scritto da: aurelio alfio alberto abate nel periodo marzo
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Scritto da:
Aurelio Alfio Alberto Abate
Nel periodo Marzo/Aprile 2020
“ questo libro è nato come prova di scrittura, poi è diventato la via di fuga per
superare la quarantena da coronavirus ”
Come dico sempre: “ se non puoi uscire dal tunnel …arredalo. “
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PARTE I
Wuhan
CAPITOLO 1
Contagio
Mi chiamo Ungeziefer, sono di Wuhan, l’esteso capoluogo della provincia di Hubei, nella Cina
Centrale, un polo commerciale attraversato dal Fiume Azzurro e dal Fiume Han. Questa città
comprende numerosi laghi e parchi, come il grande e pittoresco Lago dell’Est. Non lontano da casa
mia sorge il Museo della provincia di Hubei, dove sono esposti reperti risalenti al periodo dei Regni
combattenti, tra cui la bara del marchese Yi di Zeng e le campanelle in bronzo ritrovate nella sua
tomba, che risale al V secolo a.C.
Tutto cambiò quando mi trovavo in una sala del tempio buddista Guiyuan, che si trova nel distretto
di Hanyang, che è stato fondato nel XVII secolo. In questa sala ammiravo l’esposizione delle 500
statuette dorate dei Iohan ( i discepoli illuminati ). Notai qualcosa di diverso non tanto nelle
statuette, ma per la sorveglianza irrequieta degli operatori culturali, in quel momento non capivo e
non sapevo niente, quindi decisi proseguire sulla Jianghan, una strada pedonale molto frequentata,
riservata allo shopping.
Proseguì sull’Hankou Bund, un viale che costeggia il fiume Azzurro, dove si affacciano edifici
risalenti alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, che porta casa mia, oltrepassando questa zona
famosa perché avevano sede le cinque concessioni straniere. Come punto riferimento vi era su
un’alta collina dall’altro lato del fiume, la Torre della gru gialla, che svettava con i suoi cinque
piani, che era la ricostruzione di un antichissimo monumento.
Fu lì che vidi il manifesto bilingue, in cinese e in inglese, dei giochi militari tra il nostro esercito e
quello U.S.A. che duravano due settimane, in corrispondenza del capodanno cinese. Sapevo che
dovevano farlo nella stagione della fioritura dei ciliegi, in primavera, ma evidentemente avevano
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anticipato l’evento. I luoghi designati erano il campus dell’Università di Wuhan e il monte Mo sul
Lago del’Est, due luoghi molto frequentati dai giovani e dagli sportivi. Andai subito per vedere gli
atleti americani, ma arrivato lì rimasi deluso, non c’erano, chiesi in giro e mi dissero che non
potevano partecipare all’incontro, perché avevano avuto tutti una brutta intossicazione a causa, si
pensa, ad una prelibatezza locale, cioè la zuppa di pipistrello. Molto gradita dalla gente locale,
soprattutto nei periodi di magra, che però spesso presentava dei problemi di digestione e in qualche
raro caso portava dei virus intestinali.
I pipistrelli, da tempo vengono studiati dalla facoltà di biologia dell’università di Wuhan e da
alcune maxi fabbriche farmaceutiche straniere, americane con sede in Brasile, francesi con sede in
Siria, e poi una fondazione Inglese con sede in India. Tutte cercavano di carpire la parte del DNA e
il genoma, che permettevano al pipistrello di essere immune a molti virus e batteri, al massimo
portatore sano. Come in passato si era fatto, ma con scarso successo, con gli squali, altri detentori
dell’invulnerabilità fisica ai 4 cavalieri neri del mondo microscopico, cioè batteri virus funghi e
protozoi.
CAPITOLO 2
Wenliang
La mia mente tornò indietro al dicembre scorso quando Li Wenliang aveva notato in sette pazienti
un virus simile alla Sars, ma le autorità locali lo misero a tacere. Ora a mesi di distanza la polizia di
Wuhan si scusa per il trattamento riservato al medico-eroe Li Wenliang, perché fu il primo a
lanciare l’allarme sul coronavirus e in seguito morì per aver contratto il Covi-19. Il 34enne fu
accusato di “diffusione di false informazioni su internet”. L’Ufficio di pubblica sicurezza della città
focolaio, ha ora scritto in una nota che sul caso “ ci fu una applicazione errata della legge e delle
procedure irregolari”. Le scuse arrivarono dopo le conclusioni della National Supervisory
Commission, secondo cui “l’azione della polizia non fu appropriata”.
A quel punto il mio interesse per la situazione fu massima, sia per quanto riguardava la mia salute
personale, e sia per quanto riguardava il mio lavoro essendo un operatore sanitario che lavorava in
ospedale. Quindi decisi di addentrarmi nella matassa e tirare fuori tutti i nodi.
Iniziai proprio dal mese di dicembre e proprio da Li Wenliang. Il dottore che aveva notato i sette
casi di un virus che gli ricordava la Sars all’ospedale di Wuhan dove lui lavorava ed io ci lavoro
attualmente. Aveva tentato senza successo, di avvertire i colleghi, di condividere l’allarme, che quei
casi sospetti avevano suscitato, ma le autorità locali gli fecero capire che era il caso di
smetterla.Allora raccontò la sua storia sui social, pubblicando una sua foto sul letto dell’ospedale in
cui si trovava intubato proprio a causa del coronavirus. Ma ormai per il medico-eroe non c’era più
niente da fare.
Il momento più buio? A fine Gennaio, quando qui a Wuhan ci sentivamo il lazzaretto del mondo,
isolati da tutti. Quando bisognava decidere come andare avanti. Vedevo spesso un italiano, tale
Lorenzo M. Uno della decina di italiani della città dov’è scoppiata l’epidemia. Lui decise di restare
in Cina, perché il suo lavoro e la sua vita erano lì da 15 anni. Si chiuse in casa con la moglie e con i
due figli.
Ora l’ho rivisto Lorenzo, mi disse: “A Noi va bene ora, o almeno decisamente meglio, da giorni i
contagi si sono fermati, oggi zero, stiamo ancora in casa la maggior parte del tempo, ma il peggio è
alle spalle”. Inoltre mi disse: “ è stato un crescendo di disposizioni restrittive, a partire dal 23
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gennaio. Prima ci hanno detto di uscire solo uno per nucleo familiare, ogni due giorni, poi ogni 3.
Ultimo passo restare dentro casa e aspettare.
Dura da accettare per uno come me abituato a viaggiare per l’Asia per la mia attività commerciale;
per mia moglie che lavorava in ufficio; per i miei bambini con la loro routine di scuola e giochi
all’aperto e sport che è stata spezzata all’improvviso. Poi 14 giorni dopo l’ultima uscita, mi sono
reso conto che siccome stavo bene, stavamo bene tutti, bastava restare a casa e seguire le
disposizioni per restare puliti dall’infezione”.
Un grandissimo sollievo per me sentire quel “dopo il 14esimo giorno”, mi ha dato la spinta per non
cedere. E ora sono qui, SANO.
CAPITOLO 3
La Paura
La paura è un’emozione primaria, comune sia al genere umano sia al genere animale.
Sostanzialmente la paura è un emozione primaria di difesa, provocata da una situazione di pericolo
che può essere reale, anticipata dalla previsione, evocata dal ricordo o prodotta dalla fantasia. La
paura è spesso accompagnata da una reazione organica, di cui è responsabile il sistema nervoso
autonomo, che prepara l’organismo alla situazione di emergenza, disponendolo, anche se in modo
non specifico, all’apprestamento delle difese che si traducano solitamente in atteggiamenti di lotta e
fuga.
Nella paura c’è quindi la sensazione che qualcosa minacci la nostra esistenza o quella delle persone
a noi più vicine. L’emozione della paura può proiettarsi nel futuro: qualcosa di brutto come il
coronavirus che colpirà me o gli altri, può spingere ad aggredire chi si avvicina troppo oppure al
contrario fuggire per evitare il contagio. La reazione alla paura è un emozione dominata dall’istinto,
cioè da un impulso, che ha come obiettivo la sopravvivenza ad una determinata situazione di
pericolo; irrompe ogni qualvolta si presenti un possibile cimento per la propria incolumità, e di
solito accompagna ed è accompagnata da un’accelerazione del battito cardiaco e delle principali
funzioni fisiologiche difensive.
Lavorando a stretto contatto con pazienti affetti da Paura, ho riscontrato: una intensificazione delle
funzioni fisiche e cognitive, difficoltà di applicazione intellettiva, protezione istintiva del proprio
corpo, ma anche una ricerca di aiuto, ed in alcuni casi voglia di fuggire. La fuga per sindrome
ansiosa accade quando la paura non è più scatenata dalla percezione reale di pericolo, ma dal timore
che si possano verificare situazioni di profondo disagio. La Paura ha diversi gradi di intensità a
seconda del paziente. Pazienti che vivono intensi stati di paura di frequente hanno atteggiamenti
irrazionali, un esempio è la paura che sfocia in Ira, come risposta al dolore o alla sua percezione. Se
un individuo impaurito è costretto ad attaccare, l’ira può prendere il sopravvento e la paura svanire.
La paura quasi sempre inizia dal suo grado più basso, cioè il timore che è la forma meno intensa
della paura e si determina quando una situazione promette piacere ma, al tempo stesso, anche
dolore. Poi salendo di grado si passa all’ansietà, alla fobia, al panico, al terrore ed infine all’orrore
che è un sentimento di forte paura e ribrezzo destato da ciò che appare crudele e ripugnante in senso
fisico o morale. Un orrore può essere un fatto, un oggetto o una situazione che desta tale
sentimento. Le paure possono essere legate ad un trauma specifico. Ad esempio nel mio caso, la
paura del cane può essere legata a uno o più episodi di aggressività da parte di questo animale.
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Il buddismo si basa in parte sulla paura; la paura della sofferenza. Il Buddha uscì nella sua ricerca
spirituale quando si rese conto che tutti sono soggetti a disagi, problemi e dolore, e con l’obiettivo
di trovare un modo per porre fine a tutto, ha scoperto una “via di uscita”.La terapia buddista nel
trattamento delle paure esagerate non è probabilmente diversa dalle modalità di trattamento
occidentali. Il trattamento si basa sul tentativo di vedere che la paura è una forma di sofferenza di
cui desideriamo sbarazzarci e di usare l’abitudine e il controllo della nostra mente per dissolvere le
paure irrazionali; è solo che il buddismo cerca di portare alla fine la soluzione dei problemi mentali,
per fermare il nostro stesso potenziale di sofferenza e problemi raggiungendo la liberazione e
l’illuminazione.
CAPITOLO 4
Badminton
Reika: < Ohhh finalmente abbiamo l’onore di avere qui con noi l’illustrissimo Ryo Ungeziefer!!!>
Ryo: < Ciao Reika … scusa per il ritardo. Gl’altri già sono arrivati?>
Reika: < non solo sono arrivati … ma già stanno giocando da un pezzo! Cafumi ti ha sostituito
nell’attesa che il re si facesse vedere dalle parti del giardino.>
Il giardino era nel retro della villetta dove si trovavano la piscina e il campo da badminton. Lì
c’erano Cafumi, la sorella minore di Reika, Selene la maggiore, e Jackie Qiang il ragazzo di Reika.
Cafumi appena mi vide, mi salutò e si eclissò, lasciandomi la racchetta come unico indizio che lei
aveva finito di giocare. Tolta la giacca mi misi dal lato di campo con Selene, dall’altra parte della
rete Jackie e Reika. Facemmo 5 partite serrate, vincemmo alla bella 3 a 2.
Selene: < pensavo che eri totalmente fuori forma!!!>
Ryo: < ero solo arrugginito, è un pezzo che non faccio sport, anche una partita “amichevole” si fa
un pò di fatica.>
Selene: < comunque abbiamo vinto ed è quello che conta, con Cafumi non avevo speranze.>
Reika: < ti sei impegnata di più solo perché avevi Ryo accanto, se no potevamo giocare contro il
muro, sarebbe stato un avversario più temibile!!!>
Jackie: < Reika sai sempre dire la cosa sbagliata al momento sbagliato. Quei due si annusano da
anni, ma sono così timidi, che le loro guance hanno cambiato colore tre volte per l’imbarazzo!!!>
Reika: < ha parlato il maestro della racchetta, non sei sceso a rete neanche una volta, bravo solo a
fare battute a distanza.>
Ryo: < dai !!! ho le guance rosse per la fatica e per il caldo, niente di più temerario.>
Il pomeriggio proseguì bevendo birra d’importazione, la partita era finita, quindi le doti atletiche
potevano andare a dormire, mentre uscivano fuori la chitarra e le canzoni dei cartoni animati,
sempre le stesse, perché quelle nuove, secondo tutti, erano troppo lente e noiose. Si passava alla
cena verso le 20:00 a base riso al cherry e alette di pollo impanate e fritte un pò troppo, ma Reika li
faceva da sempre così ed era così che dovevano essere.
Eravamo cresciuti dal tempo delle classi superiori, c’eravamo allontanati un po’, ma sempre uniti
con il pensiero. Reika aveva studiato giurisprudenza e ora era un avvocato divorzista, che in Cina
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non è la cosa più semplice del mondo, ma stava raccogliendo i primi frutti. Jackie era un meccanico,
aveva un officina vicino al tribunale, e quando per la quarta volta in un mese la macchina di Reika
venne parcheggiata davanti l’ingresso, lui gli disse: “ho ti decidi a cambiare la batteria o ti decidi ad
uscire con me!!!” scelse la seconda opzione, che era di gran lunga più interessante, infatti da lì a
poco si misero assieme e non si mollarono più.
Per quanto riguarda Selene è tutta un’altra storia. L’ho conosciuta ad una festa di compleanno di
gente un po’ più grande, frequentata d’artisti o presunti tali. Chi era scultore, chi pittore, e chi era
grafico pubblicitario come lei. Lei aveva studiato le belle arti e aveva vissuto per due anni a Firenze
in Italia, per apprendere lo stile dalla fonte (così mi disse), non la conoscevo, ma già notai la
differenza tra lei e quel guazzabuglio di sciroccati inventori del nulla. Lei aveva talento, mi mostrò
un suo lavoro in una teca, era proiettata un immagine in movimento, una macchina da corsa che
sfrecciava a forte velocità, ma che restava contenuta in quello spazio. Mi disse che ormai l’arte esce
fuori da un computer e da dei programmi reimpostati, il talento era riuscire a far diventare una cosa
dozzinale e scialba, in un bolide fiammante che qualunque potenziale cliente agognava. Capì che
vedeva il mondo in un modo diverso, che era abituata a ragionare ad un altro livello, e si era
rassegnata ad esprimersi come un padrone che rimprovera il proprio cane, perché ha fatto una
marachella, ma il cane non sa di averla fatta.
Lei in me vide il classico pesce fuor d’acqua, un po’ più giovane ed inesperto, ma ancora
recuperabile dal pattume che era in giro. Ci vedemmo svariate volte con varie scuse plausibili, del
tipo: ho visto il tuo spot alla tv locale e ho visto che hai usato il colore che ti avevo detto per lo
sfondo … sta proprio bene, e poi la conversazione passava ad argomenti meno noiosi, del tipo: dai
organizziamo un uscita per andare al fiume azzurro, conosco un posto dove ancora si può pescare,
l’inquinamento di lì non passa, c’è una diga un po’ più sopra devia le acque reflue, mentre da sotto
risalgono i pesci che vanno a riprodursi, una settimana fa ne ho visto un paio belli grossi, da fare
bruciare alla griglia dalla cuoca Reika.
Quando la cosa si fece inevitabilmente più seria e intensa, cambiò tutto, tutte le inadeguatezze, tutti
i timori, tutte le ansie, tutte le paure vennero a galla. Lei voleva sfondare nel mondo come public
manager o robe simili, e doveva viaggiare molto, vedere la gente giusta per fare il salto di qualità,
essere libera di gestire il suo mondo a suo modo, l’unico modo che aveva sempre utilizzato. Mentre
io ero fisso in un posto, senza grandi prospettive, non avevo interesse a fare carriera e tantomeno a
girare per il mondo come una trottola, non conoscevo lingue straniere, e alcune volte mi sentivo già
forestiero poco fuori dal mio quartiere, era un impegno troppo grande seguirla, e glielo dissi.
Gli dissi che qui e ora eravamo perfetti, ma fuori dalla nostra bolla eravamo simili come una farfalla
e un elefante, quindi gli diedi una specie di ultimatum, o viveva la vita qui con me insieme, oppure
poteva fare la sua vita ovunque ma senza di me. Lei decise di decidere di prendersi del tempo per
decidere, che detta così sembrava più complessa delle pitture postmoderniste dei suoi amici snob.
Alla fine i troppi dubbi e paure, ci fecero allontanare senza bisogno di risposte o algoritmi
complessi usati dai matematici teorici. Da vederci tutti i giorni ci vedemmo solo qualche volta, le
chiamate al telefono erano sempre più corte e neutre, avevamo paura degli eccessi, di quello che si
voleva dire realmente. Lei partì verso la patria degli Yankee e ci restò per un pezzo, interrompendo
drasticamente l’inizio di una storia che era già nata, ma che non cresceva, stagnante nel orrore di
una perdita definitiva.
La partita a Badminton fu la scusa cercata e non voluta, per poterci riavvicinare, se non come due
pilastri di una storia d’amore, almeno come una bella amicizia che si rafforza con il passare del
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tempo. Ma la chimica è bastarda, quando nel cervello avvengono certe reazioni e difficile fare finta
di niente, e come quando in radio passano il pezzo metal preferito, non si può fare altro che agitare
la testa e cantare a squarciagola, e te ne freghi se al semaforo il vicino di macchina ti guarda storto.
La vita è una e non si deve avere paura di ciò che ci piace, ma viverlo al 100%, che sia una canzone
o un amore perduto. Se c’è del fuoco che ancora brucia in fondo al braciere, non bisogna spegnerlo,
ma alimentarlo, in modo tale da portare la fiamma all’antico splendore, che si veda da lontano,
come faro d’Alessandria, che porti il marinaio alla sua meta.
CAPITOLO 5
Ginseng
La partita a badminton, mi aveva lasciato interdetto. C’eravamo salutati tutti allo stesso modo, come
facevamo anni fa, tutto regolare da parte dei vecchi amici, ma sapevo che la partita per me non era
ancora finita, anzi eravamo ancora al primo set con un campo più vasto e più accidentato. Il giorno
dopo mi ritrovai ad affrontare gl’ultimi strascichi del coronavirus in ospedale, alcuni lungodegenti
avevano avuto delle ricadute e non si volevano ulteriori decessi a pochi metri dal traguardo. Dal
canto mio nulla era cambiato nella subroutine, facevo le stesse cose, forse un po’ più lento e
disinvolto a furia di ripetere i stessi giri, però vedevo i miei colleghi, un po’ meno abituati di me a
fare i nonstop, che arrancavano nelle corsie come fantasmi in una casa stregata, evanescenti, che
tiravano le loro lettighe o catene, asseconda del punto di vista. Mentre ero avvolto nei miei pensieri
funambolici, vibrò il cellulare in tasca, entrai in una stanza vuota e controllai, era un messaggio di
Selene che m’invitava a prendere un ginseng al bar vicino il suo studio. Ormai l’avevo visualizzato,
quindi sapeva che l’avevo letto, qualcosa gli dovevo rispondere, e visto che avevo voglia di
rivederla, scrissi semplicemente: < ok, ci vediamo lì alle 15:30 >, semplice e coinciso.
Io, con la mia solita ansia, ero già davanti al bar alle ore 15:30. La vidi uscire dallo studio e
percorrere il marciapiede nella mia direzione, attraversare la strada e arrivare al bar. Era vestita
semielegante, con giacca nera sopra una camicia azzurro pallido, gonna al ginocchio nera con delle
strane cuciture bianche a zigzag tipo denti di coccodrillo, le scarpe erano delle comode ballerine,
che venivano sostituite all’occorrenza da scarpe con il tacco. Nel complesso bellissima e sensuale,
ma senza eccessi di volgarità.
Selene: < Ciao Ryo!!!...è molto che aspetti?...io ho ricevuto una telefonata inutile un secondo prima
di uscire e mi ha fatto perdere tempo. >
Ryo: < Ciao Sele!!...no sono arrivato da poco, come sempre ho il passo lungo e non mi piace
arrivare per secondo.>
Selene: < Dai entriamo e sediamoci, che ti devo dire una cosa e di certo non te la posso dire qui in
mezzo alla strada.>
Entrammo al bar, ci sedemmo in fondo al corridoio in un tavolo un po’ più appartato, Selene anche
se formalmente atea, volendo si poteva pure confessare in quel posto, in perfetto cristianstyle dei
suoi amici italiani. Venne il cameriere, prese l’ordinazione e sparì come era comparso. Selene non
aspetto i ginseng per iniziare a parlare.
Selene: < sai che negl’ultimi sei mesi mi occupo delle relazioni tra la Printer di Wuhan e
l’università di Firenze? In particolare per il registro di alcune gallerie d’arte interne, catalogare e
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verificare l’interesse del pubblico cinese per queste opere? Ora la Printer vuole che faccia al
contrario, cioè verificare l’interesse del pubblico di Firenze per l’arte cinese.>
Ryo: <Okay…>
Selene: < Quindi , probabilmente dovrò stare a Firenze per un po’ per questo lavoro.>
Ryo: < beh questo è il tuo lavoro e sono sicuro che dopo il tuo passaggio in Italia, tutti
conosceranno o vorranno conoscere l’arte cinese, sai catturare l’anima delle opere e valutarle, come
un orafo misura sul bilancino un gioiello.>
Selene: < non esageriamo, ho già acquisito una discreta esperienza in materia, ma è solo in parte il
motivo per cui ti ho fatto venire qua. In passato tu mi hai accompagnato a svariate gallerie d’arte e
molti incontri con autori, il tuo giudizio così distaccato e imparziale è quello che mi serve>
Ryo: < fammi capire meglio cosa vuoi che io faccia esattamente?>
Selene: < che mi accompagni a compilare lo start book con le opere più interessanti e fare le
relative recensioni>
Ryo: < ti ricordo che ho un lavoro con orari più o meno rigidi, non posso andare in gita premio così
su due piedi>
Selene: < Sapevo che mi avresti risposto così, conosco i tuoi turni, sei troppo abitudinario per
cambiarli o per farteli cambiare dall’amministrazione, quindi ho creato uno schema ad incastro,
sempre se tu non hai altri impegni nei momenti di non lavoro>
Ryo: < beh detta così, per citare un noto italiano, visto che siamo in tema, “Obbedisco!!!” >
Selene: < ah ah ah, poi dici che di cultura non ne sai niente, sei un pozzo di conoscenza, citarmi
Garibaldi, in un bar nella immensa Cina, non è da tutti. Ok allora è confermato, ti mando il file con
lo schema sul tuo cellulare, così ti regoli un po’>
Ryo: < e se ti avessi detto che c’era qualcosa di strano in città..chi avresti chiamato?>
Selene: < I Ghostbuster ovviamente!!!>
Ryo: < non l’ho capita, ma sicuramente ti starai riferendo a qualche film trash americano anni 80>
Selene: < vedi non conosci la citazione, ma conosci bene me, e riesci essere brillante nella tua
ignoranza cinematografica. Comunque sconosci un filmone che ha fatto epoca.>
Ryo: < Sai com’è, sono più da concerti rock ed escursioni in montagna, il caos e la quiete.>
Con questa battuta, finì la nostra chiacchierata pseudo lavorativa, bevemmo i nostri ginseng, pagai
il conto direttamente alla cassa come mia “solita abitudine” e uscimmo fuori dal bar. Lei mi disse
che alle 16:45 aveva un noioso impegno in centro e ancora doveva mettersi in tiro, che secondo me
si traduceva solamente ad un cambio di scarpe all’uscita dell’auto.
Ci salutammo amichevolmente, anche questa volta, senza far trasparire in nostri sentimenti, che
covavano nel profondo e che solo noi ci ostinavamo a nascondere, tra paure e timori, ma che tutti i
nostri amici conoscevano, talmente evidente, che poteva apparire come un insegna fluorescente
all’ingresso di un tempio buddista. Percorsi la strada per casa a piedi, c’era un bel po’ di tragitto da
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percorrere, ma mi sarebbe stata utile per pensare, immagazzinare i dati e prepararmi a quello che
sarebbe accaduto nei prossimi giorni.
CAPITOLO 6
Ritorno al museo
Non entravo al museo dall’inverno scorso, da quella volta prima che il COVID-19 irrompesse a
Wuhan e poi in tutto il mondo, mi ricordo bene le facce degl’addetti alla sicurezza, tese e
preoccupate come chi sa un increscioso fatto ma non lo può rivelare a nessuno, sicuramente
avvisate dal governo perché quello era un potenziale luogo di contagio e propagazione del
coronavirus. Ora lo so, anzi ora lo sanno tutti, ed in qualche modo siamo passati avanti o ritornati
indietro?
Il tempo era passato, ma mi trovavo la domenica pomeriggio al museo con Selene per catalogare e
in qualche modo giudicare opere, che poi si dovevano spedire in Italia dove sarebbero viste nelle
gallerie più nobili di Firenze. Con Selene capitavano giornate così, o per meglio dire facevamo
capitare la giusta occasione per vederci, doveva sembrare casuale, invece era una trama già scritta,
si doveva solo interpretare, avevo pure lo schema dell’itinerario, neanche fossi un turista.
Già gli ero sfuggito per l’andata a pesca lungo il fiume Azzurro, con la scusa dell’incompatibilità
degli orari lavorativi, quindi aveva creato un sistema perfetto per fare stare noi due nella nostra
“bolla” e rimanerci il più possibile. Inoltre visto che il tempo era limitato non potevo rimandare
all’infinito come il mio solito. Lei adorava stare nei musei e nei luoghi d’arte, era una cosa che
andava oltre il lavoro, era passione pura e semplice, ed io ero il suo complice in quei corridoi così
lunghi, che per troppo tempo erano stati chiusi al pubblico. E tra una statua di Buddha e una
pergamena di mille anni, Selene fece la mossa successiva.
Selene: < Ho pensato ad una cosa, ad una cosa importante, tu sei qui con me, conosci tutte queste
opere come me, potrei aggiungere un biglietto per l’Italia…>
Ryo: < Ah capisco, quindi mi stai chiedendo una mano per trovare un collaboratore adeguato che ti
aiuti per le mostre di Firenze? >
Selene: < Beh in un certo senso si, cerco un collaboratore che mi aiuti, ma volevo che fossi tu. Lo
so che per te cambiare continente per sei mesi è fantascienza, ma ho pensato che potevi partire con
me e stare solo una settimana, per allestire e programmare tutto, poi puoi tornare alla tua tranquilla
vita. Non credo che i tuoi superiori ti possano negare una settimana di ferie, hai lavorato tutti i
giorni, anche oltre il tuo orario regolare, facendo straordinari su straordinari, ora che le frontiere
sono riaperte, penso non ci sia momento più adatto di questo.>
Come sempre la sua logica m’impressionava, soprattutto la logica applicata su di me, uno dei miei
punti deboli era che se iniziavo una cosa, poi la volevo portare a termine, non uso mezze misure e
c’era sempre un unico modo per fare le cose, input => algoritmo => output. Che poi l’algoritmo era
fare migliaia di kilometri per poter stare il più tempo possibile con lei, erano dettagli insignificanti,
forse per un pazzo scappato dal manicomio, ma non per me.>
Ryo: < Tu la fai sempre facile, sono sempre io quello che ti deve rincorrere in lungo e in largo, non
voglio essere la zavorra della tua vita, voglio essere un attore protagonista, non una comparsa che
ogni tanto si vede nel fondale della scena. Non conosco l’italiano, come mi dovrei esprimere … in
cantonese o in mandarino???>
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Selene: < ma quanto sei lamentoso!!! Non saresti di certo zavorra, anzi saresti più che un
collaboratore, ma un correlatore ufficiale per la Printer Enternement Weekly. Per quanto riguarda
la lingua, imparare cose nuove non ti farà male, al limite puoi parlare in inglese, che è una lingua
internazionale utilizzata in tutti meeting del mondo. Quindi, a fine tour di questi giorni, voglio una
tua risposta secca e definitiva. Non c’è possibilità di tergiversare al tuo solito, non voglio che anche
questa “nostra” cosa vada in prescrizione dei tempi!!!>
Ryo: < Okay, ci penserò, con celerità. Nel frattempo vedi che vuole quella tipa.>
Si era avvicinata una distinta signora sui 45 anni, capelli tinti neri, alta circa 160 cm, che poteva
pesare al massimo 40 kili stentati. Era Yuki Amato, mediatrice euroasiatica, rappresentante della
Printer, nonché il capo di Selene. Yuki aveva dei tratti ibridi, il viso aveva i lineamenti orientali ad
esempio il taglio degl’occhi, ma il naso era tipico di un europeo bianco.
Selene e Yuki si misero a parlare animatamente per circa 5 minuti, poi si avvicinarono a me, e
Selene mi presentò a Yuki, che mi squadrò ai raggi X dalla testa ai piedi. Il suo viso non cambiò
espressione, non si capiva se avevo fatto bella o brutta impressione, disse soltanto: < veda di portare
a termine il lavoro nei tempi previsti, non disperda troppe energie in troppe cose.> indicandomi
inequivocabilmente, con lo sguardo, Selene. In pratica Yuki aveva sottolineato che il lavoro era
egregio, ma dovevamo stare nei termini senza “distrazioni”, e che dovevo valutare le priorità.
Dopo poche altre parole, Yuki si congedò e sparì nei meandri del museo. Mentre io e Selene
andammo verso l’uscita, alla ricerca di aria fresca. Selene si era innervosita, gli accadeva di rado,
non era una che accettava consigli, figuriamoci ordini, da una che poi di arte ne capiva poco, ma
che era bravissima a muoversi nella politica societaria e manovrare soldi.
Selene: < Quella stronza impertinente!!! Chi gli da diritto di parlare così??? Solo perché è straricca
e ha agganci ai piani alti???!!!>
Ryo: < Dai non fare così…>
Selene: < Comunque ha guardato tutte le tue relazioni, gli sono piaciute le note di esposizione,
credo che quando ha letto il trattato sul peso specifico del bronzo per le campane, abbia goduto, la
stronza. Come dice lei, vedi le tue priorità e faccele sapere, perché più di una persona alla fine
potrebbe rimanere delusa.>
Ryo: < Ha letto tutto il rapporto? Incredibile! Per il resto vi faccio sapere a breve>
Andammo alle macchine, questa volta ci salutammo con un po’ troppa enfasi, eravamo entrambi
caricati al massimo, c’era troppa tensione, perché c’erano da prendere decisioni a breve, e non si sa
come sarebbero finite le cose, ancora tutto era possibile, sia nel bene che nel male. Lei salì in
macchina e partì a razzo. Io feci con molta calma, mi presi il mio tempo, entrai in macchina,
abbassai i finestrini, accesi la radio, cambiai un paio di volte stazione, poi accesi il motore, inserii la
marcia e partì.
Arrivato a casa, mi misi al cellulare, anche se era domenica, incominciai a contattare i miei colleghi
e i miei dirigenti, in maniera molto informale, per tastare il terreno e vedere la fattibilità di un
potenziale viaggio di una settimana leggermente fuori città. Alla fine del giro delle telefonate, avevo
trovato più pareri positivi che negativi per il potenziale viaggio. Domani avrei presentato richiesta, a
prescindere dalla mia decisione definitiva, perché ci voleva almeno una settimana per l’accettazione
della domanda di ferie. Io potevo attendere, ma la mia Ansia no.
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PARTE II
Firenze
CAPITOLO 7
L’otto
L’otto per i cinesi è un numero fortunato, se era vero, in quel momento dovevo essere l’uomo più
fortunato del mondo, era giorno 8, l’aereo partiva alle 8 del mattino e avevo il posto a sedere 8H, e
H era l’ottava lettera dell’alfabeto occidentale. Io invece mi sentivo più un condannato a morte che
stava sul patibolo, ormai non potevo più ritornare indietro, le ferie erano state convalidate e i
biglietti erano stati fatti, ed ora ero nella sala imbarchi in attesa che chiamassero il volo.
Selene felice come non mai, stava in piedi tutta saltellante, come se dovessimo andare in gita al
Pechino Park a vedere gli animali dello zoo. Ovviamente per lei il viaggiare era la normalità, negli
ultimi 5 anni aveva girato mezzo mondo, mentre per me era come oltrepassare le colonne d’Ercole
del mondo antico, stavo già ripassando mentalmente il mio mediocre inglese e quelle 4 parole in
italiano che avevo cercato su google, tanto per non fare brutta figura appena sceso dall’aereo.
L’aero partì alle ore 08:30 puntuale, viaggiò tutto il mattino senza alcun problema, dall’oblò il cielo
era limpido ed io incominciai a rilassarmi un po’, mi scossi solo quando l’aereo atterrò a Roma
Fiumicino per lo scalo. Prendemmo il diretto Roma => Firenze che atterrò nel tardo pomeriggio, poi
attesa per i bagagli per me e i bauli per Selene, poi il taxi all’uscita per andare all’Hotel Nonfinito
che si trovava nel centro storico, o almeno così avevo capito.
Per tutto il viaggio non ho quasi detto niente, qualche parola ogni tanto per non fare capire che ero
in modalità zombie, cioè che il mio corpo andava avanti e faceva cose, mentre il mio cervello era
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tipo a 10000 km di distanza. Selene sapeva il mio comportamento e sapeva che doveva aspettare
qualche altra ora prima che il suo Ungeziefer ritornasse senziente dal mondo delle nuvole.
L’Hotel era tutto un programma, la facciata con tutte quelle statue che raffiguravano non so chi,
guardavano dall’alto a basso i comuni mortali, mentre loro erano immobili, incuranti del tempo e
delle generazioni che passavano di lì. L’interno era di lusso, doveva essere stato in passato un
palazzo di qualche famiglia nobile ormai decaduta, c’erano quadri alle pareti, i mobili di
antiquariato, un cortile interno con tutto un colonnato attorno. Le nostre stanze erano al secondo
piano l’una affiancata all’altra, si accedeva da un lungo corridoio con le grandi finestre che davano
sul cortile interno, mentre le stanze davano sulla strada principale, si sentiva un po’ di rumore di
sottofondo dalle finestre, ma non era una cosa eccessiva.
Stavo finendo di disfare le valige, quando bussarono alla porta, era Selene che avvertiva che la cena
era per le 21:30 al ristorante dell’Hotel, abbigliamento informale. Io finì con il guardaroba, mi feci
una doccia rapida e la barba, mi vestii semisportivo per stare un po’ più comodo, e alle 21:15 ero
già nel gran salone da pranzo dell’Hotel. Selene arrivò alle 21:45, mentre io già stavo pensando di
fargli uno squillo di cellulare per vedere se dava segni di vita.
Lei vestita come Penelope Cruz alla notte degl’oscar, altro che informale, si era messa in tiro ed era
un belvedere, e un po’ del mio nervosismo incominciò a scemare, sostituito a velocità da felicità e
inadeguatezza in una percentuale di 50 a 50. La feci sedere al suo posto contrassegnato da un
cartellino bianco con scritta oro, almeno le buone maniere non le avevo scordate in Cina, poi in
base al secondo cartellino mi sedetti di fronte a lei. Arrivarono subito i camerieri per portare l’acqua
e prendere le ordinazioni. Lasciai che fosse lei a decidere il menù della cena, lei conosceva le cose
buone locali, io avrei chiesto del riso e pollo fritto e birra.
Tra una costata spessa tre centimetri quasi cruda e un buon vino d’annata, mi sciolsi
completamente, nel grado di come si andava a riempire la mia pancia. Fu in quel momento di difese
abbassate che lei attaccò.
Selene: < Ora che sei ritornato tra noi viventi, ti espongo cosa dobbiamo fare domani giorno 9:
alzataccia alle 7 perché alle 8 passa il taxi che ci porterà a palazzo Pitti, abbiamo appuntamento con
Yuki Amato alle 9 al suo studio, ci darà tutte le credenziali e i permessi che ci serviranno per fare il
nostro lavoro. Da lì andremo direttamente in Via Maggio dove dovremmo preparare
l’allestimento.>
Ryo: <Ho un po’ di domande da farti. La prima è che ci fa qui Yuki? La seconda è ma palazzo Pitti
non c’è un presidio delle forza dell’ordine? Terza domanda non è che stiamo lavorando per dei
religiosi?>
Selene: < Yuki lei è nata in Italia, il padre è di Arezzo mentre la madre è nostra conterranea. Il
motivo perché ci vediamo in quel palazzo è perché i documenti nostri li rilasciano lì, ci fanno un
trattamento privilegiato. Per quanto riguarda “i religiosi” la commessa presa dalla Printer parte da
loro, o parte dall’economato della curia. Hanno il più grande salone espositivo d’Italia, ma
soprattutto sono in cerca di personale ultra qualificato, per stimare alcune delle opere, che facciamo
il nostro dovere e che poi ritorniamo dall’altra parte del mondo, senza fare trapelare valutazioni
economiche>
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Ryo: <Quindi il lavoro vero inizierà il 9 pomeriggio, va bene, così mi riprenderò dal fuso orario.
Allora se hai finito di cenare, possiamo ritornare nelle nostre camere e farci almeno 8 ore di sonno
piene>
Selene: < ma chi tu? ti fai 8 ore filate di sonno consecutive? Non ci credo neanche se sto tutta la
notte a guardarti russare!!! Comunque andiamo dai.>
Salimmo al secondo piano, questa volta ci salutammo lentamente, con tanti sguardi, ammiccate e
sorrisi sinceri. Rientrai stanco in camera, ma totalmente sereno, sapevo quello che mi aspettava
domani e ora non mi faceva così paura, anzi il fatto che domani sarei stato tutta la giornata in
compagnia di Selene, mi rendeva felice come non mai.
Accesi la tv, girai i canali in cerca di qualcosa per intrattenermi in attesa che sonno prendesse il
sopravvento, trovai un documentario sui i pinguini imperatore, che andavano dal centro del polo sud
alla costa glaciale, per buttarsi in acqua e andare a caccia. Quei animali così goffi ed impacciati
sulla terra ferma, diventavano dei proiettili per velocità e acrobati per la loro destrezza. Pensavo alla
stranezza di quei uccelli che non sapevano volare, che nidificavano sulla terraferma e che
cacciavano in mare come se fossero dei pesci. In quel momento gl’occhi si chiusero e non pensai
più a niente.
CAPITOLO 8
Il nove
Per i cinesi tutti i numeri hanno un significato, se l’otto era il numero fortunato per eccellenza, il
nove era un numero magico, un numero che portava stranezze e cambiamenti. Io alle ore nove di
giorno nove, mi trovavo al palazzo Pitti di Firenze, nello studio di Yuki Amato per ritirare tutti i
documenti per iniziare i lavori. Subito ci fu un imprevisto, i documenti di Selene erano belli che
pronti, mentre a me mancava un visto per il lavoro di collaborazione, e per averlo dovevo andare al
palazzo di Giustizia a 10 minuti di macchina dal centro storico.
Selene e Yuki confabularono per 5 minuti in una lingua che era per metà cinese e per metà italiana,
poi guardarono me e diedero il responso. Selene sarebbe andata direttamente in Via Maggio per
iniziare il lavoro da sola, mentre Yuki mi avrebbe accompagnato a ritirare il visto, soprattutto
perché non parlavo italiano e lei era conosciuta dall’amministrazione del posto e non le avrebbero
fatto perdere altro tempo.
Così alle ore 09:30 Selene partì in taxi per andare in via Maggio, mentre io salivo in macchina con
Yuki per andare a Ghotam così aveva chiamato quel luogo completamente avulso dai palazzi che
contraddistinguevano Firenze. Il palazzo di giustizia, era al mio dire di stile gotico, alto, tutto di
cemento e vetrate, di forma irregolare, niente gli assomigliava in zona. Non mi stupirei se vedessi
all’ingresso Batman che combatte contro Joker.
L’interno era ampio, pieno di niente, tanto spazio vuoto per mettere in soggezione le persone, chi
entrava si sentiva piccolo come una formica, e come un formicaio quel posto aveva infinite scale e
ascensori che salivano e scendevano, migliaia di porte tutte uguali, tutte della stessa forma e colore,
cambiavano solo le targhette in ottone, che distingueva questa da quell’altra sezione. Se non era per
Yuki, mi sarei perso prima di entrare, lei invece andò dritta all’obiettivo senza tergiversare, girò a
destra e imboccò un corridoio, scendemmo 2 rampe di scale, un’altra volta girammo a destra, altro
corridoio, e alla fine l’ultima stanza a sinistra era quella che cercavamo.
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La porta era chiusa e al di sopra c’era una luce rossa accesa, lei suonò il campanello 2 volte per 3
ripetizioni, scattò la serratura della porta ed entrammo. Dentro trovammo alla sinistra una scrivania
con dietro una persona che mi sembrò un segretario, si alzo ed entrò nella stanza alla mia destra,
dopo circa 10 secondi riuscì il segretario e fece cenno di entrare. All’interno di quest’altra stanza
cera il Cancelliere Brioschi, che senza distogliere gl’occhi dal PC allungò, con la mano sinistra
libera dal mouse, un foglio A4, che diede a Yuki. Lei disse: < Grazie Gianpaolo ti devo un
favore!!!> e il Cancelliere rispose: < una cassa di vino aretino e siamo a pace>. Un paio di sguardi
d’intesa e poi uscimmo da quel dedalo di vetri e cemento. Arrivati alla macchina, la sensazione era
quella di essere usciti da un labirinto e dalla ferocia del Minotauro.
Yuki: < Senti Ryo, io ho delle commissioni da fare, a te conviene seguire me, da qui non riusciresti
ad arrivare in tempo con i mezzi pubblici in centro.>
Ryo: <Si questa zona e più isolata del centro storico, inoltre si deve prendere l’autostrada, e da
quanto ho capito si devono prendere un paio di svincoli>
Yuki: < Ok allora, prima tappa andiamo da Vogan per gli imballaggi, i nostri clienti che vorranno
portare i nostri pezzi in collezioni private, lo dovranno fare con la massima sicurezza e con tutte
assicurazioni possibili>
Arrivammo nello scarico merci della Vogan e Yuki si volle assicurare di persona che tutti
gl’imballaggi erano pronti per essere trasportati e montati, mancava ad occhio mezzo camion, ma il
capo amministrativo gli assicurò che per il pomeriggio l’avrebbero riempito.
Fatto questo, ritornammo in macchina e partimmo per un posto ancora più in periferia, quasi al
limitare della zona industriale, dove c’era la sede locale della Printer. Lì al dodicesimo piano c’era
lo studio principale di Yuki, dove teneva tutti gli espositori e tutte le cartelle, che contenevano
faldoni di carta scritta al computer e con dei segni e sottolineature a penna. Nella stanza c’erano due
scrivanie, una grande di Yuki e una più piccola meno ordinata; c’era un plotter per le grandi stampe
e due lavagne che ricoprivano una parete, nella parete opposta c’era una libreria in legno pregiato
con dei libri antichi in bella mostra. Impiegammo poco tempo, un rapido controllo all’email e
rispondere ad un paio di quelle più urgenti, poi passammo al quarto piano per recuperare una
cianografia arrotolata e il lavoro lì era finito.
Si era fatto mezzogiorno e io non toccavo cibo dalle 07:30, lo stomaco iniziò a borbottare e Yuki se
ne accorse. Mi fece una smorfia che era tutto un programma e mi disse: Ti sistemo io!!! E cambiò
strada accelerando e senza mettere la freccia direzionale. Dopo circa 3 minuti arrivammo al portone
di una villa, con il giardino verde a prato, sul perimetro alberi di alto fusto, una stradina fatta di
ciottoli bianchi che portavano all’ingresso principale. Uscimmo dalla macchina ed entrammo nella
villa, o meglio ci passammo dentro per spuntare dalla parte posteriore, dove superando una porta a
vetri splendeva un enorme solarium accompagnato da una piscina di almeno 20metri di lunghezza e
6 metri di larghezza. Su una sdraio, tutta spalmata di crema, c’era una ragazza sui 18 anni che
ascoltava della musica e si godeva il sole, era la figlia di Yuki.
Yuki: < io mi levo la vita a sgobbare e tu qui a cazzeggiare!!! Fra 2 mesi hai la Maturità e ancora
non hai preparato niente??? Non ti aspettare che la faccia tutta io la progettazione per tecnologia
delle costruzioni!!!>
Beatrice: < Mamiiiii!!! Non ti preoccupare ancora c’è tempissimo per gli esami, e poi con questo
sole, solo tu e questo tizio potete lavorare!!! Chi è?>
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Ryo: < Salve sono Ryo Ungeziefer> Tutto quello che riuscì a dire nel mio italiano
Beatrice: < Ti fa sgobbare Eh?! È sempre così, tutta una corsa senza mai prendere fiato>
Ryo: < Grazie> dissi senza capire il significato
Yuki: <Ryo, vieni con me, lascia stare questa invasata, andiamo a mangiare che la giornata è lunga,
e qualcuno deve portare la pagnotta a casa.>
Andammo nella cucina più grande che avessi mai visto, era sconfinata, aveva 2 forni a castello, il
frigorifero che da solo faceva quartiere, un doppio piano cottura e un doppio lavabo in acciaio, un
isola con un piano in marmo spesso 2cm contornato da sgabelli alti molto poco cinesi.
Yuki: < siediti, non sono una grande cuoca, ma la tecnologia mi aiuta, 5 minuti e il tuo stomaco non
brontolerà più>
Ryo: < Grazie Yuki, dovevo prevedere oggi l’imprevisto e portarmi del cibo di scorta, mi rimarrà
come insegnamento>
Yuki: < Quando girano grandi quantità di soldi ci sono “sempre” grandi rogne, ricordatelo>
Mangiammo direttamente in cucina, due fette a testa di carne arrostita sulla piastra, insalata di
carote zucchine e patate, vino bianco per fare scendere il tutto. Alle ore 13:15 finimmo di pranzare,
ci prendemmo un caffè espresso e poi di nuovo in macchina, ma solo dopo che Yuki fece la seconda
ramanzina alla figlia, che tutto voleva fare tranne che studiare.
Alle ore 14:30 arrivammo in Via Maggio, dopo il passaggio in autostrada e le vie strette del centro
cittadino, tra un ingorgo e l’altro. Mi lasciò all’ingresso senza scendere. Mi disse solo: < ricordagli
a Selene che domani passa il Commenda> io risposi con un : < Ok, Ciao!!!>.
Entrai nel grande portone, seguì il corridoio buio e uscì nel grande cortile interno, percorsi metà del
colonnato, presi la scala di destra e scesi al piano seminterrato, dove si trovava Selene, piegata a
terra in cerca di stabilizzare una scultura un po’ troppo ballerina. L’aiutai a sorreggerla mentre le ci
metteva una zeppa provvisoria.
Il pomeriggio passo veloce, c’era molto da fare e io ero stato di zero aiuto tutta la mattinata, cercavo
di recuperare il tempo perduto, ma Selene non era molto collaborativa anzi sembrava arrabbiata,
non mi aveva chiesto cosa avevo fatto o dove ero andato, semplicemente andava avanti con il suo
mestiere. Alle ore 20:00 sembrava di aver sistemato tutto. Mangiammo una cosa veloce al bar nella
piazza poco distante e alle 21:00 eravamo ognuno nelle proprie stanze, entrambi stanchi morti.
Dormire non fu difficile.
