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La bomba previdenziale coinvolge lavoratori pubblici e privati, atipici e precari, liberi professionisti, artigiani e commercianti. I giovani sono i più penalizzati. Una generazione di esclusi e sprecati. Il paradosso è enorme: sono loro a pagare le pensioni di chi ha avuto un impiego sicuro e ben pagato. Tutto da rifare, prima che scoppi uno scontro generazionale e sociale.

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Questo libro

Indignarsi è giusto, ma non basta

Motivi ve ne sono tanti, ma indignarsi non basta. Certo, c’è da indignarsi a sapere che la maggioranza dei pensionati italiani gode, si fa per dire, di pensioni da fame, mentre c’è qualcuno che dorme sonni tranquilli grazie a pensioni d’oro. Le cronache sono piene di notizie del genere, ma questo non aiuta i pensionati a star meglio.

Il podio del pensionato più ricco d’Italia se lo contendono in due: nel settore privato, Mauro Sentinelli, ex manager della Telecom, con oltre 90.000 euro al mese, più di 3000 euro al giorno (lordi, naturalmente); nel settore pubblico è Felice Crosta, ex alto dirigente della Regione Sicilia, che ne percepisce la metà, 42.000 euro al mese, un po’ più di 1400 euro al giorno. Insomma, ci sono dei Paperoni che in un mese totalizzano ciò che la metà dei pensionati italiani riesce a raggranellare in tre-sei anni. Senza contare le «ono-revoli» pensioni, quelle degli ex parlamentari che hanno prestato servizio anche per pochi giorni, che superano i 3000 euro al mese; le baby pensioni, conquistate da chi è andato in pensione a meno di 40 anni; e le false pensioni, quelle percepite da chi non ne avrebbe alcun diritto. Oggi le pensioni dei parlamentari sono nel mirino dei tagli alla

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spesa pubblica e ai costi della politica, ma ci piacerebbe sapere, tra le altre cose, come andrà a finire per quei 1813 deputati pensionati, e i rispettivi 484 familiari che godono della reversibilità, che percepiscono un vitalizio in media di 6350 euro al mese.

La lista potrebbe continuare, insieme con l’indignazione. Ma l’obiettivo di oggi e di questo libro è quello di ragio-nare e documentare, per cambiare lo stato delle cose. E i problemi non si risolvono demagogicamente con un certo giornalismo scandalistico e populistico o con il taglio, spesso propagandistico, alle pensioni d’oro. La questione è molto più complessa.

Siamo infatti giunti al capolinea di una situazione da molti evocata, da alcuni esorcizzata, da altri rimossa, che è il prodotto dell’incoscienza, dell’irresponsabilità e dell’indif-ferenza. Siamo a un passo dal crac del sistema pensionistico. Siamo alla vigilia dello scoppio della bomba previdenziale e nessuno fa niente. Questo è il problema.

Impera ormai il gioco del cerino tra i politici, i quali, dopo aver sempre lavorato all’ombra del deficit, oggi tuonano che non si può più fare così. L’unica crescita evidente è quella del debito pubblico, che ha raggiunto quota 1897 miliardi di euro e che in una situazione di bassa ripresa dell’economia è destinato a salire (secondo gli esperti, dopo gli interventi di salvataggio della Grecia, il debito pubblico italiano salirà di altri 13 miliardi, sfondando quota 1900). Il deficit annuale (e il relativo servizio del debito, vale a dire gli interessi che si pagano annualmente sul debito) è diventato la palestra dove fioccano esercizi di stile e di menzogna, proiezioni contabili virtuali che non riescono più a convincere né l’Europa, né la Bce, né le agenzie di rating internazionali. Per questo qual-cuno vorrebbe cambiare le regole del gioco proprio mentre il gioco si fa duro e l’unico imperativo è giocare. Sì, ma come?

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Dopo il varo di riforme che hanno avviato il cammino verso la pensione a 65 anni per tutti, solerti neofiti previ-denziali e vecchi Soloni per niente previdenti si appellano alla necessità di spostare la nuova asticella dell’età della pensione a 70 anni. Una boutade estiva? Una provocazione? O una realtà ineluttabile, verso la quale ci stiamo dirigendo senza rendercene conto? Intanto con la manovra dell’estate 2011, a legislazione attuale, si toccheranno i 70 anni per la pensione di vecchiaia a partire dal 2052.

