sette giorni di andrea barilla

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Gennaio 2013. Sebbene svincolata dalle temute catastrofi naturali, l’inversione dei poli sconvolge l’Umanità in maniera fulminea e imprevedibile. Sebastiano Nai – marito, padre, collega encomiabile – è un giornalista milanese che si occupa di fenomeni misteriosi, con la finalità inconscia di screditare quelle che considera teorie prive di ogni fondamento. Complice una casualità determinante – che lo accomuna a decine di migliaia di persone solo tra i connazionali – viene soggiogato da un impulso incontrollabile e si convince che l’unica ragione di vita sia dissotterrare un passato pressoché dimenticato, nel tentativo di porvi rimedio attraverso la vendetta. Intanto che il Pianeta è invaso da un’ondata di violenza senza precedenti, Sebastiano asseconda la pulsione sconosciuta che sorprende gli individui senza apparente discriminazione. Ma la verità, nella sua evidenza disarmante, lo metterà di fronte a una scelta cui non potrà sottrarsi.

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ANDREA BARILLÀ

Sette giorni

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Copyright 2010 CIESSE Edizioni Design di copertina 2010 CIESSE

Edizioni

Sette giorni by Andrea Barillà

Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 - 049 8862964 Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN 9788897277262 Collana Black & Yellow Versione eBook http://www.ciessedizioni.it

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NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun

contributo economico all’Autore.

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Questo libro è dedicato alla mia famiglia.

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1.

SABATO 19

La canna della pistola – solida e magniloquente – premette sulla fronte corrugata.

In circostanze normali, quel poco augurabile incontro tra carne e acciaio avrebbe decretato il trionfo del tepore umano sulla lega inanimata, ma nonostante Sebastiano stesse ardendo di una febbre che nessun farmaco avrebbe placato, il metallo padroneggiò la pelle infuocata causandogli brividi simili a spasmi.

Nell’esistenza precedente aveva sentito dire che il modo ideale per togliersi la vita utilizzando una rivoltella fosse puntarla sotto il mento o, nel caso si desiderasse eludere ogni incognita, infilarla in bocca come si sarebbe fatto con una pistola ad acqua apparsa dal nulla in pieno deserto; ciò avrebbe scongiurato il rischio che il tremore della mano, non ancora sedotta dalla decisione presa, abbattesse la determinazio-ne maturata nel tempo di un’unica, inverosimile settimana. Lui però era convinto che un gesto estremo di tale entità,

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un atto che solo fino a sette giorni prima avrebbe considerato alieno alla propria natura, meritasse di essere vissuto con tutti i crismi. Era certo che anche lo scoperchiarsi il cranio possedesse l’unicità e il rilievo intrinseci a qualunque impresa umana, ancorché autodistruttiva. Dunque, per avere una buona visione della semiautomatica nel momento dello sparo, aveva scelto senza esitazioni il colpo esploso in mezzo agli occhi, sebbene tale procedura non fosse tra le più quotate.

Le gesta affrontate decidendo per l’azzardo sarebbero riecheggiate in eterno.

Sebastiano serrò le dita intorno al calcio dell’arma rivolta contro se stesso, aumentando la pressione del pollice. Il vento paralizzante s’insinuò tra gli spiragli degli indumenti, contribuendo ad aumentare il tremore di un corpo già sfibrato dal cambiamento inatteso e fulmineo. Le braccia parevano inerti prede dell’alta tensione, però lui non aveva la minima intenzione di desistere dall’intento suicida, almeno fino a quando gli ultimi scampoli di coscienza e umanità avessero deciso di abbandonarlo per sempre.

