roma, luglio 1993 - teatrovalleoccupato.it · ve avevano in precedenza occultato la saab pulita del...

14
Roma, luglio 1993 Nel buio umido della notte d’estate, tre uomini attende- vano a bordo di un Fiat Ducato dei carabinieri parcheggia- to sul lungotevere. Indossavano divise dell’arma, ma erano criminali. Dalla parte sbagliata di Roma li conoscevano con i nomi di battaglia di Botola, Lothar e Mandrake. Botola scese dal furgone e si affacciò sul fiume. Cacciò dalla tasca un novellino Gentilini sbriciolato e lo depose sulla spalletta. Arretrò di qualche passo e rimase a fissare un gabbiano che affondava il becco tra i rimasugli del biscotto. – Che belli i gabbiani. Risalí sul furgone. Quello che chiamavano Lothar si ac- cese l’ennesima sigaretta e sbuffò. – Io me so’ rotto. Che stiamo aspettando? – Te l’appoggio! – disse, convinto, Mandrake. Botola scosse la testa, inflessibile. – Il Samurai ha detto alle due precise. Non un minuto prima, non uno dopo. Non è ancora il momento. Gli altri due protestarono. Ma di che parliamo? Un anti- cipo di dieci minuti? E che sarà mai? E poi, sulla strada, si- no a prova contraria, ci stavano loro, mica il Samurai. Che, per caso, il Samurai ci aveva gli occhi dappertutto? Che era, il Padreterno, che li poteva controllare istante per istante?

Upload: others

Post on 27-Oct-2019

0 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Roma, luglio 1993

Nel buio umido della notte d’estate, tre uomini attende-vano a bordo di un Fiat Ducato dei carabinieri parcheggia-to sul lungotevere. Indossavano divise dell’arma, ma erano criminali. Dalla parte sbagliata di Roma li conoscevano con i nomi di battaglia di Botola, Lothar e Mandrake. Botola scese dal furgone e si affacciò sul fiume. Cacciò dalla tasca un novellino Gentilini sbriciolato e lo depose sulla spalletta. Arretrò di qualche passo e rimase a fissare un gabbiano che affondava il becco tra i rimasugli del biscotto.

– Che belli i gabbiani.Risalí sul furgone. Quello che chiamavano Lothar si ac-

cese l’ennesima sigaretta e sbuffò. – Io me so’ rotto. Che stiamo aspettando?– Te l’appoggio! – disse, convinto, Mandrake.Botola scosse la testa, inflessibile.– Il Samurai ha detto alle due precise. Non un minuto

prima, non uno dopo. Non è ancora il momento.Gli altri due protestarono. Ma di che parliamo? Un anti-

cipo di dieci minuti? E che sarà mai? E poi, sulla strada, si-no a prova contraria, ci stavano loro, mica il Samurai. Che, per caso, il Samurai ci aveva gli occhi dappertutto? Che era, il Padreterno, che li poteva controllare istante per istante?

carlo bonini e giancarlo de cataldo6

– Il Padreterno forse no, – concesse Botola, con un sospi-ro. – Ma se me parli del diavolo, ci sei vicino.

– Seeh, il diavolo! – ironizzò Mandrake. – È ’n omo come noi! E poi me so’ stufato: il Samurai de qua, il Samurai de là… Io, te dovessi di’, non l’ho mai visto sporcarsi le mani, ’sto Samurai… Bravo a parlare, chi lo discute… ma è facile, quando il rischio se lo caricano l’altri.

Botola li squadrò, con un mezzo sorriso di commiserazio-ne. Proprio non si rendevano conto, poveri cristi!

