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Libertà civili Bimestrale di studi e documentazione sui temi dell'immigrazione

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PERCORSI NORMATIVIDELL’AMMINISTRAZIONEDELL’ INTERNO

Anno III – Nuova Serie

Settembre – Dicembre 2019

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© Ministero dell’interno – Itinerari InterniPercorsi normativi dell’amministrazione dell’interno

Periodico quadrimestrale d'informazione istituzionale

Sede legale, Direzione, Redazione e SegreteriaMinistero dell’internoUfficio affari legislativi e relazioni parlamentariPalazzo Viminale – P.zza del Viminale, 1 – 00184 – ROMAtel. 06.465.37522/06.465.37240e–mail [email protected]

La rivista è consultabile all'indirizzo:www.sistemamodus.euwww.interno.gov.itIntranet Ufficio affari legislativi e relazioni parlamentari

Direttore responsabileMarco Valentini

Autorizzazione del Tribunale di Roma n.136 del 24 agosto 2017

Stampa Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A.Finito di stampare nel mese di dicembre dell’anno 2019

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"Mi sono sempre immaginato il paradiso come una specie di biblioteca"

(J. L. Borges)

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Direttore responsabileMarco Valentini

CondirettoreFranca Guessarian

Comitato di redazioneSabrina Agresta, Paola Berardino, Vincenzo Callea, Luca Antonio Colarusso, Mariagrazia Colosimo, Paolo Corritore, Alessandra Cupi, Edoardo D'Alascio, Rosa Ferraro, Paola Giusti, Pina Lamanna, Michele Meloni, Alfredo Minieri, Antonietta Orlando, Roberto Pellegrino, Zaira Romano, Simona Saracino, Maddalena Travaglini, Laura Visone, Sandro Zappi

Coordinamento generaleSimona Saracino

Segreteria di redazioneSimona Cherubini, Federico Guerriero, Gianluca Manelli, Stefania Scintu, Luca Tommolini

FotografieMichele Ciavarella

* I contributi pubblicati nella rivista, ove non diversamente indicato da brevi note biografiche, sono elaborati dai componenti del Comitato di redazione

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ndice

Il saluto del Ministro dell'interno

Luciana LAMORGESE 12

In questo numero 14

■ IL SAGGIO

Alessandro STERPARoma Capitale a dieci anni dalla legge n. 42 del 2009 18

■ GLI APPROFONDIMENTIAmministrazione generale

Sabrina AGRESTAIl fenomeno della scomparsa di persone affette da malattie dementigene: il prefetto e i progetti loro dedicati 30

Enti locali

Paola BERARDINOI poteri sostitutivi del prefetto ex articolo 28 del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, al vaglio della Corte Costituzionale 36

Libertà civili e immigrazione

Laura VISONEIl panorama normativo europeo e nazionale riguardante la lista dei Paesi di origine sicuri nell’ambito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale 43

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Sicurezza pubblica e antimafia

Michele MELONILe nuove disposizioni in materia di contrasto dei fenomeni di violenza in occasione delle manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico 48

Sandro ZAPPILe novità nella disciplina delle armi e delle munizioni introdotte dal decreto di recepimento della direttiva (UE) 2017/853 56

Paola MARINOLe nuove frontiere del diritto sanzionatorio. Antimafia e illeciti amministrativi di nuovo conio: possibili profili di illegittimità dell’atto sanzionatorio 63

Ordinamento economico finanziario

Roberto PELLEGRINOLa Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza nella programmazione economica e finanziaria del Governo 69

Polizia amministrativa

Paola GIUSTILe tre “S” del servizio di stewarding nel nuovo decreto ministeriale: safety, security e service 75

■ L’INTERVISTA

Conversazione con Stefano SOLIMANCapo dell’Ufficio Legislativo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale 80

■ DALLA BIBLIOTECA

Ines MILLESIMI (a cura di)Stanislao Pietrostefani. L’Alpinista, l’Uomo, l’Istituzione 89

■ CULTURA

ANDREA CAMILLERILa concessione del telefono 108

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■ DALLA LIBRERIA

di Luca COLARUSSO

Lucia D’Ambrosi, La comunicazione pubblica dell’Europa. Istituzioni, cittadini e media digitali 120

di Alessandra CUPI

A. Canale, D. Centrone, F. Freni, M. Smiroldo, La Corte dei Conti. Responsabilità, Contabilità, Controllo 122

di Paola MARINO

Carlo Galli, Democrazia senza popolo 125

di Sandro ZAPPI

Dario Antiseri, Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza 128

■ DAI MEDIARoberto Coaloa, I bersaglieri verso Porta Pia: “Fermate Garibaldi”La Stampa, 19 settembre 2019 134

Gianluca Di Donfrancesco, La Croce Rossa: sono 200 milioni i diseredati del nuovo climaIl Sole 24 ore, 20 settembre 2019 136

Antonio Gnoli, Intervista a Sabino Cassese Se volete capire la politica leggete StendhalLa Repubblica, 21 settembre 2019 138

Paola Natalicchio, Artisti sociali, campus digitali e preti di strada. A Napoli la speranza sorge ad EstL'Espresso, 29 settembre 2019 143

■ DOCUMENTAZIONEOsservatorio della giurisprudenza costituzionaledi interesse per il Ministero dell’interno 151

Principali provvedimenti normatividi interesse pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dal 19 luglio 2019 al 15 novembre 2019 156

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IL SALUTO DEL MINISTRO DELL'INTERNO

Quando, verso la fine dell’anno 2001, fu pubblicato il primo numero della rivista di informazione istituzionale “Itinerari Interni”, prestavo servizio presso l’allora Ufficio Centrale per gli Affari Legislativi e per le Relazioni Internazionali e dirigevo l’area che si occupava dell’ordinamento della Pubblica Amministrazione, nonché del Ministero dell’interno e del Personale dell’Amministrazione.

Sono trascorsi da allora quasi venti anni, ma ricordo con piacere che, insieme con gli altri Colleghi, condivisi subito l’idea di Carlo Mosca di arricchire gli strumenti di comunicazione istituzionale individuando il filone dei percorsi normativi come idonei a rendere trasparente il profilo strategico delle scelte di fondo della politica ministeriale.

Si trattava − e me ne sono resa conto sempre di più negli anni successivi − di un progetto ambizioso destinato ad informare i cittadini dell’esperienza di un Dicastero considerato nel passato come “il motore dello Stato” e, in quel momento storico, protagonista di un’importante stagione di riforme tesa ad accreditare il valore delle Istituzioni repubblicane che costituiscono gli argini della democrazia e garantiscono la continuità, tutelando la Comunità nazionale.

Nel 2001 stava cambiando l’intera Amministrazione Pubblica e il nostro Ministero stava completando il suo disegno di rinnovamento per riaffermare, sul territorio e a livello centrale, la valenza della missione di garante dell’esercizio dei diritti civili di libertà, nonché per accreditare una nuova cultura di servizio ai cittadini in grado di soddisfare i loro bisogni per una vita più dignitosa. Ciò chiedendo ai Prefetti di rappresentare unitariamente sul territorio le varie componenti pubbliche statuali, curando di veicolare verso il Governo le diverse esigenze emergenti, e chiedendo loro di rendere più viva la rete di relazioni, di raccordi e di sinergie con tutte le Istituzioni locali e regionali allo scopo di arricchire le potenzialità di queste ultime secondo il disegno costituzionale.

In molti dei numeri della rivista − questo sino a quando ho svolto le mie funzioni presso l’Ufficio Centrale Legislativo − ho fornito il mio contributo di conoscenze, sperimentando l’utilità e il vantaggio che può derivare dalla vivacità culturale, dal confronto di idee, dall’alimentazione di quel circuito di teoria-prassi, che rendono possibile la crescita delle professionalità e rendono “intelligenti” le Istituzioni.

Per quanto ho innanzi affermato, ho creduto e credo nel ruolo che la Rivista “Itinerari Interni” può svolgere per rafforzare la cultura dell’Amministrazione e per

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Il saluto del Ministro dell'interno

amministrare, insieme con le altre Riviste che pure sono presenti nei vari comparti ministeriali, la sua cultura. Ciò con quel dinamismo istituzionale imprescindibile per percepire il cambiamento e per essere duttili rispetto ad esso, considerandolo come un dato storico evolutivo capace di offrire risposte nuove e complesse a necessità nuove e complesse.

Da qui il mio auspicio − rivolto al Direttore e a tutti i Suoi collaboratori, che ringrazio − per ulteriori successi della Rivista che ho ritrovato in una rinnovata veste grafica ancora più bella e accattivante, grazie soprattutto al sostegno dell’Istituto Poligrafico dello Stato e del Ministero dell’Economia e delle Finanze che hanno sempre creduto, sin dal primo numero, nel progetto dell’Amministrazione dell’Interno.

Luciana Lamorgese

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IN QUESTO NUMERO

Luciana Lamorgese, neo Ministro dell’interno, dallo scorso settembre è tornata nel palazzo del Viminale. Dopo averne, per i lunghi anni di una prestigiosa carriera, frequentato quotidianamente i luoghi, ha occupato la stanza più autorevole e delicata del palazzo, quella riservata al decisore politico.

È con vero piacere, quindi, che la Rivista ospita, nelle pagine che precedono, il saluto del Ministro, dalle cui parole è agevole trarre incoraggiamento e sostegno per il lavoro che Itinerari Interni intende portare avanti per rafforzare e innovare, in un permanente confronto, la cultura dell’Amministrazione.

È proprio in questo contesto, d’altro canto, che nasce lo storytelling per immagini fotografiche che completano questo numero di fine anno, dedicato alle Riviste dell’Amministrazione dell’interno e ai loro Lettori. Riviste vecchie e nuove, alcune non più edite, altre in piena forma, collocate negli ambienti che le hanno viste, e che le vedono tuttora, essere progettate e rese disponibili ai loro naturali fruitori; tutte, comunque, patrimonio di un’esperienza culturale e professionale cui attribuiamo particolare importanza e valore.

Quanto agli specifici contributi, il saggio di apertura ci rammenta che sono trascorsi dieci anni da quando la legge n. 42 ha iniziato il percorso attuativo del dettato costituzionale relativo all’ordinamento di Roma Capitale. Si tratta, in tutta evidenza, di una questione istituzionale centrale per il nostro Paese, su cui si sofferma la competente analisi di Alessandro Sterpa, professore associato all’Università degli Studi della Tuscia, che compendia nel suo lavoro i risultati di propri studi specifici sul tema, da cui sono risultate diverse interessanti pubblicazioni.

Il 2019 è stato un anno di intenso lavoro sul piano legislativo, non meno che sul piano parlamentare. La caratterizzazione quadrimestrale della Rivista non rende agevole e soprattutto funzionale proporre un bilancio, tenuto conto che il lavoro legislativo si caratterizza come work in progress pressante e incalzante, non di rado condizionato da ciò che riveste priorità con riferimento agli accadimenti concreti. Rimandiamo dunque all’attenzione dei Lettori la rubrica di chiusura, che dà conto dei principali provvedimenti normativi approvati; nonché agli approfondimenti che, sugli specifici temi oggetto del lavoro dell’Ufficio Legislativo nel quadrimestre, i nostri collaboratori hanno ritenuto di richiamare.

Tra questi, segnalo il lavoro di Sabrina Agresta, sul preoccupante fenomeno della scomparsa di persone affette da malattie dementigene e sui rimedi che le strutture pubbliche, in modo coordinato, sono chiamate a mettere in campo, anche a supporto delle famiglie; le considerazioni di Laura Visone, concernenti il panorama normativo riguardante la lista dei Paesi di origine sicuri che, recentemente implementato nel

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In questo numero

nostro ordinamento, è destinato a giocare un ruolo decisivo per la semplificazione e l’accelerazione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale nei confronti di coloro che ne hanno diritto; a quanto scritto, infine, da Paola Giusti, circa il recente decreto ministeriale in materia di servizio di stewarding, che aspira alla migliore regolazione di una funzione talvolta essenziale per prevenire rischi per la sicurezza, in contesti delicati, come quelli legati alle competizioni sportive, calcistiche in particolare.

Dalla nostra biblioteca abbiamo tratto frequentemente volumi che raccontano esperienze di prefetti in ambiti differenti, sebbene strettamente collegati dal punto di vista della personalità e dei valori rappresentati, da quelli puramente professionali. In piena coerenza, abbiamo colto con grande piacere l’opportunità offertaci dalla pubblicazione del Club Alpino Italiano di Rieti, curata da Ines Millesimi, dedicata a Stanislao Pietrostefani, la cui vicenda professionale di alto prestigio – prefetto in diverse e impegnative sedi – si è coniugata, nell’arco di tutta la sua esistenza , con una grande passione per la montagna che gli ha consentito di raggiungere vette di eccellenza nell’alpinismo e nel racconto dell’alpinismo, vissuto soprattutto nelle affascinanti aree di wilderness dell’Appennino centrale di cui era d’altro canto originario e affezionato cultore.

L’intervista, in questo numero, è rivolta al Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, diplomatico di esperienza e di riconosciuta competenza. Sono sempre più frequenti le circostanze in cui il mondo dell’interno e il mondo dell’estero si incrociano e si sovrappongono, quale risultato di dinamiche globali che vedono sfumare i tradizionali confini tra i due ambiti. La carriera diplomatica e la carriera prefettizia, poi, hanno in comune il lavoro sui territori, e anche tale circostanza rende particolarmente interessante quanto Stefano Soliman racconta a beneficio dei nostri Lettori.

Una particolare menzione desidero dedicare, infine, ad Andrea Camilleri, recentemente scomparso, di cui pubblichiamo poche pagine tratte dalla sua celeberrima Concessione del Telefono. Più volte il grande scrittore siciliano, non diversamente da Leonardo Sciascia, si è occupato della burocrazia degli apparati, mettendone a nudo vizi e abitudini con ironia e leggerezza. La scomparsa di Andrea Camilleri è senza dubbio una grande perdita per la cultura italiana, che per fortuna può essere compensata da ciò che si conserva, anche per le generazioni che verranno, del suo lavoro di scrittore celebrato a livello internazionale.

Segnalo, per ultimo, la bella intervista di Antonio Gnoli a Sabino Cassese, che pubblichiamo nella parte dedicata ai media. Il professore si sofferma, tra l’altro, sui temi molto attuali della formazione dell’opinione pubblica e della democrazia, che costituiscono oggetto dei suoi studi recenti, dei suoi interventi pubblici e dei suoi ultimi saggi.

Come nel 2018, l’ultimo numero dell’anno di Itinerari Interni è accompagnato dalla pubblicazione contestuale di un Quaderno. È un’edizione a cui teniamo molto, impreziosita da interventi di straordinari commentatori. E alla quale, solamente, rimando.

Marco Valentini

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ROMA CAPITALE, A DIECI ANNI DALLA LEGGE N. 42 DEL 2009

Alessandro Sterpa1

Premessa: una disciplina della Capitale “per compensazione”.

Sono trascorsi dieci anni da quando, con la legge n. 42 del 2009, il legislatore statale ha iniziato a dare attuazione al dettato costituzionale dell’art. 114, comma terzo, nel quale si prevede che “Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”.

Gli anni diventano diciotto se si considera che l’espressione costituzionale è stata introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 2001 dopo che, come noto, Roma già svolgeva la funzione di Capitale (del Regno prima e della Repubblica poi) a seguito dell’annessione del 1870 che sancì, per usare le parole di Cavour, la natura della città quale “Capitale necessaria”.

