o, ancora, all’interno di dispositivi mobili, con la conseguenza di recidere qualsiasi legame tra il video stesso e l’originale contesto fruitivo. Simili dinamiche di networking tra piattaforme e tipologie di utenti differenti può tuttavia dare adito a miopie interpretative. Sempre più spesso si parla di Web Tv o di Net Tv, rischiando di accomunare sotto questo unico termine-ombrello categorie diverse che vanno dalle User Generated Tv alle Corporate Tv o, ancora, alle Brand Tv e alle Business Tv. Curiosamente, se in molti si sono impegnati a scegliere il sostantivo migliore da utilizzare per il primo dei due termini, in pochi o addirittura nessuno si è cimentato nella più ardua impresa di eliminare in modo drastico e definitivo quel suffisso così stancamente generalista. Perché di “televisione” fenomeni come YouTube e derivati hanno ben poco o niente, se non la prevalenza dei contenuti video rispetto al testo scritto (anche se in alcuni casi la proporzione tra audiovisivo e commenti di testo può tendere decisamente verso questi ultimi). Similmente, anche le finalità più o meno esplicite delle nuove forme di Net Tv possono rappresentare un significativo fattore discriminante tra progetti apparentemente simili: se, in alcuni casi, è il brand (servizio o prodotto) a fornire i presupposti per la creazione – spesso artefatta – di una community, in altri è la community stessa a realizzare,

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spontaneamente e senza pretendere alcuna retribuzione, il prodotto o il servizio che viene fruito. Gli sviluppi più recenti e significativi del web hanno mostrato infatti l’efficacia di relazioni spontanee legate a specifici gruppi di interesse, prive dunque di imposizioni provenienti tanto da centri istituzionali quanto da modelli di marketing eccessivamente pervasivi e centralizzanti. Altra questione cruciale è rappresentata in tale scenario dalle forme possibili di retribuzione che un’azienda o un’impresa potrebbero mettere a disposizione dei propri utenti. In che modo, infatti, i gestori delle piattaforme aperte dovrebbero ricompensare le persone e le organizzazioni che forniscono un valore aggiunto alle loro piattaforme? In quale misura e secondo quali modalità i sistemi di incentivazione monetaria stimolerebbero ulteriormente la creazione di valore? Cosa accadrebbe, invece, se la retribuzione economica compromettesse le dinamiche spontanee che hanno portato al successo comunità online come Flickr o YouTube? È in risposta a simili interrogativi che i principi della wikinomics forniscono esempi reali di social network in cui il brand può funzionare non soltanto da specchietto per la buona riuscita di una campagna di marketing, ma anche e soprattutto come catalizzatore di idee e risorse creative generate in modo autonomo dagli utenti. Tra i poli opposti delle “corporate communities” e della filosofia quasi evangelica di Wikipedia, esistono dunque esempi concreti di nuove forme di business modellate intorno a dinamiche partecipative in cui rimangono saldi i principi più nobili della collaborazione “appassionata” degli utenti. Casi, dunque, di approcci aperti all’innovazione in cui “le imprese che attirano e ricompensano i partecipanti più capaci hanno l’opportunità di creare delle nuove fonti di vantaggio competitivo” (Tapscott, Williams 2006 p. 240). A tre di questi esempi è dedicata la parte conclusiva del presente lavoro. 3.1 Qoob – Broadcasting Ideas Qoob nasce il 30 novembre 2006 come progetto co-finanziato da MTV Italia e Telecom Italia Media, sostituendo l’originario Yos (Your Open Source) e il successivo Flux

6. Rispetto alle più tradizionali piattaforme di video-sharing in stile YouTube, Qoob si differenzia per la scelta di utilizzare esclusivamente contenuti generati dagli utenti e non video messi a disposizione dai network broadcaster. Anche il livello di realizzazione dei video già presenti in archivio è quasi sempre elevato in termini di qualità, e questo costituisce un vero e proprio filtro per gli utenti “neofiti” che desiderano uploadare le proprie realizzazioni. Video, musica e immagini sono le tre principali tipologie di contenuti offerte dal servizio, e si rifanno agli scenari “underground” della musica elettronica, dell’animazione digitale, del cinema e del digital design.

6 Flux è stato un canale musicale analogico del gruppo Telecom inaugurato ufficialmente l'8 aprile del 2006 e oscurato il 20 novembre dello stesso anno.

