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TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA 144 [ XIII ] LA SESSUALITÀ “AD IMMAGINE” E I POSSIBILI SIGNIFICATI E RISVOLTI DELL’ASIMMETRIA FRA GENERI ( A ) LA QUESTIONE DELLASIMMETRIA TRA GENERI Dopo la Ordinatio Sacerdotalis 14 [OrdSac] è necessario ripensare il pro- blema dell’ordinazione sacerdotale da riservare ai soli uomini 15 . In questo contributo, “uomo” si intenderà sempre al maschile (nel senso di “vir”); per il resto si parlerà di “persona umana” o di “essere umano” (nel senso di “homo”). A tale proposito, infatti, la lettera apostolica ha voluto dirimere solo la questione della certezza di tale riserva, individuandone il motivo per noi nella ininterrotta tradizione della Chiesa, senza però affrontare la questione più pro- fonda del motivo in sé e del senso teologico di tale riserva 16 : del resto, troppo spesso in passato si erano addotti motivi fondati su pregiudizi culturali e quindi non più sostenibili. 14 GIOVANNI PAOLO II, lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, del 22 maggio 1994; te- sto pubblicato (con annessa nota di presentazione) dall’«Osservatore Romano» del 30- 31.5.1994; riportato da «Il Regno - Documenti» 1994, p. 385-387; ufficialmente pubblicato in AAS 1994, p. 545-548. Il cardinal Joseph RATZINGER, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha scritto un autorevole commento alla lettera, pubblicato dall’«Osservatore Romano» dell’8.6.1994 e riportato da «Il Regno - Documenti» 1994, p. 387-390. 15 Per la trattazione più recente del problema dell’ordinazione delle donne (fino a quando era quaestio disputata) cf gli atti del IV Colloquio dell’Istituto «Costanza Scelfo Barberi» per i problemi dei laici e delle donne nella Chiesa: Cettina MILITELLO (ED.), Donna e Ministero. Un dibattito ecumenico, Dehoniane, Roma 1991; in particolare: Pietro SORCI, Ministeri litur- gici della donna nella Chiesa antica, p. 17-96 [fa il punto sullo status quaestionis, tra l’altro discutendo le due posizioni di Vagaggini e di Martimort a proposito della natura del diaco- nato femminile antico]; Kari Elisabeth BØRRESEN, L’ordinazione delle donne: una questione aperta. Come alimentare la tradizione mediante una continua inculturazione, p. 245-263; Hervé LEGRAND, Traditio perpetuo servata. La non-ordinazione delle donne: tradizione o semplice fatto storico? Alcune osservazioni metodologiche, p. 205-244. Cf anche M. José ARANA (ED.), El sacerdocio de la mujer, San Esteban, Salamanca 1993. Una posizione critica sull’ammissibilità delle donne prete (per incongruità col “simbolo del Cristo Capo e Sposo”) era espressa invece da Janine HOURCADE, Des femmes prêtres?, Mame, Tournai 1993; cf p. 187: «Essere cristiano è più importante che essere prete, vescovo, o persino papa». 16 La Nota di Presentazione dice che la Ordinatio sacerdotalis «potrà offrire l’opportunità di approfondire da parte di tutti i cristiani la comprensione dell’origine e della natura teologica del ministero episcopale e sacerdotale conferito con il sacramento dell’ordine».

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TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA144

[ XIII ] LA SESSUALITÀ “AD IMMAGINE”

E I POSSIBILI SIGNIFICATI E RISVOLTIDELL’ASIMMETRIA FRA GENERI

( A ) LA QUESTIONE DELL’ASIMMETRIA TRA GENERI

Dopo la Ordinatio Sacerdotalis14 [OrdSac] è necessario ripensare il pro-blema dell’ordinazione sacerdotale da riservare ai soli uomini15.

In questo contributo, “uomo” si intenderà sempre al maschile (nel senso di“vir”); per il resto si parlerà di “persona umana” o di “essere umano” (nel senso di“homo”).

A tale proposito, infatti, la lettera apostolica ha voluto dirimere solo laquestione della certezza di tale riserva, individuandone il motivo per noi nellaininterrotta tradizione della Chiesa, senza però affrontare la questione più pro-fonda del motivo in sé e del senso teologico di tale riserva16: del resto, troppospesso in passato si erano addotti motivi fondati su pregiudizi culturali e quindinon più sostenibili.

14 GIOVANNI PAOLO II, lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, del 22 maggio 1994; te-

sto pubblicato (con annessa nota di presentazione) dall’«Osservatore Romano» del 30-31.5.1994; riportato da «Il Regno - Documenti» 1994, p. 385-387; ufficialmente pubblicato inAAS 1994, p. 545-548. Il cardinal Joseph RATZINGER, prefetto della Congregazione per ladottrina della fede, ha scritto un autorevole commento alla lettera, pubblicatodall’«Osservatore Romano» dell’8.6.1994 e riportato da «Il Regno - Documenti» 1994, p.387-390.

15 Per la trattazione più recente del problema dell’ordinazione delle donne (fino a quandoera quaestio disputata) cf gli atti del IV Colloquio dell’Istituto «Costanza Scelfo Barberi» peri problemi dei laici e delle donne nella Chiesa: Cettina MILITELLO (ED.), Donna e Ministero.Un dibattito ecumenico, Dehoniane, Roma 1991; in particolare: Pietro SORCI, Ministeri litur-gici della donna nella Chiesa antica, p. 17-96 [fa il punto sullo status quaestionis, tra l’altrodiscutendo le due posizioni di Vagaggini e di Martimort a proposito della natura del diaco-nato femminile antico]; Kari Elisabeth BØRRESEN, L’ordinazione delle donne: una questioneaperta. Come alimentare la tradizione mediante una continua inculturazione, p. 245-263;Hervé LEGRAND, Traditio perpetuo servata. La non-ordinazione delle donne: tradizione osemplice fatto storico? Alcune osservazioni metodologiche, p. 205-244. Cf anche M. JoséARANA (ED.), El sacerdocio de la mujer, San Esteban, Salamanca 1993. Una posizione criticasull’ammissibilità delle donne prete (per incongruità col “simbolo del Cristo Capo e Sposo”)era espressa invece da Janine HOURCADE, Des femmes prêtres?, Mame, Tournai 1993; cf p.187: «Essere cristiano è più importante che essere prete, vescovo, o persino papa».

16 La Nota di Presentazione dice che la Ordinatio sacerdotalis «potrà offrirel’opportunità di approfondire da parte di tutti i cristiani la comprensione dell’origine e dellanatura teologica del ministero episcopale e sacerdotale conferito con il sacramentodell’ordine».

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In effetti, il motivo quanto a noi determinante di tale dottrina è datodall’intenzione del Signore così come è accennata dalla Scrittura (nel racconto dicome Gesù dopo aver pregato «chiamò quelli che volle» [Mc 3,13; cf Mt 10,1-4 eLc 6,12-16; OrdSac 2] per costituirli apostoli), è stata interpretata dalla tradizioneininterrotta di non ordinazione sacerdotale delle donne, ed è infine stata riconosciutadal magistero; solo da questo concorso [cf OrdSac 1] si può trarre la certezza [cfDei Verbum 9-10] che l’ordinazione sacerdotale per diritto divino e immutabile è dariservare ai soli uomini. Invece, eventuali altri tentativi di motivazione sarebberopertanto arbitrari (e non a caso, la lettera evita accuratamente di addurre altri argo-menti anche scritturistici un tempo adoperati, perché riconosciuti come contingenti ocomunque non cogenti).

Bisogna notare che la lettera apostolica parla di “ordinazione sacerdotale”(ovvero presbiterale ed episcopale) piuttosto che di “ordinazione” o di “mini-stero” simpliciter (lasciando così aperto il discorso sul diaconato femminile);inoltre dichiara che l’ordinazione sacerdotale è da “riservare ai soli uomini” enon che ne sono da “escludere le donne” (presentando così la prassi vigentenon come la limitazione di un diritto, ma come il risultato di una scelta, e pre-sentando di conseguenza il sacerdozio ministeriale non come un incarico deci-sionale [“decision-making-power”]17, ma come un ministero sacramentale);inoltre la lettera non contiene una “nuova definizione dogmatica”, ma una“dichiarazione” che, pur non riguardando propriamente un oggetto di fede,tuttavia «attiene alla divina costituzione stessa della Chiesa» [OrdSac 4]18.

Data la novità della forma, fra gli stessi teologi non è unanime la valuta-zione della certezza magisteriale di tale dichiarazione, neanche dopo il respon-so della Congregazione per la dottrina della fede, che ne asserival’infallibilità19; comunque sia, compito del teologo non è di cambiare i dati del

17 Cf RATZINGER, art. cit.18 La lettera apostolica in questione, adottando una modalità inedita, propriamente non

definisce ex novo tale interpretazione, ma dichiara a scanso di ulteriori equivoci che essa erastata già definita in precedenza, rilevandone il carattere costitutivo e non semplicemente di-sciplinare e ponendo così fine al dibattito in proposito: «dichiaro [«declaramus»] che la Chie-sa non ha in alcun modo il potere [«facultatem nullatenus habere»] di conferire l’ordinazionesacerdotale alle donne e che tale sentenza dev’esser tenuta definitivamente [«esse definitivetenendam»] da tutti i fedeli della Chiesa». Un richiamo implicito è all’affermazione tridenti-na, ripresa da Pio XII, sull’impossibilità della Chiesa ad intaccare la «sostanza dei sacramen-ti» [cf DS 1728 e 3857].

19 Il dibattito sulla Ordinatio sacerdotalis ha attraversato più fasi [per una sintetica pano-ramica, cf Giovanni MARCHESI, La recente documentazione sul sacerdozio alle donne, in «LaCiviltà Cattolica» 1996/1, p. 484-493; Marcello MATTÉ, Ordinatio sacerdotalis. I dubbi e gliargomenti, in «Il Regno - Attualità» 1996, p. 80-82]. Se da una parte il Prefetto della Congre-gazione per la dottrina della fede, Joseph RATZINGER, ne aveva affermato fin dall’inizio l’irre-formabilità [cf art. cit.], dall’altra Bernhard HÄRING in una nota [tradotta e riportata in «IlRegno - Documenti» 1994, p. 391] vi riconosceva solo una obbligatorietà disciplinare per ilmomento; l’incertezza derivava dal fatto che «nessuna dottrina si intende infallibilmente de-finita se ciò non consta manifestamente» [can. 749 §3], e la dottrina della riserva maschile delsacerdozio ordinato non è mai stata formalmente definita come infallibile. Per questo, il 28

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problema, ma di elaborare i dati che riceve dalla rivelazione, mediante la tradi-zione e in obbedienza al magistero, al fine di interpretarli e sistematizzarli. Inquesto studio, presupponendo come dato che la riserva maschile del-l’ordinazione sacerdotale vada ricondotta ad una scelta divina, si cercherà sepossibile di capirne il motivo in sé e soprattutto di scoprirne il senso per laChiesa.

Sebbene la connessione non sia automatica, si nota però una certa analogia frala scelta del Verbo di incarnarsi al maschile e la scelta del Verbo incarnato di chia-mare come apostoli solo uomini. La lettera apostolica nota infatti che essi «sonostati specialmente e intimamente associati alla missione dello stesso Verbo incarna-to» [OrdSac 2]. In ogni caso bisognerebbe però cercare il motivo dell'incarnazioneal maschile. Curiosamente, la teologia recente non ha dibattuto molto su questo se-condo problema, come invece ha fatto per il problema della riserva maschile del sa-cerdozio ordinato: forse perché, essendo inevitabile che incarnandosi il Verbo do-vesse scegliere un sesso piuttosto che l’altro, la scelta non appariva discriminatoria.

Intraprendo questa ricerca con un atteggiamento ambivalente: da unaparte, infatti, come fedele laico, contento di essere tale e convinto di poter vi-vere in tale stato la pienezza del mio esser cristiano, sono sempre stato tiepidonei confronti della richiesta delle donne di accedere al sacerdozio ministeriale;e d’altra parte, condizionato dalla formazione filosofica e quindi amante ottobre 1995 la Congregazione per la dottrina della fede emanava un responso “ad dubium”,corredato di commento teologico [pubblicati entrambi il 19 novembre su «L’OsservatoreRomano»; anche su «Il Regno - Documenti» 1995, p. 690-692]: la dottrina proposta dalla Or-dinatio sacerdotalis «esige un assenso definitivo» in quanto «proposta infallibilmente dalmagistero ordinario e universale» e quindi «appartiene al deposito della fede». In effetti, ilmagistero infallibile della Chiesa può essere esercitato non solo in modo solenne (medianteuna definizione ex cathedra del Sommo Pontefice o una dichiarazione definitiva del Collegioepiscopale riunito in Concilio ecumenico), ma anche in modo ordinario e universale (o conatto collegiale promosso o recepito dal Sommo Pontefice, o anche con la semplice conver-genza dei vescovi dispersi nel mondo ma in comunione fra loro e col Sommo Ponteficenell’insegnare una dottrina come definitiva, pur senza bisogno di una definizione formale) [cfLumen Gentium 25]. Quest’ultimo è il caso della dottrina in questione. Ma anche questo re-sponso ha suscitato un dibattito. Hans KÜNG [in trad. it. su «ADISTA» 23.12.1995, p. 2-5]criticando i critici della dichiarazione magisteriale, che ritiene formalmente ineccepibile unavolta ammessa l’infallibilità del magistero ecclesiale straordinario e ordinario, attacca perciòcome di consueto quest’ultima. Al contrario Bernhard HÄRING [trad. it. in «ADISTA»3.2.1996, p. 2-3] pur ammettendo l’infallibilità del magistero (nei limiti però della tradizio-ne), ritiene che il presente tentativo di definizione infallibile sia caduto nel nulla: sia per laforma, perché secondo lui fuori di questi limiti, sia per il contenuto, perché «non trattandosidi una verità di salvezza, cade anche il discorso di una possibile dogmatizzazione». Più sfu-mata e articolata è la posizione di Francis A. SULLIVAN, che ha pubblicato [su «America» del9.12.1995; trad. it., La strada della tradizione, in «Il Regno - Documenti» 1996, p. 312-313]un conciso ma rigoroso commento “tecnico” alla vicenda: dato che la Ordinatio sacerdotalisnon ha inteso definire ex cathedra la dottrina, ma solo richiamare il magistero ordinario euniversale, egualmente infallibile, del Collegio dei vescovi, occorrerebbe accertare se effetti-vamente il collegio è unanime nell’insegnare come infallibile questa dottrina; inoltre, il re-sponso della Congregazione che dichiara l’infallibilità della dottrina proposta dalla Ordinatiosacerdotalis, ancorché approvato dal papa, non gode di per sé del crisma dell’infallibilità.

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dell’ordine razionale e simmetrico, sono anche sempre rimasto perplesso delloscandalo dell’asimmetria che con la riserva ai soli uomini si veniva a verificarenell’ordinamento ecclesiale. Compito di questa riflessione sarà dunque di cer-car d’interpretare teologicamente tale prassi, risalendo ai fondamenti teologicidel rapporto fra i generi (femminile e maschile) e cercando in particolare di“dar ragione” dello “scandalo” dell’asimmetria che si verifica fra di essi, e chesembra precludere la vera equivalenza di diritti e doveri fra donne e uomini20.

( B ) IL FONDAMENTO TEOLOGICO DELLA DISTINZIONEE DEL RAPPORTO SIMMETRICO E ASIMMETRICO FRA I GENERI

§ 25. «Dio è amore» [1Gv 5,16], ma non amore sponsale, che è reso possi-bile solo “dopo” la creazione, mediante la differenziazione dei generi.

L’amore sponsale è reciproco, mentre in Dio le relazioni trinitarie nonpossono essere invertite e quindi non sono reciproche: il marito è sposato allamoglie e la moglie è sposata al marito [cf Ct 6,3]; viceversa, il Padre genera ilFiglio, ma non è generato da lui; il Padre e il Figlio spirano lo Spirito Santo,ma non sono spirati da lui. Neanche il mutuo amore fra Padre e Figlio, nellaprocessione dello Spirito Santo, è amore sponsale.

In Dio abbiamo così una distinzione per così dire verticale fra paternità,filiazione e spirazione, ma non una distinzione per così dire orizzontale tra ma-schilità e femminilità.

Difatti nella Scrittura Dio si rivela sia come Padre sia (sebbene più rara-mente) come Madre [cf Is 49,15; Sal 130,2]; il Figlio eterno, poi, è rivelato bi-blicamente sia al maschile, come Logos [cf Gv 1,1], sia al femminile, comeSofia [cf Sap 7,22-30 alla luce di Eb 1,1-3; Sir 24,1-9 alla luce di Gv 1,1-14], epersino il Figlio incarnatosi al maschile come Sposo [cf Gv 3,29] si presentauna volta addirittura come Chioccia [cf Mt 23,37]); infine, lo Spirito Santonelle diverse tradizioni e traduzioni può simbolicamente assumere caratte-ristiche femminili, neutre e maschili (Ruah, Pneuma, Spiritus)21.

20 Cf Kari Elisabeth BØRRESEN, Subordination et équivalence. Nature et rôle de la femme

d’après Augustin et Thomas d’Aquin, Oslo - Paris 1968; trad. it.: Natura e ruolo della donnain Agostino e Tommaso d’Aquino, Cittadella, Assisi 1979 (cf in particolare la premessa e laconclusione). L'autrice non ammette la possibilità di una asimmetria che non sia discriminato-ria.

21 Cf Angelo AMATO, Paternità-Maternità di Dio. Problemi e prospettive, in AngeloAMATO (ED.), Trinità in contesto, LAS, Roma 1994, p. 273-296 [con bibliografia scelta; esa-mina in particolare le proposte di Leonardo Boff, Walter Kasper, Claude Geffré, JürgenMoltmann, Giovanni Paolo I]; Jean GALOT, L'Ésprit Saint et la féminité, in «Gregorianum»1995, p. 5-29 [riporta le posizioni di Leymonnier, Congar, Manaranche, Durrwell, Gelpi, E-vdokimov; afferma la trascendenza delle persone increate rispetto alla sessualità, ma ritieneche, ad esempio, chiamare Dio come Padre sia meno sessista che chiamarlo Madre; solo Ma-ria è Madre].

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Notiamo che la proposta di chi (come Boff) vuole trovare il principio della femminilitànella persona dello Spirito Santo è inaccettabile per due motivi: in primo luogo perché si fini-rebbe con l’affermare (sovvertendo la dogmatica trinitaria) che lo Spirito Santo sia la Madreceleste di Gesù; e in secondo luogo perché si misconoscerebbe che tutte e tre le divine perso-ne possiedono la pienezza e la coincidenza di maschilità e femminilità (analogamente intese).Giuliana di Norwich scrive, nel suo Libro delle rivelazioni, di aver visto che «Dio è contentodi essere nostro padre, e Dio è contento di essere nostra madre, e Dio è contento di essere ilnostro vero sposo, e l’anima la sua amata sposa», e che «la nostra vita è fondata sulla nostravera madre Gesù» 22. In altre parole, per Giuliana, le persone divine sono simboleggiate tantoal maschile quanto al femminile e la relazione fra Dio e anima è simboleggiata dalla relazionefra sposo e sposa.

È la creazione ad introdurre nel reale la differenza («Dio separò la lucedalle tenebre» e «le acque dalle acque» [Gen 1,3.6]) e quindi la diade(metafisica), che trova la sua suprema espressione nella distinzione di maschi-lità e femminilità dell’essere umano23.

Questa distinzione risponde anche ad esigenze filosofiche e religiose naturali.Si pensi ad esempio ai due principi (Yin e Yang) del Tao, simbolicamente intesi co-me maschile e femminile, che sono stati recentemente riproposti in chiave cosmolo-gica; oppure alla diade come principio metafisico tematizzato in particolare dallafilosofia platonica e neoplatonica, e ripreso in chiave creazionista dalla filosofiamedievale (si pensi alla dualità tommasiana di essere ed essenza).

Come con sole due cifre è possibile in un sistema binario (oppure conuna cifra e con la posizione) rappresentare la totalità dei numeri e delle in-formazioni, così la diade è in grado non solo di produrre ogni molteplicitàcreaturale e finita, ma anche di esprimere dialetticamente (per analogia econtrasto) l’infinita totalità del mistero di Dio.

Infatti, il mistero che «Dio è amore» è a noi comprensibile solo peranalogia con l’esperienza umana d’amore, tenendo però conto della differen-za, ancora maggiore: l’amore divino, infatti, è di quiete, per sovrabbondanza;l’amore umano, invece, deve essere di ricerca, per indigenza.

Così, la genitorialità divina (illimitata), «da cui prende nome ogni genito-rialità in cielo e in terra» [Ef 3,15], viene dunque riprodotta “ad immagine” [cfGen 1,27] (necessariamente deficiente) nell’essere umano (limitato) mediantelo sdoppiamento nella paternità-maschilità e maternità-femminilità: «Dio creòl’uomo, ad immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» [Gen 1,27; cfLXX]24.

22 GIULIANA DI NORWICH [+1416], Libro delle rivelazioni, ed. it. a cura di Domenico Pez-zini, Ancora, Milano 1984, rispettivamente 52 (p. 231) e 63 (p. 266).

23 Cf rispettivamente Fritjof CAPRA [The Tao of Physics, 1975; trad. it., Il Tao della Fisi-ca, Adelphi, Milano 1989]; Virgilio MELCHIORRE (ED.), L'Uno e i Molti, Vita e Pensiero,Milano 1990; in particolare, p. VII-XXI.

24 Per quanto riguarda l’interpretazione biblica, patristica e scolastica dell’imago Deinell’uomo e nella donna si vedano i classici studi di BØRRESEN [Subordination..., op. cit.] eElisabeth SCHÜSSLER FIORENZA [In Memory of Her. A Feminist Theological Reconstruction ofChristian Origins, Crossroad, New York 1988; trad. it.: In memoria di lei. Una ricostruzione

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Pertanto, l’amore divino, essendo trascendente, può creaturalmente essereespresso solo nella coincidenza paradossale di due termini per noi contrari nelloro genere: la giustizia (che è l’amore condizionato ed esigente, o, per così di-re, paterno: “ti amo tanto quanto tu corrispondi al mio amore”) e la misericor-dia (che è l’amore incondizionato ed accogliente, o, per così dire, materno: “tiamo comunque, qualunque cosa tu faccia”)25. L’identità umana differenziata infemminile o maschile (con la conseguente appartenenza a un genere) mostracosì all’essere umano che è mancante e bisognoso di completamento.

Per questo, l’immagine umana (naturalmente deficiente) per poter essereil più possibile somigliante all’archetipo divino deve integrare la dualità in unasuperiore, sebbene imperfetta, unità, giacché «non è bello che l’essere umanosia solo» [Gen 2,18 (cf LXX)]; tale unità, poi, trabocca anche per l’essereumano in una vera, sebbene imperfetta, trinità: quella di genitori e figli, unitinel comune spirito familiare (e non solo nella famiglia naturale, ma anche inogni comunità umana, strutturata a mo’ di famiglia).

Nella natura dei viventi, e soprattutto in quella umana, lo sdoppiamentodella genitorialità nella paternità-maschilità e maternità-femminilità è anchegaranzia di moltiplicazione e di sviluppo: infatti, da un punto di vista biologi-co, la generazione diadica (rispetto alla partenogenesi) favorisce, mediante loscambio del patrimonio genetico, l’evoluzione; e, da un punto di vista cultura-le, la conseguente regolamentazione dell’accoppiamento e della generazione(in primis con la proibizione dell’incesto e poi con l’intreccio di vincoli socialiper contemperare le esigenze di endogamia ed esogamia) consente la nascitadella civiltà e il suo progresso: per questo infatti sia l’uomo che la donna«lasceranno il padre e la madre» per «divenire una sola cosa» nuova [Gen2,24; cf Sal 44,11-12].

Deve far pensare che la diffusione della vita è resa possibile mediante la co-munione: la generazione (almeno nelle forme di vita superiori) avviene mediantel’accoppiamento; l’educazione umana è resa possibile da una comunità familiare esociale; ma anche a livello sovrannaturale la diffusione missionaria è dovuta ad unacomunione che trabocca per sovrabbondanza.

Insomma, la differenza sessuale è biologica e psicologica, ma le implica-zioni relazionali che ne derivano sono anche spirituali. La differenza biologicafra i due sessi porta infatti gli individui umani anche ad una differenziazione

femminista delle origini cristiane, Claudiana, Torino 1990]; si vedano anche i recenti studi diUmberto MATTIOLI (ED.), La donna nel pensiero cristiano antico, Marietti, Genova 1992; e diJoseph Frances HARTEL, Femina ut imago Dei. In the Integral Feminism of St. Thomas Aqui-nas, PUG, Roma 1993, riassunto in «Gregorianum» 1996, p. 527-547 (sembra però eccessivoparlare di femminismo di Tommaso).

25 Una descrizione divenuta ormai classica di questo duplice amore è data da ErichFROMM, nel suo fortunato volume L’arte di amare [1956; trad. it.: Il Saggiatore, Milano1963]. La logica dei simboli contrapposti per poter parlare meno inadeguatamente di Dio èstata tematizzata da DIONIGI [cf De divinis Nominibus 1 e Mystica Theologia 1-3].

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reciproca culturale: in altre parole, le differenze si accentuano mutuamente perspecularità. Questo spiega il motivo per cui la differenziazione dei ruoli ses-suali è sì culturale, ma fondata su un dato esistenziale: il percepirsi in un gene-re, in opposizione all’altro.

L’essere uomo e l’essere donna sono dunque complementari: non nelsenso che quel che ha l’uno non lo abbia l’altro (la donna infatti non è priva dimaschilità e l’uomo non è privo di femminilità), ma nel senso d’essere l’un perl’altro «un aiuto» (nella diversità) che però «sia simile» (nella identità) [cf Gen2,18].

Così anche si spiega il motivo per cui tale differenziazione culturale non èné rigida né statica, ma dinamica per mutua accentuazione e continua ridefini-zione in un sistema di relazioni: infatti, uomini e donne cambiano i loro com-portamenti tipici a seconda dei tempi e dei luoghi, ma sempre mantenendo unadifferenziazione reciproca fra loro.

L’essere umano, nascendo e crescendo in un genere, è educato a superarela propria solitudine ed incompletezza mediante la paritetica reciprocitàdell’amicizia, che trova il suo vertice nell’amore sponsale (biunivoco e tenden-zialmente esclusivo): «Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me» [Ct6,3].

§ 26. Dove c’è distinzione ci dev’essere anche ordine, ma l’ordine che si ri-scontra nelle distinzioni finite può essere simmetrico o asimmetrico.

Il nostro modo di essere, di conoscere e di parlare ci obbliga a“distinguere per unire” e cogliere ciò che in assoluto è Uno. In tal modo, le dif-ferenze finite (come quella sessuale) servono a rendere “sýmmetron” (ossiacommensurabile, perché finito) quello che in Dio è “asýmmetron” (ossia in-commensurabile, perché infinito). Poiché però il “sýmmetron” rinviaall’“asýmmetron”, i distinti all’interno del commensurabile perché ci sia armo-nia debbono essere reciprocamente ordinati non solo mediante un ordinamentosimmetrico (che è metodico e ripetitivo), ma anche mediante un ordinamentoasimmetrico (che è stravagante e innovativo). Ad esempio, non troviamo belloun insieme le cui parti ci appaiano o del tutto disordinate (senza alcuna sim-metria) o al contrario troppo simmetricamente ordinate. Ebbene, secondo unabella definizione di Pascal, «la simmetria consiste nel cogliere con un colpo d’occhio; essa è fondata sulfatto che non c’è motivo di fare diversamente; ed è fondata anche sulla figu-ra dell’uomo, ed è per questo che si vuole la simmetria soltanto in larghezza,ma non in altezza o in profondità»26.

26 Blaise PASCAL, Pensieri 28 (numerazione Brunschvicg); trad. it. di Gennaro Auletta

[Pensieri e altri scritti di e su Pascal, Paoline, Cinisello Balsamo 199010, p. 127]; le sottoli-neature sono mie.

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La simmetria consente cioè una percezione immediata caratterizzata dallanecessità piuttosto che dalla gratuità; è un modo di vedere incentratosull’uomo, e pertanto (anche in senso metaforico) non va in altezza e profon-dità, ma rimane nella dimensione dell’orizzontalità e non vale a penetrare dun-que nel mistero.

L’ordine razionale e naturale è simmetrico e ripetitivo: a parità di condi-zioni esige che si verifichi una parità di conseguenze; se pertanto si dà una di-versità, ci dev’essere una ragion sufficiente a determinarla; «quello che è statosarà, e quello che è stato fatto si rifarà: non c’è nulla di nuovo sotto il sole»[Qo 1,9]. L’ordine simmetrico, poi, caratterizza i rapporti fra uguali secondogiustizia: di equivalenza o parità, quando la giustizia fra uguali è rispettata; op-pure di discriminazione o indebita subordinazione, quando invece è violata.

L’ordine simbolico e liberale è asimmetrico e innovativo e caratterizza irapporti di libera elezione: tanto la bellezza quanto l’amore di donazione offro-no una gratuità inaspettata: «ecco, io faccio una cosa nuova» [Is 43,19]; e tut-tavia l’asimmetria, pur non essendo razionale, non per questo è irragionevole.

Le liberali e sovrannaturali scelte divine, anche se non razionali (ovvero nonrazionalmente dimostrabili), sono però ragionevoli: «sopra la ragione», ma «noncontro la ragione» secondo la terminologia di Locke; secondo Tommaso queste ve-rità che «superano del tutto la ragione» possono essere dimostrate solo in baseall’autorità [della Scrittura e della tradizione della Chiesa], mentre la ragione puòsolo (ma non è poco) mostrarne la probabilità (e quindi la coerenza) e di conseguen-za confutare le obiezioni in contrario 27.

L’ordine razionale e simmetrico ci è utile a risolvere un problema; masolo l’ordine asimmetrico vale a scoprire e mostrare quello che (per dirla conMarcel) è metaproblema e mistero.

Il Mistero cristiano è asimmetrico per eccellenza. L’asimmetria è infatti ilsegno della libera e gratuita scelta di Dio, che la creatura non può contestare:«Perché invidiate, o monti dalle alte cime, perché invidiate il monte che Dio hascelto a sua dimora?» [Sal 67,17].

Asimmetricamente Dio si riserva qualcosa o qualcuno o un popolo o so-prattutto un resto: e questo «perché rimanesse fermo il disegno divino fondatosull’elezione non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama» [Rm9,11].

Tale scelta è ordinariamente a favore del più povero o del più piccolo: co-sì infatti Dio «preferì Giacobbe e rigettò Esaù» [Ml 1,2-3; Rm 9,13; cf Gen25,23]; così scelse il popolo di Israele, che pure era «il più piccolo fra tutti ipopoli» [Dtr 7,7]; così scartò i sette fratelli maggiori per consacrare Davide [cf

27 Cf rispettivamente John LOCKE, Saggio sull’intelletto umano 4.17.23 nell’inter-

pretazione di Mario SINA, Introduzione a John LOCKE, Scritti filosofici e religiosi, Rusconi,Milano 1979, p. 51-54; e TOMMASO D’AQUINO, Contra gentes 1.9.

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1Sam 16,6-12]; in modo che, in generale, «il maggiore sia sottomesso al mino-re» [Gen 25,23; Rm 9,12].

§ 27. In virtù della creazione, del peccato, dell’incarnazione e della pienaredenzione, i rapporti fra i due generi possono essere di parità o equivalen-za (secondo l’ordine simmetrico), di disparità e subordinazione (control’ordine simmetrico), e di riserva ed elezione (secondo l’ordine asimmetri-co).

