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PROGRAMMA ESAMI IDONEITA’ Scienze Naturali indice LA CELLULA LA RIPRODUZIONE DELLE CELLULE (MITOSI, MEIOSI) GREGOR MENDEL E LE SUE LEGGI LA SCOPERTA DELLE PARTICELLE SUBATOMICHE E I MODELLI ATOMICI LA TAVOLA PERIODICA LE REAZIONI CHIMICHE IL METABOLISMO DEL CORPO UMANO: LA DIGESTIONE LA TASSONOMIA CHARLES DARWIN E LE TEORIE EVOLUTIVE I FOSSILI IL CARBON FOSSILE GLI OGM L’ACCIAIO I METALLI

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PROGRAMMA ESAMI IDONEITA’

Scienze Naturali

indice

LA CELLULA

LA RIPRODUZIONE DELLE CELLULE (MITOSI, MEIOSI)

GREGOR MENDEL E LE SUE LEGGI

LA SCOPERTA DELLE PARTICELLE SUBATOMICHE E I MODELLI ATOMICI

LA TAVOLA PERIODICA

LE REAZIONI CHIMICHE

IL METABOLISMO DEL CORPO UMANO: LA DIGESTIONE

LA TASSONOMIA

CHARLES DARWIN E LE TEORIE EVOLUTIVE

I FOSSILI

IL CARBON FOSSILE

GLI OGM

L’ACCIAIO

I METALLI

La cellula

Le cellule sono le unità fondamentali della vita; le più piccole entità definite vive. La

cellula possiede la capacità di mantenere al proprio interno condizioni chimico-

fisiche diverse dall'ambiente circostante: di fatti è un vero piccolo ma potentissimo

laboratorio chimico all'interno del quale si susseguono continuamente reazioni che

stanno alla base del metabolismo vitale, è perciò necessario che l'ambiente all'interno

del quale si svolgono tali reazioni mantenga tutte le condizioni chimiche e fisiche

indispensabil per una corretta attività. Tra le attività metaboliche più comuni

troviamo: l'acquisizione di energia e l'utilizzo di questa per mantenere le condizioni

chimiche ottimali all'interno della cellula e la sintetesi dimolecole organiche

necessarie per la crescita e per la riproduzione. Gli esseri viventi possono essere

costituiti da una singola cellula come nel caso dei batteri, lieviti o alghe nel regno

vegetale, oppure costituiti da più cellule; o meglio detti multicellulari.

Gli organismi multicellulari sono il risultato dell'evoluzione in riposta a difficoltà

derivate dai limiti di crescita a cui una singola unità vitale può andare incontro in

quanto l'eccessivo volume interno comporta un incremento delle distanze tra la

membrana ed il nucleo, nonché una peggiore utilizzazione dei metaboliti interni.

Gli organismi multicellulari risultano quindi costituiti da numerose cellule originatesi

da continue divisioni partite da una singola cellula di origine. In un individuo

multicellulari tutte le cellule devono compiere le ordinarie operazioni di

mantenimento ed inoltre ogni cellula possiede delle diverse competenze che

apportano speciali contributi al corpo, ad esempio le cellule muscolari sono

specializzate nella contrazione, le cellule nervose sono particolarmente efficienti

nella produzione e nella ricezione di segnali chimici ed elettrici, in tal modo si viene

a formare una specializzazione delle attività che stanno alla base della formazione di

tessuti e organi differenti.

Le cellule posseggono tre porzioni principali:

Membrana plasmatica o membrana cellulare: riveste l'esterno della cellula e funziona

come un filtro controllando tutto ciò che entra e che esce dalla cellula, come vedremo

in seguito non è un semplice filtro passivo ma possiede la capacità di regolare

attivamente il passaggio di metaboliti sia in entrata che in uscita.

Citoplasma: costituito da acqua, Sali, molecole organiche ed enzimi metabolici. Il

citoplasma accoglie poi particolari componenti chiamati organuli all'interno dei quali

si svolgono specializzate operazioni metaboliche.

Organuli: sono molto numerosi e rappresentano degli elementi molto importanti per il

metabolismo cellulare. Tra gli organuli di nostro interesse troviamo:

- Ribosomi: sono il luogo in cui avviene la sintesi delle proteine, questi organuli

eseguono in prima persona le direttive contenute nel nucleo.

- Mitocondri: sono le centrali energetiche della cellula, all'interno dei quali si

svolgono i processi di respirazione: impiegando l'ossigeno degradano molecole

organiche per trarne energia.

Nucleo cellulare: al suo interno si trova il materiale genetico della cellula, DNA,

RNA. Il materiale genetico contiene tutte le istruzioni necessarie per la sintesi delle

proteine e di conseguenza il materiale genetico risulta essere la fonte di tutte le

informazioni necessarie alla cellula per guidare le proprie attività vitali.

La riproduzione delle cellule

La riproduzione, in biologia, è l'insieme dei meccanismi mediante i quali gli esseri

viventi provvedono alla conservazione della propria specie generando nuovi individui

simili a sé e che subentreranno al genitore, o ai genitori, nella popolazione.

Una cellula eucariota può dividersi mantenendo invariato il proprio

corredo cromosomico e generando due cellule figlie geneticamente uguali, oppure

può dimezzare il corredo cromosomico generando da una a quattro cellule figlie che

avranno un corredo cromosomico differente.

Il primo fenomeno, noto come mitosi, coinvolge sia cellule aploidi sia

cellule diploidi e si identifica con la moltiplicazione cellulare. Lo scopo della

moltiplicazione cellulare è quello di far accrescere un organismo oppure di

incrementare una popolazione di organismi geneticamente uguali.

Il secondo fenomeno, noto come meiosi, coinvolge solo cellule diploidi e rappresenta

la prima fase di un fenomeno sessuale, in quanto si alterna con la cariogamia, evento

inverso attraverso il quale i corredi cromosomici di due cellule aploidi,

dette gameti si fondono per formare un'unica cellula diploide detta zigote, oppure

una meiospora che si sviluppa in un individuo aploide. Lo scopo biologico della

sessualità è quello di introdurre in una popolazione elementi di variabilità

genetica per mezzo delle mutazioni e della ricombinazione genica.

La divisione mitotica negli organismi unicellulari si identifica sempre con la

riproduzione, in quanto da una cellula individuo si originano due cellule individuo;

attraverso la divisione mitotica gli organismi unicellulari ottengono perciò sia la

perpetuazione della specie sia l'incremento numerico della popolazione. La sessualità

degli organismi unicellulari non contribuisce alla crescita della popolazione, in

quanto da due individui se ne forma solo uno. In questi casi la sessualità ha il fine di

perpetuare la specie nel tempo oppure di incrementare la variabilità genetica in una

popolazione.

Negli organismi pluricellulari la mitosi è fondamentalmente il meccanismo con cui si

svolge l'accrescimento del singolo individuo e, in alcuni microrganismi, anche la

riproduzione. L'alternanza fra meiosi e cariogamia comporta anche la riproduzione

(nel senso di moltiplicazione) in quanto un solo organismo pluricellulare produce più

gameti nel corso della sua vita.

Sulla base di questi elementi, si riconoscono due forme di riproduzione: una

presuppone la mitosi e viene detta riproduzione assessuata, l'altra presuppone

l'alternanza fra meiosi e cariogamia e viene detta riproduzione sessuata.

La mitòsi è la riproduzione per divisione equazionale della cellula eucariote. Il

termine viene spesso utilizzato anche per la riproduzione delle cellule procariote, un

processo molto più semplice e più correttamente chiamatoscissione binaria o amitosi.

Il termine mitosi deriva dal greco mìtos, "filo"; nome dovuto all'aspetto filiforme dei

cromosomi durante la metafase.

La mitosi, nell'uomo, riguarda le cellule somatiche dell'organismo (ossia tutte le

cellule fuorché quelle che hanno funzione riproduttiva: i gametociti primari, i quali

vanno incontro alla meiosi) e le cellule germinali ancora indifferenziate.

Il ciclo cellulare si suddivide in tre fasi: l'interfase, in cui la cellula si prepara alla

divisione; la mitosi, periodo di gran lunga più breve in cui la cellula si divide; il

periodo G2 - più o meno definitivo -, nel quale la cellula si specializza nella sua

funzione. In quest'ultimo periodo, la cellula non è in grado o non è stimolata

a riprodursi.

Il processo inizia con la condensazione della cromatina, che avviene grazie alla

presenza di proteine istoniche che fungono da centri primari di organizzazione del

riavvolgimento del DNA - primo ordine di spiralizzazione - e della topoisomerasi II,

che, oltre alla sua funzione catalitica, agisce come centro di organizzazione del

secondo ordine di spiralizzazione. Segue un terzo ordine di cui non si conoscono le

proteine implicate; forse è conseguenza della tensione accumulata dalle precedenti

spiralizzazioni. Questo grosso superfilamento viene prima impaccato formando delle

anse che poi si riuniscono formando il cromosoma visibile. La durata media di questo

meccanismo di riproduzione cellulare varia in media, negli organismi superiori, tra le

15 e le 30 ore.

Eventi precedenti la mitosi

Prima della mitosi avviene l'interfase, momento molto importante nella vita della

cellula. Difatti proprio in questa fase gli organelli della cellulaaumentano e ne

permettono la duplicazione. L'interfase si suddivide in tre sottofasi: la fase G1, in cui

la cellula si accresce; la fase S, nella quale la cellula replica il materiale nucleare e

il DNA; la fase G2, durante la quale la cellula si prepara a dividersi.

Profase

Durante la prima fase della mitosi, nel caso della specie umana, i cromosomi si

condensano e sono visibili anche al microscopio ottico sotto forma di doppi

bastoncelli basofili: i cromatidi gemelli (o fratelli). Questi sono agganciati tra loro in

un punto centrale, detto centromero, grazie ad un complesso sistema di interazioni tra

il DNA e numerose proteine chiamato fuso acromatico.

Viene sintetizzato un secondo centrosoma, ed entrambi appaiono circondati da una

coltre di microtubuli: è il fuso mitotico, formato da dimeri di sub-unità

proteiche tubulina alfa e beta. Il ciclo si potrebbe interrompere in questo punto se alla

coltura si aggiungesse la tossina falloidina, che impedisce la formazione dei filamenti

di microtubuli; ciò si fa quando si vogliono visualizzare al microscopio i cromosomi

per studiarne le caratteristiche. L'apparato del Golgi e il reticolo endoplasmatico in

questa fase si scompongono in piccole vescicolette che si distribuiscono

uniformemente in tutto il citoplasma; anche la membrana nucleare, grazie alla sua

doppia struttura, si scompone similmente ai suddetti organelli.

Metafase

Questa fase inizia attraverso una sub-fase, la prometafase, in cui avviene

l'improvvisa dissoluzione della membrana nucleare, che si frammenta in tante

vescicolette. Tale processo viene innescato dalla fosforilazione, attraverso

delle chinasi, dell proteine delle lamine (filamenti intermedi) che costituiscono la

lamina nucleare; in conseguenza della fosforilazione i filamenti si dissociano negli

elementi costitutivi.

I due centrosomi si portano ai poli opposti della cellula ed agiscono come centri di

organizzazione microtubulare, catalizzando l'allungamento ed assicurando il corretto

orientamento dei microtubuli che andranno a breve a legarsi al centromero di uno dei

due cromatidi gemelli. In questa fase si possono verificare degli errori e due

microtubuli si possono agganciare allo stesso cromatidio dando poi una cellula figlia

mutilata e non vitale.