– Ve lo ricordate il Pigna?A Lothar e a Mandrake quel nome non diceva niente.Botola raccontò una storia.C’è questo pugile del Mandrione, di nome fa Sauro,

detto Pigna per via di un sinistro micidiale. Un bestione, tanto forte di braccia quanto scarso a cervello, povero Pi-gna. Se fosse stato appena un po’ piú furbo, non si sarebbe appiccicato col Samurai per una questione di droga. Sí, per-ché a un certo punto, dopo un affare di incontri truccati, la Federazione gli revoca la licenza per combattere, e il Pigna si mette a spingere un po’ di roba per conto del Samurai. Il guaio è che il Pigna si crede un gran furbo. Prima comincia a fare la cresta, poi, quando si sente sicuro, arraffa un gros-so carico, lo vende per conto suo e sparisce. Resta nascosto tre-quattro mesi, e un bel giorno ricompare. Coi soldi fregati al Samurai s’è comperato una palestra, ha reclutato quattro ragazzotti di borgata e s’è messo a spacciare in proprio. Il Samurai prova a recuperarlo con le buone e va a trovarlo in palestra. Gli propone un accordo ragionevole: il cinquanta per cento della proprietà della palestra e di tutto lo spaccio in cambio della pace. Pigna non sente ragioni. Si chiama i suoi ragazzotti e attacca a testa bassa. In cinque contro uno il Samurai si difende come può, ma alla fine ne esce malcon-cio. Lo scaricano in un vicolo, mezzo morto, e ci vuole un

suburra 7

bel po’ perché si riprenda. Una sera, in palestra si presenta un tipo mai visto prima. Si iscrive, comincia a fare un po’ di pesi, attacca bottone con i ragazzotti del capo. Quand’è l’orario di chiusura, e Pigna è rimasto da solo coi suoi fe-delissimi, il tipo mai visto prima tira fuori una mitraglietta Skorpion, come quelle che usavano i terroristi, e li sbatte tutti al muro. Passano cinque minuti. Pigna e i suoi cerca-no in tutti i modi di far parlare il tipo, che se ne resta muto come un pesce. Finalmente, la porta si apre e arriva lui. Il Samurai. Sotto lo spolverino porta un kimono e fra le mani ha una katana, la spada affilatissima dei giapponesi. Punta diritto al Pigna e gli tiene un discorsetto: sui soldi ci potevo passare sopra, ma sull’umiliazione no. Perciò, caro Pigna, gli dice, tu adesso con questa spada ti apri la pancia, e io ti guarderò morire. In cambio non torcerò un capello ai tuoi pischelli. Pigna si mette a frignare. Chiede perdono. Rico-nosce l’errore. Gli passerà la palestra, tutta la roba che gli avanza, i contatti dello spaccio. Il Samurai fa un sospiro, alza la spada, e con un colpo solo taglia la testa a uno dei ragazzotti. Pigna scoppia a piangere. I pischelli scoppiano a piangere. Uno di loro si fa avanti e si offre al Samurai come esecutore della condanna. Il Samurai lo squadra e lo decapi-ta. Vedi, Pigna, non ti sai scegliere gli uomini, sospira, non ti sono fedeli… A questo punto, tutti e tre, Pigna e i due sopravvissuti, tentano un attacco disperato.

– E che ve lo dico a fare? – concluse Botola. – Il Samurai li fece a pezzi. L’amico non sparò nemmeno un colpo. Poi misero gli avanzi nei sacchi e li buttarono nel Tevere.

Lothar e Mandrake fissavano il narratore, sconcertati.– Mi sa tanto che è una cazzata, – azzardò Mandrake.– È ora, – tagliò corto Botola. – Muoviamoci.Raggiunsero piazzale Clodio. Gli abbaglianti del Ducato

lampeggiarono tre volte in direzione della porta carraia del

carlo bonini e giancarlo de cataldo8

palazzo di giustizia, che dopo qualche secondo prese ad aprir-si lentamente. Il militare alla garitta si avvicinò senza fretta al lato di guida. Riconobbe Botola e con un cenno della ma-no invitò il furgone a proseguire. Risalirono a passo d’uomo la rampa in cemento armato che portava al parcheggio della palazzina C, dove un sistema di porte blindate proteggeva il caveau dell’agenzia 91 della Banca di Roma.