CAPITOLO 9
La galleria
La mattina del giorno 10 era l’inaugurazione della galleria cinese in Italia, Selene mi fece un
resoconto rapido ma esauriente su chi era il “Commenda”, Si chiamava Calogero Platania, era nato
a Sciacca provincia di Palermo, trasferito in tenera età in America con la sua famiglia, era cresciuto
a New York City, aveva l’aspetto di Marlon Brando ne “ il Padrino” , alto almeno uno e novanta,
oltre i 100 chili di peso, e un età che si aggirava intorno all’ottantina. Classica persona che si era
fatto da solo, tutto di un pezzo, aveva creato dal nulla la Printer, iniziando come commesso in un
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negozio di tipografia, poi proprietario del negozio, poi proprietario di una catena di tipografie e poi
il cambio di tipologia di lavoro per andare incontro ai tempi. Ogni cosa stampata nell’Eastcost
U.S.A. aveva a che fare con lui, ora si stava espandendo in Asia e in Europa, grazie a internet e i
mezzi di trasporto rapidi. Sapeva che per aprirsi il mercato a suo favore doveva avere amici potenti
e soci influenti, quindi con la scusa di fare da mecenate dell’arte mondiale, espandeva il suo raggio
d’azione con politici e religiosi dei paesi di suo interesse.
L’inaugurazione fu alle ore 10:00, con tanto di nastro rosso, tagliato dal Commenda, protagonista
assoluto, anche se lui in pratica non aveva fatto niente, lui muoveva i fili da buon puparo siciliano,
lasciava il lavoro sporco ai suoi dipendenti che si dovevano occupare della concretizzazioni dei
suoi pensieri. Io e Selene eravamo in seconda linea, a controllare tutto, dall’esposizione d’arte, al
rinfresco, alla pulizia e a tutta la logistica del caso. C’erano oltre un centinaio di persone, tutte
facoltose, che intrecciavano legami, molto al di fuori dalle campane di bronzo cinesi, più interessati
a farsi vedere nell’alta società e dimostrare la loro forza politica.
Il clero non si confondeva con gl’altri, un po’ per i vestiti e un po’ il loro modo fintamente non
aggressivo che si portavano dietro, lì erano tutti predatori, le prede erano fuori da quell’ambiente,
mi viene in mente la potenziale stranezza di una gazzella che sonnecchia in mezzo ad un branco di
leoni, non era una cosa naturale. Noi eravamo quelli che facevamo una specie di safari per vedere in
natura le belve feroci, leoni, ma anche iene, avvoltoi e coccodrilli. Mentre facevo questi voli
pindarici si avvicinò Yuki, che mi svegliò dal torpore in cui ero e mi disse di seguirla.
Mi portò in un’altra sala, quella più piccola, dove vi erano un paio di tavoli rotondi pieni di ogni
bontà culinaria, nel primo tavolo vi erano i supporter dei pezzi grossi e nel secondo tavolo vi erano i
pezzi grossi, capeggiati dal Commenda e accompagnato da due religiosi di alto rango, quattro
politici e tre tecnici, lo sapevo perché i posti li avevo assegnati io, ma non pensavo che ne dovessi
far parte, ero passato da turista di safari a preda per i predatori.
Scoprì che il Commenda parlava un perfetto cinese, fu formale nelle presentazioni, mi chiese senza
preamboli, quanto tempo avevo impiegato per progettare e per allestire tutto quello che lo
circondava in quel momento, facendo un gesto teatrale con il dito che disegnava nell’aria un
cerchio. Gli risposi che io e la mia collega avevamo impiegato tre settimane di progettazione, due
settimane per la traslazione di tutti gli oggetti e circa un giorno e mezzo per l’allestimento finale.
Lui alzò il sopracciglio, come per dirmi “davvero?” e prima che continuassi a parlare, mi chiese se
avevo altri tipi di conoscenze, ad esempio se avevo esperienza nel campo alimentare, non capii
all’inizio a cosa si riferisse, ma il suo viso ammiccò sul cibo davanti a lui. Gli dissi che su quel
tavolo c’era tutta l’eccellenza italiana e internazionale, tutta roba freschissima e di prima scelta, così
anche gli oggetti, posate in ceramica smaltata, forchette e coltelli in argento con incisioni finissime,
e un centro tavola che sembrava di stare in un giardino botanico. Non mi scorderò mai le sue parole
dette in quel momento, con il suo linguaggio siculo/americano.
Commenda: < Bravu stu picciotto…ti sai vinniri troppu bonu, tu mi poi servere, chiù avanti ti fazzu
chiamare, OK?!>
Io non avevo capito quasi niente di quelle parole, mi limitai ad un doveroso “OK”
Dopo di chè Yuki mi fece capire che la conversazione era finita e mi potevo allontanare. Salutai
tutti con sorrisi e genuflessioni accennate, dopodiché andammo dietro, nel privè con Yuki, e gli
chiesi: <ma che voleva?>
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Yuki: <Hai fatto buona impressione al Commenda bravo!!! Continua così e farai strada.>
Ryo: <Ma perché ha parlato solo con me e non ha chiamato anche Selene? Io sono solo un
collaboratore e anche parecchio improvvisato!!!>
Yuki: < Il Platania è un maschilista convinto, per lui le donne devono stare dietro i fornelli a
cucinare e sfornare figli, sono gli uomini che comandano e prendono decisioni>
Ryo: < beh ma non è giusto, neanche in Cina vi è una mentalità così arretrata!!!>
Yuki: < Non ci pensare, ha 80 anni, lo vorresti cambiare tu adesso, dopo una vita che si comporta
sempre allo stesso modo? Comunque ti devo dire due cose: cerca d’imparare bene almeno l’inglese
e poi vai a dare una mano a Selene che poco fa ti cercava dappertutto>
Ryo: <Ok, Grazie Yuki!!!>
Tornai nel salone principale e diedi subito una mano a Selene che era stata catturata da dei notabili
cinesi, che erano venuti a controllare che tutto il materiale esposto era in perfette condizioni.
Intervenni io dicendo che le teche erano in materiale totalmente isolante e che anche l’aria al loro
interno era sta filtrata, inoltre ogni scultura e quadro avevano dei sensori di movimento attivi e
controllati, da 2 guardie nella cabina computer istallata al primo piano, Niente poteva entrare o
uscire senza una apposita autorizzazione.
I cinesi si rincuorarono e lasciarono in pace Selene, il suo volto si fece meno teso e mi chiese “ma
dove eri finito?”, gli risposi che ero andato nell’altra sala per controllare che anche lì andasse tutto
bene, che avevo incontrato Yuki, che a sua volta mi aveva presentato al Commenda. Lei rimase
sbigottita del fatto, ma c’era troppa gente di cui occuparsi e rimandò a dopo le sue domande.
La mostra rimase aperta ai privati fino alle ore 13:00, che fecero le loro richieste e le loro relazioni.
Ci fu una pausa fino alle ore 15:00, dopo di che venne aperta al pubblico fino alle ore 19:00. C’era
tanta gente, una fila lunghissima che arriva in strada, ma era la novità del momento, e tutti, chi più e
chi meno volevano sapere di cosa si trattasse.
Io e Selene tornammo in albergo solo alle 23:00, dopo un interminabile compilazione di richieste,
dette a voce, che dovevano essere riportare in scrittura. Entrai nella mia stanza, mi spogliai, feci
una lunga doccia e mi buttai a letto con la televisione accesa che si guardava da sola.
CAPITOLO 10
Uffizi
Giorno 11 Aprile, non riuscì proprio ad alzarmi ero tutto indolenzito dal giorno prima, si sentiva il
rumore crescente provenire dal finestrone che dava sulla strada principale, segno che il giorno stava
avanzando mentre io stavo fermo a poltrire. Il mio udito spostò la sua attenzione dal finestrone alla
porta d’ingresso della stanza, che si apriva lentamente, misi a fuoco gl’occhi stropicciandomeli, e
vidi Selene entrare.
Selene: < ciao dormiglione!!! Sicuro che ieri hai solo parlato con il Commenda? Gente al mio
servizio mi ha informato che ti sei appartato nel privè con Yuki, devo sapere altro che non mi hai
detto ieri?>
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Ryo: <sono stanco perché ieri ho fatto una maratona e ho fatto cose che esulano dalla mia
normalità, e con questo voglio dire che non ho fatto niente con Yuki, si, ci siamo andati nel privè,
ma per pochi secondi, per farmi la traduzione di quello che non avevo capito, poi sono andato
subito nel salone grande per darti manforte con quei burocrati assetati di dare fastidio.>
Selene: < Sarà, ma non me la conti giusta, stamattina già mi sono arrivate due chiamate dall’alto,
per alto non intendo dal terzo piano, ma da chi comanda. Mi hanno informato che tra un quarto
d’ora passerà una macchina per andare a trovare una persona agli Uffizi, la famosissima galleria
delle Statue e delle Pitture, che fa parte del complesso museale fiorentino, che comprende il
Corridoio Vasariano, le collezioni di Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli. Insomma tanta roba,
sbrigati a vestirti!!!>
Mi cambiai velocemente, mi diedi una lavata alla meno peggio e scesi all’ingresso, dove una Rolls
Royce grigio scuro metallizzato mi attendeva, salì dietro dove già era seduta Selene, e partimmo.
Quella macchina valeva centinaia di migliaia di euro, quindi chi dovevamo vedere era sicuramente
un pezzo da novanta, e non continuavo a capire io che ci facessi lì, elemento estraneo a tutto ciò che
mi circondava. L’unico mio appiglio era Selene e cercai spiegazioni da lei.>
Ryo: < Stamattina hai detto che hai ricevuto due chiamate, una per questo viaggio turistico, la
seconda di che trattava?>
Selene: < Ieri devi aver fatto proprio una buona impressione al Commenda, mi ha chiamato il suo
vice Steve Young con chiamata da Londra, per informarsi quanto tempo Tu ti trattenevi in Italia e
che impegni avevi successivamente, in pratica mi hanno scambiata per la tua segretaria e cercavano
di combinare un appuntamento formale. Ho dovuto spiegare che tu eri un mio collaboratore e che
stavi a Firenze in totale solo una settimana e che poi saresti tornato in Cina, ho dovuto dargli il tuo
numero di cellulare per mettervi d’accordo, ma non ho capito per mettervi d’accordo per che cosa?>
Ryo: < non ho idea di chi sia questo Young e perché mi cerca, io ho solo parlato due minuti ieri con
il suo boss, e abbiamo parlato solo di cibo e del locale, niente di più. Comunque gli hai dato il mio
numero, quindi prima o poi si farà sentire lui e spero di capire cosa vuole.>
Nel frattempo eravamo arrivati a destinazione, l’autista ci fece scendere davanti ad un ingresso
secondario. Appena scesi una donna sulla sessantina si presentò davanti a noi, si chiamava
Francesca Petrazzoli, era la nostra guida e ci introdusse all’interno di quel posto apparentemente
infinito. All’inizio era solo un semplice corridoio con il tetto a cupola e varie porte ai lati, poi
arrivammo a un ascensore e salimmo di due piani, arrivati al piano, già la situazione era cambiata,
dove ti giravi trovavi pezzi d’arte e capolavori, già solo la struttura del palazzo era un opera d’arte
in se stessa. Facemmo ancora un po’ di strada e mi bloccai di schianto, eravamo sopra il Ponte
Vecchio e sotto scorreva il fiume Arno, una meraviglia nella meraviglia. Di lì erano passati i
personaggi più famosi di un epoca lontana, ma che qui in qualche modo vivevano ancora. Qui la
famiglia dei Medici erano di casa, o quanto meno molte delle opere esposte erano state
commissionate da loro, per uso personale, per regalo ad amici, o semplicemente perché erano
talmente ricchi e potenti da fare quello che volevano.
Riprendemmo la nostra marcia, e ci dirigemmo in un luogo oltre l’Arno, ma sempre collegato
internamente, senza mai uscire all’aria aperta. Prendemmo un altro ascensore, ma questa volta
scendemmo al piano -3. Qui la Petrazzoli si accomiatò e ci indicò la stanza dove dovevamo entrare,
lei riprese l’ascensore e sparì dalla nostra vista. Entrammo dalla porta indicata, dentro c’era una
gran luce, prodotta da candelabri monumentali con lampadine ad incandescenza, che rendevano la
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stanza calda e confortevole. In fondo allo stanzone pieno di cornici e statue impolverate, c’era una
scrivania ricolma di oggetti e carte ingiallite, dietro tutto questo, c’era un ometto pelato e con grossi
occhiali con montatura di color oro, anzi mi sa che era proprio fatta d’oro.
Giovanni: < Piacere della vostra visita, io sono Giovanni Battista Gastone dè Medici, ultimo erede
della famiglia, pro pro nipote del mio omonimo Battista, prego accomodatevi>
Selene: < Buongiorno, lieti di fare la sua conoscenza, il mio collega non parla italiano>
Giovanni: <Non è un problema, parlo fluentemente 8 lingue, e il cinese è tra queste. Vi ho fatti
venire in questo posto, che di fatto è la mia tana nonché rifugio dal mondo, per mostrarvi un quadro
e un documento, per autentificazione e relativa certificazione, non tutto quello che arriva qui è
lecito e autentico. Voglio che le opere quando salgono in “superficie” siano a tutti gli effetti
autentiche e legali, perché per un nobile non c’è niente di più importante del suo nome, e se
s’infanga bisogna porvi repentinamente rimedio.>
Il nobile uscì dalla sua tana e ci accompagnò in una stanza attigua, completamente vuota, c’era solo
un tavolo, due sedie, un quadro appeso alla parete, e un foglio di carta dentro una busta sigillata.
Giovanni: <Signori io mi congedo, vi lascio al vostro lavoro, lì nell’angolo ci sono guanti e
attrezzature per la verifica, il documento finale lo farete in un secondo tempo, arrivederci.>
Così di punto e bianco, ci trovammo in un sotterraneo a trafficare con roba che poteva essere rubata
o falsa, e noi dovevamo capirlo e certificarlo in pochissimo tempo. Io mi misi i guanti e anche
Selene, io controllavo il quadro e lei il foglio sigillato.
Ryo: < il quadro risale al 1450 circa, è un vaso di frutta, lo sfondo è un grigio cupo che tende al
nero, la frutta è compatibile con la data che ho detto, il quadro è olio su tela, dimensioni 90 cm di
altezza e 58cm di larghezza, non vi sono presenti firme, i colori sono compatibili a quelli
dell’epoca, le screpolature sono coerenti e continue, la cornice è successiva di almeno due secoli, il
retro e di colore bianco sporco, in basso a destra c’è una scritta sbiadita fatta credo con un
carboncino o con una matita poco appuntita, c’è scritto 12/52 che potrebbe indicare il dodicesimo
pezzo di una serie di 52 quadri. Secondo me è autentico, come va con il foglio?>
Selene: < Ho tolto il sigillo, ho aperto la busta, l’ho adagiato su un foglio bianco standard neutro, ho
verificato la dimensione 22cm x 10.5cm, stretto e lungo, la carta è vecchia può avere anche oltre i
300 anni, per quanto riguarda la scrittura è stata fatta con piuma d’oca, l’inchiostro è di un nero
degradato in marrone scuro, il testo è fiorentino e tratta di una collezione di quadri che doveva
andare a Ferrara per delle nozze, che dovevano adornare la chiesa tutt’attorno le navate. Secondo
me il quadro alla parete era uno di quelli, ma il foglio non è originale, o meglio la carta ci può stare,
l’inchiostro pure, ma il modo di scrivere e l’inclinazione delle lettere è sbagliato, probabilmente
fatto artificialmente con qualche tipo di macchinario, non ci sono sbavature o macchie, per me è un
falso.>
Fatte le nostre considerazioni, riposammo tutto come l’avevamo trovato, uscimmo da quel bunker,
prendemmo l’ascensore, e all’uscita dell’ascensore trovammo la guida ad attenderci, probabilmente
c’erano telecamere e sensori ovunque anche se occultati. Ripassammo di nuovo dal ponte,
ritornammo al primo ascensore, arrivammo al primo corridoio, e all’ingresso ritrovammo la Rolls
Royce già con il motore acceso e sportello passeggeri aperto. Nel ritorno all’Hotel non aprimmo
bocca, solo quando ritornammo nella mia stanza si aprì la conversazione fiume.
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Selene: < questo pomeriggio andrò alla sede della Printer per allestire il documento, per certificare
quello che abbiamo visto e percepito, così ci togliamo il pensiero>
Ryo: < Ok, per le scartoffie ci pensi tu e poi sono in attesa di quella chiamata importante. Senti
secondo me c’è dell’altro, secondo me è un test, ci hanno messo alla prova. Sicuramente in un posto
come quello ci saranno almeno 100 relatori più qualificati di noi che si ammazzerebbero per essere
dove noi siamo stati stamattina, non può essere una casualità, non ci hanno fatto entrare
dall’ingresso principale, non ci hanno dato dei pass, ma abbiamo fatto un giro diciamo
“panoramico” ma per un pubblico selezionato. Il buon Giovanni, sta lì perché lì sta il suo tesoro,
non avrebbe mai permesso a due estranei di maneggiare e circolare fra le “sue” opere>
Selene: < in effetti quel che dici ha senso, e il fatto che la Petrazzoli non sia entrata nelle ultime due
stanze, dopo tutto quel girovagare, rafforza la tua tesi. Allora che dobbiamo fare?>
Ryo: < tu compila quello che devi compilare, ormai avranno sentito e risentito quello che ci siamo
detti in quella stanza e lo dobbiamo confermare, penso sia quello che vogliono. Dopo che invierai la
mail con posta certificata, sicuramente mi arriverà quella telefonata e vedremo chi è che ci spia.>
CAPITOLO 11
Mister Young
Erano le ore 16:00 di un pomeriggio pieno di aspettative, Selene era andata alla sede di Firenze
della Printer, per la ratifica dell’ispezione dei due manufatti visionati agl’Uffizi, con conseguente
PEC ufficiale. Mi mandò un messaggio per darmi l’avviso che tutto era stato fatto secondo i piani.
Un quarto d’ora dopo, come mi aspettavo e prevedevo, arrivò la chiamata di Mister Young.
Steve: < Goodevening mister Ungeziefer. My name is Steve Young.>
Ryo: < Goodevening mister Young. My name is Ryo. Do you speak Chinese?>
Steve: < Yes I can speak very well.>
Così si passò dal mio stentato inglese ad un fluente cinese, che aiutò a velocizzare la conversazione
e a capirci meglio.
Steve: < Allora Ungeziefer, dobbiamo discutere di molti argomenti e abbiamo pochissimo tempo a
nostra disposizione. Partiamo dal passato e ci proiettiamo nel futuro. La prima cosa è il suo
compenso, per le due settimane di lavoro a Wuhan e questa settimana a Firenze, sarà pagato con
10000 Sterline nette più eventuali spese in fatturazione, le sta bene?>
Ryo: < Guardi è più di quello che mi aspettavo di prendere, quindi mi va più che bene>
Steve: < Ok. Seconda questione è quella presente, cioè della galleria in via Maggio, ottimo lavoro
da parte sua e da parte della signorina Miyazaki, il suo contratto finisce giorno 15, noi vogliamo
prorogarlo di altre 3 settimane, lei che ne pensa?>
Ryo: < Signor Young, io ho un lavoro che mi aspetta in Cina, non credo che i miei datori di lavoro,
mi lascino libero per tutto questo tempo>
Steve: <Non si preoccupi, già abbiamo parlato con i suoi superiori e ci hanno concesso la sua
professionalità in cambio di una generosa donazione all’ospedale di Wuhan.>
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Ryo: < Ah bene, quando tornerò sarò indicato come salvatore della patria. Mi dica, il mio lavoro
sarà sempre in via Maggio?>
Steve: < Per la galleria di via Maggio se ne occuperà la signorina Miyazaki come era stato previsto
nel progetto iniziale. Abbiamo prenotazioni per almeno quattro mesi, è il nostro Fort Knox. Mentre
per lei abbiamo previsto un’altra occupazione>
Ryo: < Prima di parlare di questo, volevo farle alcune domande se mi era concesso. Il lavoro svolto
agli Uffizi come si colloca con il mio impegno con la Printer e perché è stato concesso questo
onore?>
Steve: < Signor Ungeziefer, lei è molto sveglio, ha capito che quello era un nostro test per provare
le vostre abilità tecniche e deduttive, superato a pieni voti. Avrà anche capito che la
documentazione prodotta per questa cosa sarà totalmente sottotraccia, non ci sarà documento
pubblico, ma un affare interno complesso, risolto brillantemente.>
Ryo: < Bene, era quello che immaginavo, mi saluti il dè Medici, che è un gran bravo attore, ma che
si è dimenticato che il confine tra Patrizi e Plebei alle volte è più grande di quello che si voglia fare
apparire. Ora mi parli del futuro.>
Steve: <All right, abbiamo previsto che per i prossimi 3 giorni studierà inglese con la dottoressa
Amato, perché il suo è profondamente scarso, mi scusi se glielo dico ma io sono un madrelingua.
Dopo di che, il 15 sera prenderà il volo per New York City negli U.S.A. dove vi è la nostra sede
principale, lì starà come detto 3 settimane, per un lavoro che si svolgerà al MoMA, dovrà essere il
nostro riferimento per allestimento di una mostra, ma di proporzioni molto più grandi rispetto a
quelle di Via Maggio. Alla fine delle 3 settimane, le faremo un bonifico 36000 pounds sul suo conto
e lei potrà ritornare in Cina, più ricco sia economicamente e sia culturalmente. Che ne pensa?>
Ryo: < Penso che solo un pazzo rifiuterebbe un viaggio tutto spesato nella grande mela, io
sicuramente accetto di slancio, ma sono convinto che non è tutto, sono quasi certo che mi nasconde
qualcosa che ancora non so definire.>
Steve: < Ok affare fatto. Per i suoi dubbi per ora non posso dirle altro, sarà il tempo e la sua
perspicacia a fare luce sul suo futuro. Le auguro una buona serata e mi auguro di risentirla.
Arrivederci.>
Ryo: < Arrivederci Mister Young>
La conversazione non era durata più di 20 minuti, ma avevo capito molte cose, che prima ignoravo
totalmente. Quando tornò in Hotel Selene, gli riferì tutto il contenuto della conversazione. La cosa
strana e che non si stupì più di tanto per l’affare degli Uffizi segretato, non si stupì per il mio futuro
incarico in America, ma si incazzò come una iena quando seppe che Yuki nei prossimi giorni mi
doveva fare da tutor per migliorare il mio inglese.>
Selene: < Ho capito, quindi io ti ho portato qui per darmi una mano con la galleria d’arte e tu cosa
fai? Vai a fare lo scolaretto sotto la gonnella di quella vecchia smorfiosa?! No non è giusto!!!
Potevo insegnartelo io l’inglese tranquillamente, così passavamo tutto il tempo assieme e
invece…vaffanculo!!!> Uscì dalla mia stanza sbattendo la porta come un tuono squarcia l’aria. Era
arrabbiata e aveva le sue buone ragioni. Io invece già stavo pensando a come conciliare lo studio e
il lavoro in maniera efficiente.
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CAPITOLO 12
Lezioni d’inglese
Giorno 12, la mia voglia di fare, era diminuita considerevolmente, la mia spinta era Selene e non
esisteva che stessi senza di lei tutto il giorno. Chiamai Yuki al cellulare di prima mattina per
metterci d’accordo sulle lezioni d’inglese, lei era propensa per le ore 17:00, ma io gli dissi che
rendevo meglio la mattina presto, potevamo fare dalle 09:00 alle 11:00 nell’ufficio delle Printer,
c’era una seconda scrivania che poteva fungere da studiolo e cosa da non trascurare non la
distoglievo troppo dal suo lavoro quotidiano, lei accettò di buon grado. Chiusi la chiamata per farne
subito dopo un’altra, prenotai un taxi alle ore 08:30 davanti l’hotel, così avevo il tempo di una
doccia, fare la barba e scendere al piano terra per fare colazione.
Facemmo colazione insieme io e Selene, nel mentre gli spiegai il mio piano per la giornata e per i
giorni a seguire. La prima mattinata sarei stato alla Printer con Yuki per studiare l’inglese, poi nella
tarda mattinata andavo in Galleria in via Maggio per aiutare Selene nel lavoro di controllore mentre
lei si dedicava alle pubbliche relazioni. All’inizio storse un po’ il naso, ma poi capì che in questo
modo ci potevamo vedere quasi tutto il giorno, e fece una smorfia a mò di arresa.
Arrivai alla Printer alle 08:55, mi identificai alla reception e poi salì al piano, fino alla stanza di
Yuki, che era alla scrivania a pestare i tasti del PC, mi fece un cenno ad entrare e di accomodarmi,
nel frattempo lei completava una relazione su una fornitura d’imballaggio della Vogan che non era
stata consegnata nei tempi previsti.
Iniziammo alle 09:15, prima con la grammatica, verbo avere ed essere, formare frasi affermative o
negative o in forma di domanda, poi passammo ai numeri e ai conteggi, alle unità di misura, e tutto
quel repertorio di cose che mi potevano essere utili. Yuki non si limitò solo all’inglese, ma mi diede
tutte le dritte che a New York mi sarebbero servite sicuramente, dall’hotel dove avrei alloggiato, al
portiere che sapeva tutto di tutti, ai bar e ristoranti migliori della zona. Mi parlò anche delle persone
di cui mi potevo fidare e di chi dovevo stare alla larga, parlò ovviamente delle opere che avrei
trovato in esposizione, perché questa volta non sceglievo io, ma sceglievano altri, altri che non
avevano alcun piacere che fossi lì, ma ero raccomandato dal Commenda e quindi dovevano
sottostare alle sue scelte. Tutto questo venne discusso in inglese, domande e risposte, osservazioni e
dubbi, che piano piano si andavano diradando e la fiducia crebbe in maniera più che proporzionale.
Alle 11:15 mi alzai dalla mia scrivania e mi accinsi ad uscire, ma Yuki mi fermò e mi disse che
dopo la teoria ci voleva la pratica, quindi scendemmo al piano 3, la sala grande dove c’erano una
trentina di persone disposte in un quattro file, e un uomo su un palchetto che descriveva un grafico
sul maxischermo, ovviamente parlava in inglese.
Yuki: < Questo è il tuo compito per casa, ascoltare la conferenza in inglese, cercare di capire il più
possibile, e domani mi fai un riassunto esplicativo sempre in inglese, così vedrò anche la tua
scrittura.>
Ryo: < Ok, ma quanto dura questa conferenza?>
Yuki: <è iniziata da poco, finirà alle ore 13:00.>
Ryo: <Capito.>
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Nel frattempo il mio cervello iniziava a “smadonnare”, due pensieri fissi nella testa. Uno era capire
cosa diceva quel damerino in giacca e cravatta sul palchetto, trovare il tempo di scrivere un rapporto
in inglese di quello che mi sembrava un bilancio semestrale basato su calcoli statistici, che si
traducevano in istogrammi e aerogrammi profusi nel maxischermo. Due, cosa potevo inventarmi
per non farmi uccidere da Selene visto che la stavo lasciando da sola, nonostante il mio piano
perfetto che gli avevo proposto quella mattina?
Finimmo alle 13:00 spaccate, nessuno aveva minimamente voglia di fare domande, le persone
sedute si alzarono e uscirono dalla sala, mentre il damerino ancora stava sistemando la sua
attrezzatura tecnica. Yuki volle presentarmi quel signore e ci avvicinammo a lui.
Yuki: < Ciao Carl, ti volevo presentare il signor Ungeziefer, sarà il nostro nuovo Admin a New
York.>
Carl: < Buongiorno Myster Ungeziefer, io sono l’ingegner Carl Shevcenko, benvenuto alla Printer e
spero di non averla annoiata troppo con i miei bilanci aziendali.>
Ryo: < Salve Ingegnere, mi chiami semplicemente Ryo, no non mi ha annoiato per niente, si figuri
che farò una relazione su quel che ha detto in questa sala.>
Carl: <Ho capito, la dottoressa Amato ti sta mettendo alla prova, fa bene, qui siamo tutti predatori,
solo i più forti vanno avanti, questo è un mestiere supercompetitivo, un giorno sei nessuno e il
giorno dopo sei Dio, e il giorno ancora dopo si sono scordati di te. Ora vi saluto, vado a riprendere i
miei figli da scuola. È stato un piacere, arrivederci>
Carl uscì dalla sala e facemmo noi lo stesso poco dopo, andammo agli ascensori, risalimmo allo
studio per prendere le cose e poi scendemmo nel garage per prendere l’auto.
Ryo: < Senti mio puoi dare un passaggio? Ho scordato a chiamare il taxi e vorrei evitare di stare qui
mezzora ad aspettare>
Yuki: < Guarda, io sto tornando a casa, possiamo fare come l’altro giorno, mangi da me e poi ti
accompagno in centro, anche perché ci devo passare per altri motivi, ti sta bene?>
Ryo: < Ok, credo sia la migliore opzione, ma non vorrei approfittare della tua gentilezza…>
Yuki: <Tranquillo, mi fa piacere avere compagnia, inoltre visto che abbiamo solo due giorni e
mezzo prima della tua partenza, possiamo approfittarne per continuare con lo studio dell’inglese>
Arrivammo a Casa Amato alle 13:30. Posteggiammo sempre davanti l’ingresso principale e ci
facemmo strada dentro il villone. Dall’altra parte si sentiva musica a tutto volume di un gruppo
musicale che non conoscevo, c’era Beatrice che ballava con una sua amica coetanea, si facevano i
selfie incuranti del resto del mondo. Yuki questa volta non provò neanche a fargli una ramanzina,
mi fece cenno di seguirla in cucina, ci riscaldammo due pizze al microonde e bevemmo un paio di
birre a testa, nel frattempo conversavamo in inglese per migliorare la dizione. Poi mi disse che si
doveva cambiare per l’appuntamento delle 16:45, e salimmo al primo piano dalle scale, c’era un
salottino con la tv in cima, ma camminammo ancora lungo il corridoio, fino l’ultima porta, era la
sua stanza da letto.
Lei non provò neanche a fingere, chiuse la porta dietro di se, mi guardo, mi baciò, si aggrappò a me.
Successe tutto in un momento, non me lo sarei aspettato, e ora avevo le sue labbra morbide
spalmate sulle mie, e la sua lingua che cercava di entrare dentro la mia bocca, non riuscì ad
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allontanarla, potei solo assecondarla. Rallentò un po’, ma solo per tirarmi ancora più vicino a lei e al
letto gigante, che ora si trovava alle sue spalle, iniziò a spogliarsi, e io feci lo stesso, con una
frenesia mai capitata prima. Ci schiantammo nel letto con una ferocia incredibile, come leone e
leonessa, nel periodo dell’accoppiamento, in quel momento era la biologia dell’istinto che
dominava la chimica del cuore.
Alle 16:15 eravamo ancora a letto, completamente stravolti, ma nessuno voleva interrompere quel
momento, allora pensai che così non potevo uscire dalla stanza, proposi una doccia nel bagno
padronale, lei mi guardò languida e si preparò per un secondo round.
Morale, arrivai in via maggio alle ore 16:50, Yuki schizzo via con la macchina perché era in ritardo,
e non voleva incrociare lo sguardo con quello di Selene. Sguardo che colpì me, appena entrato, che
era un misto tra un muro di cemento armato e Mike Tyson da giovane, una delizia.
Ryo: < Scusa.>
Selene: < Stronzo!!! Bel piano,Grandioso!!!>
Non mi parlò per tutto il pomeriggio, e lo stretto necessario i successivi due giorni. Io non facevo
niente per riavvicinarla a me, ma mi sentivo oltre ogni modo possibile colpevole, anche perché con
Yuki la cosa proseguiva, in maniera molto appagante, e fra qualche ora avrei salutato entrambe.
Giorno 15 ero libero, non dovevo lavorare, non dovevo studiare, preparavo le valigie per la sera, ma
ancora era pieno giorno. Con Yuki già c’eravamo salutati, oggi lei era fuori Firenze, e non sarebbe
ritornata in tempo per la mia partenza. Allora pensai di cercare di chiarirmi con Selene, anche
questa volta eravamo rimasti appesi, come dei panni stesi al sole, aspettando che qualcuno li venisse
a ritirare, ma questa volta la macchia era troppo grossa, da ignorarla, andai in Via Maggio, a piedi,
non era vicino per niente, avevo bisogno di buttare fuori tutta l’energia negativa e pensare cosa dire.
Arrivato in galleria, vidi Selene e gli feci segno che gli dovevo parlare. Lei disse ad un
collaboratore che si assentava per mezzora, e insieme ci allontanammo per i vicoli stretti di Firenze,
perdendoci, ma in quel momento poco ci interessava.
Ryo: < Ti vorrei chiedere sc…>
Selene: < Sta zitto, non voglio sapere niente, voglio solo che tu mi faccia una promessa, quando
finirà tutto questo, ci rivedremo e non ci lasceremo mai più, Prometti!!!>
Ryo: < Prometto>
Lei mi baciò teneramente, ma quelle labbra bruciavano e facevano male, lei piangeva e si stringeva
a me, non voleva lasciarmi, ma si fece forza, si staccò da me e se ne andò senza guardarsi indietro,
senza sapere dove stava andando. Io morto nel cuore restai fermo immobile in quel vicolo
sconosciuto, in una città che non era mia, ma che incominciavo a sentire mia, e che a breve avrei
abbandonato al suo destino, come ogni altra cosa della mia vita.
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PARTE III
New York City
CAPITOLO 13
Primo allenamento
Quando arrivai al JFK di New York era ancora giorno 15 Aprile, ma questo poco m’importava,
cercai il mio unico bagaglio nel nastro trasportatore. All’uscita c’era una persona ad aspettarmi, con
in mano un cartello con scritto il mio cognome a grandi lettere in grassetto, io gli feci cenno con una
mano, si avvicinò, prese il bagaglio e mi fece segno di seguirlo nella zona di parcheggio a sosta
rapida. L’autista era alto quasi due metri, nero, massiccio, penso che pesasse oltre i 120 kg, e la
maggior parte di quel peso dovevano essere muscoli a giudicare di come quel vestito gli stesse
attillato, quasi sull’orlo di esplodere. Il viaggio durò circa 20 minuti su una vecchia Cadilac anni 80
perfettamente messa a nuovo, meglio di quando era uscita dalla fabbrica, l’hotel si chiamava SoHo
a Midtown, vicino Central Park, zona di lusso.
All’ingresso incrociai il portiere Giuseppe, quello che mi aveva descritto Yuki per filo e per segno
era inconfondibile, ma non ci parlai, perché la stanza era già pronta e l’autista mi accompagnò
direttamente all’ascensore, salimmo al sessantaquattresimo piano, c’erano solo 3 appartamenti, il
mio era quello a sinistra in fondo al corridoio, l’autista aprì con una tessera magnetica e mi fece
segno di entrare, poi posò la borsa in un apposito sgabello, poggiò la tessera sopra un tavolo. Mi
disse: < Domani ore 08:00 A.M. passo a prenderla, arrivederci a domani.> e se ne andò.
Mi guardai attorno, la stanza era più grande di un terzo rispetto a quella di Firenze, aveva tutti i
confort possibili, ma mancava di personalità, era un corpo senza vita, guardai dall’enorme parete a
vetri che dava sul vuoto, non ero in cima ad un grattacielo, ma lo spettacolo meritava di essere
ammirato allungo. New York si trova alla foce del fiume Hudson, sull’oceano Atlantico, e
comprende 5 distretti. Manhattan, il suo cuore pulsante, è considerato uno dei poli commerciali,
finanziari e culturali più importanti al mondo. I luoghi più caratteristici della metropoli sono i
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grattacieli come l’Empire State Building e l’estesa zona di Central Park. I distretti erano divisi in
contee: Manhattan, Bronx, Kings, Queens e Richmond. Io ero deciso a vederli tutti, non credo mi
sarebbe capitata un’altra opportunità del genere per il resto della vita.
Dopo un quarto d’ora canonico che ero in stanza arrivò una chiamata sul mio cellulare, il numero
era sconosciuto, ma decisi di rispondere lo stesso.
Ryo: <Salve, con chi parlo?>
Kaled: < Buonasera, sono Kaled Irragi, parlo con il signor Ungeziefer?>
Ryo: < Si, sono io, che desidera?>
Kaled: < Sono il suo Tutor Coach Motivatore, l’avvertivo che la prima lezione sarà pratica, ci
vediamo domani alle ore 08:30 a Central Park, Mike il suo autista le indicherà il punto esatto
dell’incontro, si vesta sportivo, tutto chiaro?>
Ryo: < Si tutto chiarissimo, ci vediamo domani mattina, arrivederci>
Chiusi la telefonata senza aspettare la risposta, ero furibondo, ero lì da pochi minuti, ma già avevo
capito che le mie prossime 3 settimane sarebbero state molto poco artistiche, e molto accentrate
sulla mia persona. Tutorcoachmavacagare!!!!
L’indomani mattina mi svegliai alle 07:00 come da sveglia impostata, doccia e barba, avevo fame e
svaligiai il frigobar pieno di schifezze americane, mi lavai i denti, mi vestii con una tuta e una
maglietta a maniche corte di sotto. Misi in un piccolo marsupio, portafoglio cellulare, chiave
magnetica della porta, e scesi al piano terra, dove c’era Mike pronto per salirmi a chiamare, ma ero
già lì, quindi andammo direttamente alla macchina, che questa volta era un SUV nero di grossa
cilindrata, nuovissimo. Ci vollero solo 5 minuti di strada e ci fermammo ad un ingresso centrale di
Central Park, mi indicò un gigante superpalestrato dalla pelle olivastra in tenuta da corsa, scesi dalla
macchina e mi avviai verso quello persona.
Kaled: < Buongiorno signor Ungeziefer, pronto per correre?>
Ryo: < Pronto.>
Furono due ore in modalità massacro, non mi allenavo da mesi, e di certo mai a quel livello. Corsa
per tutto il parco, flessioni, addominali, stretching e per sino qualche posizione Yoga, come se
dovevo allenarmi per andare a fare la guerra, ma io ero un novizio relatore di opere d’arte. Alla fine
ero completamente sudato e mi mancava il respiro, ritornammo al punto di partenza, dove c’era
Mike in attesa, feci per andare, ma Kaled mi disse qualcosa.
Kaled: < Per oggi va bene così, domani ci vediamo stessa ora ma in palestra, non si dimentichi
l’appuntamento di questo pomeriggio con l’Architetto Rogi alle 18:00>
Ryo: < Non si preoccupi non mancherò domani e neanche questo pomeriggio>
Gli eventi andavano avanti senza che io ne avessi nozione, si succedevano ad oltranza, senza un mio
controllo diretto, ma restavo passivo, e questo doveva cambiare rapidamente. Salii in auto e tornai
in Hotel.
Il MoMa è l’acronimo di Museum of Modern Art, si trova a Manhattan al 11 West 53rd Street, cioè
si trova a Midtown vicino al mio hotel. Inaugurato nel 1930 il museo di arte contemporanea, ha
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avuto una straordinaria importanza per lo sviluppo dell’arte moderna ed è stato spesso considerato il
principale museo moderno del mondo. La collezione del museo propone un’incomparabile visione
d’insieme dell’arte moderna e contemporanea mondiale, poiché ospita progetti d’architettura e
oggetti di design, disegni, dipinti, sculture, fotografie, serigrafie, illustrazioni, film e opere
multimediali.
Mi trovavo ora con l’architetto Rogi, parlavamo in inglese e ogni tanto scappava qualche parola in
italiano, comunque ci capivamo. Yuki lo conosceva di persona, mi disse che era un genio, che
conosceva tutto su l’arte e se avevo qualche lacuna, lui l’avrebbe dissolta come nuvole al vento,
quindi lo feci parlare il più possibile, su ogni argomento, e lui era felicissimo di elargire chicche su
ogni cosa era presente in quel museo. Era un uomo sui 65 anni, media altezza e corporatura, capelli
bianchi, portava gli occhiali e aveva delle profonde rughe sulla fronte che lo facevano sembrare
ancora di più ad un maestro alchimista del medioevo, o almeno io così me l’immaginavo.
Stabilimmo le date per la nuova schedatura delle opere, giorni e orari. Fissammo la data per la
nuova mostra di arte contemporanea. Ci scambiammo i numeri di cellulare, e ci promettemmo di
vederci per prendere un caffè all’italiana degno di questo nome. Dopo 3 lunghe ore ci salutammo,
ma con la speranza di rivederci presto, cosa che non era uguale riguardo al mio autista simpatico
come un pitbull pronto a mordere, mi aspettava innervosito con lo sportello aperto e motore acceso.
Ritornato in Hotel ordinai la cena in camera, perché l’architetto mi aveva dato dei documenti da
controllare, e poi avevo l’acido lattico in tutto il corpo dovuto all’allenamento della mattina che si
faceva sentire e non poco. Il mangiare faceva letteralmente schifo, soprattutto rispetto al cibo
italiano, in una settimana non c’era stata pietanza gradevole, anche il panino al bar aveva un sapore
superiore a quello che mi avevano portato in camera. Prenotai per la cena di domani al Jungsik, che
faceva cucina asiatica e in particolare quella coreana, luogo consigliatomi da Yuki, che non era una
gran cuoca, ma sapeva bene muoversi negli ambienti e cercare il meglio a disposizione.
Giorno 17 Aprile, era un venerdì, ogni giorno era una scoperta, sempre cose e persone nuove da
vedere. Non avevo un cambio adeguato sportivo in valigia, abbozzai dei pantaloncini bermuda fuori
moda da un decennio e una canotta giallo fluorescente dozzinale, presi chiave elettronica, cellulare,
portafoglio e uscì dalla stanza. Appena uscito, mi trovai un muro umano davanti, era Mike che
stavolta era stato più puntuale di me; andammo all’ascensore, feci pigiare il tasto a lui, ma invece di
pigiare il tasto del piano terra, premette il numero 75, stavamo salendo. Arrivati al piano lui rimase
in ascensore, mentre io andai avanti da solo, superai una porta a vetri e mi ritrovai nella palestra
dell’Hotel.
Kaled stava facendo riscaldamento appoggiato ad una panca, quando mi vide, mi indicò di fare
come lui ed imitare i suoi movimenti. Dopo circa 10 minuti passammo all’allenamento vero e
proprio, con i pesi e i macchinari, allenai pettorali bicipiti e addominali, con pesi bassi per dare
modo al mio fisico di adattarsi allo sforzo fisico. Kaled, anche se non diceva niente, era
palesemente infastidito dal mio abbigliamento inadeguato, pensai che a breve avrei fatto shopping,
dovevo comprare dell’abbigliamento tecnico sportivo e anche dei vestiti eleganti per le giornate di
gala che ci sarebbero state nelle prossime settimane. Finito l’allenamento, come se avesse letto i
miei pensieri, il mio Motivatore, mi diede una carta di credito argento per fare acquisti, con il mio
nome e cognome inciso sopra, forse avevo sottovalutato Kaled, o per meglio dire, avevo
sottovalutato i padroni del mio personal trainer.
Tornai in stanza alle 11:30, mi feci la doccia e mi vestii comodo. Riuscì dalla stanza, questa volta
l’autista non c’era, presi l’ascensore, ma questa volta con il verso giusto, cioè verso il piano terra.
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Arrivato all’ingresso, andai dritto alla reception dove c’era Giuseppe, gli chiesi nel mio inglese se
conosceva un negozio di valigie in zona, lui mi guardò per qualche secondo e poi mi diede un
biglietto di un negozio di articoli da viaggio, con indirizzo e numero telefonico. Ringraziai il
portiere, così efficiente, uscii dall’hotel, impostai il navigatore sul mio cellulare e andai al negozio,
che distava solo 750 metri ma non in linea retta, dopo qualche zig zag, entrai nel negozio, comprai
un trolley grande che serviva per tutto il mio abbigliamento e un trolley più piccolo, tipo quello
delle hostess che lavorano negli aerei, per portare le cose di lavoro, documenti, Notebook, articoli
di cartoleria e un piccolo beauty case per l’igiene personale.
All’uscita trovai Mike e il SUV ad aspettarmi, gli dissi che non avevo bisogno dell’auto, al
massimo mi poteva fare il favore di portare i trolley in stanza, lui caricò le 2 valigie nel
portabagagli, salì in macchina e se ne andò. Liberatomi di lui almeno per un po’, decisi di andare in
un minimarket e comprare le cose di prima necessità, senza spendere grosse cifre, presi schiuma da
barba, lamette da barba, deodorante, doccia e bagno schiuma, spazzolino per i denti, dentifricio,
forbicina per le unghia, 3 paia di calzini e 3 paia di mutande e 3 magliette bianche a manica corta.
Fatto ciò andai in un negozio di articoli sportivi e comprai 3 tute di tre colori diversi, nero grigio e
bianco, un paio di scarpe da ginnastica di marca molto comode, dei guanti da palestra e una
tovaglietta per il sudore. Fatto anche questo, mi diressi in un negozio di lusso per compare 2 vestiti
eleganti, uno per il giorno di colore grigio e uno nero per la sera, 2 camicie una bianca e una celeste
pallido, infine 2 cravatte una rossa e una blu notte. Uscito da questa ultima commissione, andai in
direzione hotel, mi fermai solo in una camionetta dei panini per assaggiare il classico Hot Dog
all’americana, rimasi profondamente deluso, non era male, ma non era la cosa più buona che avessi
mai assaggiato, un po’ deluso tornai in hotel carico di buste, ma felice di aver avuto un paio di ore
di libertà.
CAPITOLO 14
La cena
Era il Friday night a New York City. Mike mi aveva lasciato, su mia richiesta a Times Square, uno
dei posti più rappresentativi della civiltà moderna, questo incrocio di vie, che avevo visto nei film,
ora era attorno a me, con le sue mille luci e le mille persone che passavano senza guardarti, e mi
feci un selfie con il cellulare in modalità foto ricordo. Ero vestito da sera, con giacca e cravatta
nuove, un po’ le scarpe stonavano, usavo quelle mie vecchie e comode, perché mi ero dimenticato
di comprarne un paio nuove, ma tutto sommato facevo la mia figura.
Arrivai al ristorante asiatico, come sempre un po’ in anticipo, ma tornare a parlare cinese, già mi
faceva stare meglio, dissi il nome della prenotazione e mi fecero accomodare al tavolo, mi
portarono il Menù, e scelsi praticamente tutto, 4 antipasti, 4 primi, 3 secondi, 2 dessert, oltre a tre
tipi di bevande tutte rigorosamente alcoliche.
La cameriera, molto bella e sorridente, divenne rossa per l’imbarazzo e mi chiese, quando sarebbero
arrivate le altre persone per cena, perché aveva la prenotazione per uno. Io gli risposi, che tutte le
persone che dovevano cenare erano già sedute a tavola, e indicai me stesso. La cameriera rise, ma
questa volta in maniera sincera, e se ne andò nella zona cucine per dare la comanda al personale.