Le ventitré coppie di cromatidi vengono portate nella parte mediana della cellula,

formando la piastra equatoriale, in cui un piano immaginario, passante per i

centromeri, divide le coppie di DNA. È questo il momento più favorevole per lo

studio dei cromosomi, che sono ora al massimo della loro spiralizzazione e affiancati

ordinatamente lungo la piastra equatoriale posta al centro della cellula.

Anafase

Durante l'anafase, i cromatidi migrano verso i due centrosomi ai poli opposti della

cellula. Si riconoscono due momenti, detti anafase A e anafase B. Nella prima si

assiste alla separazione dei due cromatidi fratelli ad opera di un enzima, detto

separasi, con relativa migrazione degli stessi grazie a proteine motore (tipo dineine

citoplasmatiche) presenti a livello del cinetocore. Nell'anafase B si assiste al

reciproco scorrimento dei microtubuli polari del fuso mitotico con conseguente

allontanamento dei due centrosomi verso direzioni opposte. Pertanto si ottiene il

ripristino, per ogni polo, del numero originario di cromosomi.

Telofase

Nell'ultima fase della mitosi, i cromosomi si despiralizzano. Intorno ai due nuovi

complessi cromosomici ricompaiono le membrane nucleari e gliorganelli si

ricompongono. La telofase si conclude con una sottofase: la citodieresi, in cui si

separa il citoplasma in modo equivalente in entrambe le nuove cellule. La cellula si

divide al centro formando due cellule figlie, esattamente identiche alla cellula madre

ma più piccole. Questo avviene grazie ad un anello di actina creatosi al centro della

cellula madre che, contraendosi, stringe la cellula al centro. A tal punto le proteine

specializzate operano la fusione e la separazione della membrana in punti specifici e

le due cellule si separano.

In alcune cellule la telofase non avviene e si accumulano all'interno di uno stesso

nucleo di una stessa cellula da due ad alcune decine di corredi cromosomici. Questo

tipo di cellule si chiama plasmodio. L'esempio principale sono i protozoi del

genere plasmodium come il P. malariae. Anche cellule umane vanno incontro a

questo processo o patologicamente, come le cellule tumorali, o fisiologicamente

come nelmegacariocita.

La meiosi è un processo della riproduzione sessuale mediante il quale

una cellula eucariotica con corredo cromosomico diploide (raccolto in un cariotipo)

dà origine a quattro cellule con corredo cromosomico aploide, ovvero che da una

cellula madre si formano quattro cellule figlie, tutte diverse fra loro. Potrebbe

sembrare molto simile alla mitosi ma, al contrario di questa, si ha la riduzione da

corredo in doppia copia a corredo a semplice copia, e tramite il cosiddetto crossing-

over (incrocio esterno), si ha lo scambio e la ricombinazione genetica.

Nella riproduzione sessuale, la ricombinazione dell'informazione genetica

proveniente dalle cellule di due organismi differenti (padre e madre), produce risultati

ogni volta diversi, e naturalmente diversi anche dai due genitori.

Ogni genitore fornisce quindi un corredo cromosomico "semplice" aploide (detto

anche "dimezzato"), cellula uovo nella femmina e spermatozoo nel maschio; la

fusione (fecondazione), dei due corredi dimezzati (materno e paterno) e "rimescolati"

ricostituisce il corredo intero, e dà origine ad una singola nuova cellula,

detta zigote che diverrà il nuovo individuo.

Il cariotipo cromosomico è l'insieme del numero, della forma e delle dimensioni

dei cromosomi che costituiscono il corredo genetico completo dello zigote, e quindi

del nuovo individuo.

Ad una duplicazione del materiale genetico, che avviene nella fase pre-meiotica S,

corrispondono due divisioni nucleari:

1. Prima divisione meiotica o meiosi I (fase Riduzionale)

2. Seconda divisione meiotica o meiosi II (fase Equazionale)

Fase pre-meiotica S o interfase I

Avviene la duplicazione del materiale genetico: da ogni cromosoma risultano

due cromatidi fratelli identici, attaccati in corrispondenza deicentromeri.

La meiosi I si apre con la profase, un processo più lungo e complicato della profase

mitotica. Si suddivide in 5 stadi:

leptotene, in cui il materiale genetico si condensa a formare strutture bastoncellari;

zigotene, durante il quale avviene la sinapsi dei cromosomi omologhi;

pachitene, in cui avviene il crossing-over, con scambio del materiale genetico;

diplotene durante il quale inizia la desinapsi e i cromosomi restano appaiati tramite i

chiasmi;

diacinesi, in cui avviene la dissoluzione della membrana nucleare e del nucleolo.

Durante la profase I, inoltre, si sviluppa il fuso, costituito da due coppie di centrioli,

situate ai poli opposti della cellula, da cui fuoriescono fibre dimicrotubuli. Tali fibre

agganciano i cromosomi mediante il cinetocore, una piastra proteica situata a livello

del centromero. La profase I può durare per giorni o anche più a lungo e occupa il

90% del tempo richiesto per quasi tutta la divisione meiotica.

Metafase I

I cromosomi omologhi sono trascinati dai microtubuli all'equatore cellulare. Si ha

l'assortimento indipendente dei cromosomi omologhi. In pratica i cromosomi della

madre e del padre si allineano in modo casuale all'equatore.

Anafase I

A differenza dell'anafase mitotica, durante questa fase i cromatidi fratelli restano

attaccati per i centromeri, mentre i cromosomi omologhi si staccano e migrano ai poli

opposti della cellula. In questo modo si ha un corredo cromosomico aploide proprio

perché sono gli omologhi parentali a separarsi.

Telofase I

La telofase I può variare a seconda della specie. In seguito alla migrazione dei

cromosomi omologhi verso i poli opposti della cellula, si può verificare la formazione

della membrana nucleare e la citodieresi con la conseguente scissione cellulare, come

avveniva nella mitosi; oppure vi è la semplice migrazione dei cromosomi senza

scissione.

Interfase

In alcuni casi, terminata la Meiosi I, può avvenire l'Interfase in cui i cromosomi si

despiralizzano; in molte specie si passa invece direttamente dalla Telofase I alla

Profase II.

Meiosi II

La seconda divisione meiotica è identica alla mitosi, solo che genera

due cellule aploidi, perché non è preceduta da un ciclo cellulare adeguatamente

fornito di fase S, e quindi avviene in presenza di un corredo cromosomico n invece

che 2n.

Profase II

Compaiono nuovamente le fibre del fuso che agganciano i cinetocori dei cromosomi.

Nel caso si sia verificata una scissione durante la telofase I, la membrana nucleare si

dissolve affinché i microtubuli del fuso possano attaccarsi ai cromosomi.

Metafase II

I cromosomi si toccano sulla piastra equatoriale; ogni cromosoma è costituito da 2

cromatidi omologhi fratelli.

Anafase II

I centromeri dei cromosomi dei cromatidi fratelli si staccano e i cromatidi si

dividono, migrando ai poli della cellula.

Telofase II

Ai poli opposti della cellula si cominciano a formare i nuclei e avviene la citodieresi,

con la conseguente scissione cellulare.

Ricapitolando: nella meiosi si passa da una cellula immatura con patrimonio genetico

(corredo cromosomico) diploide 2n con contenuto di cromatina 4C a quattro cellule

mature aploidi n con contenuto di cromatina 1C.

Sinapsi e crossing-over

La sinapsi è il processo che permette la spartizione dei cromosomi omologhi in due

corredi aploidi durante la profase I. Ciascun cromosoma è formato da due cromatidi,

e quindi quattro cromatidi formano una tetrade. In seguito alla sinapsi degli omologhi

avviene il crossing-over, un processo mediante il quale i cromosomi omologhi si

scambiano parti equivalenti, determinando nuove combinazioni di geni. Il risultato

visibile del crossing over è una struttura a croce chiamata chiasmo. In ciascun

chiasmo i cromosomi omologhi possono scambiarsi segmenti di cromatidi.

Mendel e le sue leggi

Gregor Johann Mendel (Hynčice, 20 luglio 1822 – Brno, 6 gennaio 1884) è stato

un biologo e un canonico agostiniano ceco, considerato, per le sue osservazioni sui

caratteri ereditari, il precursore della moderna genetica.

Il nome "Gregor" - con cui Mendel è oggi universalmente noto - gli fu in realtà

attribuito all'atto della sua ordinazione sacerdotale[1].

Il concetto base concepito dal monaco era molto innovativo, egli infatti dedusse che

l'ereditarietà era un fenomeno dovuto ad agenti specifici contenuti nei genitori, al

contrario di quanto creduto all'epoca. Non si può tuttavia ancora parlare di genetica.

Mendel identificò dopo sette anni di selezione sette "Linee pure": sette varietà di

pisello che differivano per caratteri estremamente visibili (forma del

seme: liscio o rugoso; colore del seme giallo o verde): e proprio grazie a queste

caratteristiche che tale pianta (Pisum sativum) si prestava particolarmente, oltre che a

un semplice sistema riproduttivo; il monaco poteva impollinare a piacimento i suoi

vegetali. Egli operò con un vastissimo numero di esemplari perché sapeva che le

leggi della probabilità si manifestano sui grandi numeri.

Mendel prese due varietà di piante di pisello completamente diverse,appartenenti alle

cosiddette linee pure (ovvero quelle nelle quali l'aspetto è rimasto costante dopo

numerose generazioni), ed iniziò ad incrociare le suddette per caratteri specularmente

diversi: ad esempio una pianta a fiori rossi con una pianta a fiori bianchi. Notò che la

prima generazione filiale (detta anche F1) manifestava soltanto uno dei caratteri delle

generazioni parentali (detta anche P) e ne dedusse che uno dei due caratteri doveva

essere dominante rispetto all'altro: da questa osservazione trae origine la legge sulla

dominanza. Incrociando poi tra loro le piante della generazione F1, Mendel osservò

la ricomparsa, in parte della successiva generazione, di caratteri "persi" nella F1 e

capì quindi che essi non erano realmente scomparsi, bensì erano stati "oscurati" da

quello dominante. Osservando la periodicità della seconda generazione filiale o F2,

(tre esemplari mostrano il gene dominante e uno il gene recessivo) Mendel portò le

scoperte ancora più avanti:

L'esistenza dei geni (detti in un primo momento caratteri determinanti

ereditari);

I fenotipi alternativi presenti nella F2 sono definiti da forme diverse dello

stesso gene, tali forme sono chiamate alleli;

per dare origine alla periodicità della F2 ogni tipo di gene deve essere presente,

nelle piante di pisello adulte, con due coppie per cellula che si segregano al

momento della produzione dei gameti.

Le leggi di Mendel

1. Legge della dominanza (o legge della omogeneità di fenotipo): Gli individui

nati dall'incrocio tra due individui omozigoti che differiscono per una coppia

allelica, avranno il fenotipo dato dall'allele dominante.

2. Legge della segregazione (o legge della disgiunzione): gli alleli di un

singolo locus segregano indipendentemente l'uno dall'altro (in seguito fu

evidente che ciò era dovuto all'indipendente segregazione degli autosomi).

3. Legge dell'assortimento indipendente (o legge di indipendenza dei caratteri): I

diversi alleli si trasmettono indipendentemente l'uno dagli altri,secondo precise

combinazioni

Esistono anche delle eccezioni alla legge della dominanza: una pianta può presentare

fiori di vario colore. Se si incrocia una pianta con fiori rossi con una con fiori bianchi,

si ottiene un fiore rosa (bocca di leone) perché entrambi i geni dei colori sono

dominanti; in questo caso si chiama dominazione incompleta.

Le leggi di Mendel si applicano solo a caratteri in cui il fenotipo deriva

dall'espressione di un singolo gene (come appunto i caratteri esaminati dall'abate),

non si possono applicare per caratteri dovuti all'interazione tra molti geni e l'ambiente

esterno (es. altezza, vigore, forza, produzione, capacità cognitive ecc).