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L’offerta di Qoob si basa inoltre su un sistema di distribuzione multipiattaforma: oltre al portale web, i contenuti prodotti dalla community di Qoob sono infatti visibili anche in digitale terrestre (DVB-T sul Multiplex La7/MTV) e sul satellite (DVB-S su Atlantic Bird 1). La cross-medialità di Qoob risulta un valore aggiunto anche per il reale coinvolgimento degli utenti, dal momento che i contenuti presenti all’interno del sito vengono costantemente monitorati e infine selezionati per essere poi riprodotti nel corso della programmazione televisiva, sia terrestre che satellitare. Più del modello comunicazionale adottato, è il claim di Qoob – “Broadcasting Ideas” – ad esprimere in modo efficace il reale posizionamento del progetto e i relativi elementi di distinzione. Al di là della chiara allusione al più noto “Broadcast Yourself” di YouTube, il claim di Qoob si differenzia rispetto a quello del competitor statunitense proprio per il fatto di preferire le “idee” alle “persone”. Naturalmente stiamo provando ad avanzare una forzatura teorica, ma probabilmente questa diversa sfumatura interpretativa può risultare interpretabile come la volontà di privilegiare contenuti qualitativamente elevati rispetto a quelli maggiormente amatoriali o autoreferenziali e comunque votati al pure entertainment.

Fig. 8. L’home page di Qoob - http://it.qoob.tv/.

Più nello specifico, il modello di business proposto da Qoob si basa su un sistema di retribuzione in denaro che premia i contenuti migliori tra quelli proposti dagli utenti. Ciò può avvenire attraverso l’invio di contenuti di libera ispirazione o attraverso la partecipazione ai “commissioning” che vengono regolarmente organizzati al fine di indirizzare le produzioni verso tipologie specifiche di contenuto. Il commissioning avviene attraverso un “brief” iniziale, all’interno del quale vengono

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fornite agli utenti le informazioni basilari sul taglio editoriale di video richiesto dal “committente” (comico, di cronaca, di attualità, ecc.).

Fig. 9. La schermata del brief di uno dei commissioning attivi

Lo step successivo riguarda invece il “Tv Payout”, in cui vengono selezionati fino a un massimo di 10 video (i migliori) tra tutti quelli inviati, che verranno ricompensati con 250 Qoob$ ciascuno. Quando un contenuto viene scelto e proposto all’interno del palinsesto televisivo, gli utenti che hanno prodotto quel determinato contenuto possono ricevere un compenso stabilito secondo il tasso di cambio vigente tra i “Qoob dollars” e gli euro tradizionali7. Richiamando le logiche di collaborazione proprie di un wiki, più utenti possono decidere di lavorare in team, attingendo a competenze diverse, per ottenere un unico prodotto finale di alta qualità: ogni videomaker può, ad esempio, stringere una collaborazione con un designer, per migliorare la qualità delle grafiche che compariranno nel video, così come può accordarsi con un audiomaker nel caso in cui avesse bisogno di una colonna sonora particolare. La “QOOB Factory”, ovvero il centro di produzione creativa del gruppo, può inoltre decidere di mettersi in contatto direttamente con gli autori dei contenuti migliori per finanziare e supportare la produzione delle loro idee. In tal modo sono già state prodotte due serie ideate e realizzate con il

7 Nel momento in cui si scrive, il tasso di cambio è pari a 1 QOOB $ = 2 EURO. Per il primo video che viene scelto il compenso è pari a 100 QOOB $ (equivalenti a 200 ), per il secondo si sale a 150 QOOB $ (300 ), mentre dal terzo video in poi si può arrivare a guadagnare fino a 200 QOOB $ (400 ). Una volta stabilito il compenso, il pagamento viene effettuato via mail attraverso PayPal.

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contributo degli utenti: Techstuff, documentario sulla musica elettronica, e la serie animata Eloquens. L’esempio fornito da una piattaforma User Generated come Qoob testimonia dunque l’affermarsi di un nuovo paradigma comunicativo basato su forme evolute di prosuming, grazie alle quali gli utenti hanno la possibilità di passare, senza soluzione di continuità, dal ruolo di consumatori a quello di co-innovatori e creatori dei prodotti e dei servizi che vengono consumati:

(…) i clienti non si limitano a modificare o personalizzare le merci: possono darsi un’organizzazione autonoma allo scopo di creare le merci che desiderano. Gli utenti più avanzati, infatti, non aspettano più che qualcuno li inviti a trasformare un prodotto in una piattaforma sulla base della quale sviluppare le proprie innovazioni. Piuttosto danno vita a community di prosumer nell’ambito delle quali condividono tutte le informazioni relative ai prodotti, collaborano e si scambiano suggerimenti, strumenti e trucchi da hacker consumati (Tapscott, Williams, 2006, p. 141).