Se (come abbiamo visto) il senso della distinzione dei generi è la reci-procità, ne segue che, secondo il piano creativo di Dio, il rapporto fra i duesessi doveva essere simmetricamente paritetico: così infatti la tradizione in-terpreta il fatto che la donna fosse tratta dal “fianco” [cf Gen 2,21-22] e nondalla testa o dai piedi dell’uomo).

«Questo, in primo luogo a significare che fra uomo e donna dev’esserci comu-nione reciproca [«socialis coniunctio»]: infatti la donna né deve dominaresull’uomo, e perciò non fu formata dal capo, né deve essere dall’uomo disprezzata, eperciò non fu formata dai piedi; in secondo luogo, a motivo del sacramento, perchédal fianco di Cristo dormiente sulla croce fluirono i sacramenti, cioè il sangue el’acqua, da cui è costituita la Chiesa» 28.

La subordinazione della donna all’uomo (da lui «attratta» e«dominata») è invece un male strutturale derivante dal peccato originale [cfGen 3,16] e che va redento e superato nell’ordine della giustizia e della gra-zia.

In effetti, Gesù sancisce il principio della parità e reciprocità fra uomo edonna, a proposito dei doveri di fedeltà e indissolubilità coniugale [cf Mt 19,3-9]; analogamente, Paolo ribadisce tale principio a proposito del reciproco arbi-trio che un coniuge ha sull’altro [cf 1Cor 7,3-4].

Ciò nonostante, troviamo alcune importanti disparità fra uomini e donnenella Scrittura.

Non solo, infatti, la Scrittura parla di Dio prevalentemente al maschile,ma persino nel Nuovo Testamento si accettano alcune discriminazioni cultualie sociali nei confronti delle donne, come l’obbligo di portare il velo durante lapreghiera e di tacere nelle assemblee e il conseguente divieto di insegnare ecomandare [cf 1Cor 11,4-6; 14,34; 1Tm 2,11-12]; ciò nonostante, Paolo nonha difficoltà ad ammettere che si tratta di «usanze» tradizionali (e perciò stori-camente contingenti), da non disprezzare per il «gusto della contestazione» ein questo senso da «conservare» [cf 1Cor 11,2.16], ma dunque neanche da as-solutizzare, tanto più che «nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo

28 TOMMASO, Summa I, 92.3 co. Cf anche GREGORIO DI NISSA, De opificio hominis 16.

Una interpretazione accostabile a questa è attestata anche nella tradizione rabbinica, peresempio nel commento al passo in questione nella Berešit Rabbà.

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è senza la donna» [1Cor 11,11]. E tuttavia è interessantissimo esaminare e re-interpretare le motivazioni di queste disparità.

Il primo tipo di motivazione scritturale (espressa miticamente) per le di-sparità discriminatorie è che è stata la donna ad essere ingannata per prima [cf1Tm 2,14]; questa motivazione può essere da noi reinterpretata teologicamentecosì: che le discriminazioni derivano dal peccato.

Quando cioè la Scrittura dice che fu la donna ad essere ingannata, bisogna in-tendere che il peccato originale consiste appunto nel rifiuto dell’asimmetria, ovverodella libera scelta di Dio: l’esclusione dell’albero della scienza dal numero degli al-beri di cui si può mangiare il frutto appare erroneamente come immotivata ed arbi-traria. Il falso principio che sottostà al peccato è quello del “vado e prendo”. La gra-zia infatti non si “prende”: si accoglie.

Il secondo tipo di motivazione (espressa sempre miticamente) per le altredisparità è che la donna è stata creata da Dio «dopo l’uomo», «dall’uomo» e«per l’uomo», come «gloria dell’uomo» [cf 1Cor 11,3.8-9; 1Tm 2,13], mentreinvece l’uomo è stato creato per primo, ad «immagine e gloria di Dio» [1Cor11,7] e avendo come «Capo Cristo» [1Cor 11,3]. Dovendo conciliare questeaffermazioni con la certa dottrina della reciprocità dei generi precedentementeesposta, il suggerimento ermeneutico che ne ricaviamo è che forse da un puntodi vista teologico si deve leggere il racconto della derivazione di Eva dal fiancodi Adamo dormiente [cf Gen 1-3] in funzione del racconto della derivazionedella Chiesa dal fianco squarciato di Cristo morto sulla croce [Gv 19,25-30],sebbene da un punto di vista esegetico si debba fare esattamente l’inverso.

Dunque anche il secondo tipo di motivazioni deve essere reinterpretatoteologicamente alla luce della creazione della Nuova Eva dal Nuovo Adamo.In altre parole: poiché in Cristo Dio si è incarnato al maschile, è al maschileche noi parliamo di Dio; in questo senso l’uomo (vir) è detto immagine e gloriadi Dio, pur risultando che entrambi i sessi insieme rivelano la divina immagi-ne. «Dio nessuno l’ha mai visto; ma il Figlio [...] lo ha rivelato» [Gv 1,18],quel Figlio incarnato che perciò è l’unico a poter dire: «Chi vede me vede ilPadre» [Gv 14,9]: ma è dunque proprio in virtù della sua incarnazione al ma-schile che la seconda persona divina è chiamata Figlio (al maschile), e per ri-flesso la prima persona divina è chiamata Padre.

Per Bonaventura Dio non volle incarnarsi come donna, perché in tal casoavrebbe dovuto esser chiamato per la communicatio idiomatum «figlia e dea»; inrealtà è vero esattamente il contrario: chiamiamo Dio Padre e Figlio perché Dio havoluto incarnarsi come vir 29.

In tale prospettiva ermeneutica, le asimmetrie bibliche non discriminato-rie fra maschilità e femminilità si spiegano in vista o in conseguenzadell’incarnazione di Dio nell’uomo Gesù: pertanto, l’uomo creato a gloria diDio va inteso come simbolo dell’Uomo Nuovo Gesù, e la Donna creata a glo-

29 Cf BONAVENTURA, In Sententiarum 3.12.3.1 sc 4.

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ria dell’Uomo va intesa come Chiesa (di cui Maria è la primizia). Invece, le di-sparità discriminatorie tra maschilità e femminilità sono la costatazione di unaingiusta condizione di vita derivante dal peccato e da superare nella giustizia.Insomma, se la creazione ha instaurato un ordine simmetrico di equivalenza frai generi, e il peccato ha portato la discriminazione e subordinazione della don-na all'uomo, tuttavia proprio la redenzione, che toglie ogni discriminazione, haperò, mediante l’incarnazione del Verbo in Gesù, stabilito una asimmetria fra idue sessi: per il principio della “communicatio idiomatum”, possiamo infattidire che Dio è ebreo, ha parlato aramaico ed è maschio: e tuttavia questo nonfa discriminazione, perché «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito inqualche modo ad ogni essere umano» [Gaudium et Spes 22b]; egli pertanto haassunto tutta la natura umana, al di là della differenza sessuale, così che «nonc’è più uomo né donna, ma tutti [siamo...] uno in Cristo Gesù» [Gal 3,28]: mo-tivo per cui è opportuno formulare l'annuncio cristiano con un linguaggio e unvocabolario che sia il più possibile inclusivo di entrambi i generi, pur nel ri-spetto dei modi con cui Dio si è degnato di rivelarsi, incarnandosi come ma-schio e di conseguenza manifestandosi nella Scrittura perlopiù al maschile.

A questo punto, incontriamo però una difficoltà: Dio, scegliendo di in-carnarsi come maschio in una società maschilista, non avrebbe fatto, contro lesue abitudini, la scelta del più forte? Dobbiamo rispondere di no, perché talescelta passa per la scelta di Maria come Madre di Dio. Dunque, una cristologiache non si accompagnasse ad una solida mariologia finirebbe per contraddirela scelta del minore da parte di Dio30.

Non si può insomma comprendere il fondamento della distinzione frauomo e donna senza far riferimento all’Uomo Nuovo e alla Donna Nuova.

Se dunque al genere maschile è stato riservato di annoverare Gesù il Cri-sto (ed anche i ministri di Cristo Capo), che cosa allora è stato riservato al ge-nere femminile? Ebbene, proprio perché nella divina economia Dio si è incar-nato come maschio, la femminilità è stata assunta a simbolo della quarta per-sona congiunta o misticamente sposata alla Trinità 31: ovvero la Chiesa, perso-

30 Come ha giustamente messo in luce la teologia della liberazione [cf Leonardo BOFF, Orostro materno de Deus. Ensaio interdisciplinar sobre o feminino e suas formas religiosas,Vozes, Petrópolis 1979; trad. it.: Il volto materno di Dio. Saggio interdisciplinare sul femmi-nile e le sue forme religiose, Queriniana, Brescia 1981].

31 Cf Emmanuele TESTA, Maria Terra vergine, Gerusalemme 1986, vol. 1, I rapportidella Madre di Dio con la SS. Trinità (sec. I-IX), Introduzione, p. 1-8; capitolo 23, p. 433-462[con fonti e bibliografia a p. XXII-XXIV], in cui l’autore, pur con qualche giudizio discuti-bile [cf la recensione di Giovanni ROSSETTO in «Marianum» 1994, p. 555-578], produce unavasta documentazione sull’antica mariologia palestinese: Maria è presentata come «quartoelemento della divina tetrade»: Maria, «terra vergine», è stata assunta nella vita della trinità, econ Maria lo saranno anche tutti i redenti, «terra nuova»; l'autore assume il termine di«tetrade», che però è di origine gnostica [utilizzato forse per la prima volta da Marco il dia-cono per l’esegesi di Lc 1,35; cf IRENEO, Adversus Haereses 1.15.3, PG 7, 620]. A propositodella dottrina (più tradizionale) di Maria «quarta in Trinitate» (ovvero assunta per grazia e

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na mistica (o comunità personificata) dei salvati, a partire dal suo prototipo inMaria, «che è la Vergine fatta Chiesa» 32.

Nella mistica (si pensi alle riletture cristiane del Cantico dei Cantici e alla dot-trina di Giovanni della Croce), l’essere umano sembra rapportarsi a Dio assumendosimbolicamente una identità femminile 33.

La sponsalità diviene dunque simbolo dell’unione della creatura conDio34; ed è per questo che nella vita futura, quando si celebreranno in pienezzale «nozze dell’Agnello» [Ap 19,7], «non si prenderà né moglie né marito» [Mt22,30]: non soltanto per il superamento della dimensione materiale e animale afavore di quella spirituale (“uomo” e “donna” sono infatti categorie antropo-logiche legate alla corporeità naturale, anche se non completamente riducibiliad essa), ma soprattutto per il pieno superamento in Dio dell’incompletezza dicui il genere è segno.

§ 28. Il motivo in sé delle scelte asimmetriche di Dio quanto ai generi rima-ne per noi misteriosissimo e da accogliere con fede (e questo è il senso e ilfine di ogni asimmetria).

Insomma, alla domanda “perché l’ordinazione sacerdotale è stata riser-vata ai soli uomini?” e alla domanda “perché il Verbo si è incarnato al ma-schile?”, dobbiamo onestamente rispondere che non lo sappiamo, o meglio chein senso simmetrico, come nel caso della celebre rosa silesiana, non c’è nessunperché35 (ovvero una ragion sufficiente e determinante); in altre parole, se fossestato in nostro potere, noi molto probabilmente non avremmo scelto così, come

dall’esterno) cf Gonzalo GIRONÉS, Vocación eterna de lo feminino, in «Marianum» 1980, p.64-83 (in particolare p. 66-67), che rinvia alla dottrina delle Grandezze di Maria del cardinalPierre de BÉRULLE (morto nel 1629).

32 Maria è così chiamata da FRANCESCO D’ASSISI nella Salutatio beatae Mariae Virginis[secondo una lezione accolta da Caietanus ESSER in Opuscula sancti Patris Francisci Assi-siensis, Collegium Sancti Bonaventurae, Grottaferrata 1978, p. 299-300]; ma così può esserchiamato in un certo senso ogni cristiano in quanto inserito nella comunità ecclesiale, chedall’Apostolo è stata «fidanzata come vergine casta a Cristo» [2Cor 11,2]; ovvero (secondo ilmessaggio delle presunte apparizioni alle Tre Fontane a Roma), Maria può dire: «Io sonoColei che sono nella Trinità [del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo]» [cf Fausto ROSSI, Lavergine della rivelazione, Edic, Roma 1983, p. 16]. Si ricordi però sempre che siccome il Cri-sto è inseparabile dalla Chiesa, insieme alla quale costituisce il Cristo totale, per questo in luinon c’è più né uomo né donna.

33 Cf Antonio GENTILI, Se non diventerete come donne. Simboli religiosi del femminile,Ancora, Milano 1987 (su Maria cf in particolare p. 92-94).

34 Cf Andrea DI MAIO, Questioni su consacrazione e matrimonio. A proposito delle«nuove forme di vita evangelica», in «Ricerche Teologiche» 1994, p. 305-355.

35 «La rosa è senza perché [«Warum»]: fiorisce perché [«weil»] fiorisce, a se stessa nonbada, che tu la guardi non chiede» [Angelus SILESIUS, Il pellegrino cherubico 1.289; trad. it. ecommento a cura di Marco VANNINI e Giovanna FOZZER, Paoline, Cinisello Balsamo 1989,156-157, con l’importante nota esplicativa].

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Dio ha disposto; questo, d’altro canto, elimina alla radice tutti i tentativi dimotivazione oggettiva basati sul simbolismo o su altre considerazioni36.

Secondo Paolo, «anche al momento c’è un resto conforme ad una elezio-ne per grazia; e se lo è per grazia non lo è per le opere, altrimenti la grazia nonsarebbe più grazia» [Rm 11,5-6]. Il resto indica appunto una riserva da parte diDio. In questa luce possiamo rileggere la riserva ai soli uomini del sacerdozioordinato.

«Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certa-mente!» [Rm 9,14]. Pur tuttavia, questa scelta praticata dalla Chiesa è, comeogni scelta, una «pietra di scandalo e un sasso d’inciampo» [cf Is 28,16; Rm9,33].

( C ) IL PARADOSSO DEL SACERDOZIO ORDINATO

§ 29. La realtà del sacerdozio ordinato è un paradosso, di fronte al quale oci si scandalizza o si crede.

Lo scandalo dell’asimmetria che caratterizza il sacerdozio ordinato«attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa» [cf OrdSac 4], in quanto èlo scandalo stesso della storia, della storicità del Cristianesimo, di una veritàeterna nel tempo.

La lettera Ordinatio Sacerdotalis considera infatti un dato di fatto (lachiamata da parte di Gesù di soli uomini come apostoli, e la conseguente tradi-zione ecclesiale), interpretandolo come la manifestazione nel tempo di un eter-no volere di Dio. In questo si ripropone il paradosso cristiano, col quale la rive-lazione del mistero è sempre legata.

Il «paradosso» ha trovato la sua magistrale descrizione in Kierkegaard:l’Uomo-Dio è segno di contraddizione perché di fronte a lui o ci si scandalizza o sicrede; in tale maniera «laddove il maestro è inseparabile dalla dottrina [...] ogni co-municazione diretta è impossibile». Il dilemma insito nel paradosso assomiglia allacelebre “scommessa” di Pascal. La soluzione del dilemma fa uso del procedimentoche sulla scia di Peirce oggi chiamiamo abduzione. La Chiesa stessa, come ben hadescritto de Lubac, è un paradosso, in quanto «complexio oppositorum», e (secondo

36 Come ad esempio in Louis BOUYER, Mystère et ministère de la femme, Aubier-

Montaigne, Paris 1976, p. 47-51; Enrico BARAZZETTI, Il problema del sacerdozio femminilealla luce dell’analogia fidei. Contributo a chiarire le ragioni per le quali l’ordinazione sa-cerdotale è da riservarsi ai soli uomini, in «Sacra Doctrina» 1996/2, p. 5-51, e specialmente5-6 e 10-15, sulla presunta impossibilità ontologica della donna a ricevere il carattere sacer-dotale: l’impossibilità è infatti di carattere elettivo; similmente, non è che gli altri cibi oltre alpane siano incapaci ontologicamente di essere consacrati corpo di Cristo, ma è Cristo che haliberamente scelto il pane per la celebrazione dell’eucaristia.

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una immagine della lettera a Diogneto cara a Lazzati) «parádoxos politéia», chesconcertando costringe ad una interpretazione e ad una decisione 37.

Il paradosso consiste più precisamente in una situazione contraria al co-mune sentire e soggetta ad una duplice interpretazione (dilemmatica), e chedunque è come un segno di contraddizione e una pietra d’inciampo; pertanto,chi vi si imbatte è costretto ad una presa di posizione: o si scandalizza (inciam-pandovi) o crede (lasciandovisi edificare sopra) [cf 1Pt 2,6-8]. Lo scandaloproduce derisione in chi non crede [cf At 17,32] e delusione e tristezza in chicrede (o meglio, «credeva») [cf Lc 24,17.21]; la fede, invece, comporta il supe-ramento di una visuale umana [cf Mc 8,24-25] e il riconoscimento del misteroe dell’intervento di Dio. Nel dilemma (e nella “scommessa”) tra le due inter-pretazioni alternative del paradosso (e cioè la fede nel mistero o lo scandalo),interviene la ragione a mostrare la credibilità della prima e l’incongruità del se-condo.

Così, ad esempio, di fronte alla crocifissione ignominiosa del giusto Gesùo ci si scandalizza «scuotendo la testa» e «facendosi beffe di lui» perché «hasalvato altri», ma non ha saputo (o voluto: e qui sta il problema) «salvare sestesso» [Mc 15,29.31]), oppure si arriva a confessare che «veramente era il Fi-glio di Dio» [Mc 15,39]; similmente, di fronte al fatto certo della tomba vuotadi Gesù o si dice che «sono venuti i suoi discepoli e ne hanno rubato il corpo»[Mt 28,13] (ma allora come si spiega che i presunti impostori abbiano poi datola vita per una impostura?), oppure si crede che «davvero è risorto» [Lc 24,34];e infine, di fronte al prodigio delle lingue di Pentecoste o si dice che i discepolierano ubriachi di vino, oppure vi si riconosce la presenza dello Spirito Santo;in tal caso, la credibilità del mistero è suggerita dal fatto che essi non potevanoessere ubriachi, se non altro almeno perché erano «appena le nove del mattino»[At 2,15].

Similmente, di fronte alla pietra di scandalo dell’esclusione delle donnedal sacerdozio ministeriale, il dilemma è: o si tratta di antifemminismo, oppuresiamo ancora una volta di fronte ad una manifestazione del Mistero.

Giustamente è stato notato38 che mentre nella Chiesa antica l’esclusionedelle donne dai ministeri di insegnamento, culto e governo era dovuto alla pau-ra di incorrere nella derisione da parte dei non credenti [irrisio infidelium] (iquali secondo la mentalità del tempo non avrebbero ritenuto credibile la testi-monianza di una donna), oggi al contrario è proprio la riserva maschile

37 Cf rispettivamente Søren KIERKEGAARD (sotto lo pseudonimo di ANTI-CLIMACUS),L’esercizio del cristianesimo n. 2, in Opere a cura di Cornelio FABRO, Sansoni, Firenze 1972,p. 752; Blaise PASCAL, Pensieri 184-242 (numerazione Brunschvicg); Henri de LUBAC, Para-doxe et mystère de l’église, Montaigne, Paris 1967; trad. it.: Paradosso e mistero della Chie-sa, Jaca Book, Milano 1979, p. 1-12 (primo capitolo).

38 Cf LEGRAND, Traditio..., art. cit., p. 244 (cita a sua volta R. NÜRNBERG, «Non decetnec necessarium est ut mulieres doceant». Überlegungen zum altkirklichen Lehrverbot fürFrauen, in «Jahrbuch für Antike und Christentum» 1988, p. 57-73).

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dell’ordinazione sacerdotale, percepita dalla mentalità odierna come una inde-bita esclusione delle donne, a causare sconcerto e derisione in chi non crede, edi conseguenza imbarazzo e pena in chi crede.

Ebbene, di fronte al paradosso del sacerdozio ordinato riservato ai soliuomini, ci si può scandalizzare, interpretandolo come un residuo di antifemmi-nismo; oppure, se l’antifemminismo non c’entra, allora c’è qualcosa d’oltre, esi può arrivare a concepire in maniera diversa il sacerdozio ordinato, non piùcome “leadership” umanamente intesa, ma proprio come un sacramento, ossiaun mistero che rivela l’eterno nel tempo.

La riserva sarebbe così il contrassegno di una elezione misteriosa, che ciricorda la estrema gratuità del dono di Dio e l’impossibilità di prendercelo dasoli (in questo titanico tentativo consisté appunto il peccato originale).

§ 30. Per la credibilità del paradosso si richiedono l’applicazione univer-sale del principio del rispetto per la tradizione e la valorizzazione effettivadel ruolo delle donne.

Per la credibilità stessa del paradosso del sacerdozio ordinato è però fon-damentale poter escludere l’altro corno del dilemma, cioè lo scandalo.

A tal fine, occorre innanzitutto smentire con i fatti l’accusa di antifem-minismo rivolta alla Chiesa cattolica: sebbene infatti la riserva ai soli uominitrovi il suo motivo determinante (oggettivo) nel rispetto della tradizione,tuttavia non pochi sospettano che abbia però il suo movente (soggettivo) in-confessato in quel certo antifemminismo di cui la cultura ecclesiale è ancorapervasa. Perciò, per poter mostrare che si tratta di un mistero, bisogna poterdimostrare che non si tratta di maschilismo; e dunque, per quanto riguarda ladignità della donna, «è necessario passare dal riconoscimento teorico [...]alla realizzazione pratica»39.

Inoltre, potrebbe essere utile applicare in tutti i casi (e non solo inquello dell’ordinazione sacerdotale) il principio del rispetto della Tradizioneautentica (e specialmente di quella apostolica): questo principio potrebbeportare ad esempio a ripristinare il diaconato femminile (che per l’appuntoera anticamente attestato40) e l’ammissione (anche nella Chiesa latina) di

39 Christifideles Laici 51; citato anche nel commento di RATZINGER alla OrdSac.40 Dato che il diaconato è stato istituito nella Chiesa primitiva non per il sacerdozio ma

per il ministero [cf Jean BEYER, De diaconatu animadversiones, in «Periodica» 1980, p. 441-460; Gianfranco GHIRLANDA, Diacono, in Carlos CORRAL SALVADOR, GianfrancoGHIRLANDA, Velasio DE PAOLIS (ED.), Nuovo Dizionario di Diritto Canonico, San Paolo, Ci-nisello Balsamo 1993, p. 338-341], non ci sono motivi teologici per riservarlo ai soli viri edanzi ci sono motivi storici (l’esistenza originaria delle diaconesse [cf Rm 16,1], quale che fos-se il loro ruolo [cf SORCI, Ministeri..., art. cit.]) per aprirlo anche alle donne. In questa dire-zione va il rapporto della Società di diritto canonico d’America sull’ordinazione di donnediacono [pubblicato per estratto e il traduzione su «Il Regno - Documenti» 1996, p. 303-311].

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uomini sposati anziani al sacerdozio ordinato [cf 1Tm 3,2]41 (senza con ciòvoler negare né sminuire la dignità del celibato in genere e la convenienzadel celibato ecclesiastico in specie).

Più immediatamente, sarebbe opportuno abrogare la riserva ai soli uo-mini per i ministeri del lettorato e dell’accolitato, tanto più che tale riservaalimenta l’equivoco sulla loro natura, facendoli apparire come clericali,mentre in realtà sono laicali.

( D ) IL SENSO SACRAMENTALE DEL SACERDOZIO ORDINATO

§ 31. La riserva ai soli uomini rileva il carattere asimmetrico e misteriosodel sacerdozio ordinato e manifesta indirettamente il senso della sua istitu-zione nella Chiesa.

Se l’asimmetria è un segno del mistero, il sacerdozio ministeriale riser-vato ai soli uomini va quindi inteso in senso soprattutto sacramentale e miste-rioso (in quanto cioè abilitato ad azioni propriamente divine di santificazione,rivelazione e comunione), piuttosto che giurisdizionale.

Inoltre, l’asimmetria porterebbe a concepire più rettamente il senso ulti-mo del sacerdozio ministeriale, ossia la rivelazione del dono assolutamentegratuito di Dio: se infatti tutti potessero accedere al sacerdozio ordinato, chi nefosse insignito potrebbe pensare di essere il più bravo; ma se vi si accede peruna regola asimmetrica, quanti vi giungono non possono dirsi più bravi, masolo misteriosamente scelti, così che «la [loro...] capacità viene da Dio, che[li...] ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza» [2Cor 3,5-6].

In tale prospettiva era ben giusto che l’esercizio del sacerdozio cristianodell’obbedienza [cf Eb 5,8-9] obbedisse ad una norma di difficile comprensio-ne, accondiscendendo così alla divina condiscendenza; infatti, l’«obbedienzaval più del sacrificio» [1Sam 15,22; cf 13,8-14], e perciò, nella misteriosa eco-

41 Le affermazioni delle lettere pastorali (su vescovi e presbiteri che devono essere spo-sati una sola volta) da una parte attestano la possibilità di ammettere uomini sposati al sacer-dozio ordinato, dall’altra però motivano l’impedimento a contrarre matrimonio per chi è co-stituito dagli ordini sacri, che implica a sua volta la convenienza pastorale del celibato eccle-siastico. [Tale convenienza è di carattere apostolico, dunque, e non spirituale, perché anchenel matrimonio si può amare Dio con tutto il cuore: cf DI MAIO, art. cit.]. Invece risulta pro-blematico appellarsi al matrimonio di molti degli apostoli, perché non è certo che fosse in attoal momento della loro chiamata [cf Jean GALOT, Lo stato di vita degli apostoli, in «La CiviltàCattolica» 1989, II, p. 327-340; l’autore anzi lo esclude, ma forse è meglio lasciare nel dub-bio la questione]. Più complessa la questione dell'origine della tradizione orientale di ordinarecome presbiteri anche gli sposati, perché le decisioni del Concilio trullano in proposito si ap-pellerebbero secondo uno studio recente a testi precedenti non corretti [cf Roman M. T.CHOLIJ, Clerical Celibacy in East and West, Fowler Wright Books, Leominster 1989; cf inparticolare p. 74-105, 118-121, 195-203; una sintesi delle argomentazioni è data in De coeli-batu sacerdotali in Ecclesia Orientali nova historica investigatio, in «Periodica» 1988, p. 3-31].

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nomia della comunione dei santi, accettare questa norma val più che essereammessi a presiedere il sacrificio eucaristico.

Del resto, per quale motivo Dio ha voluto che nella Chiesa oltre al sacer-dozio comune di tutti i fedeli ci fosse anche un sacerdozio ministeriale, conuna differenza «essenziale e non solo di grado» [Lumen Gentium 10b] fra idue? In base a quanto abbiamo finora detto è possibile rispondere così: perevitare che uno si illuda di potersi “prendere” la grazia, anziché disporsi a rice-verla «cercando il Signore là dove» e nei modi in cui «si fa trovare» [cf Is55,6].

Questa visione scardina le non infrequenti interpretazioni sociologichedel ministero: occorre pertanto liberare il sacerdozio ordinato da quelle sovra-strutture che a volte ne offuscano il senso sacramentale. Il sacerdote ordinatonon è né un burocrate, né un distributore di sacramenti. Egli è il catalizzatoredel sacerdozio comune della comunità cristiana, ovvero la chiave di accesso(appartenente a Dio solo) ai misteri riservati e il segno visibiledell’insufficienza umana ad ottenere da se stessi la grazia.

Questa prospettiva forse può anche facilitare la comprensione ecumenicadel sacerdozio ordinato in se stesso e quanto all’ordinazione sacerdotale delledonne. È vero che la differente posizione delle Chiese in materia (non dunquela Ordinatio Sacerdotalis) è uno dei tanti ostacoli al raggiungimento dell’unitàdei cristiani; tuttavia «questi ostacoli non devono essere intesi come un impe-dimento decisivo a compiere ulteriori sforzi verso il riconoscimento reciproco»dei ministeri, in base alla «possibilità che lo Spirito parli a una chiesa mediantele cognizioni di un’altra»42. Sotto questo profilo ecumenico, la lettera Ordina-tio Sacerdotalis lascia aperta la questione del valore del ministero sacerdotalein quelle Chiese che ammettono anche l’ordinazione sacerdotale delle donne;anche su questo la teologia deve riflettere.

In attesa di indicazioni magisteriali più precise, si potrebbero formulare treipotesi. Come prima ipotesi (massimale e poco probabile), ci si domanda se la Chie-sa cattolica, sebbene ritenga le ordinazioni sacerdotali femminili illecite e invalide alproprio interno, possa riconoscerle come non nulle nella Chiesa anglicana. Formu-lando una seconda ipotesi (media), ci si domanda se un atto di per sé illecito e inva-lido (come l’ordinazione sacerdotale femminile o l’amministrazione di sacramentiriservati da parte di ministri non validamente ordinati) possa tuttavia conseguire ilsuo effetto in quelle Chiese acattoliche, che di tale illiceità e invalidità non sonoconvinte. In altre parole, ci si chiede se sia possibile estendere dalla sfera di governoalla sfera sacramentale il principio [cf can. 144] secondo cui «nell’errore comune didiritto» (quale si verificherebbe appunto in tali Chiese) «supplisce la Chiesa»[«supplet ecclesia»]. Secondo la terza ipotesi (minimale), si può affermare che, sic-come la grazia non è legata ai sacramenti, perciò anche là dove non c’è il sacra-mento, non è detto che venga a mancare la grazia, purché la si chieda con «cuore

42 Così si esprime il documento ecumenico Battesimo, Eucaristia, Ministero (BEM) al n.54; cf la risposta cattolica ed anche i Chiarimenti su certi aspetti da concordare su eucaristiae ministero dell’ARCIC, in «Il Regno - Documenti» 1994, p. 560-561.

ANDREA DI MAIO 161

puro, coscienza buona e fede non finta» [1Tm 1,5], e senza disprezzare l’economiasacramentale. In ogni caso, bisogna sempre procedere cercando di evitare il più pos-sibile il pericolo di scandalo o di fraintendimento da parte dei fedeli.

§ 32. Il sacerdote ordinato è lui stesso sacramento di Cristo Capo, in unamisteriosa economia di simboli.

Il fatto che solo i maschi battezzati ricevano validamente l’ordinazionesacerdotale non può significare che la donna battezzata non sia capace di rice-vere il carattere presbiterale o episcopale (il carattere è infatti una caratteristicae una capacità spirituale dell’anima, e l’anima spirituale non si distingue, inquanto tale, per sesso); ma allora per spiegare come mai solo l’uomo possa es-sere ordinato sacerdote dobbiamo supporre che lui stesso (nel suo genere ma-schile) sia quasi-materia del sacramento del sacerdozio ordinato.

Infatti ogni battezzato (senza ulteriori distinzioni) può validamente rice-vere ogni sacramento, tranne che l’ordine e il matrimonio, che richiedono nellepersone dei riceventi condizioni relative al sesso.

Ebbene, possiamo dire che la gerarchia sacramentale è in qualche modopreparata da quell’ordinamento naturale costituito dai generi maschile e fem-minile. Secondo una celebre definizione, la gerarchia è infatti «ordine divino,scienza e azione, assimilabile, per quanto è possibile, al deiforme»43, ossia alfine di trinitarizzare comunionalmente gli esseri angelici e umani.

Il sesso ha di conseguenza per l’umanità una funzione (per così dire) qua-si sacramentale e gerarchizzante: è infatti in virtù del sesso e della conseguenteappartenenza ad un genere, che ogni essere umano nasce già “ordinato” (o“pre-ordinato”) non solo alla vita di comunione (quanto all’”azione”), ma an-che ad una particolare manifestazione (quanto alla “scienza”) del mistero stes-so di Dio, che «è amore»; ed è grazie alle relazioni fra generi che possiamo co-noscere per analogia e differenza l’amore di Dio, mediante l’amore umanosponsale, genitoriale, filiale e amicale. Ed è per questo che la differenza delgenere è più intima e profonda delle differenze di razza o di cultura, pur essen-do destinata anch’essa ad essere superata nel Cristo totale.