Lo sportello interno del tribunale. Il forziere che custodiva le ricchezze e i segreti di magi-

strati, avvocati, notai, sbirri. Il doppio fondo di quella che chiamano Giustizia e che

è solo Potere. Botola afferrò dalla tasca dello sportello l’elenco delle no-

vecento cassette di sicurezza della banca. Il Samurai ne aveva cerchiate centonovantasette. E solo quelle andavano aperte. Lothar afferrò due grossi sacchi di iuta. Mandrake controllò la borsa degli attrezzi e l’anello dalle cinquanta chiavi per il quale a Roma c’era un solo cassettaro: lui. Tutti e tre calza-rono guanti neri in pelle aderente.

I carabinieri che li aspettavano avevano fatto il loro do-vere. Le porte blindate che davano accesso al caveau erano aperte, gli allarmi e il sistema video a circuito chiuso disat-tivati. Botola incrociò lo sguardo dei militari con una smor-fia di disprezzo. Quei due puzzavano di paura e disonore. L’odore che dànno le guardie quando sono marce. E liquidò il piú giovane con un buffetto sulla guancia.

Conoscevano il caveau a memoria. Negli ultimi due mesi, Botola, Lothar e Mandrake c’erano scesi almeno una decina di volte, accompagnati da uno dei cassieri dell’agenzia. Un tipo sulla cinquantina con il vizietto della coca e delle fem-mine. S’era messo a disposizione come un cagnolino. Aveva indicato il titolare di ogni cassetta consentendo al Samurai una cernita. Aveva fornito planimetrie e tenuto aggiornata

suburra 9

la lista degli accessi. Aveva reso possibile il calco delle chia-vi che aprivano i cancelli interni del cuore di quella banca. In fondo, restava la parte piú semplice. Mettere le mani su quel ben di dio.

– Io me levo ’sta divisa, – azzardò Mandrake. – È che proprio nun me ce sento guardia.

– A chi lo dici, frate’! – solidarizzò Lothar.Botola autorizzò. Purché si facesse in fretta: la buona sorte

non poteva assisterli in eterno, e anche i piani meglio conge-gnati possono infrangersi sul destino bizzarro.

Decisero di lavorare al buio. Con la sola luce di due gran-di torce marine. Mandrake volò. Come sapeva e doveva. E le prime centosettantaquattro cassette si aprirono come sca-tole di cioccolatini.

In un sacco di iuta finirono i contanti, dieci miliardi di lire, una montagna di gioielli e orologi.

Lothar li afferrava con una voluttà sguaiata. Tirando den-tro e fuori la lingua, come in preda a un’incontenibile ecci-tazione sessuale.

Botola si dedicò al resto. Perché in quelle cassette c’era qualcosa che valeva di piú dei pacchi fascettati di banconote da cinquanta e centomila lire. Scoprí con relativa sorpresa che un Pm dalla narice incipriata teneva qualche etto di scorta tra l’orologio del nonno e il filo di perle della moglie. Un fa-scio di luce illuminò gli estratti conto delle banche svizzere in cui avvocati, giudici, ufficiali dei carabinieri, poliziotti, finanzieri avevano fatto finire il grano con cui la banda se li era comprati negli anni.

Aveva ragione il Samurai. Lí dentro non c’era un’Epifa-nia. C’era il nuovo Natale di Roma.

Nell’ultima cassetta trovò una pistola.Botola non aveva mai visto niente di simile. E sí che una

certa pratica se l’era pure fatta, dopo tanti anni sulla stra-

carlo bonini e giancarlo de cataldo10

da. Ma quella pistola… Roba d’altri tempi: lunga, con una scritta incomprensibile, lo si sarebbe detto tedesco. Control-lò l’elenco, pensando a un errore. Non c’era errore. Il Samu-rai, quella cassetta, l’aveva cerchiata addirittura due volte. Ma che se ne faceva uno come lui di quel ferrovecchio? Co-munque, afferrò l’arma e un paio di scatole di munizioni e ficcò tutto nel sacco.

Le quattro del mattino. Mandrake smadonnava su un paio di serrature che opponevano inattesa resistenza.