I due eventi normativi, pur distinti per rango di intervento (costituzionale uno e legislativo l’altro), sono tenuti insieme dalle motivazioni principali che portarono, nei rispettivi atti, all’inserimento delle previsioni su Roma; nel 2001 si trattò di bilanciare, sancendo costituzionalmente il regime specifico della Capitale, la spinta regionalista della riforma del Titolo V della Costituzione con il rafforzamento del simbolo dell’unità nazionale; nel 2009, egualmente, si inserirono previsioni concernenti Roma nella legge sul federalismo fiscale (ossia di attuazione in primis dell’art. 119 della Costituzione come riformato) proprio per ponderare due aspetti da tenere costituzionalmente in equilibrio: autonomia territoriale e unità della Repubblica.

Si è trattato, in ambedue i casi, di scelte normative ampiamente caratterizzate da un approccio compensativo ossia teso a bilanciare gli elementi di differenziazione territoriale e di potenziale allentamento del vincolo unitario statale con altri di segno del tutto opposto.

La cosa, per il giurista, non è scevra di conseguenze. In primo luogo perché un impianto del genere (come di fatto è poi accaduto) avrebbe potuto caratterizzare la formulazione prima e l’esegesi poi delle previsioni normative, ma soprattutto perché uno schema di questo tipo avrebbe potuto condizionare i destini politici delle prescrizioni introdotte accomunando nella sorte attuativa previsioni tra loro del tutto differenti e in teoria reciprocamente autonome.

Tant’è che forse non a caso a distanza di anni discutiamo parallelamente della

1 Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi della Tuscia.

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Roma Capitale, a dieci anni dalla legge n. 42 del 2009

non completa attuazione di ambedue i profili costituzionali: l’autonomia (normativa ma in particolare fiscale) di Regioni ed enti locali da un lato e il regime giuridico ad hoc della Capitale della Repubblica2.

Cosa si intende per “Roma” e cosa per “ordinamento”?

La prima questione, oggi solamente in parte risolta, che si è posta all’indomani dell’entrata in vigore, sul finire del 2001, del nuovo dettato dell’art. 114, comma terzo, della Costituzione fu meramente interpretativa: con il termine “Roma”, non accompagnato da alcuna specificazione, quale soggetto giuridico tende ad identificare la previsione costituzionale? Roma, infatti, può astrattamente fare riferimento ad un ente territoriale come il Comune di Roma, piuttosto che la Provincia o la Città metropolitana; ancora, Roma potrebbe indicare un ente territoriale atipico rispetto a quelli di cui all’art. 114, comma primo, che “costituiscono” la Repubblica o ancora potrebbe far riferimento ad un ente non territoriale o ad un organo funzionale nell’ambito di uno dei livelli di governo della Repubblica.

Indice per cui l’identificazione di “Roma” non avesse una risposta tautologica è senza dubbio costituito dal fatto che la stessa legge n. 42 che nel 2009 scelse di identificare la Capitale come l’ente di governo comunale in una prima fase e nella Città metropolitana nella seconda (l’art. 24, infatti, reca per l’appunto la rubrica “Ordinamento transitorio di Roma capitale”).

La questione non è di facile soluzione soprattutto nella misura in cui il tema della natura del soggetto-Capitale reca con sé il tema della sua organizzazione e dei suoi poteri o, meglio, dovremmo dire del modo di atteggiarsi del suo specifico status.

È in questo senso che l’esegesi della previsione costituzionale è resa ancor più complessa dall’altro termine inserito per descrivere l’oggetto della legge statale chiamata a regolare la Capitale: si tratta dell’“ordinamento”.

La prima cosa da segnalare è che, a modesto parere di chi scrive, l’oggetto della legge statale con riguardo al regime giuridico di Roma non può essere inteso come identico a quello già riservato alla legge statale dalla competenza di cui all’art. 117, comma 2, lettera p), che assegna esclusivamente al legislatore nazionale la disciplina inerente “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”.

Se il legislatore costituzionale del 2001 avesse voluto permettere al legislatore ordinario di regolare detti aspetti dell’ente territoriale Capitale non avrebbe certamente

2 Ho affrontato il tema oggetto di queste riflessioni in alcune opere che mi permetto di segnalare per puntualizzare alcune delle argomentazioni qui necessariamente formalizzate in modo sintetico: A. STERPA, L’ordinamento di Roma capitale, Napoli, Jovene, 2014 (2 ed.) e Id., La lunga ricerca di una governance  per Roma, in federalismi.it, n. 13 del 2015. Si rinvia inoltre alle riflessioni di B. CARAVITA in Roma capitale, in F. FABRIZZI, G. SALERNO, La riforma delle autonomie territoriali nella legge Delrio, Napoli, Jovene, 2014 e quelle contenute nella rivista federalismi.it che ospita molti contributi sul tema.

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Il saggio

avuto la necessità di inserire la seconda previsione del comma 3 dell’art. 114 ossia quella che riserva alla legge statale, con riguardo a Roma capitale, la disciplina del più generale e inclusivo “ordinamento”. Senza dunque dover approfondire l’esegesi del termine “ordinamento” per come impiegato in altri punti della Costituzione, possiamo sostenere che con detto termine si individua un ambito tendenzialmente ampio tant’è che di volta in volta è inteso come una materia (“ordinamento della comunicazione”), piuttosto che come organizzazione (“ordinamento della Repubblica”, “ordinamento della Presidenza del Consiglio”, “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato”, “ordinamento giurisdizionale”) o ancora addirittura come un ordinamento giuridico complessivamente inteso (“ordinamento comunitario” e “dell’Unione europea”).

Da ciò si deduce una rilevante potenzialità attuativa dell’art. 114, comma 3, Cost. che è evidentemente in grado di permettere al legislatore statale di disegnare complessivamente una disciplina ad hoc per Roma capitale sia dal punto di vista soggettivo che organizzativo nonché per quanto attiene alle competenze; su quest’ultimo aspetto, infatti, la legge statale potrebbe certamente assegnare a Roma, in quanto capitale, non solo uno “spessore” quantitativo maggiore di autonomia ma anche rafforzarne la tipologia di strumenti formali sulla base del principio di differenziazione dagli altri enti della cui categoria fa parte. Se, ad esempio, si decidesse che Roma capitale debba coincidere con il Comune di Roma (come oggi attesta la normativa vigente a seguito di una scelta operata rispetto alle possibili esegesi3), la legge statale potrebbe, sulla base della riserva contenuta nella previsione costituzionale, assegnare a Roma non solamente più funzioni (regolamentari ed amministrative) rispetto a quelle di cui sono titolari (perché storiche o perché conferite) gli altri Comuni italiani, ma ben potrebbe anche disegnare una potestà regolamentare e amministrativa con minori limiti rispetto a quella degli altri Comuni, alleggerendo i vincoli legislativi che gravano sull’ente nel rispetto del principio di legalità.

Ciò vorrebbe dire, ad esempio, che i vincoli legislativi per un settore potrebbero essere dunque differenziati (e ridotti) per Roma, ampliando la capacità della Capitale di autogovernare alcune materie.

D’altronde se così non fosse, il mero conferimento di funzioni a Roma senza intervenire sullo “spessore” dell’autonomia locale non rappresenterebbe nulla di nuovo rispetto a quanto prevede già l’art. 118 della Cost. per tutti i Comuni ossia la possibilità per il legislatore (competente) di conferire funzioni all’ente locale nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.

Vi è una considerazione in più da fare e riguarda il fatto che molte materie sono, dal 2001, almeno sulla carta di competenza (residuale o concorrente) del

3 A bene vedere è ancora vigente la parte dell’art. 1 del d.lgs. n. 61 del 2012 che prevede il regime transitorio (“in sede di prima applicazione, fino all’istituzione della Città metropolitana di Roma capitale…”) mentre è stato abrogato dal d.lgs. n. 51 del 2013 l’inciso originario secondo il quale “A decorrere dall’istituzione della città metropolitana di Roma capitale, in attuazione dell’articolo 24, comma 9, della legge delega, le disposizioni di cui al presente decreto si intendono riferite alla città metropolitana di Roma capitale e possono essere integrate con riferimento alle funzioni di governo di area vasta”.

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Roma Capitale, a dieci anni dalla legge n. 42 del 2009

legislatore regionale che, quindi, è l’unico in grado di collocarne la distribuzione delle funzioni amministrative tenendole in ambito regionale ovvero conferendole a Comuni e Province/Città metropolitane (come prevede l’art. 118 Cost.)4. Potrebbe il legislatore statale chiamato dalla Costituzione a disciplinare l’ordinamento della Capitale affidare a Roma funzioni in materie di competenza del legislatore regionale? La risposta non può che essere affermativa, pena, in caso contrario, la manifesta inutilità della riserva di legge statale contenuta nell’art. 114 Cost. e la mera riconducibilità dell’attività normativa statale alle dinamiche “ordinarie” ex art. 118 Cost.; d’altronde l’esperienza di questi anni dimostra che, qualunque siano le relazioni politiche tra Regione Lazio e Comune di Roma, uno dei nodi più difficili da sciogliere è proprio il fatto che molte materie di interesse locale sono oggi disciplinate dal legislatore regionale e non da quello nazionale (ad esempio governo del territorio, commercio, impresa, agricoltura, turismo…) e proprio il legislatore regionale è restio nel privarsene5.

“Capitalità” e “metropolitanità”: due diverse specialità per Roma.

Altro aspetto che deve essere esaminato attiene alla c.d. “doppia specialità romana” dalla quale originano alcune ulteriori questioni nell’attuazione delle previsioni costituzionali. Il legislatore statale, in particolare nella legge n. 42 del 2009, non ha del tutto distinto dal punto di vista della ratio delle norme su Roma quelle che si fondano sul fatto che sia la Capitale della Repubblica da quelle che traggono origine da una diversa condizione ossia che Roma sia la Città metropolitana più grande del Paese.

Le due peculiarità romane, ossia la “capitalità” e la “metropolitanità”, si fondano su caratteri diversi e pretenderebbero soluzioni differenti anche alla luce del fatto, peraltro, che il titolo qualificante di “Capitale” può essere assegnato ad uno solamente degli enti6.

4 Cfr. Corte costituzionale in materia di individuazione delle “funzioni fondamentali” degli enti locali; la Corte costituzionale ha confermato che la competenza del legislatore statale di cui all’art. 117, comma secondo, lett. p) della Costituzione, laddove prevede l’esclusività statale per le “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”, non riconosce al legislatore centrale la disciplina dell’organizzazione della singola funzione (sentt. n. 16 e n. 22/2014). Come ha precisato di recente il Giudice delle leggi, “allo Stato spetta l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra quelle che vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale, cui, però, anche storicamente, non sono estranee le funzioni che attengono ai servizi pubblici locali; [...] La disciplina di dette funzioni è, invece, nella potestà di chi – Stato o Regione – è intestatario della materia cui la funzione stessa si riferisce. In definitiva, la legge statale è soltanto attributiva di funzioni fondamentali, dalla stessa individuate, mentre l’organizzazione della funzione rimane attratta alla rispettiva competenza materiale dell’ente che ne può disporre in via regolativa. La competenza regionale, nelle materie – di carattere concorrente o residuale – ad essa riservate, non viene, dunque, incisa dalla disposizione” statale che individua le funzioni fondamentali dei Comuni (dec. n. 22/2014). Più di recente cfr. anche le argomentazioni contenute nella sent. n. 33 del 2019.

5 Tema, questo, che si è posto anche per l’attuazione della legge n. 56 del 2014 (c.d. legge Delrio) e che ho segnalato in A. STERPA, a cura di, Il nuovo governo dell’area vasta, Napoli, Jovene, 2014 e sul quale cfr. Corte costituzionale sent. n. 50 del 2015.

6 Oggi, infatti, la Città metropolitana di Roma Capitale deve il proprio nome, come le altre Città metropolitane delle Regioni ordinarie, alla mera trasposizione del nome del Comune capoluogo all’ente di area vasta, restando il

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Il saggio

La “capitalità” infatti si fonda sul fatto non che Roma sia estesa e molto popolata (come una titpica area metropolitana), né tantomeno che non sia un’area policentrica ma tendenzialmente concentrata verso il centro del capoluogo con rilevante afflusso turistico come accade in altre Città, ma dal fatto che sul proprio territorio sono collocati gli organi della Repubblica, le sedi diplomatiche degli Stati e delle organizzazioni internazionali, nonché gli organi di enti sovranazionali. Detta condizione comporta l’esigenza, per Roma, di affrontare situazioni concrete con azioni amministrative peculiari per la mobilità e la logistica, piuttosto che per la gestione dello spazio urbano (si pensi alla numerosità del personale della polizia locale nei territori centrali o ai costi di manutenzione delle strade piuttosto che al decoro urbano).

La “capitalità”, volendo semplificare, è soprattutto un costo finanziario per l’ente Comune piuttosto che un tema di competenze amministrative, tant’è che proprio in questo senso è stata declinata sia nel 2008 (con il regime del bilancio separato per i debiti già contratti) che nel corso degli anni successivi fino alle misure più recenti7. In questo senso, d’altronde, si è mosso anche il lavoro del legislatore delegato nel 2009 che, all’atto dell’esercizio della delega legislativa, ha definito i “costi di Roma Capitale”, aprendo la strada negli anni successivi alla loro quantificazione8.

Ben diversamente, la “metropolitanità” produce altre esigenze per Roma quali, in particolare, la distribuzione dei servizi su una scala ben più ampia dei confini comunali e la costruzione di una rete infrastrutturale ultracomunale che sostenga gli spostamenti e le relazioni inter-comunali (ogni giorno giungono a Roma circa 600-700.000 persone per scopi lavorativi o turistici, Fiumicino conta circa 43 milioni di passeggeri l’anno e il Porto di Civitavecchia è il più grande scalo turistico del Mediterraneo). In questo senso, dunque, i presupposti di un regime speciale sono diversi e pretenderebbero la capacità dell’ente di esercitare una azione amministrativa comunque su scala provinciale ossia nell’ambito della Città metropolitana quale area vasta sovraordinata ai 121 Comuni, Roma compresa, che raggiungono 4,3 milioni di abitanti (di cui 2,6 nel Comune di Roma).

Le due diverse facce della medaglia, dunque, in questi anni si sono spesso sovrapposte nell’analisi istituzionale su Roma, ma è proprio la loro distinzione a costituire, a parere di chi scrive, un primo elemento di analisi utile alla predisposizione delle soluzioni normative più adeguate in attuazione delle previsioni costituzionali; più di quanto sia in realtà concretamente accaduto in questi anni.

titolo di Capitale unicamente al Comune di Roma oggi chiamato Roma Capitale. Cfr. A. STERPA, Lo Statuto della Città metropolitana di Roma Capitale e il complesso processo di attuazione della legge Delrio in federalismi.it, n. 1 del 2015 ma anche le riflessioni contenute in F. FABRIZZI, A. STERPA, Città metropolitane, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, Utet, 2017 ad vocem.

7 Si rinvia da ultimo alle previsioni di cui all’art. 38 del decreto-legge n. 34 del 2019 come convertito nella legge n. 58 del 2019.

8 L’art. 2 del d.lgs. n. 61 del 2012, abrogato dal d.lgs. n. 10 del 2016, prevedeva per l’appunto la determinazione del “maggior onere derivante per Roma capitale dall’esercizio delle funzioni connesse al ruolo di capitale della Repubblica, tenuto conto anche dei benefici economici che derivano da tale ruolo e degli effetti che si determinano sul gettito delle entrate tributarie statali e locali”.

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Roma Capitale, a dieci anni dalla legge n. 42 del 2009

Breve esame delle scelte normative adottate dal legislatore.

Il legislatore del 2009, dunque, nell’ambito dell’attuazione del federalismo fiscale all'art. 24 aveva conferito una articolata delega al governo (inizialmente unitaria, poi trasformata in frazionata9) con la possibilità di decreti correttivi10.