Cristo scelse gli apostoli fra quanti erano di genere maschile e di stirpe ebrai-ca; ebbene, nella Chiesa (per la scelta dei successori degli apostoli e dei loro colla-boratori) la prima caratteristica continua ad essere richiesta, mentre la seconda nonfu mai considerata importante.

Ma se l’uomo è quasi-materia del sacerdozio ordinato analogamente acome il consenso nuziale fra l’uomo e la donna lo è del matrimonio, allora bi-

43 DIONIGI, Coelestis Hierarchia 3.1; nella rilettura di BONAVENTURA, In Hexaëmeron

21.17.

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA162

sognerebbe, analogamente al matrimonio44, anche per il sacerdozio ordinatodistinguere un sacramentum in fieri (l’ordinazione sacerdotale) e un sacra-mentum in esse, ovvero l’esistenza stessa dei sacerdoti ordinati come sacra-mento di Cristo Capo: infatti, Cristo è davvero presente «nella persona del mi-nistro» dell’eucaristia [Sacrosanctum Concilium 7a].

Simbolicamente la Chiesa è descritta con le due fondamentali immaginidel Corpo (di cui Cristo è il Capo) e della Sposa (di cui Cristo è lo Sposo) [cfLumen Gentium 6e; 7a].

Riservando ai soli uomini l’ordinazione di quanti in gradi diversi opere-ranno «in persona Christi capitis» [can. 1008], la Chiesa ribadisce la connes-sione fra la simbologia del Capo e quella dello Sposo, in una economia deisimboli il cui meccanismo perlopiù ci sfugge, ma che non cessa di essere evo-cativa e misteriosa.

La correlazione fra la maschilità di Cristo e la maschilità dei sacerdoti ordinatinon è automaticamente fondabile sul fatto che questi agiscono in persona di Cristo:infatti chiunque amministri un sacramento agisce in persona Christi et ecclesiae, equindi anche la donna che battezzasse 45. Bisogna comunque distinguere fra i cinquesacramenti riservati (che solo i sacerdoti ordinati possono validamente amministra-re), e i due sacramenti del battesimo (che ogni essere umano anche non cristiano puòamministrare in caso di necessità) e del matrimonio (che ogni coppia di coniugi puòcontrarre, anche se poi solo i coniugi battezzati possono validamente riceverlo);possiamo dunque dire che in questi due sacramenti il ministro agisce nella personadi Cristo in generale (in quanto incarnandosi si è in qualche modo unito ad ogniuomo, così che ogni uomo può validamente rappresentarlo); mentre nei sacramentiriservati il ministro agisce nella persona di Cristo in quanto Capo del Corpo, e quin-di si richiede che sia configurato al Capo per mezzo dell’ordinazione sacerdotale.

Ma attenzione: la scelta asimmetrica della riserva maschile non si fondasu questo simbolismo (altrimenti non sarebbe più libera e davvero asim-metrica), ma è questo simbolismo a fondarsi sulla scelta!46

44 A partire dalla dottrina di SCHEEBEN; cf Carlo ROCCHETTA, Il matrimonio come sa-

cramento. «Status quaestionis». Prospettive teologiche, in «Ricerche Teologiche» 1993, p. 7-30.

45 Cf Carlo ROCCHETTA, Donna ministero e ricerca teologica, in MILITELLO (ED.), Don-na e ministero, op. cit., p. 506].

46 In questa prospettiva si possono rileggere le considerazioni suggestive (ma che nonvanno assolutizzate) sul ruolo di «Uomo e Donna» nel Dramma della storia della salvezzaelaborate da Hans Urs von BALTHASAR [Theodramatik, II/1, Johannes Verlag, Einsiedeln1976; trad. it., Teodrammatica, vol. 2, Jaca Book, Milano 1982, p. 344-360]: l’essere umano ècreato né asessuato, né bisessuato, ma come unità duale di uomo e donna.

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§ 33. Il senso dell’ordinazione diaconale rispetto a quella sacerdotale 47 vacolto distinguendo sacerdozio ministeriale e ministero in senso lato.

Sebbene anche al diaconato spetti un «carattere indelebile» [CIC can.1008] e una «grazia sacramentale» (da intendere però in senso lato, alla lucedei modi presentati nella discussione conciliare), tuttavia i diaconi sono ordi-nati «non per il sacerdozio, ma per il ministero» [Lumen Gentium 29a], secon-do la loro istituzione da parte degli apostoli nella Chiesa primitiva [cf At 6,1-6]; pertanto, il diaconato va probabilmente considerato un sacramentale (mad’origine apostolica) più che un sacramento 48.

L’ordinazione diaconale abiliterebbe a compiere ad modum habitus e or-dinariamente quanto episodicamente e straordinariamente tutti i fedeli potreb-bero compiere.

§ 34. Per sfuggire al pregiudizio maschilista, non bisogna ricadere nel pre-giudizio clericale, per cui il semplice cristiano sarebbe un prete mancato.

Per maschilismo intendiamo quel modo di pensare o di comportarsi infi-ciato dal pregiudizio secondo cui la donna sarebbe un uomo mancato (vir oc-casionatus 49).

Per clericalismo, invece, intendiamo quel modo di pensare o di compor-tarsi inficiato dal pregiudizio di considerare il semplice cristiano (laico) comeun prete mancato e un sacerdote menomato (sacerdos occasionatus); in base atale pregiudizio, il sacerdozio comune dei fedeli sarebbe un sacerdozio solo insenso improprio e per metafora: e questo in fondo è quello che molti credono,se il modo di parlare riflette anche il modo di pensare.

Non aiuta a debellare il clericalismo la terminologia imprecisa adottata tuttoraperfino dai documenti ecclesiali, che spesso parlano di “sacerdote” per indicare il“sacerdote ordinato” (presbitero o vescovo in genere, oppure presbitero in specie); e

47 Risulta ancora stimolante la lettura dell’articolo di Jean BEYER, Nature et position du

sacerdoce [I], in «Nouvelle Revue Théologique» 1954, p. 356-373: vi si sostiene che il centrodel sacramento dell’ordine sia il presbiterato e che fra presbiterato ed episcopato non ci siadifferenza di essenza (riprendendo la dottrina tommasiana per cui l’episcopato non sarebbeeffettivamente un sacramento); e che il diaconato sarebbe con maggior probabilità un sacra-mentale. Per come si è giunti nel Concilio Vaticano II a riconoscere il carattere sacramentaledell’ordinazione episcopale, e come questa dottrina vada intesa cf Gianfranco GHIRLANDA,«Hierarchica communio». Significato della formula nella “Lumen Gentium”, PUG, Roma1980, p. 230-315.

48 Cf GHIRLANDA, Diacono, art. cit.; Hans-Eckhard LAUENROTH, Der ständige Diakonat.Seine ekklesiologische Idee und kanonistische Verwicklung, Regensburg 1983.

49 Secondo la celebre espressione di ARISTOTELE [De generatione animalium 2.3 (737 a27)] nella traduzione latina adoperata dagli Scolastici, che generalmente ne mitigavano però ilsenso [cf TOMMASO, Summa I, 92.1 ad 1]. Al di là del significato biologico attribuito da Ari-stotele a questa concezione, il maschilismo ha in diversi modi considerato la donna come mi-norata rispetto all’uomo.

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA164

chiamano semplicemente “sacerdozio” quello che in realtà è il “sacerdozio ministe-riale” in genere o il “presbiterato” in specie [cf Lumen Gentium 28]; così facendonon si tiene però conto del fatto che tutti i cristiani sono stati già col battesimo con-sacrati sacerdoti.

Si noti che mentre il maschilismo è una patologia della cultura e della so-cietà, che interessa la Chiesa solo di riflesso, in quanto cioè essa vive nella so-cietà e nella cultura del suo tempo, viceversa il clericalismo è una degenera-zione che nasce dalla struttura ecclesiale stessa.

La teologia femminista aveva giustamente messo in evidenza da una parteil problema del genere (femminile e maschile) e dall’altra la questione della ef-fettiva parità fra i due sessi nella Chiesa, chiedendo in sostanza che uomini edonne vi potessero esercitare in modi diversi gli stessi compiti; come “cartinadi tornasole” del raggiungimento della piena parità spesso veniva indicatal’ammissione delle donne al sacerdozio ordinato.

Ma in queste argomentazioni è facile che si nasconda il pregiudizio cleri-cale, secondo cui chi non è prete è un cristiano menomato. E poiché il clerica-lismo è una degenerazione che nasce con facilità dalla struttura ecclesiale, pos-siamo comprendere che la riserva ai soli uomini è provvidenziale: se infatti ilsacerdozio ordinato fosse accessibile a tutti i battezzati (la riserva ai soli celibiè infatti solo contingente), sarebbe facile per i cristiani più impegnati caderenell’errore di considerarlo come un traguardo a cui aspirare, magari in etàavanzata, e come un compito umano, nell’ordine simmetrico.

Poiché il clericalismo è un male, il suo vero rimedio non sta nel clerica-lizzare le donne, ma nel declericalizzare la Chiesa, per meglio cristianizzare ilmondo.

In quest’ottica, le donne cristiane non hanno nessun bisogno di chiederel’ammissione al sacerdozio: esse (come tutti i cristiani) già lo possiedono, invirtù del battesimo! Si tratta però di imparare ad esercitarlo per davvero. E se èvero che le donne possiedono un vero carisma ecclesiale e che esse perlopiùcostituiscono la parte più attiva nella Chiesa, saranno proprio loro ad aiutare laChiesa a sconfiggere il clericalismo e gli altri laici a riconoscere la propria di-gnità sacerdotale.

( E ) LE IMPLICAZIONI GIURIDICHEDELLA RISERVA MASCHILE DEL SACERDOZIO ORDINATO

§ 35. È bene riconoscere i limiti dell’autorità ecclesiale, a garanzia costitu-zionale e sacramentale della Chiesa stessa.

La non ammissione delle donne al sacerdozio ordinato (fondata, secondola lettera, sull’incapacità della Chiesa di ristrutturarsi a suo piacimento) pone

ANDREA DI MAIO 165

forse per la prima volta esplicitamente il problema del diritto costituzionale ec-clesiale50.

Secondo il commento del prefetto della Congregazione per la dottrinadella fede, la Ordinatio Sacerdotalis rivela una «autolimitazione dell’autoritàecclesiale»: con la presente lettera apostolica il papa «non vuole imporre unapropria opinione, ma richiamare proprio il fatto che la chiesa non può fare ciòche essa vuole e che anch’egli, anzi proprio lui, non ha la facoltà di farlo»; inquesto modo, all’opposizione di «gerarchia contro democrazia», si sostituiscel’opposizione di «obbedienza contro autocrazia»51.

Mentre nella società civile la sovranità appartiene al popolo, che la eser-cita nei modi e nei limiti previsti dalla sua costituzione (costituzione che nasceper compromesso e che il popolo può dunque, con le procedure opportune emediante i suoi rappresentanti, modificare), viceversa nella Chiesa la sovranitàappartiene a Cristo, che fondando la Chiesa le ha anche dato implicitamenteuna costituzione invariabile (il “diritto divino” istituzionale), all’interno dellaquale può variare secondo i tempi e i luoghi la legislazione canonica (il “dirittoecclesiastico”)52.

Ebbene, intendendo per “ecclesiologia forte” o “debole” un modo di con-cepire il potere e l’autorità della Chiesa rispettivamente senza o con precisi li-miti costituzionali, allora ci ritroviamo di fronte a questo paradosso: la richiestainsistita (che pure suona democratica e liberale) di ammettere le donne al sa-cerdozio ordinato spesso si fonda su una ecclesiologia forte e assolutistica, inquanto presupporrebbe che la Chiesa possa gestire e modificare il proprio or-dinamento e la propria tradizione53; viceversa, la risposta (che pure suona durae impopolare) di non ammissione si dovrebbe fondare in realtà su una eccle-siologia debole e costituzionale, in quanto presupporrebbe che l’autorità dellaChiesa non possa mai travalicare i limiti della costituzione non scritta, ma im-plicitamente lasciatale dal suo Fondatore.

In conclusione: il principio di immodificabilità della fondamentale costi-tuzione ecclesiale se da una parte può a volte apparire come fonte di rigidità echiusura, d’altro canto è, a lungo andare, è garanzia contro ogni tentazione di

50 Per il problema del diritto costituzionale canonico, cf Javier HERVADA, Elementos dederecho canónico, EUNSA, Pamplona 1986; trad. it: Diritto costituzionale canonico, Giuffré,Milano 1989 [sul problema dell’ordinazione in sacris riservata ai soli viri cf p. 231-247]. Adifferenza dei canonisti di impostazione civilistica, Jean BEYER preferisce parlare di dirittocostitutivo della Chiesa, cioè derivante dalla sua divina fondazione, anziché di diritto costitu-zionale (che potrebbe far pensare ad un compromesso sociale) [cf il secondo capitolo di Re-nouveau du droit et du laïcat dans l'église, Tardy, Paris 1993; trad. it., Rinnovamento del di-ritto e del laicato nella Chiesa, Ancora, Milano 1994].

51 RATZINGER, art. cit., p. 389-390.52 Cf Gianfranco GHIRLANDA, Il diritto nella Chiesa, mistero di comunione. Compendio

di diritto ecclesiale, San Paolo, Roma 19932, §44, p. 66-68.53 Cf BØRRESEN, L’ordinazione delle donne..., art. cit., p. 262-263.

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assolutismo ecclesiastico e contro il rischio di trasformare il «credo ecclesiam»in «credo in ecclesiam» 54, e l’ecclesiologia in ecclesiolatria.

Nei più antichi simboli di fede, si distingueva fra “credere qualcosa” (comearticolo di fede) e “credere in qualcuno” (ovvero in ciascuna delle persone divine ein nessun altro). La Chiesa è oggetto di fede e depositaria della fede; non è e nonpuò essere soggetto di rivelazione.

§ 36. L’asimmetria fra i due sessi quanto all’ammissione al sacerdozio ordi-nato rivela che questo non va propriamente considerato come un compito eun’azione del cristiano, bensì come un dono e un’azione di Cristo Capo.

Il vigente Codice di Diritto Canonico ha, nei confronti dei due generi,maschile e femminile, un duplice atteggiamento.

Da una parte, infatti, il Codice sancisce l’equivalenza del diritto per en-trambi i sessi esplicitamente in due casi: nel canone 606 a proposito della vitaconsacrata 55 e nel canone 1135 a proposito della vita coniugale 56; e implicita-mente per tutto ciò che riguarda i diritti e doveri dei fedeli 57.

D’altra parte, però, il Codice esclude la parità fra i due sessi per quantoriguarda l’accesso ai ministeri istituiti e a quelli ordinati, che sono infatti riser-vati ai soli uomini [cf can. 230 § 1; 1024].

Tale dialettica fra equivalenza simmetrica fra i due generi e disparitàasimmetrica quanto al ministero sacerdotale va compresa alla luce del canone208, che sancisce appunto la aequalitas di tutti i membri della Chiesa:

«Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, vige,quanto a dignità ed azione [«quoad dignitatem et actionem»], una vera ugua-glianza [«vera [...] aequalitas»] per cui tutti, secondo la condizione

54 Cf John Norman D. KELLY, Early Christian Creeds, Longman, London 1950, trad. it.

della terza edizione inglese: I simboli di fede della Chiesa antica. Nascita, evoluzione, uso delcredo, Dehoniane, Napoli 1987, p. 149-151 e 153-155.

55 Il canone dice che «quanto stabilito per gli istituti di vita consacrata e per i loro mem-bri vale a pari diritto per l’uno e l’altro sesso [«pari iure de utroque sexu valent»], a meno chenon consti altro dal contesto del discorso o dalla natura della cosa». Ad esempio, alcune di-sparità rimaste nel Codice fra istituti maschili e femminili sono dovute in parte al desiderio disalvaguardare il diritto proprio di alcuni istituti (ad esempio, quelli femminili di clausura), ein parte sono il retaggio di condizionamenti storici che la seconda commissione preparatorianon è riuscita a superare: cf Jean BEYER, Le droit de la vie consacrée, Paris, Tardy 1988, 2vol.; trad. it.: Il diritto della vita consacrata, Ancora, Milano 1989, capitolo 13, p. 197-199.

56 Il canone stabilisce che «entrambi i coniugi hanno pari dovere e diritto [«aequum offi-cium et ius»] per ciò che concerne la comunità di vita coniugale».

57 Si veda ad esempio (a proposito della legittimità di affidare il servizio all’altare anchealle donne) la risposta fornita nel 1992 dal Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testilegislativi sull’interpretazione autentica del canone 230 §2 del Codice di Diritto Canonico [inAAS 1994; riportato da «Il Regno - Documenti» 1994, p. 394-395].

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[«condicionem»] propria e il «munus» di ciascuno, cooperanoall’edificazione del corpo di Cristo» [can. 208].

«Munus» non è semplicemente un compito da svolgere da parte del fe-dele, ma prioritariamente un dono a lui fatto da parte di Dio: infatti, se si trat-tasse solo di un compito, a tutti dovrebbe essere almeno potenzialmente acces-sibile; il non potervi accedere sarebbe da considerare una esclusione (per unacondizione di minorità o di privazione a norma del diritto); viceversa, se sitratta di un dono, l’essere riservato ad alcuni non comporta l’esclusione deglialtri, né la possibilità di recriminare: sarebbe come se quanti hanno partecipatoad un sorteggio e non sono stati sorteggiati protestassero di essere stati esclusi.

Il magistero recente rileva che la prassi di riservare l’ordinazione sacer-dotale ai soli uomini non sminuisce la dignità della donna 58: pertanto, poichél’uguaglianza nella dignità e l’uguaglianza nell’azione vanno di pari passo, neconsegue che l’esercizio del sacerdozio ordinato non rientra nell’ambitodell’azione del singolo, ma semmai delle modalità in cui questa azione si espli-ca.

Infatti, le azioni sacramentali riservate ai sacerdoti ordinati sono da loroesercitate «in persona Christi capitis» [can. 1008], mediante i «munera docen-di, sanctificandi et regendi»: in particolare, nel caso del sommo sacerdozio epi-scopale (esercitato «per sua natura» «in comunione gerarchica» 59), tale triplicecompito diviene quello di presiedere efficacemente l’eucaristia (e amministraregli altri sacramenti riservati) e quello (collegialmente esercitato) di insegnareautenticamente la verità rivelata e di realizzare misticamente la sintesi dei di-versi carismi, ministeri ed operazioni nell’unica comunione ecclesiale.

Di conseguenza tutte le azioni che siano azioni di Cristo non in quantoCapo del Corpo, possono essere esercitate da tutti i fedeli. Da questo, però,possiamo ulteriormente concludere che la riserva maschile dei ministeri istituiti(e probabilmente pure del diaconato) non ha ragion d’essere.

§ 37. Occorre ribadire la distinzione fra potestà sacramentale d’ordine epotestà di giurisdizione ed estendere maggiormente in tutta la Chiesa lapartecipazione alla responsabilità ecclesiale.

Poiché la riserva del sacerdozio ordinato ai soli uomini non può significa-re una discriminazione delle donne e la loro esclusione dalle responsabilità ec-clesiali, questo costituisce un ulteriore argomento a favore della distinzione fra

58 Cf GIOVANNI PAOLO II, Mulieris Dignitatem 26.59 Lumen Gentium 21b. «Il significato di queste formule, volute da Paolo VI, si può trarre

dall’allocuzione da lui pronunciata il 14 sett. 1964, all’apertura del terzo periodo conciliare»[GHIRLANDA, Il diritto nella Chiesa..., op. cit., p. 258; cf p. 257-272; bibliografia a p. 648-652].

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA168

potestà d’ordine e potestà di giurisdizione 60 e di conseguenza della partecipa-bilità di quest’ultima ad ogni cristiano 61, purché con il debito mandato eccle-siale.

La potestà sacramentale d’ordine rientra nell’ordine simbolico e asimme-trico, ma la potestà di giurisdizione in quanto tale è simmetrica e quindi sog-getta al principio dell’equivalenza. La riserva maschile della potestà sacra-mentale d’ordine non dovrebbe pertanto comportare che quanti non ne sonoinsigniti (come le donne e tutti i laici) non possano avere una qualche potestàdi giurisdizione. Anzi, sembra ora più che mai opportuno estendere e favorirela corresponsabilità di tutti i cristiani nella Chiesa 62.

Non si tratta di una novità: basti pensare alla potestà (sicuramente eccle-siale anche se, secondo l’attuale codice, non sempre giurisdizionale) 63 dei su-

60 In questa stessa direzione va il documento intitolato Rafforzare il vincolo della pace

(ossia una riflessione sulle donne nella Chiesa occasionata dalla lettera di papa GiovanniPaolo II sull’ordinazione sacerdotale), elaborato da parte della «Commissione sulla donna»della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti d’America; secondo tale testo [riportato in tra-duzione da «ADISTA» 14.1.1995, p. 7-10], il vero nodo per valorizzare nella Chiesa il ruolodelle donne è quello della giurisdizione, dal momento che le leggi della Chiesa continuano amantenere la tradizionale identificazione fra giurisdizione e ministero ordinato. Dobbiamoaggiungere che in realtà tale identificazione è tutt’altro che tradizionale, ma anzi è innovazio-ne abbastanza acriticamente accolta in questi ultimi decenni.

61 Sul problema della potestà e sulla quaestio disputata del rapporto fra potestà d’ordinee potestà di giurisdizione, una panoramica esauriente delle diverse posizioni è data da Adria-no CELEGHIN, Origine e natura della potestà sacra. Posizioni postconciliari, Morcelliana,Brescia 1987. Secondo una posizione classica fino al Concilio, potestà d’ordine e potestà digiurisdizione erano distinte: cf Jean BEYER, De natura potestatis regiminis seu iurisdictionisrecte in codice renovato enuntianda, in «Periodica» 1982, p. 93-145 [dopo aver riportato alleprime pagine una vastissima bibliografia, l’autore presenta la dottrina comune preconciliare,la dottrina elaborata al Concilio Vaticano II, le diverse e contrastanti interpretazionipost-conciliari del Concilio stesso; seguono le conclusioni generali ed una appendice termi-nologica; una sintesi del testo è stata inserita come votum negli atti recentemente pubblicatidella Congregatio plenaria per la redazione del nuovo Codice (Libreria Editrice Vaticana,Città del Vaticano 1991)]. La suprema potestà di giurisdizione, concessa da Cristo a Pietro eai suoi successori, ha però bisogno di essere supportata nel suo esercizio dalla pienezza dellapotestà d’ordine, così che in generale il sommo sacerdozio episcopale garantisca efficacia alministero apostolico; ragion per cui chi fosse eletto al sommo pontificato senza essere già in-signito del carattere episcopale «deve essere immediatamente ordinato vescovo» [can. 332§1], sebbene (come dimostrano alcuni casi della storia) ottenga fin dall’accettazione una certasupremazia ecclesiale, e «chi è promosso all’episcopato deve ricevere la consacrazione epi-scopale […] prima di prendere possesso del suo ufficio» [can. 379].

62 Diverse donne cattoliche avevano avvertito la sincera aspirazione a poter magari ungiorno servire la Chiesa nel sacerdozio ordinato, ed ora, dopo la Ordinatio sacerdotalis, sonorimaste spaesate: ebbene, come può la Chiesa valorizzare comunque il loro contributo?

63 Cf BEYER, Il diritto della vita consacrata, op. cit., capitolo 8, p. 123-143 [per l'autore,ogni gruppo, anche spontaneo, purché ecclesiale, partecipa della potestà ecclesiale]; VelasioDE PAOLIS, La vita consacrata nella Chiesa, EDB, Bologna 1992, p. 111-114. Tranne che nelcaso degli istituti religiosi clericali di diritto pontificio (o ad essi equiparati), non si tratta (a

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periori di comunità di vita consacrata, e (per analogia) anche dei responsabilidi associazioni e comunità ecclesiali. Addirittura, troviamo nella storial’esempio di comunità miste (come i “monasteri doppi” brigidini nel passato e,al presente, l’Opera di Maria), la cui direzione è sempre affidata ad una donna,che esercita la sua responsabilità anche nei confronti dei membri chierici 64.

Inoltre, nel caso si ristabilisse il diaconato femminile e si ritornasse allaprassi antica e plurisecolare di assumere anche i diaconi come cardinali, sa-rebbe possibile alle donne accedere alla dignità cardinalizia 65.

( F ) CONCLUSIONE

Senza voler nulla togliere alla necessità di improntare a giustizia le re-lazioni fra uomini e donne nella Chiesa, tuttavia è la carità (e santità) la cosafondamentale nella Chiesa [cf OrdSac 3; Inter insigniores VI]. Secondo la le-zione di Adrienne von Speyr, nella Chiesa coesistono infatti un principio petri-no o istituzionale ed un principio mariano o carismatico (anche se non sembrapossibile identificare il primo come solo maschile e il secondo come tipica-mente femminile); e in realtà Gesù stesso (che pure è il Capo del Corpo) haobbedito a Maria, e non soltanto quando da adolescente «era sottomesso» [Lc2,51] ai genitori, ma anche a Cana; e dalla Croce ha affidato Maria a Giovanni,ossia alla Chiesa della carità, anziché a Pietro, ossia alla Chiesa istituzionale 66.

norma del Codice attuale) di una potestà giurisdizionale in senso stretto, ma in senso analogo[così si esprimeva a proposito dei superiori religiosi l’istruzione Mutuae Relationes (del1978) al numero 13]. Per una panoramica più aggiornata cf il Dizionario teologico della vitaconsacrata, Ancora, Milano 1994.

64 Per quanto riguarda i «monasteri doppi» brigidini, cf T. NYBERG, Brigidini, in Dizio-nario degli Istituti di Perfezione, v. 1, Paoline, Roma 1974, col. 1586-1589. Per quanto ri-guarda la potestà di giurisdizione sul territorio esercitata dalle cosiddette badesse mitriate cf(per citare solo alcuni contributi più recenti) Michael DE FÜRSTENBERG, Exempla iurisdictio-nis mulierum in Germania septentrionali - orientali, in «Periodica» 1984, p. 89-111 (questebadesse medievali «distinguevano sempre accuratissimamente fra potestà di giurisdizione epotestà d’ordine» [p. 110]); ID., De abbatissa dignitatem archidiaconi habente, in«Periodica» 1989, p. 345-359; Adriana VALERIO, Cristianesimo al femminile, D’Auria, Na-poli 1990, p. 187-197 (accenna al caso della badia di Conversano e tratta della badia del Go-leto). Per quanto riguarda i nuovi movimenti e le nuove «famiglie di vita consacrata» e lapotestà suprema che vi possono avere le donne (anche sui chierici), cf Giancarlo ROCCA, Lenuove comunità, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 1992, p. 163-176 (in particolare, p. 171-173); Jean BEYER, Il diritto..., op. cit., capitolo 12, p. 191-196.

65 In questo senso andava l’auspicio formulato dal vescovo congolese Ernest Kombo allarecente IX assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi [cf «ADISTA/Doc»22.10.1994, p. 2].

66 Cf Adrienne von SPEYR, Mistica oggettiva [antologia degli scritti a cura di BarbaraALBRECHT], Milano, Jaca Book 19852, §139-142, p. 180-182; cf anche l’introduzione di HansUrs von BALTHASAR, p. 48-49. Sempre in questa prospettiva, fa impressione costatare comenel suo epistolario indirizzato ai papi, CATERINA DA SIENA sapesse parlare al papa rivolgendo-si alternativamente a lui come padre e come figlio. Ad esempio: «Santissimo e carissimo Pa-

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Certamente, però, molti cattolici (uomini e donne) rimangono perplessi difronte alla lentezza con cui la Chiesa tarda a passare dal riconoscimento delladignità della donna alla sua valorizzazione pratica. Purtroppo, anche se il prin-cipio di equivalenza fra i sessi è ormai teoricamente accettato quasi da tutti,l’inconscio collettivo della società e della Chiesa sarà forse ancora per decenniprofondamente e forse inconsapevolmente maschilista.

Del resto, se «davanti al Signore mille anni sono come un giorno solo»[2Pt 3,8], adesso siamo solo alla fine del secondo giorno di vita della Chiesa.

dre in Cristo dolce Gesù» [lettera 291 e passim] o «Babbo mio dolce» [lettera 218 e passim];«non siate fanciullo timoroso, ma virile» [lettera 239].

ANDREA DI MAIO 171

[ XIV ] QUESTIONI SULLA CONSACRAZIONE

§ 38. Premessa: il concetto di consacrazione è duplice e comporta in sensogenerale tanto l’azione discendente di Dio per riservarsi qualcuno o qualco-sa per sé, quanto la corrispondente azione ascendente dell’uomo di riserva-re se stesso come offerta a Dio; in senso speciale comporta l’impegno adappartenere totalmente, esclusivamente e perpetuamente a Dio.

A) Nell’analisi fenomenologica e nell’interpretazione filosofica delcomune linguaggio religioso (specialmente cristiano) e dell’esperienza cheesso esprime, la “consacrazione” va ricondotta al campo linguistico del“sacro”, di cui dobbiamo pertanto tracciare la geografia semantica 67.

Il sacro 68 è l’intersezione della sfera divina nel mondo degli uomini(sacra propriamente non è la divinità, ma la sua manifestazione nel mondo),e per questo incute timore perché rivelando qualcosa che appartiene esclusi-vamente a Dio, il percepirlo è per l’uomo una intromissione in un campo chenon gli compete.

“Santo” è invece ciò che è riconosciuto come sacro: così, in primo luo-go Dio, poi le persone divinizzate.

“Consacrare” (il cui atto è appunto la “consacrazione”) vuol dire“rendere sacro”, ossia rendere proprietà esclusiva di Dio o di qualcosa di di-vino.

Termine e destinatario di consacrazione è Dio: ogni consacrazione puòesser fatta propriamente solo a lui (anche se, in senso improprio, si può par-lare di consacrazione a qualcosa di divino o ideale, oppure a qualcosa diconsiderato erroneamente come tale).

67 In latino da “sacer” (di etimo ignoto), derivano i verbi più o meno sinonimi “sancio”,

“sacro” e “consecro” (da cui “consecratio” e “consecratus”), che significano “render sacro”,“consacrare” o riservare alla divinità; e inoltre il verbo “sacrifico” (da cui “sacrificium”), cioè“offrire qualcosa come sacro” alla divinità, semanticamente associato al verbo “voveo” (dacui “votum”, “devoveo”, “devotus” e “devotio”); e infine il nome “sacerdos” (da cui “sacer-dotium”); come pure il nome “sacramentum” (o “evento sacro”), che traduce il greco “myste-rion”. Da “sancio” deriva “sanctus” (che etimologicamente significa “sancito”). “Sanctus” e“sacer” non sono lessicalmente equivalenti: santo è infatti ciò che è o reso sacro (e in tal casoè sinonimo di “consecratus”) o riconosciuto come tale. Per questo, ad esempio, si può chia-mare indifferentemente una cosa santa o sacra, ma bisogna distinguere una persona sacra(ossia consacrata) e una persona santa (ossia divina o divinizzata).

68 Un aggiornato excursus bibliografico sul concetto religioso e filosofico di sacro e disanto è quello di Carmelo DOTOLO, Sul Sacro. Per un percorso bibliografico, in «RicercheTeologiche» 1993, p. 409–457.