Non è compito di questo libro trovare le soluzioni a un problema ormai così fuori controllo. Ma il nostro dovere di giornalisti è quello di denunciare le responsabilità, di aiutare a capire quel che è successo e quel che ci potrà succedere, cercando di smontare la bomba nelle sue singole parti, e individuare così alcune ipotesi su cui i cittadini e i politici dovranno lavorare e riflettere. Il timer, intanto, segna il tempo che ci separa dalla deflagrazione.

Il dovere di informare (e di informarsi)

La questione delle pensioni rientra ormai nella più ampia questione della crisi del welfare e della povertà diffusa, a sua volta aggravata da una eccessiva lentezza della crescita economica. A essere e a ritenersi poveri sono strati crescenti di popolazione. All’aumento delle cosiddette fasce deboli si accompagnano la riduzione, se non la sparizione, del ceto medio e la precarizzazione lavorativa della maggioranza degli italiani. A temere per il proprio futuro non sono solo le giovani generazioni, alle quali toccherà saldare i debiti che stiamo loro confezionando e affibbiando, ma le classi più deboli, i dipendenti pubblici e privati, gli operai, gli impiegati, i tecnici, oltre ai professionisti, ai lavoratori

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autonomi, ai commercianti e agli artigiani. E mentre si allarga l’area delle difficoltà e del disagio, intere generazioni precipitano verso il basso e si restringe e si polarizza verso l’alto la fascia dei più ricchi, molti dei quali hanno costruito le loro fortune sull’evasione e sulla speculazione.

Crescono le disuguaglianze. Otto pensioni su dieci in Italia sono sotto i 1000 euro al mese. Secondo il rapporto Inps 2010, si tratta di 16 milioni di assegni, 12,6 milioni dei quali non arrivano ai 1000 euro. Oltre 3 milioni di anziani prendono, sì, più di una pensione, ma per oltre 7 milioni questa è inferiore ai 500 euro.

Si dice che la spesa pensionistica in Italia è troppo alta: oltre 190 miliardi di euro in capo all’Inps nel 2010, con 1,4 miliardi di attivo e 40 miliardi di patrimonio netto. Ma intanto anche chi ha una pensione soffre, perché essa non è sufficientemente commisurata al costo della vita. Attualmente poco più di 9 pensioni su 10 sono calcolate con il più generoso metodo retributivo (93,4 per cento), ma abbiamo visto come la generosità si ferma largamente sotto i 1000 euro. Per i più giovani, ma anche per ampie fasce di trentacinquenni e quarantenni, la pensione verrà calcolata con il più avaro metodo contributivo che determina assegni sempre più bassi.

Da qui all’orizzonte appare più che mai necessaria un’opera di protezione e di integrazione delle pensioni, per far fronte all’emergenza, con forme di previdenza complementari e aggiuntive, che per essere esercitate avranno però bisogno di una relativa capacità di risparmio, oggi inesistente. Si calcola che finora solo 5,3 milioni di lavoratori dipendenti abbiano aderito a fondi pensione, il 23 per cento del potenziale, per la quasi totalità lavoratori dipendenti a reddito fisso, mentre i giovani sono pochissimi.

Fanno sorridere le prediche sui bamboccioni. Dati alla

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mano, secondo la Banca d’Italia, siamo in presenza di una generazione esclusa, quella dei trentenni scoraggiati che per il 40 per cento vivono ancora con i genitori, privi di futuro, in cerca di lavoro, e che nel 60 per cento dei casi si vedono offrire solo impieghi temporanei, precari, sottodimensionati e sottopagati. Una generazione di sprecati.

Una bussola per orientarsi

In questo libro accompagneremo i lettori nel labirinto delle pensioni, segnalando innanzitutto le mutazioni del contesto di riferimento e le trasformazioni legislative più rilevanti che hanno aggravato la situazione: la scarsa crescita economica e il calo demografico, che riduce le forze in entrata e allunga l’età e la speranza di vita dei pensionati, hanno contribuito allo squilibrio dei conti, allo sbilancio fra entrate e uscite contributive. Ma la stessa legge di passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo ha sostanzialmente intro-dotto la rivoluzione delle pensioni e ha fatto scattare il timer della bomba previdenziale. I paradossi sono molti, ne basti citare qui uno per tutti: oggi sono i giovani atipici e gli immigrati a sostenere l’attivo delle casse previdenziali dell’Inps e a pagare le pensioni degli altri, mentre quando questi stessi andranno in pensione il mondo sarà cambiato e rischieranno l’assegno sociale.