Il servizio offerto da piattaforme come Qoob non fa altro che legittimare e addirittura “premiare” questa inedita tipologia di utenti, a testimonianza di quanto valore abbia, nell’economia digitale, il riconoscimento e la valorizzazione della creatività dei clienti piuttosto che il loro indebolimento attraverso offerte comunicative unidirezionali. In tale contesto, e in sintonia con l’etica hacker, assume un ruolo di grande importanza la cultura del remix, intesa non certo nei termini di appropriazione indebita, bensì come l’emergere di inedite ricombinazioni semantiche e valoriali:

È un’impostazione etica che definisce ciò che la nuova Rete sta diventando: un enorme parco giochi pieno di bit informativi che vengono condivisi e “remixati” liberamente fino a creare una trama fluida e fondata sulla partecipazione. Essendo maturato rispetto agli anni in cui era soltanto un medium utilizzato per la presentazione statica di contenuti, oggi il web rappresenta il fondamento su cui poggiano nuove forme dinamiche della collettività e dell’espressione creativa (p. 35).

Lawrence Lessig ha costruito alcune delle sue formulazioni teoriche più significative attorno alla necessità di mantenere risorse libere per favorire l’innovazione e la creatività, perché senza di esse è come se la creatività fosse monca (Lessig, 2001, p. 20). Le spinte evolutive che stanno cambiando il modo di vivere e concepire il web ci restituiscono nuovi spazi di sperimentazione in cui essere liberi di creare forme comunicative d’avanguardia incapaci di trovare dimora nel flusso mediatico mainstream. La nuova Rete ha infatti il merito di mettere in discussione il presupposto secondo il quale l’informazione – e, più in generale, qualsiasi altra tipologia di contenuto – debba partire da una serie di prodotti accreditati e arrivare a una massa di consumatori passivi (Tapscott, Williams, 2006, p. 165). I contenuti presenti in piattaforme come Qoob rappresentano allora una ulteriore dimostrazione della possibilità di sfidare quella che Tapscott e Williams definiscono “la moderna aristocrazia creativa” (pp. 158-159). Ciò è possibile attraverso la legittimazione di una nuova creatività che, sviluppandosi secondo modalità virali, arriva a meritarsi il riconoscimento e l’approvazione di una comunità di esperti, unitamente a una retribuzione precedentemente insperata per contenuti prodotti “dal basso”.

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3.2 SciVee - The free and widespread dissemination and comprehension of science.

Il sesto capitolo del testo di Tapscott e Williams, intitolato “I nuovi alessandrini”, è dedicato interamente alla rassegna di vari esempi atti a testimoniare la nascita di una nuova era della scienza collaborativa, che consentirà di rendere più veloce e immediato lo sviluppo sia della ricerca che dell’apprendimento scientifico: “L’apparizione di strumenti editoriali basati sul libero accesso e di nuovi servizi web metterà a disposizione degli individui un patrimonio sconfinato di conoscenze e contribuirà allo sviluppo di comunità di peer sparse in tutto il mondo” (Tapscott, Williams, 2006, p. 172). La vera innovazione, dunque, risiederebbe nella capacità di sfruttare un approccio aperto e non gerarchico nei confronti della produzione e dello sfruttamento della conoscenza. Che si tratti di conoscenza “aziendale” o di conoscenza prettamente scientifica, il passo in avanti da compiere rispetto al passato è quello di considerare qualsiasi tipologia di conoscenza come prodotto di un network in cui individui e organizzazioni condividono risorse al fine di trovare nuove soluzioni per determinati problemi (p. 174). È dunque un approccio “peer-oriented”, come lo definiscono i due autori, alla produzione della conoscenza e alla condivisione delle informazioni, a decretare la nascita di una nuova “scienza collaborativa”, o “Scienza 2.0”:

Oggi sta per affermarsi un nuovo paradigma scientifico (…) ispirato dagli stessi progressi tecnologici che stanno trasformando il web in un enorme ambiente di lavoro collaborativo. Proprio come le applicazioni e gli strumenti collaborativi stanno trasformando le imprese, la nuova Rete cambierà per sempre il modo in cui gli scienziati pubblicano i dati, li gestiscono e collaborano al di là dei confini istituzionali. Le mura che dividono le istituzioni crolleranno e al loro posto emergeranno network scientifici aperti. Tutti i dati e le ricerche scientifiche del mondo, finalmente, saranno a disposizione di ogni singolo ricercatore – gratis – senza pregiudizi né costi indiretti (p. 178).

Gli esempi riportati per avvalorare questa tesi riguardano iniziative come OpenWetWare, un progetto del MIT finalizzato alla condivisione di esperienze e informazioni nel campo della biologia o, ancora, Bioinformatics.org, una piattaforma oper source che mette a disposizione della comunità scientifica i dati genomici prodotti dal Progetto Genoma Umano. Naturalmente rimandiamo alla lettura del testo per approfondire la trattazione di tali esempi. In questa sede ci limiteremo a fornire un riferimento interessante ma comunque meno ambizioso rispetto a quelli riportati da Tapscott e Williams. Il case study che si è scelto di analizzare è SciVee, una piattaforma scientifica di condivisione multimediale, creata dagli scienziati per gli scienziati. Il principale obiettivo perseguito da SciVee è quello di inaugurare una nuova fase della comunicazione scientifica capace di andare al di là del testo scritto o delle tradizionali conferenze pubbliche. Un nuovo modo di pubblicare e condividere contenuti scientifici che tragga vantaggio dalle innovative dinamiche comunicazionali e relazionali offerte dalla Rete. Non è un caso, dunque, se recentemente SciVee sia stato rinominato dalla rivista New Scientist come lo “YouTube della scienza”. L’accostamento

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proposto da New Scientist, anche se può inizialmente far sorridere, non sembra poi così tanto distante dalla realtà dei fatti. Ciò che SciVee mette a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo è proprio la possibilità di diffondere e condividere, in maniera inedita, ricerche scientifiche, materiali, idee ed opinioni intorno a vari ambiti della scienza. È la modalità di presentazione dei progetti e delle ricerche a ricordare da vicino il modello comunicativo che ha reso YouTube la più diffusa e frequentata piattaforma di video sharing a livello mondiale. SciVee permette, infatti, di presentare la propria ricerca o il proprio progetto non soltanto in formato testuale o attraverso le slide, ma anche sotto forma di un breve filmato in cui sono gli stessi scienziati a presentare in prima persona le proprie iniziative. I video proposti sono spesso girati durante conferenze o workshop, mentre in altri casi si ha a che fare con brevi sequenze contenenti materiale inedito filmato e montato in modo del tutto professionale. Riprese quasi amatoriali si alternano, dunque, a sequenze di computer grafica di alto livello o a brevi clip che restituiscono la vista di ciò che uno scienziato può studiare utilizzando un microscopio professionale.

Fig. 10. L’home page di SciVee - http://www.scivee.tv/

La fruizione dei video garantisce agli utenti di SciVee la medesima gamma di opzioni che un servizio come YouTube offre ai propri utenti. Ogni singolo video, infatti, oltre ad essere accompagnato da una breve descrizione testuale che ne riassume il contenuto, può essere commentato, “taggato”, votato e segnalato da tutti gli utenti che partecipano alla community. In ciò

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si riassume la capacità del servizio di configurarsi come uno spazio di social networking interamente dedicato alla ricerca scientifica. Ogni ricercatore ha, infatti, la possibilità di personalizzare il proprio profilo e di mettersi in contatto con altri utenti per la realizzazione di obiettivi comuni, sfruttando dunque il servizio alla stregua di altri social network professionali come Linked In o Viadeo. Il networking tra i ricercatori è favorito inoltre dalla presenza di varie community dedicate alla trattazione di un determinato argomento:

• Atmospheric and Climate Sciences Community; • Bioinformatics, Morphology, and Taxonomy; • Computer Networking; • Computer Science Community, • Comunidad Biopps: Ciencia, Investigación e Innovación en las Biociencias; • e-health; • Earth Science Video Community; • History of Medieval Medicine; • Mathematics Education; • Medical Informatics; • NASA Video Community; • Neglected Tropical Diseases Community; • NSF Video Community; • SDSC Video Community; • Sweetwater Union School District (CA); • UCSD Science Video Community; • Universal Science; • US Forest Service Research & Development; • Video Medicina; • Wireless Sensor Networks Research.