Al principio del '900, con la riscoperta delle teorie di Mendel, le scienze

evoluzionistiche "incrociarono" le sue scoperte con le ipotesi di Darwin, si ebbe così

la nascita della cosiddetta "sintesi moderna", ovvero la teoria evolutiva più

autorevole, che rimase in auge fino agli anni '70 del '900. Questa teoria postulava la

graduale selezione dei caratteri più favorevoli, alla luce delle teorie genetiche,

seguendo un adattamento delle specie all'ambiente. Questa teoria è stata in parte

modificata e resa più rispondente alle prove empiriche dalla "teoria degli equilibri

punteggiati", che comunque riconosce le leggi di Mendel e il fondamentale contributo

della genetica per studiare i processi evolutivi.

La scoperta delle particelle subatomiche

Modelli atomici di Thomson e di Rutherford

Nella seconda metà del 1800 alcuni scienziati, indagando la natura dei fenomeni

elettrici, cominciarono a mettere in dubbio la validità dell'ipotesi di Dalton secondo

cui l'atomo era indivisibile. Gli interrogativi sorgevano, in particolare,

dall'osservazione che:

1. certe sostanze si scioglievano in acqua formando soluzioni in grado di

trasportare la corrente elettrica per la presenza di particelle cariche di elettricità

positiva (+) e negativa (−) dette ioni;

2. gas rarefatti all'interno di un tubo contenente due elettrodi (anodo e catodo)

collegati a un generatore elettrico producevano, in seguito al passaggio di

corrente elettrica, radiazioni dirette dal catodo all'anodo (raggi catodici).

Fu proprio studiando gli effetti delle scariche elettriche attraverso gas rarefatti in un

tubo catodico che il fisico inglese J. J. Thomson (1856-1940) giunse a stabilire (1897)

che i raggi catodici sono formati da particelle dotate di carica negativa presenti negli

atomi di tutti gli elementi. Tali particelle subatomiche, di massa molto più piccola di

qualsiasi atomo conosciuto, furono chiamate elettroni (e−). La carica dell'elettrone è

considerata la carica elementare negativa e per convenzione le viene attribuito valore

unitario −1.

Effettuando altre esperienze con un tubo a raggi catodici modificato (1886), erano

stati scoperti raggi aventi direzione opposta a quella dei raggi catodici, in quanto

associati a particelle dotate di carica positiva (raggi positivi,meglio noti come raggi

anodici o raggi canale). La massa di queste particelle risultava variabile in rapporto al

gas presente nel tubo e molto più grande della massa dell'elettrone (si trattava di ioni,

cioè di atomi privi di cariche negative). Lo stesso Thomson studiò in seguito questo

fenomeno e, insieme ad altri, osservò che la massa delle particelle positive costituenti

i raggi anodici assumeva un valore minimo quando il gas utilizzato era l'idrogeno. In

questo caso si formavano ioni idrogeno (H+) che, in anni seguenti, furono

definitivamente identificati come particelle subatomiche, chiamate protoni, presenti

negli atomi di tutti gli elementi. Il protone (p) è una particella dotata di carica

elettrica unitaria positiva (+1), e con una massa pari a 1836 volte quella dell'elettrone,

corrispondente, con buona approssimazione, a 1 unità di massa atomica (uma).

Il modello atomico di Thomson

Nel 1904, Thomson, in base ai dati di cui disponeva avanzò l'ipotesi, detto modello

atomico di Thomson, secondo cui l'atomo era rappresentabilecome una massa sferica

con cariche elettriche positive uniformemente distribuite e contenente immersi nel

suo interno un ugual numero di elettroni, in modo che il tutto risultasse elettricamente

neutro.

Il modello di Thomson si rivelò ben presto inadeguato a spiegare una serie di

fenomeni fisici.

Il modello atomico di Rutherford

Un importante passo successivo nella comprensione della struttura dell'atomo fu

compiuto dal fisico neozelandese E. Rutherford (1911), attraverso l'impiego di

particelle alfa (α) emesse da un materiale radioattivo, per bombardare un bersaglio

costituito da una sottilissima lamina d'oro. La maggior parte delle particelle α

attraversava la lamina metallica in linea retta, mentre una loro piccolissima frazione

veniva deviata o addirittura respinta dalla lamina. Rutherford ne dedusse che le

particelle α potevano essere deviate o respinte solo ammettendo che gli atomi siano

formati da una piccolissima zona centrale, detta nucleo, di carica positiva e nella

quale è concentrata tutta la massa dell'atomo e da un grande spazio circostante dove

sono presenti elettroni che ruotano intorno al nucleo secondo orbite circolari (modello

di Rutherford o modello atomico planetario, 1911).

Rutherford valutò in seguito che la carica positiva del nucleo corrisponde al numero

di protoni. Tale numero è detto numero atomico (simbolo Z) e in un atomo neutro

corrisponde al numero degli elettroni.

Rutherford rilevò inoltre che la massa del nucleo calcolata sulla base del numero di

protoni, risultava sempre inferiore alla massa reale dell'atomo. Era quindi ipotizzabile

la presenza nel nucleo di un altro tipo di particelle.

Queste particelle, chiamate neutroni (n), furono poi individuate nel 1932 dal fisico

inglese J. Chadwick: esse risultarono prive di carica e dotate di una massa circa

uguale a quella del protone.

Riassumendo, un atomo è formato da un nucleo, costituito da protoni e

neutroni (detti nucleoni), intorno al quale sono disposti elettroni (v. tab. 3.1).

In un atomo elettricamente neutro, il numero dei protoni, detto numero atomico

(Z) è uguale al numero degli elettroni. Il numero atomico è caratteristico di ogni

elemento. La somma del numero dei protoni e del numero dei neutroni (N) è detto

numero di massa (A):

Un atomo di un elemento di cui sono noti il numero atomico (Z) e il numero di massa

(A) è detto nuclide. Per un generico elemento di simbolo X il rispettivo nuclide viene

così rappresentato:

Esempio: 818O (o anche ossigeno −18) indica il nuclide dell'ossigeno con numero

atomico 8 e numero di massa 18.

La tavola periodica

La tavola periodica degli elementi è lo schema con il quale vengono ordinati

gli atomi sulla base del loro numero atomico Z.

Ideata dal chimico russo Dimitrij Mendeleev nel 1869, contemporaneamente ed

indipendentemente dal chimico tedesco Julius Lothar Meyer(1830 -

1895),[1] inizialmente contava numerosi spazi vuoti, previsti per gli elementi che

sarebbero stati scoperti in futuro, taluni nella seconda metà del 1900.

In onore del chimico russo, la tavola periodica degli elementi è anche detta tavola

periodica di Mendeleev.

La tavola periodica si articola in gruppi e periodi:

ogni gruppo (colonna della tabella) comprende gli elementi che hanno la stessa

configurazione elettronica esterna (modo in cui gli elettronisi dispongono attorno

al nucleo). All'interno di ogni gruppo si trovano elementi con caratteristiche

chimiche simili.

ogni periodo (riga delle tabella) inizia con un elemento il cui atomo ha come

configurazione elettronica esterna un elettrone di tipo s, o nsdove n è il numero

quantico principale, e procedendo verso gli atomi successivi del periodo, il

numero atomico Z aumenta di una unità ad ogni passaggio.

La necessità di ordinare le conoscenze che (grazie a ricerche empiriche) venivano

accumulandosi sulle diverse sostanze venne sentita fin dai primordi della chimica,

e Lavoisier propose (nel 1789) una prima forma di sistematica chimica. Bisogna,

però, aspettare all'incirca il 1870 affinché si giunga al modello che, con le opportune

aggiunte, è utilizzato ai giorni nostri.

La tavola originaria fu creata prima della scoperta delle particelle subatomiche o della

formulazione delle teorie attuali per quanto riguarda la meccanica quantistica e

l'atomo.

Se gli elementi vengono disposti in ordine crescente di numero atomico, inserendo in

seguito altre proprietà, si può notare una ondulazione o una periodicità di queste

proprietà in funzione del numero atomico dell'elemento stesso. Il primo che

riconobbe queste ricorrenze fu il chimico tedesco Johann Wolfgang Döbereiner, che

nel 1829 per primo notò una certa quantità di triadi, gruppi di tre elementi con queste

similarità.

A questa intuizione fece seguito l'inglese John Newlands, che sottolineò (nel 1865)

come gli elementi di tipo simile fossero ricorrenti ad intervalli regolari di 8 posizioni,

che lui assimilò alle ottave musicali,anche se questa sua cosiddetta legge delle

ottave venne messa in ridicolo dai suoi contemporanei.

Fu proprio in quel periodo che Meyer e Mendeleev (indipendentemente l'uno

dall'altro) assunsero il peso atomico come parametro per la classificazione periodica

degli elementi, il che costituì un passo decisivo verso il più raffinato concetto

di numero atomico (del quale, nella chimica odierna, le proprietà fisico-chimiche

degli elementi sono considerate funzioni periodiche). Meyer pubblicò i propri risultati

qualche mese dopo Mendeleev, ed è per questo che molto spesso ci si riferisce alla

tavola periodica degli elementi col solo nome di quest'ultimo. Egli ipotizzò anche che

esistessero altri elementi, al momento non conosciuti, che occupavano le celle vuote

della tabella; teoria che trovò conferme con la scoperta della struttura elettronica

degli elementi tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo.

Negli anni '40, Glenn Theodore Seaborg sintetizzò e separò con metodi radiochimici i

primi 5 elementi transuranici, che sono stati sistemati all'interno della tabella (o in

alcuni casi al di sotto, come si può vedere dallo schema). Negli anni successivi i

primi di tali transuranici furono identificati in "ultratracce" nei minerali uraniferi,

come prodotti naturali di attivazione. Dal 2003 la IUPAC ha attribuito il nome

definitivo alla serie 4f dei lantanoidi Ln e 5f degli attinoidi An.[2] [3]

La ragione della particolare periodicità per serie di lunghezza diversa (2, 8 , 8, 18, 18,

32, 32) è stata scoperta solo in seguito (ad opera principalmente di Niels Bohr), ed è

da ricercarsi nella tendenza al massimo riempimento possibile degli orbitali

atomici da parte degli elettroni, che ha valore diverso a seconda del tipo di orbitale

interessato, e al modo in cui si susseguono i diversi tipi orbitali per numeri atomici

crescenti; si hanno infatti al massimo due elettroni per orbitale di tipo s, al più sei

elettroni per orbitali di tipo p, al più dieci per orbitali d, ed al più quattordici per

orbitali tipo f; inoltre gli orbitali si possono susseguire solo nell'ordine: 1s 2s 2p 3s 3p

4s 3d 4p 5s 4d 5p 6s 4f 5d 6p 7s 5f 6d 7p 8s (secondo la regola di Aufbau).[4]

A diversi gradi di riempimento dell'orbitale più esterno corrisponde una diversa

reattività dell'intero atomo, per cui ad orbitali "completi" corrisponde la

configurazione energetica più stabile (e quindi una reattività nulla), e ad orbitale

esterno parzialmente "completo" corrispondono reattività via via maggiori quanto più

il numero di elettroni si allontana da quello di una configurazione stabile; questa

diversa reattività a livello macroscopico determina molte delle proprietà chimiche

dell'elemento, che si ripetono in modo simile al crescere del numero atomico Z.

Pertanto, a diversi numeri atomici (ossia ad elementi diversi ordinati per massa)

corrispondono diverse proprietà chimiche macroscopiche, che si ripetono

periodicamente in modo simile per configurazioni elettroniche che hanno una

stabilità energetica comparabile, e questo accade per analoghi gradi di riempimento

dell'orbitale, che si ripetono con periodo variabile perché variabile è il massimo

riempimento dei vari orbitali.