– Basta, rega’, s’è fatto tardi.Tornarono al furgone, mentre i carabinieri richiudevano alle

loro spalle i cancelli e le porte blindate. Il Ducato fece mano-vra e ridiscese a passo d’uomo alla porta carraia, attraverso la stessa rampa da cui era salito. Il cancello si aprí nuovamente. Botola si sporse dal finestrino verso il carabiniere alla garitta.

– È stato un piacere, merda.La risata sguaiata di Lothar e Mandrake coprí l’innesto

sgranato della prima.

Portarono il Ducato nel boschetto a Monte Antenne, do-ve avevano in precedenza occultato la Saab pulita del Boto-la. Scaricarono i sacchi e li seppellirono insieme alle divise. Lothar e Mandrake cosparsero il furgone di benzina.

– Damme foco, Botola! – scherzò Lothar.Il proiettile lo centrò fra gli occhi. Cadde senza un lamento.Mandrake si voltò al botto. Fissò inorridito Botola, la 7.65

nella sinistra, la canna ancora fumante.– Ma che…– Sai quel tipo della palestra, quello che stava col Samu-

rai? Ero io, Mandrake, – disse Botola, poi sparò anche a lui.

Il sole era già alto quando Botola rientrò nella sua grande casa al Pantheon. Lothar e Mandrake erano pezzi di carne

suburra 11

bruciata fra le lamiere. Un po’ gli era dispiaciuto per loro, ma gli ordini del Samurai non si discutevano. Il bottino era al sicuro, in attesa che si placasse la prevedibile tempesta. Botola mise in ghiaccio un paio di bottiglie di champagne millesimato e si affacciò sulla piazza insonnolita. Un tem-po, quella casa era appartenuta al Dandi. L’ultimo capo della banda era caduto qualche anno prima per mano di una batteria di vecchi compari: piombo infame, secondo alcu-ni. Atto di giustizia che aveva liberato la terra dal peggior gargarozzone, secondo i piú. Botola non aveva opinioni al riguardo. Considerava l’uscita di scena del Dandi, al qua-le pure era stato profondamente legato, qualcosa a metà fra un incidente e una necessità. Se il Dandi non si fosse mon-tato la testa, sarebbe rimasto ancora per un pezzo il numero uno. Ma se non si fosse montato la testa, non sarebbe stato il Dandi. E quindi…

Per un po’, in quei trecento metri quadri terrazzati che dominavano il centro della capitale s’era installata Patrizia, la vedova del Dandi. Poi Patrizia s’era messa con uno sbirro, e aveva fatto una brutta fine. Botola, scontata una condanna accettabile, s’era comprato il tutto, arredi compresi, per un tozzo di pane. Ed era da lí, da quel luogo che una volta ave-va ricordato loro chi erano, da dove venivano e dove erano arrivati, era da lí che si doveva ripartire.

Come una volta. Meglio di una volta.Il Samurai si degnò di comparire verso mezzogiorno. Al-

tissimo, indossava una camicia coreana senza il minimo alo-ne di sudore, occhiali scuri, jeans attillati. Si annunciò con una specie di smorfia estenuata, disdegnò lo champagne, annuí appena quando Botola cominciò a magnificare l’im-presa del caveau.

– So che è andata come doveva. Ne hanno parlato alla radio.

carlo bonini e giancarlo de cataldo12

Botola ci rimase male. Va bene che il Samurai era uno di poche parole, diciamo pure ai confini del mutismo, e non dico l’entusiasmo, ma almeno un po’ di soddisfazione, e che cazzo!

– Hai portato quello che ti avevo chiesto?Botola, risentito, gli porse la pistola e le cartucce. Il Samurai afferrò il tutto con la devozione che si tributa

a una reliquia, si sfilò le lenti nere Ray-Ban, accarezzò l’arma con uno sguardo intenerito, e finalmente sorrise.

– Che ci avrà de speciale ’sto ferro, – mormorò Botola. Avevano messo le mani su un tesoro, e quello si fissava su una pistola che ci avrà avuto cent’anni.