Tutti in sala, videro tutta quella roba uscita dalla cucina che finiva al mio tavolo e che piano piano
spariva dentro la mia bocca, restavano i piatti vuoti che la solerte cameriera portava via. Alla fine
del pasto, in maniera un po’ baldanzosa, chiesi alla cameriera: < Come ti chiami?>
Cameriera: < Mi chiamo Kim Chan, desidera altro?>
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Ryo: < Piacere Kim, mi chiamo Ryo, ti volevo chiedere se tu eri della zona?>
Kim: < Si abito qui vicino, sono di Bangkok, ho origini tailandesi, ma vivo qui da oltre 10 anni>
Ryo: < conosci un buon negozio di scarpe eleganti? Queste che ho ai piedi stanno finendo il loro
lavoro, ma non voglio niente di commerciale, qualcosa di particolare insomma.>
Kim: < Mio nonno fa il calzolaio ed è un artigiano molto apprezzato, ma a quest’ora sarà già a letto
coricato>
Ryo: < Capisco, certo non voglio svegliare tuo nonno per un mio capriccio, mi puoi dare il suo
numero di telefono? Così domani, ad un orario più decente gli chiamerò>
Kim: < Mio nonno è all’antica, non usa cellulare, chiama il mio numero domani alle 12:00 e ti
faccio sapere.>
Mi allungò uno straccetto di carta con il suo nome e numero di cellulare e io feci altrettanto. Pagai il
conto, e gli lasciai una mancia di 30$ su una cena di 110$. Salutai la cameriera e il titolare del
ristorante che mi guardarono come se fossi una slot machine che aveva fatto Jackpot. Uscii in
strada, faceva un pò freddo rispetto al tepore del ristorante, era ancora presto e decisi di farmela
tutta a piedi, per smaltire la cena e riscaldarmi. Arrivai all’hotel verso le 23:30, c’era Mike
visibilmente preoccupato quando entrai nella Hall, sicuramente era stato tutto la serata, lì, ad
aspettare la chiamata per farmi riaccompagnare a casa, ma non aveva capito che ero una persona
capace e indipendente. Al solito mi volle accompagnare fino alla mia stanza, nella speranza che non
mi muovessi più. Davanti la porta mi disse: < domani lezione di piscina, ultimo piano, ore
09:00,costume e occhialini, sono già pronti in spogliatoio. Arrivederci, buonanotte>
Io rientrai in camera, c’era un caos, tutti i vestiti erano buttati alla rinfusa sul letto, tutti i documenti
erano sparpagliati sul tavolo, decisi di dare una bella sistemata, in modo tale che domani mattina,
avevo tutto ordinato e pronto a l’uso. Si fece l’una di notte, mi andai a coricare, ero un po’ più
felice, perché lentamente stavo riprendendo il controllo della mia vita, o almeno così pensavo in
quel momento.
Sabato 18 Aprile, mi svegliai mezzo intontito, merito delle due birre cinesi da 66cl che mi ero
scolato il giorno prima. Mi alzai, con una flemma che non era mia abitudine, non avevo neanche
fame, mi vestii velocemente con una delle tute nuove, misi le scarpe da ginnastica e uscii dalla
stanza. Fuori non c’era Mike ad aspettarmi, strano, presi l’ascensore e salii in cima al palazzo.
La piscina era meravigliosa, era stata realizzata in stile romano, con marmi bianchi e colorati, Kaled
mi diede le chiavi dell’armadietto e mi indicò gli spogliatoi. Dopo un quarto d’ora uscii in costume,
con delle ciabatte ai piedi, in mano avevo cuffia e occhialini. Il mio Tutor si stupì, se a terra ero
lento come una lumaca, in acqua ero un pesce, sapevo nuotare in tutti i quattro stili, sapevo fare le
virate con la capriola e sapevo come tuffarmi senza creare schizzi. Il motivo era semplice, da
piccolo nuotavo a livello agonistico, e anche se erano passati molti anni, l’istinto prevalse sulla
ragione, e la sessione di allenamento solitamente dura, diventò un piacevole risveglio mattutino.
Uscii dall’acqua poco prima che mi spuntassero le branchie, pensai che sarei ritornato lì anche in
altri momenti, ma senza il mio mental coach dalle dubbie origini.Alle ore 11:45 ero in stanza, mi
arrivò un messaggio sul mio cellulare, era Kim, mi avvisava che suo nonno era disponibile per
creare le scarpe su misura. Mi scrisse se per me andava bene, di vederci davanti al ristorante alle ore
16:00 oggi stesso. Io risposi sempre tramite messaggio: < Ok, per me va bene, ci vediamo questo
pomeriggio ☺ >
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CAPITOLO 15
Kim e le scarpe del nonno
Alle ore 15:45 ero davanti il ristorante, Kim arrivò qualche minuto dopo, camminando con una
cartella a tracolla e quel sorriso che conquistava l’universo. Iniziammo a camminare e a parlare, gli
chiesi che cosa portava in cartella e lei mi rispose che aveva il suo computer, era studentessa
universitaria in informatica, e quello era il suo strumento di studio. Camminammo per meno di 5
minuti e imboccammo una stradina secondaria, tutti i visi che incrociavo erano asiatici, vuol dire
che esisteva una specie di linea di passaggio, chi entrava lì, era orientale o aveva a che fare con
gente orientale.
La bottega del nonno di Kim, consisteva in una prima stanza dove c’erano i strumenti da lavoro e
una stanza sul retro che fungeva da casa. Mi fece subito accomodare e mi disse qualcosa che non
capii, mi tradusse Kim, voleva che mi togliesi scarpe e calzini, per prendere la misura del piede,
prese un pezzo di pelle conciata, la poggiò sopra e con una matita incominciò a disegnare delle linee
finissime, poi passò all’altro piede. Il nonno disse qualche altra parola, Kim tradusse in “ti puoi
rimettere le scarpe” e così feci. Chiesi quanto tempo ci volesse a Kim che a sua volta chiese al
nonno, rispose 1 settimana di lavoro, io speravo prima, ma se volevo fatta qualcosa a regola d’arte
dovevo aspettare, se no potevo andare in qualunque negozio e prendere le scarpe più anonime che
c’erano.
Usciti dalla bottega, chiesi a Kim se era brava ad archiviare dati, creare schede e tabelle. Lei mi
rispose che quelle cose già li sapeva fare al tempo delle superiori, era la prima della classe e aveva
preso una borsa di studio per l’università.
Kim: < perché mi fai questa domanda? Hai problemi con il tuo computer oltre che con le scarpe?>
Ryo: < Ho una quantità infinita di oggetti da catalogare, devo fare anche delle descrizioni accurate.
Sono discretamente bravo a scrivere, ma sicuramente più lento di te>
Kim: < Cosa mi vuoi chiedere? Non capisco.>
Ryo: < Quanto ti pagano al ristorante a settimana?>
Kim: < 150$ a settimana più le mance normali, non come le tue.>
Ryo: < Ti propongo un lavoro. 250$ a settimana per la completa catalogazione degl’oggetti che ti
dicevo. 9 ore al giorno con un’ora di pausa pranzo. Accetti?>
Kim: < Guarda che io un lavoro già ce l’ho e lo sai, perché dovrei accettare una proposta del
genere?>
Ryo: < Ok capito, facciamo 300$, ma il pranzo e la cena te ne occupi tu, d’accordo?>
Kim: < Beh se la metti così, come faccio a rifiutare? Ok ci sto. Ma mi devi dire un po’ di cose, dove
lavori? Quando iniziamo? Avrò il tempo di avvertire il mio principale? Nei momenti liberi posso
comunque studiare?>
Ryo: < calma calma, ora ti dico tutto. Io lavoro al MoMA, faccio il relatore d’arte, fra circa 2
settimana ci sarà una mostra di livello internazionale, hanno creato dei totem per visionare le opere
d’arte nel museo, e hanno creato anche una applicazione per i cellulari, ma per ora non ci sono dati
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inseriti, c’è solo lo scheletro, mi hanno incaricato di metterci la carne. Io pensavo d’iniziare Lunedì
alle ore 12:00. Ti farò avere un pass come assistente/segretaria. Tutto chiaro?>
Kim: < Si tutto chiaro. Quindi tu saresti una specie di artista/ispettore dell’arte?>
Ryo: < In realtà, sono un operatore sanitario che lavora in Cina, ma una mia amica mi ha spinto a
dedicarmi ad altro, per un tempo limitato, almeno spero.>
Kim: < Questa tua amica deve essere stata molto convincente per farti arrivare fino a qua!!!>
Ryo: < Si è quel tipo di persone a cui non si può dire di no>
Kim: < e ora lei dov’è? Strano che non era con te ieri.>
Ryo: < Lei è rimasta in Europa per un altro lavoro, ne avrà ancora per mesi.>
Nel frattempo eravamo ritornati al ristorante che stava per aprire proprio in quel momento. Lei mi
salutò ed entrò, mentre io mi allontanavo e salivo in macchina, Mike partì per riportarmi all’hotel.
Dopo qualche minuto scesi dal SUV e fui scortato dall’autista al mio 64esimo piano. Arrivato alla
porta chiesi cosa c’era da fare per la domenica, Mike mi rispose: < addestramento tecnico/tattico,
partenza domani alle 08:00 e ritorno previsto alle ore 20:00>. Rimasi un po’ sbalordito, ma cercai di
contenermi, salutai Mike e chiusi la porta.
Non capivo cosa c’entrasse con me un allenamento di questo tipo. D’accordo essere preparati a
tutto, Ok studiare le lingue straniere, Ok fare sport per mantenersi in forma, ma un addestramento
tecnico/tattico a cosa mi poteva servire? Non sapevo darmi risposta. Quindi mi dedicai ad altro,
presi il cellulare e chiamai L’architetto, mi rispose al terzo squillo.
Ryo: < Buon pomeriggio architetto. Sono Ungeziefer, la disturbo?>
Filippo: < Salve, mi chiami Filippo, non mi disturba affatto, stavo guardando uno stupidissimo quiz
televisivo, niente di entusiasmante. A cosa devo l’onore di questa chiamata?>
Ryo: < Niente di onorevole, ma una semplice richiesta di ordine pratico. Per la schedulazione di
tutti i dati di tutti gli oggetti presenti al museo, sono una quantità impressionante e mi occorre un
aiuto. Le volevo chiedere se poteva intercedere con il direttore del museo per avere un pass per il
mio addetto informatico. Lo può fare?>
Filippo: < e lei mi chiama per una tale sciocchezza? Mi dica nome e cognome e domani il suo
addetto informatico avrà il suo pass.>
Ryo: < Si chiama Kim Chan, il documento lo può lasciare a Giuseppe alla reception del hotel
SoHo?>
Filippo: < si certamente, lo farò recapitare al posto desiderato da un mio commesso.>
Ryo: < Perfetto, noi ci vediamo lunedì pomeriggio al museo, grazie ancora e buona serata>
Filippo: < Buona serata.>
Mandai un messaggio a Kim, per dirgli del pass e dove lo doveva prendere. Poi mi misi a guardare
la TV.
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CAPITOLO 16
Rambo
Domenica 19, sveglia alle 07:00, doccia, barba, vestizione e scesa nella Hall. Questa volta c’erano
tutti e due, Mike e Kaled, tutti e due vestiti da militare, facevano davvero paura, stavo quasi
ripensando di risalire in ascensore, ma loro si piazzarono ai lati e mi incitarono a salire sulla Jeep
fuori dall’hotel. Ci vollero ben 2 ore per arrivare, eravamo fuori da Manhattan, penso che eravamo
in qualche angolo remoto del New Jersey, la giornata era pessima con grossi nuvoloni neri e noi ci
stavamo infilando in un sentiero sterrato in mezzo alla boscaglia. Scendemmo dalla Jeep, aprirono il
portabagagli e presero due grossi borsoni color verde mimetico, poi la custodia di qualcosa di molto
grosso, chiusero l’auto e scendemmo da una scarpata verso quello che mi sembrava un torrente.
Finita la discesa, c’era una piccola radura tutta in piano, su due lati c’erano delle falesie verticali e
davanti il fiumiciattolo che faceva da quarto lato al sentiero da dove eravamo scesi.
Mike si occupò dei borsoni verdi, in un borsone c’era dentro una tenda per 3 persone, nel secondo
borsone c’erano alimenti, un cucinino a gas e una borsa nera più piccola, che conteneva una decina
di pistole di forme e di colori differenti. Kaled si occupò della custodia rigida, l’aprì e c’erano dei
pezzi non assemblati di un fucile di precisione, uscì i pezzi e in meno di 30 secondi montò il tutto,
era una scena che mi ricordava Full Metal Jacket del 1987, ma questa era realtà e mi chiedevo
disperatamente: ma io che ci faccio qui???
La risposta arrivò a breve, Kaled mi insegnò ad usare quello strumento di morte, dal come si
montava a come si faceva fuori una lattina di birra posta a 100 metri di distanza che fungeva da
bersaglio. Caricare e scaricare l’arma, come regolare il mirino e come puntare il bersaglio,
l’impugnatura sdraiata, seduta e in posizione eretta. Poi iniziarono a fioccare i colpi, ci vollero 18
tentativi prima di colpire la lattina, mi faceva male la spalla e faceva freddo, ma Kaled mi incitava a
riprovare, avevamo venti caricatori da svuotare. Poi passammo alle pistole, il bersaglio era a
20metri, odiavo quella lattina, qui ci vollero solo un paio di caricatori per centrare il bersaglio,
distribuiti fra 10 pistole diverse, quella che mi piaceva di più era una Beretta calibro 9, forse perché
era fatta in Italia, non lo so dire.
Facemmo una pausa pranzo, mangiammo del cibo preparato da Mike, era del cibo liofilizzato
sciolto nell’acqua, accompagnato a delle gallette di riso che avevano un sapore orribile, ma c’era
questo e non volevo fare arrabbiare i due colossi, specialmente con tutta quella artiglieria a lato, mi
potevano uccidere in 100 modi differenti e in quel posto nessuno mi avrebbe trovato mai. Dopo il
pranzo si passò al corpo libero, arti marziali e armi da punta. Prima fu un’ora e passa di scaraventate
a terra e proiezioni, strette e blocchi, mosse di difesa e attacco, strangolamenti e tecniche di asfissia,
e tutto il repertorio delle arti marziali. Dopo si passò alle armi da punta, e lì mi sentii davvero
Rambo, in mezzo alla giungla ad usare un coltello con una lama da 20 centimetri, con due
energumeni che cercavano di uccidermi, o per meglio dire simulavano di uccidermi.
Poi vidi in fondo al borsone nero dei lunghi coltelli da lancio, pensai abbiamo fatto 30 facciamo 31,
e chiesi a Kaled come si usavano, lui mi spiegò che si usavano quando non si avevano pistole con il
silenziatore, e il bersaglio era entro i 10 metri. Prese un coltello e colpì un albero posizionato a circa
7 metri di distanza, provai io e riuscì a colpire il bersaglio quasi nello stesso punto, qualche
centimetro più a destra, provai altre volte e feci sempre centro o sbagliavo di pochissimo. Kaled e
Mike erano soddisfatti, smontarono la tenda, misero tutte le armi nelle rispettive borse, e risalimmo
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per il sentiero fino alla Jeep. Io ero stanco morto, dentro la macchina si stava al calduccio e mi
addormentai quasi subito.
Mi svegliarono che eravamo già arrivati all’Hotel, Mike rimase in macchina, io e Kaled salimmo in
stanza, lì mi disse che prossima settimana avrei avuto il porto d’armi e che saremmo andati un paio
di volte al poligono di tiro. Per quanto riguardavano gli allenamenti, ci vedevamo domani al Central
Park per il solito allenamento mattutino. Detto questo uscì dalla stanza senza salutare.
Da solo in stanza cercai di capire in che condizioni ero, ed ero messo male, tutto sporco, pieno di
ematomi lividi, graffi ed escoriazioni di ogni tipo. Mi faceva male la spalla dove avevo appoggiato
il calcio del fucile, con il rinculo sbatteva e sollecitava tutta l’articolazione. Nella mia mente,
pensavo che ero diventato un reduce del Vietnam, mi guardai allo specchio e sorrisi di quella cosa.
Lunedì 20 Aprile, il rottame umano Ungeziefer, si trovava al Central Park in tenuta da corsa, che
arrancava dietro al suo Tutotor Motivatore, sembrava l’inseguimento di Beep Beep da parte di Will
il Coyote, per quanto io le studiavo tutte per raggiungerlo, lui era sempre troppo veloce e distante, si
fermava solo per farmi fare le flessioni e altri tipi di esercizi che distribuiva durante il percorso.
L’allenamento finì alle ore 11:00 e questa fu la prima volta che fui felice di trovare Mike ad
attendermi, perché non sarei riuscito a fare un altro passo.
Oltretutto dovevo recuperare le forze, perché avevo solo il tempo di darmi una sistemata, dovevo
essere alle ore 12:00 al MoMA per iniziare a lavorare. Arrivai con un quarto d’ora di ritardo, che
per me era una cosa inconcepibile. Trovai davanti al mio ufficio Kim ad attendermi con il suo pass
in bella mostra e il suo sorriso che mi dava un po’ di conforto, entrammo posai il mio trolley
piccolo, feci uscire tutte le mie cose e le posizionai sul tavolo, presi un blocnotes e una penna, gli
dissi a Kim di prendere il suo portatile e seguirmi.
Trovai un carrello della forma e altezza giusta per poter scrivere e muoversi allo stesso tempo. Così
iniziò una lunghissima serie di catalogazione delle opere d’arte, divise per periodo, per autore, per
stile e per valore sociale. Ogni oggetto era correlato da una mia relazione, scritta in tempo reale da
Kim che riusciva a tenere il passo delle mie parole. Staccammo alle 14:00 per pausa pranzo, lei mi
aveva portato un bel po’ di squisitezze portate dal ristorante, sapeva della mia voracità e dei miei
gusti, e ben presto mi spazzolai tutto. Mi diede anche il cibo per la cena in formato Take Away, da
portare in Hotel.
Kim si dimostrò subito capace e attenta, capiva le mie osservazioni, e durante il pomeriggio la
presentai all’architetto Rogi, e lei sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi. L’architetto era rimasto
incantato dalla ragazza e capì che fare quel pass era stato una delle migliori cose che aveva fatto
negl’ultimi anni. Io guardavo la situazione e cercavo di non mettermi a sbuffare a ridere, poi
guardai l’orologio e mi passò il sorriso,capì che era tempo di tornare a lavoro, ancora non avevamo
fatto neanche 5% di caricamento dati.
Uscimmo alle ore 21:00 stremati dalla fatica, diedi un passaggio a Kim a casa, abitava all’ingresso
della via dove lavorava suo nonno, poi Mike mi accompagnò all’hotel, salii in stanza, aprii il take
away e iniziai a mangiare convulsamente, avevo si fame, ma era fame nervosa, perché non sapevo
se sarei riuscito a completare questa specie di immensa enciclopedia informatica. Finì di mangiare,
accesi la tv, mi misi a letto e dopo poco tutto diventò buio.
34
CAPITOLO 17
Il pontile
La settimana proseguiva veloce come un jet e pesante come un camion pieno di mattoni, tutte le
mattine allenamento con Kaled e poi al museo con Kim per la compilazione catalogo informatico,
tutto era addolcito dal buon mangiare e dalle chiacchierate con l’architetto, che non perdeva scusa
per venirmi a trovare o per meglio dire, per vedere la mia segretaria/assistente tecnica. Era stata
fissata la data di apertura del museo con le nuove specifiche tecniche, il nuovo server veniva
attivato ufficialmente il mercoledì 29 Aprile, e noi eravamo al 24 Aprile con un completamento
lavori al 82%, che per la mia stima, stavamo viaggiando a gonfie vele.
Kim era pensierosa e distante, strano perché era sempre sveglia e concentrata, gli chiesi che aveva e
lei mi rispose, che stava pensando ad una tradizione di famiglia.
Ryo: < Di che si tratta?>
Kim: < Con mio fratello tutti gli anni, l’ultima domenica di Aprile andavamo al Pontile e
passavamo tutta la giornata insieme, lui ora è in Tailandia e non può venire con me, e oltretutto
domani dobbiamo lavorare.>
Ryo: < Guarda, ti dico la verità, con il lavoro siamo a buon punto, e sinceramente sono stanco di
questa monotonia, ho bisogno di una pausa. Chiamerò a Kaled e a Mike per dirgli che domani non
sarò operativo.>
Kim: < Si può fare? Sarebbe fantastico!!!>
Chiamai Mike e Kaled per informarli della cosa, dicendogli semplicemente che ero spremuto dalla
fatica e che avevo bisogno di un giorno di stacco per riprendermi.
Appuntamento alle ore 09:00 di Domenica con Kim davanti al ristorante. Tutti e due eravamo
puntualissimi, meglio perché avevamo deciso di prendere i mezzi pubblici e ci voleva del tempo.
Andavamo a Coney Island, a circa tre quarti d’ora dai grattaceli di Manhattan, per sentire il
profumo dell’oceano, prendemmo il treno Express della Metropolitana che portava direttamente alla
stazione di Stillway avenue. Coney Island è un quartiere a sud di Brooklyn, famoso per lo storico
parco divertimenti, la lunghissima spiaggia e alcuni locali caratteristici.
Appena uscimmo dalla stazione della metro, ci trovammo davanti a Nathan’s, Kim volle subito
entrarci perché così era la tradizione. Kim mi raccontò che questo posto era il locale che aveva
inventato gli hot dog nel 1916, e che qui vi erano i più buoni del mondo. Ne prendemmo tre, 2 per
me e 1 per lei, e nel frattempo che mangiavamo, Kim mi raccontava la storia della gara di chi
mangia più hot dog e mi indicava il tabellone messo all’ingresso dove erano riportati il record
attuali con i nomi del campione e della campionessa in carica.
Finito di mangiare, andammo più avanti, dove si trovava il Luna Park e poi l’incantevole lungomare
con il Pontile in legno, il Coney Island Boardwalk. Questo posto mi faceva venire in mente il film
“I guerrieri della notte” e la serie televisiva Jersey Shore, con le loro ragazzate etiliche esilaranti.
Kim mi raccontò la storia del termine “Luna Park” che prendeva il nome dal primo parco di
divertimenti della storia aperto proprio qui a Coney Island nel 1895, chiamato così in onore della
sorella di uno dei proprietari. Mi disse anche che il parco divertimenti che vedevamo non era
esattamente quello che ha fatto la storia del posto. Coney Island e le sue attrazioni hanno subito per
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diversi anni un lento degrado che aveva prospettato l’idea di far demolire il parco per lasciare lo
spazio a una nuova zona residenziale di lusso. Fortunatamente, e bisognava dire grazie ad un
azienda italiana, nell’estate del 2010 il parco giochi era stato riaperto e riportato agli splendori di un
tempo.
Non c’era nessun biglietto per entrare nel parco, si pagava solo se salivi sulle giostre. Provammo il
“Cyclone” un ottovolante in legno costruito nel 1927, poi facemmo un giro sulla storica ruota
panoramica chiamata Deno’s Wonder River del 1920. Ci facemmo coraggio e provammo l’Air
Race che ci lanciava ad una velocità di 4G, subito dopo le rapide mozzafiato del Wild River, e
infine anche se eravamo tutti e due cresciutelli ci facemmo un giro nelle immancabili tazze rotanti e
le barche-sirene della Mermaid Parade. Così passò velocemente la mattinata.
Dopo il secondo giro di Hot Dog da Nathan’s, andammo al parco acquatico, nel N.Y. Aquarium
c’erano una bella varietà di pesci e animali acquatici di vario genere. Ci mettemmo a guardare lo
spettacolino con le foche, con la loro simpatia e tenerezza, e con la bravura e la dedizione dei
responsabili, veniva illustrato il loro mondo e le loro caratteristiche. Peccato che il posto era piccolo
e per ¾ in ristrutturazione, finimmo il giro in mezzora.
Essendoci ancora tempo, tornammo al pontile e ci siamo messi a fare shopping sfrenato. Entrammo
in tutti i negozi, da quello dei costumi da bagno a quello di Jersey Shore dove facevano le magliette
con scritte e disegni a piacere, ne prendemmo due, una gialla fluorescente con la scritta “ io sono il
boss” e una fucsia con la scritta “ il mio boss è uno stronzo”,e le risate erano fragorose che
contagiarono anche i commessi che si stavano divertendo parecchio.
Ultima tappa a metà pomeriggio fu una lunga passeggiata nella spiaggia, si stava bene, non faceva
ne caldo e ne freddo, c’era una leggera brezza che proveniva dall’oceano atlantico, che portava con
se, salsedine e umidità, ma ci feci caso solo io. Kim era sospesa nei suoi pensieri, forse pensava a
suo fratello, o semplicemente si godeva quella serenità, spezzata solo ogni tanto da qualche
gabbiano che passava.
Risalimmo sul pontile e rifacemmo la strada per la metro, con le mani piene di buste che
contenevano paccottiglia di scarso valore. All’ingresso si parò davanti a noi un ragazzo con un
coltello a serramanico e dietro di noi ce n’era un altro che ci impediva di andarcene. Ci chiese i
soldi, minacciando con il coltello. Io non so per quale ragione reagì, ma fu più forte di me, agii
velocissimamente, presi dal giubbotto in jeans il ragazzo con il coltello, puntai il mio piede sul suo
stomaco e lo proiettai alle mie spalle, addosso all’altro ragazzo, entrambi caddero a terra storditi, io
mi girai e mi misi a tirare calci al volto e al costato, fino a quando nessuno dei due si mosse più.
Recuperai con una mano le buste e con l’altra presi la mano di Kim totalmente sconvolta e ci
infilammo nella metro, salimmo subito sul treno che portava a Manahattan, ci sedemmo a metà di
un vagone per riprendere fiato. Kim si voltò verso di me e mi disse: < Ma tu chi sei?!>. Io non seppi
rispondergli, gli strinsi forte la mano e l’avvicinai a me.
Scendemmo a Midtown, alla fermata dove eravamo entrati all’andata, salimmo le scale e ci
trovammo nella city, da lì l’accompagnai fino alla casa del nonno che aveva pronte le scarpe, pagai
25$, una cifra irrisoria per un paio di scarpe che ne valevano almeno 120 se non di più, il nonno era
un vero artista. Salutai Kim, senza parlare di quello che era successo e senza aver risposto alla sua
domanda, gli dissi semplicemente ci vediamo domani alle 12 in museo e me ne andai. Tornai in
hotel a piedi per provare le scarpe nuove, erano comode, leggere e ben bilanciate, avevo fatto un
affare.
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CAPITOLO 18
Il Conte Poenari
Era il 29 Aprile, giorno di apertura del museo, con la nuova applicazione attivata. C’erano tutti,
c’ero io, Kim, l’architetto, ma soprattutto c’era il Commenda immancabile, quando si trattava di
prendersi meriti e riconoscimenti, sempre attorniato, dai suoi simili predatori, come il leone
dominante, che sta al centro del suo clan di leoni. Guardò dalla mia parte e mi fece cenno di
avvicinarmi, mi presentò tutta una serie di persone, ingegneri, magistrati, politici di vario livello,
ovviamente dopo un secondo mi scordai i loro nomi, solo l’ultimo mi colpì veramente, sembrava un
elemento totalmente estraneo a quella cerchia e non mi sbagliai.
Commenda: < Mio carissimo Ungeziefer, le presento il Conte Poenari, viene dalla Romania, è un
nobile di antico lignaggio, che spero in futuro faccia affari con la nostra società>
Ryo: < Sono Ryo Ungeziefer, piacere di conoscerla Conte Poenari>
Poenari: < Salută-te pe tânărul luminat !!!>
Ryo: < Grazie> dissi senza aver capito
Poenari: < So che è lei che ha gestito questa evoluzione macroscopica dell’arte moderna, ho aperto
l’applicazione sul mio cellulare, ho cercato una scultura, l’ho visualizzata subito, c’erano date ,
luoghi, fotografie, ma soprattutto le sue recensioni, un lavoro eccellente. Come lavoro eccellente è
stata la galleria a Firenze, più piccolo, ma si sentiva la cura maniacale per i dettagli e la passione per
l’arte.>
Ryo: < Grazie, troppo gentile, a Firenze è stato un lavoro di collaborazione, e un luogo come quello
trasuda d’arte e di storia, ci vuole poco a renderlo magico. Qui al MoMA è stato diverso, intanto per
le dimensioni e per la vastità delle collezioni di arte moderna, poi il sistema è rivoluzionario, basta
connettersi al Wi-Fi del museo, che ti viene inviato un link sul cellulare, questo link ti porta
sull’app, la scarichi, apri il file ed entri nel mondo digitalizzato del museo, ogni oggetto, ogni
collocazione, ogni sfaccettatura dell’artista si può vedere e leggere in tempo reale.>
Poenari: < Incredibile, il Commendatore Platania mi ha sbalordito per i tempi di realizzo, 2
settimane, forse anche meno, lei è una persona brillante. Le volevo porle un quesito, mi è
consentito?>
Ryo: < Libero di chiedermi ciò che desidera.>
Poenari: < Se io le facessi vedere delle antiche scritture, saprebbe capire e indicare dove si trovano
degl’oggetti sacri? Come se fossero una mappa del tesoro?>
Ryo: < La risposta è semplice, ma implica che io veda quei testi antichi, una volta visti gli direi si o
no.>
Poenari: < Questa mi sembra una risposta, da persona prudente e professionale, nonché logica.
Capirà che con me le stranezze sono di casa. Ora mi voglia scusare, devo parlare con i miei
sottoposti. Sono certo che ci rivedremo a breve. La saluto uomo Illuminato.>
Il Conte Poenari si allontanò e rimasi da solo con il Commendatore che subito mi incalzò.
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Commenda: < Bravissimo Ungeziefer, lei mi piace sempre di più. Come ha detto il Conte, ha fatto
un lavoro magnifico, sia qui che a Firenze. Il Conte è una persona ricca e “molto” influente in tutto
il mondo. La Printer sta cercando da anni, vanamente, di farlo diventare nostro cliente. Capisce che
i nostri introiti e la nostra popolarità salirebbe alle stelle, quindi dobbiamo fare in modo che lei lo
faccia contento>
Ryo: < Io cercherò di fare del mio meglio, dove si trovano questi antichi scritti? Quando li posso
visionare?>
Commenda: < Caro mio, mi sa che le toccherà farsi un altro viaggetto, le opere si trovano in
Europa, saranno in qualche luogo protetto in Romania>
Ryo: < In Romania? Ma signore, qui siamo solo agli inizi, non posso lasciare.>
Commenda: < La priorità è il Conte, qui ci penseranno l’architetto e la addetta informatica per
eventuali problemi tecnici.>
Ryo: < Quando dovrei partire? Io ancora sono in fase di addestramento e non parlo una parola di
rumeno.>
Commenda: < Partenza direi Lunedì 4 Maggio, con lei verranno Mike e Kaled, per la lingua rumena
troveremo un maestro traduttore. La saluto Ungeziefer, le auguro tante belle cose.>
Ryo: < Arrivederci Commendatore, buona giornata. >
Mi girai dal lato opposto e tornai alla mia postazione, dove c’erano Kim e Filippo. Subito mi
chiesero cosa era successo, a cos’era dovuta quella discussione con il commendatore e quello strano
tizio. Gli risposi che quel tizio era un nobile europeo, e che il commendatore mi aveva appena
assegnato un nuovo incarico, con assoluta priorità. Da lì a una settimana sarei volato in Romania
per una faccenda delicata, di cui non potevo entrare nei particolari.
Finita l’inaugurazione, restammo per guardare i risultati, c’erano state 12653 visualizzazioni, 3622
like, 715 commenti, 892 acquisti dell’App in formato integrale, cioè utilizzabile da qualunque parte
del mondo, bastava solo la connessione ad internet. Soddisfatti dei risultati, ci salutammo e
concordammo una riunione per l’analisi dei commenti.
Giorno 30 Aprile, di prima mattinata andai al poligono con Kaled a sparare, avevo il porto d’armi e
la mia calibro 9. Due ore a scaricare caricatori di proiettili, e nonostante le cuffie insonorizzate
avevo i timpani a pezzi, un po’ come il bersaglio a cui avevo mirato, stavo migliorando rapidamente
e la cosa mi spaventava, non era una cosa naturale.
Il resto della giornata lo passai al museo, facemmo una lunga riunione, per concordare tutto, dalla
lettura dei commenti dell’App, alla risoluzione di potenziali problemi, problemi che al momento
non si erano presentati, ma si potevano palesare in qualunque momento. Dissi che quello era il mio
ultimo giorno di lavoro al museo, perché i primi tre giorni di maggio li avrei dedicati a raccattare le
mie cose, e a imparare le basi della lingua rumena, che non era semplice come l’inglese.
Salutai Filippo con un fraterno abbraccio, poi diedi un passaggio a Kim al ristorante Jungsik, e con
questa scusa cenammo assieme, senza parlare molto, c’era poco da dire, molte nuvole oscure si
stagliavano all’orizzonte per me, era come trovarmi su una barca senza motore e senza remi, che
imbarcava acqua, lontana dalla terra ferma, andavo alla deriva, dove la corrente mi portava.
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PARTE IV
Braşov
Capitolo 19
La leggenda
I primi tre giorni erano passati velocemente, era tutto un correre infinito, imparare come fa un
bambino piccolo, capire le cose istintivamente, ma qui si passava da asilo nido al terzo anno di
università. In mio aiuto trovai un mio conoscente di Firenze, Carl Shevcenko, il damerino che
faceva i resoconti dell’andamento aziendale della Printer, lui era di origini ucraine, ma parlava un
perfetto rumeno, almeno per quello che ne capivo. Cercò di inculcarmi più nozioni possibili, ma io
sembravo refrattario ad ogni articolo verbo o aggettivo, la mia testa era altrove, avevo praticamente
abbandonato il mio vecchio lavoro, avevo abbandonato Selene a Firenze, ero stavo abbandonando
due nuovi cari amici a New York, gli avevo promesso che mi sarei fatto sentire sicuramente, ma
come sempre, quel che facevo, portava sempre a qualcosa di nuovo e d’imprevisto.
Erano le ore 14:00 del 4 Maggio, mi trovavo all’uscita dell’aeroporto di Bucarest, insieme a me
c’erano Carl, Mike e Kaled, salimmo su una macchina privata che ci attendeva, che ci portò fuori
dalla capitale rumena, in direzione Braşov, dove vi era la residenza del Conte Poenari. Ci vollero
due ore piene di auto per arrivare, e i miei tre compagni di viaggio non erano proprio dei gran
chiacchieroni, per Mike e Kaled lo sapevo, ma per Carl la cosa era un po’ strana, gli chiesi il perché
della poca loquacità, e lui mi rispose che questo posto non gli piaceva per niente, che gli metteva i
brividi, non per le storie sui vampiri della Transilvania, ma per i racconti di sua madre quando lui
era ancora un bambino.
Comunque arrivammo a destinazione, non sembrava un castello medievale in stile gotico, ma era
una villa gigantesca immersa nel verde, con fontane che stillavano getti d’acqua, con le scuderie da
cui partivano dei nitriti, dei cani da caccia che giocherellavano con dei bambini. L’ingresso era
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maestoso, un atrio che era grande quanto una abitazione di 3 vani, con quadri, drappi, statue, e ogni
ben di Dio, per chi era appassionato d’arte, non sapevo dove mettere a fuoco gl’occhi, poi mi
bloccai del tutto e i miei occhi erano andati in estasi mistica. Dalla scalinata di fronte, scese una
creatura di una bellezza devastante, pelle bianchissima come il più candido dei marmi, fisico
slanciato, capelli biondi chiarissimi quasi albini, occhi azzurri intensi, un passo da felino pronto a
saltare sulla preda. Si fermò ad un paio di metri da noi e incominciò a parlare, non capivo bene le
sue parole, ma erano come una melodia, come il canto delle sirene per Ulisse.
Navlata: < Bine aţi venit la casa Poenari. Sunt Navlata Rawat,a treia soţie a contelui Bullent. Va
doresc un sejur bun si o treaba buna.>
Diedi uno spintone a Carl per fare la traduzione, lui disse semplicemente “ ci da il benvenuto”, cosa
che non c’era bisogno dell’interprete. Lei fece un cenno e da una porta spuntarono quattro
camerieri, che senza dire niente presero i bagagli e li portarono al piano di sopra, dove presumevo ci
fossero le stanze, mentre noi passammo ad un ampio salone, dove il lusso si respirava nell’aria, ogni
oggetto era antico, di alto valore intrinseco perché usati materiali come oro e avorio, di valore
estrinseco perché la lavorazione artigianale era eccellente. Guardavo un piccolo angelo di bronzo,
con una grande lancia che puntava in basso, come se per terra ci fosse un serpente pronto a mordere,
opera di pregio, si vedevano le venature e le fibre muscolari che si tendevano nel gesto. Navlata ci
disse di accomodarci, che fra pochi istanti sarebbe sceso il Conte, e così fu. Il Conte Poenari fece il
suo ingresso, vestito come un re di altri tempi, mancava solo la corona e un trono dove sedersi.
Bullent: < Parlerò in inglese, in modo tale che tutti noi capiamo il senso delle parole. Sono Il Conte
Bullent, ultimo discendente della famiglia Poenari, siamo nobili da oltre un millennio e fedeli
protettori di queste terre. Vi ho fatti venire qui, per risolvere un mistero, che affligge me e il mio
popolo. Nel 1795 uno dei miei avi era in guerra con un popolo proveniente dal mare, non sapeva il
loro nome ne quanti fossero, ma sapeva che ero diretti qui, per depredare il nostro tesoro di famiglia
sconfinato per ricchezza. Il tesoro consisteva in più parti, una parte erano pietre preziose come
diamanti, rubini, zaffiri, smeraldi, topazi, ametista, giada e altre ancora, una seconda parte erano
metalli e loro leghe di valore come: rame, zinco, bronzo, argento, oro, piombo, e altri ancora, una
terza parte quella più pregiata erano i cimeli di famiglia come croci sacre, corone, candelabri, spade,
armature, stendardi, alabarde, un trono in legno con bassorilievo della storia di famiglia. Infine un
pezzo unico, la Corona del Drago, di cui noi Poenari siamo la discendenza, fatta con il cranio del
drago e intarsiata con gioielli di enorme valore, tra cui il più importante era un rubino color rosso
sangue, chiamato l’Occhio del Drago.>
Io alzai la mano, come fossi un alunno che interrompeva il professore durante la lezione.
Ryo: < Conte Poenari, scusi se l’interrompo, lei ci sta illustrando il suo passato e i suoi antichi
tesori, ma noi siamo arrivati qui per dei documenti antichi, ci potrebbe dire l’attinenza e dove si
trovano?>
Bullent: < Mi scusi, non la volevo tediare, con delle storie nostalgiche, da parte di un fanatico del
proprio popolo. Le tre rune, così le chiamiamo noi, sono state trovate, dopo un cedimento del
terreno, da un pastore, mentre faceva pascolare il suo gregge, accanto al rudere della fortezza. Sono
tre grosse pietre massicce, fatte dal mio avo di cui parlavo prima, erano il suo lascito per la sua
stirpe, sono scritti i tre luoghi dove vennero sepolti i nostri tesori. Qui entrate in gioco voi, perché il
mio avo scrisse i luoghi in un codice e non lasciò la chiave di lettura per poterli decifrare,
ovviamente tutti quelli che parteciparono all’occultamento sono morti da tempo e non possiamo
chiedere a loro. Ora io ho allestito al secondo piano del palazzo, un laboratorio di ultima
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generazione, con tutti gli artifizi della scienza moderna, che spero siano di vostra utilità, per
scoprire il mistero.>
Ryo: < Bene, ci ha detto il cosa fare, ci ha detto dove lavorare, ma non ci ha detto quanto sarà il
Quibus.>
Bullent: < Con il Commendatore siamo rimasti così d’accordo: 500000 $ per la corretta traduzione
delle tre rune, 250000 $ per ogni parte del tesoro ritrovato, bonus di 1000000 $ per la Corona del
Drago e mi assocerò alla vostra società. Penso che per le cifre che vi ho fornito, non c’è bisogno di
fare altri commenti, ma mettersi subito a lavoro. La mia seconda moglie Aya Sumika, vi mostrerà il
laboratorio, lei è una vera esperta nelle scienze.>
Comparve una donna, sempre bellissima, con lunghissimi capelli neri, e occhi neri come un abisso
infinito, fece un saluto veloce con la mano, e indicò a noi di seguirla al secondo piano. Salutammo
il conte, e prendemmo le scale per il secondo piano. Il laboratorio era quanto tutto il secondo piano,
anzi era il secondo piano, c’era ogni strumentazione che uno scienziato si sognava la notte, le
finestre erano grandi e facevano entrare una gran luce, ma era chiuse sigillate, il cambio d’aria era
fornito da svariati climatizzatori alle pareti che filtravano l’aria, inoltre c’erano delle cappe che
scendevano verticalmente dal soffitto. In fondo al laboratorio c’era una stanza più piccola che
fungeva da studio, c’era una cassaforte supertecnologica, che Aya con una rapida mossa riuscì ad
aprire, prese poi dei guanti e li distribuì a noi, per farci prendere le rune e portarli nel banco di
lavoro in ceramica per l’inizio della traduzione.
Aya: < Acestea sunt runele, aveţi grijă de ele, sunt pretioase. Descoperă mistreul şi vei fi raspati>
Carl tradusse “ fate il vostro lavoro, non fate danno e sarete ricompensati”, Aya se ne andò e ci
lasciò da soli con le rune.
Ryo: < Allora. Prima cosa, Carl sei un pessimo traduttore. Seconda cosa, Mike tu è inutile che stai
qua, vai al primo piano e vedi come siamo alloggiati, penserai per il vitto e alloggio. Terza cosa,
Kaled tu pensa alla logistica, sicuramente dovremmo andare in giro, ci servono mezzi di trasporto e
conoscere le strade per poterci muovere.>
Mike e Kaled uscirono dal laboratorio e andarono a svolgere i loro compiti. Restai solo con Carl e
incominciammo ad esaminare le rune.
Carl: < Ryo, cosa ne pensi? A me sembrano solo scarabocchi fatti da un vecchio rimbambito secoli
fa e non da un nobile protettore della patria.>
Ryo: < Le tre rune, io direi le tre lapidi, sono di pietra molto dura e resistente nel tempo, quindi chi
le ha incise, ci si è messo d’impegno, oltretutto è un lavoro professionale, non ci sono fratture nella
roccia o dei graffi non voluti. Ogni lapide è divisa in tre colonne verticali, la parte centrale è tipo il
sigillo di famiglia indica la provenienza e l’autorità, la parte di sinistra riguarda la persona sepolta
con tutti i suoi titoli nobiliari, la parte di destra è quella che interessa a noi, sembrano delle
indicazioni da parte del morto alla discendenza, un luogo, probabilmente 1/3 del tesoro della
famiglia>.
Carl: < Ma come fai a dire tutte queste cose, gli hai dato appena un’occhiata?>
Ryo: < Si gli ho dato solo uno sguardo, perché senza il codice di lettura, non possiamo sapere nomi
luoghi e date. Occorre trovare la chiave di lettura, domani andremo alla Fortezza.>
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CAPITOLO 20
La Fortezza
Alle ore 05:00 del 5 Maggio, partì la spedizione, da palazzo Poenari verso la Fortezza. Kaled aveva
noleggiato un camion di tipo militare, color verde mimetico, con un grosso cassone dietro, per
portare oggetti e persone. Di scorta avevamo una Jeep con 4 persone, 3 operai per i lavori pesanti, e
la prima moglie del conte Bullent, Sophina, che delle tre sembrava paradossalmente la più giovane,
aveva lunghi capelli ondulati rosso fuoco raccolti in una treccia, occhi verde smeraldo, pelle
bianchissima anche lei, faceva d’attendente ai lavori, era esperta del territorio, perché era nata e
cresciuta in quel luogo.
Arrivati alla Fortezza non c’era nessuno, il Conte aveva predisposto un blocco turistico di 24 ore, in
modo tale che non venissimo intralciati da curiosi che scattavano foto con il telefonino, un’ottima
idea penasi io. Sophina ci faceva strada e ci inerpicammo su un sentiero stretto e poco battuto,
probabilmente ci passavano solo le pecore e il pastore un paio di volte l’anno, in transumanza, per
passare dalla zona alta in estate, alla zona bassa in inverno. Ci fermammo sopra un buco di circa un
metro e mezzo di diametro, dentro era buio pesto, allora iniziammo ad uscire la nostra attrezzatura,
prima i picchetti che fissammo a terra a colpi di martello, poi attaccammo ai picchetti le cime delle
corde, le corde vennero attaccati ad una scala, e la scala fu scesa all’interno del foro. Due uomini
facevano luce dalla’alto con delle potenti torce, io e Kaled ci calammo in quello che sembrava una
caverna chiusa da secoli. Toccammo il fondo, facemmo scendere con le corde l’impianto elettrico
per fare luce, mentre si accese un gruppo di continuità a diesel per generare energia, fatti i
collegamenti, si accesero le luci dei fari a LED. Fu uno shock per me vedere quella caverna, era di
forma ellittica, la parete di fronte a me sembrava, anzi lo era, un grosso occhio di un drago
pietrificato, con un leggero incavo all’altezza della pupilla, doveva esserci stato in precedenza un
oggetto in quel punto, ma era vuoto.
Guardandoci attorno vidi il punto dove avevano prelevato le lapidi, alla sinistra del grande occhio di
drago, feci luce con la mia torcia frontale, e con le mani iniziai a scavare, mentre chiesi di farmi
scendere da Mike i miei attrezzi. Dopo 2 ore di lavoro avevo trovato i corpi mummificati di 3
persone avvolte in un lacero tessuto di colore rosso porpora, che era il colore del casato. Allora
chiesi di fare scendere Sophina e Carl per il riconoscimento delle salme. Liberai i corpi dal loro
sudario, e andai in ordine da sinistra verso destra.
Il primo cadavere, indossava un armatura, sicuramente era un soldato, aveva due particolarità che
risaltavano all’occhio, mano sinistra assente e testa mozzata con un taglio netto da un oggetto molto
affilato come una spada o una grossa accetta. Chiesi a Sophina se sapeva chi fosse, lei mi rispose in
rumeno, tradusse Carl, che mi disse: “ potrebbe essere Oleg Poenari, potente guerriero, ferito alla
mano sinistra in battaglia, poi successivamente sparito senza lasciare traccia”. Chiesi dov’è che
abitava, aveva possedimenti? Lei rispose che era il cugino di Bullent Primo, proprietario della
Fortezza e antenato dell’attuale Conte Poenari, il suo territorio confinava con questo, a Barajul
Vidraru, al confine con Lacuil Vidraru, il lago a nord della Fortezza.
Il secondo cadavere, quello al centro, era più basso di statura, un uomo sui 35 anni, anche lui con la
testa mozzata di netto come il precedente, sembrava tipo un esecuzione, portava abiti eleganti da
persona ricca, aveva un osso del piede storto, in vita doveva essere zoppo, aveva un anello al dito
una specie di sigillo con una P stilizzata. Chiesi a Sophina se sapeva chi fosse e lei tramite Carl mi
rispose così: “Questo potrebbe essere Bacaloff il Saggio, altra persona scomparsa improvvisamente
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in quel periodo storico. Lui era il gran consigliere di corte, nonché tesoriere del regno”. Bene dissi
io, abbiamo un Guerriero protettore di tesori, abbiamo un Primo Ministro gestore di tesori, vediamo
chi sarà il terzo.
Il terzo cadavere, era una donna, aveva capelli lunghi neri, portava un vestito di sicuro pregio, con
ricami d’oro, sicuramente di alto rango, una nobile del posto. Anche lei era stata decapitata e
avvolta nel sudario color porpora, aveva il bacino molto largo segno di più gravidanze. Mentre
facevo la mia terza ispezione, Sophina si avvicinò e si mise a piangere, disse: “Questa è la Regina
Sophina mia direttissima antenata, aveva il mio stesso sangue, pensavo fosse stata bruciata per
stregoneria, per questo non abbiamo mai cercato la sua tomba, era stata uccisa da vili assassini.”
Allora chiesi di dove era originaria quella donna e Sophina mi disse: “Di Arges, il lato nord del
lago, ma li non c’è più niente da secoli, la natura ha coperto tutto.”