La forma corretta della tavola periodica degli elementi fu pertanto inizialmente

determinata solo da osservazioni macroscopiche, senza la presenza di un modello

microscopico a cui fare riferimento. Successivamente questa forma è stata

"confermata" con la scoperta della struttura microscopica degli atomi e quindi delle

loro modalità di interazione.

Le reazioni chimiche

Una reazione chimica è una trasformazione della materia che avviene senza

variazioni misurabili di massa, in cui uno o più reagenti iniziali modificano la loro

struttura e composizione originaria per generare i prodotti.

Alcuni processi in cui intervengono reazioni chimiche sono:

la corrosione del ferro a ruggine (che è composta da ossidi di ferro);

la combustione del metano o altri combustibili (il metano con l'ossigeno si

trasforma in anidride carbonica evapore acqueo);

la digestione (gli alimenti sono decomposti dai succhi gastrici in sostanze

chimiche assimilabili dall'organismo).

La materia è composta da atomi. Ogni atomo possiede proprietà peculiari, derivanti

dalla suastruttura atomica. Gli atomi possono legarsi tra loro per formare le molecole.

Un composto chimico è un tipo particolare di molecola nella quale gli atomi sono

diversi tra loro.

Ad esempio, l'ossigeno forma una molecola fatta con due atomi di ossigeno, mentre

l'acqua è una molecola composta da due atomi di idrogeno legati ad un atomo di

ossigeno, e quindi è anche un composto chimico.

Le molecole si formano attraverso una reazione chimica, che consiste in una rottura e

formazione di legami chimici tra atomi. Più in generale, le reazioni chimiche possono

coinvolgere anche altre specie chimiche (ioni, radicali, ecc.) oltre le molecole.

Le reazioni chimiche non provocano un cambiamento di natura della materia, perché

non influenzano i suoi costituenti fondamentali (gli atomi) ma solo la maniera in cui

sono aggregati in molecole; non influenzano nemmeno l'aggregazione di molecole

simili, quindi le trasformazioni puramente fisiche, come i cambiamenti di

stato (fusione, solidificazione, evaporazione, ebollizione, ecc.), l'usura e l'erosione,

lafrattura, ecc. non sono reazioni chimiche.

Allo stesso modo, non fanno parte delle reazioni chimiche le trasformazioni

dei nuclei atomici, cioè le reazioni nucleari. Tuttavia tali reazioni assumono anche un

certo interesse in chimica e vengono studiate dalla chimica nucleare.

Le reazioni chimiche, dunque, riguardano esclusivamente le variazioni dei legami tra

gli atomi (legame covalente, legame ionico, legame metallico).

Una reazione può sviluppare calore, in tal caso è detta esotermica, o assorbire calore,

ed essere quindi endotermica. Una reazione esotermica è quindi una reazione che

comporta un trasferimento di calore dal sistema all'ambiente. Similmente

una reazione endotermica è una reazione che comporta un trasferimento di calore

dall'ambiente al sistema. Necessita dunque di energia esterna per procedere.

Il sistema è la parte dell'universo oggetto di studio (nel nostro caso sistema chimico,

ad es. solvente, reagenti e prodotti presenti in un becher(che rappresenta il contorno

del sistema), mentre l'ambiente è tutto ciò che circonda il sistema stesso. Sistema +

ambiente costituiscono un sistema isolato: l'universo è un sistema isolato.

I composti chimici presenti all'inizio della reazione sono detti reagenti, quelli che si

ottengono alla fine della reazione sono invece i prodotti di reazione.

I fenomeni che hanno luogo durante una reazione chimica vengono rappresentati

mediante una equazione chimica. Un'equazione chimica è scritta in maniera simile ad

un'equazione matematica, ed in essa compaiono due membri: al primo membro (cioè

a sinistra della freccia o altro simbolo di reazione) compaiono i reagenti, mentre al

secondo membro (cioè a destra della freccia o altro simbolo di reazione) stanno i

prodotti.

Una reazione non può avere luogo, o viene rallentata fino a fermarsi o addirittura a

regredire se non è soddisfatta una serie di condizioni, come presenza dei reagenti in

misura adeguata e condizioni di temperatura, pressione e luce adatte alla specifica

reazione.

Dal postulato fondamentale di Lavoisier, che dice: nulla si crea, nulla si distrugge,

tutto si trasforma ne deriva necessariamente che la somma delle masse dei reagenti è

necessariamente uguale alla somma delle masse dei prodotti di reazione. Siccome

la materia è costituita da atomi, anche il numero degli atomi a destra e a sinistra

dell'equazione deve restare invariato.[1] Ad esempio nell'equazione:

che rappresenta la reazione tra idrossido di sodio ed acido cloridrico per

produrre cloruro di sodio, che conosciamo bene come sale da cucina, troviamo

esattamente lo stesso numero di atomi dello stesso tipo sia nella parte sinistra

(reagenti) che nella parte destra (prodotti) della reazione, ma combinati in maniera

diversa.

In questo caso, essendo questa una reazione tra un acido (HCl) e una base (NaOH) la

reazione procederà verso la neutralizzazione completa, a meno che uno dei reagenti

non sia in eccesso rispetto all'altro: in questo caso, la soluzione rimarrà acida o basica

a seconda del reagente in eccesso.

Oltre al bilanciamento delle masse, nelle equazioni chimiche deve essere soddisfatto

il bilanciamento delle cariche.[1] Le reazioni chimiche infatti possono avvenire anche

tra specie chimiche cariche elettricamente, dette ioni.

Alcune reazioni per avvenire hanno bisogno, o vengono facilitate, della presenza di

una terza sostanza (rispetto a reagenti e prodotti) dettacatalizzatore.

Il catalizzatore permette o facilita la reazione, ma viene ritrovato invariato (o quasi)

tra i prodotti di reazione. In biologia i catalizzatori sono denominati enzimi.

Le trasformazioni che hanno luogo durante una reazione chimica spontanea portano

ad una diminuzione dell'energia totale del sistema. In effetti, in una molecola o in

un cristallo, l'organizzazione reciproca degli atomi implica un'energia, l'energia di

legame; perché un legame venga rotto è necessario fornire al sistema una quantità di

energia almeno pari all'energia di legame. Quando gli atomi si ricombinano,

formando nuovi legami, tale energia viene liberata. Al termine di una reazione,

l'energia immagazzinata nei legami dei prodotti di reazione è minore di quella

inizialmente presente nei legami dei reagenti iniziali.

Durante la reazione, tuttavia, esiste un momento in cui i vecchi legami si sono rotti e

quelli nuovi non si sono ancora formati, è lo stato di transizione dove l'energia del

sistema è massima, cosa che costituisce una vera barriera per la realizzazione della

reazione (vedi: energia di attivazione).

Lo studio dell'aspetto energetico delle reazioni chimiche è la termodinamica, che ci

permette di verificare se una reazione può o meno avere luogo e quanta energia è

necessario fornire per superare la barriera dell'energia di attivazione; ma esiste un

altro parametro importante: lavelocità di reazione.

Alcune reazioni sono molto rapide, addirittura violente, come le esplosioni, altre sono

talmente lente che possono continuare per anni, o secoli. Alcune sono talmente lente

che i reagenti coinvolti sembrano in realtà composti stabili, come nel caso

dell'ossidazione dell'alluminio, si parla in tal caso di composti "metastabili" (la forma

stabile, in ambiente con presenza di ossigeno, è l'ossido di alluminio, mentre quella

metastabile è l'alluminio metallico); ad occuparsi di studiare la velocità di reazione è

la cinetica chimica.

Per quantificare la velocità di una reazione si utilizza il grado di avanzamento della

reazione α, definito globalmente come la proporzione dimiscela che ha già reagito

(α=0 all'inizio della reazione, α=1 quando la reazione è completa). Si può così

definire la velocità di reazione come laderivata del grado di avanzamento rispetto al

tempo:

Alcune reazioni sono reversibili, cioè il guadagno di energia avuto con la reazione è

minimo, in tal modo risulta possibile anche la reazione inversa; è questo il caso

della dissociazione dell'acqua, H2O, negli ioni: H3O+ e OH-. In questi casi il sistema

evolve in generale verso un equilibrio dinamico, ossia il valore di α rimane stabile e

compreso tra 0 e 1, il numero di molecole che reagiscono in un senso è quindi

compensato dal numero di molecole che reagiscono nell'altro.

La cinetica di una reazione dipende da numerosi fattori, il più importante è la

temperatura: l'energia termica permette sia di superare la barriera dell'energia di

attivazione più facilmente, sia di avere un numero maggiore di collisioni tra le

molecole reagenti.

Un altro parametro importante è la fase in cui si trovano i reagenti. Da questo punto

di vista le reazioni maggiormente favorite sono quelle in fase gassosa o liquida, dove

i reagenti sono mescolati tra loro e possono facilmente venire a contatto.

In tutti gli altri casi, cioè per reazioni tra:

un solido e un gas;

un solido e un liquido;

un solido e un solido;

un liquido e un gas;

due liquidi immiscibili;

dette reazioni eterogenee, la reazione può aver luogo esclusivamente nei punti di

contatto tra le due fasi, quindi sarà più veloce se i reagenti vengono dispersi l'uno

nell'altro come nel caso di:

aerosol (fini gocce di liquido disperse in un gas);

emulsioni (dispersioni di gocce di un liquido in un altro immiscibile);

miscugli di polveri;

sol (dispersioni di polveri in un liquido);

schiume (bolle di gas disperse in un liquido).

in questo modo vengono massimizzate le superfici di contatto tra i reagenti e quindi

la possibilità di reazione.

Per i solidi questo può esser quantificato misurando la superficie specifica, ossia la

superficie esposta per unità di massa; una polvere o un solido poroso hanno elevati

valori di superficie specifica.

A seconda del modo in cui si combinano i reagenti per dare luogo ai prodotti, si

possono avere le seguenti tipologie di reazioni chimiche:

Decomposizione: un reagente da luogo a più prodotti;

Sintesi: più reagenti danno luogo a un prodotto;

Sostituzione: un gruppo di una specie chimica viene sostituite da un altro

gruppo;

Metatesi: scambio di due o più ioni fra elementi e gruppi aventi la stessa

valenza.

Una reazione viene detta di ossido-riduzione (o redox) se durante il suo svolgimento

alcune specie chimiche modificano il proprio numero di ossidazione.[2] Le reazioni

che non sono di ossido-riduzione sono reazioni acido-base (ovvero i reagenti di tali

reazioni sono un acido e una base).