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È come andare a pesca. Non si tratta di un comune svago né rappresenta l’eterna lotta per la sopravvivenza, no, niente di tutto questo. Pescare significa conseguire un connubio idilliaco tra teoria e pratica, tra fisico, strumento e volontà. Non si blatera di attaccare un amo a una canna di bambù, gettarlo in uno stagno con appeso un lombrico stanato sotto una pietra e sonnecchiare nell’attesa che accada qualcosa. Si parla di sentire la preda, conoscerne i rituali e indovinarne i movimenti, d’intravederla attraverso lo specchio dell’acqua, mentre punta circospetta l’esca, ignara della sorpresa che la sta attendendo con finto disinteresse. Affinché tutto ciò abbia un senso, a ogni pesce catturato deve corrispondere una certa quantità di energie investite. Ogni azione, anche la più usuale, richiede applicazione ed estro; se alla fine il risultato è quello voluto, la pace provata rasenta il sublime.

Pensare alla propria passione, al diversivo prediletto di prima, ebbe sul tremito un intenso effetto lenitivo. Adesso le braccia erano perfettamente immobili, quasi surgelate per via della temperatura artica. La

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volontà non era mai stata così granitica. I sensi parevano bisturi appena affilati.

Il dito violaceo premette maggiormente sul grilletto.

Una fugace fitta di terrore lo pervase, spietata ambasciatrice del nulla prossimo a giungere, dell’inevitabile affrontato di proposito e in anticipo sui tempi.

Un ultimo, profondo respiro.

Tre.

Due.

Uno.

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2.

DOMENICA 13

Finalmente domenica.

Sebastiano Nai, classe 1975, adorava quel giorno. Lo amava non perché fosse la giornata del meritato riposo, da trascorrere in famiglia o con i parenti, oppure sugli spalti di un campo sportivo sbraitando consigli tecnici non richiesti e appellativi pittoreschi a chi esibisse colori stranieri.

Adorava la domenica poiché era sinonimo misconosciuto di ‘pescare’.

Sebastiano era una persona retta, mite e oltremisura sensibile, di quelle che nella generalità dei casi vengono isolate durante l’infanzia, derise nel corso dell’adolescenza, trattate con diffidenza fino alla soglia dei trent’anni e guardate con ammirazione per tutto il tempo che resta loro da campare. La sua era una dote innata, un talento naturale, l’equivalente della grazia e delle agilità proprie di un felino.

Lui era così da sempre.

Senza dubbio non aveva vizi. Negli anni dell’Università (resosi conto che la pacatezza

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veniva interpretata come uggia, superbia, omosessualità latente, malattia rara e virulenta) si era imposto di sperimentare qualche bevuta terapeutica e si era pure ingiunto d’iniziare a fumare sigarette, nella speranza di aumentare le quotazioni all’interno delle classifiche di gradimento stilate dai contemporanei. Ma il sogno di raggiungere un livello di approvazione tale da permettergli di demolire il muro di diffidenza che cingeva il gotha studentesco, si era rivelato fin da subito utopistico: l’ingresso nel jet-set dei viziosi era stato un fiasco assoluto.

Tutto era accaduto presso un pub sui Navigli, un ampio locale arredato con tavolacci di legno sfregiati da incisioni di ogni genere e pervaso da una costante penombra color pergamena. Era la prima volta che i coetanei lo invitavano a condividere un tipico mercoledì sera universitario, pertanto lui aveva risposto alla chiamata, con l’intenzione di onorare la possibilità concessa mimetizzandosi tra la bolgia di giovani armati di boccali. Il programma era semplice: raggiungere una nota discoteca dopo essersi sbronzati, rabboccare i livelli di alcol presente nel

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sangue, dimenarsi fino alla chiusura della popolare balera, uscire all’aria aperta per ripristinare anche la quota sistemica di nicotina e raggiungere un chiosco per giocarsi il fegato grazie a un panino messo a scaldare su una piastra trasudante grasso.

Qualcosa però era andato storto. La serata si era già conclusa nel corso della prima fase.