Oltre alle concause e alle responsabilità, passeremo in rassegna i grandi comparti previdenziali e la situazione delle principali categorie pensionistiche: i lavoratori dipendenti privati e quelli pubblici; i 4 milioni di atipici, vale a dire i temporanei e gli intermittenti, che dovranno mettere insie-me frammenti di carriere spezzate; i professionisti vecchi e nuovi, che non sono esenti da rischi e contraddizioni, anche

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di tipo generazionale; i lavoratori autonomi, gli artigiani e i commercianti, che rischiano di essere i più tartassati; gli immigrati, le casalinghe e gli over 65, protagonisti non sempre vincenti di controverse situazioni previdenziali.

Infine, in appendice abbiamo proposto un «pensionome-tro», su cui soprattutto i più giovani si potranno esercitare per calcolare l’ammontare prevedibile della loro pensione, e un dizionario dei termini più importanti in campo pre-videnziale.

Tutti ci dobbiamo da subito occupare delle nostre pen-sioni, prima che sia troppo tardi; è indispensabile essere informati, colmando le lacune, i dubbi e le incertezze della documentazione. Aumentare le conoscenze e i saperi, oltre che denunciare le responsabilità e cercare soluzioni: è quello che questo libro vuole contribuire a fare.

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Di chi sono le responsabilità

La questione delle pensioni si potrà risolvere se l’Italia tor-nerà a crescere a ritmi almeno doppi rispetto agli attuali. Il nostro paese ha registrato i vertici della sua crescita nel periodo 1958-1963, quando macinava nuova ricchezza al ritmo del 6-7 per cento. Ora, mentre paesi come la Francia crescono del 2 per cento, o come la Germania a più del 3,5, negli ultimi anni l’Italia non ha recuperato il declino della crisi (meno 5 per cento) e cresce al ritmo modestissimo e risicato dell’1 per cento. La mancata crescita riduce la torta e fa aumentare il debito, in un circolo vizioso nel quale sono ravvisabili precise responsabilità. L’elenco è molto lungo e affonda le sue radici in tempi lontani. Del resto la vicenda delle pensioni è quella su cui sono inciampati e stanno dibattendo molti governi a livello internazionale, e non solo in Europa. La crisi negli Stati Uniti di Obama è generata dagli stessi problemi. Le sorti future della politica dipenderanno molto da chi avrà la lungimiranza, il coraggio e il consenso per affrontare una situazione esplosiva.

La prima responsabilità è quella di chi continua a cercare di svicolare, di tacere, di non informare, insieme a quella, tipicamente nostrana, del «mal comune mezzo gaudio».

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Secondo questo nefasto costume, noi staremmo sempre meglio degli altri paesi, ma non è così.

Vi è poi la questione demografica: l’età media si allun-ga, la speranza di vita fortunatamente aumenta, ma se in contemporanea non si lascia spazio all’ingresso di nuovi contribuenti le risorse sono destinate a ridursi e a esaurirsi. Ciò è ancor più vero per l’Italia: tenere fuori dal mercato stabile del lavoro i più giovani e pagare le pensioni a chi è entrato molti anni fa produce uno sbilancio insostenibile e il quoziente uno a uno, un pensionato per ogni occupato contribuente, diventa un destino ineluttabile.

Le responsabilità dei governi che dagli anni Ottanta, e nell’ultimo quindicennio in particolare, hanno guidato la spesa pubblica in Italia sono altrettanto devastanti. Sono venuti al pettine i nodi di una prolungata mancanza di senso di responsabilità per le sorti delle risorse pubbliche, aggravata da un’inefficace lotta all’evasione fiscale, perché nessuno ha mai avuto il coraggio di affrontare la questione della spesa sociale. Le stesse miniriforme fiscali hanno favorito i ceti medio-alti per ottenerne il consenso, abbandonando al proprio destino una base sociale di lavoratori con redditi fissi ma bassi e di giovani senza lavoro, precari, immigrati, pensionati con meno di 1000 euro al mese. Si è cercato di rimandare nel tempo le scelte più dolorose, lasciando cinicamente nelle mani dei successivi governi la soluzione del problema.

Neppure le organizzazioni di rappresentanza degli interessi di categoria sono esenti da responsabilità. I sindacati che siedono nel consiglio di amministrazione dell’Inps e che oggi si oppongono strenuamente a ogni tentativo di toccare le pensioni sono stati le sentinelle dormienti di questo disa-stro. La politica dei piccoli aggiustamenti e delle proroghe continue ha mostrato una strategia di piccolo cabotaggio

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che non ha pagato. Non restano fuori da questa triste parata nemmeno le organizzazioni imprenditoriali.