Dissi a Kaled di fare scendere gli involucri contenitivi della Vogan per le opere d’arte, lui comunicò
con Mike tramite Walky Tolky, e mentre le operazioni continuavano, guardai alla destra del grande
occhio, qui c’era un cumulo di terra caduto dal soffitto, portai la mia pala e iniziai a scavare, spostai
tutto il terreno in eccesso e trovai una quarta runa, una quarta lapide. Anche questa come le altre tre
era suddivisa i tre parti, al centro la casata con lo stemma, a sinistra il nome del morto, a destra non
c’era inciso niente che sembrasse un luogo, ma sembrava una specie di alfabeto, avevo trovato la
chiave di lettura. Avevo trovato il Re Bullent Primo di Poenari, non c’era bisogno del confronto con
Sophina, l’uomo era avvolto nel suo sudario color porpora, con una grande P stilizzata in oro, segno
di potere indiscusso, aveva ancora stretta nella mano ossuta, una specie di scettro o un piccolo
bastone cerimoniale anch’esso fatto d’oro e tempestato da pietre preziose. Anche lui aveva la testa
mozzata, il cranio aveva un irregolarità sopra l’orbita sinistra, chiesi lumi a Sophina, lei mi rispose:
“il grande Re era ceco da un occhio, lui praticava la falconeria, e si narra che mentre stava dando da
mangiare un pezzo di cacciagione al suo animale preferito, questo senza nessun preavviso anziché
accettare il cibo, becco il viso del Re, accecandolo all’occhio. Si ritiene che sia stato vittima di una
maledizione, da parte di una strega rivale alla Regina Madre.”
Non c’era più niente da fare in quella grotta, tutto era stato issato su in superficie e posizionato sul
furgone militare, unica lacuna era quella rientranza vuota nell’occhio del drago, lì sicuramente vi
era stata depositata la Corona del Drago, ma qualcuno l’aveva portata via. Salì anch’io in superficie,
per prendere una boccata di aria pulita, ne avevo bisogno. Sigillammo l’ingresso alla caverna, ormai
svuotata all’interno dei suoi inquilini secolari, e andammo alle macchine per tornare al palazzo
Poenari.
Arrivammo a metà pomeriggio e detti incarico di portare, tutti i reperti in laboratorio, in maniera
rapida, ma con il rispetto dovuto. Il Conte Bullent si avvicinò a me e mi volle parlare.
Bullent: < Bravo, bravissimo il mio Illuminato, sapevo che le sue capacità potevano fare, quello che
non aveva fatto un popolo intero per due secoli!!! C’ha messo meno di un giorno per trovare tutti i
miei avi scomparsi, il Re e la Regina, il grande cavaliere e il Cancelliere di corte, nonché lo scettro
del regno. Mi dica, ha notizie dei tesori e della Corona del Drago?>
Ryo: < Le quattro persone sono state uccise in un esecuzione, gli è stata mozzata la testa, hanno
ricomposto i corpi, e li hanno avvolti in un sudario regale. Chi ha fatto questo era qualcuno di
famiglia, troppo rispetto, troppa pulizia, troppa premeditazione. I Tesori sono qui vicino, ho le
indicazioni per trovarli, ma la Corona del Drago è stata trafugata da un estraneo, sicuramente da una
persona indegna, e in un tempo più recente, c’era segno dell’oggetto scavato nella pietra.>
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CAPITOLO 21
Caccia al tesoro
Il 6 Maggio, fu un giorno dedicato alla pulitura, catalogazione e studio dei reperti ritrovati nella
grotta, ora avevamo tutti i dati a nostra disposizione, avevamo le 4 rune, ora potevamo decodificare
le incisioni e determinare i luoghi dei presunti tesori. La cosa che feci in quel momento era
totalmente istintiva, ma aveva un senso nell’insieme collettivo.
Iniziai con il primo cadavere che avevamo riesumato, Oleg Poenari, alto 181 centimetri uno
spilungone per l’epoca, il suo corpo mummificato senza vesti e senza corazza pesava 49 Kg, quindi
quando era vivo poteva pesare dai 85 ai 95 kg, carnagione chiara, capelli e peli rossicci, mano
amputata pre-mortem con arma da taglio, moncherino perfettamente guarito e senza infezioni dopo
la cucitura dell’arto, poteva avere un età compresa tra i 25 e i 30 anni, altre cicatrici minori su tutto
il corpo. Secondo me era il primo cavaliere e custode del tesoro, per questo l’assassino l’aveva
sepolto il più vicino all’uscita, perché doveva proteggere in qualche modo gli altri defunti, la sua
runa era stata anche la prima a essere scritta, perché i tagli sono più decisi e profondi, rispetto alle
altre lapidi, quindi probabilmente era stato indicato come minaccia più grande da parte
dell’assassino. La parte destra della lapide indicava come luogo del suo tesoro Barajul Vidraru,
come mi aveva detto Sophina, ma era più specifico, indicava una caverna che aveva un entrata da
dentro il lago, anzi indicava un percorso subacqueo, che rendeva arduo arrivarci, e praticamente
impossibile trasportarlo. Questo mi faceva ben sperare che la caverna non fosse stata trovata e
depredata.
Passai al cadavere numero due, quello che Sophina aveva nominato Bacaloff il Saggio, era un uomo
piccolo, circa 165 centimetri dall’altezza, capelli neri radi, con qualche ciuffo di capelli bianchi
sulle tempie, poteva avere circa 35 anni non di più, il suo peso senza vestiti e ornamenti era 34 kg,
quindi poteva pesare intorno ai 60 Kg, aveva il difetto al piede destro, probabilmente una frattura
rimarginatasi male in tenera età, non aveva nessun tipo di cicatrici, solo la testa mozzata. La sua
runa indicava il luogo dove si trovava la Corona del Drago, cioè nella caverna del Drago, sotto la
Fortezza dei Poenari, probabilmente era anche lui una vittima designata, perché la runa era stata
scritta prima della sua morte.
Il terzo corpo, quello della Regina Madre Sophina, era in condizioni migliori, le avevano riservato
tutte le cure possibili, il sudario era perfettamente aderente come un vestito attillato, il corpo pulito,
senza cicatrici, quasi sereno, il taglio alla testa era stato netto, un solo colpo, come se non si volesse
far soffrire quella donna più del dovuto. La donna poteva avere dai 40 ai 45 anni, capelli rossi, ma
con ampie zone grigie, aveva partorito almeno un figlio, c’erano segni evidenti nell’ossatura del
bacino. Pesava 25 Kg, quindi in vita poteva pesare circa 50 Kg, era alta 158 centimetri. La sua runa
indicava il tesoro di famiglia, erano incisioni meno profonde, un po’ più approssimative, ciò
indicava che la lapide era stata scritta post-mortem, l’assassino non aveva previsto questo omicidio,
non era preventivato. La runa indicava come luogo del tesoro, una zona denominata Arges nel nord
ovest del lago Vidraru, precisamente in una stretta ansa, anche qui c’era un passaggio subacqueo
per rendere difficile la vita a potenziali ladri.
Il quarto e ultimo corpo, era quello più importante, Il Re Bullent Primo Poenari, il suo corpo era
stato avvolto nel sudario in maniera frettolosa, non era perfettamente aderente, c’erano delle
increspature e delle strozzature nel tessuto, poteva avere circa 50 anni, alto 173 centimetri, pesava
45 Kg, che in vita in base alla struttura poteva pesare sui 90 Kg, decisamente sovrappeso, aveva i
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capelli totalmente bianchi, aveva delle cicatrici risanate, poi ne trovai una che sembrava peri-
motem, inflitta alla schiena tra la scapola sinistra e la colonna vertebrale, non era una ferita mortale
immediata, ma sicuramente ci sarà stato un deflusso di sangue dal corpo in maniera importante,
oltre che un coinvolgimento polmonare visto il punto d’ingresso. Poi c’era il taglio al collo per
recidere la testa, non era stato un colpo singolo, ma almeno tre colpi, con angolazioni e forza
diverse. Guardando la runa si evinceva che era un lavoro posteriore alla morte del Re, fatto con un
percussore meno preciso e tagliente, l’assassino non aveva preventivato questo omicidio, ma lasciò
comunque il codice per decifrare le lapidi, che all’origine doveva essere posizionato da qualche
altra parte e non in quella grotta.
Un ultima riflessione fu sullo stato della grotta, il foro da cui era caduto il pastore era rimasto aperto
tutto il tempo fino al nostro arrivo? Il pastore dove si trovava in quel momento? Cosa aveva visto?
Ma soprattutto dopo che era caduto all’interno della grotta, con il tetto a 5 metri dall’altezza come
aveva fatto ad uscire? Tutte domande che esigevano una risposta. Chiesi udienza al Conte che me la
concordò per le ore 17:00 nel giardino labirinto alle spalle dell’abitazione.
Bullent: < Buon pomeriggio, per chiamarmi ha sicuramente delle cose importanti da dirmi, prego
mi esponga le sue riflessioni.>
Ryo: < Stiamo lavorando su più angolazioni, ho finito l’analisi dei corpi, e ho riscontrato due
decessi preventivati, il cavaliere e il tesoriere, e due imprevisti, Re e Regina, l’assassino era
sicuramente un parente stretto, per la cura che ha portato alla Regina anche in un momento di
urgenza. Le prime domande che le pongo sono: quando è caduto il pastore e come ha fatto uscire
dalla grotta? Le pareti sono verticali alte almeno 5 metri, se è caduto accidentalmente, di certo non
aveva portato una corda con se, e anche se l’aveva con se, dove l’attaccata per issarsi fuori?>
Bullent: < Quindi sa dove sono i tesori, bene. Per quanto riguarda il pastore di nome Dimtru
Alexandru, è caduto il 15 Marzo, è stato trovato da una guida turistica che si era allontanato dal
sentiero per un bisogno fisiologico, ha sentito il pastore urlare e ha chiamato soccorsi. Si è calato un
operaio nella grotta e ha legato il pastore, che è stato tirato su da altri tre operai intorno al foro, poi
hanno issato l’operario che era rimasto sotto. Il pastore è stato portato all’ospedale di Bucarest,
aveva una gamba rotta, e ora è a casa sua in convalescenza, gli operai e la guida sono tornati ai loro
lavori, dopo aver informato noi. Noi siamo andati ad esaminare la grotta e abbiamo trovato le tre
rune e le abbiamo portate qui, senza capire cosa significassero>
Ryo: < Penso che l’intero tesoro sia in pericolo, troppe persone sapevano di quel posto, era rimasto
aperto e incustodito. Penso che qualcuno abbia fatto una copia di tutte e 4 le rune e che sia ora a
caccia del tesoro, lo penso perché la runa del Re era occultata dal terriccio che li non ci doveva
stare, e doveva sembrare una cosa naturale, infatti vi ho fatto caso dopo ore e ore passate la sotto.
Dobbiamo allestire due missioni di scavo, al più presto prima che tutto svanisca e finisca nelle mani
sbagliate>
Bullent: < Farò cercare tutte le persone che hanno partecipato alla cosa e le porterò qui, se sanno
qualcosa che non hanno detto lo scopriremo sicuramente, ho i miei metodi. Per quanto riguarda la
ricerca del tesoro dei miei avi, è bene affrettarsi, come dice lei. Le metterò a disposizione tutto ciò
che le occorre per i sopralluoghi e controllo delle zone interessate.>
Ryo: < Benissimo è quello che volevo sentire. Vado immediatamente a dare istruzioni ai miei
collaboratori, la informerò di ogni cosa.>
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CAPITOLO 22
Inquisizione
Il 7 Maggio passò in attesa delle attrezzature che servivano per la spedizione, ci voleva un
gommone con motore fuori bordo e un carrello per trasportarlo, ci voleva l’attrezzatura da sub come
le mute gli erogatori le bombole maschere e pinne, ci voleva l’attrezzatura da campo come delle
tende per la logistica, la cucina e la zona notte, ci volevano mappe specifiche del luogo fatte dal
satellite, non si poteva improvvisare niente. Tutti tranne me erano a fare i preparativi, io stavo al
palazzo Poenari a coordinare il tutto.
Da un ingresso secondario sentii un gran frastuono, porte che sbattevano e persone che urlavano,
rumore di passi pesanti, mi avvicinai per vedere cosa succedeva. Era la polizia privata del Conte che
aveva prelevato due persone e le stava trascinando nei piani sotterranei, li seguii nella discesa, uno
dei poliziotti mi disse in rumeno che di lì non potevo passare, io gli risposi che ero autorizzato e che
avevo richiesto io stesso al conte di portare quelle persone per essere interrogate, la guardia mi
rispose che si informava e sarebbe ritornato per dargli una risposta. Passarono circa 5 minuti
lunghissimi, poi la guardia ritornò dicendo “il Conte l’aspetta”, così potei passare e arrivare in
questo piano sotterraneo, già questo ricordava molto di più i racconti del conte Dracula, era
scarsamente illuminato, le pareti erano rovinate e piene di umidità si sentiva odore di muffa.
La guardia mi fece entrare da una porta di legno massiccio con listelli di ferro battuto come
rinforzo, all’interno la stanza era un rettangolo di 3,5 metri per 5 metri, senza finestre, anche qui
odore di muffa, le pareti divelte dal tempo, al centro della stanza c’erano 4 sedie, due per gli
“ospiti” e due per me e il conte, unico mobile nella stanza presente era una cassettiera vecchissima
tutta tarlata. Il Conte mi disse di accomodarmi accanto a lui, in modo tale da poter sentire di cosa
parlavano.
Bullent: < Allora veniamo subito al sodo, non siete qui per una gita turistica o per far pascolare le
pecore, la cosa qui è molto seria, vi prego di essere assolutamente sinceri e la cosa finirà in pochi
minuti. Mi è stata rubata una cosa molto preziosa, un cimelio di famiglia, la Corona del Drago, era
nella grotta del Drago sotto la Fortezza Poenari. Voglio sapere tutto, e quando dico tutto vuol dire
tutto.>
Antonie Anghel: < Conte, io ho solo sentito un rumore da un buco a terra, ho capito che qualcuno
era caduto dentro e ho subito chiamato i soccorsi, non ho fatto nient’altro>
Bullent: < Nient’altro? Mi sembra un po’ poco. Chi hai chiamato per il soccorso?>
Antonie: < C’erano 4 operai, che lavoravano ad un muro pericolante della fortezza, gli ho detto
della persona caduta nella grotta, loro hanno preso una corda e ci siamo avvicinati al buco, un
operaio, quello più magro si era legato alla corda, e gli altri tre lo hanno calato dentro la grotta, si è
slegato e ha legato il pastore, lo hanno issato fuori dalla caverna, poi hanno tirato fuori l’operaio
dalla caverna, hanno preso sotto spalla il pastore e lo hanno portato al parcheggio, siamo stai lì fin
quando non è arrivata l’autoambulanza, poi siamo ritornati ai rispettivi lavori.>
Bullent: < Bene, visto che c’era qualcosa da dire?...e lei signor Alexandru, non mi dice niente?>
Dimitru: < Io passavo di lì, per portare le mie pecore dalla zona bassa alla zona alta, dove la
temperatura è più fresca e c’è più erba, tutto ad un tratto e senza preavviso, il terreno sotto i miei
piedi ha ceduto di schianto, non ho avuto il tempo di aggrapparmi a qualcosa, sono sprofondato giù,
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sonno atterrato male e mi sono rotto la gamba, come può vedere sono ancora ingessato, lì era tutto
buio pesto, c’era solo la luce che filtrava dal buco da dove ero caduto, non mi potevo muovere, ho
iniziato ad urlare con tutte le forze, la fortuna volle che dopo mezzora che ero lì, questa persona
accanto a me, si accorse della mia presenza, capendo che mi ero fatto male. Dopo circa dieci minuti
ho sentito rumore di più persone, ho visto che una persona che si calava con la corda e mi veniva a
soccorrere, ha guardato in che condizioni ero, mi ha imbragato con la corda e quelli di sopra hanno
tirato fin quando non sono uscito e mi hanno poggiato a terra. Poi hanno pensato a tirare su il loro
compagno e così fecero, poi mi accompagnarono a spalla al parcheggio, in attesa
dell’autoambulanza, poi mi caricarono nella portantina e svenni. Le pecore furono recuperate ore
dopo da mio cugino Peter che abita lì vicino, io in quella zona maledetta non ci sono più tornato e
mai ci tornerò, le mie pecore faranno un altro giro per salire a brucare nella zona alta.>
Bullent: < Mi sembra che le due versioni coincidano, dovremmo parlare anche con gli operai di
quel giorno, ma la ditta è ucraina e a fine lavori sono ritornati in patria.>
Ryo: < Posso fare anch’io qualche domanda?> Chiesi al Conte
Bullent: < Prego faccia pure. Anche se non so cosa possa essere sfuggito.>
Ryo: < Prime domande: Signor Antonie, lei abitualmente fa i suoi bisogni all’aperto? Non poteva
andare in un bagno? Da quel giorno si è mai avvicinato di nuovo alla grotta?>
Antonie: < Beh, veramente uso normalmente i bagni come ogni persona, ma quelli della Fortezza
lasciano parecchio a desiderare, quindi ho detto che mi allontanavo per fare un bisogno, e sono
andato in quella zona dove non va mai nessuno perché è fuori sentiero, e da lì ho sentito le urla. Io
faccio la guida turistica, si sono passato altre volte dalla Fortezza, ma no, non mi sono più
avvicinato alla grotta, d’allora vado sempre in bagno al distributore di benzina a 10 Km da lì>
Ryo: < Seconde domande: Signor Dimitru, quando lei era dentro la caverna, si è mai spostato dal
punto dov’era caduto? Se si in che zona. Quando è sceso l’operaio per soccorrerla, ha notato se quel
uomo si guardava in giro per vedere cosa c’era? Lei nella caverna ha visto qualcosa che
assomigliava alla Corona del Drago?>
Dimitru: < Io non potevo spostarmi, il dolore era troppo forte. Non ho fatto caso dove guardasse
l’operaio, non m’interessava, volevo solo uscire da quel posto infernale. Se mi sono guardato
attorno in quella mezz’ora che ero rimasto lì? Si cercavo qualcosa che mi poteva aiutare, magari
nella caduta avevo portato con me il mio bastone, ma non c’era, era rimasto sopra. Se ho visto la
Corona? Troppo buio, l’unica cosa che faceva un riflesso proveniva da una specie di nicchia nel
muro, il muro che sembrava l’occhio di un drago pietrificato, ma non so dire se era una corona o
altro.>
Ryo: < Ho finito le domande, Conte Lei?>
Bullent: < Si abbiamo finito, Guardie… portate i signori a casa, grazie per la collaborazione>
I due uomini furono scortati dalle guardie fuori da quella stanza, mentre io e il Conte restammo a
paralre.
Ryo: < Conte, sappiamo chi ha preso la Corona del Drago, l’operaio magro, quello che si è calato
nella grotta.>
Bullent: < TROVIAMOLO !!!!>
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CAPITOLO 23
Barajul Vidraru
L’8 Maggio finalmente potemmo partire dal palazzo Poenari, per andare Barajul Vidraru, la
distanza era poca, ma eravamo una carovana di persone, mezzi e oggetti di ogni genere, e si doveva
procedere a passo lento. Partiti alle ore 06:00 del mattino arrivammo alle ore 09:00, subito
spianammo una zona a 100 metri dal lago, pulita da erbacce, sassi e ciarpame vario, iniziammo a
procedere come da schema. Al centro montammo la tenda logistica di colore blu, dentro mettemmo
sedie, tavoli, monitor, computer, radio, cartine satellitari. Accanto montammo la tenda cucina di
colore marrone, serviva come dispensa e luogo per cucinare. Tre tende verdi per la zona notte,
mettemmo dentro materassi, reti, luci, scaffali per i borsoni. In fondo alla fine delle tende c’erano i
bagni e le docce. Creammo un perimetro, un quadrato di 60 metri per 60 metri, dietro le tende a una
distanza di 20metri montammo il gruppo elettrogeno e un deposito per il carburante. Poi piantammo
dei pali a terra e gli montammo delle luci a LED molto potenti, tra palo e palo montammo una rete
con filo spinato in cima che cingeva il perimetro. I mezzi erano vicino all’ingresso, messi pronti
all’uso. Creammo uno seconda uscita verso il lago e anche una strada praticabile per fare scendere
al lago il gommone con tutto il carrello. Infine creammo una connessione internet, per essere
collegati con il Palazzo, ma in generale con il mondo.
Giorno 9 Maggio, indossammo le mute, mettemmo le attrezzature nel gommone, inserimmo il
motore fuori bordo e partimmo in perlustrazione, eravamo io, Mike, Kaled, Carl, Sophina, e 4
uomini del Conte. L’acqua era verdastra, la visibilità era di 4 o 5 metri, questo significava
immergersi e andare a tentoni sulla parete, e così facemmo. Ci buttammo in acqua, bardati di
bombole, pinne, maschera, io avevo portato un coltello da sub da 20 centimetri attaccato alla coscia
e un orologio professionale impermeabile, eravamo 7 in acqua e uno che rimaneva nel gommone.
Procedevamo lungo il profilo del lago, cercando di smuovere il meno possibile l’acqua, ogni colpo
di pinna spargeva una ventata di mucillaggine dal fondale, comunque non si vedevano ingressi,
fessure, o incrinature. Quando eravamo a ¾ di percorso, notai una specie di scivola naturale che
dall’acqua saliva fino alla boscaglia che circondava il lago, non era naturale, c’era la mano del
l’uomo, il fondale era pieno di ciottoli e di materiale di risulta, ma ricoperto da uno strato pesante di
mucillagine che si era depositato in decenni o forse in più tempo. Guardai nella direzione della
scivola dall’ingresso in acqua verso le profondità, ma non proseguiva dritto, deviava sulla sinistra
verso una parete verticale, lì vidi una scritta, anzi una lettera parzialmente coperta, era una P
stilizzata, sotto di essa c’era una specie d’ingresso, ma era tutto chiuso da massi di diverse misure.
Allora cercai istintivamente, di togliere quelle pietre, quelle piccole si spostavano, ma alcune grandi
pesavano oltre il quintale, feci segno ai ragazzi di darmi una mano, e ne spostammo un paio, poi
altre tre e così via, fino a quando s’intravide un vuoto dietro le macerie.
Sbancammo completamente l’apertura, aspettammo che la polvere si depositasse sul fondo,
prendemmo le torce subacquee e le puntammo in questa specie di galleria di forma cilindrica, presi
un rotolo di corda gialla e attaccai un capo all’ingresso della galleria e l’iniziai a srotolare come il
filo di Arianna, entrando sempre più in profondità in quel tunnel sconosciuto. Le pareti erano
perfettamente circolari, si vedevano ancora i segni dei scalpelli che incidevano la roccia, andando
avanti la luce inquadrò qualcosa, erano delle grate di ferro massiccio corrose dal tempo, ma si
ergevano ad ostacolo tra noi e quello che si trovava oltre. C’era un lucchetto con serratura, ma era
totalmente ossidato, ci volevano sistemi più drastici per farci strada, tornammo fuori e presi un
oggetto dal gommone, era una fiamma ossidrica ad acetilene, quello che mi serviva, era solo una
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piccola impresa portare il bombolone fino alle grate. Ci volle un’ora, ma alla fine arrivammo alle
grate, accesi la fiamma e incominciai il delicato compito di rimozione delle massicce parti di ferro,
pezzo dopo pezzo, veniva staccato e trasportato fuori dalla galleria, fino a quando non rimasero solo
i cardini alle pareti. Diedi istruzioni di riportare la fiamma ossidrica fuori dalla galleria e rimetterla
sul gommone, io invece entrai ancora più in profondità nella galleria, e la luce inquadrò delle scale
che tendevano a salire, vidi che uscivano dall’acqua, seguii l’andamento della scala fino a quando
non emerse la mia testa dalla superficie, feci luce con la torcia, eravamo dentro una grotta, mi tolsi
le pinne ed uscii dall’acqua.
Una volta che tutti e sette erano saliti in superficie, guardai bene la struttura della grotta, era di
forma circolare, il tetto era in alcuni punti basso ad altezza uomo, in altri punti era alto oltre i 4
metri, poi vidi quello che volevo vedere, dalla parte opposta rispetto alle scale d’ingresso, c’erano
altre scale che questa volta scendevano, alla fine delle scale c’era una specie di pianerottolo e sulla
sinistra una porta di legno massiccio con rinforzature in ferro come quella vista al palazzo Poenari
nei sotterranei, non c’era bisogno comunque di forzarla, era talmente presa di umidità che il legno
con una leggera spinta sbriciolò, chiesi alla squadra di aiutarmi a togliere la porta perché le parti in
ferro erano davvero pesanti. Tolta la porta feci luce per vedere cosa c’era oltre, e un sorriso infinito
mi si stampò in faccia e dissi: < Signore e Signori vi presento il tesoro dei Poenari!!!>
Il tesoro del Cavaliere, era contenuto in quella porzione semicircolare di grotta, c’era di tutto, decisi
di fare delle foto con la fotocamera subacquea e d’iniziare da subito a fare un inventario di tutto
quello che era presente in quel luogo. C’erano 4 armature complete, di forme ed epoche diverse,
forse anche per usi diversi, due erano più pesanti e due erano più leggere. C’erano diversi tipi di
armi, spade, daghe, pugnali, alabarde, doppie alabarde, lance, tridenti, reti di maglia di metallo,
clave, mazze chiodate, archi piccoli e grandi, balestre piccole e grandi. C’erano 3 grossi otri di
terracotta, la prima era piena di monete d’argento con il conio della famiglia reale, la seconda otre
era piena di pietre preziose, di ogni colore forma e dimensione, nella terza otre c’erano delle rune,
come quelle della grotta del drago, ma più piccole e più levigate, dovevano rappresentare tutta la
conoscenza del casato, c’erano altre cose sparse, come statue e drappi colorati,ma non erano il caso
di toccarli, si sarebbero rovinati come la porta d’ingresso.
Divisi la squadra in 4 gruppi, io sarei ritornato al Campo 1 insieme al guidatore del gommone, Carl
e Sophina rimanevano lì per fare un inventario dettagliato, Mike e un’altra guardia dovevano fare
rifornimento di ossigeno e batterie per le torce, Kaled e l’ultima guardia dovevano trovare un
percorso alternativo dallo scivolo fuori dalla grotta al Campo 1.
Io risalì le scale, arrivai alla grotta principale, mi rimisi l’attrezzatura da sub e rifeci il percorso a
ritroso fino ad uscire dalla galleria, uscito dalla galleria, risalii sul gommone e ordinai di riportarmi
al Campo 1. Al campo uno andai a togliermi la muta e mi misi dei vestiti normali, dopodiché andai
in sala logistica per informare il Conte del successo ottenuto, e per dirgli che avevo bisogno di più
uomini e più mezzi per trasportare il tesoro, perché quello che avevamo qui, non bastava per tutto. Il
Conte al telefono scoppio in una risata fragorosa, doveva essere al settimo cielo, mi disse che se
fosse occorso si sarebbe messo lui stesso a fare il facchino per trasportare quei oggetti, io risi a mia
volta pensando nella mia testa come sarebbe stata quella scena.
Dopo circa 1 ora arrivò un altro camion con 8 uomini nel cassone posteriore e davanti c’era
un’autista e Aya, che si precipitò nella mia direzione.
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Aya: < Non mi aspettavo un ritrovamento così rapido, lei è un vero professionista, ora ho capito
perché Bullent parla così bene di lei, ed è dovuto arrivare lui di persona fino a New York per
convincerla a venire qui>
Ryo: < Pura fortuna, i miei uomini sono tutti operativi in vari settori, mi raccomando, non voglio
altri magrolini che rubino oggetti da svariati milioni di dollari!!! Ho bisogno di creare due percorsi,
uno dal Campo 1 alla Grotta del Cavaliere, via terra, perché ho bisogno di avere il gommone per
andare alla ricerca del secondo tesoro, e poi il gommone non potrebbe mai portare tutto quel peso,
neanche in 10 viaggi. Il secondo percorso è dal Campo 1 al Campo 2 ad Arges.>
Aya: < Non c’è bisogno che me lo diceva, la sorveglianza sarà serratissima. I percorsi, se non ci
sono, ci saranno a breve. Non vedo l’ora di portare il tesoro a palazzo e poterlo esaminare.>
Ryo: < Credo che debba iniziare dall’otre numero 3, contiene delle rune incise, credo ci sia tutta la
storia del vostro popolo dalle origini a circa due secoli fa>.
Aya mi abbracciò fortissimo, quasi a stritolarmi le ossa, era molto forte, per fortuna che le avevo
dato una grossa gioia, se no mi avrebbe ucciso. Tornai indietro al gommone e mi rifeci riportare alla
Grotta del Cavaliere. Lì c’era Mike in attesa delle forniture di ossigeno e batterie, gli dissi una volta
finito il cambio, di tornare anche lui al Campo 1 a riposarsi, poi doveva tornare qui per portare
gl’imballaggi impermeabili della Vogan, per trasportare il tesoro. Mentre dicevo questo, sentii
l’urlo di Kaled provenire dalla scivola in pietra, feci accostare il gommone e scesi atterra.
Ryo: < Allora?>
Kaled: < La scivola arriva a quei alberi, dietro gli alberi c’e un canneto lungo 10 metri, dietro il
canneto c’è una specie di sentiero che costeggia tutto il lago, se lo sistemiamo, possiamo utilizzarlo
come percorso verso il Campo 1.>
Ryo: < perfetto era quello che ti volevo sentire dire. Ora dai il cambio a Carl e a Sophina, poi torna
al cambio turno al Campo 1 che dobbiamo prepararci per il Campo 2>
Kaled: < di già? Va bene. Allora farò così>
Io feci salire Mike e Sophina nel gommone e li portai al Campo 1. Dopo di che, mi misi in sala
logistica per imbastire un piano per il giorno dopo. Da fuori si sentivano voci e rumori vari, di gente
che lavorava per il Conte, ma che in pratica prendevano tutti ordini da me, e la cosa mi faceva molta
paura. In pochissimo tempo ero diventato un pezzo grosso, la gente là fuori mi idolatrava, ma a me
non importava niente, ne dei soldi, ne del potere, li consideravo solo come dei strumenti a mio
favore.
Giorno 10 Maggio fu dedicato tutto alla creazione del percorso dal Campo 1 alla Grotta del
Cavaliere e al trasporto del tesoro dalla Grotta alla scivola di pietra. Un lavoro laborioso, perché
quel percorso non veniva utilizzato da due secoli, e l’acqua del lago della galleria, impediva un
facile e rapido spostamento di quei oggetti d’arte, indipendentemente dagl’imballaggi fatti su
misura per l’operazione.
Finalmente giorno 11, tutto il tesoro fu estratto dalla Grotta del Cavaliere, e fu portato al Campo 1.
Lì il tesoro fu ulteriormente schedato, oggetto per oggetto, con la supervisione mia, di Aya, Sophina
e Carl. Mike e Kaled, stavano preparando il gommone, per la trasferta Arges. 2 giorni di ritardo
rispetto allo schema che avevo previsto, ero arrabbiato, altre persone potevano essere già sul posto.
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CAPITOLO 24
Arges
Martedì 12 Maggio ci dividemmo in due gruppi, Aya e Carl si occupavano del trasporto in
sicurezza del tesoro del Cavaliere dal Campo 1 al Palazzo Poenari. Io, Mike, Kaled, Sophina e 4
guardie del Conte, partimmo con il Gommone per Agers. Non c’erano strade conosciute che
portavano in quel posto, e la risalita con il gommone ci permetteva, sia di arrivare velocemente e sia
potevamo guardare con una prospettiva migliore, tutto il bordo del lago. Quando arrivammo nella
zona, abbassammo il motore al minimo, tutti eravamo in allerta, guardavamo ogni masso, ogni
albero, ogni insenatura, non ci doveva sfuggire nulla. Mike, che guardava nella direzione opposta
alla mia, mi strattonò la muta da sub e mi fece guardare nella sua direzione indicandomi una scivola
di pietra che scendeva in acqua e dei binari in ferro con delle travi in legno messe di traverso,
sembravano proseguire in due direzioni, una era sotto il pelo dell’acqua e l’altra da sopra la scivola
scompariva nella boscaglia retrostante.
Ci avvicinammo con cautela, sbarcammo solo io e Kaled, andammo a vedere cosa c’era al di là
della boscaglia. C’era un canneto di circa di dieci metri, e al centro di esso c’era una spianata dove
finivano i binari e iniziavano tracce di pneumatici di un camion, che portavano fuori dal canneto e
da lì in una vecchia strada sterrata in disuso, ma utilizzata di recente. Ritornammo alla scivola,
comunicai con il Campo 1 diedi la posizione di quello che sarebbe stato il Campo 2, chiusi la
comunicazione. Dissi a 2 guardie di rimanere lì, una per la guida del gommone e una per le
comunicazioni, che in questi casi erano fondamentali, poi la restante parte delle guardie indossò
l’attrezzatura da sub e tutti ci immergemmo in acqua.
L’ingresso della Grotta del Tesoro dei Poenari, si presentava come quella del Cavaliere, anch’essa
aveva una P stilizzata sopra l’ingresso, l’ingresso era un po’ più largo, qui le macerie che
bloccavano l’ingresso erano state fatte saltare in aria con la dinamite o qualcosa di simile. La
galleria era molto buia e confidavo nel mio filo giallo da srotolare, più per scaramanzia che per
efficacia, infatti era tutto dritto, non c’erano altri percorsi da seguire, la torcia illuminò i resti di una
grata in ferro, anche qui fatta esplodere, ma con delle mini cariche localizzate, per fare crollare la
galleria.
Appena superai la grata, una luce abbagliante mi accecò, proveniva davanti a me, poi mi sentii
toccare e tirare giù, qualcosa mi aveva afferrato e mi voleva strappare l’erogatore dell’ossigeno, io
d’istinto scalciai e mi dimenai per liberarmi dalla presa ma non ci riuscivo. Allora mi venne in
mente l’unica cosa da fare, con la mano presi il coltello da sub legato nella coscia e l’infilai dove
credevo ci fosse quella cosa, colpì e ricolpì ripetutamente, fino a quando la presa di ciò che mi stata
afferrando non diminuì, allora mi liberai e a tentoni cercai il filo, lo trovai, e lo segui nuotando alla
massima velocità senza vedere dove andassi. Solo quando ritornai in superficie fuori dalla galleria
mi fermai, sentì delle urla, c’era qualcuno che mi tirava fuori dall’acqua e mi chiedevano come
stavo. Pian piano, ripresi l’uso della vista, Mike mi tastava per vedere dove fossi ferito, ero
completamente cosparso di sangue, ma non avevo ferite, allora Mike guardò Kaled senza parlare,
presero le armi e si tuffarono nel lago ed entrarono nella galleria. Passarono un paio di minuti, poi si
sentirono delle detonazioni attutite dall’acqua, altri minuti di silenzio, poi delle bolle d’aria, seguite
da Kaled e Mike che trascinavano 3 corpi sulla scivola di pietra.
Volli scendere a terra per esaminare la cosa, tre uomini in muta, due crivellati di colpi, il terzo
aveva diversi squarci profondi sul lato destro del tronco, aveva anche il mio coltello piantato su i
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suoi reni. Erano di carnagione bianca, dall’aspetto sembrava gente dell’est Europa, tutti e tre
avevano lo stesso tatuaggio, un cerchio fatto di stelle con al centro una falce.
Ryo: < Mike, Kaled, ce ne sono altri dentro?>
Mike: < No, galleria e grotta sono puliti, c’è una porta di legno come dal Cavaliere, non l’abbiamo
aperta.>
Ryo: < Capito. Tu rimani qui con gli uomini, io, Kaled e Sophina entreremo nella grotta. Chiama
Campo 1 per dirgli solamente il ritrovamento della grotta. I tre cadaveri facciamoli sparire per ora,
potremmo avere visite e questa volta non vogliamo farci trovare impreparati. Metti tre uomini sulla
riva, tu stai sul gommone con una guardia.>
Mike: < Ok. Ricevuto.>
Riscendemmo in acqua e ripercorsi quella galleria, ora ancora più spaventosa ai miei occhi, sul
fondo vicino alle grate c’era una grossa torcia, sicuramente di quel uomo che mi aveva abbagliato.
Proseguì, fino ad una scala in salita, uscii fuori dall’acqua e mi trovai in una grande caverna, molto
più ampia rispetto a quella del Cavaliere, il tetto era a volta, si vedevano delle stalattiti che
scendevano in verticale, era puntute e fatte di calcare bianco giallognolo. Anche qui c’era una scala
in discesa, e anche qui c’era una porta in legno massiccio, ma questa volta era già aperta, era solo
accostata, allora l’aprii, e illuminai quella stanza. Era un’altra grotta, molto grande, al centro
c’erano dei secchielli e palette moderne, ovviamente quelle persone erano arrivati fino a qui, si
vedeva il segno a terra della mancanza di oggetti che non si erano spostati per secoli e ora non
c’erano più. Il resto della stanza era intatto, probabilmente avevano potuto fare uno al massimo due
carichi di oggetti del tesoro.
Ryo: < Sophina, tu fotografa e fai un inventario di tutto ciò che vedi. Io e Kaled, torniamo in
superficie e aspettiamo i nostri nuovi amici che ci vengano a trovare.>
Senza altre parole, facemmo il percorso inverso per tornare alla scivola. Mandai solo un uomo ad
aiutare Sophina nella grotta, e mantenni un uomo sul gommone. Il resto della squadra rimase a
terra, tutti armati, in attesa dei ladri, e ricordai che almeno uno doveva rimanere vivo, per poterci
dire dove avevano nascosto la parte del tesoro che avevano già portato via.
L’attesa non fu lunga, dopo circa ¾ d’ora si sentì il rumore di un grosso camion, era tutto nero, con
i vetri oscurati, probabilmente blindato. Non potevamo sapere quante persone ci fossero dentro e
come erano armati, quindi la tattica era aspettare che scendessero, fargli un agguato nel canneto,
sparare alle ruote del camion, e così facemmo. Tutto fu rapidissimo e spietato, Kaled e Mike, con
una doppia falciata di mitra fecero fuori sei persone in pochi secondi, io sparai alle gomme, ne presi
una in pieno, l’autista volle comunque provare a scappare, ma dopo pochi metri il camion si arenò
in una duna di fianco alla strada sterrata. Gli puntai la pistola addosso, lui alzo le mani, poi si buttò
a terra in segno di resa, arrivò una guardia e gli strinse le mani dietro la schiena e gli mise una
fascetta di plastica come fossero delle manette.
A quel punto i morti erano 9, avevamo un ostaggio e gli chiedemmo in maniera non proprio
delicata, dove si trovava il deposito del tesoro, ma lui non aprì bocca.
Ryo: < Te lo chiedo, per la prima e ultima volta: Dov’è il deposito del tesoro? Quanti siete? Di che
gruppo fate parte?>
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Mi arrabbiai, ero furioso, un’ora fa stavo per morire, e non accettavo un silenzio come risposta.
Presi il mio coltello che avevo estratto dal cadavere, e lo mostrai a quel uomo, lui vide il sangue
raggrinzito sulla lama, poi vide me, che giravo dietro di lui, presi le sue mani legate, e gli tagliai il
pollice sinistro, lui buttò un urlo disumano, disperato, capiva che la sua morte era vicina.
Kirkoff: < Mi chiamo, Andrea Kirkoff, sono di San Pietroburgo, faccio parte della setta Temhota, la
parte del tesoro trafugata si trova a Leopoli in Ucraina, ogni camion fa un solo viaggio, ne abbiamo
tanti, ogni viaggio un equipaggio diverso, la prego non mi uccida!!!>
Presi il mio coltello e glielo conficcai nella gola per tutta la lunghezza della lama, la sua bocca
gorgogliò qualcosa d’indefinito, poi cadde a terra privo di vita, con il sangue che sgorgava come un
fiume dalla sua ferita.
Tutti mi guardarono con espressione di terrore, solo allora mi resi di cosa avevo fatto, mi allontanai
e mi misi a vomitare l’anima, poi piansi fino a che avevo lacrime. Cosa mi era successo? Quello
non ero io!!!
Ritornai lucido, ritornai dalla squadra e diedi gli ordini:
Ryo: < Togliete tutti i corpi, tutto il sangue e anche il camion, qui deve essere come se ci fossimo
stati solo noi. Fatto questo chiamiamo il comando, informiamo solo che una parte del tesoro è stata
trafugata. Facciamo venire una squadra dal Campo 1 per recuperare la restante parte. Io devo
parlare con Sophina.>
Sophina fu fatta uscire dalla grotta e portata in un luogo appartato oltre il canneto in modo da poter
parlare in tranquillità.
Ryo: < Sophina, qui la situazione è grave, ci sono stati dei morti, parte del tesoro è stato rubato,
probabilmente c’è una Talpa>
Sophina: < Tu sei intelligente, dimmi cosa possiamo fare.>
Ryo: < 1) Qui non c’è stato mai un omicidio, qui c’eravamo solo noi, questo è quello che devi dire
alle guardie, non devono riferire una parola a nessuno. 2) Forse so dov’è la parte del tesoro
trafugata, quindi io e i miei dovremo partire per andarlo a recuperare. 3) Quando ritorniamo al
Campo 1 sarai tu ha cercare la Talpa, io sarò distante non lo potrò fare. Tutto chiaro?>
Sophina: < Si tutto chiaro, farò come dici tu, mi fido delle tua parola, anche se parli malissimo il
rumeno>
I corpi, il sangue, il camion e qualunque traccia di persone estranee era sparita. Venne la squadra di
rinforzo secondo l’itinerario che gli aveva riferito Kaled. Si allestì il Campo 2, dall’altra parte
rispetto al canneto era l’unico spazio libero, per un simile dispiegamento di forze. Coordinati i
lavori, la squadra si radunò sulla scivola di pietra, salì nel gommone, e tornò al Campo 1. Lì ad
aspettarmi c’erano Aya e Carl, che volevano sapere com’era andata, e io gli diedi la mia versione
concordata con il gruppo di Arges, loro furono dispiaciuti, per la parte di tesoro trafugato, ma erano
contenti che la maggior parte era rimasta al suo posto, e a breve sarebbe stato fatto il trasbordo,
dalla Caverna del Tesoro dei Poenari, al Campo 2, dal Campo 2 al Campo 1 e infine al Palazzo
Poenari.
Mi tolsi la muta da sub, mi andai a fare una doccia, sentivo ancora l’odore del sangue sulla mia
pelle.
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PARTE V
Leopoli
CAPITOLO 25
La Parigi dell’est.
Leopoli, o Lviv in ucraino, è l’ultima perla sconosciuta d’Europa, nota anche come la “piccola
Parigi dell’est”. La Città, fondata nel 1256, è un vero museo a cielo aperto che ha saputo
salvaguardare e mantenere intatta la sua architettura e il suo antico fascino. A Leopoli si vive
un’atmosfera rilassata e passeggiare per il centro storico porta indietro nel tempo. Impreziosita da
magnifici monumenti architettonici, numerosi templi, antiche piazze e ben sessanta musei, Leopoli
è una meta turistica estremamente attraente, qui sono presenti più delle metà dei monumenti
dell’intero paese, infatti, il suo centro storico è stato nominato patrimonio mondiale dell’Unesco, e
dal 2009 la città è stata proclamata capitale culturale dell’Ucraina. La Ploshcha Rynok, l’antica
piazza del mercato, è ancora oggi il cuore pulsante della città, qui si respira un clima cosmopolita e
multietnico. Numerosi edifici in stile Belle Époque padroneggiano per tutto il centro storico, primo
fra tutti il Teatro dell’Opera, un vero gioiello architettonico in stile neo-rinascimentale è un dei
teatri più belli d’Europa. Inaugurato nel 1901, offre ancora oggi spettacoli di altissimo livello. Il
punto più alto della città è l’Alto Castello (Vysokyi Zamok) da dove è possibile godere una vista
straordinaria e pittoresca del centro storico.
Era la mattina di Giovedì 14 Maggio, eravamo arrivati il mercoledì notte, in elicottero, dal palazzo
Poenari e atterrati direttamente, nel parcheggio di una scuola chiusa di Leopoli, avevamo portato
solo lo stretto necessario, cioè cibo per due giorni e armi per fare la terza guerra mondiale. La
squadra era composta da me, Kaled, Mike, Carl, 4 Guardie del Conte che erano stati con noi ad
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Arges, e Navlata la terza moglie del Conte, che sostituiva Sophina, che era rimasta al Campo 1 per
monitorare la situazione.
La scuola era stata comprata dal Conte, per darci una base operativa tranquilla. Non potevamo
scendere in piena notte da un elicottero in pieno centro storico, con svariate armi d’assalto, senza
dare nell’occhio, era si una città multietnica, ma quello era eccessivo ovunque. La scuola era
decentrata dalla zona principale, ma non distante, era abbastanza isolata, ma non tanto da fare
incuriosire la gente locale per 9 stranieri che passeggiavano tutti assieme. Creammo la nostra base
operativa nella palestra, per forma assomigliava al Campo 1 a Barajul Vidraru, ma di dimensioni
più ridotte. Mike si occupò del campo base, Kaled uscì in perlustrazione e per fare rifornimenti, io e
Carl iniziavamo ad allestire un piano operativo.
Dovevamo lavorare su più fronti, quello del Tesoro dei Poenari rubato, e quello della della Corona
del Drago, entrambe le piste portavano in Ucraina e precisamente a Leopoli. La ditta che faceva il
restauro della Fortezza era di qui, come i suoi operai, si chiamava Empio Incorporated, aveva la
sede amministrativa nel centro storico, mentre la sede effettiva con materiali e mezzi si trovava in
periferia, nella zona industriale. Quindi prima cosa da fare, era andare negli uffici e verificare chi
erano gli operai e poi andare a stanarli nel luogo di lavoro. Kaled tornò con un auto e delle
provviste, gli dissi di non entrare la macchina, ma lasciarla pronta per uscire. Avvisai Mike che
doveva prepararsi a guidare, poi andai da Navlata e gli dissi di vestirsi da sfilata, perché si andava a
fare shopping, lei all’inizio non capì, poi capì, mi sorrise e si andò a cambiare.
Alle ore 10:30 eravamo sulla piazza principale, io indossavo le mie scarpe nonno special original e
il vestito a giorno che avevo comprato nella City, Navlata indossava un vestito nero, senza maniche,
che gli arriva a metà coscia, scarpe con il tacco, e una bella dose di trucco per nascondere il suo
bellissimo pallore spettrale. Prima andammo agl’uffici della Empio, non si aspettavano visite,
parlammo con il direttore delle risorse umane, che da subito era recalcitrante a dare informazioni
dei dipendenti a perfetti sconosciuti, ma con una buona mazzetta da 500€, ci disse tutto, e se non ce
ne andavamo, ci avrebbe raccontato la storia della sua vita. Una volta saputi, nomi e cognomi, orari
e luogo di lavoro, avevamo ancora un po’ di tempo libero, e così andammo a fare shopping sfrenato,
non erano molte le occasioni per spendere i soldi che mi ero guadagnato, ne prendevo 1000 e ne
spendevo 10 o forse di meno.
Si fece ora di pranzo e indagammo dove andare. La città oltre per le sue bellezze architettoniche, è
famosa anche per le sue prelibatezze culinarie, qui infatti si può assaggiare un caffè dal singolare
aroma e sapore, le tradizioni del caffè a Leopoli risalgono al XVII secolo e si sono conservate nel
tempo, il caffè è così importante per gl’ucraini tant’è che ogni anno si celebra il festival del caffè,
unico nel suo genere. Passeggiando per le romantiche vie della città, io e Navy, era impossibile non
notare le numerose pasticcerie, veri artigiani e professionisti del cioccolato, che ci deliziarono il
palato.