Ad appena la metà della media chiara di esordio, Sebastiano aveva incominciato a provare diverse sensazioni sconosciute, sintetizzabili in un benessere generalizzato, un assoluto menefreghismo nei confronti del giudizio altrui e una strabiliante tendenza a straparlare. Inizialmente, la personalità nuova di zecca aveva provocato nei presenti incredulità mista con un sottile diletto, poi – man mano che l’ubriachezza capricciosa prendeva il sopravvento – la delizia si era tramutata in disagio unito a un discreto fastidio e, alla fine, in repulsione cronica per il poveretto che non reggeva l’alcol e che, alle undici di sera, se ne stava sdraiato sopra il tavolo di una birreria a sparare boiate. L’apice lo aveva raggiunto quando, una volta fuori del locale, dopo avere tentato di farsi una sigaretta dando fuoco al filtro, aveva

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iniziato a vomitare in piedi divenendo il corrispettivo umano di un irrigatore per aiuole. Naturalmente l’esperienza aveva messo la parola fine ai sogni di gloria, ma dalla serata aveva ricavato un tornaconto essenziale.

Una volta terminato lo spettacolo, il branco aveva deciso di abbandonare al suo destino l’anello debole, rinunciando contestualmente alla presenza della persona che da alcuni mesi era stata eletta autista ufficiale. Lo chauffeur in questione, una ragazza secca, slanciata, con un viso radioso e due trampoli da indossatrice, rispondeva al nome di Milena Cardelli ed era stata l’unica componente del gruppo a esprimere seria preoccupazione per la sorte dello strano esemplare di maschio insofferente a Bacco. A seguito di una rapida votazione, gli altri membri avevano acconsentito a che lei restasse in compagnia del rompiscatole. Infine, grazie a un ulteriore suffragio estemporaneo, era stato nominato il pilota sostituto, il quale aveva accolto la novità a suon di moccoli che avevano risalito la blanda corrente del canalone milanese.

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Rimasto solo con Milena, tra un capogiro e l’altro aveva scoperto che era una persona dolce, ironica ed estremamente riservata, la quale amava starsene per conto proprio, che si sforzava di socializzare per non venire emarginata e che aveva ottenuto l’iscrizione al circolo intellettuale grazie a tre qualità fondamentali: era astemia, munita di patente e altruista per natura. Così, contro ogni pronostico, Sebastiano aveva fatto la conoscenza di colei che sette anni dopo sarebbe diventata sua moglie.

Centro al primo colpo.

Oltre alla consorte, amava molto anche andare a pesca; proprio alla preparazione dell’attrezzatura si stava dedicando quella domenica mattina.

«Amore, ricorda che devi portare Luca dai tuoi!»

La voce di Milena lo prelevò temporanea-mente dall’universo parallelo fatto di mulinelli, lenze, esche siliconiche e pasture, in cui si era avventurato intorno alle cinque e mezzo di mattina in pieno sogno. Sebastiano avrebbe desiderato una famiglia più che numerosa, alla peggio una squadra di calcetto completa di riserve, tuttavia il

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destino aveva deciso diversamente, regalando loro Luca con parecchio ritardo sulla tabella di marcia. Oltre a ciò la gestazione era stata problematica, estenuante, tanto che in un paio di occasioni avevano temuto di non poter ammirare la nascita dell’attesissimo figlio. Da lì la decisione di rivedere il progetto in maniera drastica, evitando di sfidare ulteriormente il Fato per poi scoprire che si trattava di un dio permaloso e sadico; ben presto avevano realizzato che l’unico erede era riuscito a riempire le loro vite come non avrebbe saputo fare nemmeno un intero plotone di marmocchi.