Il metabolismo del corpo umano: la digestione

La digestione è il processo meccanico-chimico che trasforma e riduce il cibo ingerito

in sostanze più semplici e più facili da assorbire ed assimilare dall'organismo. La

digestione è una forma di catabolismo ovverosia la riduzione di molecole complesse

del cibo in molecole più semplici

La digestione comincia dalla bocca, che viene aperta o chiusa da una parte fissa,

la mascella, a cui si articola una parte mobile, la mandibola. La bocca contiene

la lingua. Il cibo ingerito riceve dalle ghiandole salivari la saliva, viene portato alla

temperatura ottimale per la digestione ed è rotto meccanicamente dai denti, mentre è

in parte demolito chimicamente dalla saliva; di questa ne viene prodotta circa

un litro e mezzo ogni giorno dalle ghiandole salivari. La saliva è prodotta da tre

ghiandole: la parotide, la più grande, situata sotto l'orecchio, la sottomascellare e

lasottolinguale. La saliva è una soluzione acquosa al 99.5 %, e contiene

l'amilasi salivare, un enzima che a pH 7 inizia la demolizione degli amidiin

frammenti più piccoli, come il maltosio, costituito da due molecole di glucosio. Il

cibo, impregnato di saliva e impastato con i movimenti della mascella e della lingua,

forma il bolo, che viene spinto nella faringe dove viene deglutito. La faringe fa parte

anche dell'apparato respiratorio ed è la via attraverso cui l'aria entra nella laringe e

quindi passa nella trachea. Durante la deglutizione la respirazione cessa e l'entrata

della laringe è coperta dall'epiglottide, in modo che il bolo imbocchi la via giusta,

cadendo nell'esofago. L'esofago, un tubo lungo anche 30 cm, attraversa il diaframma,

e termina nello stomaco. Il diaframma è il muscolo a forma di cupola che separa la

cavità toracica dalla cavità addominale. Nell'esofago il cibo si muove spinto da

contrazioni peristaltiche che avanzano come onde restringendo il passaggio al di

sopra del bolo e allargandolo al disotto. Esse ci permettono di inghiottire e far

avanzare il cibo nell'esofago anche se ci troviamo a testa in giù.

L'ingresso del bolo nello stomaco è controllato da un muscolo sfintere, il cardias. Lo

stomaco è come un sacco dalla capacità di più di un litro, dalle robuste pareti

muscolari. La parete più interna dello stomaco, la mucosa, presenta numerosi

microvilli all'interno delle quali si annidano le ghiandole che, a ogni pasto, producono

circa 500 ml di succo gastrico, composto da enzimi, muco e acido cloridrico. L'acido

cloridrico dissolve la sostanza cementante posta tra le cellule del cibino, uccide i

batteri e rende attivo un enzima secreto dalle ghiandole gastriche, il pepsinogeno.

Quando, nella cavità dello stomaco, il pepsinogeno è raggiunto dall'acido cloridrico,

esso diventa pepsina (dal greco pèpsis = cottura). Mentre il pepsinogeno è inattivo e

non può danneggiare le cellule delle ghiandole che lo producono, la pepsina agisce

sui legami peptidici che legano tra loro gli amminoacidi delle proteine. Si formano

così piccoli frammenti di proteine, i peptidi, composti da alcuni amminoacidi ancora

legati tra loro. La mucosa dello stomaco è rivestita da una patina di muco, che ha la

funzione di proteggere le cellule dai succhi digestivi. La protezione è indispensabile

perché essi, così come attaccano e digeriscono gli alimenti, potrebbero attaccare e

digerire la stessa parete dello stomaco. Talvolta però, la mucosa può essere

danneggiata da sostanze irritanti come l'alcol o l'acido acetilsalicilico; oppure il muco

può venire prodotto in quantità insufficiente. Quando ciò si verifica, gli enzimi e

l'acido cloridrico iniziano a "digerire" lo stomaco: si forma una lesione

chiamata ulcera peptica. Il sintomo tipico è un dolore profondo nella parte superiore

dell'addome a stomaco vuoto. Recentemente si è scoperto che nello stomaco di molti

individui è presente un batterio, l'Helicobacter pylori, che potrebbe avere un ruolo

importante nell'insorgenza del disturbo. Lo stomaco ha funzione di dissolvimento e di

digestione, ma in genere non di assorbimento. Tuttavia alcune sostanze come l'acqua,

le vitamine, l'aspirina, il glucosio e l'alcool, possono essere direttamente assorbite

nello stomaco senza arrivare nell'intestino. Ciò avviene perché le loro molecole, di

piccole dimensioni, passano direttamente nel sangue che scorre nei vasi delle pareti

dello stomaco. Per questo motivo l'alcool, anche se ingerito da poco, può avere effetti

quasi immediati. Il contenuto dello stomaco, quando esce per entrare nell'intestino, è

una poltiglia semi-solida lattiginosa e acida (il pH dello stomaco è 1-2) ed è

detto chimo.

L'intestino si distingue in intestino tenue,lungo e sottile, e intestino crasso, più corto,

con un diametro maggiore e con una superficie solcata da profonde pieghe.

Nell'intestino si completa la digestione chimica e ha luogo l'assorbimento del

materiale digerito. Al fine di massimizzare l'area disponibile per queste funzioni,

l'intestino tenue è estremamente lungo ed è altamente ripiegato. È diviso in tre

sezioni: duodeno, digiuno e ileo.

Pur essendo lungo 30 cm,ovvero 12 pollici, il duodeno è la porzione dell'intestino e

dell'intero apparato digerente che sostiene la maggior parte della digestione chimica.

Le trasformazioni avvengono per opera del succo enterico (dal greco énteron =

intestino), secreto da ghiandole situate nella mucosa del duodeno, del succo

pancreatico, prodotto dal pancreas, e della bile, prodotta dalfegato. Il succo

pancreatico è prodotto dal pancreas, un organo di forma allungata situato vicino al

punto in cui lo stomaco comunica con l'intestino. In esso vi sono due distinti

raggruppamenti di cellule. In uno viene prodotto il succo pancreatico che con un

condotto, il dotto pancreatico, viene convogliato nell'intestino. Nell'altro le cellule

formano dei piccoli ammassi, detti isole di Langerhans, in cui sono prodotti ormoni,

come l'insulina, che sono riversati nel sangue. Il succo enterico e quello pancreatico

contengono numerosi enzimi, muco e sali, tra cui il bicarbonato che ha la funzione di

neutralizzare il pH acido del chimo, riportandolo vicino alla neutralità. Gli enzimi del

succo enterico e pancreatico agiscono su zuccheri, proteine, grassi e acidi

nucleici demolendoli in molecole più piccole. Enzimi sono: l'amilasi per la digestione

dell'amido, la lipasi per la digestione dei grassi, latripsina, contenuta nel succo

pancreatico, per la digestione delle proteine.

La digestione dei grassi è operata dagli enzimi, ma è resa possibile dalla bile.

La bile è un liquido giallo-verde che viene immagazzinato in una piccola ampolla

annessa al fegato, la cistifellea, un serbatoio che circa 30 minuti dopo il pasto spruzza

il suo contenuto, mediante un condotto, ilcoledoco, nell'intestino. I sali biliari

contenuti nella bile hanno una struttura simile a quella dei detergenti, con una

estremità idrosolubile e un'estremità liposolubile. Il loro ruolo è quello di emulsionare

i grassi, ossia di suddividere le grosse gocce di grasso in numerose goccioline più

piccole che restano separate le une dalle altre. Questo processo ha la funzione di

aumentare la superficie su cui possono agire gli enzimi. In conclusione, nell'intestino,

per l'azione chimica dei succhi digestivi e per quella meccanica dei movimenti

peristaltici, il chimo proveniente dallo stomaco viene trasformato in un liquido

lattescente, detto chilo, che contiene in soluzione molecole piccole che possono

attraversare la parete intestinale. Infatti, gli amidi che in bocca erano già stati

intaccati dall'amilasi salivare sono completamente demoliti in glucosio. Le lunghe

catene di amminoacidi delle proteine, già ridotte nello stomaco in peptidi, sono

completamente demolite in amminoacidi . Anche gli acidi nucleici, pur

rappresentando una quota molto piccola degli alimenti, sono decomposti

nei nucleotidi che li costituiscono. I grassi che non avevano subito né in bocca né

nello stomaco alcun attacco enzimatico, sono demoliti in glicerolo e acidi grassi.

L'ultima fase della digestione, l'assorbimento, è il passaggio nel sangue, attraverso le

pareti intestinali, delle sostanze ottenute dalla digestione

delle macromolecole contenute negli alimenti: principalmente glucosio (derivato da

amido e saccarosio), amminoacidi(derivati delle proteine), glicerolo e acidi grassi

(derivati dai grassi), vitamine e sali minerali. Gran parte dell'assorbimento ha luogo

attraverso le pareti del digiuno e dell'ileo. Per aumentare la superficie di

assorbimento, le pareti dell'intestino tenue sono tutte sollevate in pieghe o pliche a

loro volta ricoperte da migliaia di sottili estroflessioni a forma di dito, i villi. Ogni

villo è lungo circa 1 mm e ce ne sono circa 3000 per ogni centimetro quadrato. La

superficie di ogni villo è ulteriormente aumentata perché le cellule che lo formano

hanno la loro stessa membrana sollevata in migliaia di microvilli. Le molecole

passano attraverso la membrana dei microvilli. Ogni villo è percorso all'interno da

una rete di capillari in cui scorre il sangue e qui, nel sangue, si riversano il glucosio,

gli amminoacidi, i sali e le vitamine. I capillari intestinali convergono infine in un

vaso sanguigno, la vena porta epatica, che entra nel fegato. I grassi seguono un'altra

via. Dopo aver superato la membrana dei microvilli, il glicerolo e gli acidi grassi si

riuniscono e formano di nuovo i trigliceridi, che vanno infine in un piccolo condotto,

un vaso linfatico in cui scorre la linfa. La linfa è un liquido che ha una composizione

simile al sangue, ma senza globuli rossi. Essa scorre in un sistema di tubicini, i vasi

linfatici. Dopo un certo percorso i vasi linfatici confluiscono in un unico condotto che

termina nel torrente circolatorio. La linfa si unisce quindi al sangue e in quest'ultimo

arrivano, direttamente o indirettamente, tutte le molecole provenienti dalla digestione

del cibo. Il contenuto intestinale, dopo l'assorbimento nell'intestino tenue, prosegue

lentamente il suo cammino nell'intestino crasso. Il primo tratto, a forma di sacca, è

detto cieco perché porta un'estroflessione vermiforme, l'appendice, che nell'uomo ha

un ruolo secondario in quanto contribuisce in piccola parte alle difese immunitarie.

La sua infezione è detta appendicite. Al cieco segue il colon, il quale è percorso

trasversalmente da solchi e dotato di una forte muscolatura. Il colon termina con il

retto, che sbocca all'esterno con un muscolo sfintere, l'ano. Nell'intestino crasso le

ghiandole della mucosa producono solo muco e non enzimi. Anche se la parete è

lubrificata dal muco, il tempo di transito dei materiali intestinali è piuttosto lungo,

dalle 12 alle 36 ore. Nel crasso avviene il riassorbimento dell'acqua e dei sali

minerali, e l'eliminazione con le feci del cibo non digerito. Il riassorbimento

dell'acqua è importante perché ogni giorno vengono riversati nel tubo digerente sotto

forma di succhi digestivi ben 7 litri di liquidi. Se il materiale digerito si muove troppo

velocemente lungo il colon, si ha un riassorbimento insufficiente di acqua che

provoca diarrea e disidratazione; al contrario, se il movimento è troppo lento, l'acqua

viene riassorbita in quantità eccessiva, causando stitichezza.

La tassonomia

La tassonomia (dal greco ταξις, taxis, "ordinamento", e νοµος, nomos, "norma" o

"regola") è, nel suo significato più generale, la scienza della classificazione.

Abitualmente, si impiega il termine per designare la tassonomia biologica, la scienza

dell'ordinare gli organismi in un sistema di classificazione composto da una gerarchia

di taxa annidati.

Con il termine tassonomia, dunque, ci si può riferire sia alla classificazione

gerarchica di concetti, sia al principio stesso della classificazione. Praticamente tutti i

concetti, gli oggetti animati e non, i luoghi e gli eventi possono essere classificati

seguendo uno schema tassonomico. La tassonomia è la scienza che si occupa

genericamente dei modi di classificazione (degli esseri viventi e non).

Per classificazione si intende la descrizione e la collocazione in un sistema

tassonomico di una entità, mentre per determinazione si intende il riconoscimento o

l'identificazione di un soggetto. Soprattutto in ambito scientifico

(es.botanica, zoologia) è importante non confondere questi termini.