Successivamente andammo a visitare il Primo Museo della Birra dell’Ucraina, il Lvivarnya, dove
erano conservate le antiche ricette risalenti al XV secolo che evidenziavano la leggendaria
tradizione birraia di Leopoli, iniziata per merito dei monaci gesuiti più di sei secoli fa. Il Museo
ospita numerose iniziative culturali tra cui esposizioni di arte contemporanea, e io mi fiondai come
una falena di notte quando vede una lampadina accesa.
Alle ore 15:45, risalimmo in auto e ritornammo alla base. Navy si andò a spogliare e farsi una
doccia negli spogliatoi femminili, io feci altrettanto nello spogliatoi maschili. Alle ore 16:30
eravamo tutti intorno al tavolo centrale, mostrai le fotocopie dei documenti d’identità degli operai
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della Empio che interessavano a noi. Oggi lavoravano tutti e 4 e il loro turno finiva alle ore 17:00,
quindi non restava che andare nell’azienda, e prelevare i simpatici lavoratori.
Kaled aveva procurato, un furgone con i vetri oscurati, grazie alle sue conoscenze. Carl e una
guardia rimasero alla scuola, mentre il resto della Squadra Arges salì a bordo. Arrivammo alle
17:00 spaccate all’ingresso dell’edificio a due piani, sotto era un casermone con tutti gl’impianti, al
piano superiore c’erano gli uffici amministrativi e commerciali. Uscimmo dalla macchina, il
cancello era aperto, c’erano 3 macchine posteggiate e un furgone all’angolo del parcheggio, non si
vedeva nessuno, uscimmo le pistole, perché la situazione era molto strana, entrammo nell’edificio, i
macchinari erano fermi e nei corridoi non si vedeva nessuno. Due guardie si misero all’ingresso, e il
resto di noi salì al piano superiore, ci mettemmo a guardare dentro le stanze, erano stanze utilizzate
da recente, c’erano ancora i cestini mezzi pieni. L’ultima stanza, che era la sala riunioni, non era
vuota, c’erano tre corpi stesi a terra, tutti uccisi da colpi di pistola, erano stati uccisi da poche ore, i
corpi erano caldi, erano gli operai della fortezza, ma mancava il Magrolino, forse li aveva uccisi lui
per non spartire il tesoro.
I cadaveri, non avevano il caratteristico tatuaggio della setta Temhota, erano solo dei poveracci che
si erano fatti raggirare nella speranza di spartirsi un tesoro, e invece erano finiti in mani terribili e
crudeli. Uscimmo nel parcheggio, e andai a guardare il furgone che era rimasto lì solitario, era
esattamente uguale a quello di Arges, aveva in più solo lo stemma della società e pensai che questi
mezzi avevano il GPS a bordo e quindi si potevano vedere i percorsi giornalieri, con gli orari di
accensione e spegnimento.
Tornammo alla base, feci una chiamata internazionale, da un numero di cellulare anonimo non
rintracciabile. Al terzo squillo, mi rispose Kim, la mia segretaria e assistente tecnica informatica,
che avevo conosciuto a New York City.
Ryo: < Ciao Kim, ti ricordi ancora di me?>
Kim: < Ryo!!!! Ma dove sei finito? Ho cercato di rintracciarti più volte, ma era come se eri sparito
dal mondo!!! Dove sei?>
Ryo: < è una lunga storia e non ho il tempo di raccontartela, mi serve un favore che solo tu puoi
fare in così breve tempo. Ti sto inviando alla tua mail,una targa, un telaio e un modello di veicolo,
con queste informazioni, puoi accedere al suo GPS e scaricare tutte le informazioni?>
Kim. < In che guaio ti sei messo? È una cosa illegale, ma si la so fare. Ti mando una mail con in
allegato tutti i file.>
Ryo: < Grazie, sei la mia salvezza e la mia speranza. Quando ci rivediamo, andremo di nuovo da
Nathan’s a ingozzarci di Hot Dog!!! Ciao, Ti Voglio Bene.>
Kim: < e mi dovrai spiegare molte cose. Ti Voglio Bene anch’io. Ciao!!!>
Finita la telefonata, accesi il computer portatile e attesi, la mail di Kim. Nell’attesa, si avvicinò a me
Navy, e mi disse una cosa che mi fece riflettere.
Navy: < Il Magrolino, come faceva a sapere che stavamo arrivando? Quello dell’ufficio sicuramente
non è stato lui ad avvisarlo, ma allora chi?>
Ryo: < Bella domanda, davvero bella domanda a cui non ti so rispondere.>
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CAPITOLO 26
Vynnykivskyi Park
Alle ore 18:57, arrivò finalmente la mail di Kim, c’erano tutti i dati e tutti i spostamenti del mezzo,
controllammo che ogni spostamento fosse giustificato, erano sempre i stessi percorsi sempre fatti
agli stessi orari, non c’erano stati incidenti, o cose rilevanti che risaltavano all’occhio. Poi a furia di
guardare dati e cartina satellitare, mi feci un’idea, abbastanza concreta, il luogo dove era depositato
il tesoro era lungo una strada percorsa abitualmente dal camion, la maggior parte delle strade era
trafficate, non si potevano spostare armature ad altezza uomo senza che nessuno se ne accorgesse.
L’unica zona tranquilla era quella che costeggiava il Parco Vynnykivskyi, ideale come scorciatoia,
e ideale come posto per scaricare materiale senza farsi notare. Guardando ancora una volta i dati mi
accorsi di un punto in cui il furgone era sempre acceso, ma restava immobile per svariati minuti, mi
segnai le coordinate e le impostai sul mio cellulare in modalità navigatore.
Dovevamo agire velocemente, prima che il Magrolino sparisse, con tesoro e corona. Alle ore 20:00,
dopo una breve cena frugale, ci mettemmo in azione. Rimasero Carl e una guardia a sorvegliare il
fortino. La squadra Arges salì sul furgone e andammo a fare questa spedizione punitiva al parco. Ci
volle circa mezz’ora per arrivare e altri 10 minuti per capire il punto preciso. Il sole era tramontato e
non potevamo accendere le torce per non fare insospettire chi le avesse viste. Trovammo un punto,
con chiare tracce di camion e delle impronte di scarpe per terra, poi vidimo delle tracce di un mezzo
più piccolo a 3 ruote, che si addentravano per una stradina. La percorremmo i silenzio in fila
indiana, dopo circa 500 metri la stradina si apriva in un piccolo spiazzale circondato da alberi di alto
fusto, qui trovammo quel mezzo di trasporto, dentro una specie di garage improvvisato. Accanto
c’era una casetta di mattoni, con il tetto fatto di pannelli ondulati, c’era una finestrella dove filtrava
una luce fioca e si sentiva il rumore di una televisione accesa.
L’attacco fu rapido e semplice, Mike sfondò con un calcio poderoso la porta di legno che si staccò
dai cardini, Kaled entrò con il mitra spianato e lo puntò alla testa del Magrolino. Il Magrolino non
ebbe il tempo di arrivare alla pistola, che fu allontana immediatamente da Navy, cercava
inutilmente di reagire in qualche modo, ma eravamo troppi contro lui da solo, lo capì e non tentò di
fare mosse azzardate.
Gli furono legate le mani dietro la schiena e fatto sedere su una sedia con lo schienale appoggiato al
muro di mattoni. Dissi a Navy e alle guardie di controllare il perimetro, in cerca del tesoro o altre
persone nascoste, nel frattempo io, Mike e Kaled ci dedicammo ad interrogare il Magrolino.
Ryo: < I ragazzi stanno cercando qua fuori il tesoro, e se c’è lo troveranno. Voglio sapere un po’ di
cose da te, ti prego di non mentirmi e farmi perdere tempo, sono le due cose che mi danno più
fastidio. 1) Dov’è il tesoro? 2) Chi ti ha fatto la soffiata alla Empio? 3) Che cosa è la setta
Temhota?>
Magrolino: < Non vi dico un cazzo, non faccio dei favori ai Fulminati!!!>
Io mi avvicinai e gli piantai il mio coltello da sub nella coscia, lui lo vide solo all’ultimo secondo,
urlò come un agnellino sgozzato. Presi una sedia e mi misi accanto a lui, poi girai il coltello nella
ferita, per provocargli più dolore. Navy sentito l’urlo si affacciò alla porta, ma fu subito respinta da
Mike.
Ryo: < Noi saremmo i Fulminati? E voi chi siete? Rispondi o morirai dissanguato!!!>
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Magrolino: < Noi siamo la forza che governa il mondo, noi siamo quelli che stermineranno
gl’illuminati, noi siamo i Temhota, noi siamo l’oscurità!!! La vostra Corona del Drago non la
troverete, ormai è andata da un pezzo, ce l’hanno i miei capi, forse se v’impegnate troverete la parte
del tesoro che abbiamo portato via, siete arrivati troppo presto, avreste dovuto trovare solo una
caverna vuota!!!!>
Ryo: < Capito, la corona ce l’hanno i tuoi capi, e la parte del tesoro è qui attorno, la troveremo con
o senza il tuo aiuto. Ora manca solo una risposta ad una mia domanda precisa, chi è la Talpa?>
Magrolino: < Non lo so come si chiama, non l’ho mai incontrato di persona, fa parte della setta, ho
sentito una volta, che lo chiamavano l’ucraino italiano, ma non so il perché>
Ryo: < Mi hai dato una bruttissima notizia, ma ti ringrazio ugualmente, per la tua sincerità.>
Mi alzai lentamente, poi in un attimo estrassi il coltello dalla coscia insanguinata, e gli infilzai il
cuore, in un attimo la sua espressione passò da stupita a persa nel vuoto, era morto, era diventato un
pezzo di carne inutile.
Estrassi il coltello dal corpo e andai a pulirlo con l’acqua corrente insieme alle mie mani
completamente insanguinate. Poi diedi ordine a Kaled di ripulire la scena, dovevamo andarcene
velocemente, la talpa, il traditore stava a casa nostra.
Uscii dalla casetta e vidi Navy che mi guardava fissa, come per dirmi cosa hai fatto? Ma non avevo
ne tempo e ne voglia di rispondere a quelle domande. Appena Kaled si liberò del corpo e pulito il
sangue, ce ne andammo di corsa al furgone, nessuno disse niente, c’era solo il rombo del motore.
Arrivati alla scuola, scendemmo nel parcheggio, mancava la macchina e la porta principale della
scuola era aperta, questo era un cattivo segno, ed infatti arrivati alla palestra trovammo il corpo
della guardia morta, sparata alla schiena due volte, non c’era traccia di Carl, aveva capito che stava
per essere scoperto ed era scappato alla prima occasione.
Prendemmo un lenzuolo e coprimmo il corpo della guardia, mi dispiaceva per lui, anche se non
sapevo il suo nome, si era comportato bene ad Arges, un vero soldato, ma queste cose facevano
male al morale. Mangiammo qualcosa di malavoglia, ci demmo una pulita e ci coricammo senza
dire una parola.
L’indomani mattina ritornammo alla casetta vicino al parco e cercammo il tesoro in tutta la zona,
che sembrava tutta la stessa, erba verde fino al ginocchio e qualche albero a delimitare i confini del
parco, ogni tanto si sentiva qualche rumore in lontananza che proveniva dalla strada principale
sterrata, ma niente di pericoloso. Poi mi venne l’illuminazione. L’erba era alta e verde, non poteva
aver scavato una buca senza fare morire le piante di sopra, quindi stavamo cercando nel posto
sbagliato. Doveva essere un posto vicino, il Magrolino non poteva portare tanto peso per lunghe
distanze, quindi era un posto vicino alla casetta. Presi il mezzo a tre ruote e lo spinsi all’indietro al
centro del cortile, poi guardai il capanno e vidi che a terra c’era un pannello di legno, messo li da
poco, lo sollevai. Sotto c’era una stanza, forse all’origine era una cisterna per l’acqua piovana, ma
non m’importava, avevamo trovato il Tesoro dei Poenari e lo mostrai ai ragazzi.
Il giorno fu dedicato interamente al trasporto del tesoro dalla casetta, al furgone, dal furgone
all’elicottero, poi il viaggio fino al palazzo Poenari per fare lo scarico. Dopo di che doveva ritornare
indietro, e fare un secondo viaggio per la seconda parte del tesoro. Infine il terzo viaggio fino alla
scuola, dove tutti eravamo stravolti dalla fatica, e arrabbiati per la fuga vigliacca di Carl.
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CAPITOLO 27
La scrivania
Sabato 16 Maggio, il cadavere di Teofilo Parnassus, così si chiamava la Guardia del Conte, ucciso
da Carl Shevcenko, faceva ritorno a casa in elicottero guidato da Mike e accompagnato da Lavlata.
Io, Kaled e le altre Guardie del Conte, dovevamo rimanere a Leopoli, la missione non era finita, era
arrivata una chiamata dal Commendatore Calogero Platania, il Boss, che mi comunicava che il
bonifico da 1000000 $ era stato accreditato sul conto principale della Printer, e che dopo poco era
stato fatto un bonifico di 250000 $ sul mio conto, inoltre si dispiaceva per la guardia morta in
servizio a causa di un suo “ex” dipendente, ma era prioritario trovare la Corona del Drago, c’erano
in ballo un altro milione di dollari e soprattutto l’affiliazione del Conte Poenari. Finita questa
chiamata ne feci una io, a Firenze, chiamavo Yuki Amato.
Ryo: < Pronto Yuki?, sono io, ti devo parlare.>
Yuki: < Unge!!! Sei vivo? Ma cosa succede, ho parlato con la tua segretaria a New York, non mi
sapeva dire dov’eri e che cosa facevi…>
Ryo: <…Yuki non ho molto tempo, ti devo fare alcune domande importanti. Ti ricordi di Carl
Shevcenko il damerino del test d’inglese? Cosa sai di lui?>
Yuki: < Di Carl? Non capisco questa domanda. Carl abita a Firenze, ha circa 40 anni, sposato e ha
due figli, un maschio e una femmina, fa il tecnico aziendale per la Printer.>
Ryo: < Ok, ma intendevo, se conoscevi qualcosa del suo passato, della sua famiglia di origine, so
che ha origine ucraine, mi sai dire qualcosa di più?>
Yuki: < Si lui è ucraino di nascita, ma dai 10 anni in poi si era trasferito con la famiglia in Italia, i
suoi genitori sono morti anni fa, gli è rimasta solo una sorella che si chiama Irina, l’ho conosciuta
per un party aziendale, anche lei è nel settore dell’arte, ma è tornata in Ucraina, che io sappia vive e
lavora lì. Ma a cosa ti servono queste informazioni? Sei in qualche guaio?>
Ryo: < Io no, ma Carl sicuramente si, doveva farmi da traduttore in Romania per un lavoro con la
Printer, ma si è buttato latitante, e il Commenda mi sa che lo vuole licenziare, quando lo troveremo,
capito?>
Yuki: < Ho capito, stai andando avanti a gesti e con il telefono i gesti non si vedono, brutta
situazione.>
Ryo: < Grazie Yuki per le informazioni, tenterò di rintracciare Carl in qualche modo, non dire a
nessuno che ci siamo sentiti, questa è una conversazione assolutamente privata. Mi farò sentire
appena si sbloccheranno le cose. Ciao Yuki!!!>
Yuki: < Ciao Unge, mi raccomando non fare troppe cazzate, che qui c’è gente che tiene a te.>
Chiusa la conversazione con Yuki, feci un’altra chiamata, a Kim a New York. Non ricordavo bene
il fusorario, non sapevo che ore erano lì, il telefono squillò per un bel po’, poi finalmente mi
rispose.
Ryo: < Ciao Kim, disturbo?>
Kim: < Ryo!!! Ma quanti telefoni hai? Non stavo rispondendo. Dimmi, cosa ti serve?>
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Ryo: < Devi fare una ricerca su una persona, si chiama Irina Shevcenko, ha circa 38 anni, nata a
Leopoli in Ucraina, fa la commerciante d’arte. Mi serve tutto quello che sai su di lei, per questioni
di lavoro, è urgente, appena hai tutto me la mandi alla mia mail, ok?>
Kim: < Cosa faresti senza di me? Vedo quello che trovo e te lo mando. Mi raccomando la prossima
volta chiamami da un altro cellulare ancora, così sarai certo che non ti risponderò. Ciao pazzo!!!>
Finita anche questa chiamata, non mi restava che aspettare la mail di Kim, e il ritorno di Mike e
Navy dalla Romania. Ma io come sempre non riuscivo a stare fermo e allora visto che ci trovavamo
dentro una palestra, proposi una partita a basket 2 contro 3, io e Kaled contro le tre guardie,
all’inizio pensavano che avessi fatto una battuta, ma poi si resero conto che era un affermazione e si
andarono tutti a mettersi la tuta. La partita durò un’oretta, vincemmo io e Kaled 45 a 43 grazie ad
un mio tiro magistrale da tre punti. Doccia veloce e cambio abiti. Poi guardai la posta elettronica,
era arrivata la mail che aspettavo da parte di Kim.
Domenica 17 Maggio ero ad una fiera d’arte in compagnia di Navy, giravamo tutti gli stand,
mostrando falso interesse per opere banali e di scarso valore, l’obiettivo era quello di stanare Irina,
dalle informazioni datemi da Kim, oggi lei era qui, perché aveva prenotato un posto per
l’esposizione. Alla fine del giro, trovammo quello che cercavamo, uno stand pieno di mobili
d’antiquariato, in particolare i miei occhi si soffermarono su una scrivania di stile vittoriano, che
aveva l’aria di essere stato restaurato da poco. Navy si allontanò con la scusa che doveva andare in
bagno e mi lasciò lì da solo come il verme all’amo.
Irina: < Complimenti, lei ha davvero buon gusto!!!> parlò in cinese.
Ryo: < Lei parla cinese? A cosa si riferiva?>
Irina: < Si, commercio in tutto il mondo, e i cinesi sono ottimi clienti. Mi riferivo alle sue scarpe,
sono di stile tailandese, in pelle fatte a mano e su misura, devono calzare come guanti ai piedi. Mi
riferivo alla sua compagna che si è allontanata, uno vera bellezza, non n’esistono in giro di una tale
eleganza. Mi riferivo soprattutto al suo sguardo che si è posato su questa scrivania pregiatissima,
potrebbe abbinarsi benissimo alle sue scarpe. Che ne pensa?>
Ryo: < Guardi, io cammino molto e per me le scarpe sono fondamentali, sono tutti soldi ben spesi.
Per quanto riguarda la donna che si è allontanata, sono io che accompagno lei e non il contrario, ed
è lei che mi ha segnalato questo oggetto d’arte. Quanto costa?>
Irina: < La scrivania è un pezzo unico, di listino lo vendiamo a 3600€, ma per lei che mi è
simpatico, posso scendere a 3500€.>
Ryo: < Ok, lo prendiamo, ma non lo possiamo portare via oggi, siamo con l’auto sportiva, sa com’è
tutto motore e niente bagagliaio, gli piace correre in strada. Se mi da un bigliettino da visita, domani
vengo in negozio, con un mezzo più consono e chiudiamo l’affare. Le do 500€ di caparra subito in
contanti e il resto alla consegna. Le sta bene?>
Irina: < Perfetto, le lascio una ricevuta per la caparra, ci sono i miei contatti scritti e l’indirizzo, così
non si può sbagliare>
Ryo: < Sta bene, allora ci vediamo domani, arrivederci.>
Nel frattempo tornò Navy, che mi prese sottobraccio, e continuammo la nostra passeggiata turistica.
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CAPITOLO 28
L’amore all’improvviso
Lunedì 18 Maggio, feci chiamare Mike al negozio di Irina, per avvertire che il signor Brown,
sarebbe passato alle ore 11:00 per ritirare la scrivania. Alle ore 11:00 puntuale eravamo arrivati con
il furgone davanti al negozio, mi ero portato le tre guardie, non volevo bruciarmi i miei uomini
migliori. Scesi dal furgone ed entrai al negozio, mentre i ragazzi andavano sul retro dove c’era lo
scarico/carico merci. Mi venne incontro Irina, mi tese la mano e si presentò ufficialmente, mi disse
che la scrivania era bella imballata, pronta per essere caricata. Io gli risposi che il furgone era già
pronto per essere caricato. Prima andammo alla cassa e passai la mia carta oro nuova di zecca a
nome di Jeremy Brown, 3000€ più 500 di caparra, erano andate vie in pochi secondi, credo che
fosse il jackpot del mese aver venduto quel mobile in così poco tempo. Irina chiamò i commessi per
fare il carico e poi si rivolse a me.
Irina: < Ottima scelta, davvero ottima scelta. Mi dica, un uomo come lei, cosa la porta in questo
luogo sperduto dell’universo? Non mi dica la bionda di ieri, perché non le credo, avrà tante qualità
che io non conosco, ma non credo che ne sappia d’arte, ha guardato quel mobile, come si guarda un
ferro da stiro>
Ryo: < Lei è il mio capo, è molto ricca, può permettersi qualunque cosa, anche solo per capriccio.>
Irina: < e lei Mister Brown, fa parte dei suoi capricci o mi sbaglio?>
Ryo: < Si sbaglia, io sono un esperto d’arte e non mi occupo di intrattenere le signore facoltose,
invito solamente le responsabili dei negozi d’arte a prendere un caffè, le va?>
Irina: < Intraprendente, per me un caffè a metà mattinata, me lo prendo volentieri, ma il furgone con
la scrivania li lascia qua?>
Ryo: < ci sono i miei operai che se ne stanno occupando, non si preoccupi. Allora andiamo?>
Irina: < Due affari fatti, di prima mattina, oggi giorno fortunato. Si andiamo.>
Uscimmo dal negozio, si fermò la macchina con Mike al volante, che scese per aprirci la portiera e
farci salire. Irina era sbalordita. Aveva un uomo accanto, che sapeva esattamente cosa voleva, non
perdeva tempo, e gli sembrava che avesse risorse illimitate alle sue spalle. La macchina si fermò al
centro storico, vicino alla piazza principale, Mike aprì lo sportello e ci fece scendere, poi risalì in
macchina e se ne andò, lasciandoci in mezzo alla gente, che creava il viavai dalla fiera lì vicino. Noi
invece ci infilammo in una traversina stretta e lunga che portava ad una piccola piazzetta, i palazzi
attorno erano di epoca medievale, ma restaurati di recente, da uno di quelli sporgeva la scritta
“Trattoria dei Devoti”, c’erano dei tavolini all’aperto e ci sedemmo su due sedie di legno, il tempo
era buono ed era piacevole stare fuori, chiedemmo due caffè artigianali, e iniziammo a parlare.
Irina: < Allora Mister Brown, cosa la spinge a venire qua, oltre a raggirare bottegaie di mezza età?>
Ryo: < chiamami Jeremy, come sai sono un critico d’arte, giro il mondo, in base ai capricci dei miei
clienti, mia madre era cinese e mio padre tedesco, si sono conosciuti a Londra, e io mi sento
cittadino del mondo, un’apolide. Come mai una persona così qualificata come te, si mette a lavorare
negli stand dei mercatini?>
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Irina: < Caro Jeremy, i sentimenti sono quelli che ti fottono alla grande, io li ho seguiti solo una
volta e sono rimasta fregata. Il mio lavoro attuale è un ripiego, prima lavoravo in un altro settore,
ma ho fatto un investimento sbagliato e chi mi doveva parare il culo è sparito, neanche la sua
famiglia ne ha notizie.>
Ryo: < Chi è questo infame che ti ha conciata così? Se vuoi ci parlo io.>
Irina: < Lascia stare, sto parlando di mio fratello Carl, il classico uomo che all’apparenza sembra
fragile e impacciato, in realtà è un gran bastardo affabulatore, e io lo dovevo sapere più di chiunque
altro.>
Ryo: < Di che merce si tratta? Ho molti contatti, magari li puoi rivendere ad un costo inferiore,
rientrando parzialmente delle spese.>
Irina: < Qui il problema è il materiale di vendita, che non è commercializzabile. Mio fratello, con i
miei soldi, comprò 110 AK-52, dei mitra super potenziati, che utilizzavano dei proiettili perforanti,
da una società con sede in Kazakistan. Li doveva rivendere ad un’altra società filonazista, di
matrice svedese, ma con sede a San Pietroburgo, la cosa mi sembrava molto pericolosa da subito,
ma volli fidarmi di mio fratello. Le armi si rivelarono, si efficaci, ma molto pericolose per chi
l’adoperava, si surriscaldavano troppo rapidamente, e la camera di detonazione esplodeva, causando
ferite permanenti a dei miei collaboratori, che stavano collaudando le armi. Capisci bene che non
posso vendere delle armi guaste a dei nazisti, mi ucciderebbero.>
Ryo: < Io ho un collaboratore esperto in armi, possiamo fargliele vedere, potrebbe fare una rettifica
dei componenti, così tu potresti realizzare la vendita e recuperare i soldi persi. Dove si trovano
queste armi?>
Irina: < Davvero puoi fare questo per me? Ho il deposito a Kiev nella capitale. Grazie!!!>
Irina mi prese la mano e la strinse forte, mi guardava fisso negl’occhi, stava guardando la parte
buona della mia anima, anima che ultimamente avevo perso. Non sapeva, che la stavo tradendo dal
primo momento che l’avevo conosciuta, il mio scopo era di trovare suo fratello Carl e farmi dire
dove trovare la Corona del Drago. Per ora stavo al gioco che mi ero creato, e poi mi piaceva
davvero stare con Irina, era una bella persona, sia esteticamente, era alta circa 170cm, bionda con
gl’occhi azzurri, pelle bianca naturale non come quella delle mogli del conte, e sia come carattere,
era brillante perspicace e intraprendente, tutte qualità che apprezzavo.
Fatto sta che non ci lasciammo più, le mani non si staccavano più, e i nostri corpi erano sempre
vicini, troppo vicini. Nella stradina che portava alla piazza principale ci baciammo, ci baciammo
come due ragazzini alla prima esperienza sentimentale, in maniera dolce e tenera, se avessi avuto
ancora un cuore si sarebbe sciolto per la gioia. In piazza c’era Mike che ci aspettava alla macchina,
ci riaccompagnò al negozio, e durante il percorso gli dissi di preparare un bagaglio, che domani la
passavo a prendere per andare a Kiev, e risolvere i suoi problemi. Non gli dissi che forse facendo
così stavo risolvendo anche i miei. Arrivati al negozio, lei mi scrisse il suo indirizzo sullo scontrino
della trattoria e ci demmo appuntamento alle ore 09:00 a casa sua, mi salutò con un bacio sulla
guancia, pieno di passione, ed uscì dall’auto ed entrò in negozio, sparendo dalla mia vista.
Mike: < Bravo Boss, abbiamo fatto conquiste eh?!>
Ryo: < Ma smettila, portami alla scuola, che dobbiamo scrivere la sceneggiatura per la recita di
domani!!!>
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CAPITOLO 29
Khreschatyk Kiev
Chreščtyk detta in russo, è la strada principale di Kiev in Ucraina. Il nome deriva dalla parola slava
Krest cioè Croce. Si trova in una valle che è attraversata da numerosi anfratti, quando la si guarda
dall’alto, la valle assomiglia a una croce. Tutta la strada è stata distrutta completamente durante la
seconda guerra mondiale da parte dell’Armata Rossa in ritirata e ricostruito dopo la guerra secondo
i caratteri tipici del classicismo socialista. La strada è stata notevolmente rinnovata nel corso del
periodo moderno di indipendenza dell’Ucraina. Oggi la strada è il centro amministrativo e
commerciale della città, e quindi un luogo popolare per kieviani.
Arrivati alle ore 12:00 a Kiev del Martedì 18 Maggio, io e Irina, girammo per le strade come due
fidanzatini. Andammo alla piazza di Besarabska a vedere il mercato di Besarabskij il mercato
coperto aperto dal XIX secolo, poi passammo per il quartiere Besarabs’kyi, un complesso di negozi
e uffici, in parte del diciannovesimo secolo che comprendeva anche il Pinchuk Art Centre di arte
contemporanea. Da lì passammo per il Metrohrad, il centro commerciale sotterraneo, e infine
arrivammo al Kyivs’kyi Pasazh, una piccola stretta strada commerciale e residenziale, qui stava il
deposito di armi di Irina Shevcenko.
Il deposito di Irina, all’origine doveva essere stata una casa abitata da una famiglia numerosa. C’era
una stanza principale che dava su un cortile, al centro della stanza c’era un bancale con le armi, in
un angolo c’era un altro bancale con le munizioni. C’era una cucina, due bagni, e quattro stanze
vuote, che sembravano camere da letto, solo una era parzialmente arredata, ma in quel momento i
mobili erano l’ultima cosa a cui stavamo pensando. Ci guardammo negl’occhi, ci baciammo a
lungo, senza fretta, per gustarci il momento, poi io spogliai lei e lei spogliò me, ci sdraiammo nudi
nel letto e facemmo l’amore, come se fosse la prima volta nella nostra vita, con un pò di esitazione,
ma nessuna voglia di fermarsi. Dopo un paio d’ore di combattimenti fra le lenzuola, pranzammo
nudi, con i panini che ci eravamo portati, bevemmo mezza bottiglia di coca cola, poi ritornammo
subito a letto per un secondo round, di piacevoli momenti di passione e serenità.
Alle ore 17:00 arrivò Kaled, in giacca e cravatta, per recitare la parte dell’esperto d’armi e fare una
verifica di qualità delle mitragliatrici e dei proiettili. Si presentò con il suo vero nome, non avevamo
avuto il tempo di preparare un’identità di copertura.
Kaled:< Piacere, sono Kaled Irragi, mi avete chiamato per una consulenza tecnica. Buon
pomeriggio Mister Brown.>
Ryo: < Buon pomeriggio Dottor Irragi, le presento l’Architetto Irina Shevcenko, io oggi sono solo
un intermediario>
Irina: < Piacere di conoscerla Dottor Irragi, in quei bancali ci sono armi e munizioni, può vedere in
che condizioni sono?>
Kaled: < Certamente, sono qui per questo, me ne occupo subito.>
Kaled si tolse la giacca e la posò su una sedia, che avvicinò al bancale delle armi, aprì una scatola
allungata plastificata rigida, e uscì il mitra AK-52, era un’arma modificata e potenziata, non troppo
precisa, ma molto potente. L’errore fu subito trovato, l’arma era stata progettata come un normale
AK-47, poi in seguito maggiorata per un calibro più grande, ma le parti originali, non potevano
resistere a lungo, le pareti erano troppo sottili, si surriscaldavano e poi inevitabilmente esplodevano
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in faccia a chi utilizzava l’arma. I processi per sistemare l’arma erano 2, o si depotenziava per farla
ridiventare un normale AK-47, oppure sostituire le parti inadeguate con parti fatte su misura, per
resistere ad oltranza. Se si depotenziavano, si poteva recuperare il 70% del prezzo d’acquisto, se
invece si interveniva modificando l’arma, si poteva avere un guadagno del 55% sulla spesa iniziale.
Valutammo con Irina che la seconda opzione era più interessante sia in termini di guadagno e sia in
termini di appetibilità per i clienti. Per quando riguardavano i proiettili, andavano bene così, non
avevano bisogno di accorgimenti.
Kaled disse che per essere modificate le armi, dovevano essere portate nella sua fabbrica, quindi
domani mattina sarebbero passati gli operari per recuperare il materiale, tutto in maniera rapida e
discreta. Il costo per il trasporto era 2000€, la rettifica delle armi costava 25000 €. A quelle cifre
Irina si sentì morire, non aveva tutti quei soldi a disposizione, ma le dissi che mi sarei occupato io
della cosa. Kaled si rimise la giacca, salutò e se ne andò, lasciandoci da soli. Dovevamo stare lì fino
a domani mattina e sapevamo come passare il tempo, non c’era altro da fare, ed era un sacrificio che
facevamo entrambi volentieri.
Solo verso le ore 20:00 ci accorgemmo che stavamo morendo dalla fame. Allora uscimmo dalla
casa e percorremmo le stradiene, stretti ancora mano nella mano, come due veri innamorati, i nostri
corpi si chiamavano a vicenda e nessuno dei due si tratteneva da fare effusioni in pubblico.
Cenammo in un localino, a gestione familiare, c’era poca gente, e fummo serviti quasi subito, io ero
affamatissimo e presi doppia razione di bistecche e in salata di ravanelli e carote, Irina invece volle
una pizza alla napoletana con le acciughe, che mi sembrava leggermente fuori luogo, ma avevano il
forno a legna e il cuoco parlava con un vago accento italiano, quindi lasciai correre. Da bere non
c’era molta scelta, prendemmo due boccali da mezzo litro di birra bionda alla spina, per fare
scendere tutta quella quantità di roba. Per digerire passeggiammo per più di un’ora avanti e indietro
nella “croce” di Kiev, ma entrambi sapevamo che era solo un riscaldamento per la notte che doveva
seguire.
Giorno 19 Maggio, era un Mercoledì diverso dal solito, mi svegliai abbracciato ad Irina, mi sciolsi
da quel corpo troppo bello per essere vero, mi alzai e mi vestii, uscii e andai a prendere la colazione
per me e per Irina, avevamo bisogno di reintegrare l’energie sprecate durante la notte. Ritornai alla
casa, e trovai Irina sveglia davanti la porta.
Irina: < Dove sei stato? Mi sono svegliata e non ti ho trovato, mi hai messo in ansia!!!>
Ryo: < Ero andato a prendere la colazione, speravo di trovarti ancora addormentata quando sarei
tornato, mi dispiace. Sono le otto, fra mezzora arrivano gl’operai, mangiamo e poi sbrigati a vestirti,
sono geloso del tuo panorama, non voglio che quei tizzi si facciano strane idee.>
Alle 08:30 Arrivarono gli operai, che in realtà erano le guardie del Conte di Arges, veloci e
silenziosi, caricarono i bancali sul camion e poi sparirono, discretamente come erano arrivati.
Chiudemmo il deposito, fuori ci aspettava Mike con la macchina con il motore acceso, salimmo e
uscimmo dal quartiere, imboccammo la strada principale verso Leopoli. Arrivammo sotto casa
d’Irina verso mezzogiorno, lei mi salutò con un bacio sulla guancia e uscì dalla macchina per poi
entrare nel suo portone.
Mike mi portò alla scuola, dove il camion con le armi era già stato scaricato. Dentro trovai Kaled a
montare dei macchinari per la modifica delle armi, ormai la Squadra Arges camminava da sola, i
suoi componenti sapevano quello che dovevano fare e lo facevano bene, io ero fiero di loro.
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CAPITOLO 30
Cattura la Talpa
Erano passati 4 giorni preziosissimi, Era il 24 Maggio, e ancora Kaled non aveva finito con la
modifica delle armi, era un lavoro lungo e noioso, senza materiali tecnici avanzati, l’avevo messo in
conto, ma stringevano i tempi per la fase 2, che consisteva nell’usare Irina come esca e le armi
come incentivo, per attirare Carl in trappola, erano sicuramente due cose importanti per lui, ed ero
sicuro che non fosse uscito dal paese, aveva troppo da perdere, chi l’aveva assoldato sicuramente
non aveva gradito la perdita del tesoro dei Poenari, e quelle armi potevano essere il ramoscello
d’ulivo per riappacificare le cose.
Nel frattempo, mi godevo la compagnia di Irina, e la istruivo inconsapevolmente, cosa doveva fare
nel caso il fratello avesse chiamato, cioè dirgli che aveva trovato un socio che aveva fatto sistemare
a sue spese le armi, che erano pronte per essere vendute, mancava solo il suo contatto per
completare il lavoro. Questo avvenne quella notte, alle 02:14, il cellulare di Irina suonò
all’improvviso, facendo svegliare di colpo lei e me che dormivo a casa sua quella notte.
Carl: < Irina, sono Carl, cosa stai combinando con le armi? Mi hanno riferito che ci sono stati
movimenti strani al deposito, un furgone e delle persone che caricavano del materiale. Hai trovato
un compratore?>
Irina: < Carl!!! Dove cazzo sei finito??? Mi hai lasciato nella merda, e ora mi chiami alle 2 di notte
per chiedere spiegazioni di quello che io faccio, sei solo uno stronzo egoista!!!>
Carl: < Si scusami, ma sono nei guai, ci sono persone che mi stanno cercando, e non per farmi
carezze. Allora cosa succede?>
Irina: < Succede che ho trovato un socio in affari, che sta provvedendo ad aggiustare le armi a sue
spese, con quello che ci ricaviamo ci rifaremo del costo dell’acquisto con i Kazachi e faremo felici i
tuoi fottuti amici nazisti.>
Carl: < Chi sarebbe questo socio? Come hai fatto a trovarlo? Gente che traffica in queste cose, non
li trovi al supermercato.>
Irina: < Questi sono affari miei, non ti devo dare nessuna spiegazione, i soldi sono i miei e sono io
che rischio, non sono tutti come te che scappano al primo imprevisto. Voglio il tuo contatto per
completare la vendita. Dove ci vediamo?>
S’interruppe la chiamata improvvisamente, pensai che Irina avesse esagerato con gl’insulti e Carl si
era spazientito. Invece si sentì il rumore della porta d’ingresso della casa, qualcuno la stava aprendo
con le chiavi, e quel qualcuno vista l’ora e la chiamata, poteva essere solo Carl. Io ero in mutande e
non prevedevo visite in quel posto, doveva essere disperato per fare una mossa del genere. Feci
segno ad Irina di andare a vedere, mentre io mi andavo a nascondere dietro la porta della stanza da
letto. Era Carl, chiuse la porta e parlò a bassa voce con Irina, quasi sussurrando, io non potevo
sentire da lì. Le voci si spostarono nella cucina e si sentì il frigorifero aprirsi, qualcuno stappò una
bottiglia di birra e mangiò i resti della cena della sera prima, era un animale braccato e affamato. Mi
misi dietro lo stipite della porta della cucina, per sentire meglio, parlavano in ucraino, ma ormai ci
stavo prendendo la mano. Lui mi dava le spalle ed Irina mi rivolgeva il suo profilo sinistro, cercava
di farlo calmare con le parole, ma non era semplice.
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Feci la mia mossa, con un balzo uscii dal mio nascondiglio e lo presi alle spalle, gli cinsi il mio
braccio attorno al collo e iniziai a stringere forte, sempre più forte, lui si dimenava, ma non riusciva
a parlare, riuscì ad afferrare la forchetta dal tavolo e me la piantò sul mio avambraccio sinistro, fece
molto male non mollai la presa, continuai a stringere, fino a quando il suo corpo non cedette a corpo
morto, ma non era morto, l’avevo fatto svenire, togliendogli l’afflusso di ossigeno al cervello. Una
volta a terra, gli legai le mani con la corda delle persiane, poi gli tolsi la pistola che aveva nascosta
sotto il giubbotto. Poi guardai Irina, per fortuna non aveva urlato, ma non capiva cosa stava
succedendo, l’uomo con cui era stato a letto poco fa, ora aveva messo KO suo fratello. Guardai il
mio braccio ed estrassi la forchetta e si mise fluire del sangue, ma non aveva preso l’arteria
brachiale, quindi non rischiavo un emorragia.
Ryo: < Irina hai un kit del pronto soccorso? Sono ferito>
Irina: < Ma cosa succede? Non capisco, non capisco niente.>
Ryo: < Irina ora ti spiego, ma prendi il kit per favore, perdo sangue>.
Lei uscì dalla stanza, andò in bagno e prese una scatoletta che portò in cucina e me la diede. Io mi
misi a medicare la ferita, disinfettante, garze per pulire la ferita, altre garze imbevute nello iodio,
poi dello scotch per stringere e saldare il tutto. Poi presi il corpo di Carl e lo trascinai nel salottino
deliziosamente arredato, e lo misi sdraiato sul divano, in attesa che riprendesse i sensi lo
imbavagliai. Chiamai Mike per informare la squadra dell’accaduto, sarebbero arrivati lì in 5 minuti.
Ora toccava la cosa più difficile fare ragionare Irina.
Ryo: < Irina siediti, dobbiamo parlare, c’e poco tempo prima che arrivino i miei uomini. Non ti ho
detto tutta la verità. È vero che sono un esperto d’arte, lavoro per una grossa ditta internazionale,
Carl fino a qualche giorno fa era un mio collega, ma ha fatto delle cazzate colossali ed è nei guai, si
è messo con la concorrenza e ha rubato un oggetto di valore inestimabile, io voglio trovare
quell’oggetto e portarlo al legittimo proprietario, l’unico a sapere dove si trova è proprio tuo
fratello, hai capito bene come stanno le cose?>
Irina: < Ma allora era tutto falso?! Tu mi hai raggirato, per i tuoi interessi!!! Mi hai preso per una
stupida buttana da sedurre e hai portato a termine il tuo piano, BASTARDO!!!> Indicando Carl.
Ryo: < Il piano è iniziato così, ma poi è diventato qualcosa di più importante, non mischio mai
lavoro con i sentimenti, ma questa volta è successo, e mi dispiace a morte averti mentito.
Comunque se non c’ero io qui oggi, ci sarebbe stato qualcun altro a dare la caccia a tuo fratello, e
non in mutande come me ora. Killer spietati, senza scrupoli, credimi almeno su questo. Ora
vestiamoci che dobbiamo andare via.>
Ci vestimmo alla meno peggio, dopo pochi minuti arrivò la squadra Arges, presero Carl ancora
mezzo svenuto e lo misero dentro il furgone e lo portarono via. Io e Irina ci mettemmo in macchina,
ma non seguimmo il percorso per la scuola, l’accompagnai ad un Hotel in centro, gli dissi che era
pericoloso per lei stare a casa, dovevamo pulire la scena di ogni traccia prima che sorgesse il sole.
Suo fratello era in nostra custodia, finche la corona non tornava in nostro possesso, era ovvio
sottolinearle, che non doveva andare alla polizia, o comunicare quello che era successo a qualcuno,
poteva mettere in pericolo la sua vita e quella del fratello. Me ne andai senza salutare, mi sembrava
un gesto inutile in questo momento.
In questo momento volevo solo tornare alla scuola, per poter giocare a guardie e ladri con Carl.
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PARTE VI
San Pietroburgo
CAPITOLO 30
Labirinti mentali
La notte tra il 24 e il 25 Maggio, fu davvero intensa. Mike e due guardie, tornarono a casa d’Irina,
c’erano segni di colluttazione violenta, sangue sparso nella cucina, sul tavolo c’era un kit del pronto
soccorso svaligiato dei suoi prodotti, se qualcuno fosse entrato, avrebbe chiamato di certo la polizia,
non trovando Irina a casa. Quindi ci fu opera di pulizia meticolosa, in cucina, ma anche nel salottino
e nella stanza da letto, luoghi dove c’era parecchio materiale biologico con inciso il mio DNA,
misero lenzuola e federe nuove e quelle usate le portano via. Chiunque fosse entrato, pensava che
era tutto nella norma e che la padrona di casa era fuori per lavoro.
Kaled e una guardia erano alla scuola, perché si doveva ancora completare l’opera di
riqualificazione delle mitragliatrici, lasciarle parzialmente finite non andava bene, e io ero un
perfezionista. Io ero nella stanza della logistica insieme al mio amicone Carl Shevcenko, seduto in
una sedia bello legato, gli avevo tolto il bavaglio, tanto aveva voglia di urlare, non l’avrebbe sentito
nessuno. Presi il coltello da sub con lama da 20 centimetri e guardai l’orologio, erano le 5 del
mattino, orario in cui di norma mi sarei alzato, invece ancora avrei dovuto aspettare tante ore prima
di andarmi a riposare. Carl vide tutto il mio rituale, sapeva che non era la prima volta che facevo un
interrogatorio, sapeva della mia piccola inquisizione con il Conte nei scantinati di palazzo Poenari,
ma non aveva idea di cosa avessi fatto ad Arges, quindi aveva una paura moderata, non una paura
fottuta, ma le cose cambiano in fretta.
Ryo: < Carl, hai fatto troppe cazzate, dovevi rimanere a fare i grafici a Firenze, quello è il tuo
lavoro, non è di certo fare la talpa per una setta che adora l’oscurità, non so come ti abbiano scelto,
ma poco importa ormai siamo qua, ora dirò le mie parole magiche, quindi cerca di prestare la
massima attenzione. “ Io sono Ryo Ungeziefer, sono l’Inquisitore, sono qui per giudicare il tuo
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passato e decidere il tuo futuro ” Ti porrò alcune domande ti prego di essere sincero e di non farmi
perdere tempo. 1) Chi sono i nazisti che vogliono le mitragliatrici e come possiamo concludere
l’affare? 2) Chi sono i Temhota e cosa vogliono? 3) Dove si trova la Corona del Drago?>
Carl: < Non ti di dico un cazzo Ryo, non mi fai paura, ho molta più paura delle tre cose che mi hai
nominato. Che ci facevi in mutande a casa di Irina alle 02:00 del mattino, come sei entrato?>
Ryo: < Carl forse non ci capiamo, sono io a fare le domande non tu. Per tua informazione io e Irina
siamo amanti, ed è stato un caso che io mi trovassi lì stanotte, infatti non avevo neanche un’arma,
ho dovuto improvvisare.>
Carl: < Tu e Irina? Ma come vi siete conosciuti?... ah già scusa non devo fare domande.>
Ryo: < Cercavo te e ho trovato lei, lei mi ha portato a te, e ora tu mi porterai a chiudere i miei
affari.>
Presi il mio coltello e lo poggiai sulla sua gola, poi piano piano, scesi e incominciai ad incidergli il
petto con la punta della lama, superficialmente, ma abbastanza da fare uscire il sangue e impregnare
la sua camicia. Lui capì che facevo sul serio e cambiò atteggiamento, poi iniziò a cantare come uno
stormo di canarini, in queste occasioni avevo questo effetto su i miei compagni di giochi.
Carl: < Ehm, per l’affare delle mitragliatrici, c’è questo gruppo paramilitare, che ha soldi da
spendere, gli mancavano le armi per fare danno, io so parlare Kazaco tra le tante lingue, e la
Temhota, mi chiamò per fare da interprete, la stessa cosa che ho fatto per te in Romania, solo che ho
voluto fare il passo più lungo della gamba e ho investito tutti i soldi di mia sorella, per comprare i
bancali d’armi e munizioni, e fare il prezzo che volevo, senza intermediari. La cosa mi è sfuggita
ampiamente dalle mani, perché i Kazachi mi hanno dato quelle armi difettose e non sono riuscito a
concludere l’affare>
Ryo: < Bene, Kaled sta finendo di aggiustare le armi, possiamo concludere l’affare, mi devi solo
dare il contatto. Così tua sorella riavrà i suoi soldi. Per lei io mi chiamo Jeremy Brown, ho usato un
falso nome. Per le altre cose cosa mi sai dire?> Girando per la tenda sempre con il coltello in mano
Carl: < I paramilitari sono svedesi, ma si trovano a San Pietroburgo, hanno una base operativa lì, ho
il numero nella rubrica del mio cellulare, che è nella giacca. Per i Temhota è più complesso, è una
setta antica, con uno stretto regolamento e una gerarchia ben precisa, si entra solo per
consanguineità, mio padre era uno di loro e ha iniziato il suo figlio maschio, hanno loro la Corona
del Drago, sono avidi di oggetti sacri, soprattutto se sono d’appartenenza agl’Illuminati, per loro
sono come i trofei di caccia, ne fanno sfoggio, me dimostrare il loro potere e sminuire i nemici.
Sicuramente i nazisti svedesi ne sapranno più di me.>
Ryo: < Ok, per ora resti lì, quando si farà giorno, ti farò chiamare loro, per concludere l’affare, non
fare scherzi, non voglio che la mia futura moglie sia triste per la perdita del fratello.>
E con quella frase ad effetto uscii dalla tenda e ordinai alla guardia di stare attento al prigioniero.