Il primo, il d.lgs. n. 156 del 2010, ha disciplinato gli organi, mutandone nome e composizione, ma lasciando l’ente nell’ambito dei Comuni italiani per quanto concerne l’impianto istituzionale. L’Assemblea capitolina (già Consiglio comunale), la Giunta capitolina (già Giunta comunale) e il Sindaco si rapportano tra loro senza alcuna novità rispetto alla forma di governo locale prevista dal d.lgs. n. 267 del 2000 e neppure è previsto un sistema elettorale differente. D’altronde, la stessa norma contenente la delega prevede espressamente che per quanto non espressamente posto dall’art. 24, comma 8, della legge n. 42/2009 “continua ad applicarsi a Roma capitale quanto previsto con riferimento ai comuni” dal TUEL.

Da segnalare che una parte delle norme contenute nel testo del decreto non è stata immediatamente attuata (si pensi all’indennità dei consiglieri comunali), mentre la riduzione numerica dei Municipi, senza alcun riferimento alle competenze, ha prodotto la conseguenza che gli enti di decentramento interno del Comune – rimasti privi di personalità giuridica – hanno visto accrescere mediamente le proprie dimensioni demografiche in modo significativo raggiungendo quote di popolazione comprese tra i 130.000 e i 300.000 abitanti, senza che detti organi si inseriscano in modo apprezzabile nell’attività amministrativa visto che la loro azione (pur con organi eletti a suffragio universale e diretto) è ridotta, in sostanza, all’espressione di pareri su atti comunali e a determinazioni su di un bilancio derivato di modesta entità. Una condizione, questa, che di fatto produce nell’elettore una aspettativa elevata di rappresentanza/rappresentatività che non è sostenuta da adeguate competenze amministrative, anche alla luce del debole decentramento comunale fermo ormai da molti anni nel suo impianto normativo (e mai davvero rilanciato dalle amministrazioni comunali dagli inizi del millennio).

Più interessanti (ma comunque deludenti rispetto ai margini di manovra normativamente possibili) i decreti legislativi successivi (del 2012 e del 2013) con i quali si è provato a costruire – su alcune materie – un nuovo (in teoria più accresciuto) ruolo per la Capitale.

Con il d.lgs. n. 61 del 2012 si scelse di costruire una nuova governance in alcune materie che interessavano l’amministrazione della Capitale (quali beni storici, ambientali e fluviali, sviluppo economico e sociale e protezione civile) prevedendo raccordi istituzionali, procedure specifiche e solo occasionalmente un concreto spostamento di alcune competenze al Comune di Roma; nel testo si profilava una nuova disciplina del finanziamento del trasporto pubblico locale, tanto che la

9 Cfr. l’art. 1, comma 21, del decreto-legge n. 194 del 2009 convertito nella legge n. 25 del 2010.10 L’art. 25 rinvia alla delega contenuta nell’art. 2 della legge n. 42 del 2009 che, al comma 7, prevede la

possibilità di adottare decreti legislativi correttivi entro due anni dall’entrata in vigore dei decreti legislativi.

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Il saggio

Regione Lazio espose i propri dubbi di legittimità costituzionale e le stesse furono modificate con il d.lgs. n. 51 del 2013. Proprio quest’ultimo decreto peraltro, oltre le correzioni del precedente, introdusse previsioni in merito ai poteri del Sindaco su traffico e mobilità, rinnovando in forme nuove l’esperienza precedente durante il mandato del Sindaco Veltroni (2006).

Roma capitale e la governance multilivello.

Come si evince dalla breve rassegna dei principali provvedimenti normativi adottati in questi anni, la nuova disciplina di Roma capitale non ha portato significative novità nel panorama istituzionale italiano, a parte le misure di natura finanziaria11 e la nuova formulazione del nome dell’ente (da Comune di Roma a Roma capitale che comunque resta un Comune) e degli organi; organi che, in parte, sono stati oggetto di una nuova disciplina formale che ha toccato, oltre il nome, il numero: ridotti a 15 i 19 Municipi, fissato a 48 il numero dei consiglieri capitolini e a 12 i componenti della Giunta (d.lgs. n. 156 del 2010).

Per quanto concerne il piano delle competenze, nessuna nuova significativa funzione amministrativa con conseguente passaggio di risorse umane e strumentali dallo Stato e dalla Regione è stata spostata nelle competenze di Roma che, invece, si trova a poter/dover partecipare ad una serie di complesse procedure collaborative e a tavoli inter-istituzionali con gli altri livelli di governo della Repubblica.

L’esito, insomma, pur a distanza di anni, è altamente deludente rispetto alle potenzialità delle previsioni costituzionali; si tratta di un esito che era comunque prevedibile per due ordini di ragioni: in primo luogo perché ogni ente tende a conservare le proprie competenze (regolamentari e amministrative) in quanto costituiscono strumenti di azione politico-amministrativa difficilmente rinunciabili.

Lo Stato, infatti, in molti settori di intervento dei d.lgs. n. 61 del 2012 e n. 51 del 2013, ha preferito “coinvolgere Roma” piuttosto che “conferire a Roma”.

Il secondo aspetto è reso palese dalla scelta della Regione Lazio, a seguito dell’adozione dei decreti-legislativi, di impugnare ex art. 127 Cost. alla Corte costituzionale una serie di previsioni normative per violazione del riparto costituzionale delle competenze legislative tra Stato e Regioni; è evidente che la scelta è stata la conseguenza dell’impostazione di fondo delle norme statali che non hanno abbracciato in modo chiaro ed inequivoco l’interpretazione, per noi invece più corretta, della riserva di legge statale dell’art. 114, comma terzo, Cost. ossia non hanno ritenuto quella legge statale in grado di derogare al riparto di competenze legislative ex art 117 Cost..

11 Utile consultare le notazioni di M. CAUSI in S.O.S. Roma, Armando Editore, 2018.

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Roma Capitale, a dieci anni dalla legge n. 42 del 2009

Si possono coniugare legittimazione democratica, autonomia politica e ruolo del Governo per Roma Capitale?

Negli ultimi, anche a seguito delle oggettive difficoltà emerse nell’attività di governo della Capitale, sono state formulate molteplici proposte istituzionali, alcune delle quali si fondano addirittura sulla revisione costituzionale e l’istituzione della Regione di Roma capitale nell’ambito di un ridisegno complessivo delle autonomie italiane.

Non è questa la sede per esaminare le proposte di legge ordinaria e costituzionale, peraltro presentate sia nella precedente che nell’attuale Legislatura, ma vale la pena ragionare su due modelli teoricamente opposti per la governance di Roma che sembrano emergere dal dibattito ossia il modello elettivo/autonomico da un lato modello governativo/commissariale dall’altro.

Nel primo caso, come già accade, il modello tende a conservare un Sindaco (a capo di un Giunta) ed un organo collegiale (l’Assemblea) scelti dai cittadini a suffragio universale e diretto; nel secondo, invece, stante le difficoltà e le peculiarità di Roma capitale, si propone che l’esecutivo nazionale avochi a sé, attraverso una propria struttura e un organo nominato dal Governo, l’amministrazione della Città. Quest’ultima ipotesi si è fatta strada in particolare negli ultimi anni allorché sono emerse, in sede anche giurisdizionale, le difficoltà di governo di Roma, ma si tratta di una ipotesi già in parte culturalmente percorsa in ragione del debito finanziario della Capitale (affrontato con le norme ad hoc del 2008).

Va detto che i due modelli sono certamente alternativi ma anche “reciprocamente contaminabili”, come già accaduto, pur con soluzioni normative differente, in questi anni con il riconoscimento dei poteri speciali in materia di traffico ai sensi della normativa sulla protezione civile piuttosto che con l’adozione di leggi statali contenenti il finanziamento per la disciplina di opere pubbliche a Roma (si pensi alla legge n. 396 del 1990).

L’esperienza dimostra che la contaminazione tra le due logiche potrebbe portare, attraverso la legge statale di attuazione dell’art. 114, comma 3, Cost., al mantenimento degli organi elettivi e alla possibilità che operino, per quota parte delle proprie funzioni, come organi di indirizzo di apparati centrali e titolari di competente speciali oggi in capo ad altri organi (per esempio il Sindaco potrebbe, in deroga al TUEL, essere titolare di competenze del Consiglio) o ad altri livelli di Governo (e di competenze provinciali/metropolitane, regionali e statali).

Una scelta di questo tipo azzererebbe il rischio, al quale abbiamo fatto cenno, dei “vasi comunicanti” che rende lo spostamento delle competenze (e delle risorse connesse) tra i vari livelli di governo davvero difficile da realizzare perché fondato sulla “rinuncia” a favore di Roma di quota del proprio attuale potere decisionale.

Al termine di queste rapide considerazioni, si possono fissare alcuni elementi utili alla riflessione generale sull’attuazione dell’art. 114, comma 3, della Costituzione.

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Il saggio

La prima è che senza dubbio siamo in presenza di una previsione costituzionale non pienamente attuata dal legislatore statale e che, quindi, potrebbe essere nuovamente interessata da un processo istituzionale di produzione legislativa statale.

Se detta condizione dovesse verificarsi, consapevole degli elementi emersi in questi dieci (se non 18) anni trascorsi, il legislatore nazionale dovrebbe affrontare la questione neutralizzando ogni rischio di connessione con altre questioni del regionalismo o dell’assetto istituzionale italiano.

Inoltre, per rendere l’attuazione proficua rispetto alla ratio sottostante, sarebbe necessario che si muovesse dal presupposto della capacità della legge statale di derogare agli artt. 117 e 118 Cost. e quindi di poter assegnare a Roma attribuzioni in materie di competenza regionale; certo non sfugge che una soluzione di questo tipo dovrebbe essere comunque perseguita garantendo che le relazioni istituzionali tra i livelli di governo della Repubblica siano rispettose del principio di leale collaborazione. In ogni caso, si potrebbe immaginare che in sede di adozione delle norme statali si costruisca un percorso di confronto con la Regione, meglio ancora se inserito nell’esercizio di una delega al Governo ex art. 76 Cost.. Lo strumento dei decreti legislativi, infatti, ben si presterebbe nel caso della disciplina in questione non solo perché si tratta di misure ad alto impatto istituzionale (che richiedono analisi anche tecniche e finanziarie), ma anche perché l’esercizio della delega legislativa si presterebbe alla concreta applicazione di soluzioni adeguate sul piano della leale collaborazione, sia in sede di prima disciplina che di eventuali decreti correttivi12.

Resta il punto che la disciplina in questione dovrà individuare in quali settori (sia dell’organizzazione che delle materie) è opportuno conferire a Roma nuove competenze e con quali limiti comunque individuati dalla legislazione. Su questo aspetto le previsioni in questione dovranno anche configurare adeguati strumenti per evitare che l’ampliamento delle competenze del Comune capoluogo produca una “rottura” dell’equilibrio istituzionale territoriale, in modo che i Comuni limitrofi non si trovino a subire eventuali esternalità negative derivanti dalle scelte amministrative di Roma. In questo senso, ad esempio, gli strumenti di pianificazione di livello metropolitano e regionale dovranno essere ripensati a livello normativo per includere la specialità romana senza pregiudicare la sistematicità della programmazione di area vasta e di ambito regionale, visto che la legge n. 56 del 2014 espressamente prevede che molte delle competenze metropolitane (art. 44, spec. lettere a, b, c, d) si impongono in termini di coordinamento, pianificazione e programmazione sulle scelte dei Comuni del territorio: si dovrà coniugare questa idea di Città metropolitana come ente di area vasta con la specialità di Roma.

Infine c’è un altro aspetto da tenere in considerazione: se, come ha optato (pur con i profili critici che sono stati esaminati) lo Statuto della Città metropolitana di Roma Capitale, si dovesse procedere in futuro (a quadro normativo completato) all’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio metropolitano, come potranno

12 Come confermato dalla sent. n. 251 del 2016 della Corte costituzionale sulla legge n. 124 del 2015.

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Roma Capitale, a dieci anni dalla legge n. 42 del 2009

convivere due Sindaci (uno del Comune ed uno metropolitano) con il secondo eletto da una popolazione di 4,3 milioni di cui 2,6 milioni già elettori del primo? Certo è che il modello attuale di elezione di secondo livello produce egualmente problemi pur di diverso tipo ma certo di non meno facile soluzione nel momento in cui può accadere (come è accaduto) che gli eletti nell’organo assembleare metropolitano siano espressione di pochi Comuni (11 su 201 come nel 2015) e peraltro tutti territorialmente vicini al Capoluogo13.

Una soluzione, in caso, potrebbe essere quella di superare il “doppio” livello di governo locale a Roma, attribuendo alla Città metropolitana il ruolo di Capitale e consentendo così da un lato ai Comuni di svolgere un veloce meccanismo di opting-in o -out e agli organi di governo di essere eletti senza rischiare di operare in una “concorrenza di rappresentanza locale” difficilmente compatibile con la specialità del solo Comune capoluogo.

In questo caso, ridisegnando anche la mappa dei Comuni romani e dei 15 municipi (inevitabilmente trasformati in Comuni), si potrebbe costruire un ente al quale la legge statale potrebbe conferire le attribuzioni necessarie in termini organizzativi e competenziali per governare al meglio la doppia specialità romana ossia quella di Capitale e quella di Città metropolitana più grande d’Italia. Due profili la cui divisione non ha fino ad ora agevolato il legislatore statale nella lunga e complessa definizione del regime giuridico di Roma.

A quel punto, peraltro, l’impatto di un ruolo anche del Governo sull’amministrazione di Roma sarebbe meno gravoso rispetto al principio democratico e a quello autonomista: con un approccio manageriale, infatti, il Governo potrebbe direttamente gestire una parte delle attività che si rendesse di volta in volta utile accentrare anche solo per determinati periodi di tempo e nel caso (perché no?) individuando il Sindaco quale commissario o vertice della struttura centrale. La governance di Roma, oggi ingessata in modelli rigidi e non comunicanti, sarebbe in questo modo qualificata da elementi di flessibilità e di funzionalità tipici della competizione glocale e dei modelli neo-hanseatici14 con connessioni di tipo funzionale15 nei quali i territori sub-statali si contendono risorse, turisti, investimenti e imprese.

13 Cfr. F. FABRIZZI, A. STERPA, Roma Città metropolitana: avvio lento e faticoso, in Diritti regionali, n. 1 del 2017.

14 Per tutti P. PERULLI, Neoregionalismo. L’economia arcipelago, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. 15 Come sottolinea Beniamino Caravita, ricordando l’opera di Parag Khanna, “nel mondo delle connessioni,

dei collegamenti, delle infrastrutture la geografia funzionale conta di più della geografia fisica” (Letture edificanti per combattere gli idola sull’Europa, in federalismi.it, n. 9 del 2019.

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AMMINISTRAZIONE GENERALE

Il fenomeno della scomparsa di persone affette da malattie dementigene: il prefetto e i progetti loro dedicati1

Sabrina Agresta

La scomparsa delle persone è un fenomeno estremamente complesso in ragione degli intrinseci risvolti umani, sociali e giuridici che ne derivano e rappresenta un tema di interesse crescente nella società contemporanea, la cui disciplina costituisce uno degli indicatori emblematici del grado di civiltà di un Paese.

La scomparsa improvvisa ed inspiegabile di una persona fa nascere non solo a livello individuale ma anche collettivo paure e tensioni che interrogano le istituzioni chiamate a fornire risposte adeguate ai singoli casi.