Secondo la matematica, una tassonomia è una struttura ad albero di istanze (o

categorie) appartenenti ad un dato gruppo di concetti. A capo della struttura c'è

un'istanza singola, ilnodo radice, le cui proprietà si applicano a tutte le altre istanze

della gerarchia (sotto-categorie). I nodi sottostanti a questa radice costituiscono

categorie più specifiche le cui proprietà caratterizzano il sotto-gruppo del totale degli

oggetti classificati nell'intera tassonomia.

In biologia è la disciplina scientifica che si occupa di attribuire un nome agli

organismi viventi e di classificarli. Di conseguenza, la Tassonomia Biologica è una

sottodisciplina della Biologia Sistematica, che studia le relazioni di parentela fra gli

organismi e la loro storia evolutiva. Attualmente, la Tassonomia agisce dopo avere

risolto l'albero filogenetico degli organismi studiati, cioè, una volta che vengono

risolti i cladi, o rami evolutivi, in funzione delle relazioni di parentela fra essi.

Attualmente esiste il consenso nella comunità scientifica del fatto che la

classificazione deve essere interamente consistente con ciò che si sa

della filogenesi dei taxa, poiché solo allora fornirà il servizio che si spera essa dia al

resto dei rami della Biologia (vedere per esempio Soltis e Soltis 2003 [1]), ma ci sono

scuole dentro la Biologia Sistematica che definiscono con sfumature differenti la

maniera nella quale la classificazione deve corrispondere alla filogenesi conosciuta.

Più in là della scuola che la definisce, il fine ultimo della Tassonomia è organizzare

l'albero filogenetico in un sistema di classificazione. Perciò, la

scuola cladistica (quella che predomina al giorno d'oggi) converte i cladi in taxa.

Un taxon è un clade al quale fu assegnato unacategoria tassonomica e un nome in

latino, di cui si faceva una descrizione, associandone un esemplare "tipo", e che fu

pubblicato in una rivista scientifica. Quando si fa tutto questo, il taxon ha un nome

corretto. La nomenclatura è la sottodisciplina che si occupa di regolamentare questi

passi, e far sì che ci si attenga ai principi di nomenclatura. Di conseguenza, i sistemi

di clasificazione che ne nascono, funzionano come contenitori di informazione da un

lato, e come predittivi dall'altro.

Una volta terminata la classificazione di un taxon, si estraggono i caratteri

diagnostici di ognuno dei suoi membri, e sopra questa base si confezionano chiavi

dicotomiche di identificazione, le quali sono utilizzate allo scopo di determinare o

identificare gli organismi, ubicando un organismo sconosciuto in un taxon conosciuto

del sistema di classificazione dato. La determinazione o identificazione è inoltre la

specialità, dentro la tassonomia, che si occupa dei principi di elaborazione delle chavi

dicotomiche e altri strumenti utilizzati allo stesso fine.

Le norme che regolano la creazione dei sistemi di classificazione sono in parte

convenzioni più o meno arbitrarie. Per comprendere queste arbitrarietà (per esempio,

la nomenclatura binomiale delle specie e la uninominale delle categorie superiori

alla specie, o anche la quantità di categorie tassonomiche e i nomi delle stesse) è

necessario studiare la storia della Tassonomia, che ci ha lasciato come eredità

i Codici Internazionali di Nomenclatura alle cui regole tecniche debbono attenersi i

sistemi di classificazione.

Oltre alla scuola che la definisce, il fine ultimo della tassonomia è presentare

un sistema di classificazione che raggruppi tutte le diversità degli organismi in unità

discrete dentro un sistema stabile, sopra le quali sia reso possibile il lavoro dei

ricercatori.

I sistemi di classficazione sono composti da taxa (dal greco ταξα, taxa) inseriti nelle

loro rispettive categorie tassonomiche. La decisione di quali cladi dovrebbero

convertirsi in taxa e in quali categorie tassonomiche dovrebbe stare ogni taxon, è un

po' arbitraria, però ci sono alcune regole non scritte che i ricercatori utilizzano

affinché il sistema di classificazione risulti "utile". Affinché un sistema di

classificazione risulti utile, esso deve essere maneggevole, e perciò deve organizzare

l'informazione in modo che sia più facile da ricordare. Judd e collaboradori (2002)

concordano sul fatto che:

1. ogni taxon deve avere evidenza affidabile del fatto che esso formi un

gruppo monofiletico: per convertire un clade in taxon deve avere

molte sinapomorfie che lo giustifichino, e deve avere una quantità di caratteri

diagnostici che permettano di diferenziarlo dal resto dei taxa, agevolando la

stabilità del sistema di classificazione;

2. alcuni sistematici appoggiano l'idea del fatto che ogni taxon dovrebbe

possedere caratteri morfologici ovvi che permettano di identificarlo, e ciò

favorirebbe l'identificazione per quelli non sistematici, oltre che aiutare a

inferire molti aspetti della sua biologia;

3. i taxa che compongono un sistema di classificazione devono avere

possibilmente fra 3 e 7 sottotaxa, un numero che possa maneggiare con facilità

la memoria umana (Stevens 1998[8]). Nelle parole di Davis e Heywood

(1963:83): "Dobbiamo essere capaci di ubicare i taxa in taxa di categoria più

alta in modo che possiamo incontrarli di nuovo".[16]

4. Altro criterio è la stabilità della nomenclatura. I gruppi che già sono stati

nominati nel passato dovrebbero continuare con lo stesso nome nei limiti del

possibile.

Una volta deciso quali cladi convertire in taxa, i sistematici devono decidere in quali

categorie tassonomiche ubicarli, il che è arbitrario. Per ragioni storiche si utilizzano

le categorie linneane di

classificazione: regno, phylum o divisione, classe, ordine, famiglia, genere e specie (v

edere nella sezione della storia della tassonomia). Gli stessi criteri utilizzati per

sapere se denominare un taxon, possono essere utilizzati per sapere in quale categoria

tassonomica ubicarlo,[8] specialmente quello della stabilità nella nomenclatura.

I sistemi di classificazione che nascono come risultato della tassonomia hanno due

utilità:

Servono come contenitori di informazione. Gli scienziati di tutto il mondo

utilizzano i taxa come unità di lavoro, e ne pubblicano i risultati in relazione al

taxon studiato. Pertanto i nomi scientifici degli organismi sono la chiave di

accesso a un immenso corpo di informazione, disperso in molte lingue e

proveniente da molti campi della Biologia.

Permettono di fare predizioni riguardo

alla fisiologia, ecologia ed evoluzione dei taxa. Per esempio, è molto comune che

quando si trova un composto di interesse medico in una pianta, si investiga se

questo composto o altri similari si trovino anche in altre specie ad essa

imparentate.

I taxa o gruppi, nei quali vengono classificati gli esseri viventi, strutturati in una una

gerarchia di inclusione, nella quale un gruppo abbraccia altri minori ed è, a sua volta,

subordinato a uno maggiore. Ai gruppi viene assegnato un rango

tassonomico o categoria tassonomica che accompagna il nome proprio del gruppo.

Alcuni esempi conosciuti

sono: genere Homo,famiglia Canidae (canidi), ordine Primati, classe Mammalia (ma

mmiferi), regno Fungi (funghi).

Sono ranghi anche quelli di specie e sue subordinate. Il nome delle specie si distingue

da quelli dei taxa di altri ranghi perché va ad essere costituito di due parole, il che

rende ozioso scriverne la categoria.

Le categorie tassonomiche fondamentali si denominano, incominciando da quella che

più comprende (include):

Dominio

Regno

Phylum, (o Divisione, in questo caso viene esclusa la Zoologia)

Classe

Ordine

Famiglia

Tribù

Genere

Specie

Charles Darwin e le teorie evolutive

Charles Robert Darwin (Shrewsbury, 12 febbraio 1809 – Londra, 19 aprile 1882) è

stato unbiologo, geologo, zoologo e botanico britannico, celebre per aver formulato

la teoria dell'evoluzione delle specie animali e vegetali per selezione naturale agente

sulla variabilitàdei caratteri (origine delle specie), e per aver teorizzato

la discendenza di tutti i primati (uomo compreso) da un antenato comune (origine

dell'uomo). Pubblicò la sua teoria sull'evoluzione delle specie nel libro L'origine delle

specie (1859), che è rimasto il suo lavoro più noto. Raccolse molti dei dati su cui

basò la sua teoria durante un viaggio intorno al mondo sulla nave HMS Beagle, e in

particolare durante la sua sosta alle Isole Galápagos.

Con la teoria evoluzionistica Darwin dimostrò che l'evoluzione è l'elemento comune,

il filo conduttore della diversità della vita.Secondo una visione evolutiva della vita, i

membri dello stesso gruppo si assomigliano perché si sono evoluti da un antenato

comune.Secondo l'opinione di Darwin, le specie nascono mediante un processo di

“discendenza con variazione”. Fatto ancora più importante, nel suo trattato

sull'origine delle specie, Darwin oppose la teoria della selezione naturale per spiegare

con quali meccanismi avviene l'evoluzione.

La teoria evoluzionistica di Darwin si basa su tre presupposti fondamentali:

1. Riproduzione: tutti gli organismi viventi si riproducono con un ritmo tale che,

in breve tempo, il numero di individui di ogni specie potrebbe non essere più

in equilibrio con le risorse alimentari e l'ambiente messo loro a disposizione.

2. Mutazioni: all'interno della stessa specie ci sono esseri diversi tra loro; ve ne

sono di più lenti e di più veloci, di più chiari e di più scuri, e così via.

3. Selezione: esiste una lotta continua per la sopravvivenza all'interno della stessa

specie e anche all'esterno. Nella lotta sopravvivono gli individui più favoriti,

cioè quelli meglio strutturati per giungere alle risorse naturali messe loro a

disposizione, ottenendo un vantaggio riproduttivo sugli individui più deboli.

La selezione naturale avviene quando variazioni ereditabili vengono esposte a fattori

ambientali che favoriscono il processo riproduttivo di alcuni individui rispetto ad

altri. Egli affermò che l'evoluzione di nuove specie deriva da un accumulo graduale

di piccoli cambiamenti. Ciascuna specie presenta una propria serie di adattamenti,

ossia di caratteristiche che si sono evolute mediante la selezione naturale;

comprendere in che modo gli adattamenti si sono evoluti per selezione naturale è di

estrema importanza nello studio della vita quindi nella biologia.

I FOSSILI

Introduzione

Fossile In geologia, termine usato per indicare qualsiasi reperto fisico di organismo animale o vegetale vissuto in tempi geologici passati e rimasto conservato all’interno di formazioni rocciose sedimentarie. Il termine non indica soltanto parti di organismi, quali possono essere ossa, denti o interi scheletri di animali, ma qualunque traccia lasciata da antichi organismi: ad esempio, impronte sul terreno o escrementi. I fossili sono oggetto di studio della paleontologia, che da essi trae le informazioni necessarie per ricostruire la storia della vita sulla Terra.

La fossilizzazione

I processi di fossilizzazione sono una combinazione di trasformazioni biologiche, chimiche e fisiche che agiscono su un organismo morto, una sua parte o una sua traccia, alterandone la composizione e rendendolo chimicamente stabile.