Passai da Kaled per dargli una mano, nel frattempo il resto della squadra Arges tornava alla base.
Mi fecero rapporto sulla sistemazione di casa d’Irina. Dissi a Dimitri una delle Guardie di andare
all’hotel dove stava Irina per controllare che non facesse cazzate. Con gli altri, aspettai che si
facessero le 9 del mattino, per fargli fare la chiamata a Carl. Digitai il numero della rubrica, feci
partire la chiamata e misi il vivavoce, si senti il cellulare squillare, solo all’ottavo squillo, si aprì la
conversazione.
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Zlatan: < Ehi bastardo!!! Alla fine ti sei fatto sentire, stavamo pensando di venirti a cercare, ma
dove sei finito? Qui siamo a secco di ferraglia ammazza sbirri!!!>
Carl: < Ciao Zlatan, anche a me fa piacere risentirti, sono stato parecchio impegnato. Ora sono
libero e disponibile, possiamo completare il lavoro con i mitra???>
Zlatan: < So che le armi sono al tuo paese, ma non ci vogliamo spostare, se li porti qui da noi, affare
fatto>
Carl: < Per il prezzo rimaniamo 110000€ per i mitra modificati e 40000€ per i proiettili speciali.
150000€ in totale, me lo confermi?>
Zlatan: < Noi avere tanti soldi, no problema, tu venire da noi, e noi pagare. Quando puoi venire
qui?>
Carl:< Fra due giorni, Mercoledì 27, vengo alla vostra base e facciamo lo scambio. OK?>
Zlatan: < Sta bene, mi raccomando non sparire di nuovo.>
La chiamata era andata a buon fine, ora si presentavano due problemi, trasportare le armi in Russia,
e cosa farne di Carl. Lui capì i sguardi e ricominciò a parlare.
Carl: < Ragazzi, so cosa state pensando, ma io vi servo, ho conoscenze al confine per passare la
dogana, e i nazisti non si fidano degli estranei, se vedono solo voi, vi uccidono prima di entrare. In
qualche modo avevo fatto un piano per questo lavoro, lo devo solo sistemare a causa dei ritardi, ce
la possiamo fare, ma insieme. Ora la decisione spetta a voi.>
Uscimmo tutti dalla tenda della logistica e ne discutemmo. La soluzione di ucciderlo era la più
gettonata, anche da me, ma effettivamente ci serviva, lui aveva già un piano pronto, noi no. Quindi
per votazione unanime, decidemmo di lasciarlo vivo fino alla scadenza di questa missione, poi
sarebbe diventato mangime per galline o cose simili.
Completammo le modifiche alle mitragliatrici, mettemmo tutto sul camion, comprese le munizioni.
Sul camion sarebbero andati Mike e 2 guardie. Nel furgone Kaled, Carl e Dimitri. Io sarei andato in
macchina con Irina, sempre se riuscivo a convincerla. Ma prima di lasciare la scuola per sempre, si
doveva portare l’elicottero in Romania, non si poteva lasciare lì, quindi Mike si dovette fare una
bella passeggiata con andata veloce e ritorno lento, con i mezzi pubblici.
Andai a trovare Irina, era un giorno, che stava in hotel aspettando una mia chiamata. Subito mi
chiese come stava Carl e cosa gli sarebbe successo. Gli risposi che stava bene, e che l’affare con i
nazisti si faceva, mercoledì in Russia, e lei doveva venire con noi, in fondo era sempre lei quella
che c’aveva messo i soldi ed era un suo diritto, vedere come andava a finire. In realtà la portavo con
me, perché come io ero arrivato a lei, lo potevano fare i nostri nemici, quindi era escluso che
restasse a Leopoli, mi sentivo più al sicuro, se stava al mio fianco.
La partenza fu il martedì mattina, c’era molta strada e non stavamo portando propriamente
cioccolatini. Incredibilmente, il percorso fu lineare e senza problemi, passammo la dogana in
maniera tranquilla. Arrivammo a San Pietroburgo a notte fonda, era meglio così. Ci appoggiammo
per la notte in un Camping semideserto che conosceva Carl, nessuno fece domande, meglio così.
Controllammo il piano, mentre Carl rispiegava, come era strutturata la base e quanti uomini erano
presenti all’interno. Troppo per soli 6 operativi.
69
CAPITOLO 32
La Venezia del Nord
San Pietroburgo è considerata uno dei più grandi centri economici, culturali e scientifici della
Russia, dell’Europa e di tutto il mondo. I complessi architettonici monumentali, le corti
meravigliose, i magnifici parchi, i musei unici nel loro genere, tutto questo suscita un grande
interesse. Si viene da ogni parte del nostro pianeta per capire e sentire la magica atmosfera della
Venezia del Nord, respirare l’aria di questa regione misteriosa pervasa dalla nebbia della Neva. La
città di San Pietroburgo fu costruita nel 1703 dall’Imperatore Pietro il Grande come un “finestra
sull’Occidente”. Oggi è una città che rappresenta un meraviglioso connubio tra culture e tradizioni
russe ed europee, il nome di “Capitale Culturale” è forse il nome più popolare di questa città.
Nonostante sia una città giovane, è riuscita in breve tempo a diventare un vero tesoro della cultura
mondiale. Per tre secoli, qui ebbero luogo avvenimenti importanti, come riforme e intrighi statali,
colpi di stato, saliscendi della fortuna del popolo, importantissime scoperte ed invenzioni
scientifiche. San Pietroburgo è senza dubbio una città unica, con il suo destino particolare, con la
sua atmosfera non replicabile, è impossibile rimanerci indifferente.
In questa atmosfera così particolare si aprì il Mercoledì 27 Maggio. Con la squadra alle sue
postazioni, pronte per agire. La base dei nazisti svedesi, si trovava poco fuori la città, comprendeva
un intero isolato, c’erano più ingressi, c’erano più edifici, c’erano molti soldati, almeno una ventina.
All’incontrò andarono solo Carl e Irina, nel furgone c’erano 100 mitra anziché 110, e solo 20
caricatori per testare le armi, il resto, in teoria ad affare ultimato. Fecero entrare il furgone
dall’ingresso principale e lo fecero parcheggiare a circa 5 metri da un edificio basso e rettangolare.
Io ero appostato sul palazzo più alto e vicino alla base operativa, in modalità cecchino, non potevo
andare a presentarmi lì senza alcun motivo e con la mia faccia da mezzo cinese.
Scesero dalla macchina e gli vennero incontro tre uomini, due energumeni pelati e tatuati, e un
biondo con il mento volitivo, volle vedere le armi, ne prese una e la caricò, poi andò in una zona un
po’ più isolata, premette il grilletto e ci furono due scariche di proiettili che si abbatterono un muro
di cemento armato, il muro era completamente spappolato dai colpi, il biondo sorrise e disse
qualcosa a uno dei due pelati, che andò a prendere una valigia, l’aprì davanti a Carl e Irina e gliela
diede. Poi l’altro pelato, chiamò altri uomini per lo scarico delle armi. In questo momento entravo
in gioco io, era il mio turno, nello spiazzale avevo il maggior numero di bersagli possibile, mentre
Carl e Irina dovevano rendere innocuo Zlatan e aprire il cancello principale in modo tale da fare
entrare la squadra Arges con i mitra d’assalto.
Primo colpo, primo centro alla tempia del pelato numero 1, il secondo colpo prese in fronte il
secondo pelato. Zlatan per istinto si abbassò e in quel moneto Carl si avvicinò da dietro e gli fece
una iniezione paralizzante. Una volta messi a tacere i membri più pericolosi, toccò ai soldati che
stavano scaricando le armi, non ebbero il tempo di caricarle e usarle, gli sparai ad uno ad uno, senza
che loro capissero da dove provenivano i colpi. Ne stesi cinque, e spianai la strada per Carl e Irina
per arrivare all’ingresso e aprire il cancello principale. Una volta aperto il cancello, Mike entrò con
il furgone, e subito dopo uscirono dal retro Kaled e le tre Guardie del Conte, che iniziarono a
sparare a raffica, falciando tutto quello che si muoveva, altri 8 soldati erano morti, in totale 15 più
Zlatan immobilizzato a terra. Mancavano circa altre 5 persone secondo la nostra stima, queste si
trovavano dentro gli edifici, e dalla mia postazione non li potevo aiutare. Allora lasciai il fucile di
precisione, imbracciai il mitra, inoltre avevo la Beretta all’ascella, e il coltello da sub allacciato alla
coscia. Scesi tutte le rampe delle scale del palazzo, uscii dal portone, attraversai la strada ed entrai
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dal cancello principale della base operativa. Il piazzale era libero, vidi che Carl e Irina, chiusero
l’ingresso per non fare scappare nessuno, poi trascinarono Zlatan all’interno del furgone e ci
restarono, il loro compito era finito. Io raggiunsi la Squadra Arges ed entrammo nel primo edificio,
quello basso, qui subito ci furono colpi di pistola, che arrivarono alla nostra posizione da due
angolazioni diverse. Kaled si mise a destra della porta e io a sinistra, mentre Mike sfondò la porta
con un calcio poderoso, e iniziammo a sparare a tempesta, i proiettili ebbero un effetto devastante,
ogni cosa si disintegrava, muri, finestre, armadi, tavoli, sedie, non veniva risparmiato niente. Niente
di umano poteva sopravvivere ad una simile potenza di fuoco, con prudenza avanzammo, e
trovammo due corpi squartati dai colpi, neanche le madri li avrebbero potuti riconoscere. Liberato il
primo ambiente, restava il secondo che era più grande e con più insidie.
Il secondo edificio era un grosso casermone, molto vecchio, con un sacco di macchinari che molti
decenni fa servivano per lavorazione del metallo, ma ora corrosi e impolverati. Prestai attenzione ai
rumori, si sentivano dei rumori provenienti dalla fine del corridoio, lì c’era una stanza verniciata di
fresco, probabilmente l’ultimo capannello di soldati. Al nostro avvicinarsi, ci lanciarono una
granata, noi facemmo appena in tempo a metterci al riparo dietro un grosso macchinario tutto fatto
di grasso bisunto. La detonazione in quel ambiente chiuso fu forte, ma non colpì nessuno di noi, che
uscimmo dal rifugio momentaneo e avanzammo lungo radente il finale del corridoio. Arrivati a
distanza di tiro, aprimmo il fuoco con raffiche poderose, pezzi di schegge volavano in cielo, l’aria si
riempì di fumo e di polvere da sparo, poi fermai il fuoco e gl’altri fecero lo stesso, gli dissi di stare
allerta, mentre io poggiavo l’AK-52 a terra e prendevo in mano la pistola.
Arrivai all’ingresso della stanza, diedi un rapido sguardo dentro, c’era un uomo a terra che teneva
ancora la sua pistola in mano, mi avvicinai a lui, e gli tastai il polso, era morto. C’era ancora una
stanzetta, più piccola, avvicinandomi notai che era un bagno, qui ancora qualcuno vivo ci poteva
essere. Sentii un urlo e mi fermai.
Soldato: < Non sparateci, non sparateci, ci arrendiamo, ci arrendiamo!!! Stiamo uscendo
disarmati!!!>
Lentamente due uomini, tutti ricoperti di polvere, uscirono dal bagno con le mani alzate, gli occhi
erano gonfi, e dalle orecchie usciva sangue, ma non fu quello a raccogliere la mia attenzione,
l’uomo a sinistra, quello che probabilmente aveva urlato poco prima, aveva un giubbotto troppo
grande per la sua forma fisica, aveva un giubbotto stile Kamikaze, dovevo essere scaltro, dovevo
agire prima che loro capissero che io avevo capito. In una frazione di secondo, sparai all’uomo di
destra con la mia pistola nella mano destra, lo presi al cuore, con la mano sinistra estrassi il coltello
e lo lanciai all’uomo di sinistra, lo colpii al collo, recidendogli la colonna vertebrale, cadde di
schianto e non si mosse più. Avevo agito in quel modo, perché se avessero azionato la bomba non ci
sarebbe stato scampo, inoltre avevo usato il coltello perché non sapevo l’esatta forma del giubbotto
armato, uno sparo poteva innescare una esplosione lo stesso.
Ripresi il mio coltello e lo andai a pulire nel bagno. Poi dissi alla squadra di fare un giro di
ricognizione, se c’eravamo scordati qualcuno nascosto. Fatto ciò, dividemmo nei mezzi, un paio nel
camion e il resto nel furgone, aprimmo il cancello principale e scappammo via, prima che la polizia
arrivasse e che le persone curiose si affollassero, a causa delle esplosioni.
Ritornati al camping, portammo tutto, uomini, armi e munizioni, dentro il bungalow. Ci demmo una
sistemata, e io preparai all’ennesimo interrogatorio.
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CAPITOLO 33
I frutti del lavoro
A pranzo non mangiò nessuno, l’adrenalina era ancora a mille, eravamo ancora intontiti dalle
raffiche di mitra e dalla bomba a mano che ci avevano lanciato. Feci un breve riepilogo a voce alta
per tutta la squadra.
Ryo: < Mi sembra che nessuno di voi sia ferito gravemente, solo qualche graffio. Abbiamo riportato
indietro tutte le armi, che si sono rivelate molto più che efficaci e sicure. La maggior parte dei
proiettili sono qui, mancano solo quelli sparati stamattina. Abbiamo sgominato una banda criminale
nazista in un operazione lampo, morti una ventina di soldati. Ho lasciato il fucile di precisione sul
tetto, non facevo in tempo ad andarlo a riprendere, e comunque non ho lasciato impronte ne oggetti
da cui si può prelevare il DNA. Abbiamo i soldi, 150000 €, che andranno ad Irina, cioè colei che ha
fatto l’investimento iniziale. Abbiamo Zlatan, ci faremo raccontare, le storie sulla setta Temhota e
dove si trova la Corona del Drago>
Irina: < Ma si può sapere di che parlate?...corone…sette…ma siete pazzi?>
Carl: < Jeremy, non è qui solo per i soldi dei mitra, per lui è solo un passaggio per arrivare ad altro.
Io faccio parte di questa setta e anche papà ne faceva parte. Crediamo che siano loro ad avere un
oggetto antico prezioso e potente, la Corona del Drago. È stata rubata, da questi nazisti e in cambio
gli avevano dato una base operativa, gli mancavano solo le armi, per fare danni ingenti>
Irina: < Me lo dici solo ora? Carl, sei la persona più inaffidabile che io conosca>
Ryo: < Bene, chiarita la cosa, io mi dedico al nostro ospite, voi siete liberi di riposare>
Andai nell’altra stanza, dove c’era Zlatan ancora paralizzato, era disteso su di un letto, era troppo
rigido per stare su una sedia. I suoi occhi erano vigili, e seguivano i miei movimenti. Preparai un
farmaco, per farlo sciogliere, se no, non mi avrebbe potuto rispondere neanche volendo. Aspettai
che il medicinale facesse effetto, poi vedendo la sua nuova mobilità, gli legai le mani dietro la
schiena e lo sedetti su una vecchia poltrona. Fatto questo recitai la mia Filastrocca della Morte.
Ryo: < “ Io sono Ryo Ungeziefer, sono l’Inquisitore, sono qui per giudicare il tuo passato e decidere
il tuo futuro ”. Ora ti porrò delle domande, ti prego di rispondermi con la massima sincerità e senza
farmi perdere tempo. 1) Ci sono altri gruppi come voi in giro? 2) Che rapporti avete con la setta
Temhota? 3) Dove si trova la Corona del Drago?>
Zlatan: < Noi siamo tanti, siamo dovunque, nessuno ci può fermare, noi siamo la razza
superiore!!!>
Ryo: < Nessuno vi può fermare? Ma se vi abbiamo sterminati in pochi minuti? Devi essere più
realista caro mio.>
Zlatan: < Non ho paura di morire, non ho paura della tua lama. Se uccidi me la setta ti verrà a
cercare, e ti toglieranno l’anima, ti renderanno uno zombi a loro servizio, che è peggio della
morte.>
Gli piantai il coltello nella coscia e iniziai a girarlo lentamente, senza togliergli gl’occhi di dosso.
Zlatan: < Aaaaaaaa, maledetto bastardo cinese!!! Devi morire!!! Non ti dico niente!!!>
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Ripresi il coltello estraendolo dalla gamba, girai dietro la poltrona, gli presi la mano sinistra, lui
cercò di divincolarsi, ma non poteva fare niente, gli tagliai il pollice sinistro, tutto in un colpo. Lui
urlò e urlò tantissimo, finche non ebbe più il fiato per fare il valoroso, diventò più mansueto. Aveva
capito che quella stanza era dove sarebbe morto, ma ora c’era la paura nei suoi occhi, la paura
dell’estrema sofferenza.
Zlatan: < Cazzo vuoi da me? Perché non mi uccidi e la fai finita? No tu sei un sadico, ne ho vista
gente come te, vive per questi momenti, sparare con un mitra non ti da alcun piacere, devi sentire il
dolore delle persone per sentirti vivo.>
Gli strappai la camicia, lasciandolo a torso nudo, dopo di che, incisi la sua pelle con il coltello,
partii dalla scapola sinistra in alto, e andai verso destra, fino all’altra spalla, poi andai a scendere,
creando due lati di un quadrato, presi il vertice di pelle in alto a destra, iniziai a tirare, iniziai a
scuoiarlo vivo.
Zlatan: < Basta!!!Basta ti supplico!!! Ti dirò tutto quello che vuoi, ma ti scongiuro, FERMATI!!!>
Ryo: < Tu rispondi a quello che ti ho chiesto e avrai una morte rapida, se non lo farai e lo spero,
continuerò a spellarti ogni singola parte del tuo corpo.>
Zlatan: < Io sono un pesce piccolo, la mia squadra faceva dei lavoretti, per la setta, e loro ci davano
delle ricompense. Tempo fa ci chiesero di portare degl’oggetti di valore, da un nascondiglio, alla
nostra base operativa. Non è mai arrivato niente. È arrivata solo quella maledettissima corona del
diavolo. Vennero a prenderla due uomini della setta, miei conterranei, doveva servire per un rito
pagano, o qualcosa di simile. Loro hanno il potere, loro hanno la magia.>
Ryo: < Ultima domanda e ti lascio andare …. per sempre. Come si chiamavano quelle due persone
e dove li trovo?>
Zlatan: < Evert Folke e Eskil Håkan, sono di Norrlångträsk, in Svezia.>
Detto questo, andai dietro di lui e continuai a strappargli la pelle, completai gli altri due lati del mio
quadrato di pelle e la tolsi dal corpo, lo portai in bagno e lo pulii dalle sbavature, poi presi un
attaccapanni e lo stesi come se fosse una maglietta uscita dalla lavatrice. Tornai da Zlatan ormai
incosciente, svenuto dall’immenso dolore, gli piantai una coltellata al cuore e la feci finita. Presi
una coperta e avvolsi il corpo, lo portai nella stanza principale e dissi a Kaled di sbarazzarsene, e
così lui fece. Io tornai nella mia stanza a conciare la mia nuova pelle.
Irina non aveva sentito le urla di Zlatan, Carl sapeva quello che avrei fatto e la portò via a fare una
passeggiata, gli spiegò a suo modo la situazione e come si doveva comportare. Tornati al bungalow,
la situazione sembrava tranquilla, eravamo intenti a mangiare e a guardare la tv, come un gruppo di
amici, a cui piace stare insieme e a ingurgitare porcherie e bere birra. Io vidi lo sguardo di Irina e gli
andai a parlare.
Ryo: < Come va? Lo so giornata tremenda, inutile dirlo, ancora non so come sono arrivato a fare
questo, non ci sono scuole che ti preparano. Operatore Sanitario, poi Esperto d’Arte, poi cacciatore
di tesori…>
Irina: < Jeremy, smettila di dirmi cazzate, mi bastano quelle dio mio fratello. Ti devo dire una cosa
e non so come la prenderai. Sono Incinta!!!>
Io non seppi dire niente, per me era una cosa non contemplata. Mi avvicinai e la strinsi forte.
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CAPITOLO 34
Comunicazione
Erano successe tante cose, belle, brutte e altre che non riuscivo a definire. Ormai ero andato troppo
avanti per tornare indietro, avevo sterminato una banda di nazisti, che erano servitori di una setta
oscura. Non potevamo più lavorare solo in attacco, utilizzando l’effetto sorpresa, ci conoscevano e
ci volevano eliminare, eravamo una minaccia in crescita costante, uccidevamo i loro uomini, gli
toglievamo i tesori, e minacciavamo il loro potere supremo, la Paura.
Iniziai a fare chiamate e a prendere contatti, avevo bisogno dell’aiuto di tutti, non potevo farcela da
solo, c’era troppa differenza tra gli Illuminati e la Temhota. La prima chiamata fu per il Commenda,
gli feci un riassunto di tutto quello che era successo, ovviamente a modo mio, tralasciando alcuni
particolari che era meglio lasciare segreti. Lui mi diede ampio appoggio alle mie idee, non si poteva
combattere il più grande Male a livello mondiale, solo con un mitra, ci volevano basi solide e armi
più potenti, lui mi disse che mi mandava 500000 $ e di utilizzarli al meglio. In fine gli chiesi se
potevo utilizzare Filippo e Kim a San Pietroburgo, e se poteva prorogare ancora le mie ferie
all’ospedale di Wuhan, mi disse di si, basta che le cose non degenerassero, gli Illuminati agivano
sottotraccia, non dovevano essere persone reali, ma entità astratte. Capii quello che voleva dirmi,
niente più assalti lampo con mitra spianati.
Seconda chiamata era per Kim, gli dissi che per il momento ero impegnato in Russia, non potevo
tornare a New York, volevo che lei venisse a San Pietroburgo, mi era più utile al mio fianco. Gli
dissi che poteva portare anche suo fratello, avrebbe lavorato per me, e loro potevano vedersi tutti i
giorni. Lei fu felicissima e mi disse di si, quasi in lacrime per la felicità.
Terza chiamata era per Filippo l’architetto. Gli dissi che avevo un nuovo progetto, di grandi
dimensioni, e avevo bisogno di un tecnico super specializzato come lui, per l’opera che volevo
realizzare. Lui prima rifiutò, aveva la sua vita negli U.S.A., la sua famiglia, il suo lavoro, le sue
abitudini, ed era soddisfatto di quello che guadagnava, era al top nel suo settore. Poi gli diedi una
bella frecciata, dicendogli che Kim sarebbe venuto a lavorare a San Pietroburgo e non l’avrebbe più
rivista, lui ci rimase malissimo, pur sapendo che non aveva nessuna possibilità di conquistarla, non
voleva che altri le facessero la corte. Si prese di coraggio e accettò l’offerta.
Quarta chiamata era per il Conte Bullent Poenari, gli dissi tutto quello che era successo, che ero
ancora dispiaciuto per la morte della sua Guardia, che avevamo ucciso chi aveva ucciso lui, che non
era vero, ma lui non lo poteva sapere. Inoltre gli feci la richiesta di mantenere al mio servizio
permanente le tre Guardie di Arges rimaste, ormai erano parte integrante della squadra e non ne
potevo fare a meno. In realtà sapevano troppe cose, ed era meglio averceli vicino, che al palazzo
Poenari dove potevano raccontare i nostri fatti a chiunque. Il Conte mi disse, che mi avrebbe donato
250000€ per continuare la mia ricerca della Corona del Drago, ormai per lui era una ragione di vita,
e io accettai di buon grado. In fine mi disse che Aya, la sua seconda moglie voleva parlarmi.
Quinta chiamata era per Aya, non sapevo cosa volesse da me, ma mi sembrava scortese non farmi
sentire. Mi rispose quasi subito, aveva una voce molto acuta, quasi sibilante.
Ryo: < Salve Aya, il Conte mi ha detto che mi cercavi e ti ho chiamato, cosa succede?>
Aya:< Ti ricordi la seconda serie di Rune, quelle trovate nella terza otre dentro la caverna del
Tesoro dei Poenari? Mi avevi chiesto di prestarci maggiore attenzione rispetto agl’altri reperti, e io
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così ho fatto. Grazie al codice del Re, ho tradotto le Rune, in gran parte parlano della storia del
nostro popolo come mi avevi detto tu. Ci sono sezioni molto interessanti, due in particolare, una
storica e una tecnica.>
Ryo: < Bravissima, quindi hai fatto delle scoperte interessanti, dai dimmi tutto.>
Aya: < La storia incisa in una Runa, riportava lo scontro in età medievale tra due ordini religiosi,
riferiti come l’Ordine della Luce e l’Ordine dell’Oscurità, questi si combattevano da sempre per la
supremazia del mondo. La Luce seguiva delle regole ferree, faceva da giudice dell’umanità.
L’Oscurità non aveva e non rispettava regole e traeva profitto dal caos che generava. Tutti i due
ordini, utilizzavano le arti occulte per sottomettere gli uomini, avevano strumenti e pozioni di
grande efficacia. Uno degli strumenti era la Corona del Drago, dava il potere assoluto, chiunque si
piegava al suo volere. Una delle pozioni più famose, anzi la più famosa l’ho tradotta “ il sangue di
Norrlångträsk”, capace di donare grande forza a chi ne beveva, rendendolo quasi immortale, dico
quasi perché, ho letto che hanno bisogno di riposare sottoterra almeno una notte per ogni ciclo
lunare, quindi in quel momento, sono immobili e senza la possibilità di nutrirsi. Questa è la parte
storica.
Ryo: < Aya, lo sai che esiste un posto sperduto in Svezia che si chiama Norrlångträsk? E che due
esponenti della setta sono originari di lì? Non ti sembra una strana coincidenza?>
Aya: < Mi sembra che ci sia più di una coincidenza, ma una vera e propria connessione. Poi ti
volevo parlare anche della parte tecnica. Nelle Rune si parla di questa pozione miracolosa, con
formule alchemiche, con dosi precise, e elementi da combinare, da cucinare nel fuoco, così è scritto.
Vi è una lunga preparazione di 36 ore, e l’esalazioni sono tossiche, chi faceva da cuoco moriva
presto, infatti il druido o l’alchimista, preparava il banco di lavoro, ma poi erano degli ignari
assistenti a fare la parte pratica. In fine il “Sangue di Norrlångträsk” veniva travasato in una bara
d’argento massiccio, e si donava al fortunato eroe in un calice mistico, sempre di argento.>
Ryo: < Quindi tu mi dici che questa setta, ha perso il suo vigore quando la Corona del Drago passò
all’Ordine della Luce, che invece diventò potentissima. Inoltre quindi ci potevano essere dei
cavalieri immortali che battagliavano ad oltranza immuni dalle ferite?>
Aya: < Indovina chi era l’ultimo cavaliere ad aver bevuto il sangue magico? Oleg Poenari!!! Ti
ricordi delle sue ferite? Le ho esaminate bene al microscopio, beh molte di esse erano
indubbiamente mortali, ma lui sopravviveva e continuava a combattere. Ho capito perché venne
tranciata la testa di tutti i componenti della famiglia, il sangue si mantiene utilizzabile nel corpo,
solo se è continuamente soggetto ad impulsi elettrici, queste persone non dormivano mai, tranne un
giorno ogni ciclo lunare sottoterra per far riposare il corpo esausto, poi si lavavano in un’acqua
ricca di sali, e ricominciavano il rituale.>
Ryo: < Incredibile, davvero incredibile, hai trovato dei residui di quel sangue nei loro corpi?
Potremmo sintetizzare la ricetta. Chi avesse e sapesse usare la corona e il sangue, diventerebbe il
padrone del mondo. Per questo il Conte è così ostinato nel suo intento. Comunque se riesci
nell’impresa, io sto costruendo un laboratorio nella mia nuova casa a San Pietroburgo, quando ti
senti sicura vienimi a trovare>.
Aya: < Sarai certamente informato dei miei progressi, e sarò felice di cambiare aria una volta ogni
tanto. Ci sentiamo, stammi vivo, almeno fino a quando non creo la pozione magica. Ciaooo!!!>
Ryo: < Grazie Aya, sei un genio, mi fido delle tue capacità, spero di sentirti presto. Ciao.>
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CAPITOLO 35
La tana d’Irina e il gruppo Arges
Arrivammo al 25 Giugno, ci volle un mese, per completare buona parte dei lavori. Comprai un
appezzamento di terreno su una collina a 5 minuti da San Pietroburgo, un terreno scheletrico, brullo,
c’era solo una casa in cima. Era la casa di un reduce della seconda guerra mondiale, fissato con le
distruzioni di massa stile apocalittico, era per questo motivo che l’avevo comprata. La casa aveva
una visuale a 360 gradi, chiunque arrivasse si vedeva a kilometri di distanza. La casa aveva
fondamenta solidissime, possedeva un bunker enorme, da poter ospitare almeno 10 persone, c’erano
cunicoli segreti, per eventuali fughe di emergenza. Un lato della casa, quello dietro, confinava con
un precipizio, c’erano circa 15 metri di distanza, lì costruì una piscina e un campo da tennis che
poteva fungere da base d’atterraggio per un elicottero.
La casa fu totalmente restaurata. Il tetto era piatto fatto da mezzo metro di cemento armato
solidissimo, aveva dei sfiatatoi per il camino e prese d’aria per il climatizzatore, c’erano delle
postazioni di piazzamento per eventuali cecchini, e poteva atterrare anche un piccolo elicottero. Il
terzo piano era la casa mia e di Irina, finestre con vetro antiproiettile e saracinesche in acciaio, il
balcone era una specie di torre di controllo, l’interno era stato arredato da Irina magnificamente,
avevamo recuperato alla scuola di Leopoli la scrivania vittoriana che ci aveva fatto incontrare. Al
secondo piano c’erano le abitazioni di Carl, Mike e Kaled. Al primo piano c’erano le abitazioni
delle tre Guardie del Conte e del personale, tra cui Kim e il fratello e Filippo. Il piano terra si
divideva in due parti, la parte anteriore dava sull’ingresso principale, salone, scale, ascensori. Al
fianco sinistro c’erano i garage, ampi e alti, per ospitare camion e furgoni. Al fianco destro c’erano
le cucine, dico “le” perché ce n’erano due. Una per gli abitanti della casa e una per gli operai e
adetti ai lavori che lavoravano su turni di 8 ore giorno e notte. La parte posteriore della casa era una
specie di museo, c’erano quadri di pregio alle pareti, statue di mirabile fattura, mobili antichi di
lusso, appartenuti alla nobiltà di mezzo mondo. Dietro come dicevo, c’era la piscina, il campo da
tennis, ma c’era anche un solarium, delle docce e una dependance per il giardiniere e i suoi arnesi.
Poi c’era la parte “sotto”. Il primo Underground era una vera e propria caserma militare, era meglio
del nostro vecchio Campo 1, aveva tutta la tecnologia moderna possibile, oltre a un deposito armi
da poter fronteggiare un esercito. Il secondo Underground, era il mio laboratorio, poco più piccolo
di quello di palazzo Poenari ma altrettanto completo ed efficiente, qui potevano entrare solo gli
autorizzati. Il terzo Underground, era il forziere del gruppo Arges, qui c’erano montagne di soldi in
contanti, sia dollari che euro. C’erano lingotti d’oro, armi e armature antiche, libri di occultismo,
medicina, storici, nuovi e antichi.
Sotto ancora c’erano le fondamenta, ma c’erano anche 4 botole, con 4 cunicoli, ognuno si diramava
in una direzione diversa, che portavano a diverse vie di fuga, in tutta sicurezza. Nel perimetro
esterno, al confine della proprietà, era stato eretto un muro alto 4 metri, largo mezzo metro,
sormontato da filo spinato e fili elettrici ad alto voltaggio. C’erano due ingressi, uno principale,
molto grande, con cancello elettrico a scorrimento, c’era una guardiola per una sentinella, con
postazione radio. Il secondo ingresso, era laterale, meno visibile, più piccolo, poteva uscire al
massimo un furgoncino.
Questa era la Tana d’Irina e del gruppo Arges, ma non ci eravamo fermati solo a quello. Dovevamo
giustificare tutta quella ricchezza e comprammo altri due locali, un negozio d’arte nel centro
storico, con tanto d’insegna dorata, che gestiva in prima persona Irina. Il secondo locale, si trovava
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nella zona industriale, un grosso deposito merce, con i furgoni per le consegne, e gli uffici
amministrativi, avevamo fatto tutto alla grande, la gente “doveva” sapere chi eravamo e cosa
facevamo, ovviamente la versione di copertura, non quella reale.
Altra cosa fondamentale, visto che Irina era incinta di mio figlio, ritenni cosa doverosa sposarla,
usai il mio Alias Jeremy Brown, in modo da dividere in due i diritti e doveri della famiglia e del
lavoro. Fu una cosa spartana, senza fronzoli, appena finiti i lavori in casa, si sarebbe festeggiato a
dovere. Ora non restava che aspettare che la setta facesse le sue mosse, noi avevamo fatto tutto, in
modo tale da farci trovare pronti, e questa volta giocavamo in casa.
Venerdì 26 Giugno, mi arrivò la chiamata di Aya, aveva sintetizzato il sangue di Norrlångträsk, e
mi disse che stava arrivando da me. Arrivò nel tardo pomeriggio, portava con se due valigie, un
trolley e un “case” rigido con le ruote. Non facemmo convenevoli, la borsa con i vestiti li diede ad
un cameriere, mentre l’altra la tenne stretta in mano. Andammo al laboratorio, e mi aprì il case, era
pieno di fiale, ampolle, reagenti e altre cose che non capivo. Uscì il suo portatile, e mi fece vedere
tutti i passaggi del suo lavoro svolto in quei mesi.
Aya: < Vedi Ryo, in realtà il sangue è solo un mezzo di trasporto, il protagonista è il virus. Un virus
preistorico o alieno, non ti so ancora dire, non è di questo luogo e non è di questo tempo, roba da
scienza di confine. Il virus viene rigenerato in una soluzione nutriente, con le sostanze che ho qui
elencate, queste sono sostanze più o meno reperibili sul pianeta terra e nel nostro presente. Agisce
come precursore delle cellule staminali, cioè viene portato in tutto il corpo dal sangue, attacca le
cellule e le stimola a duplicarsi, più impulsi nervosi arrivano alla cellula più questa si moltiplicherà.
Quindi se ti fai un taglio al dito, sentirai dolore, attraverso un impulso nervoso, che avrà una
reazione sulle cellule di quella zona del corpo, che verranno stimolate a riparare il taglio e a
prevenire potenziali infezioni. Pazzesco un virus che protegge il suo nemico, fantastico.>
Rio: < Hai scoperto un sacco di cose, sei bravissima, ma so che sta arrivando un grosso MA…>
Aya: < MA se ci sono già uomini che hanno completato il rituale non li possiamo battere, anche se
conosciamo tutta la storia. Dobbiamo avere anche noi dei soldati in grado di fronteggiarli. Non
credo che queste persone si mettano in ginocchio e si facciano mozzare la testa senza lottare.
Dobbiamo preparare tutto il rituale e avere i nostri super soldati, prima che siano loro a farci visita e
iniziare a staccare teste>
Rio: < Aya, il mio laboratorio e a tua disposizione, con me e tutti i miei uomini, devi solo ordinare,
anche perché il tuo rango te lo concede.>
Aya: < La prima cosa da fare e creare il nido, ti ricordi la terra in eccesso nella caverna del Drago?
Non era li per caso, è una terra ricca dei sali minerali, che servono per la rigenerazione. Sto facendo
arrivare qui un camion con quella terra. Dove la possiamo mettere?>
Ryo: < Nel terzo Underground, insieme alle cose più preziose.>
Aya: < Poi servirà tanto argento, per creare la bara di deprivazione, e il calice. Non ho capito bene
perché debbano essere d’argento. Suppongo che l’argento in qualche modo faccia da isolante e
inibitore del virus>
Ryo: < Abbiamo tutto l’argento che vuoi, e Kaled è un esperto con tutti i metalli, provvederà lui
secondo le tue istruzioni>
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CAPITOLO 36
Il virus
Era il 30 Giugno, un martedì caldo, per queste latitudini, ma a me non dispiaceva, stare a prendere il
sole nel solarium, mentre tutti gl’altri faticavano. Arrivò Aya e m’invitò a scendere in laboratorio,
aveva finito il rito, usando maschere e protezioni, aveva creato il liquido per fare attecchire il Virus,
senza fare morire l’uomo che l’ospitava. In laboratorio era pronta la bara piena del liquido madre,
Kaled si era superato, era magnifica, anche se stavamo parlando di una bara. Mancava una cavia, e
mi offrì volontario, ero uno dei pochi ad avere accesso al laboratorio e non volevo vedere estranei.
Fase 1: Bere dalla coppa d’argento, che conteneva una dose misurata, di liquido nutriente e Virus,
serviva come un vaccino, entrare nella bara senza questo accorgimento significava morte certa. Io
bevvi il liquido del calice. Aya mi monitorò per 24 ore, stavo bene, i miei parametri vitali erano
nella norma. Poi tutto cambiò rapidamente, i miei battiti salirono a 200 al minuto, la pressione era
300 su 150, la temperatura era di 41 gradi Celsius, la mia pelle stava andando a fuoco, gli occhi mi
lacrimavano, avevo una sete infinita, non ci vedevo più bene, e le orecchie si erano tappate, non
riuscivo a respirare bene, ansimavo come se stessi correndo. Era il corpo che combatteva contro il
virus, e stava vincendo il virus, stava distruggendo tutte le mie difese immunitarie. La tortura mi
dissero che durò 24 minuti, ma pensavo che fosse durata 24 anni. Poi mi ripresi, anche se mi sentivo
totalmente stordito.
Fase 2: Entrare nella bara non mi spaventava, ma respirare nel liquido nutriente, come i
sommozzatori alle grandi profondità era angosciante. La fame d’aria ti spingeva a volere uscire, ma
non potevi, dovevo ritornare a quando ero solo un feto nel liquido amniotico. Dovevo rinascere una
seconda volta. Entrai nella bara dopo aver fatto degl’esercizi respiratori e dei movimenti yoga per la
concentrazione. Trattenni il respiro e mi chiusero dentro. I primi secondi avevo tutto sotto controllo,
poi l’ossigeno gassoso finì ed entrò nei polmoni quello liquido, avevo la sensazione di voler
vomitare la mia stessa aria ma non ci riuscivo, lentamente la mia coscienza svanì e sprofondai nel
buio e nel silenzio. Per me passarono pochi secondi, invece erano passati 12 giorni in quella bara. Il
mio ricordo del risveglio fu una grande luce intensa, che veniva dall’alto, ero rinato.
Fase 3: La pulizia del corpo. Il mio corpo puzzava di marcio, di cadavere, di rancido, la mia pelle
era squamosa come quella di un serpente mentre fa la muta. Kaled e Mike mi presero dal lettino
medico e mi immersero in un’altra vasca, questa era piena di sali minerali, la pelle si stacco dal mio
corpo, e quella sotto prese il suo posto, bella liscia e pulita, era una bella sensazione, non sarei mai
voluto uscire da lì, ma mi fecero uscire dalla vasca a forza e mi rimisero nel lettino per controllarmi.
Aya, Kaled e Mike, mi guardavano e mi riguardavano, ma non capivo il perché, ero nudo, ma non
pensavo di essere cambiato così tanto.
Fase 4: Riabilitazione. Mi guardai allo specchio, ma non vidi me, vidi un’altra persona, quello era
un gigante di 2 metri, con i muscoli enormi e definiti, i capelli biondo rossicci, gli occhi verdi erano
i miei, pensai almeno una cosa era rimasta, ma poi vidi che la luce rifletteva stranamente nei miei
occhi sembravano quelli di un felino. Ero sempre stato molto peloso, ora ero quasi glabro, solo i
capelli e le sopracciglia erano al loro posto, anche se di colore diverso. Mi diedero dei vestiti nuovi,
in quelli vecchi non ci sarei mai entrato, troppo piccoli. In tutto la procedura era durata 15 giorni.
Finito il rito, volli tornare in superficie, volevo vedere la luce, volevo vedere Irina. All’inizio
nessuno mi riconobbe, Kim mi passò davanti, pensando che fossi un operaio e mi disse di andare al
lavoro invece di stare seduto il poltrona.
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Ryo: < Kim, sono io Unge, non mi riconosci?> la mia voce era diversa, non la riconoscevo.
Kim: < A chi vuoi prendere per il culo? Tu non sei il mio boss!!!>
Ryo: < Mi dispiace, non mi riconosci perché ho mangiato troppi panini da Nathan’s, ah ah ah.>
Lei capì che ero veramente io, e si mise a piangere a dirotto, mi si avvicinò e mi strinse forte e mi
tenne la mano, aveva capito che qualcosa era cambiato e che avevo sofferto tanto.
Poi rincasarono Irina e Carl. Carl appena mi vide rimase pietrificato perché sapeva della
trasformazione, ma non sapeva della mutazione. Irina invece non sapeva niente e non capiva perché
c’erano tutte quelle persone in salotto, vide Kim che teneva la mano a un gigante con dei capelli
dritti e sparati in aria. Kim gli disse di avvicinarsi, lei si alzò e si allontanò. Non capiva chi fosse
quella persona, solo quando mi fu di fronte, guardandomi negl’occhi capì chi ero. Non disse niente,
si alzò e se ne andò senza dire niente, era troppo per lei, il suo cervello si rifiutò di capire. Io fui
molto triste, ma gli dovevo dare il suo tempo, era incinta di un uomo che non era più lui.
Era la sera di martedì 14 luglio, mi misero al corrente di tutto quello che era successo in mia
assenza, mi dissero che qualcosa si stava muovendo. In città si vedevano facce nuove, gente che
passava davanti al negozio, più volte al giorno, ma senza entrare mai. Alcuni tentativi di
pedinamento di alcune persone vestite in borghese. Credo che stessero prendendo informazioni
prima di passare in azione. Non gli interessava di essere scoperti, loro erano i leoni, e pensavano
che noi fossimo le gazzelle, ma si sbagliavano di grosso.
Giorno 15 dissi ad Aya che ero, molto molto stanco, ma non riuscivo a dormire. Lei mi disse che
era ora di andare sotto terra, dovevo completare il mio primo ciclo, la Fase 6, essere sepolto vivo.
Andai al terzo underground, insieme ad Aya, Kaled e Mike. Sentii l’odore di quella terra, era
l’odore più dolce che avevo mai annusato. Mi ci coricai, era comoda, morbida come un materasso
ortopedico. Kaled e Mike, presero altra terra e mi seppellirono, poi non mi ricordo più niente,
finalmente dormivo, di un sonno profondo e ristoratore. Mi svegliai, perché sentivo che la terra
sopra di me veniva tolta. Mi sentivo bene, mi alzai rapidamente, e mi diedi una scrollata. Salii in
laboratorio e vidi che era passato un altro giorno intero. Mi immersi nella vasca salina e la mia pelle
si reidratò come una spugna. Il rito funzionava, ed era stato eseguito correttamente.
Risalito in casa, volli mettere alla prova le mie capacità. I ragazzi avevano creato una palestra,
allungando la metratura dei garage, di altri 10 metri. Dentro c’erano tutte le attrezzature per fare
sollevamento pesi e esercizi aerobici. Non fu cosa semplice adattarmi al mio nuovo corpo, tutto era
così piccolo rispetto a prima e io così grande. I pesi che prima mi sognavo di sollevare ora
sembravano fatti di gomma piuma. Potevo correre ore al tapis roulant, non ero mai stanco, il mio
corpo si adattava alla velocità e proseguiva senza affaticarsi.
Finito di allenarmi, il mio pensiero tornò ad Irina, lo sapevo che era in casa, lo percepivo, i miei
sensi erano più sviluppati, sentivo il suo odore, sentivo il battito del suo cuore e il battito di quella
creaturina che portava in grembo. Era al sicuro, e per ora era quello che contava.
Ora c’era solo l’attesa, la casa era completata, non c’era più via vai di gente, c’era solo gente
addestrata e ben armata, che aspettava il momento per scatenare l’inferno, e l’inferno arrivò sul
serio.
Il 16 Luglio il cielo era scuro, carico di pioggia. Dalla valle si sollevò un gran polverone, rumore di
camion che salivano la collina. Poi si sentivano i rumori degli elicotteri che si avvicinavano.
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PARTE VII
Stoccolma
Capitolo 37
La battaglia sulla collina
Era uno di quei Giovedì carichi di umidità, io andai subito al primo underground, al posto di
combattimento, accanto a me Kim e Carl, gli altri indossarono gli auricolari e indossarono i
giubbotti antiproiettile. Tutti si misero in posizione da combattimento, Kaled sul tetto in modalità
cecchino e Mike al piano terra comandante della squadra d’assalto. Tutte le saracinesche furono
chiuse e blindate. Solo il cancello d’ingresso principale era stato volutamente lasciato aperto dalla
guardia, che si allontanò per rientrare nella casa, sotto mio preciso ordine. Kaled iniziò a sparare i
suoi colpi al primo elicottero, fu colpito diverse volte, ma era blindato, doveva essere più vicino
perché i colpi fossero efficienti, arrivato a 250 metri Kaled riprovò e questa volta i proiettili speciali
penetrarono la corazza dell’elicottero, che prima ebbe una specie di sussulto, poi s’inclinò
lateralmente, iniziò a perdere quota e acquistare velocità, si schiantò all’interno della proprietà quasi
al confine con il muro perimetrale, ci fu una esplosione, poi solo lo scoppiettare delle macerie.
Kaled voleva riprovare con il secondo elicottero, ma questo rimase a distanza di sicurezza, aveva
capito il pericolo. L’elicottero preparò i suoi missili a lunga gittata, Kaled scese rapidamente dentro
la botola e sparì dentro la casa. I due missili colpirono il tetto della casa, si sentì vibrare tutto, ma la
struttura aveva retto i colpi, poi ne arrivarono altri 2 e poi altri 2 ancora. Cadevano pezzi di cemento
e ferro, ma la casa si ergeva ancora a baluardo, era solo un po’ più brutta da vedere. L’elicottero
capì che quelle erano mura antibombardamento, era inutile continuare a colpire, era solo uno spreco
di munizioni, e si mise in posizione di guardia e di vedetta per i camion che stavano avanzando.
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L’ingresso era aperto, e non c’era nessuno a difenderlo, entrarono a tutta potenza, salivano veloci
verso la casa. Quando furono inquadrati dalle telecamere, nel punto esatto dove volevo che
fossero,chiusi il cancello automatico e attivai le mine a pressione, le ruote ci passarono sopra e i
primi due camion saltarono in aria, con tutto quello che portavano dentro, un vero massacro.
Rimanevano altri 3 camion, rimasti fermi e incolumi dall’esplosioni. Scesero gli uomini dell’Ordine
Temhota, avevano tutti una divisa militare scura, con elmetti, giubbotti antiproiettile, impugnavano
mitragliatrici d’assalto. Iniziarono a sparare alla casa, che rimaneva chiusa e immobile ai colpi
sferrati, ma era solo un fuoco di copertura, dalle retrovie si preparavano a lanciare le granate, con
obiettivo di aprire un varco, colpirono porte e finestre, ma erano blindate, alcune erano immacolate,
altre leggermente piegate, alte ancora si aprivano piccoli buchi, niente che permettesse di entrare
nella casa.
Il nostro contrattacco erano 10 mitra AK-52 modificati, automatizzati, controllati da me, che stavo
dietro i monitor. Questi uscirono dal muro perimetrale e colpirono alle spalle i soldati, sferzandoli
con raffiche micidiali, devastandoli all’impatto, altri 20 uomini erano morti. I 45 che erano ancora
vivi, si disposero a cerchio tra il secondo camion andato in fiamme e il terzo camion che era il più
distante dalle raffiche dei mitra. Riprovarono con le granate, questa volta all’indirizzo dei mitra, e
una alla volta, distrussero quelle armi, ma così facendo indebolirono in fronte verso la casa. Dalla
casa uscirono altri 10 mitra, che buttarono fuoco a ripetizione e uccisero altri 10 soldati. Ne
rimanevano 35, ancora troppi per decidere un attacco diretto.