Come è possibile che una persona si sia allontanata senza lasciare traccia? Quale la motivazione? È un atto di volontaria deliberazione o ci si perde per strada e non si riesce a tornare a casa? In quale stato d’animo si trova chi deve reggere l’angoscia dell’attesa? Queste ed altre sono le domande all’attenzione di chi, negli ultimi anni, ha messo in atto una serie di interventi volti a comprendere e a fronteggiare il fenomeno, che ha dimostrato una tendenza non recessiva per motivi diversi, da quelli di ordine sociale a quelli legati allo stato di salute ma anche a quelli di origine criminale.

Sulla base dei dati statistici, forniti dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza e riferiti al periodo 1 gennaio 1974 – 30 giugno 2019, è emerso che il numero di persone scomparse in Italia ancora da rintracciare è pari a 59.044. La consistenza e le caratteristiche del fenomeno, multiforme sia nella genesi che nelle sue manifestazioni concrete, ha richiesto l’adozione di scelte strategiche di contrasto, contemperando l’azione investigativa e giuridico-amministrativa con l’attenzione anche ai risvolti sociali e psicologici. Per questo motivo, nel 2007, con decreto presidenziale, è stata istituita la figura del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse e con legge del 14 novembre 2012, n. 203, recante “Disposizioni per la ricerca delle persone scomparse” è stata introdotta nell’ordinamento una nuova disciplina relativa alla ricerca delle persone scomparse. Fino ad allora, la normativa civilistica, si occupava della scomparsa sostanzialmente allo scopo conservativo del patrimonio e per assicurare la certezza dei diritti e dei relativi rapporti giuridici. Alla

1 Il presente articolo prende spunto dalla tesina redatta dalle dottoresse Sabrina Agresta, Francesca Altomare, Barbara Buffa ed Elena Meli in occasione del XXXI Corso di formazione dirigenziale per l’accesso alla qualifica di viceprefetto. L’argomento é stato approfondito con la guida del viceprefetto dott.ssa Agata Iadicicco, Vicario del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse.

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Amministrazione generale

luce di tale normativa, una persona si considera scomparsa quando si è allontanata dal suo ultimo domicilio o residenza e di lei non si hanno più notizie, e la situazione di incertezza derivante dalle modalità in cui si sono verificati l’allontanamento e la mancanza di notizie crea una situazione di allarme nella famiglia e nella società imponendo la sua ricerca. La formalizzazione della denuncia di scomparsa presso un ufficio di polizia e l’avvio immediato delle ricerche da parte delle forze dell’ordine, con il coordinamento dei prefetti, ha rappresentato un cambio di passo sostanziale nella gestione del delicato fenomeno tanto che oggi oltre i due terzi degli scomparsi vengono rintracciati, a volte anche entro poche ore.

Con i piani provinciali di ricerca vengono individuate specifiche procedure di ricerca, sulla base delle diverse ipotesi investigative e con riferimento ai possibili scenari territoriali verso i quali dirigere le componenti istituzionali e del volontariato nelle ricerche. Gli aspetti salienti di tutte le pianificazioni provinciali prendono in esame, innanzitutto, la motivazione della scomparsa e, dunque, è prioritaria un’analisi info-investigativa da parte delle forze dell’ordine e una corretta informativa all’Autorità giudiziaria, con la quale occorre tenere stretti rapporti per concordare, in sinergia, le diverse attività di ricerca da porre in essere. In tal modo, il procedimento penale e quello amministrativo procederanno in parallelo ed in modo armonico.

Fondamentale, poi, il rapporto da tenere con i familiari e, se non vi sono controindicazioni, anche con i mass media. Attesa la delicatezza della materia, essendo determinante un’accurata gestione del volume e della qualità delle informazioni acquisite dagli organi di polizia, le relazioni con i media sono sempre curate esclusivamente dal prefetto o da un suo delegato appositamente incaricato.

Lo scenario provinciale descritto nel piano è altresì caratterizzato dal territorio e delle attività antropiche, per cui la tipologia delle attività di ricerca varia a seconda degli ambiti di riferimento: le unità di ricerca, quindi avranno differente composizione a seconda che si ipotizzi una scomparsa in montagna, in mare, in un centro abitato, in località impervia, in località lacustre o in un fiume.

Gli scomparsi, poi, devono essere distinti a seconda dell’età, del sesso e della nazionalità e saranno di valido supporto nelle ricerche la componente istituzionale locale, comuni e polizia locale e provinciale, le aziende sanitarie, le autorità portuali ed aeroportuali, nonché le aziende pubbliche e private addette ai servizi di trasporto pubblico, i gestori telefonici, le emittenti radiotelevisive, i detentori di impianti di videosorveglianza.

Le fasi operative hanno inizio con la denuncia della scomparsa che assume particolare rilevanza ai fini della tempestività degli interventi e che può essere presentata da chiunque. L’ufficio di polizia procedente deve acquisire informazioni complete e dettagliate, nonché la foto dello scomparso e l’annessa liberatoria per la divulgazione dei dati al pubblico e dovrà con automatismo pianificato dare luogo, nell’immediato, all’avvio delle ricerche.

A tale scopo, l’Ufficio del Commissario straordinario ha dato ampia consulenza alle prefetture affinchè l’importanza di tale automatismo nell’attivazione delle

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Gli approfondimenti

ricerche sia ben compreso soprattutto quando si tratta di casi per i quali vi è fondato motivo di ritenere che lo scomparso sia in pericolo di vita. La cosiddetta “scheda scomparso”, allegata alle predette direttive commissariali contiene anche quesiti predeterminati affinché la raccolta e la diffusione dei dati sia il più possibile omogenea sul territorio nazionale.

Il supporto dei medici e/o psicologi, nella acquisizione e valutazione delle informazioni da parte delle forze dell’ordine, potrà essere oltremodo utile laddove lo scomparso sia affetto da deficit comportamentale e ancor di più in caso di acclarata patologia di natura psichiatrica o neurologica. Nei singoli casi, l’approfondita conoscenza delle dinamiche relazionali all’interno della famiglia e della comunità, nel cui contesto si verifica la scomparsa di una persona, come spesso riscontrato, si è rivelata molto utile per un esito positivo della vicenda.

Il contributo degli esperti sarà utile a delineare un profilo psicologico dello scomparso per definirne comportamenti, abitudini e dinamiche emotive. In tal senso, è stata stimolata e condotta dall’Ufficio del Commissario straordinario un’azione formativa rivolta a prefetture, forze dell’ordine e organizzazioni del volontariato.

Fermo restando il quadro generale sopra delineato, il Commissariato straordinario ha dedicato particolare attenzione al fenomeno delle persone scomparse affette da patologie dementigene. In particolare il Commissariato straordinario, ha adottato, specificamente, in data 7 ottobre 2015, una direttiva, inviata ai prefetti, in cui sono stati delineati percorsi operativi volti a favorire il rapido rintraccio delle persone scomparse malate di Alzheimer o di altre patologie neurodegenerative. Sulla problematica della scomparsa delle persone con malattie dementigene si segnala il prezioso ausilio fornito da alcune associazioni private le quali partecipano stabilmente alle cabine di regia delle prefetture fornendo suggerimenti e proposte anche ai fini degli aggiornamenti delle pianificazioni. Si tratta di associazioni di familiari, quali, ad esempio, Penelope e Penelope scomparsi, come pure Psicologi per l’emergenza e Alzheimer Uniti.

L’Alzheimer è un processo degenerativo che distrugge lentamente e progressivamente le cellule delle aree cerebrali deputate al controllo della memoria, del linguaggio e dell’ideazione. Generalmente, il deficit cognitivo iniziale è rappresentato dalla perdita della memoria a breve termine (con l’evolversi della patologia si perdono anche i ricordi più “vecchi”), successivamente si manifesta la perdita della cognizione del tempo e dei luoghi. In particolare, compare l’incapacità ad effettuare azioni finalizzate come vestirsi o usare oggetti di uso comune, difficoltà ad esprimersi, incapacità di scrivere, di riconoscere i simboli della scrittura e seguire operazioni aritmetiche anche semplici, difficoltà nel riconoscere gli oggetti e i volti. Sono, inoltre, frequenti alterazioni dell’umore, disturbi del comportamento (deliri paranoidei, allucinazioni e illusioni uditive e acustiche e marcate alterazioni del ritmo sonno-veglia e disturbi delle funzioni motorie).

Il paziente con diagnosi di Alzheimer, quindi, subisce una progressiva compromissione delle funzioni della memoria e del comportamento, tali da

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Amministrazione generale

determinare manifestazioni di disorientamento spaziale, per cui il paziente può non riconoscere l’ambiente in cui si trova nonostante sia un luogo familiare, per cui confonde le persone a lui note o le scambia per estranei, con gravi sofferenze psicologiche.

Si generano, sin dalla fase iniziale della malattia, gravi menomazioni, quali la mancanza di autosufficienza e della capacità decisionale oltre al disorientamento dovuto alla progressiva difficoltà di riconoscere e di riconoscersi.

Il wandering (vagare) rientra tra i comportamenti più preoccupanti che possono manifestarsi in un malato di Alzheimer, il quale è portato a lasciare le sicure mura domestiche ad orari casuali per addentrarsi in luoghi sconosciuti senza ragione apparente e spesso poco vestito.

Dietro il wandering potrebbe risiedere un desiderio di comunicare, dopo aver perduto le capacità di linguaggio, ma nella maggioranza dei casi è collegato alla perdita di memoria e al disorientamento, ai tentativi di esprimere emozioni come la paura o l’isolamento, alla curiosità, irrequietezza o noia a stimoli esterni che agiscono sulla routine, al trovarsi in una nuova situazione o ambiente alla ricerca del passato, ovvero alla ricerca di una persona o della casa, alla confusione sul tempo, cioè tra giorno e notte, ad effetti collaterali di farmaci assunti.

In questi casi, diventa necessario anche creare un ambiente sicuro per il malato perché potrebbe incorrere in pericoli che non è in grado di percepire, specialmente se il desiderio di muoversi lo porta all’esterno della propria abitazione. Occorre rimuovere gli ostacoli all’interno dell’abitazione, che potrebbero determinare cadute, conoscere il quartiere dove vive il paziente e le zone pericolose come cantieri, scale che danno all’aperto, gallerie, boschi, corsi d’acqua, insenature e dirupi. La questione, piuttosto sentita e all’attenzione di molte organizzazioni coinvolte sul tema delle patologie dementigene e delle scomparse ad esse collegate, è oggetto del Protocollo di Intesa stipulato in data 21 settembre 2015 tra il Ministero dell’interno, il Ministero della salute, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Commissario Straordinario del Governo per le persone scomparse, finalizzato a favorire la migliore sinergia tra realtà pubbliche e private interessate al fenomeno e ad incoraggiare l’applicazione di metodologie scientifiche per la vigilanza e la localizzazione dei soggetti, sulla base di passate sperimentazioni positive dei sistemi di geo-localizzazione.

Secondo i dati forniti dalla Direzione centrale della polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza, aggiornati al 30 agosto 2019, dal 1974 nel nostro Paese sono scomparsi 13.137 ultra sessantacinquenni, e di questi 11.504 sono stati rintracciati, sebbene il 12% sia stato ritrovato senza vita (1.405). Risultano ancora da rintracciare 1.633 persone (1.386 italiani e 246 stranieri).

Molto spesso si tratta di malati di Alzheimer o di persone affette da malattie neurologiche.

La malattia di Alzheimer, è stata descritta per la prima volta nel 1906 dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Aloise Alzheimer, ma ancora oggi non se ne

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Gli approfondimenti

conoscono chiaramente le cause. Come si è evidenziato, la malattia colpisce la memoria e le funzioni cognitive, si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare ma può causare anche altri problemi fra cui stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale.

Secondo il Rapporto Mondiale Alzheimer 2018 a livello globale la demenza colpisce 47 milioni di persone, cifra destinata a raddoppiare nel 2035.

Ogni 3 secondi, nel mondo, una persona sviluppa una forma di demenza. In Italia si stimano 1.241.000 casi circa il 5% delle persone con più di 60 anni.

Nel 2018 la demenza è diventata una malattia con costi stimati intorno a mille miliardi di dollari ed è la settima causa di morte, non esistendo ancora una cura.

L’Ufficio del Commissario, dalla sua costituzione ha dedicato particolare attenzione alle persone che presentano particolari fragilità. Tra questi, gli anziani sono sicuramente quelli che richiedono maggiore attenzione perché hanno la tendenza ad allontanarsi involontariamente dalle proprie dimore, con un alto rischio di incolumità. Per tale motivo, questa tematica ha rappresentato uno dei maggiori assi d’intervento seguito dall’Ufficio nel corso delle sue attività.

A tale riguardo, il richiamato Protocollo d’intesa del 2015, comprensivo di un Disciplinare tecnico-operativo, ha dato applicazione alla Risoluzione del Parlamento Europeo del 19 gennaio 2011, che invitava le istituzioni degli Stati membri a dotarsi di strumenti per la prevenzione del fenomeno legato alla malattia dell’Alzheimer.

Lo scopo è stato quello di individuare iniziative utili in materia e accrescere l’impegno complessivo delle Istituzioni statali, regionali e locali a sostegno delle suddette categorie per innalzare i livelli della risposta pubblica alle loro istanze e ai loro bisogni.

L’ iniziativa si è realizzata a seguito della stretta collaborazione maturata sin dalla nascita dell’Ufficio del Commissario con l’Associazione “Alzheimer Uniti Onlus” che, nell’estate del 2012, ha portato alla realizzazione del progetto “Diogene”: una sperimentazione realizzata con successo nella città di Roma su 22 pazienti anziani con problemi cognitivi, dotandoli di un supporto di geo-localizzazione da indossare per il loro rapido rintraccio. Il sistema è stato basato su un procedimento di gestione di allarme scomparsa tra il centro di controllo della società di gestione realizzatrice del supporto di individuazione e le sale operative delle Forze di polizia della Capitale.

Si è, così, inteso assicurare il coordinamento delle ricerche a livello locale coordinate dal prefetto, anche con il concorso degli enti locali e di altre istituzioni attive sul territorio.

Sulla base delle direttive del Commissario, diverse sono state le Prefetture che hanno riservato particolare attenzione alla problematica della scomparsa delle persone affette da patologie neuro-degenerative e adottato un “Piano di intervento coordinato per la ricerca e il soccorso delle persone affette da patologie neurodegenerative”: tra queste, le Prefettura di Firenze, Milano, Treviso, Viterbo, Forlì Cesena, Perugia.

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Amministrazione generale

I suddetti piani d’intervento si inseriscono nella più generale pianificazione territoriale per la ricerca delle persone scomparse adottate, come si è sottolineato in precedenza, da tutte le Prefetture e prevedono la partecipazione dei diversi enti ed istituzioni interessate, compreso il ruolo del volontariato e delle associazioni dei familiari degli scomparsi. Tali piani sono destinati a definire il coordinamento delle attività di ricerca di persone e ad attivare procedure per la prevenzione dell’allontanamento.

Generalmente le persone anziane individuate dai piani vengono munite di un dispositivo di geo-localizzazione (mediante un GPS che fornisce tutte le informazioni necessarie attraverso una scheda SIM), dato in comodato d’uso dalla ditta che lo ha prodotto, o tramite sovvenzioni regionali, o ancora attraverso il contributo di alcune fondazioni.

Nello specifico, la procedura prevede che, in caso di scomparsa (anche connessa ad un allontanamento volontario) di una persona affetta da patologie neurodegenerative sul territorio provinciale, il familiare e/o chi assiste il malato avverta l’operatore del centro di monitoraggio che attiva la procedura di rintraccio tramite geo-localizzatore. Qualora le prime ricerche non sortiscano esito, si genera, da parte del centro di monitoraggio, l’attivazione della centrale/sala operativa della forza di polizia competente, ai numeri di emergenza 112 o 113 e, ove esistente, al 112 NUE.