Le prime trasformazioni che un organismo subisce dopo la morte sono quelle di decomposizione biologica, che normalmente portano alla sua totale disgregazione. Nel caso di un fossile, tali trasformazioni sono state evidentemente ostacolate dal processo di sedimentazione in cui l’organismo si è trovato coinvolto. Se i sedimenti sono sufficientemente fini, infatti, e se la loro velocità di deposizione è relativamente rapida, l’organismo viene inglobato in un deposito compatto di sedimenti e in tal modo protetto da qualunque fattore disgregante, di natura biologica o meccanica. In questo senso, l’ambiente marino presenta le caratteristiche più adatte alla fossilizzazione: gli animali morti che si depositano sul fondo possono contare su una buona velocità di sedimentazione e su sedimenti sottili e compatti. Per questo, il numero di fossili marini è nettamente superiore a quelli terrestri, e le informazioni di cui i paleontologi dispongono sulla vita nei mari delle passate ere geologiche sono più numerose di quelle relative ad altri ambienti.

La mineralizzazione

Una volta interrato, l’organismo morto attraversa la fase più significativa del processo di fossilizzazione, quella chimica: le sostanze organiche di cui è composto vengono via via sostituite da sostanze inorganiche, attraverso meccanismi di mineralizzazione. Nella maggior parte dei casi, l’acqua che filtra attraverso i sedimenti impregna l’organismo dei sali che porta disciolti in soluzione (calcare, silice, fosfato di calcio). Più raramente, avviene una vera e propria sostituzione a livello molecolare delle sostanze organiche di cui è costituito l’organismo con i sali; il risultato di quest’ultima modalità di mineralizzazione (detta metasomizzazione) è un fossile che conserva nei minimi dettagli le forme dell’organismo originario, ma che presenta una composizione chimica completamente diversa da quella originaria.

Altri meccanismi di fossilizzazione

Nel caso specifico dei resti vegetali, una delle modalità possibili di fossilizzazione è la carbonificazione: in seguito all’attacco di batteri specifici, il materiale vegetale si impoverisce di ossigeno e azoto e quindi aumenta la propria concentrazione relativa di carbonio; da qui la formazione dei giacimenti di carbon fossile, che altro non sono se non resti di piante fossili.

Un altro meccanismo di fossilizzazione interessa resti organici venutisi a trovare in vicinanza di una sorgente o di un bacino di acqua calcarea: il carbonato di calcio contenuto nell’acqua a poco a poco si deposita sul resto organico incrostandolo completamente; ne rimane un calco che riproduce fedelmente la forma dell’organismo originario.

Casi particolari di fossilizzazione, in cui si conservano non solo le parti dure dell’organismo morto, ma anche i suoi tessuti molli, possono avvenire quando l’inglobamento in un mezzo avviene prima che abbia inizio la decomposizione o intervenga qualunque altro fattore disgregante. È il caso dei fossili di insetti, di polline o di altri piccoli animali rimasti invischiati nella resina, successivamente trasformata in ambra, o dei giganteschi mammut perfettamente conservati dai ghiacci del loro antico habitat.

Classificazione e tipi di fossili

La classificazione dei fossili segue fedelmente i criteri della classificazione tassonomica dei viventi. Ogni resto viene quindi identificato in base alle stesse categorie sistematiche degli organismi che popolano oggi il pianeta: specie, genere, famiglia, ordine, classe, phylum e regno.

La maggior parte dei fossili che si rinvengono consiste di parti della struttura originaria dell’organismo, ad esempio ossa, che hanno subito un processo di mineralizzazione. Numerosi sono anche gli stampi e i calchi naturali che si formano quando anche le strutture coriacee di un organismo (scheletro, conchiglie, gusci) vengono disciolte dalla circolazione di acqua: le cavità che si producono in seguito alla dissoluzione vengono riempite da sedimenti che, consolidandosi, formano repliche degli originali. Altri tipi di fossili sono costituiti da impronte di animali; da animali interi rimasti custoditi in suoli gelati o in torbiere; dai coproliti – escrementi fossili che, se possono essere attribuiti con sicurezza a un dato animale, talvolta consentono di risalire al suo tipo di dieta.

Importanza dei fossili

I fossili costituiscono una fonte preziosa di informazioni sugli ecosistemi che si sono succeduti nella storia della Terra: da essi è possibile risalire alle caratteristiche delle forme viventi del passato e degli ambienti in cui queste sono fiorite.

Va tuttavia tenuto presente che le informazioni fornite dai fossili sono parziali, in quanto riguardano soltanto alcune tipologie di organismi, e in particolare quelli che, dotati di parti dure come un guscio, una conchiglia o uno scheletro, non si sono completamente disgregati prima dell’inizio del processo di fossilizzazione. Così, benché non si possa escludere che organismi pluricellulari popolassero i mari del Precambriano, non si dispone di resti fossili che permettano di accertarne l’esistenza: essendo a corpo molle, questi organismi non avrebbero comunque potuto lasciare traccia di sé. La documentazione fossile diviene enormemente ricca solo a partire da 570 milioni di anni fa, quando si affermarono i primi animali dotati di conchiglie e di parti scheletriche.

Fossili e teoria dell’evoluzione

L’importanza dei fossili risiede anche nel ruolo determinante che hanno avuto nella nascita e nell’affermazione della teoria dell’evoluzione di Darwin. Prima che essi venissero scoperti e riconosciuti come resti di organismi vissuti in epoche passate, infatti, si riteneva che il mondo fosse sempre stato popolato dalle stesse forme viventi.

Fossili e stratigrafia

In campo geologico, e più propriamente stratigrafico, i fossili costituiscono un utilissimo sistema di datazione delle successioni di strati sedimentari, dette serie stratigrafiche: la presenza dei fossili al loro interno permette infatti di stabilire l’età relativa delle formazioni sedimentarie, le une rispetto alle altre. In questo tipo di datazione sono particolarmente utili i cosiddetti fossili guida: si tratta di particolari organismi che, al tempo in cui sono vissuti, hanno goduto di una straordinaria diffusione geografica in un periodo di tempo limitato; queste caratteristiche fanno sì che essi si trovino oggi all’interno di strati rocciosi ben definiti, in diverse zone del globo.

Basandosi sull’analisi dei fossili, i geologi e i paleontologi, a partire dal XIX secolo, hanno quindi potuto stabilire una cronologia dell’evoluzione delle forme di vita sulla Terra nei suoi ultimi 500 milioni di anni di vita, dal Cambriano all’Olocene.

CARBON FOSSILE

Il Carbon fossile è un Combustibile solido di origine vegetale. Nelle passate ere geologiche, in particolare nel Carbonifero (circa 300 milioni di anni fa), gran parte della superficie terrestre era occupata da paludi in cui cresceva una vegetazione lussureggiante che comprendeva molte varietà di felci, alcune grandi come alberi. Man mano che morivano, le piante venivano sommerse dall'acqua: la materia organica dunque non si decomponeva, ma cominciava a subire un lento processo di carbonizzazione, una particolare forma di fossilizzazione consistente nella perdita graduale e continua di atomi di idrogeno e di ossigeno, con il conseguente accumulo di un'alta percentuale di carbonio.

In tal modo si formarono i primi giacimenti di torba, ricoperti col passare del tempo da strati di terreno più o meno spessi. In migliaia e milioni di anni la pressione degli strati sovrastanti, i sommovimenti della crosta terrestre e, talvolta, il calore dei

vulcani compressero e compattarono gli originari depositi di torba, trasformandoli progressivamente in carbone.

TIPI DI MINIERE

I diversi tipi di carbon fossile vengono classificati secondo la loro età, e quindi secondo il loro contenuto percentuale di carbonio. La torba, che rappresenta il primo stadio della carbonizzazione, ha un basso contenuto di carbonio e un alto grado di umidità. Il contenuto di carbonio è maggiore nella lignite, che costituisce lo stadio immediatamente precedente il carbon fossile vero e proprio, rappresentato dal litantrace, che contiene ancor più carbonio, e che quindi ha un potere calorifico relativamente alto, e dall'antracite, che ha il massimo contenuto di carbonio e il potere calorifico maggiore.

Se sottoposto a pressione e calore ulteriori, il carbon fossile può trasformarsi in grafite, che è praticamente carbonio puro. Altri componenti del carbon fossile sono alcuni idrocarburi volatili, zolfo e azoto, oltre ai minerali che residuano dalla combustione sotto forma di cenere. Alcuni dei prodotti di combustione del carbon fossile hanno effetti nocivi sull'ambiente, come, ad esempio, il diossido di carbonio o anidride carbonica (CO2).

Alcuni scienziati ritengono che, a causa dell'uso generalizzato di carbone e altri combustibili fossili, la quantità di diossido di carbonio nell'atmosfera terrestre possa aumentare tanto da influenzare il clima del pianeta (vedi Effetto serra).

Durante la combustione, inoltre, zolfo e azoto contenuti nei combustibili fossili formano ossidi che contribuiscono alla formazione di piogge acide, risultato di una complessa serie di reazioni che coinvolgono sostanze chimiche di varia provenienza, sia naturali sia prodotte da attività industriali o dai gas di scarico dei mezzi di trasporto con motore a combustione interna. In molte nazioni, le emissioni di diossido di zolfo o anidride solforosa (SO2) provenienti dalle moderne centrali termoelettriche a carbone sono state poste sotto controllo, riuscendo a ottenerne la diminuzione, malgrado l'aumento dell'impiego di carbone.

Ogni tipo di carbon fossile ha il suo valore economico. La torba è stata usata per secoli, nelle miniere di carbone, per produrre il cosiddetto fuoco in cantiere, e attualmente torba e lignite servono ad alimentare i forni, dopo essere state compresse in mattonelle. Le centrali termoelettriche e varie industrie utilizzano come combustibile il litantrace, mentre l'industria siderurgica fa largo uso di coke metallurgico, un combustibile ad altissima percentuale di carbonio, che si ottiene dalla distillazione del carbon fossile. Dall'inizio del XIX secolo alla seconda guerra mondiale il carbon fossile fu usato anche per la produzione di gas combustibili e di idrocarburi liquidi.

Questa produzione è molto diminuita da quando è cominciato lo sfruttamento delle enormi riserve di gas naturale, benché negli anni Ottanta si sia risvegliato l'interesse delle nazioni industrializzate verso questi processi, che rientrano fra le tecnologie innovative del 'carbone pulito'. Si può citare l'esempio del Sudafrica, dove l'intero fabbisogno di olio combustibile è fornito dalla liquefazione del carbon fossile.

TECNOLOGIE DEL CARBONE PULITO

Si tratta di una nuova generazione di processi di utilizzazione del carbon fossile, alcuni dei quali potranno essere sfruttati commercialmente all'inizio del XXI secolo. Le tecnologie del carbone pulito sono diverse, ma tutte accomunate dal principio di riuscire ad alterare la struttura di base del carbone, prima o durante una delle fasi di trattamento o di utilizzo.

In questo modo sarebbe possibile ridurre l'emissione di impurità, quali ossidi di zolfo e di azoto, durante il processo di combustione, e aumentare la resa energetica. Queste tecniche innovative comprendono raffinati metodi di pulizia del carbone, di combustione in letto fluido, di ciclo combinato di gasificazione integrata, di totale desolforazione dei gas di combustione.

GLI OGM

Gli organismi geneticamente modificati (OGM), sono organismi caratterizzati da un patrimonio genetico (genoma) alterato rispetto a quello tipico della propria specie, per l’introduzione artificiale di uno o più geni provenienti da altri organismi

Per ottenere organismi transgenici si utilizzano le tecniche dell’ingegneria genetica. Il frammento di DNA in cui si trova il gene da inserire viene iniettato in una cellula batterica, o in una cellula uovo (che verrà successivamente fecondata) o in un embrione. Per potere essere attivo, il frammento di DNA deve essere associato a un vettore d’espressione, ossia a un’altra porzione di DNA specifica che controlla le modalità di espressione del gene da trasferire; ad esempio, esso permette che il gene si esprima (cioè svolga la propria attività) soltanto in determinati tessuti.