– Non capiresti, – rispose, asciutto, il Samurai.Botola non insistette. Da vent’anni batteva la strada, e

se c’era una cosa che aveva capito, era che non ci si doveva mai mettere in mezzo fra un uomo e le sue manie. Se il Sa-murai s’eccitava cosí, affari suoi.

Il Samurai intascò l’arma e le cartucce, poi si soffermò sul piccolo quadro che sovrastava un lungo divano bianco.

– Roba del Dandi, – s’affrettò a spiegare Botola. – Lo pa-gò cento milioni a un’asta.

– È una copia, – sussurrò il Samurai.– Che cazzo stai a di’? Ce sta pure la firma! Guarda, De

Chierico.– De Chirico.– Embe’? Nun so se te ricordi, ma Dandi non era tipo da

farsi infinocchiare dal primo falsario. – Non ho detto che sia un falso. Ho detto copia. È una

cosa ben diversa. L’artista dipinge un originale, poi mette in circolazione altri esemplari dello stesso dipinto, oppure autorizza un altro pittore a fare la stessa cosa… In ogni ca-so, non vale tanto.

– Vabbe’, sarà come dici tu. E poi a me ’sti due mamozzi che si abbracciano non m’hanno mai convinto.

suburra 13

– Ettore e Andromaca, – puntualizzò il Samurai. Botola ne aveva abbastanza. Vabbe’ che il Samurai stava

sbroccando, ma che gli frullava in testa? Mah. Forse, era solo l’adrenalina che gli giocava un brutto scherzo. Botola andò in cucina, stappò lo champagne opportunamente ghiacciato, ne versò solo per sé visto che l’altro stava cosí storto e tornò in salone, deciso a evitare altre perdite di tempo.

Il Samurai s’era accomodato al centro del divano e stava giocherellando con la pistola e le cartucce.

– Samurai, se non ti fa fatica, mi sembra che dovremmo parlare dei nostri progetti.

Il Samurai, con un gesto vago, gli fece cenno di proseguire.Botola afferrò una sedia dalla forma scrausa (altro inve-

stimento del Dandi buonanima, scomoda da morire) e si piazzò davanti a lui.

– Allora, io dico che co’ quello che ci avemo c’è una sola strada davanti a noi.

– E sarebbe?– Se ripijamo Roma.– Ah, sí? Prosegui.– Abbiamo soldi, soldi freschi e puliti, e tanti. Cioè, pu-

liti per noi perché so’ sporchi per loro, non so se mi capisci. – Perfettamente.– Bene. Abbiamo le carte. Che ci dicono dove vanno a

finire i soldi che tutti ’sti bravi servitori dello stato se so’ fregati in questi ultimi anni. Praticamente, li teniamo per le palle. Il che ci rende intoccabili, e quindi…

– Quindi?– Quindi, se tu ci stai, noi due, tu e io, da questo momen-

to semo Giulio Cesare e Ottaviano Augusto.Il Botola rise, compiaciuto della battuta che lo riportava

ai tempi del Libanese, il fondatore della banda. Uno che, a

carlo bonini e giancarlo de cataldo14

proposito di fisse, ci aveva la mania dell’antica Roma. E for-se non aveva tutti i torti.

– Allora? Che ne dici, eh, Samura’? Se pò fa’? Il Samurai annuí e si mise a caricare la pistola. Mentre

introduceva il caricatore a lamina nell’apertura sulla canna, illustrava i passaggi salienti all’esterrefatto Botola.

– Questa è una Mannlicher, fabbricata nel 1901 in Au-stria. A differenza delle normali pistole semiautomatiche, il funzionamento non avviene grazie al rinculo dell’otturatore, ma a causa dello spostamento in avanti della canna. L’ottu-ratore è, si dice, solidale con l’incastellatura: come vedi, le cartucce si inseriscono dall’alto, e non dal basso. L’arma fu adottata dall’esercito austriaco, che se ne serví durante la Prima guerra mondiale. Successivamente, caduta in disuso in Europa, incontrò nuova fortuna in Argentina. E infatti, queste cartucce che vedi sono Borghi, fabbricate a Buenos Aires nel 1947. Al momento dello sparo, la canna, in parte contenuta in una guida cilindrica, avanza, trascinata dall’at-trito del proiettile, e, comprimendo un’opportuna molla di recupero, espelle il bossolo.