All’interno di ogni community è possibile iscriversi con il proprio profilo, postare commenti, uploadare video e segnalare agli altri membri della community i propri video preferiti.

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Fig. 11. Il modello di networking proposto da SciVee

La seconda e forse più interessante modalità di presentazione di ricerche e contenuti è quella che viene definita “Pubcast”. I Pubcast corrispondono infatti a video accompagnati da una presentazione audio che ne descrive gli argomenti trattati, l’area di ricerca in cui il video si inserisce e le possibilità di lavoro collaborativo che quel determinato argomento richiede. Pertanto, all’interno di ogni Pubcast l’utente può scegliere tra tre diverse opzioni di fruizione: può leggere in formato testuale l’intero paper che spiega e approfondisce le tematiche trattate dal video; può visionare il profilo completo dell’autore del video (compresi tutti i video e i pubcast da questi inseriti, i suoi link e le community di cui fa parte); può, infine, guardare il pubcast completo in cui le immagini sono accompagnate dall’audio di presentazione. I video sono poi raccolti in una serie di canali dedicati che permettono agli utenti una più immediate ricerca dei contenuti che si desidera visionare. Questi i canali offerti da SciVee al momento in cui si scrive:

• BMC Bioinformatics: an open access journal publishing original peer-reviewed research articles in all aspects of computational methods used in the analysis and annotation of sequences and structures, as well as all other areas of computational biology. BMC Bioinformatics (ISSN 1471-2105) is indexed/tracked/covered by PubMed, MEDLINE, BIOSIS, CAS, Scopus, EMBASE, Thomson Scientific (ISI) and Google Scholar;

• Nucleic Acids Research (NAR): a fully Open Access journal, providing rapid publication of leading edge research into the nucleic acids under the following categories: chemistry, computational

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biology, genomics, molecular biology, nucleic acid enzymes, RNA and structural biology. There is a Survey and Summary section, and methods papers are published in NAR Methods Online. Each year the first issue is devoted to biological databases, and a later issue to relevant web-based software resources;

• PLoS Computational Biology: an open-access, peer-reviewed journal featuring works of exceptional significance that further our understanding of living systems at all scales through the application of computational methods;

• PLoS ONE: features reports of primary research from all disciplines within science and medicine. By not excluding papers on the basis of subject area, PLoS ONE facilitates the discovery of the connections between papers whether within or between disciplines;

• PLoS Pathogens: bacteria, fungi, parasites, prions and viruses cause a plethora of diseases that have important medical, agricultural, and economic consequences. Moreover, the study of microbes continues to provide novel insights into such fundamental processes as the molecular basis of cellular and organismal function;

• Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America: is one of the world's most-cited multidisciplinary scientific serials. Since its establishment in 1914, it continues to publish cutting-edge research reports, commentaries, reviews, perspectives, colloquium papers, and actions of the Academy. Coverage in PNAS spans the biological, physical, and social sciences. PNAS is published weekly in print, and daily online in PNAS Early Edition;

• PROTEINS Journal: Structure, Function, and Bioinformatics publishes original reports of significant experimental and analytic research in all areas of protein research: structure, function, computation, genetics, and design;

• Recently Uploaded: Other: All pubcasts that are not yet categorized into an existing SciVee channel and that are relevant to a specific peer-reviewed journal are temporarily listed in this "Recently Uploaded: Other" channel. If the publication you upload with your pubcast is related to a journal that is not yet available, a new channel will be created for you after review by SciVee moderators. Until the new channel is created for pubcasts that need a new channel, they will be accessible at this "Recently Uploaded: Other" channel;

• Saudi Medical Journal: was launched in 1979. It was the initiative and the vision of His Royal Highness Prince Sultan Bin Abdul Aziz, Second Deputy Prime Minister of Defense and Aviation and Inspector-General, who blessed and supported its beginning. The Journal has been published regularly since 1979 (18 years - 18 volumes). Enthusiastic staff worked hard to maintain the excellence of the Journal. Major General Dr. Abdul Hamid Al-Faraidi was founding Editor and the leader of this Journal for all of the 18 years;

• Scandinavian Journal of Urology and Nephrology: aims to reflect current clinical research of international scientific standard within all areas of urology and nephrology.