Luca aveva compiuto da poco cinque anni. Si trovava ancora nella fase straordinaria in cui i bambini riescono a disorientare qualunque adulto grazie alla semplice, incantevole presenza. Lui e Milena, dopo lunghe e proficue conversazioni estive sul balcone della cucina – sprofondati nelle poltrone di vimini con una caraffa di limonata fresca ad arredare il tavolino – erano giunti alla conclusione che, lo spiazzante nonché in apparenza eterno candore del rampollo, avrebbe intrapreso la parabola discendente con l’inizio delle

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elementari; la scuola dell’obbligo sarebbe riuscita a danneggiarne l’innocenza, dando avvio al processo irreversibile che avrebbe trasformato il cucciolo immacolato in un comune adulto potenzialmente scurrile, egoista, saccente, sregolato e lamentevole.

Ma di quello si sarebbe preoccupato l’anno venturo poiché, per il momento, Luca era uno splendore di bambino: sarebbe stato folle non beneficiare di ogni suo singolo respiro. Certo, ancora non riusciva ad apprezzare l’antica arte della pesca sportiva, anzi, Sebastiano credeva che in qualche maniera il piccolo provasse un germoglio di repulsione per il passatempo che tanto entusiasmava lui, ma tra qualche anno si sarebbe redento e il passaggio di consegne padre-figlio perfezionato.

Sorrise nell’infilare la scatola degli ami all’interno della ‘cassetta degli attrezzi’, sicuro che in verità Luca non avrebbe mai gradito acchiappare pesci con un bastone: ci si nasceva, con certe attitudini. Ma il bello di una passione era tentare di trasmetterla a qualcun altro, in particolar modo a un familiare. Oppure no? Era piuttosto preferibile godersela in solitaria, quasi fosse

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la formula dispensatrice di felicità a prezzi abbordabili? Decise che avrebbe affrontato più avanti anche quell’ulteriore dilemma.

«Hai sentito cosa ho detto?»

«Forte e chiaro!»

Sebastiano si allontanò dallo studiolo per verificare a che punto fosse giunta la vestizione del piccolo. Nel tempo del tragitto rifletté su quanto fosse fortunato. Aveva un figlio notevole (una perfetta fusione dei cromosomi messi a disposizione dallo e dello Scultore Anonimo), una moglie amorevole e comprensiva, un lavoro realizzante e un hobby a cui non aveva dovuto rinunciare in cambio delle suddette provvidenze.

«Tutto bene, Luca?»

«Sì, papà.»

Lo scricciolo stava trafficando con i lacci delle scarpe da ginnastica, ma lui si guardò bene dall’offrirgli una consulenza, perlomeno fino a quando gli fosse stata richiesta attraverso una parola, uno sguardo inequivocabile, un mento tremolante. Luca aveva iniziato a vestirsi da solo all’età di tre anni e mezzo, ma il nodo lo aveva appreso di recente e, come per tutte le novità di rilievo, ne aveva fatta una questione di onore;

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dignità che non poteva essere macchiata dall’intervento scriteriato di un genitore soprappensiero.

«Papààà… Non ci riesco!»

Lui si avvicinò trattenendo un sorriso, si piegò sulle ginocchia, sbrogliò la matassa e, simulando la corretta dose di distacco, provvide a quanto le piccole mani inesperte del figlio non erano riuscite a realizzare.

«Ce l’avevi praticamente fatta, sai? Queste stringhe sono parecchio ostiche, anch’io faccio una gran fatica per farmi ubbidire.»

La testa del bimbo, piegata nell’atto di rimirarsi il maglione, si sollevò con prontezza.

«Davvero?»

«Garantito. Domani, tornando dal lavoro, te ne comprerò un altro modello. Adesso però fila a indossare la giacca: dobbiamo fare in fretta.»

«Ma è domenica!»

«Lo so, però i ritardi sono malvisti anche nel fine settimana. Quando sarai grande, capirai.»