Il Samurai trasse un profondo sospiro, puntò la Mannli-cher alla fronte di Botola e fece fuoco.

Il Samurai si ibernò per il resto dell’estate. Avvelenati dal clamore di un colpo cosí magistrale, gli uo-

mini in divisa convogliarono a Roma i migliori investigatori. La talpa fu beccata quasi subito e si cantò i carabinieri, che a loro volta si cantarono Lothar, Mandrake e Botola: una vol-ta traditori, traditori per sempre. Il Samurai l’aveva previ-sto. Perciò aveva dovuto, sia pure a malincuore, sopprimere tre bravi ragazzi che sapevano stare al mondo. Per spezza-re il filo. E cosí, verso metà settembre, mentre le guardie si dannavano inutilmente l’anima per dare un volto alla mente

suburra 15

della rapina, recuperò il bottino e si presentò puntuale alla riunione mensile al Bagatto.

Ufficialmente denominato «circolo ricreativo», Il Bagatto era quanto di piú simile a un centro sociale la destra estrema romana fosse riuscita a concepire. Ma se il modello organiz-zativo era copiato dalla sinistra, l’apparato scenografico, dai gagliardetti col fascio littorio ai murales con Gandalf e Fro-do, dai posacenere con la croce uncinata ai manganelli con l’anima in ferro che vendevano sottobanco su improvvisate bancarelle, era inequivocabilmente di stampo fascista. Cosí come fascisti erano i giovani cuori dei ragazzi che, dappri-ma alla spicciolata poi sempre piú numerosi, andavano as-siepandosi sulle panche zoppicanti del sottoscala di Monte-sacro, impazienti di ascoltare, in religioso silenzio, il verbo del loro capo spirituale.

Quella sera erano almeno in quaranta, quasi tutti giova-nissimi. Figli delle curve dello stadio Olimpico, divisi dal tifo ma uniti – questo almeno faceva loro credere il Samu-rai – da una fede comune.

Le curve. Il futuro di Roma. Il Samurai riponeva grandi speranze nei suoi ragazzi. Gen-

te agitata, gente che non aveva niente da perdere e fremeva per prendersi tutto.

L’ideologia era stata l’esca, ma il progetto andava ben oltre ogni ormai tramontata utopia. Si trattava di costruire una rete a piccole maglie. Dovevano essere forti, determi-nati, spietati come antichi guerrieri, ma anche astuti come volpi e, all’occorrenza, malleabili e urticanti come meduse. Ciascuno doveva essere impiegato secondo le proprie qua-lità: cani da strada e professionisti in doppiopetto. E tutti, tutti sarebbero stati fedeli.

Il Samurai cominciò a parlare. La sua voce era bassa, gra-devole, ma s’apriva a improvvisi squarci di energia che ac-

carlo bonini e giancarlo de cataldo16

cendevano le menti e scaldavano i cuori. Parlò dello stretto, indissolubile legame che avvince la Rivoluzione, che tutti loro sognavano, e la vita della strada. Spiegò che ciò che per il borghese è crimine, per il guerriero può essere, a certe con-dizioni, il gesto perfetto che non tollera né il meschino pia-gnisteo del debole né l’acre censura di un’imbelle giustizia. Perché il gesto trova in sé stesso la propria giustificazione, etica, estetica e religiosa, e tanto deve bastarvi.

Parlò e parlò, arricchendo l’orazione di parabole esemplari, finché non ebbe la certezza di averli, come sempre, in pugno. E allora, all’improvviso, quando si aspettavano la rivelazione definitiva, tacque, e con un mezzo sorriso li congedò tutti.