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Oggetto di consacrazione è sempre una creatura del mondo, cosa o per-sona, che viene in modo particolare scelta e riservata solo a Dio.

Soggetto principale di ogni consacrazione è Dio stesso: è Dio che(direttamente o tramite il ministero di un suo sacerdote) si riserva in modoparticolare qualcosa o qualcuno nel mondo per la sua gloria: in tal caso laconsacrazione ha un movimento discendente (da Dio al mondo dell’uomo) eun valore rivelativo (per farsi conoscere al mondo). Questo ci fa comprende-re che ogni consacrazione discendente di cose ha senso solo in riferimentoalle persone, le uniche che possono accogliere la divina rivelazione.

Soggetto secondario di consacrazione è invece l’uomo, che può riserva-re a Dio una cosa propria o la propria stessa persona (non dunque cose e per-sone d’altri, di cui non può disporre!), come offerta sacra a lui, in suo onoree gloria: e in tal caso la consacrazione ha un movimento ascendente (dall’uo-mo a Dio) e un valore oblativo, e si chiama “oblazione” o “sacrificio”.

Soggetto peculiare di consacrazione è il “sacerdote”, ossia quell’uomodeputato, e quindi consacrato, da Dio perché in suo nome consacri, comeministro sacro e del sacro, abilitato a compiere consacrazioni discendenti (dicose e di altre persone) e sacrifici, perché possano essere a Dio graditi.

Ogni “sacrificio” comporta due elementi: da una parte il “voto”, ossia lalibera scelta dell’uomo di riservare (o votare) a Dio un bene migliore(altrimenti verrebbe meno l’offerta) e possibile (di cui cioè può liberamentedisporre); e dall’altra, come compimento del voto e come conseguenza diquesta riserva a Dio, comporta la consumazione almeno parziale del bene sa-crificato; per questo il “sacrificio” comporta la “morte” del bene sacrificato,o almeno la sua morte simbolica per chi lo offre, mediante la “rinuncia” chefa ad esso, in pegno però di una risurrezione o rigenerazione e di una mag-gior comunione fra gli offerenti e quelli per cui si offre il sacrificio.

L’esperienza religiosa ha individuato due forme di sacrificio: quello cheriserva il bene sacrificato a Dio sottraendolo totalmente all’uso da partedell’uomo (tale è l’“olocausto”), e il sacrificio che riserva a Dio un bene,sottraendone all’uso dell’uomo solo la parte migliore, in rappresentanza deltutto (tale è il “sacrificio delle primizie” o sacrificio vicario 69).

Dei beni offerti dagli uomini Dio non ha bisogno [cf Sal 49,8–14], mail sacrificio giova a chi lo compie. Per questo Dio non vuole i sacrifici di co-se, ma la misericordia e il «sacrificio di lode» della persona stessa che si of-fre a Dio. Questo ci fa comprendere che ogni consacrazione ascendente dicose ha senso solo in riferimento alla consacrazione della persona che le of-fre, quasi come segno della sua offerta di sé.

69 Così gli ebrei riservano a Dio le primizie o i primogeniti o il settimo giorno, come se-

gno dell’offerta di tutto il raccolto e bestiame, di tutto il popolo e di tutta la vita. Così Cristosi è offerto in olocausto ma come primizia e primogenito di tutti i redenti.

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Quando infatti il soggetto e l’oggetto di consacrazione si identificano, ecioè quando l’uomo con atto sacerdotale (e quindi in quanto consacrato inmaniera discendente da Dio) si consacra a Dio in maniera ascendente, sacri-ficandosi per lui, abbiamo quella che possiamo chiamare la consacrazione ri-flessiva: questa si realizza o accettando per amor di Dio il sacrificio cruentodel martirio, oppure «offrendosi in sacrificio spirituale vivente a Dio gradi-to» e trasformando la propria vita in «culto razionale» a lui [Rm 12,1–2].

Tale consacrazione riflessiva comporta (in base a quanto detto prima)innanzitutto la “rinuncia” a se stesso e la “morte” al peccato e alla vita mon-dana, per la rigenerazione in una vita nuova, ma anche il “voto” (formulatouna volta per tutte) a compiere il sacrificio in tutta la propria vita e si mani-festa come un matrimonio spirituale allacciato per iniziativa di Dio in segnodi comunione con e fra gli uomini.

Tutto questo corrisponde alla stessa struttura metafisica della realtà. Infatti,ogni ente, in quanto è, è uno (in riferimento a se stesso e in generale all’altro da sé)e (in riferimento speciale allo spirito) è anche vero, buono e bello; ma siccome esistein quanto è creato da Dio, è anche sacro, in riferimento a Dio, ossia in quanto è co-stituito da una relazione trascendentale e da un vincolo ontologico a Dio. Per questo,a differenza della religiosità pagana, per la religiosità ebraica e, a maggior ragione,per quella cristiana (che ammette l’incarnazione del Verbo di Dio nel mondo) nonpuò esserci l’opposizione radicale di sacro e profano, perché, essendo tutto creato daDio, nulla è intrinsecamente profano.

Ontologicamente vera ed intelligibile è ogni cosa (e soprattutto ogni persona),nella misura in cui esiste; ma logicamente vera è solo ogni affermazione formulatadall’intelletto e corrispondente alle cose affermate. Ontologicamente buona e desi-derabile è ogni cosa (e soprattutto ogni persona), nella misura in cui esiste; ma eti-camente buona è solo la scelta libera della volontà e indirizzata al fine ultimo, inconformità con la legge morale. Ontologicamente bella e amabile è ogni cosa (e so-prattutto ogni persona), nella misura in cui esiste; ma esteticamente bella è solol’opera d’arte corrispondente ad un canone ideale.

Allo stesso modo, ontologicamente sacra è ogni cosa (e soprattutto ogni per-sona), nella misura in cui esiste ed ha perciò una relazione reale e creaturale a Dio;ma religiosamente sacra è solo la cosa o la persona che ha con Dio, ma per iniziativadi Dio, una relazione esclusiva; e soprattutto lo è la persona che, sola, può ricambia-re questa relazione rendendo sacra a Dio anche la libertà di cui dispone: così facen-do, conosce, desidera, ama Dio «formando un solo spirito con lui». Certo, da unpunto di vista naturale la relazione reale fra Creatore e creatura è solo ad un senso: èla creatura ad essere ontologicamente legata al Creatore, mentre il Creatore rimanelibero e onnipotente. E tuttavia, nell’economia sovrannaturale, Dio stesso può(senza per questo perdere la sua Signoria) “legarsi” d’amore alle creature spiritualida lui elette, «traendole a sé con legami di bontà e vincoli d’amore» [Os 11,4]; untale legame esige infatti, per sua natura, di essere ricambiato («Io sono per il miodiletto e il mio diletto è per me» [Ct 6,3]) e non misconosciuto («Io non esisto pervoi» [Os 1,8]). Pertanto le cose sono sacre solo in relazione all’uomo, in quanto Diole rende sacre per farsi presente alle persone che possono entrare in relazione ami-cale con lui.

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La consacrazione è dunque un matrimonio spirituale, che si perfeziona nelmatrimonio mistico e si consuma alle nozze dell’Agnello nella gloria. La volontàsanta è filosoficamente (secondo Kant) quella indefettibilmente concorde con lalegge morale, e quindi, teologicamente, quella totalmente e irrevocabilmente sposataa Dio e concorde con la sua volontà (e cioè confermata in grazia, nella gloria futurao nella sua straordinaria anticipazione mistica in terra). Per questo ogni impegnoconsacratorio ha un carattere di anticipazione escatologica, che si riflette nel suo ca-rattere di perpetuità, almeno in intenzione, e di morte al peccato e testimonianzadella vita futura. Rendere sacro qualcuno significa dunque da parte di Dio instaurarecon con lui un legame nuovo di comunione, che si estende a tutti gli altri che intrat-tengono la medesima relazione. Rendere sacro è per questo sempre un con-sacrare:non si dà consacrazione separabile dalla comunione.

La consacrazione è sempre qualcosa di permanente: questo avviene, perle consacrazioni discendenti, perché i doni e la chiamata di Dio sono ir-revocabili [cf Rm 11,29], e, per quelle ascendenti, in virtù del “voto” di chifa il sacrificio.

“Consacrazione” può indicare in generale tanto il “consacrare” quantol’“essere consacrato”, e cioè in primo luogo l’atto di chi consacra qualcuno oqualcosa (in facto); e in secondo luogo e come di conseguenza, l’abitualestato (in fieri) di chi è consacrato e vuole viver come tale. Per questo si puòdistinguere la “consacrazione” come atto definitivo, dalla “santificazione”,che invece può anche essere continua, come stato in divenire di chi pur es-sendo consacrato mette ogni giorno in pratica il suo proposito 70.

Nel cristianesimo, ogni consacrazione si compie nel “sacramento”, os-sia nell’evento sacro per eccellenza, in quanto rivelazione di Dio all’uomo eascesa dell’uomo a Dio, in virtù di un unico sacrificio salvifico, compiuto«una volta per tutte» e «con uno spirito eterno» dal Sommo Sacerdote Gesù.Tale unico sacramento è rinnovato e reso presente mediante i sacramentidella Chiesa e un sacerdozio nuovo istituito da Dio, con cui tutti i cristianisono consacrati sacerdoti, ed alcuni fra loro anche sacerdoti «ministri dellanuova alleanza» e «dispensatori dei sacramenti di Dio». L’eucaristia, in cuiDio per mezzo dei sacerdoti ministeriali consacra i doni, primizie del mondo,e i fedeli nel Corpo di Cristo, e in cui il popolo sacerdotale offre l’unico eperfetto sacrificio di Cristo e se stesso in oblazione pura e santa, e forma unconnubio mirabile di comunione, diviene così il paradigma e il vertice diogni consacrazione, che solo per questa eucaristia può essere gradita.

Al termine di questa analisi, d’ora in poi chiameremo “consacrazionediscendente” solo quella che riceviamo soprattutto nei sacramenti e che co-stituisce la nostra santità ontologica, condizione di quella morale;

70 La distinzione fra “santificazione” e “consacrazione” è resa possibile dalla distinzionedei rispettivi termini in latino. Sui diversi sensi religiosi e teologici della consacrazione cfTOMMASO, Summa Theologiae II–II, 39.3 e 88.1; In Sententiarum libros 4.2.1.2 ad 6 e4.38.1.5 ad 3; De virtutibus 2.11 ad 5; Quodlibet 3.6.3; De perfectione spiritualis vitae 24;Contra impugnantes 1.

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“consacrazione ascendente” o “riflessiva” in senso lato quella che operiamoin noi con l’aiuto della grazia, e costituisce la nostra santità morale; e“consacrazione ascendente” o “riflessiva” (o semplicemente “consacra-zione”) in senso stretto e speciale l’impegno o voto a realizzarla in rispostaad una chiamata divina 71.

B) Ritroviamo queste nozioni nella Scrittura e nella Teologia(soprattutto spirituale e ascetica).

Nella Bibbia greca il concetto di consacrazione è espresso prevalente-mente dalle famiglie lessicali formatesi intorno a due verbi: uno è il verbo“chrío” (che corrisponde alla radice ebraica “MŠH”), l’altro è il verbo“haghiázo” (che corrisponde alla radice ebraica “QDŠ”); uno vuol dire unge-re, l’altro vuol dire santificare, ovvero rendere «santo», e cioè proprietà to-tale, esclusiva e perpetua di Dio (l’unico ad essere «tre volte santo» [Is6,3]) 72.

La Bibbia ebraica conosceva anche la radice “NZR” (la cui area se-mantica è coperta nella Bibbia greca perlopiù da “hágios”, “santo”) peresprimere la consacrazione di se stesso a Dio: così il “nazir”, o nazireo 73, ècolui che ha ricevuto da Dio non una unzione, ma una chiamata, e vi rispon-

71 Non rientrano in quest’ambito le consacrazioni discendenti di oggetti (cose o luoghi

destinati al culto divino); tali consacrazioni sono definite perlopiù in termini di “dedicazione”[cf CIC can. 1171] o “benedizione costitutiva” (d’altro canto a volte la consacrazione perso-nale mediante l’assunzione dei consigli evangelici è detta “dedicazione” o “dedizione”). Si-milmente non rientrano in questo ambito neanche quelle forme devozionali di“consacrazione” a Maria o al cuore di Gesù, che, per evitare ambiguità, vengono ora perlopiùdefinite in termini di “affidamento” o “alleanza” (mentre invece l’uso della “consacrazione”agli angeli è stato ripetutamente condannato [cf AAS 1992, p. 805–806]). Si noti comunqueche, nella consacrazione in senso stretto, alla consacrazione ascendente del fedele può seguireuna consacrazione discendente, che è un sacramentale costitutivo permanente [comenell’Ordo Professionis religiosae] con cui la Chiesa benedice solennemente il neo–consacrato, perché abbia tutte le grazie necessarie a vivere la sua vocazione.

72 Il verbo “haghiázo” è usato per indicare tanto l’azione (discendente, libera e gratuita)di Dio di riservare a sé qualcuno o qualcosa, ma anche l’azione consacratoria (ascendente emeritoria) che solo l’uomo (in virtù della sua libertà) compie per corrispondere al dono diDio. Emblematico è il caso del settimo giorno (simbolo di tutta la vita dell’uomo data «inpotere del suo proprio consiglio»): Dio «ha benedetto il giorno di Sabato e lo ha santificato»,ovvero (secondo un’altra possibile traduzione) «ha detto: “è mio!”» [Gen 2,3], e pertanto al-l’uomo viene comandato di «ricordarsi del giorno del Sabato per santificarlo» [Es 20,8], ov-vero di viverlo totalmente per Dio «senza fare nessun lavoro suo proprio in esso» (il che, nel-l’ermeneutica spirituale [cf BONAVENTURA, De decem praeceptis 1 e 4.15], è simbolo delpeccato, unica opera dell’uomo fatta senza Dio).

Il verbo “chrío” è invece usato [ad esempio in Es 28–31, Is 61,1 e Gv 1,41] per indicaresolo la consacrazione che il singolo uomo riceve in maniera irreversibile come dono dall’alto,da Dio, in vista di una missione sacerdotale, regale e profetica (infatti Gesù è il Cristo, ovverol’unto, il consacrato di Dio, e similmente il cristiano ha ricevuto l’unzione dello Spirito).

73 Cf Gdc 13,7 e 6,17; Nm 6,1–21; cf Mc 1,25: “hágios toû theoû”, santo di Dio.

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA176

de col voto (temporaneo o perenne) di speciale appartenenza a Dio tes-timoniata simbolicamente dalla rinuncia a bere vino o bevanda inebriante e acurarsi la barba e la chioma. Il nazireato corrisponde quindi alla consacra-zione riflessiva in senso stretto.

Gesù è il consacrato da Dio, sia perché santo per natura e per nascita [cfLc 1,35], sia perché unto di Spirito Santo per la sua missione, sia perché to-talmente riservato a Dio (e per questo, con un gioco di parole, «chiamatoNazareno» o «nazireo» [Mt 2,23]). Però nella preghiera sacerdotale [in Gv17,17–19], Gesù pregando per i discepoli dice: «Per loro io consacro mestesso» [il verbo usato è “haghiázo” (per questo potremmo anche tradurre:«Per loro io santifico me stesso»)]. Gesù, che è già il Cristo ed è consacratoda Dio Padre, consacra però se stesso, fa in modo che la consacrazione rice-vuta dal Padre diventi efficace nell’opera che lui deve compiere, cioè la pas-sione. Ma Gesù aggiunge: «Consacrali nella verità» [o «Santificali»]; quindii discepoli saranno consacrati come Cristo è consacrato; allo stesso modo ilcristiano è chiamato cristiano perché è consacrato con il Battesimo e conl’unzione crismale; poi, però, deve santificarsi.

Come Israele è un «popolo consacrato al Signore» [Dt 7,6], così laChiesa è «il popolo che Dio si è acquistato perché annunzi le grandi opere dilui» [1Pt 2,9] 74. La consacrazione dunque per i cristiani comporta il diritto eil dovere di farsi «imitatori di Dio» [Ef 5,1], che è «tre volte santo» [Is6,3] 75; mediante tale imitazione, i cristiani, da creature fatte per natura «aimmagine» della Trinità, tendono mediante le virtù ad essere «a sua somi-glianza» 76, e quindi ad essere, «santi come lui è santo» [Lv 19,2]: cioè

74 Ogni con–sacrazione esige una comunione: la consacrazione battesimale inserisce

nella Chiesa; la consacrazione episcopale conferisce una potestà d’ordine che va esercitatasempre nella comunione gerarchica; la consacrazione mediante l’assunzione istituzionale deiconsigli evangelici va sempre fatta o in una peculiare comunità o nella Chiesa particolare (inriferimento al vescovo); anche l’eremita prega e vive al cospetto di tutta la Chiesa (e per que-sto nel Medioevo agli eremiti preti era accordato il privilegio di dire «Dominus vobiscum»,pur celebrando la messa da soli).

75 Secondo l’interpretazione spirituale che ne dà Bonaventura [cf In Hexaëmeron 8.9–11], Dio è tre volte santo in se stesso, perché «Santo è il Padre, Santo è il Figlio e Santo è loSpirito», ma poi si rivela tre volte santo in Cristo, che ha il corpo santo, l’anima santa e la di-vinità santa, in quanto le tre nature (corporea e spirituale –fuse nell’umana– e divina) sonounite nella persona del Verbo.

76 Il tema evangelico e paolino [cf Mt 5,44–48; Gv 17,21; Ef 5,1] della imitazione di Dio,già radicato nella tradizione platonica, ha ricevuto la sua formulazione forse più classica daparte di BONAVENTURA [cf Itinerarium 1 e 4–5]: per lui, l’uomo è creato «ad immagine e so-miglianza» di Dio, in quanto dotato di un’immagine naturale (innata e imperdibile) distintadalla somiglianza sovrannaturale infusa gratuitamente mediante la grazia e le virtù; diversa-mente, TOMMASO, più vicino al senso ebraico dell’espressione della Genesi, intendeva la so-miglianza perlopiù come una limitazione della immagine [cf In Sententiarum 2.16.1.4 co; macf anche Summa I, 93.9].

ANDREA DI MAIO 177

«perfetti come è perfetto il Padre [...] che è nei cieli» [Mt 5,48] e che, essen-do invisibile, è reso visibile da Cristo. La vita cristiana si presenta dunqueessenzialmente come una imitazione di Cristo, ma anche dei suoi santi nellamisura in cui essi sono imitatori di Cristo 77.

Quindi non basta essere stati battezzati per essere santi: anche se il bat-tesimo ci fa proprietà di Dio e già con questo sacramento noi siamo total-mente di Dio, tuttavia, siccome noi abbiamo la volontà libera dobbiamo farein modo che la nostra volontà si adegui al nostro nuovo essere, e si adeguiperciò sempre alla volontà di Dio.

L’unica cosa al mondo che può decidere di non appartenere a Dio è lanostra libertà. Pertanto, per donarla a Dio il cristiano deve decidere di ade-guarla alla volontà divina, e questo in due modi: giorno dopo giorno, com-piendo la volontà di Dio; oppure anche facendo dono una volta per tuttedella propria volontà a Dio. Ovviamente questa donazione non esimerebbedal ripetere ogni momento il proprio “sì” personale a Dio, ma esprimerebbel’impegno di donazione nei confronti di Dio, il che corrisponde alla consa-crazione ascendente e riflessiva, ossia a quella che nella tradizione asceticarecente è definita semplicemente col termine di “consacrazione”.

Secondo un esempio classico nella letteratura ascetica, è possibile re-galare a Dio volta per volta i frutti del proprio albero (a seconda della sta-gione, tanti o pochi frutti, tutti o solo alcuni), ma è possibile anche decideredi regalare a Dio una volta per tutte l’intero albero (che faccia poi tanti o po-chi frutti), e questo è quanto si fa nella consacrazione.

Questa consacrazione consiste in generale e fondamentalmentenell’opera di santificazione che il cristiano compie in sé. Ma in particolare estrumentalmente si intende per consacrazione l’atto (o il contratto, per usareun termine giuridico, o l’alleanza, per usare un termine biblico) che il sin-golo può fare davanti a Dio per dargli tutta la propria persona (con la propriavolontà), ad imitazione dell’alleanza irreversibile stipulata da Dio conl’uomo e tramite lo strumento di un vincolo sacro (come ad esempio i vo-ti 78), che lo impegna non tanto e non solo a fare certe cose per Dio, ma ad

L’imitazione di Dio dà ai consigli evangelici un senso profondamente trinitario, che è

stato recentemente riscoperto [cf Heidemarie BÖHLER, I consigli evangelici in prospettiva tri-nitaria. Sintesi dottrinale, Cinisello Balsamo, San Paolo 1993].

77 Cf 1Cor 11,1. Questo spiega come mai nella consacrazione ha ordinariamente unruolo centrale il carisma di un fondatore, che ispirato dallo Spirito Santo, come «alter Chri-stus» lascia ai suoi discepoli lo spirito o carisma che ha ricevuto. L’imitazione dei fondatori edelle fondatrici ha un senso solo nella misura in cui essi imitano a loro volta Cristo, che aven-do la pienezza di tutti i carismi, può essere imitato soltanto evidenziandone alcuni (come av-viene nei carismi di fondazione), pur senza eliminare gli altri.

78 Per l’essenza della consacrazione si richiede l’assunzione dei consigli evangelici convincoli sacri, non necessariamente voti [cf CIC can. 573, §2; per la problematica della evolu-zione della forma giuridica degli impegni consacratori si veda Jean BEYER, Carismi e impe-

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA178

essere radicalmente di lui, come Paolo e Barnaba, i quali «si sono votati alnome del Signore nostro Gesù Cristo» [At 15,26] 79.

Anche se già in virtù del battesimo e della cresima tutti i cristiani sonochiamati ad appartenere totalmente a Dio, tuttavia, per le esigenze della pe-dagogia della fede nella Chiesa si è sviluppata anche una vita cosiddetta dispeciale consacrazione, che aiuti a ricordare con determinati strumenti e vin-coli (un po’ come i «fiocchi» degli israeliti) questa alleanza sponsale conDio. I «consacrati» si impegnano (come anticamente i Nazirei) ad essere to-talmente, esclusivamente e perpetuamente di Dio, e perché questo valgasempre («sia che vegliamo sia che dormiamo») nonostante le possibili cadutee le inevitabili distrazioni lo esprimono con l’assunzione di una forma stabiledi vita.

La speciale consacrazione comporta dunque non solo l’appartenenzavolontaria a Dio, ma anche la totalità, esclusività e perpetuità (almeno inintenzione) di tale appartenenza, in quanto elementi costitutivi della con-sacrazione come atto dell’uomo.

C) La consacrazione, in quanto assunzione di un impegno nella Chiesa,riguarda sempre non solo la teologia, ma anche e soprattutto il diritto cano-nico 80, sebbene il diritto arrivi necessariamente “in ritardo” sulla storia e nonesaurisca la ricchezza della vita 81. gni, in «Vita Consacrata» 1991, p. 535–546 e 623–630]. Per praticità, considerando anche ilforte richiamo biblico del termine, d’ora in poi parleremo sempre di voti, sottintendendo altreforme di vincolo sacro.

79 Sebbene ogni cosa appartenga a Dio, tuttavia la maggior parte delle cose sono in“condominio” tra Dio e la creatura (la mia penna è di Dio, perché Dio l’ha creata, però è an-che mia: quindi c’è una comproprietà fra Dio e l’uomo); viceversa ci sono cose e persone de-dicate totalmente, esclusivamente e permanentemente a Dio: in questo consiste la consacra-zione.

80 Per lo status quaestionis sul concetto di consacrazione nel diritto canonico, cf JeanBEYER, Le droit de la vie consacrée, Paris, Tardy 1988, 2 vol. (trad. it., Il diritto della vitaconsacrata, Milano, Ancora 1989);

Gianfranco GHIRLANDA, Il diritto nella Chiesa mistero di comunione. Compendio di di-ritto ecclesiale, Roma –Cinisello Balsamo, PUG – San Paolo 19932, p. 169–235 (capitolo 8,sui fedeli nella vita consacrata). Per una sintesi spirituale (di chiara impronta tomistica) cfReginaldo BERNINI, La vita consacrata. Principi fondamentali di Teologia e di Spiritualità,Pistoia, Centro Riviste della Provincia Romana O.P. 1993, interessante per l’approccio“liturgico” alla consacrazione, vista principalmente come sacramentale [cf p. 167–174].

81 Per quanto riguarda il ritardo della codificazione sull’invenzione si pensi (solo per re-stare in questo secolo) alle vicende delle congregazioni di voti semplici, riconosciute comereligiose solo nel 1900, e quelle degli istituti secolari riconosciuti dalla Provida Mater Eccle-sia solo nel 1947.

Per quanto riguarda invece una teorizzazione di una consacrazione solo teologica e nongiuridica, cf Anastasio GUTIÉRREZ, Seguimi, Gruppo laico di promozione umano–cristiana, in«Commentarium pro Religiosis» 1985, p. 193–208; a proposito dei membri «impegnati»(celibi, ma anche «famiglie a modo di membri impegnati» [p. 194]) del Gruppo laico

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Ebbene, possiamo dire che ogni consacrazione data da Dio al cristianogli conferisce un «titolo» (e quindi un diritto–dovere) per intraprendere lapropria santificazione ascendente: così sono tenuti a tendere alla santità ingenerale quanti sono consacrati dal battesimo 82; in maniera loro propriaquanti sono “quasi consacrati” dal matrimonio 83; in modo nuovo quanti sonoconsacrati dall’ordine sacro 84; in modo nuovo e speciale i fedeli chiamati daDio alla vita consacrata 85, su cui vogliamo appunto soffermarci. “Seguimi” (approvato dalla Santa Sede come associazione privata universale di fedeli laicinel 1984), l’autore conclude che essi «sono persone consacrate teologicamente, pur non es-sendolo giuridicamente» [p. 206], in quanto non assumono i vincoli che il diritto canonicoprevede per la vita consacrata.

C’è da rilevare però che se certamente si può essere consacrati anche senza voti, purchési dica un sì totale e definitivo all’amore divino, tuttavia non si può fare a meno di una certastruttura giuridica, sempre ricordando che «la legge è per l’uomo». Per evitare equivoci, sa-rebbe più opportuno parlare di “consacrazione non formale”, nel senso di non rientrante nellaforme canoniche di vita consacrata finora riconosciute; infatti anche la “consacrazione teo-logica” così delineata comporta sempre una certa acquisizione di diritti e doveri secondonorme determinate (se non altro quelle del diritto proprio dell’associazione), e dunque unadimensione giuridica.

82 Tutti i cristiani in virtù della rigenerazione battesimale e dell’unzione crismale di Spi-rito Santo «sono consacrati [«consecrantur»] in dimora spirituale e sacerdozio santo, per offri-re [...] “se stessi come vittima vivente, santa e gradita a Dio”» [Lumen Gentium 10a; cf Rm12,1]; dunque sono consacrati da Dio per consacrare se stessi, e in questo consiste il sacerdo-zio comune di tutti i fedeli [Cf GHIRLANDA, Il diritto..., op. cit., p. 88–89, che chiama«consacrazione divina» quella che qui chiamiamo discendente, e «consacrazione personale»quella che qui chiamiamo ascendente e riflessiva]. Essendo i cristiani in quanto tali consacra-ti, tutti pertanto sono «secondo la propria condizione» tenuti a «condurre una vita santa»[CIC, can. 210; cf LG 39–42].

83 Gli sposi dal sacramento del matrimonio «vengono come consacrati» [«veluti conse-crantur»; CIC can. 1134, che cita Gaudium et Spes 48d, che a sua volta riprende la CastiConnubii di Pio XI], per cui è auspicabile che «giungano a condurre una vita ogni giorno piùsanta e più piena in famiglia», così che il loro stato «progredisca in perfezione» [CIC can.1063].

84 I chierici sono «per la recezione dell’ordine a nuovo titolo consacrati a Dio» [«novotitulo consecrati»; can. 276]; e per questo «sono tenuti in modo peculiare a tendere alla santi-tà» e a praticare in certa misura i consigli evangelici [cf CIC can. 276, 273, 277, 282, riguar-danti rispettivamente la consacrazione e perfezione di vita, l’obbedienza, la castità e la sem-plicità di vita]).

85 I fedeli nella vita consacrata si dedicano a Dio «per nuovo e speciale titolo» [CIC can.573, §1] mediante l’assunzione dei consigli evangelici. Essi non ricevono per questo una pre-via consacrazione discendente da Dio, perché la loro vocazione è già contenuta in germe nelbattesimo e nella cresima, e tuttavia possono essere corroborati da un sacramentale costitutivoche è stato interpretato come un secondo battesimo [cf TOMMASO, Summa II–II 189.3 ad 3;BERNINI, op. cit., p. 172].

Nella pastorale vocazionale, tutte le vocazioni che comportano l’assunzione di un nuovotitolo di santificazione sono dette di “speciale consacrazione”, che, oltre alla “vita consacrata”canonicamente intesa, abbraccia anche le vocazioni al ministero ordinato diocesano e allamissione.

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Secondo un canone dal tono solenne e profondo, tale vita consiste nella«consacrazione di tutta la persona», che ha come principio e causa il«mirabile connubio» con Dio, intrapreso però per sua iniziativa [«a Deoconditum»]; come fine d’utilità comune quello di essere «segno della vitafutura»; come mezzo e fine per sé, «la totale donazione [di sé] nel sacrificioofferto a Dio», tale da trasformare l’esistenza stessa in un «ininterrotto cultoa Dio nella carità» 86.

Inoltre, «la vita» (e tutta la persona) è «consacrata» a Dio «mediante laprofessione» (o meglio l’assunzione) «dei consigli evangelici» «di castità,povertà e obbedienza»: secondo un dinamismo trinitario la “totale dedica-zione” (o consacrazione) «a Dio sommamente amato» avviene mediante “lasequela più ravvicinata di Cristo” «sotto l’azione dello Spirito Santo», che siesplica appunto nei consigli, da non solo praticare genericamente o saltua-riamente, ma da assumere «per un nuovo e peculiare titolo» e in una «formastabile di vita» 87.

Ebbene, solo poi [nel canone 599] si dice che «il consiglio evangelicodi castità assunto per il Regno dei Cieli, che è segno della vita futura e fontedi una più ricca fecondità nel cuore indiviso, comporta [«secumfert»]l’obbligo della perfetta continenza nel celibato» 88.

Che relazione c’è fra questa richiesta e l’essenza della consacrazione?Se è abbastanza chiaro che la castità intesa come indivisione del cuore a sor-gente e difesa di fecondità interiore in vista della vita eterna sia una caratteri-stica propria della consacrazione, dobbiamo chiederci se il celibato sial’unico modo per realizzarla.

§ 39. Il problema: è possibile una consacrazione degli sposati?Fatta questa premessa, ci chiediamo, allora, se questa consacrazione (inte-

sa come il votare se stessi totalmente a Dio) sia possibile anche agli sposati 89.

86 CIC can. 607, §1; questo canone definisce in realtà l’essenza della vita religiosa, ma

nella parte qui citata risulta valido per ogni vita di consacrazione. Si noti come ritroviamo quitutti sintetizzati gli elementi fondamentali della consacrazione già incontrati nell’analisi filo-sofica e teologica della consacrazione.

87 CIC can. 573. Nella prosecuzione del testo si dice che la vita consacrata ha come finequello di «conseguire la perfezione della carità nel servizio del Regno di Dio» (questo è ilvalore santificante della consacrazione), e «la gloria di Dio, l’edificazione della Chiesa e lasalvezza del mondo» (questo è il valore carismatico della consacrazione), da conseguire di-ventando «segno luminoso nella Chiesa» e “preannuncio” della «gloria celeste».