Lo aveva fatto di nuovo. Per quanto si fosse ripromesso di rivedere e correggere tutto ciò

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che era stato scritto in materia di pedagogia, appena il piccolo aveva compiuto due anni, si era messo ad agire e pontificare esattamente come i suoi. Allorché la situazione si faceva ardua o il tempo tiranno, frasi come ‘quando sarai grande capirai’ erano tra le più gettonate, in definitiva un must. E funzionavano. Luca era scattato verso la cassapanca, sulla quale venivano regolarmente adagiati giubbotto, guanti e sciarpa gigante. Come conseguenza diretta lui aveva guadagnato secondi preziosi, se non addirittura minuti. Magari i manuali non andavano riscritti in toto, piuttosto necessitavano di una rinverdita, qualche piccola modifica qua e là, giusto per stare al passo con i tempi. Dopotutto cosa poteva importare a un bambino di nemmeno sei anni se il proprio eventuale ritardo rischiasse di turbare la programmazione di un grappolo di adulti?

Che esca mi converrà utilizzare per trarre in inganno il maggior numero di trote?

«Qui qualcuno sta sognando a occhi aperti!»

Milena lo sottrasse per la seconda volta al mondo alternativo, una sorta di ‘Waterworld’

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al contrario dove gli unici sopravvissuti erano novelli Sampei Nihira e la terra promessa un gigantesco bacino naturale, all’interno del quale i pesci di acqua dolce si riproducevano all’infinito.

«Si tratta di un incubo, amore. Più passano gli anni, più somiglio al mio vecchio. Non solo fisicamente parlando.»

«Non mi sembra tutta questa tragedia. È il tipico uomo che ogni donna sana di mente vorrebbe sposare.»

«Lo so. Difatti, a parte il discorso ‘pancetta’, non mi spiace assomigliargli. È che speravo di non ripeterne certe gesta.»

Milena gli gettò le braccia al collo, sorridendo.

«Stai per caso entrando in crisi di mezza età?»

«Perché, signora Nai: stanotte le sono sembrato un uomo in difficoltà?»

«Mah, non saprei. Forse un po’ in debito di ossigeno nell’affrontare la salit…»

«Cosa?» la interruppe, simulando uno sguardo truce, prima di appoggiarle un bacio sulle labbra scarlatte.

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«Lo so che avresti voluto rivoluzionare le teorie della puericultura,» proseguì lei in tono divertito «ma ogni tanto qualche luogo comune ci è concesso, se è a questo che ti riferivi. Serve per tirare un poco il fiato; se assecondassimo Luca in tutto e per tutto, tempo sei mesi e si trasformerebbe in uno psicopatico alla ricerca delle certezze dentro al cassetto delle posate. Noi invece inizieremmo a sentire le voci: hai presente Giovanna d’Arco? Il vero peso ce l’hanno altri tipi di ‘imprese’ e mi pare tu te la sia sempre cavata bene!» lo consolò voltandosi verso il loro unico figlio, che stava litigando selvaggiamente con la cerniera lampo del giaccone. Lui non riuscì a contenere un secondo sorriso.

«Serve una mano, piccolo uomo?»

«No. Grazie, papà.»

Sua moglie aveva ragione. Avevano fatto un lavoro egregio, ottenendo un esemplare di ragazzino dolce, all’occorrenza risoluto e soprattutto educato.

«Adesso sarà meglio che andiate» li richiamò all’ordine Milena. Sebastiano diede una scorsa all’orologio. Erano le dieci meno cinque e i nonni abitavano a circa venti

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minuti di macchina; da lì gli sarebbe occorsa un’altra mezz’ora per raggiungere la cava e immergersi a pieno titolo nella pace. Nel frattempo il bambino era riuscito ad avere la meglio sul giubbetto facinoroso. La madre si avvicinò per fasciargli il collo con la sciarpa; lui li contemplò per l’ennesima volta, chiedendosi se in una vita precedente fosse stato una specie di benefattore, per meritarsi tutto ciò. Gli occhi gli s’inumidirono appena di consapevole gratitudine nei confronti dello Scultore Anonimo, che a quanto pareva lo aveva scelto tra tanti per manifestare la celeste benevolenza.