– Ora andate. Che ciascuno di voi mediti su quanto ha appena ascoltato. Ci rivediamo il mese prossimo.

I ragazzi sciamarono via, scambiandosi commenti entu-siasti ma a mezza voce, per non disturbare la concentrazione del Samurai, che, a occhi chiusi, si massaggiava le tempie, come prostrato dallo sforzo oratorio.

– Maestro? Permetti una parola?Il Samurai aprí gli occhi con un sospiro. E si ritrovò a dieci centimetri dalla canna di una semiau-

tomatica.Mise a fuoco un volto franco, due occhi profondi e cor-

rucciati, una smorfia di tensione e un tremolio che l’altro faticava a controllare.

Marco Malatesta. Diciott’anni. Un ragazzaccio di Talenti ricco di cuore, fegato, e, soprattutto, cervello. Uno dei suoi preferiti. Un potenziale erede designato.

– Se pensavi di stupirmi, Marco, ci sei riuscito. Ora, se volessi spiegarmi…

– Tu non sei un maestro. Tu sei solo un bastardo!– Attento, Marco. Stai ragionando come un piccolo-bor-

ghese.

suburra 17

– Fanculo alle tue stronzate, Samurai. Tu sei questo!Il ragazzo si frugò nelle tasche del giubbotto e gli scara-

ventò addosso una manciata di pillole multicolori. – Valgono un sacco di soldi, – commentò il Samurai, per

niente turbato. – Faresti meglio a raccoglierle.– Ah, le riconosci, eh? E certo! Sei tu che spingi l’ecstasy

in curva, tu che ci stai intossicando. Sei uno spacciatore, Sa-murai. No, non uno spacciatore, il capo di tutti gli spaccia-tori. Ci hai mandato in giro a spaccare le teste degli spac-ciatori. E l’hai chiamato «atto rivoluzionario». E invece che cos’era, eh? Libera concorrenza?

– Ragazzo mio, se vuoi sparare a qualcuno, prima togli la sicura.

Marco abbassò d’istinto lo sguardo. Il Samurai sorrise, poi agí, fulmineo. In un istante, la pi-

stola era finita tra le sue mani. Marco si avventò, il sangue agli occhi. Il Samurai scartò

appena di lato, evitò l’assalto e, con il calcio dell’arma, vi-brò un colpo secco alla base della nuca. Il ragazzo si abbatté mugolando. Il Samurai scarrellò. Poi si chinò su Marco, lo costrinse a voltarsi, gli montò su a cavalcioni, puntò l’arma al centro della fronte.

– Dovrei ripagarti con la stessa moneta, Marco Malatesta. E non ti servirebbe a niente chiedere pietà.

– Io non chiedo pietà a un pezzo di merda! Io ci crede-vo in te, Samurai, credevo nelle cose che dicevi. Cambiare questa città, cambiare questo mondo marcio, la nuova mo-rale. A te questo mondo marcio va benissimo, tu ci sguazzi dentro, tu sei il traditore!

– Io non sono un traditore. Semmai, un cattivo mae-stro. Non sono riuscito a insegnarti niente. Per questo so-no molto piú colpevole di te. E la mia punizione sarà di lasciarti in vita.

carlo bonini e giancarlo de cataldo18

Il Samurai intascò l’arma. Si risollevò e fece segno a Marco di fare altrettanto. Il ragazzo si rimise in piedi a fatica; ave-va la vista confusa, la testa pulsava di battiti insopportabili. Il Samurai lo sorresse, la sua destra sfiorò il volto di Marco, come in una carezza di pace. Marco avvertí un dolore acuto, si portò una mano alla tempia e la ritrasse, sporca di sangue.

– È solo un modesto segno, – spiegò il Samurai, ripiegan-do una piccola lama. – Ti accompagnerà per tutta la vita. Ti ricorderà chi sei, da dove vieni e che cosa hai fatto.

Due settimane dopo, quando la ferita si fu cicatrizzata, Marco Malatesta si presentò alla caserma Pisacane dei cara-binieri e chiese dell’ufficiale di guardia.