88 Si tenga presente che d’ora in poi quando si parlerà di celibato si intenderà sempre il«celibato per il Regno dei Cieli», ossia scelto stabilmente per vocazione.

89 Non si tratta pertanto di chiarire il rapporto fra matrimonio e verginità, tema peraltroclassico a partire dai Padri (si pensi ad Agostino e a Crisostomo) fino ad oggi [cf RanieroCANTALAMESSA, Verginità, Milano, Ancora 1988; Antonio SICARI, Matrimonio e verginitànella rivelazione. L’uomo di fronte alla «gelosia di Dio», Nuova Edizione, Milano, Jaca

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Da un punto di vista giuridico, in forza del canone appena citato, èchiaro che la risposta non può essere che negativa, fin tanto almeno che talenorma resterà in vigore. Tuttavia, anche da un punto di vista teologico sem-brerebbe di dover rispondere di no, in forza dell’autorità di una tradizioneabbastanza consolidata 90, e anche in ragione di quanto detto finora. Infatti,se la consacrazione in senso stretto prevede i tre elementi della totalità,esclusività e perpetuità, il problema è come sia possibile la consacrazionedegli sposati, dal momento che, se è tutto sommato ammissibile che lo spososia totalmente di Dio, quello che non sembra affatto possibile è una donazio-ne esclusiva a lui nel matrimonio. Infatti lo sposato, oltre ad appartenere aDio, appartiene anche al coniuge: la sua appartenenza a Dio sembra perciònon avere la caratteristica dell’esclusività (il cosiddetto «cuore indiviso»); diconseguenza non sembrerebbe possibile parlare di una vera, piena consa-crazione degli sposati.

D’altra parte, negli ultimi anni tanto l’esegesi biblica quanto la teologiastanno rilevando come occorra distinguere la castità dal celibato e comequest’ultimo non possa propriamente essere annoverato fra i consigli propo-sti da Gesù nella sua predicazione, ma fra quelli proposti solo da Paolo 91.

Per di più, in questi ultimi decenni si stanno moltiplicando nella Chiesacomunità con sposi tesi a vivere i consigli evangelici nello spirito della con-sacrazione 92, in una forma di vita che ovviamente non rientra fra quelle di

Book 1992]; bensì si cerca di studiare innanzitutto la possibilità per gli sposi di un «dono disé nella carità» a Dio, tale che eviti «ogni “ripresa di sé”», anche «nelle relazioni coniugalipiù intime», e di conseguenza il rapporto fra tale donazione e la consacrazione come è intesanella vita consacrata [BEYER, Carismi e Impegni, art. cit., in particolare p. 628–630, dove siaffronta il tema «Consacrazione e Matrimonio»; cf ID., Dio è amore, in «Vita Consacrata»1992, p. 395–403 e 598–607, 1993, p. 72–78].

90 Tale tradizione si fonda sull’affermazione (che discuteremo in seguito) del primato delcelibato, enunciata da Paolo (nel settimo capitolo della prima lettera ai Corinzi) e ripresa au-torevolmente dal Concilio di Trento (nel decimo canone sul matrimonio).

91 Una critica interessante ma radicale della teologia paolina del celibato (peraltro un po’estremistica e viziata da qualche pregiudizio) è quella di Ortensio DA SPINETOLI, I ConsigliEvangelici. Proposta e interpretazione, Roma, Dehoniane 1990. Al contrario, una riproposi-zione (comunque aperta ed equilibrata) della teologia tradizionale della superiorità del celi-bato, inteso come stato del «cuore indiviso» è in Arnaldo PIGNA, Consigli evangelici. Virtù evoti, Morena, O.C.D. 1990 (si vedano in particolare le pagine 188–198 e 233–272).

92 Cf il dossier pubblicato da Giancarlo ROCCA su «Vita pastorale» del dicembre 1993 eripubblicato, ampliato, come volume [Presente e futuro nella vita consacrata, Roma, Deho-niane 1994; cf in particolare p. 65–79)]; cf anche il capitolo 15 di Agostino FAVALE, Vitaconsacrata e società di vita apostolica. Profilo storico, Roma, LAS 1992, p. 259–286; JeanBEYER, Les mouvements nouveaux en église, in ID., Renouveau du droit et du laïcat dansl’église, Paris, Tardy 1993, p. 143–166; e Le mariage chrétien est sacrement, ibid., p. 167–179; GHIRLANDA, Il diritto..., op. cit., p. 241–243. Uno studio storico e canonistico aggiornatoe particolareggiato sui problemi che le nuove realtà pongono alla legislazione vigente è il no-no capitolo di Carlos Ignacio HEREDIA, La naturaleza de los movimientos ecclesiales en el

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vita consacrata finora riconosciute dalla Chiesa, ma di cui si discute se possaalmeno rientrare fra quelle nuove forme di vita consacrata 93 che saggiamenteil Codice [al can. 605] ha previsto e di cui demanda ai vescovi diocesani ildiscernimento e l’accompagnamento, riservandone però l’approvazione allasola Sede Apostolica.

Il testo (pubblicato nel 1992) dei Lineamenta per il Sinodo dei Vescovidel 1994 sulla vita consacrata definisce [al paragrafo 24] tali realtà come«nuove forme di vita evangelica», e se da una parte si riconosce che esse so-no per certi versi assimilabili alla vita consacrata, d’altro canto si ribadisceche vanno distinte nettamente da essa; il testo poi del successivo Instrumen-tum Laboris, elaborato in base alle risposte e alle osservazioni pervenute epubblicato nel giugno 1994, esprime [ai numeri 37–38] un apprezzamentoautorevole su tali nuove forme, ma rileva la necessità di un ulteriore discer-nimento, che probabilmente avverrà nella sede sinodale o subito dopo 94.

Il presente studio vorrebbe cercare di contribuire a tale riflessione, pro-ponendo alcuni argomenti, tratti dalla Scrittura e dalla Tradizione della Chie-sa, che sembrano giocare a favore della possibilità di una consacrazione de-gli sposati (o meglio, di una distinzione fra consacrazione teologicamenteintesa e stato celibatario), provando anche a rispondere alle principali obie-zioni in contrario, specialmente per quanto riguarda l’interpretazione del te-sto paolino sulla superiorità del celibato.

derecho de la Iglesia, Buenos Aires, Universidad Catolica Argentina 1994 (excerpta da unapiù ampia tesi dottorale in diritto canonico difesa in Gregoriana nel 1992).

93 I canonisti sono divisi su questo: aperto e possibilista è Jean BEYER [Il diritto..., op.cit., p. 191–196]; decisamente critico è Velasio DE PAOLIS [La vita consacrata nella Chiesa,Bologna, EDB 1992, p. 73–89]. Sull’interpretazione giuridica del canone 605 si veda VelasioDE PAOLIS, Le nuove forme di vita consacrata (a norma del can. 605), in «InformationesSCRIS», 1993,2, p. 72–95.

94 Per la discussione dei Lineamenta del Sinodo sulla vita consacrata (soprattutto a pro-posito del nostro tema) cf Gianfranco GHIRLANDA (ED.), Punti fondamentali sulla vita consa-crata, Roma, PUG 1994 [raccoglie sei articoli tratti dalle annate 1993 e 1994 di «Periodica dere canonica»], fra cui in particolare si vedano Jean BEYER, Originalità dei carismi della vitaconsacrata, p. 63–98 [p. 257–292 di «Periodica» 1993]; Gianfranco GHIRLANDA, Alcuni puntiin vista del Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata, p. 147–171 [p. 67–91 di «Periodica»1994]; alcuni spunti sono stati recepiti dall’Instrumentum Laboris [37 e 38].

La Conferenza Episcopale Italiana riunita a Collevalenza dal 25 al 28 ottobre 1993 perdiscutere appunto della vita consacrata ha concluso i lavori con un Messaggio (pubblicato da«Avvenire» il 3 novembre) in cui si parla di persone consacrate «nella forma di vita evangeli-ca degli istituti secolari o in altre forme di vita consacrata, alcune delle quali sono proprie allacondizione di persone sposate» (c’è da rilevare un’inesattezza, o un lapsus, nel testo: le for-mulazioni di «vita evangelica» e «vita consacrata» andrebbero, a rigor di termini, invertite).Sui Lineamenta del Sinodo e sulla relativa discussione dei vescovi italiani cf anche MarcellaFARINA, Prospettive femminili sul Sinodo ‘94, in «Ricerche Teologiche» 1993, p. 341–369.

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§ 40. Primo argomento: l’evoluzione della vita consacrata ha finora sem-pre portato ad allargarne le basi e a meglio comprenderne e valorizzarnel’essenza.

La storia della vita consacrata può essere in un certo senso riletta comela storia dell’interpretazione di alcuni passi del Vangelo, primo fra tuttiquello della chiamata del giovane ricco: «Va’, vendi quello che hai e dàllo aipoveri, e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» [Mt 19,21], che perònon fa alcuna menzione del celibato. Sembrano invece più espliciti due altripassi relativi alla sequela, quando Gesù dice ai suoi discepoli: «Se qualcunomi vuol seguire rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi se-gua» [Lc 9,23]; e ancora: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua ma-dre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la sua stessa vita, non puòessere mio discepolo» [Lc 14,26].

Ebbene, il cuore della sequela è il rinnegamento di sé (ovvero dellapropria natura corrotta) e il segreto di tutto sta nell’«odiare [...] perfino lapropria vita», perché tutto il resto viene di conseguenza. Ma cosa significaquesto in concreto?

Agli albori del cristianesimo il passo in questione poteva essere spon-taneamente applicato innanzitutto agli apostoli (perché essi per primi aveva-no lasciato tutto per seguire Cristo, fino a dargli testimonianza con il san-gue), e, successivamente, ai molti martiri che avevano «odiato» e«disprezzato la propria vita, fino a morire» [Ap 12,11] per Cristo; e in effetti«il martirio, col quale il discepolo è reso simile al maestro» [Lumen Gentium42b] è divenuto il paradigma di ogni santità e della stessa consacrazione 95.

Tuttavia a mano a mano che il cristianesimo cominciava ad essere pri-ma tollerato e infine addirittura assunto a religione di stato, si sviluppò ilmovimento di quei cristiani che volendo vivere da veri discepoli di Cristoabbandonavano le città per ritirarsi nel deserto, scoprendo un nuovo modo dimettere in pratica questo passo evangelico: la vita eremitica. Gli eremiti permeglio rinnegare se stessi lasciavano padre, madre, famiglia, beni, la vitadella città e addirittura la compagnia dei propri simili. Essi pur non morendofisicamente come i martiri, accettavano una sorta di «morte al mondo» 96.

Però, la storia ha mostrato che l’eremitismo non era che una delle pos-sibili forme (non esente tra l’altro da esagerazioni e stranezze) di vita evan-gelica, sicché si è sempre più sviluppata la vita comune, all’interno di mo-

95 Se il martire è stato dalle origini modello di santità e consacrazione (e fino ad oggi [cf

DE PAOLIS, Le nuove forme..., art. cit., p. 85–86]), invece le vergini e le vedove, che venivanoiscritte in un apposito catalogo, formando così un vero e proprio ordo ecclesiale [cf 1Cor 7;1Tm 5,3–16], costituivano in parte un ministero nella Chiesa, e in parte oggetto di carità daparte della Chiesa stessa, che provvedeva al loro sostentamento.

96 La letteratura dei Padri del deserto è ricca di aneddoti e di apoftegmi in proposito (adesempio a proposito di Arsenio, nella serie alfabetica delle Vitae patrum).

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA184

nasteri o cenobi (quasi sempre in luoghi appartati), oppure in comunità ca-nonicali: qui la morte al mondo comportava il ritirarsi dalla vita familiare ecittadina, ma non da una vita sociale e dal lavoro (manuale ed intellettuale).La letteratura monastica insiste sul fatto che il rinnegamento di sé va intesotanto esteriormente, quanto (soprattutto) interiormente, e cioè come un nonessere attaccati a se stessi e rinnegare la propria superbia, il proprio io, il chepoteva farsi anche (o ancor meglio) in comunità 97.

Il monachesimo ha così caratterizzato l’alto medioevo, che i teologi di-stinguevano tre categorie di fedeli nella Chiesa: i chierici, i laici e i mona-ci 98, questi ultimi caratterizzati dall’“uscita dal mondo” (reinterpretazionedell’antica “morte al mondo” degli eremiti), di cui il cambio del nome almomento della professione è un segno efficace. Quando però all’inizio delDuecento cominciarono a diffondersi gli ordini mendicanti (grazie a Fran-cesco e a Domenico), col desiderio di vivere una vita evangelica, e quindianche (a differenza dei monaci) attivamente evangelizzatrice, teologi e cano-nisti non sapevano come inquadrarli. A differenza dei monaci, i frati fondanoconventi nelle città, vengono spostati da un convento all’altro (contro la tra-dizionale stabilità monastica), sostituiscono il lavoro manuale con la predica-zione, recitano velocemente l’ufficio divino, si sostentano chiedendol’elemosina, assumono a volte alcuni dei compiti tradizionali dei chierici se-colari (come predicare e confessare); a differenza dei chierici non sono in-cardinati in una diocesi e sono esentati dalla giurisdizione del vescovo e vi-vono in povertà ed obbedienza come i monaci. Sono noti sia i conflitti pasto-rali tra frati e preti secolari sia i conflitti dottrinali tra teologi tradizionalisti(che accusavano i mendicanti di essere un pericolo per la Chiesa) e teologimendicanti (come Tommaso e Bonaventura) 99, protrattisi per decenni, finoalla completa assimilazione della novità nell’ordine costituito: la triade ec-clesiologica di “chierici”, “laici” e “monaci” venne sostituita con quella (più

97 In questa linea si collocano gli Insegnamenti spirituali di DOROTEO DI GAZA [edizione

bilingue greca e francese (a cura di Regnault e Préville) in DOROTHÉE DE GAZA, Oeuvres spi-rituelles, Paris 1963 (Sources Chrétiennes 92); edizione italiana pubblicata a Roma da CittàNuova nel 1979] (si veda in particolare il primo capitolo, sulla rinuncia), come pure la Regolabenedettina.

98 La triade attraverso alcune auctoritates patristiche (di cui una, in particolare, di Gre-gorio Magno) è giunta anche a TOMMASO (che la riporta implicitamente in Catena aurea inMatthaeum 24.11) e a BONAVENTURA (che la usa esplicitamente nelle Collationes inHexaëmeron 22.17).

99 Cf Andrea DI MAIO, San Bonaventura e la teologia francescana, in Enrico DALCOVOLO, Giuseppe OCCHIPINTI, Rino FISICHELLA, Storia della Teologia, in corso di pubblica-zione presso le Dehoniane di Napoli; si vedano anche di San BONAVENTURA, le Questioni di-sputate sulla perfezione evangelica [traduzione e note di Andrea Di Maio, nel volume 14/2dell’edizione bilingue delle Opere di San Bonaventura, in corso di pubblicazione a Romapresso Città Nuova].

ANDREA DI MAIO 185

aggiornata) di “chierici”, “laici” e “religiosi”, destinata a giungere fino adoggi 100.

Nel Cinquecento c’è da annoverare un’altra novità: la nascità delle so-cietà di chierici regolari. In particolare, la Compagnia di Gesù, fondata daIgnazio, assunse caratteristiche diverse da quelle tradizionali. Ignazio aboli-sce l’obbligo del “coro” (la recita comunitaria dell’“ufficio divino”) e l’abitoreligioso (i chierici avrebbero vestito l’abito ecclesiastico della regione), inquanto la Compagnia non ha una vita conventuale, ma è una comunità che«disperde» i suoi membri nei più diversi campi di apostolato. Anche queste(ed altre) innovazioni non furono accettate sempre senza problemi, tanto cheper diverse decine di anni i papi hanno più volte rimesso in discussioni alcu-ne di queste particolarità, finché anche il modello dei gesuiti venne accoltocome un modo (molto imitato) di impostare la vita religiosa.

Successivamente, nell’Ottocento nascono le congregazioni, anch’essecon alcune novità che hanno fatto dubitare per un po’ di tempo che rientras-sero nella vita religiosa. Don Bosco, ad esempio, ha voluto che per i suoiSalesiani il voto di povertà non avesse più valore anche civile (con la perditadella capacità giuridica di possedere beni), sicché veniva a cadere uno degliultimi segni della «morte al mondo» che caratterizzava la vita religiosa me-dievale.

Forse però la più grande innovazione nella storia della vita consacratac’è stata nel Novecento con la nascita “ufficiale” degli istituti secolari,quando cioè, dopo molte titubanze, nel 1947 Pio XII ha stabilito la possibi-lità di una vera vita secondo i consigli evangelici anche rimanendo nel mon-do. Questo ha comportato anche una innovazione terminologica e concet-tuale: da allora il termine di “consacrazione” ha indicato la realtà comune atutti i diversissimi istituti religiosi o secolari. In tal modo la definizione dellavita consacrata si è spostata dall’“uscita dal mondo” (come prima si intende-va la professione religiosa) alla pratica dei consigli evangelici nel celibato.

Insomma, per estendere la pratica dei consigli evangelici anche ai se-colari si è dovuto ricorrere [cf Perfectae Caritatis 1d] al concetto di con-sacrazione, che è più profondo di quello di professione religiosa: infatti c’è

100 Col nome di “religiosi” vennero indicati tutti quelli che per meglio vivere la virtù di

religione abbracciavano una Regola in una Religione (nome generico che valido tanto per gliordini monastici, mendicanti, ospedalieri o militari). Questa seconda triade (“chierici”,“laici”, “religiosi”) è arrivata fino ai testi del Concilio Vaticano II: in particolare la LumenGentium l’ha adottata, benché essa fosse già entrata in crisi (come si dirà) con la nascita“ufficiale” degli istituti secolari (i cui membri sono consacrati ma non religiosi, bensì, a se-conda dei casi, laici o chierici). Di tali istituti il Concilio parla al numero 11 nel decreto Per-fectae Caritatis, dedicato al rinnovamento della vita religiosa: si sa che a nome degli istitutisecolari Giuseppe Lazzati cercò inutilmente di ottenere una collocazione migliore, ma riuscìcomunque a far modificare leggermente il testo. Sul problema si veda Giuseppe LAZZATI,Consacrazione e secolarità, Roma, AVE 1987, p. 67–71.

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA186

una consacrazione che alcuni vivono secondo la forma della professione re-ligiosa, cioè pubblicamente e visibilmente, e c’è un’altra forma di consacra-zione che si può vivere riservatamente nella condizione del secolo.

A voler generalizzare queste osservazioni, possiamo forse dire che nellastoria della vita consacrata vige una legge di evoluzione che da una parteporta ad allargare sempre più le basi della vita consacrata (estendendola acerchi concentrici nel popolo di Dio e radicandola più profondamente nelpopolo di Dio e nel mondo), e dall’altra costringe ad andare sempre più inprofondità per poterne formulare con sempre maggior precisione l’essenza- 101, ossia prescindendo da quanto è accidentale (e legato all’epoca storica difondazione e alla missione particolare di questo o quell’istituto o gruppo diistituti).

Sembrerebbe dunque verosimile che allargare la vita consacrata aglisposati (cosa che in realtà non è nuova, ma ha avuto qualche precedente nelpassato 102) possa giovare ad intenderne più profondamente il senso (il rinne-gare se stessi per essere totalmente di Dio), sì che questo ridondi a vantaggioanche della vita consacrata tradizionale.

101 Sarebbe del tutto fuorviante interpretare l’evoluzione della vita consacrata o come

una «progressiva decadenza» (considerando quindi la sua prima forma, quella monastica, co-me «nata perfetta» e come paradigma per misurare tutte le forme successive), o viceversacome un continuo progresso verso la perfezione: al contrario, ogni forma di vita «possiedecontenuti, metodi e mezzi per portare alla perfezione della vita cristiana i suoi membri», an-che se non va dimenticata «la stretta correlazione tra “moduli di vita consacrata e contingenzestoriche”», e quindi la continua necessità di aggiornamento e inculturazione [FAVALE, Vitaconsacrata..., op. cit., p. 288–289].

102 Sono noti almeno tre esempi di “vita regolare” a cui erano ammessi anche i coniugati[cf HEREDIA, La naturaleza de los movimientos..., op. cit., p. 143–146 e 150–151, che allegacopiosa documentazione]: l’ospitalità stabile accordata a famiglie nei monasteri (prevista adesempio dalla Regula communis di San Fruttuoso di Braga), la partecipazione di sposati aiTerzi Ordini con impegni specifici, ma soprattutto l’ammissione (riconosciuta dalla Santa Se-de fino all’epoca tridentina) di uomini coniugati in alcuni Ordini Militari (come l’Ordo mili-tiae Sancti Iacobi, la cui regola ammetteva a pari titolo non solo preti e uomini laici celibi,ma anche uomini sposati, i quali si impegnavano a osservare, secondo il consiglio paolino,l’astinenza periodica).

Queste forme di vita regolare per sposati erano note allo stesso TOMMASO d’Aquino, ilquale però le riteneva solo impropriamente «religiones» (ossia ordini religiosi), in quanto«partecipano [solo] alcuni elementi pertinenti allo stato religioso» [Summa Theologiae II–II,186.4 ad 3]; ma la motivazione che Tommaso ne dà [ibid., in corpore] (ossia che gli sposatisono impediti dalla perfezione a causa del piacere sessuale, identificato con la concupiscenza,e dalla sollecitudine per la famiglia) è alquanto problematica, come vedremo.

ANDREA DI MAIO 187

§ 41. Corollario: se si ammette la possibilità di una consacrazione per chi ri-nuncia a prender moglie ma non a restare coi familiari, è difficile negarla perchi è sposato.

Rileggiamo alla luce della storia della vita consacrata appena delineatail discorso di Gesù da cui eravamo partiti: «Se uno viene a me e non odia suopadre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la sua stessavita, non può essere mio discepolo».

Se per i religiosi mettere in pratica questo brano significa non solo ri-nunciare a sposarsi, ma anche lasciare la propria casa ed entrare nella vitareligiosa, per i membri degli Istituti Secolari, invece, significa rinunciare sìad avere moglie e figli, ma non necessariamente a vivere con il padre, la ma-dre, i fratelli e le sorelle e nemmeno significa rinunciare a possedere beni oad esercitare (in autonomia, ma con coerenza e responsabilità) le proprie at-tività secolari: e questo non sminuisce affatto la loro consacrazione, inquanto la loro rinuncia (invisibile ma reale) è all’attaccamento alle realtà delmondo.

Ma allora, se ai membri di Istituti Secolari è possibile vivere con i pa-renti e a casa propria pur rinunciando spiritualmente ad ogni attaccamentoegoistico ad essi, perché non è possibile agli sposi fare lo stesso con i rispet-tivi coniugi e figli?

Non sarebbe questa la logica conseguenza di quanto affermava Paolonella prima lettera ai Corinzi [7,29–31]? «Chi ha moglie viva come se nonl’avesse [...]. Chi compra viva come se non possedesse. Chi usa di questomondo viva come se non ne usasse appieno, perché passa la scena di questomondo». La forma di vita consacrata secolare ha finora messo in pratica laseconda e la terza di queste indicazioni: perché non dovrebbe esser possibilerealizzare anche la prima?

§ 42. Secondo argomento: la consacrazione per lo sposato potrebbe consiste-re nel rinunciare al “proprio” coniuge per riaverlo in modo nuovo da Dio.

Nel trattare la nostra questione è divenuto ineludibile chiarire (nella fra-se di Gesù: «Se uno non odia suo padre, sua madre...») quale sia, al di làdelle applicazioni pratiche, il significato teologico di questo “odiare”.

Kierkegaard, in Timore e Tremore, stigmatizza la tentazione di predi-catori e commentatori di ridurre l’“odiare” all’“amar di meno” (di cui il pas-so parallelo di Matteo [10,37] parla). Invece, “odiare” vuol dire smettere diamare con amore puramente umano e riamare in Dio.

L’esempio di questo è costituito dal sacrificio di Abramo, nostro padrenella fede: avuto il figlio della promessa, si vede chiedere da Dio in sacrifi-cio Isacco. Abramo va sul monte, è disposto a sacrificare Isacco, ma per lasua fede Isacco gli è restituito. Gli è restituito però in maniera nuova, non

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più come figlio suo, ma come figlio di Dio, figlio della promessa. Questo èquello che deve fare ognuno che ha davvero la fede, e in questo Abramo ci èpadre, perché ci ha mostrato il duplice movimento della fede: il primo è ri-nunciare a tutto per fede, ma il secondo è che Dio, vista la mia fede, mi re-stituisce tutto in maniera nuova, una maniera che non è più mia, ma è diDio 103.

A ben guardare, questo movimento descritto da Kierkegaard è implicitonel sacrificio di sé e delle proprie cose che si realizza nei voti, e in particola-re in quelli emessi nella secolarità: ad esempio chi fa voto di povertà rinun-cia alla proprietà dei suoi beni personali per farne dono a Dio, ma Dio(mediante l’istituto o la comunità) glieli riaffida come in amministrazione.Apparentemente non è cambiato niente, ma nella sostanza tutto è cambiato.

Ma allora, se questo vale per la povertà (in particolare per quella vissutanegli Istituti Secolari), altrettanto dovrebbe valere per la castità evangelica(intesa come qualcosa di più che la castità minimale o di precetto): essa nonsembra essere patrimonio soltanto del celibe per il Regno (che ha rinunciatoa prender moglie e ad avere figli), ma anche di quello sposo che rinunciassea considerare possessivamente la propria moglie e i propri figli, ben sapendoche essi gli vengono ridonati in maniera nuova: una moglie vista non piùcome solo “sua”, ma come figlia di Dio e come sorella in Cristo, oltre checome moglie per volontà di Dio; e dei figli visti non più come figli solo“suoi”, ma come figli di Dio da allevare e da educare; coniuge e figli, in-somma, che condividono la vita a diverso titolo con lui, ma che appartenen-gono prima di tutto a Dio 104.

103 Questo è un tema classico nella letteratura spirituale: si pensi al «riferire tutto a Dio»

di cui parla più volte TOMMASO [cf In Symbolum 1]; e all’indifferenza per sant’IGNAZIO(formulata nel Principio e Fondamento degli Esercizi Spirituali), che culmina nella contem-plazione per ottenere l’amore con l’offerta di sé a Dio: «Ricevi [...] ciò che [da te...] ho rice-vuto». Dietro questo tema spirituale, c’è però la profonda verità metafisica della trascenden-za–immanenza (senza separazione e senza confusione) del Dio creatore nel mondo: infatti, seDio fosse solo il valore più grande, separato da tutti gli altri valori, una relazione di impegnocon lui escluderebbe ogni altra relazione di impegno con le creature; ma siccome Dio è il va-lore infinito che dà valore anche ad ogni valore finito, è possibile (se questo corrisponde allasua volontà) inserire nella relazione di impegno esclusivo con lui anche l’impegno nelle realtàtemporali e l’impegno matrimoniale stesso, giacché «in lui viviamo, ci muoviamo e siamo»[At 17,28].

104 In effetti, ogni voto deve riguardare un «bene migliore e possibile» [CIC can. 1191;cf TOMMASO, Summa Theologiae, II–II, 88.2], e quindi non può limitarsi a promettere a Dioqualcosa che gli è già dovuto per precetto; di conseguenza, il voto di castità nello stato coniu-gale deve prevedere l’offerta a Dio di tutta la vita coniugale, il cui segno esteriore può ben es-sere, secondo il consiglio paolino, quello dell’astinenza periodica, purché praticata a difesa esorgente di vita interiore e per purificare l’amore coniugale dai residui di concupiscenza.

ANDREA DI MAIO 189

Questo è appunto quanto diceva Paolo: «Chi ha moglie viva come senon l’avesse; chi possiede come se non possedesse; chi usa di questo mondocome se non ne usasse appieno, poiché passa la scena di questo mondo».

§ 43. Terzo argomento: la dottrina dei primi Padri, di alcuni scrittori eccle-siastici e del magistero recente apre dei varchi alla consacrazione degli sposati,mentre la minore considerazione che una certa tradizione ha del matrimonio èimputabile almeno in parte ad una concezione ormai superata della sessualità.

Quanto abbiamo detto relativamente alla evoluzione della vita consa-crata lo possiamo ritrovare negli spunti teologici che diversi Padri e autore-voli scrittori ecclesiastici, oltre che gli ultimi papi hanno dato.

A) Esaminiamo innanzitutto la dottrina su celibato e matrimonio di al-cuni dei Padri più antichi, che sembra caratterizzata dal grande apprezza-mento per il celibato (novità cristiana rispetto alla tradizione prevalente tantopagana quanto giudaica), ma senza preclusione per una vita matrimonialeevangelicamente piena. Ancora in epoca apostolica, Ignazio di Antiochiacosì scriveva a Policarpo [5.2] 105:

«Se qualcuno può mantenersi continente in onore del corpo del Signore lo faccia sen-za vantarsi, e se se ne vanta è perduto e se non ha il riconoscimento del Vescovo è rovinato.Anche agli uomini e alle donne che si sposano conviene sposarsi con il riconoscimento delVescovo, affinché le nozze siano fatte secondo il Signore e non secondo la concupiscenza.Ogni cosa [ossia tanto il celibato quanto il matrimonio], si faccia per l’onore di Dio».

C’è qui tutta la considerazione del matrimonio come piena vocazione:cioè ci si deve sposare non per concupiscenza ma per vocazione, e viceversasi deve scegliere il celibato non per comodità propria ma per vocazione.

Nelle Sentenze di Sesto [230a, 230b e 232] troviamo disposizioni per icelibi: «Dio ti concede di rifiutare le nozze per vivere come suo familiare»;per gli sposati: «Pur sapendo che si tratta di una dura lotta, agisci da uomo:sposati e genera figli»; e per entrambi: «Non fare nulla per amore del puropiacere» 106.

Origene (che pure nelle sue affermazioni in materia non è sempre coe-rente), nel Commento alla lettera ai Romani [9.1], riguardo al passo «Viesorto fratelli ad offrire i vostri corpi come sacrificio spirituale gradito aDio» [Rm 12,1–2], dice:

105 Testo riportato in Charles MUNIER, Mariage et virginité dans l’église ancienne (Ier–

IIIe siècles), Bern, Lang; trad. it. di Giovanni Ramella, Matrimonio e verginità nella Chiesaantica, Torino, SEI 1990, n. 23, p. 22–23 (si tratta di una raccolta organica, in originale e intraduzione, delle principali affermazioni in materia dei padri preniceni).

106 Ibid., n. 104, p. 134–135. Il filosofo pitagorico Sesto, pur non essendo un Padre dellaChiesa, tale fu però considerato dai posteri, e in particolare da Rufino che ne tradusse in lati-no le sentenze (probabilmente già nel testo greco ritoccate da un cristiano).

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA190

«Vittima vivente, santa e gradita a Dio è il corpo incontaminato, ma poiché vediamoche alcuni santi anche tra gli apostoli furono sposati, non possiamo pensare questo solo inriferimento alla verginità [...]. Dunque nella Chiesa dopo gli apostoli la prima vittima èquella dei martiri, la seconda quella dei vergini, la terza quella dei continenti, [... e la quartaè] quella degli sposati che si accordano per tenersi liberi temporaneamente per dedicarsi allapreghiera, adempiendo così i voti dei nazirei» 107.