Chi poi ha gestito concretamente la maggior parte delle casse pensionistiche e previdenziali come se fossimo sempre nel paese del Bengodi ha mostrato un atteggiamento di attesa accidiosa, rimandando il problema del progressivo esaurimento delle risorse a un futuro indefinito. Parliamo dell’Inps e di chi l’ha governata in questi anni, presidenti del Consiglio, ministri e politici compresi, ma anche delle altre casse obbligatorie dei dipendenti, di molte di quelle dei vecchi e dei nuovi professionisti, dai dirigenti ai com-mercialisti, giornalisti compresi. Né dall’Inps né dagli altri fondi o enti è mai arrivato in questi anni l’allarme che nessun sistema pensionistico, a eccezione di quello contributivo, avrebbe potuto reggere nel tempo senza scaricare sulle future generazioni il prezzo di debiti incommensurabili.

Avrebbe il respiro e la vista corta qualsiasi riforma che puntasse ancora una volta solo sulle esigenze di cassa, anziché affrontare un cambiamento di struttura. Ne è un esempio sintomatico la vicenda dello scippo sulle pensioni delle donne: i 4 miliardi di risparmio da qui ai prossimi 10 anni, in seguito all’innalzamento dell’età pensionabile delle dipendenti pubbliche a 65 anni, così come richiesto dall’Europa, avrebbero dovuto finanziare politiche a favore del lavoro delle donne, della conciliazione, degli asili nido, della maternità. Ma così non è stato, perché le voraci vestali della spesa hanno dirottato queste risorse verso altre voci contabili, che per far quadrare i conti con le donne non hanno nulla a che fare. Così come fa altrettanto scandalo il caso paradossale dei parasubordinati e degli stranieri, che dimostra come spesso sono proprio i «paria» del lavoro e delle pensioni a pagare gli assegni degli «insider». Sono quasi una decina i miliardi che dalla precarietà si trasfe-

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riscono alla stabilità, più o meno presunta. I contributi dei precari e dei lavoratori immigrati formano la liquidità che oggi viene usata per tappare i buchi di una gestione che non sa o non vuole trovare altre vie. Così trionfano i ragionieri del futuro, gli spacciatori di favole, i ladri di speranze. È a costoro che dobbiamo dire basta, prendendo in mano il nostro futuro.

La doppia manovra 2011

Anche il colpo della doppia manovra di luglio e di Ferragosto 2011, con tutte le sue code legislative, non ha affrontato i problemi strutturali sul tappeto, perché espressione di una compagine governativa frantumata, alle prese con la soprav-vivenza politica, il solito piccolo cabotaggio, la defatigante gestione del consenso. Oltre al danno, si aggiunge la beffa di provvedimenti contraddittori e iniqui. Il primo è quello del tentativo, solo in parte riuscito, di rimandare al 2013-2014 il salasso che si rovescerà sulle spalle degli italiani, così da lasciare la patata bollente ai successivi governi.

La manovra di luglio da 47 miliardi (1,5 nel 2011, 5,5 nel 2012, 20 nel 2013 e 20 nel 2014) è lievitata a 70. I suoi capisaldi erano soprattutto tre. L’aumento dell’età pensiona-bile delle donne del settore privato a 65 anni (siamo il paese con il più basso tasso di occupazione femminile d’Europa, il 46 per cento) partirà dal 2016 ed entrerà a regime nel 2028. Nel frattempo potrà invece entrare in vigore dal 2013 anziché dal 2015, l’anticipazione dell’allungamento dell’età pensionabile per tutti in relazione all’aumento della speranza di vita.

Ma il progetto che ha suscitato le maggiori reazioni è stato quello del ventilato dimezzamento e azzeramento

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della rivalutazione delle pensioni del valore da 3 a 5 volte il minimo pensionistico e oltre 5 volte il minimo (pari a circa 470 euro al mese). Ciò avrebbe significato voler annullare la protezione rispetto al costo della vita per le pensioni sopra i 1400 e i 2300 euro, una tosatura su un totale di 7 milioni di pensioni. Le proteste hanno in parte disinnescato la mina dei ceti medi, portando la riduzione dal 90 al 70 per cento per le pensioni fra i 1400 e i 2400 euro e azzerando la rivalutazione oltre i 2400 euro. Inol-tre, anche quello che sembrava il fortilizio dei 40 anni di contributi, il sancta sanctorum dell’andata in pensione indipendentemente dall’età, è stato in parte intaccato, facendo slittare di uno, due e tre mesi aggiuntivi le finestre di uscita al 2012, 2013 e 2014.