Anche se SciVee si propone come servizio ideato e progettato per il mondo della ricerca, la piattaforma può raccogliere contenuti inviati da qualsiasi tipologia di utenti, sia esperti che appassionati. Gli utenti possono uploadare contenuti scientifici in maniera gratuita, a patto però che le ricerche siano già di dominio pubblico e possano essere riprodotte e scambiate con l’obbligo di esplicitare sempre la fonte. Se per la riproduzione dei contenuti video viene applicata la Creative

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Commons Attribution 3.0 License, i progetti e le ricerche coperti da copyright possono essere visionati all’interno di gruppi chiusi il cui accesso è garantito ai soli utenti iscritti. . 3.3 Zooppa – Advertising goes social

“Zooppa è una piattaforma innovativa di pubblicità generate dagli utenti e sponsorizzate dalle aziende”. Il “what is” del sito di Zooppa riassume in modo efficace il servizio offerto da questa start-up italoamericana. Zooppa è una start up incubata da H-FARM8, centro per la ricerca e l’innovazione nel campo delle tecnologie e dei nuovi media, situato a Ca' Tron, vicino Venezia. Lo scopo di Zooppa è quello di offrire agli utenti uno spazio per la creazione e la condivisione di nuove forme di user generated advertising. Riportando un estratto della nota societaria, vediamo come Zooppa sia legata a “un modello di business in cui persone e aziende entrano in contatto in un contesto virale basato sulla creatività e sul riconoscimento di una somma di denaro variabile per i contenuti autoprodotti. Questo significa incentivare il talento creativo di tutti coloro che solitamente non hanno voce in capitolo nel mondo tradizionale della pubblicità”. Il primo elemento su cui riflettere riguarda proprio la possibilità di mettere in contatto utenti non professionisti e aziende affermate che si occupano di pubblicità, all’interno di un contesto dedicato alla valorizzazione di contenuti prodotti dal basso. Il modello di business di Zooppa rappresenta dunque una grande opportunità sia per gli utenti che per le aziende. Vediamo nello specifico come ciò avviene. Zooppa si relaziona costantemente con aziende, nazionali e internazionali, interessate a sfruttare i “contest” lanciati dal sito per commercializzare il proprio marchio attraverso nuove forme di advertising. Si legge ancora nella nota societaria:

Sulla base delle indicazioni fornite dalle aziende committenti, gli utenti sono invitati a creare pubblicità per marchi o prodotti delle aziende in questione. Gli utenti registrati possono partecipare con diversi tipi di contributi: scrivere un’idea o una breve sceneggiatura per una potenziale pubblicità, realizzare delle pagine grafiche con il logo dell’azienda e un pay off, produrre un’animazione o girare un video vero e proprio.

La catena generatrice di valore è riassunta da Zooppa attraverso questa sorta di diagramma di flusso: IO ti do un MARCHIO TU crei una PUBBLICITÁ TU voti la MIGLIORE IO ti PAGO. Ciò significa, più nel dettaglio, che a seguito di un accordo commerciale tra Zooppa e una società, viene lanciato all’interno del sito un nuovo contest per gli utenti. Questi ultimi, a loro volta, sono incoraggiati a collaborare tra loro attraverso un meccanismo di incentivi, denominato “Team

8 http://www.h-farm.it/

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Bonus”, che serve a ricompensare chi, per esempio, ha realizzato un video utilizzando l’idea di un altro utente, premiando dunque in modo proporzionale sia l’autore che il videomaker.

Fig. 12. L’home page di Zooppa - http://zooppa.com/

Al momento in cui si scrive, appaiono già conclusi i contest organizzati da Zooppa per i seguenti brand:

• Alice • Citroën C1 – DeeJay • Fineco • Global Warning • Havaianas • Love Affair • Murphy&Nye • Osè • Pago • Rai.Tv • TomTom