«Va bene, tesoro, direi che adesso sei bardato a dovere: da’ un bacio alla mamma e usciamo di qui.»

Il bimbo obbedì prontamente e Sebastiano, quando giunse il proprio turno, lo emulò di slancio.

«Ci vediamo intorno alle cinque. Hai cambiato idea rispetto ai programmi odierni?» domandò a Milena, infilando la chiave nella toppa.

«No, per carità. Silvia è la migliore delle amiche, però un’altra giornata passata a ricamare sulla bellezza dei monumenti

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visitati nell’ultimo viaggio non potrei reggerla. Approfitterò dell’assenza dei miei uomini per dedicarmi a una popolana dormita: ai faraoni ci penserò un’altra volta.»

«Sono d’accordo con te. Per qualsiasi cosa chiamami sul palmare. Ricorda che il sito della cava è memorizzato tra i preferiti.»

«Che cosa ci fate ancora qui? Sciò!»

La donna rivolse gli occhi al cielo, li spinse fuori di casa e chiuse la porta ridacchiando.

Contrariamente al solito, Luca rimase in silenzio per quasi tutto il tragitto. Sebastiano cercò di coinvolgerlo in un paio di conversazioni, ma il bimbo appariva riluttante a mettere in fila più di tre parole per volta.

«Sei taciturno, oggi.»

Ulteriore silenzio in risposta all’approccio diplomatico.

«Lo sai che la nonna ti cucinerà le lasagne?»

Lieve cenno di assenso.

«Hai per caso male alla gola, tesoro?»

«No-no, papà.»

Lui chiuse gli occhi per un istante e sospirò. Da quando il figlio era stato

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sottoposto a tonsillectomia, Sebastiano collegava ogni singola alterazione del suo comportamento all’operazione subita un mese e mezzo prima. In realtà l’intervento chirurgico si era concluso nel migliore dei modi e la convalescenza era stata breve ed esente da contrattempi. Ciò nonostante, sia lui, sia Milena avevano notato che, da quando era stato sotto i ferri, il piccolo aveva iniziato a incappare in cambiamenti di umore bruschi e repentini. Sebastiano era convinto che l’esperienza avesse scalfito la sfera d’invulnerabilità che lo circondava fin dalla nascita, grazie alla quale poteva correre rischi all’incirca fatali per un adulto uscendone miracolosamente illeso. La moglie si diceva invece convinta che tali episodi esprimessero il progressivo sviluppo della personalità del bambino, con tutte le sfaccettature del caso.

Quasi certamente la verità stava nel mezzo, ma Sebastiano viveva un moderato e costante senso di colpa, provocato dal fatto che anche lui durante l’infanzia aveva sofferto di cagionevolezza cronica causata dalle tonsille. In sala operatoria era però giunto alla veneranda età di trent’anni e l’esperienza clinica lo aveva segnato;

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l’intervento era terminato al mattino e la sera lo stavano riportando indietro per chiudere un’emorragia scaturita nello stesso punto. I successivi quattro giorni li aveva passati sputando saliva mista a sangue e bevendo gelati sciolti.

Dato il precedente infelice, nel momento in cui il pediatra aveva prospettato l’eventualità d’intervenire chirurgicamente anche su Luca, Sebastiano aveva insistito affinché il figlio si sottoponesse all’operazione il prima possibile, onde scongiurare i disturbi che avevano afflitto lui. Ora però, quando lo vedeva meditabondo, si convinceva di avere sbagliato a valutare; forse sarebbe stato meglio che sopportasse qualche sporadica tonsillite, almeno fino a quando il disturbo si fosse trasformato in qualcosa di limitante, piuttosto che affrontasse un intervento, benché di routine.

«C’è qualcosa che ti preoccupa?»

Finalmente Luca si voltò.

«Sto pensando ad Ale.»

Alessandro era il compagno di giochi prediletto, il solo e unico socio.

«Ti rattrista pensare a lui?»

«No… cioè, sì.»