Decisi di andare io sul tetto e lasciare il comando a Kaled, gli chiesi il fucile di precisione, lui mi
disse che l’elicottero era troppo distante per essere abbattuto, ma glielo presi ugualmente e salì sul
tetto. C’erano macerie da per tutto, ma non c’erano rischi di crolli. Mi affacciai da quello che una
volta era il parapetto. Guardai sotto e vidi i soldati a una distanza di 180 metri, poi guardai in alto e
calcolai la distanza dall’elicottero, erano circa 400 metri, c’era vento e iniziava a piovere, sistemai il
fucile e mirai, sparai un colpo, il proiettile sfiorò la parte bassa e proseguì la sua corsa provocando
scintille, ma nessun danno. Ricalcolai l’alzo del tiro, e puntai mezzo centimetro sopra rispetto a
prima, sparai un secondo colpo, e il proiettile questa volta andò alto colpendo le pale dell’elicottero.
Poi mi venne l’idea, da quella distanza non potevo colpire un punto specifico, dovevo colpire alla
parte grossa. Abbassai il tiro solo di qualche millimetro, puntai al tronco del rotore, sparai il terzo
colpo, questa volta feci centro, le pale, ora sembravano muoversi a scatti, come se fossero
inceppate, l’elicottero diede la sensazione di diventare più pesante, ma restava affannosamente in
aria. Tentai un quarto colpo, ora era più difficile perché l’elicottero non era stabile, vibrava e
falsava la mira, provai comunque un quarto colpo, prese la punta di un ala che si spezzò.
L’elicottero, cercò di allontanarsi, ma non ci riuscì, perse il controllo e si schiantò alla base della
collina, esplodendo all’impatto.
Presi un altro caricatore e mirai in basso, i soldati ancora stavano cercando una soluzione, alle
mitragliatrici che li colpivano dai due lati, fronte e retroguardia. Iniziai a puntare quelli più vicini, in
modalità tiro al bersaglio, a quella distanza erano facili da colpire. Fuori uno, fuori due, fuori tre,
fuori quattro e fuori cinque, la prima linea era stata annientata in pochi secondi. Ne riuscì a colpire
altri tre prima che capissero da dove sparavo. Erano rimasti circa 27 soldati, sempre troppi, e ora
sparavano alla mia posizione. Rientrai nella botola e scesi al posto di comando, andai in armeria e
presi un bazooka e quattro proiettili di grosso calibro adatti a quell’arma. Tornai sul tetto e sparai il
primo colpo, colpì il terzo camion e i soldati che si erano riparati nelle vicinanze, altri 10 morti.
Sparai al quarto camion colpì la fiancata, ma non esplose. Provai il terzo proiettile e questa volta
feci centro, il camion si ribaltò come una tartaruga, schiacciando altri cinque soldati. Ne
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rimanevano una dozzina ed erano sull’ultimo camion. Provai il quarto proiettile, che fece
parzialmente centro, altri 2 soldati erano morti. Ora erano solo in 10, potevamo attivare la squadra
d’assalto, chiamai Mike tramite l’auricolare e diedi il segnale. Uscirono dalla porta principale,
sparando a qualunque cosa si muovesse, si avvicinarono ai primi camion in fiamme, e iniziò una
guerra di trincea. Io guardavo tutto dall’alto, in speranza di colpire ancora qualcuno con il fucile,
ma c’era troppo fumo che copriva la visuale.
Qualcosa attirò la mia attenzione, un riflesso in lontananza dalla base della collina. Guardai
attraverso il mirino e misi a fuoco. Era un uomo in tuta nera aderente, con il casco, sopra una moto
da cross, stava risalendo la collina. Non sembrava avere armi, era molto muscoloso, il casco non era
proprio un casco, ma una specie di corazza/elmo, continuava ad avanzare. Poi l’istinto prevalse
sulla ragione e chiamai Mike all’auricolare, gli dissi di ripiegare, perché stavano arrivando altri
nemici, Mike ubbidì, andò a ritroso verso la porta principale, fece entrare tutti e poi chiuse la porta
blindata.
Scesi al piano alla sala comando, da sopra non potevo fare più niente, presi il mio coltello da sub e
me lo legai alla coscia, poi presi due pistole Beretta calibro 9 e li misi nelle fondine ascellari. Presi
anche una cartucciera di proiettili e infine presi un cinturone con delle bombe a mano. Diedi
l’ordine di non uscire per nessun motivo, imbracciai due mitra e salii al piano terra, aprii la porta
blindata e me la chiusi alle spalle. Scesi le scale a passo lento, per visualizzare tutto l’ambiente, da
una prospettiva differente da quella del tetto. Trovai i miei bersagli e li puntai. Iniziai a sparare
contemporaneamente con i due mitra, colpirono i soldati della setta, ne feci fuori due, poi altri due,
mi avvicinai ancora e ne uccisi un altro. Ricaricai le armi e ricominciai ad avvicinarmi e sparare, ne
uccisi altri due, e poi altri due ancora. Ne rimaneva solo uno imboscato sotto il quinto camion,
buttai una granata e mi allontanai, ci fu l’esplosione con relativo morto.
Ora il campo di battaglia era sgombro, chiesi a Kim se le telecamere inquadravano qualche soldato
che ci era sfuggito. Prima mi disse di no, poi esitò, poi mi disse che ce n’era uno, ma che era
diverso, non aveva una divisa. Avevo capito a chi si riferiva, era il motociclista che avevo
individuato dal tetto della casa. Cosa sperava di fare da solo, senza armi, quando oltre sessanta
persone avevano perso la vita miseramente?
Chiesi la posizione da dove stava entrando. Kim mi rispose dal fianco dei garage, dove c’è la sala
pesi. Allora andai in quella direzione, volevo capire, chi era quel pazzo. Il pazzo non si nascondeva,
era in bella vista, si avvicinava a passo lento verso la casa. Lui girò la testa verso di me e mi vide,
cambiò direzione, stava venendo nella mia direzione. Quando fummo a circa 8 metri di distanza
parlò.
Evert Folke: < Ungeziefer du är en död man, Temhota kommer att leva för evigt!!!> parlò in
svedese e non capivo niente, a parte che aveva pronunciato il mio Cognome, il tono era
indubbiamente minaccioso.
Ryo: < Chi sei ? Cosa vuoi? Vattene!!!>
Non rispose e inizio ad avanzare. Era una minaccia, decisi di aprire il fuoco. Sparai in simultanea
con entrambi i mitra. Lo colpirono in pieno. Io proiettili lo dovevano passare da parte a quella breve
distanza anche se portava un giubbotto antiproiettile. Incredibilmente, continuò a camminare nella
mia direzione, ne lui ne il suo bizzarro abbigliamento avevano subito danni. Decisi di scaricargli
tutto il caricatore addosso, e sparai fino ad esaurimento proiettili. Davanti c’era un grande nuvolone
di polvere da sparo, e dietro c’era l’uomo ancora integro.
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CAPITOLO 38
Il mostro
Avevo finito le cartucce dei mitra e lasciai cadere a terra le armi pesanti. Presi le pistole e puntai a
quello strano mascherone, che si trovava a meno di 4 metri da me. Scaricai 4 caricatori, senza
ottenere nessun risultato, non era possibile, non ci stavo credendo, iniziai ad arretrare e chiesi a
Kim, tramite auricolare, di aprirmi la palestra e il garage e mantenere la porta interna chiusa, lei
eseguì i miei ordini. Entrai nella palestra e afferrai un bilanciere da 20 kili in acciaio, e l’utilizzai
come una spranga. Lo colpì e lo feci decollare e si andò a scagliare contro la fiancata del furgone
Arges, la carrozzeria prese la sua forma, segno che avevo colpito duro. Lui si tolse dal furgone e si
rimise a camminare nella mia direzione, io cercai di colpirlo una seconda volta, ma questa volta
schivò il colpo, mi colpi con un pugno allo stomaco, dal basso verso l’alto, sbattei nel soffitto, poi
crollai a terra, stomaco e schiena facevano malissimo. Dovevo togliermi da lì, scivolai dietro un
pilastro, cercavo un’altra arma. Trovai i dischi di ghisa, presi tutti quelli che riuscii a trovare e glieli
scagliai addosso uno ad uno, più forte che potevo. Lui fu scaraventato fuori dalla palestra,
scivolando sul prato all’inglese appena finito. Lanciai gli ultimi dischi, lui si parò con le braccia,
che gli fecero da scudo.
Si rialzò per l’ennesima volta e tornava alla carica. Chiesi a Kim di aprire porta interna garage,
corridoio laterale, ingresso posteriore al solarium. Lei eseguì correttamente. Le porte si aprirono e
io entrai dentro, lui fece lo stesso, era chiaro che io ero il suo obiettivo. Corsi verso l’ingresso
posteriore, qui avevo un baule chiuso dove tenevo le armi di scorta, l’aprii e ci tirai fuori altri due
mitra e altre due pistole. Sapevo che non avevano effetto su di lui, ma volevo farlo rallentare, così
pensavo ad un piano più concreto. Chiesi a Kim di chiudere la porta posteriore una volta che il
mostro fosse uscito fuori. E le porte si chiusero. Iniziai a sparare cercando magari qualche punto
debole dove colpire, ma ogni colpo risultava inutile. Finiti i caricatori, passai alle pistole, nel
frattempo scendevo dalla zona solarium, per arrivare alla zona piscina.
Io ero un esperto nuotatore, vediamo come se la cavava in acqua. Finiti i caricatori, mi misi a bordo
vasca, presi una granata e gliela lanciai volutamente lunga alle sue spalle. La detonazione, spinse il
mostro verso di me, lo presi al volo e insieme andammo in acqua. Lo afferrai ancora meglio e lo
trascinai sottacqua, vediamo se aveva anche le branchie oppure affogava come i comuni mortali.
Lui cercava di dimenarsi, ma la mia presa era tenace, sapevo che potevo tenerlo sottacqua almeno
sei minuti, se non l’annegavo, almeno l’avrei indebolito. Unico lato negativo, che entrando in acqua
avevo perso l’auricolare, la mia squadra non mi poteva sentire e io non potevo impartire ordini.
Passarono i minuti, e il mostro con la maschera incominciò a perdere colpi, ancora reagiva, ma in
maniera attenuata. Io resistetti un altro minuto e mezzo, poi dovetti risalire in superficie e prendere
aria. Stavo per uscire dalla piscina, ma mi afferrò dai piedi e mi voleva lui ora trascinarmi a fondo,
io mi attaccai alla scaletta con le braccia, scalciai e mi liberai. Ora ero a bordo vasca e il mostro
stava risalendo dal fondo della piscina. Uscì dall’acqua come un delfino, piroettando e cadendo a
terra con tutti i quattro gli arti, come un felino. Iniziò un’altra volta a camminare verso di me,
pensavo di averlo stancato, ma non era così. Presi un tavolino da giardino in ferro battuto e
l’utilizzai come ariete, lo spinsi con tutte le mie forze verso il muro perimetrale posteriore, dietro
c’era lo strapiombo, magari il mostro non sapeva volare.
Spinsi e spinsi ancora, arrivammo al muro, continuai a spingere, e il muro incominciò a cedere, si
videro prima delle lineature, poi delle fessurazioni e poi cedette, crollando nel fossato, ma il mostro
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si tenne al tavolino e non cadde. Allora presi le mie ultime due granate, levai le spolette, le incastrai
tra lui e il tavolino, poi spinsi, lo buttai appena in tempo fuori nella scarpata, e si sentì la doppia
detonazione.
Non mi illudevo, era ancora vivo, qualunque cosa fosse, sarebbe ritornata a cacciarmi. Rientrai
dentro la casa. Feci chiudere la porta. Andai alla postazione di controllo, tutti avevano visto lo
scontro dalle telecamere ed erano tutti impauriti a morte. Feci una chiamata in Romania.
Ryo: < Aya sono Ryo, ho un mostro alle calcagna, non si riesce ad uccidere in nessuna maniera, ha
una forza sovraumana, fra poco tornerà a darmi la caccia, cosa posso fare?>
Aya: < Cazzo!!! Ti hanno scagliato un signore della guerra, loro li chiamano “ i cavalieri oscuri”,
possono essere comandati solo dal possessore della corona del drago. Armi che puoi usare? Una
spada di argento penso, arresta momentaneamente il processo di guarigione, gli devi tagliare la
testa.>
Ryo: < Ha una tuta e un elmo protettivo, non so che materiale sia, ma sembra indistruttibile, non
potrò tagliargli la testa fino a quando indosserà quelle protezioni.>
Aya: < Bene, allora cerca i punti dove si tolgono quei due oggetti, non starà sempre così, dovrà pur
mangiare o andare in bagno, ci devono essere. Tienimi informato.>
Ryo: < Ok, se sarò vivo lo farò senz’altro.>
Finita la chiamata tornai a guardare i monitor. Quella figura era ricomparsa e non si sarebbe
fermata. Dissi a tutti di seguirmi al terzo underground, scendemmo e cercammo un arma
appropriata. Kaled trovò un’ascia bipenne, ma era in acciaio, non di argento. Pensai, facciamo una
laccatura in argento e l’affiliamo, Kaled approvò. Chiesi a tutti di andare via dalle botole e sparire il
più lontano possibile. Lasciai Kaled in laboratorio, per sistemare l’arma. Intanto i muri tremavano,
il mostro era tornato, sapeva dove mi trovavo, e si faceva strada dentro la casa. Ci vollero 10
lunghissimi minuti, per sistemare l’arma, mentre il mostro scassava tutta la casa, in quei minuti
guardavo attentamente il suo abito e il suo casco. Alla base del collo c’era una specie di bottone
rialzato, e il casco aveva delle sfaccettature all’altezza delle tempie.
Una volta fatta l’arma, dissi a Kaled che poteva andare anche lui, non aveva senso farlo rimanere,
restando rischiava la sua vita inutilmente, mentre io grazie alla trasformazione qualche minima
speranza l’avevo. Lo salutai e poi aprii tutte le stanze della casa. Salivo le scale con una doppia
ascia in mano, per affrontare un mostro, poi pensai che anch’io ero un mostro, e la cosa fu
metabolizzata dal mio cervello. Arrivato al piano sentì il fracasso, proveniva dal salone, tutti gli
oggetti di valore distrutti, quando vidi la scrivania vittoriana in frantumi, la mia rabbia inondò il mio
corpo, non ero più Ryo Ungeziefer, ero un altro mostro.
Nascosi l’ascia sotto la metà ancora sana del divano, poi attaccai a testa bassa, lo colsi di sorpresa,
lo spinsi verso il muro, all’impatto ci fu come un tuono, l’avevo stordito. Cercai le fessure nella
maschera e li trovai, spinsi in tutte le direzioni, finche la maschera si scompose in due pezzi e
caddero a terra, finalmente vidi la faccia del mio assalitore, aveva gli occhi azzurri con il mio stesso
strano riflesso felino, i capelli erano rosso biondicci come i miei, la carnagione era chiara come si
confaceva ad uno scandinavo. Poi mi concentrai sulla muta aderente, premetti il bottoncino e
comparve una finissima cintura lampo, presi la linguetta e la scesi fino ai suoi glutei. Avevo un
corpo da autentico vichingo, con tatuaggi totem della sua razza. Poi non ebbi più il tempo di
pensare, il mostro si ridestò dal suo stordimento e tornò alla carica.
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CAPITOLO 39
Il costume e la maschera
Iniziammo a lottare, pugni, calci, testate, senza più difenderci, ci colpivamo, presi da una frenesia
animalesca, probabilmente dettati dal virus, eravamo due leader, due maschi Alpha, due cavalieri
che combattevano per la propria fazione. Ci arrotolammo a terra, sbattendo su ogni cosa, che
inevitabilmente andava in frantumi, decisi di avvicinarmi al mezzo divano, ma il mostro mi tirò dai
piedi e mi fece allontanare dalla mia arma. Scalciai e lo spinsi via, ma lui mi riprese un’altra volta,
esasperato, presi il mio coltello da sub e glielo piantai nel petto, ma si ruppe la lama, gli avevo fatto
solo un graffio. Mi guardò e mi fece un sorriso soddisfatto, del tipo “non mi hai fatto niente”. Io gli
caricai un pugno con tutta la forza che avevo in corpo e la sua testa andò indietro con un movimento
innaturale, forse gli avevo spezzato qualche vertebra, cadde a terra immobile, ma la cosa era solo
momentanea, sapevo che il virus avrebbe sistemato l’ossatura in breve tempo. Presi l’ascia e
scagliai un colpo sul collo del mostro, questo cedette in parte, aveva una ferita profonda e scorreva
il sangue, ma non bastava. Continuai a dargli colpi d’ascia fino a quando il tronco non si staccò
completamente dalla testa. Ero stanco fino all’inverosimile. Mi accasciai accanto quel corpo
mutilato e fu buio.
Mi svegliai, ma non sapevo dove mi trovavo e quanto tempo era passato dal mio svenimento. Il
primo volto che vidi era quello di Aya, ma che ci faceva lì? Non era in Romania? In realtà scoprì
che dalla battaglia erano passati due giorni e che nel frattempo erano accadute un sacco di cose.
Quando riuscii ad alzarmi, mi trovavo nel mio laboratorio, chiesi ad Aya di aggiornarmi sugli
avvenimenti.
Aya: < Ti hanno trovato disteso nel salone, privo di conoscenza, il mostro eri riuscito ad ucciderlo
per fortuna. La casa e il terreno attorno erano in condizioni pessime. Prima di tutto hanno tolto i
rottami dell’elicottero fuori dalla proprietà, poi quello, all’interno. Hanno tolto i rottami dei 5
camion. Hanno raccolto i corpi o quello che ne restava di 60 soldati della setta. Riparazioni al tetto,
alle porte e alle finestre. Ripristinati i collegamenti audio e video, internet, ecc. Ripristinate armi nei
punti strategici in casa e fuori. Ripulita della casa. Gli oggetti del salone sono tutti distrutti, quelli
non si possono sistemare. Irina sta cercando di sistemare una scrivania in frantumi tipo puzzle.
Sistemato solarium, piscina e muro perimetrale posteriore. I ragazzi ti aspettano al posto di
comando per fare il punto della situazione. Prima che sali ti devo fare vedere alcune cose.>
Ryo: < Cosa?>
Aya: < Nel tempo che tu eri privo di sensi ho esaminato il corpo di quel uomo, sono riuscito a
risalire al suo nome, si chiamava Evert Folke, Svedese, un cavaliere oscuro. Il suo corpo aveva
subito il tuo stesso rito, i suoi muscoli e ossa hanno una densità impressionate, in parte è questo il
motivo perché i proiettili non lo avevano ucciso, e in parte è colpa di questa speciale tuta, è fatto
con un materiale organico simile alla placenta, durissimo ed elastico allo stesso tempo, non faceva
penetrare il proiettile e distribuiva la potenza in tutta l’armatura, dissipandola, sto pensando di
replicarla in laboratorio. L’elmo/maschera, è un concentrato di tecnologia, non so che metallo sia,
ancora lo devo studiare, unica cosa certa è che era un trasmettitore/ricevitore potentissimo. Il suo
padrone lo comandava a distanza, come un robot, il suo padrone aveva solo un obiettivo, la tua
morte.>
Ryo: < Beh questa volta gli è andata male. Mi vesto e vado a salutare la squadra.>
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Era il Sabato sera del 18 Luglio. Eravamo in quello che era una volta il salone della casa Arges.
Eravamo tutti seduti a terra, mangiavamo e bevevamo, e ci raccontavamo quello che era successo
due giorni fa, ognuno con la sua versione, ognuno veniva ascoltato. Solo Irina era messa da parte
nella continua frenesia di sistemare quella scrivania, io non osai neanche avvicinarmi, con il nuovo
me, non aveva mai parlato.
Ryo: < Ragazzi, c’è andata di culo, siamo tutti vivi, sani e salvi, non penso che quei bastardi si
facciano rivedere da queste parti. Hanno inviato anche il loro uomo migliore, se uomo lo vogliamo
considerare. Le nostre difese sono forti, la squadra Arges è solida ed unita. Ora dobbiamo attaccare.
Andiamo a stanarli a casa loro, rompiamoci il culo e riprendiamoci la Corona del Drago, fino a
quando sarà in mano loro, e per loro intendo L’ordine dell’Oscurità, noi dell’Ordine della Luce non
avremo mai pace e non saremo mai al sicuro. Certo qui abbiamo come difenderci, ma saremo
confinati, saremo prigionieri delle nostre paure, per sempre.>
Kim: < Cosa vuoi fare?>
Ryo: < Tu, Carl, Irina, Filippo, Aya. Starete qui al sicuro a coordinare le cose. Io, Mike, Kaled e le
guardie andremo in Svezia, creeremo una base operativa di appoggio a Stoccolma e poi andremo
nella tana del Bianconiglio, e vedremo quanto sia profonda>
Kim: < Ma non sarete troppo pochi? Se qui ne sono arrivati 61, li ce ne saranno a centinaia di
soldati.>
Ryo: < Kim la quantità e le armi, in questi casi contano poco, quel mostro da solo e senza armi
poteva uccidere all’infinito senza fermarsi un attimo. Bisogna utilizzare la strategia, la logica, la
conoscenza, questo è quello che ha fatto la differenza due giorni fa. Le telecamere piazzate al punto
giusto, per vedere e rivedere i punti deboli e capire come attaccare. Sapere modificare un’arma in
pochi minuti, e renderla mortale anche per chi non muore mai.>
Kaled: < La gente si fissa con il semplice pensiero che una spada possa essere una spada e che una
pietra sia solo un oggetto inanimato, invece no, una spada può diventare il pilastro di una tenda e
una pietra una statua. Basta avere una mente aperta, e le capacità di realizzare ciò che si è progettato
nella testa.>
Ryo: < A questo proposito, chiedo il favore ad Aya di rimanere ancora un pò tra noi. Per poter
modificare il costume e l’elmo, in modo che io lo possa indossare. Poi vorrei completare un altro
ciclo prima di ripartire, per la prossima avventura>
Aya: < Non c’è problema Unge, già ci stavo lavorando>
Ryo: < Ok, allora, tutti sapete quello che dobbiamo fare, domani mattina si ricomincia>
Tutti si alzarono e si allontanarono, chi andava nelle proprie camere e chi aveva ancora fame e
andava in cucina perché aveva ancora fame. Rimanemmo solo io ed Irina nel salone. Eravamo i
padroni di casa, marito e moglie, ma eravamo distanti anni luce. Irina cercava ancora di sistemare
quella scrivania, forse pensava che se riusciva ad aggiustare quel oggetto, poteva sistemare tutta la
sua vita, che nel giro di qualche settimana era cambiata totalmente, stravolta all’inverosimile, e chi
gli poteva dare torto. Quello che riteneva l’amore della sua vita si era rivelato un mostro, un serial
killer, un invasato di un ordine religioso antichissimo. Cosa poteva fare lei, incinta, in un paese
straniero, in una casa bombardata dai missili?
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CAPITOLO 40
La città vecchia
Una suggestiva Città Vecchia, parchi, canali, design e architettura son i segni distintivi di
Stoccolma, città dalla forte indole marittima e dalle atmosfere internazionali. Prendere i battelli per
andare da un punto all’altro della città e visitare i parchi, musei e palazzi antichi, erano le cose che
più mi piacevano, era un luogo dove le 19 ore di sole di luce solare di luglio, consentivano di stare
all’aria aperta fino a tardi, senza neanche accorgersi del tempo che passava. Stoccolma fu fondata
nel 1252, fu uno dei centri medievali più estesi, ed ora uno dei meglio preservati in Europa.
Passeggiando per la caratteristica e pittoresca zona di Gamla Stan, si trovavano ristoranti,
monumenti, negozi e molti altri posti che stuzzicavano la mia fantasia e curiosità. Le particolari
stradine acciottolate su cui fanno capolino le case gialle, sono il biglietto da visita di una zona unica
nel suo genere.
Fu qui che creammo la nostra base operativa in Svezia, era una scelta azzeccata, sia come punto
logistico e sia per la bellezza del luogo. Qui eravamo per lavorare, prima di dedicarci hai nostri
affari, dovevamo creare la nostra immagine di copertura. Ci fu una chiamata tra me e il Commenda,
per metterci d’accordo, perché era lui il fissato, che ogni cosa doveva essere un segreto, e ogni cosa
era più importante se veniva bisbigliata all’orecchio. Mi affidò un altro incarico “artistico” al
Museo Moderno d’Arte Moderna di Stoccolma, dovevo essere il supervisore e relatore delle opere.
Era stato l’architetto spagnolo Rafael Moneo a progettare il museo nel meraviglioso scenario
naturale di Skeppsholmen, l’incantevole isoletta situata tra Gamla Stan, la città vecchia, e l’isola di
Djurgården, che è collegata alla terraferma da un ponte suggestivo.
Il Museo d’Arte Moderna offriva una delle più grandi e belle collezioni artistiche dal Novecento
fino ai nostri giorni, con i capolavori di grandi maestri come Dalì, Picasso, Matisse e Dekert.
Accanto alle prestigiose collezioni di questi illustri geni dell’arte e alle mostre temporanee, il museo
disponeva opere d’arte contemporanea e di moderni classici, di cui ero l’esperto. Per me che adoro
mangiare è bello sostare al ristorante, da cui si può ammirare il bellissimo panorama di
Strandvägen, una delle strade più belle della capitale svedese.
Era sabato 25 Luglio, la Squadra Arges era formata come sempre da me, Kaled, Mike e le tre
guardie del Conte, finalmente imparai i loro nomi rumeni, e subito dopo me li dimenticai, così li
soprannominai, Tizio Caio e Sempronio, dei nomi classici senza tempo. Oltre ai soliti, si
aggiunsero Navy, la terza moglie del Conte Poenari, e Kim che doveva rimanere a San Pietroburgo,
ma quando seppe che la copertura era un lavoro da museo, ci pensò un minuto per preparare cartella
per il portatile e la borsa con i vestiti. La casetta gialla s’intonava con il mio colore della pelle,
pensai che fosse utile per mimetizzarmi, poi scoppiai a ridere, senza che gli altri capissero il mio
stato d’animo, ero strano, ero sempre stato strano, anche prima della trasformazione.
Al museo mi conoscevano con il mio alias, Dottor Jeremy Brown, non potevo andarci con il mio
vero nome, dopo il MoMA di New York ero diventato abbastanza famoso nel settore dell’arte, e
l’attuale mia condizione fisica post trasformazione, differiva parecchio dal vecchio Ryo Ungeziefer.
Comunque non passavo inosservato, mi passava a prendere una limosine con Mike l’autista nero di
2 metri super palestrato, con me venivano la mia segretaria di origine tailandese, e Navy la contessa
rumena come accompagnatrice. Io stesso ero un fenomeno da baraccone, con i miei muscoli
straripanti, i miei occhi da felino, i capelli sparati in aria, e le movenze di un serpente. Nel tempo
libero correvo, facevo kilometri, senza mai stancarmi, con Kaled andavamo nei fiordi, dove il mar
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baltico si scontrava con la roccia, era uno spettacolo magnifico, uno dei più bei posti in cui ero
stato. Questo durò comunque poco, perché già i primi di agosto, ci preparavamo per l’attacco finale
alla setta Temhota, e al recupero della Corona del Drago.
La partenza da Stoccolma fu il lunedì 3 agosto. Avevamo caricato tutto il materiale necessario in un
camion noleggiato, uno militare sarebbe stato troppo strano in un posto del genere, o comunque
notato da chi ci incrociava. Arrivammo a Norrlångträsk, nella contea di Västerbotten, un posto
delizioso, con i laghetti, con le case di legno colorate, la temperatura era mite, le strade erano in
perfette condizioni e non c’era mai traffico. Niente di quello che vedevo, mostrava le mostruosità
che avevo nella mia testa, se Evert Folke era nato qui, qui ci doveva essere qualche indizio per
iniziare le indagini.
Prendemmo una casa di legno, con il tetto a punta, e dipinta color mattone. C’era un capanno che
fungeva da garage per il furgone. Il paese era piccolo e non c’era bisogno di auto per spostarsi. La
prima impressione era che erano tutti appassionati dalle moto da cross, e capivo il perché, c’erano
tanti posti sterrati per fare i sali e scendi e acrobazie varie, inoltre permettevano di fare percorsi
stretti e ripidi, che erano impossibili con le normali auto. Mentre eravamo nella casetta a sistemare
il nostro equipaggiamento, avvertì una sensazione, una specie di presenza, accompagnata ad un
sibilo quasi impercettibile, non capivo da dove venisse. Aspettai la notte, tanto io non dormivo e al
buio ci vedevo meglio che di giorno.
Mi misi una tuta e un paio di scarpe da ginnastica e l’auricolare per rimanere in contatto con la
squadra. Iniziai la mia corsa, il sibilo proveniva da sud, quella era la mia unica certezza, cercai di
mantenermi il più possibile nelle strade principali, senza sconfinare in proprietà private, o farmi
inseguire dai cani da guardia. Feci dei kilometri e chiesi a Kim dove mi trovavo, lei con voce
assonnata mi disse, che ero a nord di una cava d’estrazione che si chiava Björkdalsgruvan AB, una
specie di scioglilingua. Procedendo verso sud avevo un laghetto alla mia destra, che prendeva
l’acqua da un fiumiciattolo sempre alla mia destra, a sinistra c’era questo enorme cantiere, il sibilo
veniva da lì. Non c’erano particolari recinzioni, qui nessuno rubava, non c’erano telecamere visibili,
c’era solo una quantità infinita di terra smossa. Mi colpì come un pugno al naso, l’odore della terra,
non so come fosse possibile, era la stessa terra in cui mi seppellivo per riposarmi, quella prelevata
dalla Caverna del Drago, questo posto era il luogo di origine.
Risalii la collina di terra e arrivai in cima, per avere una visuale migliore. Sotto c’erano dei
macchinari da cantiere come ruspe ed escavatrici, poi c’era una piccola baracca di legno non
verniciato. Complessivamente il posto sembrava un cratere lunare, come se ci fosse caduto un
meteorite in qualche era preistorica. Scesi fino alla baracchetta, ed entrai, c’era un tavolo e 6 sedie
di legno, c’era un deposito che odorava di carburante e accanto un tavolaccio con degl’attrezzi da
lavoro, l’unica cosa d’interessante era una bacheca di legno, metà era occupata dalla cartina della
zona e l’altra metà era una vecchia carta ingiallita di un ritrovamento di un meteorite. Quindi questo
poteva essere realmente un cratere, e le persone che scavavano erano in cerca di pezzi di quel
oggetto. Ma a che scopo? E cosa centrava con il sibilo nelle mie orecchie? Non avevo risposte.
L’unica cosa che sapevo era il nome della ditta “AB” che poteva significare qualunque cosa, forse
le iniziali del titolare dell’azienda, ma era solo un’ipotesi.
Feci marcia in dietro e ripercorsi la strada accanto al fiume, questa volta accanto la riva, c’erano dei
pesci in acqua, mi tolsi l’auricolare, mi tuffai e catturai un pesce enorme a mani nude. Ripresi
l’auricolare e con in braccio il pescione ritornai alla base. Quando videro tutto bagnato e con quel
pesce gigante, scoppiarono a ridere fino alle lacrime.
88
CAPITOLO 41
Il meteorite
Scattammo tante foto a quel pesce, era innaturale un gigante così, in un fiume così piccolo. Pensai
che era dovuto ai minerali disciolti in acqua, che si trovavano in quel terreno vicino alla cava. Quei
minerali erano super nutrienti era questo che stavano raccogliendo. L’indomani mattina, spedimmo
in una vasca con ghiaccio il pesce, per farlo analizzare da Aya nel suo laboratorio, sperando che non
si rovinasse durante il percorso. Kim invece fece delle ricerche sulla ditta “AB”, ne risultò
proprietario un certo Alberto Braccianti, nato nel 1975 a Firenze, la ditta ha sede a Stoccolma, e ha
cantieri in tutte le parti del mondo. Come era possibile che una ditta così importante non la
conosceva nessuno, tranne nei registri ufficiali? Che interesse aveva questo signore a scavare pietre
in questo paese sperduto scandinavo?
Kim, mi diede un dato interessante, il signor Braccianti abitava ad Aivak in Svezia, ad ovest della
nostra posizione. Guardammo le immagini satellitari della zona e non c’era niente, si vedeva
boscaglia e un lago, non c’era segno di costruzioni o di strade asfaltate. Un ricco che faceva
l’eremita? Io pensavo un ricco che si nascondeva e bramava nell’oscurità. Quella era la mia idea, e
se la mia idea era giusta, lì c’era la sua base suprema, dove la setta tesseva le sue ragnatele e le
spargeva nel mondo. A quel punto avvertimmo tutti che l’attacco sarebbe stato nelle prossime ore,
che il punto d’azione era in quelle coordinate e che non saremmo tornati indietro senza la Corona
del Drago.
Era giovedì 6 Agosto, la data stabilita per l’attacco, avevamo viaggiato in camion la notte prima e ci
eravamo accampati a 5 Km di distanza dall’obiettivo. Un piccolo Campo 1 funzionale. Alle ore
08:00 iniziò la missione. Io indossai solo il gonnellino con la pelle di Zlatan, con enorme
raccapriccio di tutti. Poi indossai il costume di Evert Folke, non c’era stato bisogno di fare
modifiche perché aderiva perfettamente alla pelle e si modifica in base a gl’impulsi che riceveva.
Indossai il casco/elmo modificato da Aya, aveva inserito degli auricolari impermeabili e aveva tolto
il trasmettitore/ricevitore che comandava il mostro. In fine allacciai alla schiena la mia ascia
bipenne placcata in argento,e affilata da Kaled per l’occasione. Feci una prova radio per vedere se
funzionava correttamente, e si sentiva bene. Salutai tutti con un cenno della mano e sparii nella
boscaglia.
5 Km per il nuovo fisico non erano assolutamente niente, le mie falcate erano ampie, mi sembrava
quasi di volare rasoterra anziché correre. Arrivai al lago, mi immersi, e nuotai a pelo d’acqua, senza
creare onde o schizzi. Avvicinandomi all’obiettivo, sentivo l’acqua più calda, sentivo delle leggere
vibrazioni, guardai sott’acqua e non vidi pesci e ne piante acquatiche, solo rocce di diversa
dimensione, questo era preoccupante. Ora stavo affrontando una specie di corrente contraria, che
non veniva da un’affluente, ma dalle rocce di fronte a me. Potevo pensare ad una sorgente
sotterranea, ma l’acqua era calda e non fredda, come doveva essere a queste latitudini, anche se
eravamo ad agosto, l’acqua doveva essere solo qualche grado sopra lo zero, qui eravamo sopra i 20
gradi.
Arrivai alla roccia, e mi aggrappai, la vibrazione era più forte, e la corrente proveniva da sotto.
Decisi d’ispezionare il fondale, m’immersi e nuotai verso il fondo, poi andai controcorrente, come
un salmone che risale il fiume. C’era un’enorme caverna subacquea, come quelle che avevo visto in
Romania, ma di dimensioni gigantesche, l’arco era largo almeno 10 metri e alto dalla base del lago
15 metri circa, ci poteva passare un sottomarino intero e ci sarebbe rimasto spazio. Entrai nella
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grotta, e vidi che ai lati c’erano delle specie di luci segnalatrici, per indicare i confini di quel antro.
Spinsi più forte con le gambe e vidi una specie di molo d’ormeggio, con dei respingenti di gomma,
mi aggrappai ad uno di essi, poi lentamente, con estrema prudenza, mi issai e salii in superficie per
prendere aria e per vedere dove ero finito. Come sospettavo, era la base principale della setta, non
c’erano dubbi, per creare un posto del genere c’erano voluti sicuramente anni e svariati milioni di
euro, non era una costruzione banale, era stata progettata abilmente, non c’era niente
d’improvvisato.
Uscii dall’acqua e mi nascosi dietro un silos, dovevo fare molta attenzione, c’erano molte
telecamere attaccate all’alto soffitto, che sicuramente scrutavano ogni movimento. Sentii dei
rumori, poi vidi delle persone vestite tutte di nero, avevano un berretto con una B stilizzata.
Provenivano da un tunnel dal lato opposto di dove mi trovavo, feci il giro radente il bordo del muro,
basso e lento. Quando arrivai all’imbocco del tunnel, partì una sirena assordante e delle luci
lampeggianti gialle, mi avevano scoperto. Gli uomini in divisa furono avvisati della mia presenza e
mi andarono a cercare, io corsi per il tunnel cercando un nascondiglio, ma mi trovai un muro di
soldati, armi spianate e scudi rinforzati infrangi folla. Presi una rincorsa e caricai come un bisonte,
al contatto con quei uomini sentii come il rumore della palla da bowling quando fa strike e butta giù
tutti birilli, avevo solo rallentato la corsa e non mi ero fermato, i soldati che avevo colpito erano
sparpagliati per 10 metri, nessuno dava segni di vita.
Quelli non colpiti dalla mia furia, reagirono e si misero a sparare, mi colpirono ripetutamente, ma
sentivo come delle piccole punture d’insetto niente di più, era fastidioso, tornai indietro, ne presi
uno e gli staccai la testa dal corpo, ne presi un altro, gli diedi un calcio ad un fianco e volò su un
muro laterale privo di vita, e così ad uno ad uno li uccisi tutti, fino a ritornare all’imboccatura del
tunnel, non ne lasciai vivo nessuno. Liberato il campo da quel fastidio, ripresi la mia marcia alla
ricerca del Super Cattivo, la nemesi del bene, colui che generava il male e si nutriva del caos. Finito
il tunnel mi trovai davanti ad un ingresso blindato, le telecamere mi guardavano, sentivo dei rumori,
provenire dall’alto, c’erano due corridoi attaccati al tetto del tunnel, si affacciarono dei soldati e
iniziarono a sparare. Decisi che per andare avanti dovevo passare da li sopra.
Presi una lunga rincorsa e corsi talmente veloce che miei piedi aderirono alle pareti, permettendomi
la scalata verso i corridoi soprastanti, mi aggrappai al corrimano di metallo e balzai sopra. I soldati,
non si aspettavano una mossa del genere, continuarono a sparare e andare all’indietro, io ero più
veloce di loro e li scaraventai fuori dal corridoio, facendoli precipitare nel tunnel, urlavano e
strillavano, ma a me non interessavano, ero solo degli ostacoli che si frapponevano tra me e il mio
obiettivo. Superai l’ingresso superiore e mi trovai dentro la tana del diavolo. Una costruzione
nuova, non c’era polvere, non c’era ruggine, non c’erano graffi alle pareti. Continuai a camminare,
c’erano dei laboratori, entrai in uno di essi e trovai quello che non volevo trovare, circa 100 corpi
umani, che venivano trattati con il Rito del Sangue, se riuscivano a completare la trasformazione,
niente e nessuno li avrebbe più fermati.
Vidi il generatore di corrente e lo spensi, tutti i macchinari si fermarono, i corpi si muovevano
convulsamente in agonia, poi non si mossero più. Una minaccia in meno pensai, ma pensai che
c’erano altri 5 laboratori pieni di cavie. Uscii e andai a spegnere gli altri generatori. Quando arrivai
all’ultimo sentii delle urla, e dei soldati diversi, questi erano sempre vestiti di nero, ma erano
corazzati, avevano una specie di esoscheletro che li proteggeva. Io andai a dargli il benvenuto, ma
questa volta la loro forza congiunta sopravvisse al mio attacco e mi respinsero indietro. Capii che
facevano parte di una squadra di elit, dovevo cambiare strategia, avrei perso troppo tempo a
combatterli uno ad uno.
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CAPITOLO 42
Il Re Oscuro
Vidi il silos da 1000 litri di acqua deionizzata e lo spaccai con un pugno, l’acqua si sparse in tutto il
laboratorio, presi il cavo elettrico e lo buttai a terra, poi saltai, mi aggrappai ad una traversa in
cemento e mi tirai su. Le guardie corazzate erano pesanti, non potevano saltare allo stesso modo,
vennero bagnate dall’acqua, e poi gli arrivò la scarica elettrica continua, furono folgorati tutti, e così
risolsi il problema, senza neanche lottare. Io camminai sulla traversa come un equilibrista, arrivato
al muro, caricai pugni e calci, fino a quando non si aprì un varco abbastanza grande per poterci
passare. Mi tuffai dal buco e atterrai su una porzione di terreno asciutto, e da li andai in un altro
corridoio, lo percorsi tutto, alla fine c’era una grande porta d’argento, con tanti bassorilievo, spinsi
quella porta ed entrai in quella che sembrava la sala del trono. In effetti c’era un trono in fondo alle
navate, ma non vedevo nessuno.
Si sentì scricchiolare una porta laterale, che non avevo notato, da lì uscirono due guardie corazzate,
dietro di loro due persone, una era un altro mostro, doveva essere Eskil Håkan, anche se era coperto
dall’elmo/maschera e indossava il costume/placenta, capii che era lui. Il quarto uomo, era basso
rispetto alle altre persone che aveva accanto, circa 165 centimetri, magrissimo, capelli corti e radi di
colore nero, carnagione mediterranea, naso aquilino, occhi da pesce lesso, in testa aveva la Corona
del Drago, in tutto il suo splendore, era la prima volta che la vedevo, il rubino centrale era quanto il
pugno di una mano e di un colore rosso sangue intenso, era l’occhio del drago. La corona era fatta
di un materiale opaco privo di luce, con altre pietre preziose incastonate, aldilà dei poteri
sovrannaturali era un capolavoro assoluto.
Il Re Oscuro si mosse e si sedette sul suo trono, con gli alfieri ai lati, ed Eskil che era rimasto vicino
alla porta. Il Re parlò.
Alberto Braccianti: < Io sono il Signore dell’Ordine Oscuro, padrone del mondo intero, tu sei una
minaccia per noi, devi morire. Prima di mettere fine alla tua insignificante esistenza, ti voglio
raccontare una breve storia. La corona che hai cercato con tanta insistenza è una parte di un
meteorite caduto sulla terra milioni di anni fa, i miei antenati capirono le capacità di quel materiale
e ne forgiarono una corona e poi lo abbellirono con le pietre preziose che vedi. Il terreno dove
cadde il meteorite è ricco di minerali preziosi, che rendono forti e invincibili i miei uomini, che
prendono ordini solo da me, sono i Cavalieri Oscuri, potenti macchine da guerra.>
Ryo: < Questo lo so già, io stesso ho praticato il rito, e io stesso ho ucciso un Cavaliere Oscuro,
quanto all’immortalità ci andrei piano con le parole, visto che la testa di Evert era a 6 metri dal
corpo l’ultima volta che l’ho vista. Raccontami la vera storia se la sai, e non mi raccontare frottole
per i bambini.>
Alberto: < Bene, d’arroganza e presunzione ne sei pieno, ci sarà spazio per della conoscenza? Non
saprei dire. La storia la so e la so bene, visto che la tramandiamo da oltre due secoli. Il Re Bullent
Primo Poenari, rubò come un vile ladro la Corona del Drago, da millenni in nostro possesso, aveva
scoperto il rito e lui e altre persone diventarono esseri superiori. Il Cavaliere della Luce Olaf
Poenari, cugino del Re fu lui l’umano che tradì il nostro ordine e per questo motivo gli fu recisa la
mano. Ma tradimento chiama tradimento, e la bella figlia di nome Navlata, tradì la sua famiglia, che
fu condotta alla grotta del Drago , qui uccise i genitori e li seppellì insieme al cavaliere e a Bacaloff
il Saggio. Tagliò a tutti la testa, li avvolse in un sudario, li coprì con la terra, poi completò il lavoro
con le lapidi. Poi fece un atto di pentimento, lasciando lì anche la corona, perché nessuno la potesse
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ritrovare, e sfruttare il suo potere sugli umani. Chiuse la grotta e scappò lontano. Ma fu trovata
dall’ordine è condotta alla presenza del Re Oscuro dell’epoca. Lei raccontò la storia che ti ho
raccontato, ma non rivelò mai il luoghi delle tre caverne. Morì al rogo come una strega.>
Ryo: < Grazie, ora il cerchio è chiuso. Mi darai la Corona del Drago e io la riporterò al suo
legittimo erede e ne disporrà a suo piacimento, come hai fatto tu fino ad adesso!!!>
Alberto: < Stolto, quello che è mio rimarrà mio, tu morirai qui, non vedrai più la luce, morirai
nell’oscurità di questa caverna!!!>
Detto questo, si alzò e se ne andò verso la porta insieme ai due alfieri. Io feci per avvicinarmi, mai
fui bloccato immediatamente da Eskil il Mostro. Il Re Oscuro uscì dalla stanza e non potevo
inseguirlo. Chiamai a Kim, gli dissi che il Re Oscuro stava scappando e che io non lo potevo
inseguire. Probabilmente aveva un sottomarino per la fuga. Gli chiesi di mettergli un localizzatore
nello scafo per poi inseguirlo successivamente. Detto questo, non potei dire altro, perché mi arrivò
un pugno in faccia che mi tramortì e mi fece fare tre navate strisciando sul pavimento. Quello era il
gong d’inizio combattimento, ma non volevo sfinirmi come avevo fatto a San Pietroburgo, erano
inutili i proiettili e scosse elettriche, lo potevano solo rallentare. Qui ci voleva la mia ascia speciale
per uccidere mostri, ma prima lo dovevo riuscire a bloccare e lì non c’era niente che potessi
utilizzare.
Allora invece di andare in direzione del mio avversario, continuai ad andare indietro ed uscii dalla
porta d’argento, certo che mi avrebbe inseguito in capo al mondo, e infatti sentivo i suoi pesanti
passi che seguivano i miei. Passati un paio di corridoi, mi trovai un manipolo di soldati, che si erano
piazzati in modalità posto di blocco. Io non rallentai, anzi accelerai, poi all’ultima frazione di
secondo, scartai sul muro laterale destro, e camminai come una lucertola, superando alla grande
l’ostacolo, mentre Eskil aveva tirato dritto fracassando ogni cosa al suo passaggio, fregandosene dei
suoi compagni soldati. Arrivai al tunnel, qui non c’era nessuno, c’erano solo i corpi di quelli che
avevo ucciso prima, mentre quelli ancora vivi sicuramente erano saliti sul sottomarino insieme al
Re, per tentare la fuga.
Mi tuffai in acqua, questa volta ero a favore di corrente, ma qualcosa mi afferrò un piede e mi
lanciò sulla banchisa. Era una brutta situazione, perche il Re scappava e il Mostro numero 2 mi
sbarrava la strada, per passare l’avrei dovuto uccidere. Sciolsi il laccio che teneva stretta l’ascia alla
mia schiena e presi l’elsa dell’arma primitiva. Mi misi in posizione di difesa e attesi che Eskil
uscisse dall’acqua. Invece mi arrivò addosso un masso da mezza tonnellata, mi lanciai a sinistra
verso il silos, che coprì parzialmente il colpo facendolo carambolare dalla parte opposta dove si
arrestò. Io per mia risposta appena Eskil salì nella banchisa gli scaraventai addosso il silos. Lui
cercò di ripararsi, ma fu schiacciato. Mi avvicinai e vidi che era ancora vivo, ma bloccato dalla vita
in giù, era questione di momenti prima che si liberasse. Gli andai alle spalle, senza che lui se ne
potesse accorgere, strinsi bene l’ascia e colpii con tutta la mia forza, il colpo gli sconquasso tutte le
ossa, ma era rimasto tutto unito a causa del vestito, premetti il bottoncino nero e glielo sfilai, poi gli
tolsi il casco, e ritornai a colpire fino a che la testa non rotolò via dal corpo.