Il DNA estraneo viene inoculato per microiniezione nella cellula ricevente; dopo l’inoculazione, il nuovo gene si integra con il DNA di questa, e può di conseguenza venire trasmesso a tutte le cellule che derivano per successive mitosi dalla cellula ricevente.

Nel caso si utilizzino embrioni, i frammenti di DNA contenenti i geni possono essere anche inseriti tramite un virus-vettore, ossia tramite un virus infettivo nel quale, a sua volta, è stato inoculato il frammento di DNA. Si calcola che la percentuale di successo di questa tecnica, che si traduce con il numero di organismi transgenici vitali e nei quali i geni estranei sono funzionanti, sia dell’1%.

Il controllo dell’avvenuta integrazione del gene nel patrimonio genetico dell’organismo ricevente può essere fatto prelevando da alcune cellule transgeniche campioni di DNA ed esaminandoli, in genere mediante la tecnica nota come reazione a catena della polimerasi (PCR).

L’IMPIEGO DEGLI ORGANISMI TRANSGENICI

Nella ricerca biologica e genetica, l’impiego di organismi transgenici è rilevante nell’ambito degli studi sulla funzione di geni specifici; infatti, l’immissione di un gene estraneo in un organismo determina l’insorgenza in questo di particolari caratteristiche (come la resistenza a un erbicida o la capacità di sintetizzare una data proteina) che, confrontate con quelle degli individui della stessa specie, permettono la comprensione del ruolo di quel gene.

A scopo di ricerca, sono impiegati anche particolari tipi di organismi transgenici, i cosiddetti knock-out, in cui un gene dell’organismo viene eliminato o inattivato; alcuni topi così modificati, ad esempio, sono stati utilizzati per studiare il ruolo funzionale di alcuni geni specifici nello sviluppo embrionale. Disattivando in animali da laboratorio il gene corrispondente a un gene non funzionale nei pazienti affetti da una particolare malattia, si possono creare modelli utili a fini diagnostici e terapeutici.

UNA QUESTIONE CONTROVERSA

L’impiego di organismi geneticamente modificati è uno dei più dibattuti temi della bioetica. Infatti, già da tempo la creazione di nuove culture vegetali o di microrganismi modificati può essere siglata da brevetto; la possibilità di estendere questa pratica anche a organismi più complessi, e ai procedimenti industriali che ne permettono l’ottenimento, suscita attualmente atteggiamenti diversi: da un lato

entusiasmo, per le nuove prospettive economiche e scientifiche che potrebbero derivarne; dall’altro, preoccupazione, per tutte le implicazioni, soprattutto etiche e sociali.

Si ritiene che la questione dell’impiego delle specie transgeniche non debba limitarsi a un’analisi dei costi e dei benefici economici, e che le attuali leggi sui brevetti, relative a strumentazioni, non possano essere semplicemente estese a organismi viventi. Sono inoltre oggetto di discussione le possibili conseguenze sulla biodiversità e sugli equilibri degli ecosistemi dell’immissione nell’ambiente di organismi modificati, con caratteri che potrebbero venire trasmessi alla discendenza; inoltre, suscitano perplessità i possibili effetti a lungo termine sulla salute umana del consumo di prodotti derivanti da organismi geneticamente modificati.

L’ACCIAIO Nella seconda metà dell’800 si capì che il carbonio era la causa della fragilità delle ghise, perciò si studiò il modo di ridurne la percentuale, senza rinunciare però alla durezza. si sperimentò cosi’, l’aggiunta di altri metalli in lega. L’acciaio si ottiene per CONVERSIONE DELLA GHISA, entro appositi forni a 1600°C (forni CONVERTITORI) dove l’INSUFFLAGGIO di OSSIGENO e l’uso di rottami vecchi ricchi di ruggine (ossidi capaci di liberare ossigeno) sono in grado di ridurre il carbonio sotto l’1,7%.

ACCIAI ATTUALMENTE IN COMMERCIO

ACCIAI COMUNI O AL CARBONIO acciai tradizionali con tracce di silicio e manganese. La durezza cresce al crescere della percentuale di carbonio, mentre la tenacità ne è inversamente proporzionale.

(extradolce, dolce, semiduro, duro, extraduro)

ACCIAI SPECIALI sono simili agli acciai comuni, ma con un drastico controllo della percentuale di fosforo e zolfo, che non devono superare lo 0,035%. Ne risultano migliorate tutte le prestazioni.

ACCIAI LEGATI Oltre che col carbonio, entrano in lega altri metalli, quali, silicio, manganese, cromo, nichel o rame, che ne migliorano le qualità. trattamenti termici TEMPRA consiste nel portare il metallo a 800-900°C e poi raffreddarlo rapidamente. In tal modo i cristalli non fanno in tempo a formarsi e restano piccoli e incompleti. La superficie esterna è quella che estremizza il fenomeno in quanto è la prima a raffreddarsi. Essa risulta ricca di legami distorti che le donano una forte durezza. Eccessiva durezza può però causare alta fragilità, non bisogna quindi eccedere. RINVENIMENTO serve per eliminare l’eccessiva fragilità derivante dalla tempra, si tratta di ririscaldare il metallo fino a 500-600°C e di farlo raffreddare lentamente per recuperare un po' della tenacità persa in durezza. BONIFICA Operazione simile al rinvenimento che si attua però su metalli lavorati in lamiere e a freddo, al fine di renderli meno soggetti alla frantumazione. CEMENTAZIONE Arricchimento superficiale di carbonio, al fine di ottenere una superficie esterna dura e un interno tenace. RICOTTURA Cancella tutti i trattamenti subiti. La temperatura è portata oltre 900°C e il metallo viene lasciato raffreddare lentamente.

PROPRIETA CHIMICO FISICHE MALLEABILITA’

Capacità di lasciarsi lavorare al laminatoio, un apparecchiatura formata da cilindri accoppiati rotanti in senso opposto attraverso i quali viene fatto passare un lingotto rovente.

DUTTILITA’

Capacità di lasciarsi lavorare per trafilatura. Il materiale viene fatto passare attraverso un orifizio calibrato e viene “passato” e trasformato in fili.

ALLIGABILITA’

Possibilità del metallo di legarsi con altri. E’ ormai impensabile usare del metallo puro, tranne che per il rame da impiantistica elettrica.

SALDABILITA’

Possibilità del materiale di essere unito mediante fusione parziale o colatura di materiale fuso tra due parti solide.

DUREZZA

Capacità di resistere a penetrazione, scalfittura, usura per strofinio. si accompagna purtroppo alla fragilità.

TENACITA’

Semplicisticamente è definita la capacità di resistere agli urti, o meglio “la capacità del metallo di assorbire l’energia di una sollecitazione dinamica”.

PASSIVABILITA’

Capacità di resistere all’aggressione degli agenti chimici presenti nell’atmosfera.

I METALLI

I Metalli sono Elementi chimici caratterizzati in generale da lucentezza, durezza, malleabilità, duttilità, buona conducibilità elettrica e termica; a temperatura ambiente sono solidi cristallini (con l’eccezione del mercurio). I metalli (fra i quali, ad esempio, alluminio, argento, bario, berillio, bismuto, cadmio, calcio, cerio, cobalto, cromo, ferro, iridio, litio, magnesio, manganese, mercurio, molibdeno, nichel, oro, osmio, palladio, piombo, platino, potassio, radio, rame, rodio, sodio, stagno, tallio, tantalio, titanio, torio, tungsteno, uranio, vanadio, zinco) possono combinarsi fra loro e con alcuni altri elementi, formando composti, soluzioni solide o miscele.

Una sostanza costituita da due o più metalli, oppure da un metallo e da particolari non metalli, come ad esempio il carbonio, si chiama lega. Le leghe formate da mercurio e altri elementi metallici sono invece dette amalgami.

Nell’ambito delle definizioni generali che permettono di classificare un elemento tra i metalli, le proprietà di ogni singola sostanza possono essere molto variabili. La maggior parte degli elementi metallici ha colore grigiastro, ma il bismuto è rossastro, il rame è rosso e l’oro è giallo. In alcuni casi, il colore varia in rapporto alla direzione di assorbimento della luce, un fenomeno noto come pleocroismo.

I punti di fusione possono variare da un minimo di -39 °C per il mercurio a un massimo di 3410 °C per il tungsteno. L’iridio (che ha densità relativa pari a 22,4) è il metallo più denso e il litio (che ha densità relativa di 1,53) è il meno denso. La maggior parte dei metalli cristallizza nel sistema cubico, ma non sono rare celle esagonali o tetragonali (vedi Cristallo). A temperature ordinarie, il bismuto presenta i valori più bassi di conducibilità elettrica, mentre l’argento presenta quelli più alti (per quanto riguarda le basse temperature, vedi Criogenia e Superconduttività). La conducibilità della maggior parte degli elementi metallici può essere ridotta trasformandoli in leghe. Tutti i metalli si dilatano se scaldati e diminuiscono di volume se raffreddati; alcune leghe, ad esempio quelle di platino e di iridio, hanno coefficiente di dilatazione termica molto basso.

Proprietà fisiche

I metalli sono in genere molto duri e resistenti a diversi tipi di sforzi. Nonostante le differenze fra un metallo e l’altro siano notevoli, la loro classificazione avviene esclusivamente in base a proprietà fisiche quali: la durezza (cioè la resistenza a deformazioni superficiali o abrasioni); la resistenza a trazione (cioè la resistenza alla rottura); l’elasticità (cioè la capacità di assumere la forma originaria quando cessa la deformazione); la malleabilità (cioè la capacità di essere ridotti in lamine sottili senza subire rotture); la resistenza alla fatica (cioè la capacità di resistere a sforzi ripetuti); la duttilità (cioè la capacità di venire deformati senza subire rotture). Vedi anche Scienza e tecnologia dei materiali.

Proprietà chimiche

Nella maggior parte dei composti chimici, i metalli hanno stati di ossidazione positivi, cioè cedono con facilità uno o due elettroni agli atomi a cui si legano. Sono inoltre caratterizzati da potenziali di ionizzazione relativamente bassi e possono facilmente trasformarsi in ioni positivi (cationi). Di conseguenza formano ossidi di tipo basico e possono formare sali, come cloruri, solfuri e carbonati. Vedi Reazione chimica.

Struttura elettronica

Le varie caratteristiche dei metalli, in particolare l’elevata conducibilità termica ed elettrica, possono essere spiegate sulla base della struttura chimica ed elettronica di questi elementi.

Secondo la teoria universalmente accettata, nota come teoria delle bande, il legame tra atomi di un metallo è dovuto alla sovrapposizione degli orbitali atomici. Interagiscono fra loro solo gli orbitali di energia simile, quindi da ogni n orbitali atomici di energia equivalente, si formano n orbitali molecolari, estesi a tutto il solido, disposti su livelli energetici molto ravvicinati. A ciascuno di questi gruppi di orbitali molecolari si dà il nome di banda.

Le bande sono fra loro separate da salti energetici, detti gap, la cui ampiezza dipende dalla differenza di energia fra i gruppi di orbitali atomici da cui sono state formate.

Gli elettroni di valenza di ogni atomo del metallo si dispongono, a coppie, su tutti gli orbitali molecolari di ogni banda, a partire da quelli a energia più bassa. Di solito, i metalli non hanno elettroni in numero sufficiente per popolare tutti gli orbitali molecolari, quindi le bande a energia più alta sono vuote o solo parzialmente occupate. Assorbendo energia dall’esterno, gli elettroni dei livelli più bassi possono spostarsi in quelli più alti, vuoti: tali spostamenti giustificano le proprietà tipiche dei metalli.