Alla segnalazione di emergenza è associata una scheda notizie predefinita che viene trasmessa alla forza di polizia attivata, con tutte le informazioni ritenute esaustive ed utili per condurre ricerche tese a rintracciare l’utente scomparso.

La centrale/sala operativa della forza di polizia, ad avvenuto rintraccio e soccorso della persona, ne dà comunicazione al centro di monitoraggio, al familiare o all’assistente del soggetto che ha generato l’allarme.

Un aspetto da non sottovalutare, inoltre, è la condizione delle famiglie, su cui ricade l’assistenza alla persona, che spesso vivono nell’angoscia ed avvertono un grande senso di solitudine, in quanto la malattia del congiunto, impegnativa dal punto di vista cognitivo e comportamentale, li emargina socialmente.

Anche il coinvolgimento del mondo della scuola per la sensibilizzazione dei giovani sui problemi degli anziani, sulle patologie invalidanti e sulla cura dei malati affetti dal morbo di Alzheimer deve essere favorito con la promozione di percorsi di educazione civica per accrescere lo spirito di cittadinanza attiva e avvicinare le giovani generazioni al mondo delle istituzioni pubbliche e attenzione ai bisogni della collettività.

In ragione di ciò, le pianificazioni provinciali per la ricerca di persone scomparse sortiscono, anche con l’ausilio della tecnologia più avanzata, si pensi all’uso dei droni, un miglioramento dell’azione pubblica ed una ottimizzazione delle risorse di uomini e mezzi a disposizione.

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ENTI LOCALI

I poteri sostitutivi del prefetto ex articolo 28 del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, al vaglio della Corte Costituzionale

Paola Berardino

Ogni tipo di inchiesta in tema di mafia − giornalistica, giudiziaria o parlamentare − ha evidenziato lo stretto legame delle organizzazioni criminali con il territorio, l’interesse da parte dei gruppi delinquenziali per le risorse gestite dagli enti locali ed i condizionamenti alle amministrazioni locali perpetrati dalle organizzazioni di stampo mafioso al fine indirizzarne le decisioni di spesa. L’attività di prevenzione e contrasto alla criminalità organizzata si persegue, allora, anche incidendo in materia di controllo sugli enti locali, atteso che l’indebita interferenza delle organizzazioni criminali di stampo mafioso nella gestione della cosa pubblica ha ripercussioni su diversi piani: quello etico, innanzitutto, quello economico, quello della credibilità delle Istituzioni nei confronti dei cittadini, quello dell’affidabilità del sistema-Paese sul piano internazionale.

Il Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 detta, all’articolo 143, la disciplina relativa allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare. La ratio sottesa a tale disposizione è quella di offrire uno strumento di tutela avanzata in particolari situazioni ambientali nei confronti del controllo ed ingerenza delle organizzazioni criminali sull’azione amministrativa degli enti locali.

Inizialmente concepita come misura sanzionatoria, “anche se caratterizzata da rilevanti aspetti di prevenzione sociale per la sua ricaduta sulle comunità locali che la legge intende sottrarre, nel loro complesso, all’influenza della criminalità organizzata”1, la natura del provvedimento di scioglimento dei consigli comunali e provinciali ex articolo 143 TUEL si è evoluta in misura preventiva e cautelare. Difatti, il Consiglio di Stato ha recentemente ribadito un orientamento giurisprudenziale formatosi nel tempo con riguardo agli scioglimenti disposti ai sensi del citato articolo 143, rimarcando che “lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, ai sensi dell’art. 143 del d.lgs. 267 /2000, non ha natura di provvedimento di tipo sanzionatorio, ma preventivo, con la conseguenza che, ai fini della sua adozione, è sufficiente la presenza di elementi che consentano di individuare la sussistenza di

1 Corte costituzionale, sentenza n. 103 del 1993, par. 3. 4..

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Enti locali

un rapporto tra l’organizzazione mafiosa e gli amministratori dell’ente considerato infiltrato”2.

Il presupposto per lo scioglimento è, dunque, la presenza di “concreti, univoci e rilevanti elementi” su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso degli amministratori, ovvero su forme di condizionamento degli stessi. In entrambi i casi occorre che risultino compromessi la libera determinazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni, nonché il regolare funzionamento dei servizi loro affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica.

Al prefetto competente per territorio è demandato lo svolgimento di ogni opportuno approfondimento al fine di verificare la sussistenza dei richiamati elementi. A tal fine può nominare una commissione di indagine (composta da tre funzionari della pubblica amministrazione) con poteri di accesso presso l’ente locale interessato, le cui conclusioni saranno rassegnate al prefetto non oltre sei mesi dalla data di accesso.

Successivamente il prefetto, sentito il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica integrato con la partecipazione del procuratore della Repubblica competente per territorio, trasmette al Ministro dell’interno una relazione nella quale si dà conto della eventuale sussistenza degli elementi concreti, univoci e rilevanti che giustificherebbero lo scioglimento dell’ente.

L’eventuale scioglimento è adottato, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno, che indica le anomalie riscontrate dalla commissione d’indagine appositamente nominata e i provvedimenti necessari per rimuovere tempestivamente gli effetti più gravi e pregiudizievoli per l’interesse pubblico. La legge, riconoscendo l’ampia discrezionalità conferita alla pubblica amministrazione dall’esercizio di tale potere, coinvolge a vario titolo altri organi costituzionali affinché siano tutelati tutti gli interessi in gioco. La disposizione prevede altresì che gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento siano colpiti dalla sanzione dell’incandidabilità temporanea e territorialmente limitata.

Invero, l’infiltrazione mafiosa colpisce non solo il livello politico e rappresentativo ma piuttosto quello amministrativo con cui le organizzazioni criminali possono stabilire un contatto diretto e necessario in settori nevralgici. Pertanto, anche nei casi in cui non sia disposto lo scioglimento, qualora la relazione prefettizia rilevi la sussistenza degli elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata con riferimento al segretario comunale o provinciale, al direttore generale, ai dirigenti o ai dipendenti a qualunque titolo dell’ente locale, con decreto del Ministro dell’interno, su proposta del prefetto, è adottato ogni provvedimento utile a far cessare immediatamente il pregiudizio in atto e ricondurre alla normalità la

2 Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 4578 del 2 ottobre 2017.

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Gli approfondimenti

vita amministrativa dell’ente, ivi inclusa la sospensione dall’impiego del dipendente, ovvero la sua destinazione ad altro ufficio o altra mansione con obbligo di avvio del procedimento disciplinare da parte dell’autorità competente. Difatti, sempre più soggetti sono particolarmente abili a non far apparire in modo conclamato la loro presenza, ingerendosi nei gangli della burocrazia e allo stesso tempo riuscendo ad evitare il trauma di un azzeramento dei vertici politici a causa dello scioglimento dell’ente.

Anche la vicenda di “Roma Capitale” ha evidenziato i limiti dell’articolo 143 TUEL che si manifestano quando l’ingerenza criminale investe sì l’apparato burocratico, ma la conservazione degli apparati elettivi porta risultati istituzionali più ragionevoli ed efficaci di uno scioglimento.

Nel corso della passata Legislatura, la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle Mafie e sulle altre associazioni criminali ha denunciato “l’inadeguatezza della legislazione sullo scioglimento per mafia degli enti locali e le criticità emerse nell’applicazione dell’articolo 143 TUEL già nei comuni di medie dimensioni. Di fronte alla complessa situazione della Capitale, l’alternativa sciogliere o non sciogliere appariva inadeguata e non risolutiva mentre sarebbe stato più utile ed efficace offrire una risposta innovativa, con un provvedimento ad hoc che superasse la normativa vigente delineando una sorta di amministrazione controllata. Una «terza via» tra la misura dissolutoria estrema e il rischio di un nulla di fatto”3.

Al fine di arginare il fenomeno sopra descritto è stato ipotizzato un intervento autonomo da applicare nei casi in cui non sia stato possibile riscontrare il condizionamento mafioso ma siano comunque emerse situazioni opache o di criticità che l’amministrazione non è in grado, per debolezza strutturale, di affrontare da sola. Una forma di affiancamento che non priva i cittadini della guida politica, ma che prevede un percorso di ripristino della legalità che investa in modo particolare la burocrazia dimostratasi fragile e permeabile alla corruzione.

La ratio dell’articolo 28 del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni nella legge 1 dicembre 2018, n. 132, è pertanto quella di individuare un nuovo istituto che consenta, con la previsione di una norma a carattere residuale, l’intervento dello Stato nell’ente locale ove sia stata riscontrata una grave e manifesta situazione di mala gestio in un contesto ambientale comunque compromesso dall’accertata presenza della criminalità organizzata.

Con la sentenza del 24 luglio 2019, n. 195, la Corte costituzionale ha, però, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge 1 dicembre 2018, n. 132. All’indomani della conversione in legge del c.d. decreto Salvini, alcune Regioni hanno impugnato le disposizioni del provvedimento concernenti la materia dell’immigrazione. La Regione Umbria ha ritenuto di promuovere questioni di legittimità costituzionale

3 Così DOC XXIII N. 16, pagg. 92 e seguenti.

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dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, in riferimento agli artt. 3, 5, 23, 25, 27, 77, 97, 114, 117, secondo e terzo comma, 118, primo e secondo comma, 119 e 120, secondo comma, Costituzione, nonché all’art. 117, primo comma, Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

A parere della Regione la norma in argomento, novellando l’art. 143 del TUEL, inserendovi il comma 7-bis, sarebbe gravemente lesiva dell’autonomia degli enti locali in quanto detterebbe una disciplina irragionevole, in contrasto con il principio di legalità, di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione e sarebbe, altresì, in violazione del principio autonomistico, introducendo provvedimenti di sostituzione e di commissariamento «la cui logica è del tutto incomprensibile».

Infatti, la Regione ricorrente censura l’estrema ampiezza dei presupposti legittimanti l’esercizio dei poteri sostitutivi e di commissariamento da parte dei prefetti, evincibile dal generico riferimento a «condotte illecite», alla semplice «alterazione delle procedure», al «buon andamento», al «regolare funzionamento dei servizi». In tal modo la disposizione apre un campo così indefinito, tale che l’autonomia degli enti locali finisce per essere aperta alle discrezionali determinazioni dell’esecutivo statale sul territorio regionale.

Intervenendo nel merito, la difesa dello Stato ha osservato che quello previsto dalla disposizione censurata è un potere straordinario riconosciuto al prefetto, rappresentante dello Stato sul territorio, nel caso in cui, all’esito dell’attività di accesso, pur non rinvenendosi elementi concreti, univoci e rilevanti per disporre lo scioglimento degli organi degli enti locali, tuttavia siano state riscontrate in relazione a uno o più settori amministrativi, anomalie e illiceità tali da determinare uno sviamento dell’attività dell’ente, nonché un’alterazione delle procedure atte a compromettere il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione e il regolare funzionamento dei servizi a essa affidati. Il potere sostitutivo è attribuito al prefetto, cui è riconosciuto tradizionalmente un potere di vigilanza sull’andamento delle pubbliche amministrazioni sul territorio. È il prefetto che avvia un’interlocuzione con l’amministrazione locale interessata, un’attività di mediazione che prevede anche ogni utile supporto tecnico-amministrativo a mezzo dei propri uffici, con l’individuazione degli interventi prioritari da assumere per il risanamento dell’ente, fissando un termine per l’adozione degli stessi. Solo se il termine è disatteso, si configura l’ipotesi di nomina del commissario ad acta prevista, dunque, come extrema ratio. Di talché, non sarebbe violata in alcun modo l’autonomia dell’ente.

La difesa erariale ha insistito sulla circostanza che la disposizione censurata non contempla un intervento sugli amministratori e sull’ente locale, ma un intervento dell’autorità statale, rientrante nell’ambito delle sue competenze, qualora emergano situazioni sintomatiche di condotte gravi e reiterate e di mala gestio, condotte di cui possono essere responsabili sia gli organi di governo sia l’apparato burocratico.

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Gli approfondimenti

La Corte costituzionale, nonostante abbia riconosciuto le finalità della disposizione con cui il legislatore ha operato “nel tentativo di costruire uno strumento correttivo meno invasivo dello scioglimento dei consigli comunali e provinciali, nonché più duttile degli ordinari interventi sostitutivi”; ha rilevato che la disposizione in esame disegna “un potere prefettizio sostitutivo extra ordinem, ampiamente discrezionale, sulla base di presupposti generici e assai poco definiti, e per di più non mirati specificamente al contrasto della criminalità organizzata; ossia complessivamente in termini tali da non essere compatibili con l’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali territoriali”4.

Più nel dettaglio, il Giudice delle leggi ha ritenuto “inspiegabile”5 la circostanza in base alla quale il potere prefettizio sia esercitabile solo qualora le “situazioni sintomatiche di condotte illecite gravi e reiterate” tali da compromettere il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione interessata, siano rilevate nell’ambito della procedura che si conclude con la relazione prefettizia che rileva l’assenza dei presupposti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali o per l’adozione di provvedimenti correttivi dell’azione dell’ente o sanzionatori dei dipendenti coinvolti nelle infiltrazioni mafiose, non prevedendo che analogo potere possa essere esercitato, pur in presenza di situazioni analoghe, nell’ambito di una diversa procedura di controllo. Inoltre, le «condotte illecite, gravi e reiterate» che “non possono consistere in meri atti illegittimi per i quali è già previsto un rimedio in chiave di potere sostitutivo” (il riferimento è agli articoli 137 e 138 del TUEL)6.

La Corte costituzionale ha evidenziato come la norma censurata attribuisca al prefetto “che ritenga sussistere una situazione di mala gestio dell’ente, non già un potere d’impulso e sollecitatorio dell’adempimento di obblighi di legge (come, ad esempio, nel procedimento che può condurre alla deliberazione dello stato di dissesto dell’ente ex art. 243-quater, comma 7, T.U.E.L.), bensì quello ben più incisivo della diretta individuazione, ampiamente discrezionale, di «prioritari interventi di risanamento» da cui sorge, per l’ente locale, l’obbligo di conformazione.

L’insufficiente determinazione del presupposto del potere sostitutivo risulta così aggravata dalla latitudine del suo contenuto atipico e indifferenziato”, allorquando la stessa Corte costituzionale ha sancito che «ogni potere amministrativo deve essere determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa»7. Pertanto non è sufficiente “che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa”. L’attribuzione di un potere amministrativo in capo al prefetto non determinato nel contenuto e nelle modalità comporta, ad avviso

4 (Cfr. considerando in diritto n. 10, ultimi due capoversi).5 (Cfr. considerando in diritto n. 13).6 (Cfr. considerando in diritto n. 13).7 (Sentenza Corte cost. n. 115 del 2011).

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della Corte, non solo la lesione del principio di legalità, ma anche una lesione del principio di autonomia costituzionalmente garantita agli enti locali (sancito, in linea di principio, agli artt. 5 e 114, secondo comma, della Costituzione, con riferimento alla titolarità di funzioni amministrative proprie dall’art.118, secondo comma, Cost., e con riguardo all’autonomia finanziaria, 119, primo comma).

D’altra parte, a parere del Giudice delle leggi, il potere sostitutivo, che la disposizione pone in capo al prefetto, avrebbe dovuto essere invece attribuito al Governo, nel rispetto “del canone dell’art. 120, secondo comma, Cost., secondo cui i poteri sostitutivi devono essere esercitati secondo il principio di sussidiarietà e di leale collaborazione” Tale principio richiede che “quanto più il potere sostitutivo, incidente nell’autonomia dell’ente locale territoriale, presenta una connotazione di discrezionalità nei presupposti e nel contenuto, tanto più il livello di assunzione di responsabilità si eleva da quello amministrativo (provvedimento del prefetto) a quello politico (deliberazione del Governo)”8.