Alla luce di tali colpi appare quanto mai demagogico e intollerabile il dibattito sulle cosiddette pensioni d’oro. Il risultato è che dall’agosto 2011 al 31 dicembre del 2014 scatta un taglio del 5 per cento per le pensioni superiori ai 90.000 e fino ai 150.000 euro annui, che diventa del 10 per cento per gli importi superiori ai 150.000. Una limatura che riguarderà circa 50.000 cittadini, e chiamarla «tassa di solidarietà» più che sorridere fa di nuovo indignare. Nessun provvedimento, invece, si è visto in questa ultima manovra che avesse lo scopo di migliorare la condizione lavorativa e contributiva dei giovani, colpiti dalla disoccupazione (gli under 25 senza lavoro sono il 29,6 per cento, le giovani del Sud in cerca di lavoro superano il 46 per cento) e vittime designate di una casta irresponsabile seduta sui propri privilegi, preoccupata solamente di mantenere il potere. Nulla di nuovo, si dirà. Del resto, come si fa a dare credi-bilità ai peana e alle prediche sulla meritocrazia quando a farli è un’insensibile e miope classe dirigente malata di gerontocrazia?

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Quattro lezioni buone per tutti

A mo’ di sintesi ci pare interessante proporre un inter-vento di Elsa Fornero, dal quale si può trarre la linea di comportamento che tutti dovremmo seguire. Il messaggio è che in previdenza non esistono pasti gratis per nessuno. Ne è da tempo convinta la docente di Economia presso l’Università di Torino, editorialista di importanti quoti-diani. Volendo anticipare le somme del nostro viaggio all’interno della previdenza italiana, vale la pena ricordare che oggi le cose sono profondamente cambiate e, soprat-tutto per un trentenne che si affaccia al mondo del lavoro, la pensione è tutt’altro che scontata. Il sistema attuale è finanziariamente sostenibile, ma le garanzie sono diluite, l’incertezza è aumentata, i margini di scelta dei lavoratori si sono ampliati e, come scrive la Fornero, ci sono lezioni da imparare.

La prima lezione che dovrebbe risultare chiara è che non esi-stono pensioni gratuite. La seconda lezione è che ciascuno sarà maggiormente responsabile della propria pensione e che, in linea generale, dovrà pagarsi la pensione con il proprio lavoro (la solidarietà è ovviamente prevista, ma limitata a fattispecie determinate). Ma la responsabilità si associa necessariamente a conoscenza. E quindi il minimo che ci si deve attendere è un’informazione corretta sul cambiamento delle regole e, spe-cificatamente, sul passaggio dalla pensione retributiva a quella contributiva. Non interessa ai cittadini la complessa formula con la quale i benefici saranno determinati, né sapere come è costruito il coefficiente che trasforma in pensione il cumulo (montante) dei contributi. Interessano i principi di base e le caratteristiche principali delle nuove pensioni: la loro stretta corrispondenza con i contributi (ogni euro versato conta e gli

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euro versati in giovane età pesano molto di più nella somma cumulata al pensionamento; lavorare in nero ha un costo molto elevato in termini di rinuncia alla futura pensione); il legame, quasi un gioco cooperativo, che si instaura tra la pensione del singolo e il tasso di crescita dell’economia (quanto è più alta la crescita del Pil, tanto maggiore è il rendimento riconosciuto ai contributi); la correlazione positiva tra età al pensionamento e importo della pensione (diversamente dalla pensione di anzianità, la pensione contributiva non soltanto cresce proporzionalmente ai contributi versati negli anni addi-zionali, ma soprattutto tiene conto della minore durata del periodo di pensionamento). La terza lezione è che le garanzie generalizzate per un’economia che cresce poco o punto, come la nostra, sono un lusso e finiscono per tradursi in privilegi per i ricchi. La quarta lezione, forse la più importante, è che la pen-sione pubblica non basterà più. Occorrerà quindi risparmiare (anche se ciò è difficile per chi ha soltanto un lavoro precario), partecipare alla previdenza integrativa, programmare e, più in generale, prepararsi al pensionamento. È ovvio che i normali cittadini non possono diventare esperti previdenziali. È però importante che si diffonda la percezione che le pensioni sempre meno dipendono dalla benevolenza dei politici e, sempre più, saranno il risultato di un libretto pensionistico personale, del quale si dovrà quindi avere grande cura.1

1 Elsa Fornero, Quattro lezioni valide per tutti, «Il Sole 24 Ore», 5 maggio 2011.