Libero da quel fardello, decisi di fare esplodere tutta la grotta, nessuno doveva vedere quei corpi,
ma soprattutto i laboratori, che potevano essere usati in futuro per creare altri mostri. Presi un fucile
di un soldato morto e sparai prima alle condutture del gas e poi ai serbatoi di carburante. Fui
investito dalle fiamme e dalle esplosioni, ma non sentivo dolore, niente mi faceva male. Entrai in
acqua e presi il viaggio per tornare dai miei compagni. Dietro di me l’inferno stava bruciando.
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PARTE VIII
Isola di Deception
CAPITOLO 43
Batterie scariche
La nuotata dalla caverna all’altra sponda del lago fu più lunga del previsto, avevo in una mano
l’ascia bipenne, e poi mi sentivo profondamente stanco, avevo di nuovo raschiato il fondo del barile
delle mie energie. Arrivato alla sponda, dovevo fare 5 Km per ritornare al Campo, questa volta non
correvo come il vento, ma arrancavo, usavo l’ascia come appoggio. Chiamai Kim, gli dissi di
venirmi a recuperare, poi mi spensi.
Ripresi conoscenza, dopo un tempo che non riuscivo a definire, il sole stava calando, quindi erano
passate almeno 5 ore, ero sdraiato su un lettino da campo che non riusciva a contenermi
completamente, ero al campo, mi misi seduto e chiesi aggiornamenti.
Kim: < Unge, ti abbiamo recuperato a 2 Km dal campo, eri svenuto, ti abbiamo portato qui, ti
abbiamo tolto casco e muta, abbiamo controllato che non avessi riportato ferite gravi, hai la pelle
arrossata come una grossa scottatura solare, ti abbiamo spalmato della crema idratante, e ti abbiamo
attaccato una soluzione fisiologica al braccio. La tua ascia è nel deposito armi. Noi siamo riusciti ad
intercettare il sottomarino che usciva dalla grotta subacquea e Kaled ha sparato con il fucile un
localizzatore satellitare. Sicuramente c’è un percorso sottomarino che porta al mare aperto. Il
sottomarino ha continuato a muoversi, prima lentamente, ora mantiene una velocità di crociera,
prima ha puntato a sud ora ad ovest, non sappiamo la sua destinazione. Tu cosa ci dici? Cosa è
successo la dentro?>
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Ryo: < L’inferno, stavano creando un esercito di soldato/mostro, ce n’erano a centinaia. Inoltre
c’erano un sacco di soldati regolari e specializzati, li ho uccisi quasi tutti. Ho ucciso anche Eskil
Håkan il secondo mostro. Ho conosciuto il Re Oscuro, un vero pezzo di merda, prima ha fatto
sfoggio dei suoi poteri, della sua indiscussa superiorità, poi al momento di combattere, se n’è
scappato come un topo, lasciando il suo cavaliere oscuro ad occuparsi delle faccende sporche>
Mike: < Non possiamo restare a lungo qui, preferirei tornare alla casetta del paesino>
Ryo: < Si Mike, non possiamo restare qui, più tempo passa e più il Re si allontana. A me dovete
lasciarmi stanotte al cantiere, non riuscirei a tornare a San Pietroburgo per ricaricarmi, lì è lo stesso
terreno della grotta del drago, per un giorno solo andrà più che bene. Quando sarò ritornato in
forma, inseguiremo quel bastardo, ormai è alle strette, ha perso due tesori, ha perso i suoi uomini
migliori, ha perso quelli di medio e scarso livello, ha perso il suo castello e i suoi laboratori, non gli
resta che scappare il più lontano possibile e fare perdere le sue tracce, ma noi non molleremo fin
quando lui non sarà morto e la corona tornerà in Romania>
Detto questo, mentre gli altri fecero i bagagli, io tornai a riposarmi. Dovevo imparare a dosare le
mie energie, sono stato fortunato due volte, non poteva andarmi sempre bene. Mi svegliai che mi
trovavo nel camion, Mike e Kaled, mi stavano facendo scendere con tutto il lettino. Era già buio, il
cantiere era deserto, mi seppellirono in un punto tranquillo, nella terra soffice, lontano dalle rocce,
addosso avevo solo il gonnellino di Zlatan. Mi addormentai.
Qualcuno stava scavando, mi stava riportando alla luce della notte, era passato un giorno. Mi
aiutarono a sollevarmi e a salire nel camion. Il camion camminò fino ad arrivare alla casetta, mi feci
una doccia lunghissima ero totalmente disidratato, avevo bisogno del mio bagno con i sali. A
malincuore dissi ai ragazzi che dovevamo comunque passare da Casa Arges. Mi vestii, feci la
valigia, caricammo tutto e tornammo a Stoccolma. Passai brevemente dal museo, per salutare e per
controllare che almeno lì era tutto a posto. Lasciammo la casetta gialla, per ritornare a San
Pietroburgo. Stavamo perdendo un sacco di tempo, ma non avevamo alternative. Arrivati a Casa
Arges, ritrovammo Carl e Irina, ma soprattutto c’era Aya, che aveva fatto l’ennesimo viaggio, per
andarmi in aiuto.
Mi portò in laboratorio, m’immerse nella vasca con i sali disciolti, e mi sentii rinascere, la mia pelle
non squamava più, e i miei muscoli tornavano tonici. Finito il trattamento, Aya mi parlò.
Aya: < Ryo, devi stare più attento, specialmente quando sei lontano dalla tua tana, hai dei cicli da
rispettare, se no morirai in maniera atroce, ti decomporrai senza che il tuo spirito lasci il corpo,
saresti una specie di zombi. Sto preparando un Kit Salva Vita da viaggio, ovunque tu sarai, i tuoi
uomini potranno ripararti. Poi ti devo parlare di una cosa molto importante, “il pesce gigante”, l’ho
analizzato, è in pratica una versione ittica di un rituale completo, evidentemente i minerali disciolti
nell’acqua sono penetrati nel corpo del pesce, e il lago gli ha fatto da incubatrice. Questo non l’ho
riferito al Conte e a nessun altro, questo significa che si potrebbero creare schiere di uomini e
animali super potenziati, comandati da un solo uomo. Il Conte non è una cattiva persona, ma la sua
inesauribile voglia di dominio, lo potrebbe portare a scelte sbagliate, meglio tacere e lasciare il
mondo come lo conosciamo adesso.>
Ryo: < Aya, ti ringrazio di tutto, sei la mia salvezza, sei sempre un passo avanti a tutti. Oltretutto, la
pensiamo allo stesso modo, il virus deve essere uno strumento per pochi, ed usato solo a fin di bene,
per ripristinare l’equilibrio naturale, stravolto da qualcosa di alieno.>
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CAPITOLO 44
L’isola
Ci volle una settimana, per capire dove si era rintanato Il Re Oscuro, si trovava in culo al mondo, in
un isola chiamata Deception, vicino al polo sud. Di una cosa ero certo, gli avevamo messo una
grossa paura e che quello sarebbe stato il luogo dove sarebbe morto, il resto contava poco.
Acquistammo attrezzatura tecnica, per il freddo più rigido che esistesse, qui era il 14 agosto ed
eravamo in piena estate, ma lì era pieno inverno, sarebbe stato un inferno di ghiaccio. Difficile
arrivarci, difficile restarci, difficile trovare tracce. Fu il viaggio più lungo della mia vita, perché
avevamo materiale che non poteva essere imbarcato sui voli di linea. Avevamo un aereo cargo,
guidava Mark e come copilota c’era Kaled. In stiva, c’eravamo io, le tre guardie, Navy e Kim. Carl
e Irina erano rimasti a San Pietroburgo, Irina per la gravidanza che avanzava, e Carl per mantenere
in attivo i nostri affari.
Ci vollero 8 ore per arrivare a Madrid, per fare rifornimento carburante e verifiche di controllo.
Altre 7 ore per attraversare l’oceano Atlantico e fare scalo a Miami. Altra ripartenza e altre 7 ore
per arrivare a Buenos Aires. Altre ore per arrivare a Capo Horn, il punto più meridionale del sud
America. Da lì non era possibile proseguire con l’aereo, le condizioni atmosferiche non lo
permettevano. Facemmo il trasbordo del materiale dall’aereo, ad una nave rompighiaccio,
decisamente più adatta alle temperature antartiche. Da Capo Horn all’isola Deception, ci volle un
altro giorno intero, passammo l’isola Linvinstone e finalmente vedevamo il nostro traguardo.
Entrammo nella Whalers Bay e facemmo rotta verso il molo della base Antartica Spagnola Gabriel
de Castilla. Al nostro arrivo non c’era nessuno, in questo periodo era raro vedere ricercatori, meglio
così. Scaricammo il materiale e lo portammo all’interno della base, non era chiusa a chiave, era raro
di trovare ladri in queste zone chissà perché. Sistemammo l’attrezzatura e poi andammo in
perlustrazione, eravamo stati per troppo tempo seduti, avevamo bisogno di sgranchirci, anche se
c’erano -30 gradi centigradi di temperatura.
L’isola di Deception è un isola situata in Antartide, nelle isole Shetland Meridionali. Si Trova a 120
Km a nord-est della penisola antartica. I soli luoghi abitati dell’isola sono costituiti da basi di
ricerca scientifica dipendenti dalle Forze Armate argentine e spagnole. Il primo avvistamento
accertato dell’isola fu eseguito dai cacciatori di foche britannici William Smith e Edward Bransfield
con il brigantino Williams nel gennaio 1820. Fu poi visitata ed esplorata per la prima volta
dall’esploratore americano Nathaniel Palmer sulla nave Hero nell’estate australe seguente, il 15
novembre 1820. Palmer la chiamò “Deception Island” che tradotto significava “Isola del’Inganno”
per via del suo ingannevole aspetto di isola normale, mentre la stretta entrata attraverso il Neptune’s
Bellows permise di scoprire che in realtà ha la forma di un anello attorno ad una caldera allagata.
La perlustrazione si rivelò faticosa, il terreno vulcanico nero contrastava con la neve bianca, c’erano
pochi punti di riferimento, solo qualche relitto di barche baleniere e attrezzature per ricavare il
grasso, completamente corrosi dall’incuria e dal tempo implacabile. Poi sentii un ronzio, un ronzio
che sentivo solo io, sentivo che la Corona del Drago era qui, avevo la conferma che non c’eravamo
sbagliati. Cercai ancora una volta di orientarmi in mezzo a quel niente assoluto. Pensai, che
l’ingresso doveva essere una grotta subacquea, abbastanza ampia per farci entrare un sottomarino,
non poteva essere nella costa esterna dell’isola perché il mare era sempre troppo agitato per fare
manovre in tutta sicurezza. Pensai anche che doveva essere in punto distante dalle basi dei
ricercatori, perché quelli della setta non amavano avere compagnia. Ci dovevano comunque essere
dei segni visibili, dei comignoli per le prese d’aria ad esempio.
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Alla fine trovai quello che stavo cercando, nella estrema parte nord della baia delle balene, c’era un
golfo di acqua marina con un ingresso stretto, dall’alto assomigliava ad un fungo atomico. Lì
l’acqua era ulteriormente calma, ed era il punto più distante dalla base di ricerca. In prossimità della
superficie dell’acqua, c’era una grande quantità di vapore acqueo, che non usciva a disperdersi
perché il freddo l’appesantiva subito, riconvertendolo in ghiaccio. L’acqua era calda, 2 motivi
potevano spiegare quel calore, un motivo poteva essere che eravamo dentro la caldera di un vulcano
attivo e dell’acqua di mare era penetrata in profondità e andava a toccare le rocce incandescenti
vicino al magma, oppure poteva essere l’effetto di un reattore nucleare all’interno del sommergibile
che produceva tantissimo calore e veniva raffreddato con l’acqua di mare. Mi avvicinai ancora e
vidi dei cilindri metallici dipinti di bianco per essere meno visibili ad un occhio distratto, ma non ad
un occhio attento come il mio. Ora toccava capire come entrare e fare piazza pulita. Per ora decisi di
fare dietro front e tornare alla base, la squadra era tutta intirizzita dal freddo, e non volevo che si
ammalassero in quel luogo sperduto.
Una volta tornati alla base, chiesi di preparare il Kit di Sopravvivenza per mostri creato da Aya.
Dovevo essere al massimo della forma psicofisica per affrontare questa battaglia, non volevo
svenire più, volevo essere cosciente sempre, e questo dettaglio fondamentale, faceva pendere la
bilancia fra la vita e la morte. La terra fu deposta per il sonno e la vasca preparata per il risveglio.
Era passato un altro giorno al mio risveglio, mi immersi nella vasca per un paio d’ore. Poi mi misi il
gonnellino di Zlatan, il costume e il casco di Evert, legai l’ascia bipenne alla mia schiena, feci una
prova radio e sentii Kim all’orecchio. Unico ordine era quello di evitare un’altra fuga, la squadra
doveva mettere delle cariche esplosive all’ingresso della baia, a costo che anche noi saremmo
rimasti prigionieri li, la fuga non era contemplata.
Uscii dalla base e puntai a nord verso il piccolo golfo a forma di fungo. L’acqua al contrario
dell’oceano che aveva una temperatura poco al disopra dei 0 gradi, lì era non dico calda, ma
abbastanza tiepida da non rischiare l’ipotermia dopo qualche secondo. Mi immersi, l’acqua era
cristallina, trasparente, si vedeva tutto, si vedevano delle bollicine d’acqua che provenivano da un
anfratto di fronte a me. Era la classica grotta con la B stilizzata all’ingresso, ampia per fare passare
il sottomarino, ma che non si vedeva dalla superficie. Entrai nella grotta senza indugio, anche qui
c’erano le luminarie per indirizzare i mezzi subacquei, poi trovai la banchina, emersi dall’acqua e
osservai l’ambiente circostante, era simile in tutto alla caverna in Svezia, ma dimensioni ridotte,
questo era solo un luogo secondario, probabilmente si utilizzava quando c’erano missioni nel
l’emisfero australe. C’erano soldati in divisa nera, niente soldati corazzati, almeno in quella zona,
quindi non indugiai più di tanto e partii alla carica.
Colpii due soldati ancora prima che si accorgessero della mia presenza, poi ne colpii un altro mentre
stava per sfilarsi la pistola dalla fondina. Iniziò a suonare l’allarme e lampeggiare le luci gialle, mi
sembrava di rivivere la stessa scena di quando ero in Svezia. Mi guardai attorno e vidi il tunnel,
anche quello era al suo posto, ma di dimensioni inferiori, qui trovai le squadre specializzate e
caricai testa bassa, ero ancora al pieno delle forze e potevo prendere una bella rincorsa, il muro di
uomini si era aperto al mio passaggio. Recuperai da terra un paio di mitra e iniziai a sparare in tutte
le direzioni, i soldati semplici furono rasi al suolo, quelli corazzati si ripararono e risposero al
fuoco, mi colpirono decine di volte, ma non sentivo dolore, solo fastidio. Continuai a sparare colpi
fino a quando non si svuotarono i caricatori, poi decisi di fare la mia corsa tipo lucertola, camminai
su un muro laterale del tunnel e oltrepassai le linee nemiche, li presi alle spalle e non ebbero il
tempo di reagire, solo il tempo di morire, con un mio pugno o con una mia gomitata, che gli
frantumava le ossa e gli spappolava la carne.
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CAPITOLO 45
Il Cavaliere della Luce contro il Re dell’Oscurità
Decimati i soldati della setta Temhota in quella zona, percorsi tutto il tunnel, come l’altra volta la
porta era blindata, guardai in alto, non c’erano due corridoi, ma solo uno, quanto basta per
arrampicarmi ed affrontare una nuova schiera di soldati, che immancabilmente venivano gettati nel
tunnel sfracellandosi. Superato l’ingresso dall’alto, riscesi dall’altra parte, qui non c’erano
laboratori, c’erano dei depositi, entrai e non potevo credere ai miei occhi, qui c’era il tesoro della
setta, era la banca da dove prelevavano il denaro per mettere in pratica gl’atti criminali, questa volta
non avrei fatto esplodere niente, almeno ci avrei provato. Uscito dai depositi, presi un corridoio, che
mi portò ad una porta d’argento, uguale a quella in Svezia, ma più piccola, spinsi la porta e mi
trovai in una grotta vulcanica, da qui, in tempi remoti scorreva la lava, si vedevano le pareti con
delle linee ad onda che segnavano il passaggio del magma.
Quella stanza era vuota, non c’erano colonne, non c’erano troni, c’erano solo dei ceri che
illuminavano fiocamente l’ambiente. Poi sentii quel rumore, quel rumore di porta di legno con
rinforzi in ferro, l’avevo ascoltato 5 o 6 volte nell’ultimo anno, dietro quelle porte avevo trovato
tesori e nemici agguerriti. Si palesò davanti a me un uomo, poi vidi che aveva le sembianze di un
cavaliere oscuro, mi fece vedere un oggetto che aveva in mano, era la Corona del Drago, la portò in
un angolo e la poggiò su uno spuntone di roccia, poi prese da terra una lunga spada d’argento e si
avvicinò a me e mi parlò.
Alberto: < L’altra volta, mi hai colto impreparato, ero ancora un uomo, ora sono un Dio, siamo soli
io e te, chi vince si prende la corona, chi muore marcirà in eterno. Ora sfodera la tua arma che è
tempo di fare scorrere il sangue!!!>
Ryo: < Hai effettuato il rito anche tu, bravo, ti facevo più vigliacco, ma ugualmente oggi morirai.>
Slacciai l’ascia bipenne e mi preparai a combattere. Sentii quel ronzio, quello vicino al cantiere in
Svezia, era più forte, più intenso, m’intontiva, mentre il Re era fermo davanti a me e non sembrava
avere il mio stesso problema.
Attaccò con la spada, un fendente mi passò pochi centimetri dalla testa, rotolai a terra e mi rialzai di
scatto, poi alzai l’ascia per colpire, ma il sibilo mi trafisse i timpani e persi l’equilibrio. Capì che
quel suono era voluto, e che danneggiava solo me, se volevo sconfiggerlo dovevo trovare la fonte di
quel suono. Scivolai lungo il perimetro della porta e cercai di uscire da lì, ma era chiusa. Allora
colpii con tutta la forza, uno due tre colpi, la porta cedette, ma non potei attraversarla, perché il Re,
mi prese di peso e mi scaraventò dall’altra parte e si frappose tra me e la porta aperta. Caricai a testa
bassa e lo colpii allo stomaco e lo scagliai sulla roccia basaltica, riuscii ad entrare dalla porta, c’era
un piccolo corridoio stretto, lo percorsi tutto, alla fine c’era un’altra delle porte di legno, ma questa
volta era aperta. Dentro trovai due soldati davanti a dei computer e monitor, erano loro, che
amplificavano il segnale che proveniva da un’altra sala, gli staccai la testa senza farli parlare, vidi
nel monitor la scritta Struttura Zero, era lì che dovevo andare.
Uscito dalla stanzetta ritrovai il Re nel corridoio che correva nella mia direzione, poggiai l’ascia a
terra, non mi serviva in quello spazio stretto, mentre il Re mi puntava con l’enorme spadone
d’argento, mi volle colpire con un colpo frontale troppo prevedibile, io saltai sopra di lui e feci una
capriola atterrando alle sue spalle, l’afferrai da dietro e incominciai a stringerlo, lui iniziò a
scalciare e scalciare l’aria, poi trovò il muro e spinse contro di me, io sbattei fortissimo contro il
97
muro che crollò, e volammo in un crepaccio sotterraneo, persi la presa e ci dividemmo, sbattemmo
su tutte le rocce, fino a schiantarci su uno spuntone di roccia. Era tutto buio, in alto si vedeva un
raggio di luce provenire dal buco che avevamo creato, cercai di orientarmi, l’unico suono era lo
scorrere dell’acqua e il Re che cercava di sollevarsi, io l’afferrai e cercai di toglierci il casco, ma lui
prese le mie braccia e me le allontanò. Io mi liberai dal suo abbraccio e gli afferrai un piede, lo
sollevai da terra con la testa sotto e piedi all’aria, iniziai a farlo sbattere contro le rocce, tante volte,
lui colpiva con la testa, con le mani, con il corpo, poi lo feci roteare e lo feci schiantare sulla parete
verticale.
Ora era davvero tramortito, corsi a togliergli il casco e a sfilarci il costume, e ci riuscì, ma ora si
presentava un problema, la mia ascia era almeno 30 metri sopra di me e non avevo il tempo di salire
e scendere. Poi finalmente la fortuna mi assistette, vidi la spada d’argento, incagliata tra due
spuntoni di roccia, il Re l’aveva fatta cadere con se nel baratro. La presi e colpii con tutta la forza
che avevo, la lama era affilatissima e bastò un colpo ben assestato, la testa si staccò dal tronco e
rotolò via, andando a finire nelle correnti del fiume sotterraneo. Era finita, avevo sconfitto il male,
ora dovevo solamente cercare di sopravvivere, che non era semplicissimo, se finivo nel fiume
sotterraneo, rischiavo di finire in qualche gorgo da dove non c’era ritorno. Guardai in alto, verso
quella flebile luce, tastai la parete, era dura e gelida, qui non potevo prendere rincorse per salire, ero
bloccato.
Provai a chiamare Kim con l’auricolare, ma ero troppo in profondità e le pareti erano troppo spesse,
era inutile. Guardai ancora una volta la parete, vidi che non era proprio liscia, c’erano delle linee
curve che sporgevano di circa mezzo centimetro, che percorrevano metà della salita, puntai le dita e
mi sollevai da terra, puntellai anche i piedi, e iniziai una lenta scalata obliqua fino a raggiungere la
metà del dislivello. Ora dovevo cercare di risalire i restanti 15 metri, vidi una piccola sporgenza
abbastanza ampia per poggiare i piedi e ci saltai sopra, mi riposai un paio di minuti per recuperare
dalla fatica, nel frattempo guardavo le possibili strade per risalire. Vidi una roccia dall’altra parte
dello strapiombo, un pò più in basso, mi lanciai e mi aggrappai e salii sulla roccia, da qui la
pendenza non era verticale, c’era angolo per poter risalire, e risalii altri 12 metri e mezzo, ne
mancavano 2 e mezzo, ma erano i più difficili, perché ero stanco e il buco si trovava dall’altra parte
del burrone, qui se cadevo, non mi sarei più rialzato come prima. Cercai di salire ancora un po’,
recuperai quasi un metro, poi mi misi con le spalle al muro, puntai bene i piedi sulla roccia, mi diedi
lo slancio e saltai nel vuoto, percorsi quei metri in volo, e con le punta delle dita riuscii ad
aggrapparmi al bordo del foro del muro, m’issai con i muscoli delle spalle e mi spinsi dentro al
corridoio.
Ce l’avevo fatta, avevo risalito quell’abisso, ora ero sfinito, restai 5 minuti fermo per recuperare
l’energie. Mi alzai e mi misi a girare tutta la caverna, trovai la caserma dei soldati con le brande e
gl’armadietti. Non c’era più nessuno. Poi mi venne un dubbio, il Re Oscuro oltre ad essere un
vigliacco, non credo fosse capace di guidare un intero sommergibile da solo, lì doveva essere
rimasto l’equipaggio ad aspettarlo. Mentre giravo, trovai una porta con la scritta “Struttura Zero”,
entrai, era un laboratorio non grandissimo, ma al centro c’era una pietra nera, di forma quasi
rotonda, più simile ad un uovo, Attorno c’erano apparecchiature tecnologiche, che probabilmente
erano state la causa e la sorgente del sibilo stordente. Non lo toccai, preferivo che lo toccassero
mani più esperte di me, uscii dal laboratorio e tornai indietro, ripresi l’ascia bipenne nel corridoio
stretto, poi superai la porta di legno distrutta, ed ero tornato alla grotta principale, lì in uno spuntone
c’era la Corona del Drago, la presi e l’indossai.
La mia testa era partita in un viaggio psichedelico, la mia mente vagava nell’infinito.
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CAPITOLO 46
Rivelazioni
Ora capivo perché il Re Oscuro si definiva il Re del mondo, quella Corona era un tesoro di
conoscenza, era la memoria di chi l’aveva indossata in precedenza, tutta la storia, tutta la geografia,
tutta la scienza, ma soprattutto tutte le sensazioni che avevano provato quei uomini. Il più grande
tesoro era la conoscenza, che varcava i limiti del tempo e dello spazio, era questo il valore supremo.
Tornai in me, dopo un tempo indefinito, ero sotto terra, non c’erano riferimenti, mi alzai da terra e
andai verso l’ingresso della caverna, li cercai un interfono, che permetteva di comunicare tra la
banchisa di cemento e il sommergibile, io non lo sapevo ma c’era nella memoria del Re Oscuro, che
adesso era mia. Trovai l’apparecchiatura e pigiai un paio di bottoni e misi a parlare.
Ryo: < Sono il Cavaliere della Luce, mi chiamo Ryo Ungeziefer, ho ucciso il vostro Re, ho io in
testa la Corona del Drago, ora sono io il vostro nuovo padrone, salite in superficie, vi aspetto.>
Da una botola nascosta, uscirono una decina di soldati impauriti con le braccia alzate, si
avvicinarono intimoriti. Dovevo essere spaventoso, con la maschera/elmo, con il costume di
membrana, con la corona in testa e in mano un ascia da vichingo.
Ryo: < Non abbiate paura, avvicinatevi, la guerra è finita, non voglio uccidere più nessuno, vi do
due possibilità, volete passare all’Ordine della Luce e vivere, oppure morire come fedeli servitori
dell’Ordine dell’Oscurità? A voi la scelta.>
I soldati si consultarono fra di loro e si avvicinò di un passo il portavoce che disse “siamo con il
nuovo Re” e questo mi bastò. Risposi che sarebbero arrivati i miei uomini, che avrebbero impartito i
nuovi ordini, io sarei andato via, e che non potevano scappare perché l’ingresso della grotta era stata
riempita di esplosivo. Loro capirono e si rassegnarono.
Presi un laccio e legai alla schiena ascia e corona. Mi tuffai in acqua e percorsi il tunnel subacqueo
fino all’uscita. Riemersi ed uscii dall’acqua. Camminai lungo la costa della baia delle balene, fino a
tornare alla base operativa. Entrai, slacciai la corda, e alzai le braccia al cielo, in una mano tenevo la
mia fedele ascia bipenne e nell’altra mostrai la Corona del Drago in segno di vittoria. Li poggiai
delicatamente sul tavolo e poi crollai a terra privo dei sensi.
Era Lunedì 17 Agosto, mi svegliai in una branda, con tutta la squadra che mi guardava, io guardai
loro, e feci un sorriso, che contagiò tutti, e tutti si misero a ridere. Mi alzai e mi vestii, poi parlai.
Ryo: < Ho ucciso il Re Nero, si era trasformato in un mostro anche lui. Ho ucciso il 95% dei soldati
presenti nella base, è rimasto vivo solo l’equipaggio del sottomarino, ci servono per poterlo guidare
fuori da questo posto, ma non mi fiderei di loro, anche se chiedessero aiuto via radio, nessuno li
aiuterebbe, ma comunque non mi fido di loro. Dentro la caverna ci sono due cose molto importanti,
la prima è il nucleo del meteorite caduto in Svezia, quello che creava il sibilo per intenderci,
bisogna trasportarlo con la massima cura e poi analizzarlo approfonditamente. La seconda cosa è
che abbiamo fatto Jackpot, c’è l’intero tesoro della setta, milioni di dollari, in oro e pietre preziose,
una ricchezza infinita. Dobbiamo fare venire Sophina e Carl per organizzare la catalogazione e il
trasporto del materiale. Si deve chiamare anche la Vogan per gl’imballaggi. Intanto ci vogliono due
squadre a turno che vadano a fare la guardia alla grotta, non ho voglia di altre sorprese. Penso che
mi coricherò nella mia terra. Avete domande?>
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Kaled: < Tutto chiaro, ma se i soldati dovessero fare i furbi li dobbiamo uccidere?>
Ryo: < Se fanno i furbi, li prendete e li fate ragionare, usate i miei metodi se servono.>
Mike: < Ci vorranno settimane per completare il lavoro qua, non abbiamo abbastanza provviste.>
Ryo: < Li potete prelevare dalla grotta, c’e il mangiare per un reggimento di soldati, non temete>
Kim: < Io inizio a fare le chiamate, ci sono almeno 3 persone che ti hanno cercato, l’informerò>
Navy: < Bullent sarà felicissimo, quando tornerai in Romania sarai ufficialmente eroe nazionale>
Ryo: < Mi basta essere vivo, vorrei tornare al mio vecchio corpo, avverti Aya delle mie intenzioni.
La Corona del Drago riposerà con me.> Con queste parole fui seppellito.
Dopo il risveglio, lasciai tutto in mano alla squadra, passavo le giornate a fare lunghe passeggiate
nella baia e qualche escursione tra la costa esterna, quando le condizioni non erano proibitive,
amavo quel luogo, il fuoco del vulcano che scorreva sottoterra e il ghiaccio perenne in superficie,
c’era silenzio, si sentiva solo il fischiare del vento, ogni tanto giungeva qualche verso dei pinguini o
delle foche, i veri abitanti di quest’isola.
La squadra del Conte Bullent, arrivò solo il 25 agosto e ci volle un’altra settimana, per catalogare,
impacchettare e immagazzinare il tesoro e trovare una sistemazione “tranquilla” per il sottomarino e
i soldati ex setta. La squadra Arges partì i 5 settembre per fare il viaggio di ritorno, fu se era
possibile ancora più lungo e pesante dell’andata. Arrivammo in Romania direttamente senza passare
dalla Russia, il Conte era impaziente di vederci. Entrammo a palazzo Poenari il lunedì 7 settembre,
era pomeriggio fatto, il camion parcheggiò, davanti l’ingresso principale, il Conte era li ad
aspettarci.
Bullent: < Caro carissimo il mio Illuminato, non vedevo l’ora di rivederti e di rivedere la tua
squadra sana e salva, avanti entrate>
Ci fece accomodare nel salone principale, ci fu offerto ogni tipo di cibo e bevanda, ma gl’occhi del
conte si posavano sempre sulla mia valigia che conteneva la Corona del Drago. Gliela misi davanti
e l’aprii, gliela feci vedere per qualche secondo e poi la richiusi.
Bullent: < Perché la richiudi? Per fare questo gesto penso tua abbia un motivo più che valido>
Ryo: < Certamente, volevo confermare che il patto tra noi stipulato è stato portato a termine>
Bullent: < Sicuro, ho già contattato il Commendatore Platania, il bonifico da 1000000 di Dollari sta
viaggiando verso New York, e gli ho confermato la mia disponibilità di associare il nome della mia
casata alla sua società>
Ryo: < Io le consegno ufficialmente la Corona del Drago, perché è sua di diritto, il potere supremo
è nelle sue mani, anzi nella sua testa. Però le sconsiglio fortemente, di non indossarla mai, è fatta di
una pietra aliena ricavata da un meteorite, emette delle radiazioni molto forti, che solo chi ha
eseguito il rito può percepire, per questo ho chiuso la valigia, io preferisco un Conte senza corona
vivo che un Conte con la corona in testa morto, la scelta spetta a lei.>
Bullent: < Ci penserò, ci penserò domani. Oggi è giorno di festa, non voglio morti in casa,
specialmente quando quel morto potrei essere io, sarebbe una cosa disdicevole.>
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CAPITOLO 47
Ritorno alla normalità
Il Conte Poenari nominò tutti i componenti della squadra Arges, cavalieri dell’Ordine della Luce,
diede una medaglia d’oro a ciascuno, era incisa nella parte anteriore un’ascia bipenne con al centro
un occhio da cui partivano raggi di luce, nella parte posteriore c’era l’incisione in rumeno che si
traduceva in “ onore al merito al cavaliere della luce”. Il Conte mi fece primo cavaliere del regno, e
cosa più importante seguì il mio consiglio di non indossare la Corona del Drago, con mio enorme
sollievo, perché avrebbe scoperto tutto quello che avevo fatto compresi i miei segreti. Ora mi
trovavo in laboratorio al Palazzo Poenari, in compagnia di Aya. Erano arrivati tutti i reperti dal polo
sud. Ogni angolo del laboratorio luccicava e scintillava con il tesoro di Deception, ma l’interesse
era tutto rivolto sul meteorite.
Era un oggetto alieno, non era un semplice meteorite, aveva una vita propria, con opportuni
strumenti, si riuscivano a carpire suoni, non assomigliava ad un sibilo che rompeva i timpani, quella
era una sua arma di difesa, mi disse Aya, il suo parlare assomigliava al canto delle balene, con suoni
ad una frequenza molto bassa e una lunghezza d’onda ampia, si potevano sentire qualche schiocco e
scoppiettio. Si doveva interpretare, ma qui non c’erano delle rune per poter decifrare.
Passammo a me e al mio caso, volevo tornare normale, non volevo più i super poteri, volevo che
quando ritornavo a San Pietroburgo, Irina mi guardasse e mi riconoscesse. Aya mi disse che il
processo era lungo, doloroso, e che comunque il Virus sarebbe rimasto silente nel mio corpo, non
era possibile toglierlo definitivamente. Passammo dalla teoria alla pratica.
Il processo era l’inverso del rito del sangue. Fase 1: fu quella d’immergermi nella vasca con la
soluzione salina per ammorbidire il corpo. Fase 2: era seppellirmi con la terra della caverna del
Drago, questa inversione, fu un tormento, perché la pelle morbida al contatto con il minerale, la
scomponeva, strappava, incideva, scarnificava, così facendo il virus si concentrava in quelle zone,
che lentamente venivano rimosse. Quindi il corpo si andava depurando dal virus, ma non
completamente. La Fase 3: era l’immersione dentro la bara d’argento per la trasformazione inversa,
dodici giorni in quella camera di deprivazione era qualcosa di allucinante, ma non potevo tornare
indietro. La Fase 4: al mio risveglio ero una massa di gelatinosa, sembravo più ad una medusa, che
ad una persona, mi dovettero portare con una barella di plexiglass fino alla vasca con i sali minerali,
che questa volta anziché ammorbidire il corpo lo fece indurire, il corpo prese forma, i muscoli si
contrassero, la pelle si riformò e tornai ad essere un essere umano a tutti gli effetti. La Fase 5: era
bere dal calice d’argento, ma non c’era il sangue, c’erano antibiotici ad ampio spettro, per rendere
inoffensivo la restante parte del Virus.
Mi guardai allo specchio, ero di nuovo io, certo mancavano tutti i peli del corpo e della testa, ma
sarebbero ricresciuti, ero felice di essere me stesso, una sensazione strana, ma tra le migliori. Era
fine settembre ed ero stato tanto tempo lontano dalla mia casa in Russia e da Irina. Lunedì 28
settembre la Squadra Arges fece ritorno a casa, era bello vedere un posto creato da te che si ergeva
in cima alla collina. Era quello per cui avevo lavorato tanto, ora avevo solo voglia di tornare alle
origini.
Trovai Irina nel salone rinnovato, lei stava distesa sul divano, con il pancione all’insù, guardava la
tv, andava in onda il telegiornale russo. Si accorse della mia presenza e mi guardò, poi parlò.
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Irina: < Ciao Jeremy, ben tornato a casa, sei stato molto tempo fuori, la pancia è cresciuta, dove
sono finiti i tuoi capelli?>
Ryo: < Ciao Irina, ho fatto un lungo viaggio dall’altra parte del mondo, i capelli mi sono caduti, ma
a breve ricresceranno. Tu come stai?>
Irina: < Mangio molto e mi muovo solo per andare in bagno. Ho sistemato la scrivania vittoriana.>
Guardai nella direzione che lei mi indicava, all’angolo del salone, c’era la scrivania completamente
ristrutturata, i segni di rottura, ero appena percettibili, anche per un esperto come me. Mi girai verso
di lei e gli feci il gesto del pollice verso l’alto, in segno di approvazione. Mi avvicinai a lei. Lei alzò
la schiena per farmi sedere alle sue spalle, e diventai il suo nuovo cuscino. Con una mano gli cinsi il
collo e con l’altra toccavo il pancione, era enorme, incredibilmente cresciuto, da quando ero partito
per l’isola di Deception.
Ryo: < Sai se è un maschio o una femmina? Così iniziamo a preparare la sua cameretta.>
Irina: < É una femminuccia, sono indecisa sul nome da dargli, pensavo a Mab, come mia nonna, che
ne dici?>
Ryo: < Dico che è perfetto, odio i nomi lunghi, mi bastano quelli delle guardie del conte Poenari,
che a proposito sarà il padrino della bambina, se a te stava bene ovviamente. Avere come padrino
l’uomo più ricco e potente del mondo non è male, gli potrebbe aprire tante porte nel futuro
prossimo>
Irina: < Si per me va bene, meglio di quel mafioso siciliano del tuo boss, il Commendatore
Calogero Platania, massimo esponente degl’imprenditori internazionali, e appassionato di arte.>
Ryo: < In effetti, c’è un po’ di differenza tra i due, ma comunque anche il Commenda è una persona
molto influente, e l’associazione del gruppo Printer con la Famiglia Poenari, diventerà il numero nel
mondo nel suo settore, garantito.>
Irina: < E tu in che settore andrai? Esperto d’arte, Serial Killer, Scienziato pazzo o cos’altro?>
Ryo: < Vedi Irina, la mia prima passione, che tu mi possa credere o no, è sempre stata quella di
aiutare la mia gente, usando il mio lavoro di operatore socio sanitario, nell’ospedale della mia città
di origine, cioè Wuhan. Ho chiamato il Commenda e gli ho comunicato che la prossima settimana
sarei ritornato in Cina per riprendere servizio>
Irina: < E a noi non ci hai pensato? Ci abbandoni qui, mentre tu vai ad espiare le tue colpe dall’altra
parte del mondo?>
Ryo: < Io dovevo lasciarvi, il mondo non era sicuro, con quella setta in circolazione, gli ho tagliato
la testa, letteralmente, non potrà più nuocere. No che non vi abbandono, ma è più facile che sia io a
fare avanti e indietro dalla Cina, che tu seguirmi nel tuo stato interessante. Inoltre qui sei nel posto
più sicuro del mondo, c’è tutta la squadra Arges a proteggerti, vieni tratta meglio di una regina.
Quando finirò gl’impegni a Wuhan, ritornerò qui a San Pietroburgo, per godere a veder crescere la
nostra famiglia. Lo desidero fortemente.>
Irina: < Spero che le tue parole siano sincere, che tu non mi stia mentendo, che non abbia già altri
progetti in mente, come quando ci siamo conosciuti>
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CAPITOLO 48
Ritorno a Wuhan
Lunedì 5 ottobre, sancì il mio rientro all’Ospedale di Wuhan, avevano inaugurato un reparto di
Chirurgia Pediatrica con il mio nome, merito di tutte le donazioni della Printer per farmi stare in
ferie illimitate. Il reparto era all’avanguardia, c’erano le strumentazioni migliori per qualità, le
stanze erano singole, lungo i due lati di un ampio corridoio del quarto piano del plesso principale.
Era quasi tutto pieno, e miei colleghi mi salutavano e mi stringevano la mano, qualcuno un po’ più
in confidenza mi diceva “ potevi stare altri due mesi in vacanza così pagavo l’università ai miei
figli” oppure “ ma chi te lo fa fare a stare qua? Torna in Italia a fare la bella vita!!!”. Io sorridevo e
ringraziavo sentitamente dei consigli.
Iniziai a fare il mio giro lavorativo, dopo tutto quello che avevo passato, dopo tutto quello che ero
stato costretto a fare, stare con i bambini, giocarci, aiutarli a mangiare, aiutarli a pulirsi, ascoltare le
loro storie, era per me il paradiso. La semplicità che mi era mancata, il tempo scandito dai turni di
lavoro, il tempo dedicato al prossimo, senza più la brutta minaccia del coronavirus, che aveva
devastato il mondo intero, a quasi un anno di distanza ora c’era il vaccino, pronto all’uso. Vedevo la
gente che camminava per le strade, ancora con guanti e mascherina, non vi era un pericolo reale, ma
la gente si era abituata alla prudenza, quei presidi facevano parte oramai della cultura locale.
Tornai alla mia vecchia casa in affitto da scapolo, abbandonata mesi prima, per un viaggio di una
settimana, che invece durò una vita. Le piante nel balcone erano morte, le due stanze e il bagno
erano sporche e piene di polvere. Mi misi a pulire tutto di persona, anche se ero ricco e potevo
comprarmi una ditta intera di pulizie, ma non volevo estranei in casa, avevo visto troppe facce,
volevo stare in santa pace, sistemare le mie cose e al momento giusto tornare a casa a San
Pietroburgo dalla mia famiglia.
Quel momento fu spezzato dal suono del cellulare che squillava, non mi ricordavo neanche di
averlo acceso, guardai il display e vidi il nome, era Reika Miyazaki. Premetti il tasto verde per
aprire la conversazione.
Reika: < Ho saputo che sei tornato in città e non ti sei fatto sentire, ti sei scordato dei veri amici?>
Ryo: < Ciao Reika!!! È un piacere risentirti. Sono a casa a fare le pulizie, ero partito per una
settimana e invece… Colpa di tua sorella maggiore che mi ha portato a mala strada. Ho
ricominciato a lavorare in ospedale, oggi era il mio primo giorno di rientro. Ci sono novità?>
Reika: < Beh, la novità è che anche Selene è tornata a casa, e il suo primo pensiero era per te, ma
non aveva il coraggio di chiamarti personalmente, sempre la sua solita Paura, che prevale sulla
ragione. Ufficialmente ti sto contattando per una partita a badminton a casa mia, domani
pomeriggio, sempre che il tempo regga, fa un po’ fresco. Comunque ti ho avvisato, la mia parte l’ho
fatta, ora cerca di fare la tua e non scappare al tuo solito.>
Ryo: < Non ti preoccupare ci sarò, con Selene avevamo in sospeso una discussione molto
importante, che abbiamo rimandato al nostro ritorno. Ci vediamo domani pomeriggio confermo.
Ciao!!!>
Reika: < Ok, benissimo, allora ci vediamo domani, porta da bere. Ciao Ryo!!!>
103
Martedì pomeriggio del 6 ottobre ero a casa Miyazaki, avevo portato 6 bottiglie da 66 Cl di birra
bionda d’importazione. Salutai Reika, poi Cafumi la sorella minore e Jackie Qiang il fidanzato di
Reika. Iniziammo subito a giocare noi quattro, io con Cafumi contro i due fidanzati. Il tempo
reggeva, non faceva particolarmente freddo, e i set si susseguirono senza sosta e in maniera
agguerrita. Lo stop dei giochi, arrivò quando fece il suo ingresso in giardino Selene, bella come non
mai, con i raggi del sole alle sue spalle che gli irradiavano la testa di un colore dorato. Aveva un
gonna da tennis e un top coordinato di colore bianco.
Si avvicinò e salutò tutti, io ero l’ultimo della fila, ma invece di salutarmi, mi prese la mano e mi
portò in disparte, dove gli altri non ci potevano vedere. Non gli uscì dalla bocca neanche una parola,
forse perché in passato avevamo parlato tanto e agito poco. Mi mise spalle a muro e iniziò a
baciarmi, era dolce il suo sapore, ero stato colto alla sprovvista, e alla fine ricambiai il suo bacio.
Aveva ripreso il discorso esattamente come l’avevamo lasciato, con un bacio rubato in una stradina
di Firenze, dove per la foga ci eravamo persi.
Selene: < Allora tutto chiaro? Ho ancora hai ancora Paura?>
Ryo: < No Selene, ormai non ho più Paura di niente, in questi mesi ho affrontato l’inferno e ne sono
uscito vincitore, no voglio mantenere la promessa che ci siamo fatti mesi fa e la manterrò.>
Selene, non sapeva cosa mi era successo dopo Firenze, e non avevo nessuna voglia di raccontarlo, e
rompere quel momento perfetto che desideravo da anni. Le presi la mano e tornammo in giardino, i
ragazzi ci videro assieme e scattarono gli applausi e i “finalmente era ora”. Aprimmo le bottiglie di
birra, mentre Reika preparava il suo mitico riso al curry e alette di pollo alla cinese, sempre un po’
troppo cotto, ma era tradizione mangiarla così. Quella era vita vera, cantare le canzoni dei cartoni
animati di tanti anni fa, perché le nuove erano troppo mosce. Cantare a squarciagola sbagliando
tutte le note, ma chi se ne fregava, l’importante era stare insieme ed essere felci. Perché conta solo il
qui e ora, il resto poteva attendere fuori da quella casa.
L’indomani pomeriggio io e Selene eravamo sulla riva del Fiume Azzurro, a fare finta di pescare, in
realtà eravamo sotto un albero, sdraiati e sudati, in quel posto pieno di quiete, avevamo fatto e
c’eravamo detti, tutto quello che era rimasto in sospeso per anni, che si traduceva con Paura
sconfitta e Felicità vittoriosa. Stavamo lì ad ammirare quel paesaggio, poi ci guardavamo negl’occhi
e il mondo spariva.
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INDICE
Sezione Titolo Pagina Copertina Paura di Ungeziefer 1
Parte I Wuhan 2
Capitolo 1 Contagio 2
Capitolo 2 Wenliang 3
Capitolo 3 La Paura 4
Capitolo 4 Badminton 5
Capitolo 5 Ginseng 7
Capitolo 6 Ritorno al museo 9
Parte II Firenze 11
Capitolo 7 L’otto 11
Capitolo 8 Il nove 13
Capitolo 9 La galleria 15
Capitolo 10 Uffizi 17
Capitolo 11 Mister Young 20
Capitolo 12 Lezioni d’inglese 22
Parte III New York City 25
Capitolo 13 Primo allenamento 25
Capitolo 14 La cena 28
Capitolo 15 Kim e le scarpe del nonno 30
Capitolo 16 Rambo 32
Capitolo 17 Il pontile 34
Capitolo 18 Il Conte Poenari 36
Parte IV Braşov 38
Capitolo 19 La leggenda 38
Capitolo 20 La Fortezza 41
Capitolo 21 Caccia al tesoro 43
Capitolo 22 Inquisizione 45
Capitolo 23 Barajul Vidraru 47
Capitolo 24 Arges 50
Parte V Leopoli 53
Capitolo 25 La Parigi dell’est 53
Capitolo 26 Vynnykivskyi Park 56
Capitolo 27 La scrivania 58
Capitolo 28 L’amore all’improvviso 60
Capitolo 29 Khreschatyk Kiev 62
Capitolo 30 Cattura la Talpa 64
Parte VI San Pietroburgo 66
Capitolo 31 Labirinti mentali 66
Capitolo 32 La Venezia del nord 69
Capitolo 33 I frutti del lavoro 71
Capitolo 34 Comunicazione 73
Capitolo 35 La tana d’Irina e il gruppo Arges 75
Capitolo 36 Il virus 77
Parte VII Stoccolma 79
Capitolo 37 La battaglia sulla collina 79
Capitolo 38 Il mostro 82
Capitolo 39 Il costume e la maschera 84
Capitolo 40 La città vecchia 86
Capitolo 41 Il meteorite 88
Capitolo 42 Il Re Oscuro 90
Parte VIII Isola di Deception 92
Capitolo 43 Batterie scariche 92
Capitolo 44 L’isola 94
Capitolo 45 Il Cavaliere della Luce contro il Re dell’Oscurità 96
Capitolo 46 Rivelazioni 98
Capitolo 47 Ritorno alla normalità 100
Capitolo 48 Ritorno a Wuhan 102
Indice 104
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