In questo testo troviamo da una parte la riflessione teologicasull’evoluzione delle categorie di santi (apostoli, martiri, vergini) nei primitre secoli della Chiesa, ma troviamo anche già delineata quella che abbiamochiamato la consacrazione speciale a Dio, unica nella sostanza per tutti, puressendo diversa nelle sue modalità concrete: si può infatti offrire se stessi aDio in tanti modi, e non solo quello degli apostoli, quello dei martiri, quellodei vergini e quello dei continenti (ossia di quanti hanno assunto il celibatopur non essendo sempre stati vergini), ma anche quello degli sposi che ac-colgono il consiglio paolino dell’astinenza periodica «per dedicarsi alla pre-ghiera» [1Cor 7,5] e che quindi sono equiparati ai nazirei (i consacrati antelitteram). In effetti “dedicarsi alla preghiera” è pressocché sinonimo di“consacrarsi a Dio” (infatti, gli sposi non pregano solo quando si astengonodai rapporti, ma l’astinenza periodica diviene segno e strumento di una of-ferta spirituale completa e continua a Dio).

Questo argomento in favore di una certa consacrazione degli sposati èdi grande rilievo, soprattutto considerando la grande stima di Origene per -l’«eunuchia per il Regno» (al punto di averla in gioventù intesa erronea-mente alla lettera).

Inoltre, nel Commento alla prima lettera ai Corinzi [37], riguardo alversetto «la circoncisione non conta nulla e la non–circoncisione non contanulla» [1Cor 7,19], Origene ne fa una lettura spirituale per i cristiani del suotempo, interpretando la circoncisione come celibato e la incirconcisione co-me matrimonio:

«Poiché taluni credono che chi è celibe sia per ciò stesso in condizione più vantaggio-sa di chi non lo è, mentre chi è sposato sarebbe in condizione inferiore rispetto al celibe peril fatto stesso di essere sposato, vogliamo [...] insegnare che il celibato, come pure il matri-monio sono per loro natura indifferenti; infatti, se uno è celibe [...], ma per il resto vive ma-le, non riceve alcun vantaggio dal suo celibato; mentre chi è sposato, se assolve i suoi dovericon ordine e nei tempi opportuni e osserva il resto delle norme morali, non è inferiore al ce-libe» 108.

Il dovere di cui si parla è quello del rapporto coniugale, di cui accenna-va Paolo nella prima lettera ai Corinzi [7,3]; tale «debito» va comunque as-

107 Il testo è quello della versione (latina) di Rufino che ne è rimasta; cf ORIGENE, Com-mento alla Lettera ai Romani, a cura di Francesca Cocchini, vol. 2, Torino, Marietti 1986, p.93.

108 Testo riportato in MUNIER, Matrimonio..., op. cit., n. 145, p. 192–193. Poco prima [alframento 34] Origene aveva detto che «dal matrimonio spira un carisma, che nascedall’accordo, quando la misura è rispettata» [ibid., n. 139, p. 186–187].

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solto «con ordine» (cioè «non per concupiscenza», come raccomandava il li-bro di Tobia [8,7–9]) e nei tempi opportuni (accogliendo il consigliodell’astinenza periodica). L’affermazione origeniana che lo sposo a certecondizioni (non dunque in ogni caso) «non è inferiore al celibe» è di grandeportata, se non altro come testimonianza di una tradizione in proposito diver-sa da quella a cui siamo abituati.

B) Quella che invece è divenuta la tradizione dominante ha trovato inoccidente il suo punto di riferimento in Agostino, il quale, pur difendendostrenuamente la dignità del matrimonio, è stato anche uno dei più decisi sos-tenitori non solo della superiorità del celibato sul matrimonio ma anche dellacorruzione insita nel piacere sessuale.

Ciò nonostante, Agostino ci ha lasciato un testo [nel Bene delle nozze22.27 109] che fa una eccezione per Abramo. Se il celibato è infatti più per-fetto del matrimonio, come mai Abramo, che ci è padre nella fede, era spo-sato?

«Se a un cristiano continente si dicesse: – Tu dunque sei migliore di Abramo! – eglidovrebbe rispondere: – Non certo io sono migliore di Abramo, ma è la purezza dei celibi adesser migliore di quella degli sposati; tuttavia di queste due forme di purezza Abramo avevauna in uso ed entrambe in abito. Della purezza dei celibi Abramo non mancava, anche seapparentemente non sembrava».

Per Agostino, si tratta solo di una eccezione, perché [cf 17.19 e 19.22] ipatriarchi veterotestamentari erano di molto superiori agli attuali continenti eneppure paragonabili agli attuali coniugati; ma così si apre comunque unospiraglio: è dunque teologicamente possibile essere sposati di fatto, e peròspiritualmente celibi e sposi insieme; ma (ci chiediamo), se questo è statopossibile ai patriarchi, il cui matrimonio era solo naturale, perché non puòessere possibile ai figli della Nuova Alleanza, il cui matrimonio è un sacra-mento di Cristo?

Inoltre, se Agostino e tutta la tradizione che si richiama a lui hanno te-nuto in minore considerazione il matrimonio rispetto al celibato, questo èforse in buona parte imputabile ad una particolare dottrina, secondo cui nelprogetto creativo originario di Dio (e quindi nello stato di innocenza) l’uomoe la donna si sarebbero accoppiati solo per la riproduzione e senza provarealcun piacere o desiderio sessuale, così come ad esempio si porta la manoalla bocca; tale piacere per la sua veemenza sarebbe infatti disordinato edintrodotto a causa del peccato originale (anzi, sarebbe da identificare con la

109 Il testo agostiniano è ripreso da BONAVENTURA nelle Questioni sulla perfezione evan-

gelica 3.3 ad 1, da cui citiamo, perché più conciso. Anche TOMMASO cita il testo agostinianonella Summa II–II, 186.4 ad 2.

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concupiscenza) 110; pertanto gli uomini nascerebbero nel peccato originaleproprio in quanto concepiti mediante la corruzione del piacere sessuale 111.

Questo spiega la concezione del matrimonio non solo come “ufficio”(per la generazione della prole) e come “sacramento” (dell’amore di Cristoper la Chiesa), ma anche come “rimedio” (contro il pericolodell’incontinenza): rimedio tuttavia meno perfetto della continenza celibata-ria e che comunque Agostino auspicava si evitasse (auspicando cioèun’umanità di vergini, che avrebbe compiuto il numero degli eletti meglio eprima che se avesse continuato a procreare). Di conseguenza [sempre secon-do Agostino, nel Bene delle nozze 12.14], anche se ci sono pure alcuni co-niugati che si dedicano alle cose del Signore, «tuttavia sono più che rari, nési sono sposati per dedicarsi a Dio, ma [solo] dopo sposati si sono dedicati alui»; il che ha condizionato storicamente non solo l’esclusione degli sposidalla vita che noi chiamiamo consacrata (come abbiamo già visto), ma anche(come vedremo) la pratica delle canonizzazioni e beatificazioni nella Chiesafino a pochi anni fa.

Ebbene, questa teoria del piacere, pur avendo una sua parte di verità,non è però esatta; e comunque non solo la dottrina teologica (soprattutto conFrancesco di Sales, e ormai comunemente oggi) ma lo stesso magistero re-cente (soprattutto da Pio XII in poi) l’hanno definitivamente abbandonata, omeglio corretta. Infatti Dio stesso ha previsto nel suo atto creativo il deside-rio e il piacere sessuale, e non solo in vista della procreazione, ma anchedell’armonia della coppia; tuttavia il peccato ha corrotto questo sano deside-rio con la concupiscenza, dalla quale bisogna perciò guardarsi e continua-mente purificarsi.

Certamente, ci si può sposare per concupiscenza (e in tal caso il matri-monio è un rimedio contro il pericolo del peccato: non per nulla Paolo nellaprima lettera ai Corinzi [7,8] diceva che «è meglio sposarsi che ardere»); maè chiaro che non è questo l’ideale e che è non solo è possibile, ma soprattuttoè preferibile sposarsi per vocazione. Se i coniugi non si impegnano a purifi-care il loro amore (e l’atto coniugale stesso) dalla concupiscenza, il loro statodi vita scelto come rimedio al peccato sarà inevitabilmente non solo un beneminore rispetto al celibato scelto per il Regno dei Cieli, ma anche una condi-zione in cui il cuore è almeno in parte diviso da Dio.

In ogni caso, qualora la minor valutazione del matrimonio rispetto alcelibato dipendesse effettivamente da quelle dottrine inesatte sull’unione co-

110 Cf AGOSTINO, De civitate Dei 14.23–26; BONAVENTURA, In Sententiarum libros

2.20.1.3; TOMMASO, Summa Theologiae 1.98.2. 111 Cf BONAVENTURA, Breviloquium 3.6 (che riprende una idea anselmiana).

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niugale, allora, venute oggi a cadere queste premesse, non dovrebbe essererimessa in discussione anche la conclusione 112?

C) La terza tappa nel nostro itinerario attraverso la tradizione, è neces-sariamente la dottrina di Francesco di Sales, in cui non solo ritroviamoquella visione estremamente positiva del matrimonio (e della vita comune esecolare) che abbiamo riscontrato nei primi Padri, ma troviamo anche glielementi dottrinali per superare la concezione non del tutto corretta primadelineata. Il Sales scrisse per i cristiani comuni l’Introduzione alla vita de-vota o Filotea. La devozione non è semplicemente la virtù, come la carità,ma una particolare facilità ed intensità della carità. Se la carità è un fuoco, ladevozione è una fiammata (dice il santo al principio della prima parte) che ciporta ad intraprendere «tutte le opere buone che ci sono possibili, anche senon comandate, ma soltanto consigliate».

Insomma, la devozione fa sì che tutta la nostra vita sia una vita de–vota,votata a Dio, cioè (diremmo noi) una vita consacrata. Francesco di Sales diceche la vita devota (lodevolmente arricchita da voti personali o privati) si puòavere in tutti gli stati, anche nel matrimonio, e comporta un sacro vincolo euna consacrazione 113.

Nella Filotea, troviamo [ai capitoli 3.12–13] innanzitutto una tratta-zione della castità in generale, e solo molto più in là [nei capitoli 3.38–41]una trattazione delle modalità per viverla nei diversi stati di vita: così, ac-canto alla una castità verginale, si tratta anche della castità sponsale (comepure di quella vedovile e di quella giovanile o in ricerca) vissute devota-

112 A nulla varrebbe il tentativo di qualcuno di fondare la minor valutazione del matri-monio sull’impegno affettivo che comporta: nessuno si è mai permesso infatti di contestarequesto a Maria e Giuseppe. Eppure, dovrebbe far riflettere questo: Maria, che al momentodell’annunciazione è divenuta il prototipo di tutti i consacrati, a norma del CIC [cf can. 643,§1, 2°; 721, §1, 3°] non sarebbe stata accettata in nessun istituto di vita consacrata, perduranteil suo matrimonio con Giuseppe...

113 Cf Oeuvres de Saint François de Sales, vol. 3, Annecy 1893. Nel capitolo 11 dellaterza parte [p. 172] il SALES loda i voti personali (anche quando non fossero pubblicamentericonosciuti dalla Chiesa): anche se infatti «la sola carità ci mette nella perfezione», obbe-dienza castità e povertà sono i tre gran mezzi per acquistarla: «l’obbedienza consacra[«consacre»] il nostro cuore, la castità il nostro corpo e la povertà i nostri mezzi all’amore e alservizio di Dio». Nel capitolo 20 della prima parte [a p. 60], poi, invita la persona a prendereuna volta per tutte l’impegno della devozione, che chiama «promessa e consacrazione»[«resolution et consecration»], «dedicando e consacrando» [«dediant et consecrant»] “il suospirito con tutte le sue facoltà, la sua anima con tutte le sue potenze, il suo cuore con tutte lesue affezioni, il suo corpo con tutti i suoi sensi, in totale sacrificio e immolazione a Dio”.Come è noto la Filotea è scritta per persone comuni che vivono nel mondo, e soprattutto nelmatrimonio.

Del resto nel 1712 San Luigi DE MONTFORT, nel suo Trattato della vera devozione allaVergine Maria [3.1] (così caro a Giovanni Paolo II) fonderà ogni devozione e consacrazionesui «voti battesimali», che (secondo la dottrina di Agostino) fra tutti i voti sono i più grandi esacri.

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mente, cioè tendendo alla perfezione. Ebbene, la castità sponsale (che com-porta l’astinenza periodica e la moderazione) è sì più difficile di quella celi-bataria (che comporta l’astinenza perpetua), ma non impossibile, «così comeil precetto “Adiratevi e non peccate” è più difficile da osservare che nonquello di non adirarsi affatto» [3.12]. Francesco di Sales in questo riprendel’affermazione paolina, secondo cui gli sposi «avranno tribolazioni» [1Cor7,28]; queste, del resto, sono (per chi è chiamato al matrimonio) prove e cro-ci non da sfuggire ma da affrontare per il bene superiore della Chiesa, comenel caso dei santi re medioevali.

D) Sorvolando sugli ulteriori sviluppi della tradizione, possiamo final-mente giungere ai nostri tempi e considerare l’atteggiamento del magisteropost–conciliare.

Paolo VI nella Humanae Vitae (e in numerosi suoi discorsi) ha fornitoindicazioni utilissime per una spiritualità matrimoniale veramente evangeli-ca: non a caso le nuove comunità con sposati hanno perlopiù letto in questaenciclica non certo un deprezzamento del matrimonio, ma una via per po-terlo vivere con intensità evangelica analoga a quella della vocazione celi-bataria. Infatti, per chi non si ferma al precetto minimale che vieta la con-traccezione, ma vuole accogliere interamente lo spirito della paternità e ma-ternità responsabili con il consiglio dell’astinenza periodica, si aprono nuoviorizzonti spirituali: amare Dio con tutto il cuore e tutta la propria famiglia inDio, purificando dalla concupiscenza l’atto sessuale.

Giovanni Paolo II stesso ha col suo magistero aperto nuove prospetti-ve alla questione. Nella Familiaris Consortio [35], citando Paolo VI, hadetto che

«una preziosa testimonianza può e deve essere data da quegli sposi che mediantel’impegno comune della continenza periodica, sono giunti a una più matura responsabilitàpersonale davanti all’amore e alla vita: [...] ad essi il Signore affida il compito di rendere vi-sibile tra gli uomini la santità e la soavità della legge che unisce l’amore vicendevole deglisposi con la loro cooperazione all’amore di Dio autore della vita umana».

In altre parole, il papa affida agli sposi che si impegnano all’astinenzaperiodica (la quale di per sé non è per precetto ma per consiglio) il compitodi educare tutti gli sposi ad accettare la paternità e maternità responsabile se-condo i dettami della Humanae Vitae (che è per precetto). Ancor più espli-citamente nell’udienza generale del 14 aprile del 1982 a proposito di Matri-monio e continenza: loro complementarità [3], il papa ha detto:

«Non vi è alcuna base per una supposta contrapposizione, secondo cui i celibi o lenubili solo a motivo della continenza costituirebbero la classe dei perfetti e, al contrario, lepersone sposate costituirebbero la classe dei non perfetti o dei meno perfetti. Se, stando auna certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione, lo si fa non a motivo dellacontinenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici(povertà, castità e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla chiamata di Cristo allaperfezione (Se vuoi essere perfetto...). La perfezione della vita cristiana, invece, viene misu-rata col metro della carità».

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Insomma, per il papa la perfezione è nella carità (che si può realizzarepienamente in ogni condizione) e lo stato di perfezione consiste nella praticadei consigli evangelici, che non si identificano automaticamente con il celi-bato.

Nella Christifideles Laici [56] il papa riprendeva infine un testo delSales per sostenere la possibilità di altre forme (oltre a quelle finora canoni-camente riconosciute) di offerta di se stessi secondo la perfezione evangelicain tutte le condizioni della vita secolare.

§ 44. Quarto argomento: il dovere universale di amare Dio con tutto il cuoreimplica il poter metterlo in pratica in ogni stato di vita.

Il comandamento più grande dice di «amare Dio con tutto il cuore, contutta l’anima e con tutte le forze» [Dt 6,5; Mt 23,5]. Ora, questo precetto conl’aiuto della grazia non è irrealizzabile: «Questo comando [...] non è troppoalto per te, né è troppo lontano da te [...], anzi è sulla tua bocca e nel tuocuore, perché tu possa metterlo in pratica» [Dt 30,11]. Infatti, se è un pre-cetto, è rivolto a tutti, e pertanto tutti devono osservarlo: ma se devono, vuoldire che possono (secondo un celebre assioma, non si dà un dovere se nonc’è un potere 114). Ma se tutti possono, vuol dire che questo precetto si puòvivere (anche se non è detto che poi si viva!) in tutte le condizioni, compresoil matrimonio: dunque anche gli sposi sono in grado di amare Dio con tutto ilcuore, ovvero «con cuore indiviso» (anche se non è detto che poi lo fac-ciano).

Se il comandamento prescrive di amare Dio con tutto il cuore, ne con-segue che avere il cuore diviso è in sé peccato; e del resto (giacché «nullapuò mai separarci dall’amore di Cristo») il cuore può essere diviso da Diosoltanto dal peccato. Ma se la divisione del cuore fosse la condizione es-senziale del matrimonio, ne seguirebbe che il matrimonio comporti un pec-cato, il che è assurdo.

Qualcuno potrebbe dire che nel matrimonio non c’è un peccato, ma c’èuna imperfezione. Secondo infatti la tradizione ascetica, rispetto ai coman-damenti si può mancare in tre modi: col peccato mortale (quando si agiscecontra legem, ossia si manca alla sostanza del comandamento), col peccatoveniale (quando pur senza rifiutare la legge si agisce praeter legem e solo diconseguenza e parzialmente contra legem) e con le imperfezioni (quandocioè ci si accontenta del minimo indispensabile, del dettato minimale delcomandamento e non si va al “di più” richiesto dal Vangelo). Anche questa

114 Da un punto di vista filosofico, il principio «se devi, puoi» sta a fondamento della

morale (come ha acutamente rilevato Kant); a maggior ragione, da un punto di vista te-ologico, per chi ha la grazia «i comandamenti non sono gravosi» [1Gv 5,3] ed è pertanto(secondo il Concilio di Trento) necessario e possibile adempierli [cf DS 1536–1539], perché«Dio non ordina l’impossibile» [AGOSTINO, De natura et gratia 43.50].

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obiezione però non può andare, perché sebbene incorrere in questa o quellaimperfezione non sia in sé peccato, il decidere sistematicamente di non ten-dere alla perfezione è un peccato contro il comando di «essere perfetti comeè perfetto il Padre» [Mt 5,18].

Secondo la dottrina agostiniana, poiché «misura dell’amare Dio è diamarlo senza misura», di conseguenza «meno lo ama chi oltre a lui ama al-cunché che non per amor suo ama» 115. Ebbene, in base alla dottrina spiri-tuale di Giovanni della Croce, un acuto manualetto di ascetica nota che

«lo sposo può amare la sua sposa in due modi: 1) prescindendo da Dio, e perciò su unpiano puramente umano. In questa dimensione il motivo che determina lo sposo ad amare lasua sposa sarà la sposa stessa la quale — per perfetta che sia — è sempre una creatura. Untale amore sarà perciò fatalmente legato alle doti umane della sposa e limitato ad una di-mensione creata di felicità. 2) Se invece lo sposo ama Dio con tutto il cuore, vedrà nellasposa “Dio da amare in lei” e l’amerà con lo stesso amore con cui ama Dio. Allora il suoamore non sarà condizionato dalle doti umane di lei, né teso a procurarle una felicità pura-mente terrena, ma legato all’amore che egli porta a Dio stesso e teso alla sua eterna unionecon lui. Non è chi non veda come questo amore sia superiore al primo!» 116.

Insomma, in una prospettiva di consacrazione, lo sposo amerebbe Diocon tutto il cuore e il coniuge e i figli come primizie del prossimo da amarecome se stesso; e questo non andrebbe a scapito di Dio (perché è Dio ad averdato allo sposo la famiglia, e lo sposo amerebbe la sua famiglia in Dio e perDio); ma non potrebbe nemmeno andare a scapito dei membri della famigliastessa, perché lo sposo, amandoli in Dio e secondo Dio, tenderebbe ad amarlicome li ama Dio (ed essi hanno tutto da guadagnarci). Lo sposo offrirebbecosì a Dio tutto il suo cuore vergine, e al coniuge tutto il suo cuore puro (lostesso cuore, ma su due piani diversi); e così l’alleanza matrimoniale diven-terebbe pienamente (in maniera non più solo discendente e sacramentale, maanche ascendente e spirituale) segno dell’Alleanza di Dio con l’uomo.

Non è dunque il matrimonio a dividere il cuore da Dio, ma semmai ilmatrimonio vissuto comodamente, senza tendere alla santità.

§ 45. Quinto argomento: tra i consigli evangelici esplicitamente dati da Gesùin ordine alla sequela in generale non c’è il celibato.

Nella tradizione spirituale si parla di consigli evangelici 117 (ossia datida Gesù nel vangelo o dati dal altri, specialmente da Paolo, nello spirito del

115 AGOSTINO, Lettera 109.2 [in realtà pseudoepigrafica]; Confessioni 10.29. 116 ALBANI–ASTRUA, La dottrina spirituale di S. Giovanni della Croce, Pessano, MIMEP

1991, p. 25–26. 117 Cf Stefano DE FIORES, «Consigli evangelici», in Stefano DE FIORES – Tullo GOFFI,

Nuovo dizionario di spiritualità, Roma, Paoline 1979, p. 242–262 (in particolare il quartopunto, sul consiglio del celibato per il Regno [p. 246–249]). L’autore rileva come, nellaesegesi e nella riflessione spirituale degli ultimi tempi si tenda a distinguere il celibato dagli

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vangelo) al fine di vivere più perfettamente (e non al minimo) i precetti: latradizione ha visto nel vangelo un precetto laddove Gesù chiede categorica-mente di fare o non fare qualcosa, e un consiglio laddove dice invece «sevuoi» (in particolare nel dialogo col giovane ricco).

A) Occorre considerare dapprime i consigli dati da Paolo: in effetti, iltermine “consiglio” [«gn_m_»] ci viene però da Paolo, che nelle sue lettere avolte dice: «in questo vi do un consiglio» [2Cor 8,10; 1Cor 7,25], a propo-sito di quelle che potremmo chiamare la povertà e la castità supererogato-rie 118, finalizzate alla ricerca di una maggior carità verso Dio e verso il pros-simo.

Parlando delle collette per i poveri, Paolo dice: «in questo vi do un con-siglio: ciascuno dia con generosità». Infatti, il privarsi non del superfluo (ilche è temperanza dovuta), ma di quanto è necessario per star bene, ma nonessenziale; ovvero rinunciare a qualche cosa di cui si sentirà la mancanza,non è strettamente di precetto, ma è un consiglio, quello appunto della pov-ertà.

Poi però, Paolo usa il termine consiglio riguardo al celibato. Dopo in-fatti aver ribadito agli sposati la proibizione di passare a seconde nozzevivente il coniuge fuorché il caso di connubio con un infedele («Questo nonlo ordino io ma il Signore»: si tratta dunque di un precetto); a quelli che sonoindecisi se sposarsi oppure no Paolo dice: «Vi do un consiglio, come uno chemerita grazia del Signore», il consiglio appunto di rimanere come si è, di nonsposarsi, perché «gli sposi avranno tribolazioni» e Paolo vorrebbe risparmi-argliele. E tuttavia Paolo stesso dice che «ciascuno ha il suo carisma da Dio,chi in un modo e chi in un altro»: ossia chi nel matrimonio e chi nel celibato.

altri consigli evangelici e a ridimensionare la lettura tradizionale in chiave celibataria di al-cuni testi evangelici (come quello della eunuchia per il Regno o quello della vita come angelidel cielo).

118 Una notazione lessicografica: il sintagma “consigli evangelici” risente di una certaoscillazione semantica. A volte, e soprattutto in passato (in particolare per Tommaso) i con-sigli non sono le virtù evangeliche (di povertà, castità e obbedienza), ma derminate azionistrumentali volte a far crescere in queste virtù, ma in specie nell’amore (per esempio venderetutto, ovvero rinunciare ad ogni proprietà). Altre volte (e prevalentemente oggi) per consiglievangelici si intendono perlopiù le virtù evangeliche, quali che siano gli strumenti per conse-guirle (vincoli sacri e impegni secondo la regola che si abbraccia), purché tali strumenti cisiano e la virtù si traduca in comportamenti concreti. Si tenga presente che nella teologiascolastica, ignorando altre forme di consacrazione oltre a quella religiosa, i consigli evan-gelici venivano spesso identificati con gli impegni religiosi, dimenticando che in realtà ognicristiano può e in certa misura deve vivere la povertà, la castità e l’obbedienza, in funzionecioè di una maggior carità: infatti, amare Dio con tutto il cuore esige di dimostrarlo con larinuncia all’inessenziale, per cercare prima di tutto il Regno di Dio; parallelamente, amare ilprossimo come se stessi implica di ridimensionare il proprio io e i propri beni per megliocontribuire alla carità fraterna e favorire la comunione fra gli uomini.

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Di solito ci si ferma a considerare questo consiglio, e ci si dimenticache nello stesso testo Paolo dà un altro consiglio agli sposati, quello cioèdell’astinenza periodica di comune accordo e «per breve tempo» «perdedicarsi alla preghiera» 119: questo lo dice «non come precetto» ma «comeconcessione» (abbiamo visto però come da Origene in poi tale concessionesia stata intesa come un consiglio). Quanto a quella che chiamiamo castità, èvero quindi che Paolo consiglia il celibato, ma agli sposi consiglia invecel’astinenza periodica: due consigli che potremmo oggi comprendere comefinalizzati allo stesso frutto, ossia la verginità di cuore. C’è da dire che l’attoconiugale ha (oltre al naturale fine procreativo) la funzione naturale esovrannaturale di esprimere e alimentare la comunione fra i coniugi,«sacramento in riferimento a Cristo e alla Chiesa»; pertanto, la castità coni-ugale consisterà non nel limitare la frequenza o l’intensità dell’atto coni-ugale, ma nell’usarne «tanto quanto» 120 serve ad esprimere e alimentare talecomunione.

B) Fin qui i consigli paolini, ai quali dobbiamo dare grande valore;dobbiamo perciò darne ancor maggiore ai consigli dati da Gesù stesso, ilquale non sembra aver mai dato come consiglio generale quello del celibato.

Alla domanda del giovane ricco («Che cosa devo fare per avere la vitaeterna?»), Gesù risponde: «Se vuoi entrare nella vita osserva i comanda-menti» (che sono il minimo indispensabile, ma sufficiente), e li elenca informa categorica. Quando il giovane dice d’averli sempre osservati e chiedecosa gli manca ancora, Gesù gli risponde: «Una sola cosa ti manca: se vuoiessere perfetto va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro incielo, poi vieni e seguimi» [Mt 19,17–21].

Il consiglio che Gesù dà è quindi quello di non fermarsi al minimo in-dispensabile, ma di vivere i comandamenti al massimo, andando oltre la

119 L’affermazione paolina non comporta che possano dedicarsi alla preghiera solo

quanti si astengono dai rapporti (come intesero spesso gli Scolastici che, aristotelicamente,ritenevano incompatibile il piacere sessuale con la contemplazione [cf TOMMASO, Summa II–II 186.4]), ma che l’astinenza è a sorgente e difesa di vita interiore. Quanto alla «breve du-rata» di tale astinenza, essa è suggerita non solo dal pericolo che uno dei due coniugi cada intentazione, ma soprattutto dal carattere di reciprocità che l’atto coniugale ha [cf 1Cor 7,3–6].

120 E dunque non più del dovuto, ma neanche meno, secondo il senso sapienziale chetroviamo in Qo 3,1.5b («C’è un tempo per ogni cosa [...]: un tempo per abbracciare e untempo per astenersi dagli abbracci»); ed anche in Tb 8,7–9 («Non per concupiscenza prendoin moglie questa mia parente, ma con rettitudine di intenzione»), alla luce di Tb 6,16–22 neltesto, modificato, della Vulgata (in cui l’angelo suggerisce a Tobia di passare dopo le nozze«tre giorni nella continenza»). In questa prospettiva va collocato il caso dell’astinenza per-petua che alcune coppie cristiane (rispondendo ad una ispirazione molto particolare) dicomune accordo decidono a un certo punto di praticare in vista del Regno, perché così sen-tono di poter compiere meglio la propria comunione reciproca e con Dio, sull’esempio diMaria e Giuseppe, a cui Dio ha chiesto di vivere un matrimonio fuori dell’ordinario e tuttaviaautentico.

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misura della legge 121. Il consiglio concretamente dato è quello della povertàevangelica («vendi quello che hai»), intesa come strumentale alla caritàverso il prossimo («dàllo ai poveri»), ma soprattutto come condizione per lasequela nella carità verso Dio e nell’imitazione di Gesù tramite l’obbedienza(«poi vieni e seguimi»): e questo è il vertice della vita cristiana.

Al giovane ricco Gesù non fa però menzione del celibato. Altrove [inMt 19,11 e Lc 20,35] il Vangelo aveva valorizzato il celibato (così la tradizi-one intende l’«eunuchia per il Regno» di cui parlava Gesù), come una con-dizione che anticipa il tempo «in cui non si prende moglie né marito», maaggiunge anche che non si tratta di un consiglio dato a tutti in ordine alla se-quela, ma di una parola che «non a tutti è dato di intendere, ma solo a coloroa cui è stato concesso» per speciale vocazione di Dio 122.

C’è da aggiungere che la tradizione ascetica soprattutto recente ha pre-ferito fondare i consigli evangelici non tanto (o non soltanto) su questi con-sigli di Gesù o Paolo, ma sulle stesse beatitudini [secondo l’elenco di Mt 5],che ne sono il sistema di valori sottostante: ossia, la povertà in spirito, lapurezza di cuore, la fame e sete di giustizia (ovvero il desiderio di obbedirealla volontà di Dio), la mitezza (o umiltà) e la pace. Dire infatti «Beati i pov-eri in spirito» significa non solo congratularsi con tutti coloro che sono difatto poveri perché è giunta la loro redenzione nel Regno (non solo futuroma già presente), ma anche consigliare, col procedimento del macarismo, lascelta volontaria della povertà (anche questo potrebbe essere il sensodell’aggiunta matteana «in spirito») 123.

121 Il consiglio della povertà indica in un certo senso la misura massimale del comanda-

mento «Non rubare»; infatti, Paolo dice: «Chi era avvezzo a rubare non rubi più, ma siguadagni da vivere lavorando onestamente, per farne parte a chi non ne ha» [Ef 4,28]. Il con-siglio della castità (distinta dal celibato) indica la misura massimale del comandamento «Noncommettere adulterio», spingendo a vivere in tutto e per tutto la dimensione sponsale dell’al-leanza con Dio. Il consiglio dell’obbedienza indica la misura massimale del comandamento«Onora tuo padre e tua madre», applicato al padre o alla madre spirituale (interpretazioneclassica nei Padri del deserto), secondo il versetto del Deuteronomio [32,7]: «Interroga tuopadre e te lo farà sapere; gli anziani, e te lo diranno». Del resto Gesù stesso [in Mt 5] avevagià inteso i comandamenti in senso massimale («avete inteso che fu detto, ma io vi dico...»).Resterebbe da considerare se i consigli a questo punto siano da intendere solo come consigliopzionali. L’amore tende infatti a massimizzarsi, e ad ogni cristiano, e soprattutto ai consac-rati (in senso lato), Gesù come a Pietro chiede: «Mi ami tu più di costoro?»; e comanda:«Seguimi!», in modo da dover «tendere le mani» e «farsi portare da altri» [Gv 21,15.18–19].Il «di più» va inteso non ad esclusione degli altri (a tutti viene chiesto di amare «di più»), macome impegno personale.

122 Come si diceva, l’esegesi recente ha proposto anche altre interpretazioni dei due passievangelici. Comunque, dato il contesto in cui ci muoviamo, ci soffermiamosull’interpretazione tradizionale, in quanto ha ispirato autorevolmente la vita ecclesiale.