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Risulta interessante anche il meccanismo di social ranking che Zooppa propone ai suoi utenti. È la community, infatti, a decretare i vincitori dei vari contest: in base ai voti e ai commenti ricevuti dagli altri utenti, Zooppa assegna i premi in denaro ai video che hanno raggiunto il punteggio più alto. Sono previste, inoltre, altre forme di collaborazione tra utenti e aziende. Nel caso in cui un’azienda decidesse di utilizzare i materiali postati sul sito per sfruttarli come campagne pubblicitarie su altri mezzi, Zooppa svolgerebbe a quel punto il ruolo di intermediario tra gli autori dei contenuti e le aziende stesse, assicurando un range di prezzo variabile all’interno del quale far incontrare gli interessi degli utenti e delle aziende. Come nel caso di Qoob, anche Zooppa ha al suo interno una sorta di microeconomia che richiama alla mente i Linden dollars di Second Life. Gli Zoop$ dollari rappresentano infatti la moneta virtuale emessa dalla ZoopBank e si guadagnano partecipando e piazzando in classifica i propri lavori nelle varie gare9. Come accade con il mondo virtuale di Second Life, anche gli Zoop$ possono essere convertiti in dollari americani. Ribaltando il punto di vista dalla parte non più dell’utente ma delle aziende, il precedente diagramma di flusso assume ora nuove sembianze: TU ci dai il tuo MARCHIO …e sponsorizzi una GARA su ZOOPPA NOI ti forniamo la PUBBLICITÁ …e ti diciamo come sei PERCEPITO. La successione del diagramma serve sostanzialmente a rispondere a una domanda che sembra più che lecito porsi. Perché, infatti, una grande azienda, con un brand già riconoscibile, dovrebbe rivolgersi a un servizio come Zooppa per lanciare la propria campagna di advertising? E perché, soprattutto, decidere di affidarsi alla produzione di utenti non professionisti e non alle competenze certificate di un’affermata agenzia pubblicitaria? Questa la risposta o, meglio, le risposte, fornite direttamente da Zooppa:

Perché potrete contare sulla forza innovativa di uno strumento in continua espansione come Internet, sfruttandone tutta la viralità e la capacità di raggiungere ogni angolo del globo con una velocità impensabile per qualsiasi altro media. Perché potrete aumentare la creatività della vostra comunicazione e avere moltissimi nuovi spunti. Con Zooppa.com avrete accesso ad un bacino creativo molto più esteso, sia grazie al numero di utenti che intervengono nel nostro sito sia grazie alle caratteristiche del mezzo utilizzato. Il nostro modello favorisce l’accesso ai nuovi linguaggi di comunicazione al ritmo di Internet. Perché il vostro marchio potrà essere visto da un’audience allargata di persone. I video postati vengono promossi nella rete sia dallo staff di Zooppa sia dagli utenti stessi, che contribuiscono a innescare un circolo virtuoso di viralità. Gli utenti che partecipano alle gare non solo entreranno in contatto con il vostro marchio, ma condivideranno le loro idee parlando di voi nella rete. In questo modo, potrete avere un riscontro reale di come le persone percepiscono la vostra azienda.

9 Uno Zoop$ equivale ad un dollaro americano, anche se gli Zoop$ possono essere convertiti in dollari reali solo dopo aver raggiunto la soglia minima di 1,000 Zoop$.

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La viralità della piattaforma è inoltre aumentata e rafforzata dai diversi servizi di community che Zooppa mette a disposizione dei propri utenti: Zoopperland, Zooppa Store, Matto per Zooppa.

Fig. 13. La schermata iniziale di Zoopperland

Fig 14. Il blog ufficiale di Zooppa

Strumenti, questi, utili per conoscere e scambiare opinioni con i vari “zooppers”, commentare i video più belli e acquistare gadget ufficiali. Una risorsa, soprattutto, per incentivare la creazione e

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l’espansione del buzz, ovvero il passaparola prodotto dagli utenti su brand e servizi che, grazie al web, sta letteralmente rivoluzionando le tradizionali dinamiche di marketing e di social reputation. Conclusioni

Il web che verrà riuscirà a cambiare i modi in cui la gente collabora e accresce il sapere in una piccola ditta, in una grande organizzazione, in un paese? Se funzionerà in un piccolo gruppo e potrà salire di livello, potremo usarlo per cambiare il mondo? Già sappiamo che il Web ci permette di agire più in fretta. Ma può cambiare la società, farci passare a un nuovo modo di lavorare? E sarà migliore o peggiore? (Berners-Lee, 1999, p. 173).