Occorre peraltro precisare che la Corte non pone in discussione, in astratto, la finalità della disciplina, e, in quest’ottica, precisa che rimane “nella discrezionalità del legislatore riformulare la norma in termini compatibili con il principio di legalità dell’azione amministrativa e con la garanzia di autonomia costituzionalmente garantita di cui godono gli enti locali territoriali”9.

Sul punto la Corte richiama l’architettura del TUEL che demanda al Governo il potere di intervento sostitutivo in ambiti che incidono significativamente sugli ambiti di autonomia dell’ente locale, come nei casi di sua inattività qualificata (art. 138), di atti viziati da illegittimità (art. 139), di malfunzionamento di organi e servizi o di gravi e persistenti violazioni di legge (art. 141) e per gravi motivi di ordine pubblico (art. 142). Solo nel caso in cui gli ambiti siano meno invasivi e più circoscritti, siffatto potere è attribuito al prefetto. Si pensi ai casi di inosservanza degli obblighi di convocazione del consiglio (art. 39), di inerzia del sindaco nell’esercizio di funzioni statali (art. 54), o per motivi di grave e urgente necessità nei procedimenti di cui agli artt. 141, 142 e 143 (in tali ultime fattispecie peraltro solo in via provvisoria).

Invero, nel nostro ordinamento vige la disposizione di cui all’art. 135 TUEL che, in caso di tentativi di infiltrazioni di tipo mafioso nelle attività dell’ente locale, prevede già un potere di iniziativa del prefetto che può richiedere ai competenti organi statali e regionali gli interventi di controllo e sostitutivi previsti dalla legge; interventi in ipotesi già attivati proprio con il procedimento di cui al suddetto art. 143, ma sfociati nel decreto di conclusione del procedimento di cui al comma 7 della medesima disposizione. La Sezione I del Consiglio di Stato10 ha ritenuto che l’abrogazione dell’art. 130 della Costituzione, ad opera dell’art. 9 comma 2 della Legge Costituzionale n. 3/2001, non abbia comportato il venir meno dei controlli affidati al prefetto dall’art. 135 TUEL in ordine alle deliberazioni degli enti locali

8 (Cfr. considerando in diritto n. 15). 9 (Cfr. considerando in diritto n. 16).10 Cfr. Consiglio di Stato Sez. I, 26/11/2003, n. 1006.

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Gli approfondimenti

relative ad acquisti, alienazioni, appalti ed in generale a tutti i contratti. I giudici di Palazzo Spada hanno stabilito che, in base ad elementi che facciano presumere infiltrazioni di tipo mafioso nello svolgimento di dette attività, l’intervento prefettizio non configura un controllo esterno dell’amministrazione statale sulla legittimità degli atti dell’ente locale, ma è espressione di un potere indirizzato alla salvaguardia di interessi fondamentali inerenti all’ordine ed alla sicurezza pubblica, che l’art. 117, comma 3, lett. h), della Costituzione riserva alla legislazione esclusiva dello Stato.

De jure condendo l’individuazione di una “terza via” invocata dalla la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle Mafie e sulle altre associazioni criminali deve rispettare le condizioni e i limiti elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, la quale ha più volte ribadito la necessità «che l’esercizio dei poteri sostitutivi sia previsto e disciplinato dalla legge, la quale deve altresì definirne i presupposti sostanziali e procedurali; che la sostituzione riguardi il compimento di atti o attività prive di discrezionalità nell’an; che il potere sostitutivo sia esercitato da un organo di Governo o sulla base di una decisione di questo; che la legge predisponga congrue garanzie procedimentali, in conformità al principio di leale collaborazione»11.

A tale fine, potrebbe essere incentivata la sottoscrizione di “protocolli di vigilanza collaborativa” tra lo Stato, attraverso i prefetti, e gli enti locali nei confronti dei quali dall’accertamento effettuato ai sensi dell’art. 143, comma 2, del TUEL, non sono emersi “ concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata”, ma elementi sintomatici di pregiudizio del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa da loro svolta. La sottoscrizione di tali “protocolli di vigilanza collaborativa” introdurrebbe, così, nell’ente locale in sofferenza un sistema di audit, finalizzato a sostenere ogni iniziativa gestionale e organizzativa idonea a rafforzare il buon andamento, l’imparzialità e l’efficienza dell’ente locale, nonché a prevenirne tentativi di infiltrazione criminale.

11 (Cfr. anche Corte costituzionale n. 240 del 2004; in senso conforme n. 383 del 2005; già richiamate nella sentenza n. 2 del 2010).

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LIBERTÀ CIVILI E IMMIGRAZIONE

Il panorama normativo europeo e nazionale riguardante la lista dei Paesi di origine sicuri nell’ambito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale

Laura Visone

Il concetto di “Paese di origine sicuro”, ai fini della semplificazione dell’esame della domanda di asilo, è stato sviluppato a livello comunitario dalla direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (“direttiva procedure”). La direttiva è stata recepita nell’ordinamento italiano con il d.lgs. 142/2015 – che ha modificato il d.lgs. 25/2008 di attuazione della prima direttiva procedure del 2005 – senza tuttavia attivare il meccanismo di Paese di origine sicuro.

L’articolo 36 della direttiva procedure stabilisce che un Paese non appartenente all’Unione europea può essere considerato di origine sicuro per un determinato richiedente, previo esame individuale della domanda, solo se questi ha la cittadinanza di quel Paese ovvero è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese.

In base all’articolo 37 della direttiva gli Stati membri possono introdurre una normativa che consenta di designare a livello nazionale Paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale. La valutazione volta ad accertare che un Paese è di origine sicuro deve basarsi su una serie di fonti di informazioni, comprese le informazioni fornite da altri Stati membri, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.

Al riguardo, l’allegato I della direttiva prevede che un Paese è considerato di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, è possibile dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni, nè tortura o altre forme di trattamento disumano o degradante, nè pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Per effettuare tale valutazione, la normativa europea prevede dei criteri a supporto: si dovrà tener conto della normativa esistente nel Paese e di come essa è applicata, del rispetto dei diritti e delle libertà previsti dalla normativa internazionale, dell’esistenza di un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di diritti e libertà e del principio di non-refoulement, di cui all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra.

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Gli approfondimenti

In particolare, in base al principio di non-refoulement è posto il divieto assoluto di espulsione e di respingimento del rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

Nell’ottica di rafforzare le disposizioni sui Paesi di origine sicuri di cui alla direttiva procedure, a sostegno del rapido trattamento delle domande di asilo presentate da persone provenienti da paesi designati sicuri, il 9 settembre 2015 la Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un elenco comune dell’UE di paesi di origine sicuri ai fini della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale, e che modifica la direttiva 2013/32/UE (COM(2015)452).

Tale proposta è stata successivamente assorbita nella proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio (COM(2016)467), che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE, presentata il 13 luglio 2016 dalla Commissione europea e tuttora ancora oggetto dell’iter legislativo.

La proposta, che mira ad armonizzare gradualmente le norme relative al Paese di origine sicuro fino a sostituire le diverse procedure degli Stati membri, contiene in allegato l’elenco comune UE dei paesi di origine sicuri, che comprende Albania, Bosnia-Erzegovina, Ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia, Turchia.

Nell’intenzione del legislatore europeo, l’introduzione di norme uniche sui Paesi sicuri è determinante per l’efficacia di una procedura che, muovendo dalla presunzione relativa che il Paese di origine del richiedente sia sicuro, consenta allo Stato membro di esaminare la domanda in via accelerata; laddove poi la domanda sia respinta su tale base per manifesta infondatezza, la relativa impugnazione non determina automaticamente un effetto sospensivo.

Al fine di sostituire gradualmente gli elenchi nazionali con un unico elenco europeo, la proposta di regolamento prevede una clausola di caducità, in base alla quale gli Stati membri possono mantenere le designazioni nazionali di Paese di origine sicuro soltanto per un periodo massimo di cinque anni a decorrere dall’entrata in vigore del regolamento.

Per completezza, si soggiunge che la suddetta proposta normativa deve inquadrarsi nell’ambito del processo di riforma complessivo del Sistema comune europeo di asilo avviato nel 2016, che, attraverso sette proposte normative, ricomprende tutti gli aspetti relativi alla gestione delle domande di protezione internazionale e dei relativi richiedenti nell’UE, compresa la revisione della disciplina sui criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide (regolamento Dublino).

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Libertà civili e immigrazione

Tuttavia la proposta di regolamento non è stata ancora approvata e quindi, al momento, nella materia in esame si applica la direttiva 2013/32/UE e ogni Stato dell’Unione europea ha facoltà di adottare una propria lista di Paesi di origine sicuri, ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale.

Attualmente, gli Stati membri che hanno adottato una lista dei Paesi di origine sicuri sono: Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Estonia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Slovacchia, Slovenia, Regno Unito1.

L’Italia, fino al 2018, non aveva ancora attuato il citato art. 37 della direttiva procedure: con il decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (“Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”), convertito, con modificazioni, dalla legge 1 dicembre 2018, n. 132 è stata introdotto, in sede di conversione, un articolo 7-bis rubricato “Disposizioni in materia di Paesi di origine sicuri e manifesta infondatezza della domanda di protezione internazionale”.

La norma, che inserisce un articolo 2-bis nel decreto legislativo 25/2008 (“Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”), prevede l’adozione, con decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, di un elenco di Paesi di origine sicuri, che viene a sua volta comunicato alla Commissione europea.

I parametri per la valutazione del Paese per il suo inserimento nell’elenco sono: l’ordinamento giuridico, l’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e la situazione politica generale.

Sulla base di tali parametri, un Paese è inserito nell’elenco se “si può dimostrare che, in via generale e costante” non si verificano al suo interno: atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del d.lgs. 251/2007 (“Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”); tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante; pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Il comma 2 dell’art. 2-bis specifica, inoltre, che la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone.

Per affermare che un Paese è di origine sicuro, si deve tener conto, oltre al grado di rispetto da parte dello Stato dei diritti fondamentali, anche della misura in cui è offerta protezione contro persecuzioni e maltrattamenti, mediante: le disposizioni

1 Altri Paesi (quali Finlandia e Norvegia) non possiedono una lista ma il concetto di Paese di origine sicuro viene utilizzato, nel senso che un Paese può essere considerato sicuro per un richiedente solo a seguito di una valutazione nel merito del suo caso.

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Gli approfondimenti

legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; il rispetto del principio di non-refoulement previsto dalla Convenzione di Ginevra; il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (ratificata ai sensi L. 848/1955), nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma il 19 dicembre 1966 (ratificato ai sensi della legge 881/1977), nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984.

Ancora, per affermare se un Paese è effettivamente di origine sicuro, occorre verificare se vige nello Stato un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.

In base alla disposizione esaminata, la valutazione volta ad accertare se uno Stato è un Paese di origine sicuro si basa sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, che si avvale anche delle notizie elaborate dal centro di documentazione sulla situazione socio-politica ed economica dei Paesi di origine dei richiedenti istituito presso la medesima Commissione.

Inoltre, ai fini della compilazione dell’elenco si tengono conto in particolare delle informazioni fornite da altri Stati membri dell’Unione europea, dall’EASO (l’Ufficio UE di sostegno per l’asilo con sede a La Valletta, Malta), dall’UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati) dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.

Analogamente a quanto previsto dall’articolo 36 della direttiva 2013/32/UE, l’art.2-bis stabilisce che una volta inserito nell’elenco dei Paesi di origine sicuri, uno Stato può essere considerato sicuro per un richiedente protezione internazionale se vi ha cittadinanza o se è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova.

Si sottolinea che, il medesimo art.7-bis, lett. c) del d.l. 113/2018 ha modificato l’art.10 del d.lgs. 25/2008, prevedendo l’obbligo per l’ufficio di polizia di avvisare il richiedente asilo, all’atto della presentazione della domanda, che, se egli proviene da un Paese di origine sicuro, la sua domanda potrebbe essere respinta. A tal fine, la Commissione nazionale è tenuta ad indicare nell’opuscolo informativo che illustra le procedure dell’esame della domanda e i diritti del richiedente, anche l’elenco dei Paesi di origine sicuri.

La domanda presentata da un cittadino straniero proveniente da un Paese di origine sicuro è considerata manifestamente infondata (art. 28-ter, lett.b) del d.lgs. 25/2008): la decisione di rigetto pronunciata dalla Commissione territoriale è motivata dando atto esclusivamente che il richiedente non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere tale Paese non sicuro in relazione alla situazione particolare del richiedente stesso.

Nel rispetto dei vincoli eurounitari (si veda, in particolare, il considerando 42 della direttiva 2013/32/UE), infatti, è previsto che quando un richiedente dimostri che vi sono validi motivi per non ritenere sicuro il Paese di provenienza, per la sua

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Libertà civili e immigrazione

situazione particolare, la designazione del Paese come sicuro non può più applicarsi al suo caso.

Con il nuovo articolato normativo si applica, pertanto, un principio di presunzione legale semplice, in quanto il valore probatorio è attribuito direttamente dalla legge ma è ammessa prova contraria.

La domanda è esaminata in via prioritaria (art. 28 del d.lgs 25/2008) e con procedura accelerata (art. 28-bis del medesimo decreto legislativo), ossia con termini abbreviati, e rientra tra quelle che possono essere svolte in frontiera2.

In un’ottica di riduzione dei tempi dei procedimenti amministrativi e giurisdizionali, si fa presente che l’art. 35-bis del d.lgs 25/2008, come modificato dal d.l.113/2018, ha stabilito che la presentazione del ricorso avverso la decisione di rigetto adottata in via amministrativa non determina la sospensione automatica degli effetti del provvedimento adottato nei confronti del richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro: tale circostanza può determinare la possibilità di allontanare immediatamente lo straniero dal territorio nazionale, ove tale sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento non venga disposta dal giudice su istanza dell’interessato.

Si segnala infine che il decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia che individua i Paesi di origine sicuri, in attuazione dell’art.2-bis del d.lgs 25/2008, è stato adottato il 4 ottobre u.s. e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 235 del 7 ottobre u.s..

Il provvedimento individua i seguenti Paesi di origine sicuri: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, Tunisia e Ucraina.

2 In base all’art. 28-bis, comma 1-quater del decreto legislativo 25/2008 (“Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”), le zone di frontiera o di transito sono individuate con decreto del Ministro dell’interno. Con il medesimo provvedimento possono peraltro essere istituite fino a cinque ulteriori sezioni delle Commissioni territoriali. A titolo informativo si segnala che il decreto è stato approvato il 5 agosto u.s. ed è stato pubblicato nella G.U. n. 210 del 7 settembre u.s..

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SICUREZZA PUBBLICA E ANTIMAFIA

Le nuove disposizioni in materia di contrasto dei fenomeni di violenza in occasione delle manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico

Michele Meloni

Nella Gazzetta Ufficiale n. 186 del 9 agosto scorso è stata pubblicata la legge 8 agosto 2019, n. 77, di conversione del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica.

Il provvedimento, composto da 18 articoli, è suddiviso in tre capi, il primo dei quali, comprendente gli articoli da 1 a 7, reca disposizioni urgenti in materia di contrasto all’immigrazione illegale e di ordine e sicurezza pubblica. Il capo II (articoli da 8 a 12) contiene disposizioni urgenti per il potenziamento dell’efficacia dell’azione amministrativa a supporto delle politiche di sicurezza, mentre il capo III (articoli da 13 a 17) riguarda disposizioni urgenti in materia di contrasto alla violenza in occasione di manifestazioni sportive.