123 Per quanto riguarda l’interpretazione esegetica delle beatitudini si veda il classico emonumentale studio di Jacques DUPONT [Les Béatitudes, IIe éd., Louvain, Nauwelaerts 1958–1973, 3 vol.; trad. it., Le Beatitudini, Roma, Paoline 1973–1977, 2 vol.].

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A differenza dei padri e degli scolastici (che le intendevano perlopiù insenso mistico), le beatitudini sono così intese come espressioni delle virtùevangeliche, che sono virtù al massimo grado, in quanto hanno già in sestesse il premio della gloria («beati i poveri di spirito, perché di essi è ilRegno dei cieli»). Ma anche fra le beatitudini non si fa menzione del celi-bato 124.

A margine di queste considerazioni bisogna aggiungere che in passatola teologia ha commesso sovente l’errore di considerare i consigli evangelicipuramente opzionali e riservati a una ristretta cerchia di persone.

In realtà, separare e addirittura opporre consigli e precetti è erroneo,giacché l’etica evangelica è contemporaneamente imperativa e ottativa: algiovane ricco Gesù ha esposto i comandamenti in forma imperativa, ma solodopo avergli premesso, a mo’ di consiglio: «Se vuoi entrare nella vita».Viceversa, dopo che il giovane se n’è andato via triste, rifiutando i consigliper la perfezione, Gesù commenta: «Quanto è difficile per un ricco entrarenel regno dei cieli!». In altre parole col suo rifiuto il giovane non solo rinun-cia a un «di più» opzionale, ma rischia di compromettere la sua stessa fedeltàminimale ai precetti, condizione per entrare nella vita eterna. Nessun con-siglio che dà Gesù è puramente opzionale, perché Gesù comanda di essereperfetti «com’è perfetto il Padre nei cieli», e perché «l’amore perfetto scac-cia il timore» servile e compie tutto ciò che piace all’Amato senza bisognoche questi lo comandi per precetto; peraltro la distinzione (non separazione)fra precetti e consigli va mantenuta, per evitare da una parte scrupoli e ap-prensioni, e dall’altra l’appiattimento e l’annacquamento delle virtù evan-geliche in un generico comportamento da brave persone.

Dobbiamo dedurne che i consigli evangelici (e in generale la sequeladel discepolato) nell’intenzione di Gesù sono dati a tutti (in diverso modo, aseconda dei talenti ricevuti, ma senza discriminazione di condizioni di vita),pur sapendo che non da tutti saranno accolti: «a tutti egli diceva: “Se qual-cuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso”» [Lc 9,23]. Il vangelo nonha preclusioni verso gli sposi, tanto è vero che Maria e Giuseppe eranodavvero sposati, anche se in maniera del tutto straordinaria.

124 Per quanto riguarda la reinterpretazione delle beatitudini in chiave ascetica, si tenga

presente che alla castità può corrispondere non solo la «purezza di cuore» (ossia la virtù di fartrasparire l’amore di Dio nell’amore umano), ma in un certo senso anche l’«afflizione» (daintendere come il lutto spirituale di Gerusalemme, vedova e derelitta, che viene consolata, re-denta e sposata dal suo creatore [cf Is 60,15–16.20; 61,2–3; 62,4–5]). Insomma, la castità inquesta luce consiste nella consapevolezza del proprio rapporto sponsale con Dio(nell’Alleanza, di cui la consacrazione non è che un segno ulteriore), da cui scaturisce la tras-parenza interiore ed affettiva dell’amore, di cui la castità del corpo non è che un segno o«sigillo» (secondo la metafora del Cantico ripresa dai Padri del deserto).

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§ 46. Corollario: l’imitazione di Cristo e di Dio essenziale alla consacrazionenon comporta necessariamente il celibato.

La consacrazione, come dicevamo all’inizio, comporta una imitazionedel Dio tre volte santo, tale da far passare l’uomo dalla semplice immaginenaturale del Dio Trino, alla somiglianza sovrannaturale con lui mediante levirtù.

Nei consigli evangelici abbracciati con la consacrazione c’è di conse-guenza una profonda imitazione di Cristo «mite ed umile di cuore»; cosìpovero da «non aver dove posare il capo» [Mt 11,29 e 8,20]; così puro daessere «nel seno del Padre» e poter dire «”Chi vede me vede il Padre”» [Gv1,18 e 14,9]; così obbediente al Padre da dire «”Non la mia, ma la tua vo-lontà sia fatta”», e di riflesso così obbediente ai suoi, da stare «loro sot-tomesso» [Lc 22,42 e 2,51].

I cristiani si fanno imitatori dei santi «così come lo sono di Cristo»[1Cor 11,1]; cercano di avere in sé «gli stessi sentimenti che furono in CristoGesù, il quale [...] spogliò se stesso» e «da ricco che era si fece povero perarricchire noi tutti», e «si fece obbediente fino [...] alla morte di croce» [Fil2,5–8; 2Cor 8.9], per essere infine presentati «quale vergine casta a Cristo»[2Cor 11,2] 125.

Ebbene, colpisce il fatto che nel Nuovo Testamento il celibato non èpresentato come imitazione di Cristo, il quale pure era celibe; segno che nonsi tratta di un elemento discriminante per la sequela ravvicinata del Maestro.Paolo stesso, nel consigliare il celibato, non dice: “Vorrei che tutti fosserocome Cristo, ma purtroppo non tutti accettano o ci riescono”; ma dice:«Vorrei che tutti fossero come me, ma ciascuno ha il suo carisma da Dio»[1Cor 7,7] (parlando come chi, entusiasta della propria vocazione, la vor-rebbe condividere con tutti).

Certamente, che Cristo sia stato celibe facilita i celibi nell’imitazione diCristo. E tuttavia, Cristo è contemporaneamente l’Agnello Vergine (di cuiparla l’Apocalisse) e lo Sposo della Chiesa; per questo egli può essere loSposo dei celibi come degli sposi: entrambi, poi, con doni diversi imitanol’inimitabile.

125 Ma si tratta di una verginità spirituale, a cui tutti i cristiani sono chiamati, contro

quella “fornicazione” spirituale che è costituita dall’idolatria e dalla infedeltà. Cf Ap 7,1–17 e14,15: in questo testo i vergini sono quelli che portano il sigillo della consacrazione divina;anche se il testo è stato spesso letto dalla tradizione in relazione alla verginità come scelta divita, questa interpretazione non è affatto esclusiva.

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§ 47. Sesto argomento: la consacrazione consiste essenzialmente in una“gratia gratum faciens” e pertanto è a monte di matrimonio e celibato, chesono carismi o “gratiae gratis datae”.

Nella teologia della grazia si distinguono la grazia che santifica le persone(“gratia gratum faciens”, o semplicemente “grazia”) e la grazia che edifica laChiesa e che è data al singolo per l’utilità comune (“gratia gratis data” o“carisma”).

Secondo una fondata tradizione teologica, la grazia santificante si rami-fica progressivamente (secondo tre gradi) nelle virtù teologali e cardinali, neidoni dello Spirito Santo (fra cui il Consiglio, che si diffonde nei consiglievangelici) e nelle beatitudini 126.

Invece i carismi sono dati alle persone indipendentemente dalla lorosantità, ma semplicemente per edificare la Chiesa. Mentre la grazia santifi-cante è uguale per tutti (e pertanto le virtù sono sempre le stesse per tutti, purnel variare delle modalità da caso a caso), i carismi invece sono diversi dapersona a persona perché la Chiesa è un corpo e ha bisogno di funzioni di-verse. I carismi non comportano la santità di chi li possiede, sicché possonoessere dati (per il bene della Chiesa) anche a un peccatore che non ne traegiovamento per sé (classico è il caso di Caifa che ebbe a sua insaputa e certosenza suo merito il carisma di profetare la morte redentrice di Gesù).

D’altro canto, il buon uso dei carismi ricevuti è meritorio e quindi santi-ficante, mentre l’abuso è degno di condanna, come insegnano la parabola deitalenti e quella dell’amministratore a cui il padrone ha commesso il dominiosulla sua casa, come pure l’esortazione petrina ad essere «buoni amminis-tratori di una multiforme grazia di Dio» [1Pt 4,10]. Per questo i carismi de-vono essere messi al servizio di tutti nei corrispettivi ministeri e operazi-oni 127.

Nell’epistolario paolino troviamo diverse enumerazioni (che riflettonodiversi gradi di sviluppo della comunità ecclesiale) dei carismi ecclesiali«dati per l’utilità comune» e per l’edificazione del corpo che è la Chiesa [cf1Cor 12,4–31; Ef 4,11]; questi elenchi dopo gli apostoli e ai profeti com-prendono soprattutto i pastori e presidenti di comunità, i dottori ed evangel-

126 Cf BONAVENTURA, De donis, 1 e 6. 127 La triade paolina di “carismi” (effusi dall’unico Spirito), “ministeri” (in conformità

all’unico Ministro e Signore Gesù) e “operazioni” (a imitazione dell’unico Dio e Padre cheopera tutto e sempre) [cf 1Cor 12,4–6] non solo manifesta la Chiesa come «popolo radunatonell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» [Lumen Gentium 4] e icona dellaTrinità, ma segnala probabilmente tre fasi successive nella assunzione di responsabilità eccle-siali: inizialmente e spontaneamente lo Spirito suscita nei singoli i carismi; quando talicarismi vengono almeno implicitamente riconosciuti (mediante la missione canonica nellacomunione gerarchica) o addirittura corroborati da un sacramento (che conferisce una spe-ciale capacità o funzione sacerdotale) all’interno della comunità, essi diventano ministeri(stabili), e quando tali ministeri vengono posti in esercizio dai singoli divengono operazioni.

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izzatori e gli assistenti, oltre ad alcuni carismi straordinari e miracolosi. Inaggiunta a questi Paolo esplicitamente nomina anche il matrimonio e il celi-bato: «ciascuno ha il proprio carisma da Dio, chi in un modo, chi nell’altro»[1Cor 7,7]. Insomma, troviamo due generi di carismi e ministeri nella Chi-esa: quelli relativi all’ordinamento gerarchico e istituzionale (in senso lato)della Chiesa (ossia sull’Ordine e gli altri ministeri ecclesiali, anche impliciti)e quelli relativi allo stato di vita matrimoniale o celibatario 128.

Paolo ribadisce una gerarchia di importanza dei carismi: fra quelli diordinamento della Chiesa viene prima quello di apostolo, e poi quello di pro-feta, e così via; fra matrimonio e celibato, Paolo dice che «chi si sposa fabene e chi non si sposa fa meglio» (esamineremo nelle risposte alle obiezionile possibili interpretazioni da dare a questa superiorità del celibato sul mat-rimonio).

Tuttavia, il carisma più grande, che da tutti deve essere perseguito, èperò la ricerca della pienezza di carità [cf 1Cor 12,31–14,1]: in tal modo legratiae gratis datae tendono alla loro perfezione nella grazia santificantestessa. In questa linea (nella convergenza di carismi e grazia) va inserita laconsacrazione di sé a Dio.

La consacrazione infatti da una parte consiste essenzialmente (quando èinteriormente vissuta) in una maggiore grazia santificante, ossianell’esercizio stabile dei doni dello Spirito Santo (e in particolare di quellodel Consiglio, secondo la dottrina di Bonaventura), in una sovrabbondanzadella carità (una fiammata, secondo la felice immagine del Sales), e quindi(per adoperare le parole di Paolo) nell’«aspirare ai carismi più grandi» sec-ondo «la via migliore di tutte» che porta, mediante l’incremento della fede edella speranza, alla ricerca della pienezza di carità.

D’altra parte, però, la consacrazione consiste strumentalmente anchenell’assunzione di alcuni mezzi adatti a conseguire la suddetta grazia gratumfaciens: ossia l’assunzione dei consigli evangelici secondo uno specificocarisma di vita consacrata, che è (questo sì) una gratia gratis data dalloSpirito.

128 Così il matrimonio e il celibato sono carismi suscitati dallo Spirito che divengono

ministeri rispettivamente con il consenso matrimoniale e con l’assunzione del celibato; poi-ché il ministero matrimoniale (a differenza di quello celibatario) comporta però l’esercizio diazioni sacerdotali proprie e riservate (ossia l’edificazione della Chiesa domestica medianteanche l’unione coniugale, segno dell’unione fra Cristo e la Chiesa), ad esse i cristiani deb-bono essere abilitati da uno speciale sacramento (da cui «sono corroborati e quasi consacrati»[GS 48d]).

Similmente, il carisma pastorale, sebbene suscitato in germe dallo Spirito nei singolicandidati, deve essere vagliato dalla Chiesa e viene efficacemente trasmesso «mediantel’imposizione delle mani» nel sacramento dell’ordine, che costituisce il singolo nel sacroministero e lo abilita in gradi diversi ad esercitare azioni sacerdotali proprie, quanto alla cele-brazione dei sacramenti della Chiesa.

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Il carisma specifico determina le diverse modalità dell’assunzione deiconsigli evangelici, sia dal punto di vista del riconoscimento ecclesialedell’impegno 129, sia dal punto di vista invece della sua forma e tipologia 130;con la scelta vocazionale (avvenga mediante voti o altro vincolo, anche soloinformale) il singolo si riconosce ed è riconosciuto in questo suo carisma edabilitato ad una peculiare ministerialità nella Chiesa 131.

In tutto questo contesto, matrimonio e celibato (come del resto lo statolaicale e quello clericale) non sono grazie santificanti, ma sono grazie «gratisdatae»: sono cioè due carismi complementari che edificano la Chiesa 132,anche se in maniera diversa.

La distinzione carismatica di matrimonio e celibato non è solo finaliz-zata a una divisione di azioni (in particolare, per gli sposi, la formazionedella famiglia), ma anche e soprattutto all’espressione e rivelazione comple-mentare del mistero dell’amore di Dio e del matrimonio spirituale fra Cristoe la Chiesa preannunciato dai profeti e descritto da Paolo [cf Ef 5,32].

Il connubio fra Dio e uomo viene espresso pertanto positivamente(tramite la presenza coniugale) nel matrimonio, e negativamente (tramitel’assenza e la solitudine) nel celibato), così da far intuire analogicamentecosa è l’amore divino con l’esempio dell’amore familiare, ma anche da far

129 L’assunzione (per voto o altro vincolo) dei consigli evangelici può essere fatta in base

al diritto vigente o in forma solo privata [cf CIC can. 1191–1192], oppure in una forma soloin qualche modo riconosciuta dalla Chiesa (all’interno di associazioni di fedeli finalizzate«all’incremento di una vita più perfetta» [cf CIC can. 298]), oppure in una forma di vita con-sacrata ufficialmente sancita dalla Chiesa: al momento, gli istituti religiosi e secolari el’eremitismo; per assimilazione, l’ordo virginum e le società di vita apostolica; a questa formapossiamo per una qualche analogia accostare anche i chierici diocesani, chiamati ad una certapratica dei consigli evangelici [cf CIC can. 276, 273, 277, 282].

130 Possiamo distinguerne una forma assolutamente individuale (come nel caso deglieremiti), una forma individuale ma inserita nella Chiesa particolare (come nel caso dell’ordovirginum e del clero diocesano), e una forma collettiva, secondo un più specifico tipo(monastico, conventuale, apostolico, secolare, evangelico in famiglia...) e secondo un peculi-are carisma di fondazione in una precisa comunità.

131 Il carisma della vita consacrata è suscitato dallo Spirito nei diversi aspiranti in ricercadi vocazione, ma solo con il riconoscimento ufficiale davanti alla Chiesa (ad esempio, tramiteil vescovo o i responsabili di una comunità peculiare) il carisma di vita consacrata viene con-ferito al singolo e da lui stabilmente assunto, e così diviene ministero, fonte di operazione agloria di Dio, a beneficio della Chiesa intera e per la salvezza del mondo.

132 Poiché i carismi in senso stretto non presuppongono la grazia o la maggior santità inchi li ha, così, nel caso del ministero ordinato, non è che il pastore sia più santo del laico, maha un dono particolare; non ha più virtù, ma ha un carisma sacramentale a servizio della Chi-esa; per questo, anche, Agostino poteva dire: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano»[Sermone 39 (in realtà non autentico) della Collezione di Sirmondo]. Ma lo stesso vale per ilcelibato e il matrimonio. Non è che la santità del celibe sia in virtù del celibato necessaria-mente più grande di quella dello sposato.

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capire che l’amore divino è tutt’altro, mediante la solitudine celibataria 133;ulteriormente, il matrimonio richiama il principio e prolunga la creazione diDio in questa terra, mentre il celibato richiama la fine dei tempi e anticipal’avvento della gloria ultraterrena; infine, se il celibato ci fornisce una segnodel mistero dell’Unità divina (che non è solitudine); il matrimonio ci fornisceinvece il segno più chiaro del mistero della Trinità, alla cui immagine è stataesemplata la famiglia, immagine che nel disegno originario del Creatoredeve però tendere a compiersi nella somiglianza sovrannaturale, ossia nellaimitazione di Dio, elemento essenziale della consacrazione 134, tanto chequest’ultima è espressa in termini di sposalizio o «connubio» [CIC can. 607,§1].

Richiamando poi l’osservazione agostiniana sulle nozze di Abramo(sopra citata), possiamo concludere che la compresenza di celibi e sposi nellaChiesa deve servire anche a fornire (gli uni agli altri) un modello visibile perassimilare interiormente e «in abito» i valori di entrambi gli stati di vita, cosìda avere sposi con cuore verginale e celibi con cuore sponsale (e quindi solisenza solitudine) 135: ma allora matrimonio e celibato sono due modalitàcomplementari per esprimere l’amore di Dio e verso Dio; e Maria, che è laprima consacrata (in quanto «umile serva del Signore»), le ha per donostraordinario di Dio vissute entrambe (in quanto Vergine, e in quanto Sposae Madre).

Insomma, la consacrazione e gli stati di vita (celibatario o sponsale) sitrovano su due piani diversi: la prima su quello della grazia santificante edell’«esser–di–Dio»; i secondi invece su quello dei carismi, ovvero nelleconcrete modalità dell’«agire–per–Dio» (che è innanzitutto un far–vedere in

133 Questa duplicità è conforme alla logica catafatica (per analogia) ed apofatica (per dis-simiglianza) di ogni espressione del Mistero. Già TOMMASO d’Aquino notava: «Poiché nessunsegno corporale può esaurientemente rappresentare un significato spirituale, occorre a volteprestar più segni a significare la medesima realtà spirituale. [Ad esempio,] il matrimoniospirituale fra Cristo e la Chiesa, [che] possiede tanto la fecondità (per cui siamo rigeneraticome figli di Dio), quanto l’incorruzione (poiché Cristo si è scelta la Chiesa non avente némacchia né ruga) [...], dovette venir rappresentato con segni diversi [...]: come infatti medi-ante il sacramento del matrimonio viene rappresentato il matrimonio spirituale quanto allafecondità, così dunque occorre che ci sia qualcosa che rappresenti il medesimo matrimoniospirituale quanto alla sua integrità: e questo accade nella velazione delle vergini» [In Senten-tiarum libros 4.38.1.5].

134 Cf Jean BEYER, Le mariage chrétien est sacrement, in Renouveau..., op. cit., p. 167–179, ma in particolare p. 173: «Il matrimonio è ad immagine della vita divina, non vitadivina: per entrare in effetti nella vita divina gli sposi si [devono] separare, [nel senso che] illoro matrimonio [si deve trasformare...] per divenire in pienezza filiazione divina nel Figlio[...], contemplazione del Padre, amore dello Spirito».

135 Guardando agli sposi, i celibi sono aiutati ad essere sposi pur senza un coniuge, padripur senza figli propri, figli ma distaccandosi dai propri genitori (lasciando cioè interiormente«il padre e la madre» [Gen 2,24], per vivere come gli sposi una vita propria in obbedienzaalla chiamata di Dio).

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modi complementari e diversi l’invisibile Dio, e che quindi non è riducibilead attivismo). Matrimonio e celibato potrebbero essere riconsiderati comedue modalità carismatiche per esprimere l’amore a Dio, formulabili rispetti-vamente come «Dio soprattutto» (amando il coniuge in Dio secondo Dio) e«Dio solo» (amando Dio senz’altro coniuge) 136.

Di conseguenza, è possibile vivere lo spirito della consacrazione inqualsiasi carisma o stato di vita: quindi anche nel matrimonio.

§ 48. Settimo argomento: la consacrazione perfeziona il battesimo e quindideve essere accessibile a tutti i battezzati.

I sacramenti oltre a comunicare la grazia santificante abilitano o ri-abilitano alla vita cristiana nella Chiesa, secondo la grazia specifica di ognisacramento. Tutti comportano almeno in parte una consacrazione (intesa insenso discendente, come dono misterioso di Dio).

Il battesimo e la cresima sono i sacramenti consacratori che consacranoil cristiano in quanto tale (ossia, rispettivamente, in quanto figlio di Dio ri-generato nel Figlio, e in quanto «altro Cristo», «re, profeta e sacerdote») e loabilitano alla vita cristiana in generale 137.

La confessione e l’unzione degli infermi sono due sacramenti terapeu-tici o riabilitanti: la confessione riabilita alla vita sacramentale dopo il pec-cato; l’unzione degli infermi riabilita nella vita fisica nella misura in cuiquesto è necessario per la vita eterna.

L’ordine e il matrimonio sono due sacramenti ministeriali, riguardo aiquali tutti i cristiani si distinguono rispettivamente in chierici e laici, e incelibi e sposi (oltre a quelli ancora in ricerca e ai vedovi); il matrimonio con-

136 Richiamandoci alle considerazioni fatte nella premessa, la consacrazione dei celibi

corrisponderebbe così al sacrificio di sé nella modalità dell’olocausto (secondo una simbolo-gia già fatta propria dalla tradizione spirituale [cf ad esempio Giuseppe LAZZATI, Il demoniomeridiano [1943], in Il Regno di Dio è in mezzo a voi, vol. 1, Milano, Istituto Secolare CristoRe 1976, p. 38]); viceversa, la consacrazione degli sposati corrisponderebbe al sacrificio di sénella modalità del sacrificio delle primizie: il consacrato sposato, insomma, offrirebbe a Diole primizie della sua vita coniugale e familiare (si pensi al senso più profondo della castità deifidanzati e degli sposi), come simbolo di una offerta interiore egualmente totalizzante (comequella dell’olocausto), ma senza la conseguente privazione del bene offerto a Dio.

137 Sulla cresima che ci fa «altri Cristi» si veda la terza Catechesi mistagogica diCIRILLO DI GERUSALEMME [ed. it., Le catechesi, Roma, Città Nuova 1993]. Per lo statusquaestionis sulla controversa natura della Confermazione, cf (da un punto di vista liturgico)Arturo ELBERTI, Accipe signaculum doni Spiritus Sancti. La confermazione: fonte del sacer-dozio regale dei fedeli?, in «Gregorianum» 1991, p. 491–513; di tutt’altra impostazione èPiero DACQUINO, Un dono di spirito profetico. La cresima alla luce della Bibbia, Leumann,LDC 1992 (con critiche molto precise alla tendenza a unire la cresima al battesimo e con lariproposizione, sulla base della Scrittura, della cresima come «appello profetico»).

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA208

connubio fra l’uomo e la donna ex opere operato rappresenta misterio-samente il rapporto di Cristo e della Chiesa, e pertanto conferisce una parti-colare grazia affinché il connubio fra creature non vada a discapito di quellocol Creatore, il che (come abbiamo visto) è possibile inserendo nell’amoreper Dio ogni altro amore, in quanto Dio non è semplicemente il valore piùgrande, ma l’infinito valore che dà valore ad ogni valore finito. Pertanto, laconsacrazione, intesa come più piena attuazione del connubio con Dio, nonpuò essere impedita dal matrimonio, sempre che gli sposi lo vivano in pi-enezza. Questo sembra il senso adombrato in molteplici testi del ConcilioVaticano II e del Codice 141.

Inoltre, il battesimo è il fondamento comune tanto del matrimonioquanto del celibato, tanto dell’ordine quanto della vita laicale, perché il bat-tesimo è comune a tutti. Quindi, se la consacrazione è la risposta al bat-tesimo, non sembra che debba necessariamente essere connessa al celibatopiuttosto che al matrimonio, come già, del resto, «lo stato di vita consacratadi per sé non è né clericale né laicale» [CIC can. 588]; non si potrebbe alloraipotizzare pure che non sia né celibatario né sponsale 142?

141 Per il Concilio la famiglia cristiana è una «Chiesa domestica» [Lumen Gentium 11d],in cui i coniugi esercitano il loro sacerdozio non solo in virtù del battesimo, ma anche del sac-ramento del matrimonio, da cui «sono quasi consacrati» [Gaudium et Spes 48d]: per questogli sposi «sono ripetutamente invitati dalla Parola di Dio» (e quindi per consiglio, non perprecetto) a nutrire la loro unione «con un affetto non diviso» [GS 49a, che rimanda appunto a1Cor 7,3–6]; ed un tale amore, corroborato dalla grazia e dalla carità, «diventa sempre piùperfetto»; ma «per far fede agli impegni di tale vocazione cristiana si richiede una virtù fuoridel comune» [GS 49b e 49d]; il che comporta nella pratica [come sancisce l’attuale CIC] l’e-sigenza che «lo stato matrimoniale [...] progredisca in perfezione [...], affinché gli sposi [...]giungano a condurre una vita di giorno in giorno più santa e più piena in famiglia» [can.1063; si noti l’analogia, sicuramente involontaria, con il can. 710, in cui dei membri degli is-tituti secolari si dice che «vivendo nel secolo, tendono alla perfezione della carità»]. Anche sené il Concilio né il CIC ammettono una “consacrazione in famiglia” (analoga a quella “nelmondo” degli istituti secolari), tuttavia espressioni come «vita più piena in famiglia», medi-ante un «affetto non diviso», sembrano suggerire che la “quasi consacrazione” sacramentaledel matrimonio possa essere portata a pieno compimento da una consacrazione totale del sin-golo sposo (in quanto cristiano): cf Ireos DELLA SAVIA, Sposi nel nome del Padre, del Figlio edello Spirito Santo, Milano, Città sul Monte 1993 (pro manuscripto). Inoltre, se i coniugiesercitano il sacerdozio sponsale nella loro Chiesa domestica, in analogia a come il vescovoesercita il pieno sacerdozio gerarchico nella sua Chiesa particolare (e per questo tanto i coni-ugi quanto i vescovi portano l’anello, segno di fedeltà), ebbene, la loro dedizione alla fa-miglia può essere vissuta come una vera sollecitudine pastorale, in piena dedizione a Dio.

142 Questo argomento dà modo di risolvere anche una obiezione non infrequente controogni forma di particolare donazione a Dio per gli sposati: il matrimonio (si dice) avrebbe, inquanto sacramento, tutte le grazie necessarie alla santificazione degli sposi; non avrebbe per-ciò nessun bisogno di essere perfezionato da voti od altri vincoli sacri. Ma questa obiezione sirisolve con facilità: infatti, chi ha il sacramento dell’ordine può emettere i voti; non si vedeperché chi ha il sacramento del matrimonio non possa fare lo stesso; tanto più che la “quasiconsacrazione” (al servizio matrimoniale compiuto per Dio) può proprio mediante i voti per-venire ad una più piena consacrazione (al servizio stesso di Dio).

ANDREA DI MAIO 209

Da quanto abbiamo detto segue anche che l’atto consacratorio (essendofondato sul battesimo) riguarda il singolo nei confronti di Dio (anche setramite la mediazione della Chiesa): di conseguenza è teologicamente possi-bile anche la donazione di un coniuge senza l’altro, come pure la donazionedi una persona che non abbia ancora definito il suo stato di vita, celibatario osponsale (in tal caso questa persona si impegnerebbe comunque a non farescelte dettate dai propri comodi, ma dall’adesione alla volontà di Dio, nellamisura in cui riesce a comprenderla) 143.

Se prima si diceva che la vita consacrata significava uscire fuori dalmondo, e poi che significava sottomettersi ad una regola nella convivenzacomunitaria, e poi che era la pratica dei consigli nel celibato, adesso, se siammettessero i “consacrati sposati” (terminologia più corretta che “sposiconsacrati”, in quanto la consacrazione, rinnovando il battesimo, è più fon-damentale del matrimonio), si arriverebbe ancora più in profondità a capireche consacrazione è il voler essere totalmente di Dio, per amare Dio contutto il cuore.

§ 49. Ottavo argomento: dato che gli sposi possono essere canonizzati, amaggior ragione possono essere consacrati.

La vita evangelica, o vita secondo il Vangelo, è la vita della perfezione.Nel suo senso originario “perfezione” non vuol dire perfezione compiuta, mavuol dire opera di perfezionamento, in base al comando: «Siate perfetti comeè perfetto il Padre vostro che è nei cieli». La vita evangelica è impegnarsi adusare gli strumenti per tendere effettivamente alla perfezione.

Per San Tommaso, la virtù di religione è la stessa cosa che la santità, edè alla base della devozione (con cui ci si vota a Dio) e della vita religiosastessa (in quanto i voti in essa emessi vanno adempiuti per virtù di relig-

143 Sul versante pratico sembra che le nuove comunità con sposati siano divise su questi

due problemi. A quanto sembra, la maggioranza delle comunità (e soprattutto quelle cheprevedono opere comuni o la disponibilità a trasferirsi altrove), non accetta i coniugi comesingoli, ma la coppia in quanto tale, o perlomeno i due coniugi insieme e contem-poraneamente; similmente, la maggior parte delle comunità (in particolare quelle nate per solicelibi e poi allargatesi anche agli sposati, oppure quelle nate solo per gli sposati) non ammettealla consacrazione chi non abbia già scelto il proprio stato di vita (di conseguenza un nonsposato che accedesse alla consacrazione assumerebbe automaticamente lo stato celibatario).

Altre comunità, che non hanno opere proprie e che non sono nate per una particolarecategoria (celibi o sposi), ammettono invece anche i singoli sposati (pur auspicando il coin-volgimento dei rispettivi coniugi), e soprattutto ammettono una consacrazione che potremmodefinire “aperta” (ossia non necessariamente connessa con la scelta dello stato di vita; così èad esempio nel Piccolo Gruppo di Cristo, nato a Milano nel 1957 ed ivi approvato dal Cardi-nal Martini nel 1984.

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA210

ione) 144. Non è detto quindi che tutti i consacrati siano santi, però sono inuno stato che se ben vissuto li porta alla santità.

Nei processi di canonizzazione, quando si deve stabilire l’eroicità dellevirtù di un servo di Dio, le virtù da provare sono le tre teologali, le quattrocardinali e le quattro evangeliche, cioè la povertà, la castità, l’ubbidienza el’umiltà 145. Questo vuol dire che uno per essere dichiarato santo deve eccel-lere in tutte queste virtù.

Dato però che abbiamo anche dei santi sposati, ne consegue che anchegli sposati possono avere in grado eroico le virtù evangeliche (corrispondentiappunto ai consigli) 146. Ma qui ci troviamo di fronte a un paradosso: glisposi possono essere riconosciuti santi, ma non possono essere riconosciuticome consacrati. Se si può il più, si può anche il meno 147. Chi può conse-

144 Cf TOMMASO, Summa II–II, 81.8; 82.1; 88.5–7. 145 Cf Fabijan VERAJA, Le cause di canonizzazione dei santi, Città del Vaticano, LEV

1992, p. 125–129 e passim. Sul rapporto che c’è fra stato di perfezione (e quindi vita canoni-camente consacrata), via unitiva o perfettiva della vita mistica e santità eroica, cf RéginaldGARRIGOU–LAGRANGE, Les trois âges de la vie intérieure prélude de celle du ciel, Paris, Cerf1951; trad. it., Le tre età della vita interiore, preludio di quella del cielo. Trattato di teologiaascetica e mistica, vol. 4 («La via unitiva dei perfetti»), Roma, Vivere In 1984, seconda sezi-one («L’eroicità delle virtù»), p. 113–168.