Quelli sopra riportati sono alcuni degli interrogativi che Tim Berners-Lee pone a conclusione del suo celebre studio sull’architettura del nuovo web. Difficile, quasi impossibile, fornire risposte univoche alle questioni sollevate e lasciate in parte irrisolte da Berners-Lee. Il web è per sua natura mutevole, incapace di cristallizzarsi e ipostatizzarsi in maniera definitiva. Al contrario, l’evolversi della rete è frutto di un incessante processo produttivo che sempre più spesso vede gli utenti nel ruolo di co-sviluppatori di piattaforme, contenuti e servizi. È intorno a tali dinamiche che si sta definendo “una nuova nuova forma di organizzazione produttiva e sociale legata all’economia delle reti digitali di comunicazione, una nuova configurazione che tende a rendere obsoleti e/o a relegare allo spazio dell’evasione gli strumenti comunicativi della fase precedente” (Ferri, 2004, p. 34). Il concetto di wikinomics proposto da Tapscott e Williams non fa altro che sottolineare e legittimare queste innovative dinamiche di “social engineering”. Tuttavia, il rischio principale da scongiurare in tale contesto è quello di far rientrare nella definizione operativa di wikinomics piattaforme e servizi che in realtà non incarnano nel proprio know how i necessari principi di impresa aperta, networking, partecipazione e condivisione. Altra questione aperta è quella che riguarda il reale grado di penetrazione di queste nuove tipologie di piattaforme web. Al di là degli esempi forniti nel testo da Tapscott e Williams, le tre case histories qui analizzate hanno mostrato la presenza di community per certi versi ancora immature e lontane dal radicamento effettivo riscontrabile in una piattaforma di video-sharing come YouTube o all’interno di social network come MySpace o Facebook. Tuttavia, riteniamo estremamente significativo osservare da vicino le dinamiche di fruzione degli early adopter, la loro capacità di creare community e la loro abilità nel produrre e scambiare informazioni e contenuti in maniera virale. Appare dunque sempre più necessario focalizzare il punto di osservazione sugli utilizzatori piuttosto che sulla tecnologia utilizzata. Questo perché, al di là dell’effettiva valenza dell’etichetta che ne riassume il senso, riflettere sull’innovazione apportata dal Web 2.0 significa in primis riconoscere la natura sociale dei dispositivi tecnologici: “La produzione sociale è modellata dalla

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cultura. Internet non fa eccezione. La cultura dei produttori di Internet ha plasmato il mezzo. Questi produttori sono stati, allo stesso tempo, i suoi primi utilizzatori” (Castells, 2001, p. 45). I nuovi utilizzatori che, giorno dopo giorno, stanno ridisegnando la forma del web, hanno l’opportunità di modellare le proprie risorse creative su un nuovo modo di produrre e scambiare conoscenza. Allo stesso tempo, le imprese e le aziende più innovative hanno di fronte l’occasione di far proprie tali risorse come mai è stato possibile fare fino ad ora: “Co-creare con i clienti è come attingere al bacino di capitale intellettuale più qualificato che sia mai stato aggregato (…)” (Tapscott, Williams, 2006, p. 166). È proprio questa capacità di riunire la conoscenza proveniente da milioni di individui, capaci di organizzarsi in maniera autonoma, a dimostrare che “la collaborazione di massa sta trasformando la nuova Rete in qualcosa di simile a un cervello globale” (p. 39). Una produzione sociale capace di generare anche inedite modalità di retribuzione e nuovi modelli di business sempre più votati al riconoscimento dei contenuti generati dagli utenti. Le forme particolari che assumerà il rapporto tra prosumers ed aziende illuminate costituiscono la vera sfida per quanti vorranno produrre innovazione in questa nuova fase del web.

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Riferimenti bibliografici

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aumenta le libertà, Milano, Università Bocconi Editore. Berners-Lee, T., 1999, Weaving the Web. The Original Design and Ultimate Destiny of the World

Wide Web by Its Inventor; trad. it. 2001, L’architettura del nuovo web. Dall’inventore della rete

il progetto di una comunicazione democratica, interattiva e intercreativa, Milano, Feltrinelli. Castells, M., 2001, The Internet Galaxy. Reflections on the Internet, Business and Society; trad. it.

2002, Galassia Internet, Milano, Feltrinelli. Ferri, P., 2004, Fine dei mass media. Le nuove tecnologie della comunicazione e le trasformazioni

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