A seguito dei diversi fatti di cronaca, che hanno visto degenerare manifestazioni pubbliche, partite da contestazioni poi sfociate in episodi di violenza, con grave rischio per l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché per l’incolumità dei presenti, il legislatore ha ritenuto necessario un intervento finalizzato a rafforzare l’impianto normativo, sotto il profilo preventivo e sanzionatorio, in relazione ad alcune fattispecie penalmente rilevanti, costituite da particolari condotte tenute nel corso di pubbliche manifestazioni.

In tale contesto, gli articoli 6 e 7 del provvedimento normativo in esame intervengono sulle disposizioni poste a presidio del regolare e pacifico svolgimento delle manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico, assicurando, altresì, maggiore tutela agli operatori delle Forze di polizia impegnati in servizi di ordine pubblico.

Più in particolare, è previsto un intervento di modifica alla legge 22 maggio 1975, n. 152 (la cosiddetta legge Reale) con l’inasprimento dell’impianto sanzionatorio in caso di reati, compiuti nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, da parte di soggetti che utilizzino caschi protettivi, o qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, senza giustificato motivo.

È introdotto, altresì, un nuovo articolo 5-bis nella citata legge n. 152/1975, che punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato e fuori dai casi di cui agli articoli 6-bis e 6-ter della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (relativi alla materia di

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Sicurezza pubblica e antimafia

manifestazioni sportive, già specificamente disciplinate), con la reclusione da uno a quattro anni, la condotta di chi, nel corso delle manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, lanci o utilizzi illegittimamente, in modo da creare un concreto pericolo per l’incolumità delle persone o l’integrità delle cose, razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti, ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere.

L’articolo 7 reca alcune modifiche al codice penale, con l’introduzione, in primo luogo, di una specifica circostanza aggravante per i reati di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale, qualora le condotte siano poste in essere durante manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico. Aggravante che viene prevista anche in relazione al reato di cui all’articolo 340 c.p. (Interruzione di ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità), nel caso in cui la condotta incriminata sia posta in essere nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, nonché in relazione alle condotte di danneggiamento, devastazione e saccheggio compiute nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico.

Nell’ambito del provvedimento in esame, particolare attenzione è rivolta anche al preoccupante fenomeno della violenza negli stadi, nonché a quello derivante dalla vendita non autorizzata di biglietti in occasione di manifestazioni sportive (il cosiddetto bagarinaggio). In sintesi, è disposto l’ampliamento del divieto di accesso alle stesse manifestazioni (DASPO), l’estensione delle tutele agli arbitri e agli altri soggetti che garantiscono la regolarità delle competizioni, nonché l’estensione delle possibilità di ricorso all’arresto in flagranza differito.

Le disposizioni previste nel capo III del provvedimento, pertanto, intervengono in maniera organica sulla disciplina complessiva, attraverso il rafforzamento degli strumenti di contrasto dei suddetti fenomeni.

In particolare, l’articolo 13 specifica i presupposti applicativi del provvedimento con il quale il questore dispone il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive (il cosiddetto DASPO). La disposizione consente il ricorso alla predetta misura anche in occasione e a seguito di comportamenti posti in essere in ambiti anche non ricollegabili a eventi sportivi (come, ad esempio, nel corso di manifestazioni politiche). Pertanto, il provvedimento restrittivo si applica non solo a soggetti che abbiano dimostrato la loro pericolosità nell’ambito di manifestazioni sportive, ma anche a quelli a carico dei quali tale pericolosità risulti aliunde, in quanto destinatari di denuncia o condanna, anche non definitiva, per specifici reati, ritenuti di particolare allarme sociale.

La disposizione appare conforme ai princìpi espressi dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 41501 del 4 ottobre 2016, la quale, in riferimento all’applicazione di un DASPO per comportamenti violenti posti in essere nell’ambito di manifestazioni di natura politica, ha riconosciuto la correttezza costituzionale dell’interpretazione del tribunale di Livorno, basata sulla “scelta discrezionale che ben può essere fatta dal legislatore, onde rafforzare la tutela pubblica di fenomeni sociali, quali quelli

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Gli approfondimenti

sportivi, di amplissima fruizione da parte della collettività nazionale e per questa ragione evidentemente considerati dal legislatore stesso di preminente interesse pubblico”.

La Corte di Cassazione (Sez. III, sentenza 16.01.2017, n. 1767), peraltro, in tal senso ha stabilito che l’espressione “in occasione o a causa di manifestazioni sportive” non deve essere intesa nel senso che gli atti di violenza o comunque le restanti condotte che possano condurre all’adozione dei provvedimenti di DASPO debbano essersi verificati durante lo svolgimento della manifestazione sportiva, ma nel senso che con essa si configuri un nesso eziologico, ancorché non di contemporaneità. L’obiettivo è quello di prevenire, in modo sempre più efficace, i fenomeni di violenza, tali da mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza pubblica, laddove questi siano connessi non solo con la pratica sportiva ma con l’insorgenza di quegli incontrollabili stati emotivi e passionali che, tanto più ove ci si trovi di fronte ad una moltitudine di persone, risultino ancora più potenzialmente a rischio (si pensi, a titolo di esempio, all’appartenenza a frange organizzate di tifosi).

In tal senso, all’elenco dei reati già considerati si aggiunge la fattispecie della rissa, ai sensi dell’articolo 588 del codice penale, proprio in considerazione dell’elevato rischio per la sicurezza pubblica derivante dalla presenza di soggetti, nell’ambito di pubbliche manifestazioni, che abbiano posto in essere condotte penalmente rilevanti, riconducibili alla predetta fattispecie.

La disposizione prevede, inoltre, che la misura sia applicabile anche alle condotte connesse ai reati di terrorismo, a seguito delle modifiche introdotte dal decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132 (il “primo” decreto sicurezza).

Si chiarisce, inoltre, che i provvedimenti analoghi al DASPO, disposti dalle competenti autorità degli altri Stati membri dell’Unione europea secondo i rispettivi ordinamenti nazionali, sono applicabili anche in relazione a manifestazioni sportive svolgentisi in Italia; e che, ai fini dell’emanazione del suddetto provvedimento, i fatti commessi all’estero possono essere accertati non solo dall’autorità straniera competente, ma anche dalle Forze di polizia italiane.

Ciò al fine di favorire le condizioni per un immediato ed efficace scambio dei flussi informativi anche con le autorità dei Paesi esteri.

Si prevede, altresì, un inasprimento sanzionatorio, relativo alla durata dell’applicazione del DASPO per i recidivi, nonché per coloro che violano il divieto.

Di particolare importanza l’istituto della riabilitazione, per la quale deve essere fornita la prova di una costante ed effettiva buona condotta, intesa come ravvedimento operoso, che si concretizza nella riparazione integrale del danno eventualmente prodotto, anche tramite il risarcimento in forma specifica laddove possibile, nonché nella concreta attività di collaborazione offerta dal responsabile con l’autorità di polizia o con l’autorità giudiziaria, al fine di individuare gli altri autori o partecipanti ai fatti per i quali è stato adottato il divieto. Infine, è prevista per i responsabili la possibilità di svolgere lavori di pubblica utilità, senza oneri a carico della finanza pubblica.

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Sicurezza pubblica e antimafia

Il questore, al momento dell’adozione del provvedimento di DASPO, può imporre alle persone che risultino definitivamente condannate per delitti non colposi il divieto di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, radar e visori notturni, indumenti e accessori per la protezione balistica individuale, mezzi di trasporto blindati o modificati al fine di aumentarne la potenza o la capacità offensiva, ovvero comunque predisposti al fine di sottrarsi ai controlli di polizia, armi di modesta capacità offensiva, riproduzioni di armi di qualsiasi tipo, compresi i giocattoli riproducenti armi, altre armi o strumenti in libera vendita in grado di nebulizzare liquidi o miscele irritanti, non idonei ad arrecare offesa alle persone, prodotti pirotecnici di qualsiasi tipo, sostanze infiammabili e altri mezzi comunque idonei a provocare lo sprigionarsi delle fiamme, nonché programmi informatici e altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi. Tale disposizione riproduce la disciplina già prevista in materia di avviso orale e sorveglianza speciale.

Le condotte di violenza, minaccia o lesioni personali gravi o gravissime, poste in essere nei confronti dell’arbitro e degli altri soggetti deputati a verificare la regolarità tecnica delle manifestazioni sportive, sono soggette alla medesima pena già prevista per gli analoghi comportamenti diretti contro gli addetti ai controlli.

Il comma 2 interviene in relazione al divieto di agevolazioni nei confronti dei soggetti destinatari del provvedimento DASPO, fino a che non sia intervenuta la riabilitazione del questore, al fine di consentire l’accesso a sovvenzioni, contributi e facilitazioni di qualsiasi natura, compresa l’erogazione a prezzo agevolato o gratuita di biglietti e abbonamenti o di titoli di viaggio.

L’articolo 14 estende l’applicabilità del fermo di indiziato di delitto ai reati commessi in occasione o a causa delle manifestazioni sportive, la cui pena edittale non consentirebbe il ricorso al fermo di cui all’articolo 384 del codice di procedura penale. Molti di questi reati, infatti, prevedono una pena edittale minima inferiore al limite di due anni previsto dall’articolo 384 per l’applicazione della misura cautelare.

L’articolo 15 rende permanente la disciplina dell’arresto differito per determinati reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, introdotta come norma temporanea nel 2001 e poi costantemente prorogata nel corso degli anni.

Si evidenzia, al riguardo, che lo strumento dell’arresto differito rappresenta una delle misure più efficaci del sistema delle misure di contrasto della violenza sportiva, costituendo uno dei principali fattori della positiva inversione di tendenza registratasi con riguardo agli episodi di violenza durante le manifestazioni sportive, soprattutto nell’ambito delle competizioni calcistiche. Parallelamente, si procede alla stabilizzazione della disciplina concernente l’arresto differito per reati commessi con violenza alle persone o alle cose, compiuti alla presenza di più persone anche in occasioni pubbliche.

L’articolo 16 apporta modifiche agli articoli 61 e 131-bis del codice penale. In particolare: – al comma 1, lettera a), si prevede l’ampliamento del novero delle circostanze aggravanti comuni, aggiungendo all’articolo 61 del codice penale

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Gli approfondimenti

la circostanza consistente nell’aver commesso il fatto in occasione o a causa di manifestazioni sportive oppure durante i trasferimenti da o verso i luoghi in cui le stesse si svolgono. Anche tale disposizione si inserisce nell’ambito di un programma teso al generale rafforzamento e aggravamento delle misure volte al contrasto dei fenomeni di violenza connessi allo svolgimento di competizioni sportive; – al comma 1, lettera b), si modifica l’articolo 131-bis, secondo comma, del codice penale, prevedendo un’ulteriore ipotesi di offesa non qualificabile come fatto di particolare tenuità, in relazione ai delitti commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, ovvero nei casi di resistenza, violenza, minaccia e oltraggio compiuto nei confronti di pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni. Si tratta di una disposizione necessaria al fine di garantire la punizione degli autori dei reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, per cui si ritiene che il disvalore di tali condotte non possa mai costituire condotta di lieve entità a causa dell’allarme sociale che determina.

L’articolo 16-bis, introdotto nel corso dell’esame presso la Camera dei deputati, prevede la possibilità per il sindaco di ordinare l’allontanamento dalle stazioni ferroviarie e marittime, dagli aeroporti e dalle banchine degli autobus per coloro che in tali luoghi commettono atti di bagarinaggio (estensione del DASPO urbano in caso di vendita non autorizzata di biglietti per accedere alle manifestazioni sportive).

L’articolo 17 modifica l’articolo 1-sexies del decreto-legge 24 febbraio 2003, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2003, n. 88, recante sanzioni volte a colpire il citato fenomeno di bagarinaggio, eliminando il riferimento ai luoghi in cui si svolge la manifestazione sportiva e a quelli interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono a tali manifestazioni. In tal modo, qualunque condotta di vendita non autorizzata di biglietti per accedere alle manifestazioni sportive, anche se effettuata per via telematica, potrà essere colpita con sanzione amministrativa.

La disposizione, inoltre, chiarisce che il divieto opera sia nei confronti delle persone fisiche che nel caso di enti forniti di personalità giuridica e di società e associazioni anche prive di personalità giuridica.

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Rivista trimestrale della Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia

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Gli approfondimenti

Le novità nella disciplina delle armi e delle munizioni introdotte dal decreto di recepimento della direttiva (UE) 2017/853

Sandro Zappi

Sulla Gazzetta Ufficiale (serie generale) n. 209 dell’8 settembre scorso è stato pubblicato il decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 104, di recepimento della direttiva (UE) 2017/853 del 17 maggio 2017. Si tratta di una direttiva di modifica della precedente n. 91 /477/CEE in materia di controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi e munizioni all’interno dell’Unione. Il decreto legislativo costituisce attuazione delle norme di delega contenute negli articoli 1, 2 e nell’Allegato A della legge 25 ottobre 2017, n. 163 (Legge di delegazione europea 2016-2017).

Contesto e obiettivi dell’intervento di regolamentazione

La nuova direttiva europea è maturata a seguito dell’ondata di attentati terroristici di matrice islamico-radicale che hanno colpito Parigi e Copenhagen nei primi mesi del 2015. A tali attentati fecero seguito, nello stesso anno, quello tentato sul treno Thalys e gli attacchi del 13 novembre a Parigi. Dalle indagini svolte erano emerse forme di collaborazione tra organizzazioni criminali e gruppi terroristici nella fornitura delle armi impiegate e delle loro parti da assemblare ed era risultato che comunque la loro acquisizione (anche attraverso internet) ed il loro impiego erano stati agevolati da una regolazione difforme tra i vari Stati membri, in ogni caso non più sufficiente ad assicurare livelli adeguati di sicurezza.

Nell’ambito degli approfondimenti operati dai competenti organismi tecnici erano state individuate, perciò, insufficienze cruciali dell’attuale disciplina europea in relazione alle quali sono state formulate proposte che hanno dato corpo alla direttiva 853/2017, di modifica di quella del 1991. Ecco le principali:

a. l’introduzione di norme comuni in materia di modalità con cui devono essere marcate e armi da fuoco e le loro parti essenziali, allo scopo di assicurare maggiori possibilità di controllo e di tracciamento della circolazione all’interno della U.E.;

b. l’introduzione di limitazioni del numero dei colpi che possono essere contenuti dai caricatori o serbatoi di determinati tipi di armi, l’espresso divieto di circolazione di oggetti di particolare insidiosità, nonché la limitazione della possibilità di acquisto e possesso di determinate armi per uso sportivo soltanto agli effettivi praticanti l’attività agonistica;

c. la previsione di un regime comune minimo, più rigoroso, in tema di requisiti soggettivi per l’acquisizione di un’arma, con particolare riguardo ai requisiti psico-

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Sicurezza pubblica e antimafia

fisici, l’obbligo di un loro monitoraggio periodico, comunque non superiore ai 5 anni, nonché norme più stringenti in tema di custodia delle armi da parte dei detentori;

d. l’istituzione di uno strumento di collegamento elettronico che consenta agli armaioli e agli intermediari di trasmettere le informazioni relative alle transazioni eseguite alle autorità nazionali via e-mail o di inserirle direttamente in una banca dati o altro registro;

e. la previsione che gli Stati membri scambino con mezzi elettronici (dunque con estrema rapidità ed in modo standardizzato) le informazioni sulle autorizzazioni rilasciate per i trasferimenti di armi da fuoco verso un altro Stato membro e le informazioni relative alle autorizzazioni rifiutate in base all’affidabilità della persona interessata;

f. la previsione di una più rigorosa disciplina per l’acquisizione di armi da fuoco per corrispondenza o comunque mediante contratto a distanza, ad es., on-line.