146 A questo proposito occorre menzionare le Riflessioni sul grande giubileo dell’annoDuemila, documento riservato redatto dalla Segreteria di Stato ma personalmente ispirato daGiovanni Paolo II e indirizzato ai Cardinali per il Concistoro straordinario del 9–10 maggio1994 (poi posticipato al 13–14 giugno) [il testo è stato pubblicato da «Adista» del 28.5.1994(n.42) e non è stato smentito]; al punto 8 afferma che uno degli obiettivi della Sede Apos-tolica per l’anno 2000 è di «studiare il metodo migliore per la costatazione della santità dellepersone che nei nostri tempi vivono della verità di Cristo. Un metodo al riguardo è stato cer-tamente elaborato da tempo, ma occorre aggiornarlo specialmente per quanto riguarda i santilaici che vivono nel matrimonio. Convinti come siamo che non mancano frutti di santità intale stato, sentiamo il bisogno di trovare gli strumenti per far sì che una simile santità possaesser verificata dalla Chiesa e presentata come modello agli altri».

In effetti, in passato (in conformità col principio agostiniano, in precedenza menzionato,per cui ci si sposa non per dedicarsi a Dio, e semmai ci si può dedicare a lui dopo sposati) iconiugati venivano beatificati o canonizzati solo (o quasi) in quanto avevano conseguito lasantità dopo la fine, per vedovanza o legittima separazione, della convivenza coniugale: così,ad esempio, Santa Rita è celebrata come religiosa. Invece adesso si tende a valorizzare lasantità nello stato matrimoniale stesso, in base ad una più precisa visione teologica, che nonpuò non riflettersi anche nella teologia della vita consacrata.

147 In realtà, la vita consacrata è sempre stata vista in chiave escatologica, come“preannuncio della gloria celeste” e «segno della vita futura» [cf CIC can. 573, §1; 607, §1], equindi in stretta unione con la vita mistica (in terra) e la vita gloriosa (in cielo). In qualchemodo la canonizzazione è la “cifra” della consacrazione: la prima dichiara una santità giàcompiuta, la seconda dichiara invece una santità da compiersi. Ammettere dunque gli sposialla canonizzazione e non ammetterli a pieno titolo alla consacrazione canonicamente intesafarebbe in parte perdere alla vita consacrata la sua connessione ideale alla santità eroica.

ANDREA DI MAIO 211

guire la santità in grado eroico, non potrebbe allora anche vivere la con-sacrazione 148?

§ 50. Risposta alle obiezioni: del passo «Chi si sposa fa bene; chi non si sposafa meglio» sono possibili diverse interpretazioni, che possono conciliarsi conl’idea di una consacrazione degli sposati di pari valore rispetto a quella deicelibi.

Visti gli argomenti in favore della consacrazione degli sposati e risoltealcune obiezioni minori in contrario, resta però da affrontare l’obiezionefondamentale, ossia quanto dice Paolo nella prima lettera ai Corinzi relati-vamente alla superiorità del celibe sullo sposo, che si troverebbe «diviso» fraDio e il coniuge. Questo testo lo leggeremo non in chiave esegetica, ma te-ologica (tenendo conto che il Concilio di Trento lo ha ripreso e fatto pro-prio).

Sebbene l’interpretazione autentica di tale testo spetti al magistero, pos-siamo provare a esaminare alcune possibili interpretazioni che concilinoquanto dice Paolo con quanto abbiamo detto finora.

Paolo innanzitutto dice che chi è sposato si preoccupa delle cose delmondo per piacere alla moglie o al marito «e si trova diviso», mentre invecechi è celibe «si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Sig-nore» [1Cor 7,34]. Ma bisogna collocare questa affermazione nel contesto.A chi sta parlando Paolo? A tutti gli sposati, con una enunciazione di prin-

148 Anzi, possiamo arrivare a dire di più: non si può diventare veramente santi senza

essere almeno implicitamente consacrati, ovvero senza aver prima votato totalmente, esclu-sivamente e perpetuamente (una volta per tutte e almeno nel segreto del proprio cuore) lapropria vita a Dio. Questa è infatti la «porta stretta» da attraversare «senza più volgersi in-dietro», pur sapendo che nella realizzazione del proposito ci saranno molte titubanze e rica-dute, e che dunque bisognerà rinnovare giorno per giorno il “sì” iniziale. La santità non puòtollerare compromessi o condizioni, o accontentarsi di dare volta per volta a Dio i fruttidell’albero, senza donare l’albero stesso a lui, irrevocabilmente e in perpetuo. Non a caso,secondo la dottrina classica del gesuita Louis LALLEMANT [morto nel 1635], lo sviluppo dellavita spirituale dei santi prevede ordinariamente almeno «due conversioni: l’una, con cui siconsacrano al servizio di Dio; l’altra, con cui si votano interamente alla perfezione» [La doc-trine spirituelle 2.6.2.1; ed. it.: La dottrina spirituale, Roma, Paoline 1985, p. 132–133];ebbene, secondo lui, lo scopo del terzo anno di noviziato dei gesuiti (in preparazione dellaprofessione solenne e perpetua) sarebbe appunto quello di favorire la seconda conversione,come invece lo scopo del noviziato vero e proprio (in preparazione dei voti semplici) sarebbequello di realizzare la prima. Basandosi in parte sulla medesima dottrina, il domenicano Ré-ginald GARRIGOU–LAGRANGE ha posto questa seconda conversione come passaggio dalla viapurgativa degli incipienti a quella illuminativa dei proficienti [cf Le tre età..., op. cit., vol. 3,cap. 2–3, p. 27–47]. A compimento di tutto, poi, secondo la dottrina accreditata di GIOVANNIDELLA CROCE [nel Cantico spirituale 22.3], il vertice mistico della santità qui in terra è il mat-rimonio spirituale, che comporta (per dono straordinario di Dio) la confermazione in grazia,che è (secondo quanto dicevamo nella premessa) la somma consacrazione (e quasi il princepsanalogatum di ogni consacrazione).

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA212

cipio? No, ma agli sposati di Corinto, con un’osservazione di fatto: tra di voi(direbbe insomma Paolo) quelli che sono sposati sono divisi, e questo non èbello. In effetti, altri sposi (non solo Maria e Giuseppe, ma anche Aquila ePriscilla e tanti altri) non hanno avuto il cuore diviso 149.

A sostegno di questa interpretazione c’è anche il fatto che Paolo dice sì(con l’entusiasmo che ciascuno ha per la propria vocazione): «Vorrei chetutti fossero come me» (celibi), ma poi aggiunge: «ciascuno ha però il suocarisma da Dio»; e così ristabilisce l’equilibrio. Infatti Paolo aggiunge checiascuno deve tendere a rimanere nella condizione in cui è stato chiamato:lui intendeva (in un contesto di conversioni adulte e di erronea aspettativa diuna imminente fine del mondo) la condizione in cui ciascuno si trovava almomento in cui si era convertito alla fede; ma lo Spirito Santo forse in-tendeva con questo dire che ciascuno deve abbracciare lo stato o la condizi-one di vita a cui Dio lo ha chiamato.

Tuttavia, questa soluzione non elimina del tutto l’obiezione. Il prob-lema sta nel fatto che poi Paolo dice, parlando di chi è fidanzato da tempoma ancora non si è deciso a sposarsi: «Chi si sposa fa bene, chi non si sposafa meglio» [7,38]. Quest’affermazione è ripresa dal decimo canone sul mat-rimonio del Concilio di Trento [DS 1810]: «Se qualcuno dicesse che lo statoconiugale è preferibile allo stato di verginità o celibato, e che non è cosamigliore e più beata rimanere nella verginità piuttosto che unirsi in matrimo-nio, sia scomunicato» 150.

Al di là del fatto che nella prospettiva di una fine del mondo imminenteè comprensibile che Paolo consigli chi è sciolto a «rimanere come è»; al di làanche del fatto che da un punto di vista pastorale è ovvio consigliare chidopo lungo tempo non si è ancora sposato a scegliere definitivamente il celi-bato; tuttavia, da un punto di vista teologico (dato che l’affermazione paolinaè stata ripresa dalla tradizione ecclesiale in senso generale), che cosa vuoldire che chi non si sposa «fa meglio»? E questo preclude la possibilità diconsacrazione agli sposati, o comunque concede loro solo la possibilità di

149 Quindi, parlare di “cuore indiviso” come sinonimo di celibato, lasciando così inten-

dere che il matrimonio sia caratterizzato invece dal “cuore diviso”, è non solo una generaliz-zazione indebita, ma è anche una indelicatezza pastorale nei confronti degli sposi, tanto piùgrave per il fatto che, come sappiamo, il magistero recente ha ribadito che anche gli sposisono invitati ad amarsi con «affetto indiviso» [GS 49a] e che i pastori sono tenuti ad aiutarli avivere una vita sempre più perfetta [cf CIC can. 1063]. Ma come si potrà realizzare una talepastorale del matrimonio se di fatto nella pastorale ordinaria gli sposi vengono perlopiù per-suasi che solo i celibi (o addirittura solo i presbiteri e i religiosi) si dedicano con cuore indi-viso alle cose del Signore?

150 Trattandosi di un anatematismo, tale canone non è formalmente una definizionedogmatica, ma una reazione al protestantesimo che contestava il celibato. Comunque va presosul serio.

ANDREA DI MAIO 213

una donazione di categoria minore rispetto a quella dei celibi? Cerchiamo diproporre tre possibili interpretazioni del passo «chi non si sposa fa meglio».

A) Prima interpretazione: la Scrittura, rivolgendosi ad ogni cristianoin cerca del suo stato di vita, lo avvertirebbe che sposandosi farebbe bene,ma non sposandosi farebbe meglio: di conseguenza chiunque stesse persposarsi e volesse essere veramente santo dovrebbe rinunciare al matrimonioe non sposarsi. A questo punto, dunque, nessuno sposato potrebbe conse-guire una santità eroica nel matrimonio (tutt’al più, potrebbe «doposposato»), perché è incorso almeno in una grave imperfezione. Tale interpre-tazione (benché sottostante alle tradizioni che precludono agli sposi la vita dimaggior perfezione) va dunque scartata, perché in contrasto con la tradizioneautentica della Chiesa, come abbiamo visto.

B) Seconda interpretazione: la Scrittura, rivolgendosi in particolare aquanti credono di esser chiamati al celibato, ma sono indecisi (perché tim-orosi di perder qualcosa a cui sono attratti per natura, e insicuri del valore diquel che acquisterebbero in cambio), li rassicura e incoraggia, affermando:«chi si sposa fa bene; e chi non si sposa fa meglio». Tale enunciazione diprincipio non può essere intesa (in base alle obiezioni mosse alla prima in-terpretazione) nel senso di una maggior perfezione morale o santità sog-gettiva del celibe rispetto allo sposato, ma va intesa così: lo sposato sta inuna condizione oggettivamente buona, mentre il celibe sta in una condizioneoggettivamente migliore; dunque, chi ha ricevuto da Dio il carisma dellachiamata al celibato (non dunque gli altri, che hanno anch’essi ricevuto un«carisma da Dio», ma «in altro modo»), e accoglie tale chiamata, fa anche lascelta migliore, ossia quella spiritualmente più conveniente 151.

Ma in che senso il celibato è la condizione migliore? Paolo afferma cheil celibe è «più beato» [1Cor 7,40]: nel vangelo, le beatitudini riguardanosempre i «poveri» per necessità [Lc 6,20], e a maggior ragione i «poveri inispirito», ossia per scelta fatta «a causa di Gesù» [Mt 5,3.11]; le condizioni dimaggior povertà sono infatti indicate come quelle che attirano la preferenzadi Dio e la vicinanza di Cristo (particolarmente presente nei più piccoli e in-digenti): ma il celibato, dal punto di vista della sola natura, e ancor di piùnella considerazione del mondo, è una vera condizione di povertà 152.

151 Questo dovrebbe portare a evitare una certa non infrequente ed erronea retorica del

celibato. Se il celibe avesse scelto di sua iniziativa il celibato, potrebbe allora accampar meritirispetto agli sposati; ma se è Dio ad avere scelto il celibe per il celibato come lo sposo per ilmatrimonio («ciascuno infatti ha il suo carisma da Dio»), il celibe che ha accolto la chiamataha sì un merito, ma simile a quello dello sposo che come lui ha fatto la volontà di Dio.

152 Il celibe può spiritualmente e simbolicamente identificarsi nel fico giudicato sterile eper questo «seccato fin dalle radici» da quella che può sembrare una ingiusta maledizionedivina («non era infatti quella la stagione dei fichi»), ma che invece è una speciale chiamataad «aver fede in Dio» e ad ottenere sovrannaturalmente con la preghiera quella fecondità cheè stata naturalmente preclusa; chiamata, questa, consacratoria (secondo il tipo dell’olocausto),

TEMI DI FILOSOFIA CRISTIANA214

Ebbene, il celibe per il Regno è «più beato», perché non solo vive laprivazione di una famiglia naturale sua, ma soprattutto perché ha accoltoquesta condizione «per la causa di Gesù e del Vangelo»; e quindi il Signoregli renderà «già al presente il centuplo in famiglie» [«oikías»], sebbene«misto a persecuzioni» (difficoltà, incomprensioni...); e «nel futuro la vitaeterna» [Mc 10,29–30] 153.

Inoltre, come sappiamo, la condizione del celibato o “eunuchia per ilRegno”, intesa e accolta «da coloro ai quali è stato concesso» per specialevocazione, è la situazione che anticipa maggiormente la condizione della vitafutura, «in cui non si prende né moglie né marito». Insomma, il matrimonio èuna condizione passeggera, mentre il celibato è la situazione che resterà emaggiormente manifesta la vita dell’aldilà. Il celibe quindi anticipa fin d’oraquello che anche lo sposato sarà, e in questo senso la sua condizione è“migliore”.

Questo spiega dunque perché chi accoglie il carisma celibatario che Diogli ha dato fa la scelta migliore. Chi invece, essendo chiamato al celibato, sisposa, «non fa peccato» (perché non viola i comandamenti), ma certo non fala cosa migliore che gli era possibile fare, e dunque cede a una grave imper-fezione; indirettamente, poi, pecca di mancanza di fiducia in Dio che loaveva chiamato e nel suo Apostolo che lo aveva consigliato «come uno chemerita fiducia» e «possiede anche [lui] lo Spirito di Dio» [1Cor 7,25.40].Chi infine, essendo chiamato al matrimonio, si sposa, non cede né a un pec-cato né a un’imperfezione, e tuttavia non ottiene quella particolare beatitu-dine che la condizione celibataria porta con sé 154.

per cui «nessuno possa mai più mangiarne i frutti», oltre a Dio, sommamente «diletto» [cf Mc11,12–14.20–24; Ct 4,12.16].

153 Il celibe acquista il centuplo (simbolo della comunità) in famiglie in due modi: stru-mentalmente e visibilmente, nella grande comunione ecclesiale e magari anche in una comu-nità peculiare di vita consacrata; essenzialmente ed invisibilmente (ma non meno realmente),ricevendo da Dio la possibilità di «vivere come suo familiare» [Sentenze di Sesto (sopra ci-tate) n. 230a]. Tanto per il matrimonio quanto per il celibato Dio ha previsto un sapiente dos-aggio di consolazioni e di croci (con accentuazioni del tutto diverse nei due stati, ma con unrisultato finale tutto sommato equivalente); solo che nel matrimonio esse sono con minoreevidenza riconducibili a Dio, e costituiscono quelle «tribolazioni nella carne» [1Cor 7,28] chepotrebbero (ma non dovrebbero) distogliere gli sposi dalla dedizione a Dio. In effetti, mentrechi sceglie il celibato sa (o dovrebbe sapere) che lo sceglie per Dio (e quindi ha un precisopunto di rinuncia), invece chi sceglie il matrimonio a volte lo fa più per attrazione naturaleche per vocazione sovrannaturale: e questo facilita la “divisione del cuore”.

154 C’è da dire però che la dinamica stessa del matrimonio porta col tempo a vivereanche questo aspetto di spogliazione e solitudine: si pensi al graduale distacco dei figli, al so-praggiungere della vedovanza, alla solitudine più o meno grave della vecchiaia. Alla stessaspogliazione (se non maggiore) conducono anche le croci di chi pur chiamato al matrimonionon trova il compagno o non ne è ricambiato, oppure è stato da lui abbandonato dopo il mat-rimonio, oppure non può sposarsi (pur desiderandolo) per incapacità fisica o psichica...

ANDREA DI MAIO 215

C) Terza interpretazione: la Scrittura sta parlando esprimendo ilpunto di vista dei cristiani chiamati al celibato, e quindi il discorso per esserecompleto dovrebbe essere riscritto “a sbalzo”, per chi cioè è chiamato inveceal matrimonio. Il senso del discorso in tal caso sarebbe questo: “Sei chiamatoal celibato? Se ti sposi non fai peccato, ma se scegli il celibato fai meglio.Viceversa, sei chiamato al matrimonio? Se non ti sposi (perché ne temil’onere) non fai peccato, però se ti sposi fai meglio”. Questo risponde nonsolo alla dottrina dei primi padri (per esempio alle Sentenze di Sesto [230b]sopra citate), ma anche un po’ all’esperienza: per chi preferisse restar celibesolo per amore di tranquillità, sposarsi potrebbe essergli (se a questo è chia-mato) di maggior perfezione; viceversa per qualcun altro è più perfetto nonsposarsi perché per lui sarebbe un atto di vera donazione e di rinuncia a sé.

Ebbene, delle tre interpretazioni del passo paolino che abbiamo avan-zato, a parte la prima (che è erronea), le altre due sono compossibili. In nes-suna delle due, comunque, ne verrebbe esclusa la possibilità di una consa-crazione degli sposati (uguale o perlomeno soggettivamente non inferiore aquella dei celibi), pur rimanendo ovviamente la differenza tra matrimonio ecelibato quanto alle modalità di vita.

§ 51. Conclusione: la questione se la vita di totale consacrazione a Dio deglisposati possa venir riconosciuta come una nuova forma di vita consacrata è unproblema pastorale e giuridico più che teologico.

A conclusione di questo studio, possiamo dire che forse il problemanon è tanto teologico, ma giuridico e pastorale.

A) Dal punto di vista giuridico, mentre la Chiesa non riconosce(ancora?) la possibilità di una vita consacrata canonicamente intesa per chinon è celibe, d’altra parte, invece, intendendo per consacrazione l’impegnoad essere totalmente di Dio, è probabilmente chiaro che la possibilità di taleimpegno è offerta a tutti 155.

Il fatto stesso che nella Chiesa esistano numerose comunità di vitaevangelica con presenza, a pari titolo, di celibi e sposati, ed approvate dallaChiesa (sia pure come associazioni di fedeli), vuol dire che l’idea teologicadi una pari possibilità di donazione a Dio per i celibi e per gli sposi è con-forme alla dottrina della Chiesa. Certo, non è cosa da poco che gli sposi ven-

155 Tradizionalmente la teologia risolveva così il problema: «la maggiore o minore per-fezione si riferisce agli stati [religioso o secolare], e non alle persone, perché talvolta un laicoè più perfetto di un religioso» [BONAVENTURA, In Hexaëmeron 22.23]. Tale posizione oggipotrebbe essere riformulata così: agli sposi è possibile un cammino di totale donazione a Dio(magari anche in una forma di vita stabile), ma non l’ingresso in uno stato di vita consacrata;ossia, sarebbe possibile una consacrazione teologica, ma non giuridica degli sposi. Questasoluzione (a cui si accennava anche agli inizi) è però inadeguata perché «una distinzionetroppo netta tra teologia e diritto, verità rivelata e strutture ecclesiali, non può che nuocerealla vita della Chiesa e delle sue istituzioni» [BEYER, Renouveau..., op. cit., p. 147].

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gano riconosciuti nei Lineamenta e nell’Instrumentum Laboris come possi-bili soggetti di una vita pienamente evangelica, anche se intesa in tono mi-nore rispetto alla vita consacrata celibataria. Però, ci si dovrebbe interrogarese questa posizione (tradizionale sì, ma non certo di tutta la tradizione cat-tolica, come abbiamo potuto notare) non sia da rivedere. In tal caso vannopreviamente affrontati alcuni problemi.

Un primo problema è di carattere terminologico; in un contesto comequello della teologia e del diritto della vita consacrata, in cui la terminologiaè (per lamentela quasi unanime) confusa e incongruente, neanche i nuovitermini (come “vita evangelica” e “consacrazione di vita”) ultimamente in-trodotti per indicare le nuove realtà sono esenti da ambiguità e inconvenienti,che sarebbe opportuno chiarire ed evitare 156.

Un secondo problema è invece di carattere dottrinale 157, e può essereespresso dalla seguente domanda: la consacrazione celibataria e quella spon-

156 I Lineamenta [24] hanno introdotto il sintagma “vita evangelica” di cui le nuovecomunità sarebbero “nuove forme”. Innanzitutto non si capisce se la “vita evangelica” sia ilgenere sommo che ingloba tanto la vita consacrata nelle sue diverse forme canoniche quantole nuove forme delle nuove comunità; oppure se per “vita evangelica” si debba intendere solola specie di tali nuove comunità, accanto alla vita consacrata: ma allora occorre definire ilgenere a cui ricondurre entrambe.

Siccome poi le parole hanno la loro importanza, sarebbe addirittura meglio adoperare pertutti coloro che desiderano vivere i consigli evangelici (celibi o sposi che siano) il termine“consacrazione” (inteso nel senso teologico finora delineato e salve restando le differenze conla vita consacrata tradizionale), in quanto ha radici più bibliche e ha il vantaggio di riconnet-tere più chiaramente ogni ulteriore santificazione alla fondamentale consacrazione battesi-male e crismale. Viceversa, l’espressione “vita evangelica” non sembra (in questo senso) suf-ficientemente radicata nella Scrittura, e si presta all’inconveniente di far sembrare che solochi assume determinati impegni viva secondo il Vangelo.

L’Instrumentum Laboris [38] fa un passo avanti, introducendo la distinzione fra «vitaconsacrata» (secondo le forme canonicamente istituite) e «consacrazione di vita» (che puòtrovarsi anche fuori di queste forme), tenendo conto che «[dal] punto di vista spirituale“consacrazione di vita” e “vita consacrata” [...] non differiscono [..., mentre] una differenzasostanziale si pone dal punto di vista [...] istituzionale» [GHIRLANDA, Punti..., op. cit., p. 168].Ma la terminologia, pur essendo comprensibile, è un po’ artificiosa (per la convertibilità diattivo e passivo, è evidente che se uno consacra la sua vita a Dio, la sua è una vita consac-rata); forse sarebbe meglio parlare di “forme non canoniche di vita consacrata” (nel cui am-bito possono sorgere ed essere approvati come associazioni comunità o gruppi di vita consac-rata) e “forme canoniche di vita consacrata” (nel cui solo ambito si possono erigere istituti divita consacrata). Non è poi chiaro se la vita evangelica degli sposi rientri in queste «altreforme di consacrazione di vita», ma sembrerebbe di no, perché di essa si parla alla fine delparagrafo come «forma stabile di vita, secondo i consigli evangelici, da parte dei coniugi», dicui si chiede se sia giunto il momento «per un riconoscimento specifico da parte della Chi-esa». Sarebbe forse meglio in futuro parlare non di “coniugi” (il che potrebbe generare il ma-linteso che tale vita riguardi solo le coppie), ma di “coniugati” (anche singolarmente presi).

157 L’approvazione di nuove forme di vita consacrata è sempre un atto di profondo va-lore dottrinale, e per questo è riservato alla Sede Apostolica. Il can. 605 dispone che le nuoverealtà che aspirino a venire approvate come nuove forme di vita consacrata utilizzino nei loro

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sale sono fra loro solamente analoghe, e al massimo rientranti entrambenell’unico genere di una vita evangelicamente ispirata; oppure la consacrazi-one celibataria e quella sponsale sono due specie della stessa consacrazione(che quindi ha per celibi e sposi un senso univoco di donazione a Dio, chepoi si concretizza in due modalità diverse per gli uni e per gli altri)?

Tale problema ci rinvia al rapporto fra definizione di consacrazione eimpegno di celibato; ebbene, ritornando all’esposizione dei canoni 573, 607e 599 fatta nella premessa, i casi sono due: o il celibato è una conseguenzaessenziale alla definizione di consacrazione, ma allora non si potrebbe dareimpegno di totale santificazione nel matrimonio, ma solo (eventualmente) ilconseguimento per accidens della santità, il che va contro tutto quello cheabbiamo mostrato finora; oppure il celibato non è una conseguenza es-senziale alla definizione di consacrazione, ma è quindi la differenza specificache caratterizza un tipo di consacrazione. In tal caso, allora, fermo restandoche la vita consacrata tradizionale è caratterizzata dal celibato, non è impos-sibile una nuova forma di vita consacrata diversamente caratterizzata.

Il terzo problema è di congruenza dell’ordinamento giuridico. Ilproblema nasce dal fatto che (a differenza delle altre forme nuove manifes-tatesi nella storia) le nuove comunità sono eterogenee per composizione. Perquesto la “nuova forma”, che le nuove comunità rappresentano e che la su-prema autorità della Chiesa potrebbe prima o poi adeguatamente configuraree regolamentare, non è caratterizzata dalla donazione a Dio nel matrimonio,ma dalla compresenza spesso a pari titolo di celibi e sposi.

Così, in base alla legislazione vigente ci si trova di fronte a un para-dosso: nelle comunità di vita evangelica che ammettono la compresenza apari titolo di celibi e sposati, i membri celibi vivono una vita che da unaparte è di fatto identica a quella dei membri di istituti di vita consacrata(secolari o religiosi); e dall’altra, pur nelle differenze esteriori, è spiritual-

statuti «soprattutto [«praesertim»] le norme generali contenute in questa parte» del Codice.Alcuni (interpretando in senso forte questo “soprattutto”) ritengono che la vita evangelica de-gli sposi non possa mai venire approvata come nuova forma di vita consacrata, ma tutt’al piùcome una forma stabile di vita a sé stante, in quanto fra queste norme generali c’è appunto ilcan. 599, che richiede ai consacrati l’impegno del celibato. In realtà nel can. 605 l’intenzionedel Legislatore è di diverso segno: ossia rovesciare il pernicioso principio secondo cui quodnon est in Codice non est in Ecclesia, ed evitare così per l’avvenire le penose vicende di chi-usura che tale principio aveva causato in passato. In questo spirito il can. 605 non dice qualisiano le norme irrinunciabili a cui anche le future forme di vita consacrata dovranno sotto-stare: è evidente però che se si imponessero tutte o quasi le norme generali ad ogni nuova re-altà, essa nascerebbe già vecchia; ed è ragionevole che gli elementi irrinunciabili della vitaconsacrata siano da determinare in sede non solo giuridica, ma anche e soprattutto teologica.Pertanto, il «praesertim» menzionato dal canone potrebbe essere inteso in senso debole, così:le nuove realtà dovranno ispirarsi nei loro statuti soprattutto, e cioè né integralmente né es-clusivamente, alle norme generali, ferma restando la prioritaria opera di discernimento spiri-tuale che il medesimo canone affida non ai canonisti, ma ai vescovi diocesani.

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mente identica e di diritto equivalente a quella dei membri sposati, e questo anorma degli statuti, spesso approvati dalla competente autorità della Chiesa;ebbene, tali membri celibi non possono essere considerati come canonica-mente consacrati, perché la loro comunità comprende a pari titolo anche glisposati; non è opportuno però che chiedano di essere approvati a parte (sepa-ratamente dagli sposati) come istituto secolare, perché questo «sarebbe comesmembrare un corpo» [Instrumentum Laboris 37], in quanto la caratteristicadi queste nuove comunità (sancita appunto dalla Chiesa) è proprio la com-presenza a pari titolo di celibi e sposati: ma questo “pari titolo” non esige-rebbe allora l’ammissione degli sposi nella vita consacrata? Ci troviamo in-somma di fronte ad una incongruenza che va contro l’esigenza di coerenzadell’ordinamento canonico.

Conclusione del discorso: anche se l’ammettere gli sposi alla vita con-sacrata porterebbe sicuramente un po’ di scompiglio nell’ordinamento eccle-siale (tradizionale, ma non nel senso della Tradizione), tuttavia il continuarea non ammetterveli suscita una serie di aporie e difficoltà forse non minori.

B) A questo punto, è chiaro che non basta ragionare in termini giuridici,ma occorre vedere la questione dal punto di vista pastorale, cercando nonsolo di discernere i doni dello Spirito alla sua Chiesa, ma anche di valutare,con prudenza e onestà, alcuni rischi.

Un primo pericolo è quello di appiattire tutto. Quando il ConcilioVaticano II dichiarò giustamente che la santità è la universale vocazione ditutti i cristiani, l’effetto indesiderato a volte è stato che alcuni si sono sentitigià santi, senza dover far nulla. Similmente, se la Chiesa ammettesse che laconsacrazione è possibile anche per gli sposati, questo non significherebbeche tutti gli sposati vivano già da consacrati. Allargare le basi della consac-razione anche agli sposati non vuol dire abbassare il livello della vita consac-rata (magari per far numero), ma aumentare il «coro della lode» a Dio e fa-vorire una maggiore intelligenza della consacrazione stessa, a beneficioanche delle sue forme tradizionali (che non hanno perso nulla del loro valoreoriginario) e per meglio valorizzare l’essenza più profonda della consacrazi-one.

Un secondo pericolo (particolarmente paventato da molti) è che esten-dendo la vita consacrata agli sposi, ne venga sminuito il celibato; mal’esperienza prova il contrario: nelle nuove comunità che ammettono la con-sacrazione degli sposati continuano a fiorire le vocazioni celibatarie,nonostante la tendenza opposta che spesso si verifica al di fuori. Inoltre, lapresenza nella Chiesa di una vocazione alla donazione a Dio anche nel mat-rimonio sarebbe certo benefica nella pastorale vocazionale, perché ai-uterebbe a distinguere l’essenza della vocazione alla consacrazione dallacondizione celibataria o matrimoniale, clericale o laicale, secolare o re-ligiosa, attiva o contemplativa, individuale o comunitaria (in una comunitàparticolare) che la vocazione assume. Il celibato, poi, visto in maniera più

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precisa nel suo rapporto col matrimonio, potrebbe essere scelto più consape-volmente e per se stesso.

Il terzo rischio, dovuto alla novità, è che le nuove forme di vita evan-gelica per gli sposi possano rivelarsi non sempre adeguate nella pratica: purammettendo in via teorica la possibilità di una vera donazione per gli sposati,bisogna perciò essere molto prudenti nel riconoscere quali debbano essere lemodalità pratiche per realizzarla; in effetti occorre verificare quali comunitàe forme di vita evangelica sorte in questi ultimi anni siano effettivamentenate da un’autentica ispirazione divina e siano in grado di durare nel tempo.

Pertanto la questione della consacrazione degli sposati non è solo te-ologica e giuridica, ma soprattutto spirituale ed esperienziale. Le nuovecomunità di vita evangelica devono infatti riuscire a comunicare l’esperienzache vivono per dono di Dio e far toccare con mano che Dio sta suscitando inesse frutti di santità non solo episodici, ma in un certo modo sistematici: checioè cresce in esse una santità popolare e che gli strumenti del loro camminocomunitario sono adeguati a stimolare tanto i celibi quanto gli sposi a ten-dere alla perfezione secondo il Vangelo. Allora la Chiesa sarà ben lieta di ri-conoscere che anche questo è un cammino di perfezione (certo diverso daglialtri) donatole dallo Spirito.