L’iter del decreto legislativo

L’analisi svolta nella fase istruttoria del decreto legislativo ha evidenziato che, benchè la vigente disciplina nazionale italiana, notoriamente tra le più rigorose, fosse già in linea con una parte dei nuovi obblighi europei, essa non corrispondeva ai dettami della direttiva e richiedeva, pertanto, un adeguamento in alcuni punti, che sono stati oggetto dello schema di decreto legislativo approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri l’11 maggio 2018.

Tuttavia, il Governo che approvò tale schema di decreto legislativo (Gentiloni) era espressione di un Parlamento assai diverso da quello uscito dal turno elettorale del 4 marzo 2018, che ha espresso una maggioranza di altro segno politico, alla quale è poi toccato pronunciarsi sul provvedimento prima in sede di parere delle competenti Commissioni parlamentari e, poi, in sede di approvazione definitiva dello schema di decreto, nel Consiglio dei Ministri dell’8 agosto scorso.

In tale passaggio, il contenuto del provvedimento ha subito significativi cambiamenti, prodotti da una ‘visione’ politica assai cambiata, orientata alla ricerca di ben diversi punti di sintesi tra le finalità restrittive delle disposizioni comunitarie e le istanze provenienti dagli appassionati e dagli operatori economici del settore.

Va ricordato che nel corso dell’esame parlamentare le Commissioni I, V e XIV − dopo aver audito organizzazioni e personalità esponenziali delle categorie produttive e comunque del settore privato (e solo alla Camera anche il Dipartimento della pubblica sicurezza) − hanno espresso parere favorevole al testo approvato dal Governo Gentiloni in via preliminare, formulando però ben 15 condizioni e 17 osservazioni al Senato e ulteriori 2 condizioni e 12 osservazioni alla Camera, per un totale di 17 condizioni e 29 osservazioni su un articolato di soli 15 articoli.

I contenuti del recepimento sono stati dunque ritoccati e rivisti in punti sostanziali e sono state introdotte non poche nuove disposizioni espressamente richieste dalle Commissioni parlamentari come condizioni e osservazioni.

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Gli approfondimenti

Le novità introdotte dal decreto nella disciplina delle armi e delle munizioni

Il decreto non si presenta come una serie unitaria ed omogenea di articoli tra loro consequenziali, bensì come successione di previsioni apparentemente frammentarie che modificano, sostituiscono o integrano, singoli articoli delle varie leggi che regolano la materia, nelle parti in cui la correzione è parsa necessaria.

Le principali sembrano essere quelle in tema di:

1. Definizioni (v. art. 2 del decreto legislativo): con l’aggiornamento, in particolare, di quelle di “arma da fuoco”, di “parte di arma”, di “munizioni”, “armaiolo” e “intermediario”; l’adozione di una serie di definizioni comuni, previste dalla direttiva, nasceva dalla constatazione che la mancanza di uniformità a livello europeo delle terminologie in uso ha costituito un ostacolo allo scambio dei dati e ad un tracciamento su base europea della movimentazione delle armi da fuoco e delle loro componenti essenziali.

Nell’ambito dell’aggiornamento delle definizioni, è stata introdotta la nozione di “arma camuffata” (è tale qualunque arma fabbricata o trasformata in modo da assumere le caratteristiche esteriori di un altro oggetto; ad es. armi simulanti portachiavi, cellulari, persino carte di credito). Tali strumenti sono assolutamente vietati in ragione della loro evidente insidiosità (v. artt. 1 e 5 del decreto);

2. Armi da fuoco di particolare potenzialità offensiva (armi della categoria A, punti 6, 7 e 8, dell’Allegato I alla direttiva 91/477/CEE). Queste tipologie di armi sono sottoposte a un particolare regime. È stato infatti previsto:

• che le armi da guerra trasformate in armi civili, nonché le armi da fuoco con caricatore a grande capacità possono essere utilizzate solo da tiratori sportivi; in accoglimento di una condizione della I Commissione del Senato è stato precisato che i tiratori sportivi autorizzati al possesso delle armi in questione non siano più soltanto quelli iscritti a federazioni sportive di tiro riconosciute dal CONI, ma anche quelli iscritti alle Federazioni di altri Paesi UE, alle Sezioni del Tiro a Segno nazionale, alle associazioni dilettantistiche affiliate al CONI (art. 12, comma 4, del decreto);

• il divieto di utilizzazione a fini venatori di tali tipologie di armi (art. 6);

• il divieto assoluto di detenzione e porto delle armi semiautomatiche con calcio pieghevole o telescopico (art. 12, comma 6);

• che le stesse armi (cat. A, punto 8) non possano essere oggetto di cessioni tra privati, fatta salva la successione mortis causa, la cessione a musei, a soggetti muniti di licenza di fabbricazione o a enti o persone residenti all’estero (pure art. 12, comma 6);

• un particolare regime per il rilascio della licenza di collezione, ammissibile solo in singoli casi eccezionali e debitamente motivati, previa garanzia di un livello di sicurezza, quanto alla custodia, proporzionato ai rischi associati a un accesso non autorizzato alle stesse categorie di armi e alle relative munizioni;

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3. Rottamazione (v. artt. 3 e 5 del decreto): al fine di favorire l’eliminazione dalla circolazione e la distruzione delle armi e delle munizioni spontaneamente versate dai privati o che essi non possono più detenere, sono state previste nuove disposizioni a completamento della disciplina vigente in tema di rottamazione e smaltimento, novellando gli artt. 31 TULPS e 11 della l. n. 110/1975;

• si tratta di disposizioni che rispondono anche alle previsioni della Direttiva relative all’obbligo per gli Stati di conoscere in modo certo non solo la data di fabbricazione delle armi, ma pure quella della loro distruzione;

• va segnalata l’introduzione della possibilità di rottamare le armi e parti di esse presso le stesse fabbriche. La previsione si propone di risolvere le criticità connesse alle fasi di produzione e consentire lo smaltimento dei prodotti difettosi, riducendo gli oneri burocratici a carico degli operatori economici (art. 3, comma 1, lett. a), del decreto). L’innovazione semplifica, altresì, l’attività di controllo da parte degli operatori di polizia che possono verificare la rispondenza delle annotazioni nei registri di pubblica sicurezza;

• inoltre, lo smaltimento degli scarti di produzione da parte dello stesso fabbricante si risolve in un vantaggio anche per l’Erario, sollevato dalle spese che sarebbero a suo carico se lo smaltimento fosse affidato alle sole Direzioni di Artiglieria, secondo la normativa previgente;

• la previsione di una disciplina di dettaglio per la rottamazione delle armi versate dai privati all’Autorità di pubblica sicurezza è, inoltre, intesa ad agevolare lo smaltimento delle armi e munizioni giacenti presso gli uffici della Polizia di Stato e dei Carabinieri, consentendo da un lato l’eliminazione dalla circolazione delle stesse e dall’altro risolvendo le criticità connesse all’accumulo di armi e munizioni nei locali di deposito, con evidenti rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica;

4. Controlli sull’affidabilità personale e psico-fisica dei detentori di armi:

• è stato introdotto l’obbligo per i detentori di armi comuni da sparo (ad eccezione dei collezionisti di armi antiche e dei soggetti autorizzati direttamente dalla legge al porto di armi senza licenza) di presentare, con cadenza quinquennale, il certificato medico attestante l’assenza di rilevanti patologie, in attesa del varo del regolamento di competenza del Ministro della salute, destinato a disciplinare anche le specifiche verifiche da espletarsi per accertare l’abuso di stupefacenti e di alcool (v. art. 12, coma 2, del decreto). Nel frattempo, è disposto che i detentori di armi da sparo debbano produrre un certificato medico rilasciato dal settore medico legale delle Aziende sanitarie locali, o da un medico militare, della Polizia di Stato o del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, dal quale risulti che il richiedente non è affetto da malattie mentali oppure da vizi che ne diminuiscono, anche temporaneamente, la capacità di intendere e di volere (art. 12, comma 2). L’abilitazione dei medici militari della Polizia di Stato e dei Vigili del Fuoco a certificare l’idoneità psico-fisica ai fini delle licenze in materia di armi,

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Gli approfondimenti

munizioni ed anche esplosivi costituisce una novità nel sistema. Per i titolari di porto d’armi resta fermo l’obbligo di produrre la certificazione medica con la domanda di licenza e in occasione di ogni rinnovo;

• è stata ridotta a cinque anni (da sei) la validità delle licenze per l’esercizio di tiro a volo e della caccia (v. rispettivamente gli artt. 4 e 6, lett. b.), in recepimento della previsione della Direttiva che impone una verifica sanitaria almeno quinquennale anche per i titolari di porto d’arma;

5. Marcatura delle armi da fuoco e loro parti, con l’introduzione di disposizioni di precisazione e dettaglio in ordine alle modalità di esecuzione;

6. Tracciabilità delle armi e delle munizioni: con la previsione, presso il Dipartimento della pubblica sicurezza, di un sistema informatico per lo scambio di informazioni con gli altri Stati membri relative alle autorizzazioni rilasciate per i trasferimenti di armi da fuoco verso un altro Stato membro e a quelle rifiutate in relazione all’affidabilità della persona interessata, conforme a standard uniformi stabiliti dall’Unione europea, (v. l’art. 11 del decreto). La creazione di un nuovo sistema è apparsa necessaria stanti i limiti delle attuali piattaforme, con l’obiettivo di realizzare una banca centrale dei dati relativi ad ogni transazione, trasformazione o modifica irreversibile dell’arma, comprendente i dati identificativi dei fornitori, degli acquirenti, dei detentori dell’arma, del titolo abilitativo all’acquisto e del prezzo pagato;

• le modalità di funzionamento del sistema, di trasmissione e conservazione dei dati contenuti, di autenticazione, autorizzazione e registrazione degli accessi e delle operazioni effettuate sul sistema medesimo, saranno disciplinate con successivo regolamento, da adottarsi con decreto del Ministro dell’interno di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, sentiti il Ministero della difesa e il Garante per la protezione dei dati personali;

• è comunque previsto che i dati relativi a ciascuna transazione vengano immessi nel sistema direttamente dagli operatori professionali, senza che ciò comporti per loro nuovi o più gravosi oneri, giacchè tale adempimento costituisce valida modalità di assolvimento (assai più moderna e verosimilmente più agevole) degli attuali obblighi concernenti la registrazione delle operazioni eseguite secondo standard non più adeguati;

7. Vendita a distanza e on-line: in accoglimento di una condizione della I Commissione del Senato e di una osservazione della I Commissione della Camera, è stata introdotta una specifica disciplina della compravendita delle armi con contratto a distanza (anche via internet). Infatti, la legislazione vigente disciplinava soltanto la vendita per corrispondenza. In base alla nuova previsione qualora l’acquirente non sia un operatore economico del settore regolarmente autorizzato, la consegna delle armi acquistate deve avvenire presso un commerciante o un intermediario di armi, muniti delle relative licenze, e che di ogni spedizione deve esserne data notizia all’ufficio di polizia o al comando dei carabinieri del comune di residenza del destinatario. Le vendite a

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Sicurezza pubblica e antimafia

distanza debbono avvenire comunque nel rispetto delle norme vigenti in tema di importazione, esportazione e trasferimenti intracomunitari di armi comuni da sparo (v. art. 5, comma 1).

Altre novità, con carattere forse più di dettaglio, sono state, in accoglimento di espresse condizioni o osservazioni delle Commissioni parlamentari:

• in tema di trasporto di armi: la semplificazione delle procedure dell’avviso di trasporto con la previsione che gli operatori professionali, muniti della licenza di cui all’articolo 31 TULPS (fabbricazione, commercio, importazione, ecc. di armi), possano assolvere all’obbligo di avviso mediante comunicazione, almeno 48 ore prima del trasporto, all’autorità di p.s. anche per via telematica, mediante posta elettronica certificata. La comunicazione deve accompagnare le armi e le parti d’arma (v. art. 3 del decreto);

• in tema di requisiti per il conseguimento di licenze: la novella dell’art. 43 TULPS, l’esclusione della permanenza degli effetti automaticamente e permanentemente preclusivi del rilascio di licenze di porto d’armi, per le sentenze definitive di condanna per determinati reati, in caso di riabilitazione del condannato. In presenza di riabilitazione, esclusa l’automaticità degli effetti ostativi, l’Autorità di p.s. dovrà solo tenere conto di tale provvedimento nell’ambito della sua valutazione discrezionale (art. 3);

• l’elevazione a 10 del numero di colpi dei caricatori liberamente detenibili (senza obbligo di denuncia di detenzione) per le armi comuni lunghe e a 20 per le armi comuni corte (art. 3, comma 1, lett. d);

• in tema di denuncia di detenzione dell’arma: la possibilità di trasmissione con lo strumento della posta elettronica certificata anche ai Commissariati di P.S. e ai locali Comandi dell’Arma dei Carabinieri (v. art. 3, lett. c);

• in tema di collezioni di armi (v. art. 5):

1. l’aumento a 12 del numero delle armi sportive liberamente detenibili;

2. la previsione che il collezionista munito della relativa licenza possa trasportare le armi presso poligoni o campi di tiro autorizzati per effettuare prove di funzionamento delle medesime armi, purchè, per ciascuna arma, con cadenza non inferiore a sei mesi e nello sparo di un numero di colpi non superiore a 62;

• è stato infine previsto un limite di durata annuale, rinnovabile, del provvedimento del Questore di limitazione del numero massimo di munizioni acquistabili (v. art. 7).

Considerazioni conclusive

La disciplina risultante dal decreto, dunque, accanto a previsioni intese ad una maggiore uniformità di disciplina a livello europeo nel segno di un maggior rigore, di maggior controllo degli acquisti e della detenzione delle armi da fuoco nonché di

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Gli approfondimenti

una riduzione di quelle più pericolose circolanti e dei soggetti legittimati ad entrarne in possesso, ne contiene altre che cercano di bilanciare questo effetto con correttivi, da un lato, intesi a contenere gli oneri introdotti a carico dei cittadini e delle imprese e, dall’altro, attenuando alcuni dei parametri della disciplina nazionale previgente, notoriamente tra le più rigorose a livello planetario, soprattutto per il timore – apertamente espresso in sede parlamentare – di ricadute eccessive sull’economia e sugli operatori del settore.

Vanno in questa direzione la quasi totalità delle disposizioni introdotte su richiesta parlamentare, elencate nel paragrafo precedente (si veda, in particolare, il punto 2 e la seconda parte), che comunque si collocano nell’ambito di quanto consentito dalla disciplina dell’Unione in materia di armi da fuoco e munizioni, risultante dalle direttive in premessa. Perciò, il segno di restrittività che contraddistingue la disciplina italiana rimane nel complesso integro.

Certamente, si valuterà presto se l’insieme delle nuove disposizioni costituisce un buon compromesso, perseguendo gli obiettivi dichiarati senza creare ulteriori punti di frizione nel sistema, con il mondo degli operatori e degli appassionati del settore, o piuttosto la ragione di nuove difficoltà applicative o interpretative in un contesto già segnato da una forte e non sempre armonica sovrapposizione di disposizioni, emanate in epoche diverse ed in ragione di problematiche diverse.

È evidente che la frammentarietà della nostra legislazione sulle armi risulta incrementata dalla presenza di una nuova legge in materia, ma – obiettivamente – non era certo un decreto di recepimento di una direttiva comunitaria la sede idonea per un aggiornamento ed una razionalizzazione unitaria del sistema.

Per coloro che seguono il settore, quindi, sarà di particolare interesse la verifica di impatto della nuova disciplina (VIR), prevista nella relazione di analisi di impatto dello stesso provvedimento (AIR), tenuto conto dei meccanismi di revisione stabiliti, in generale, dalla legge n. 234 del 2012 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea) che attribuisce in via generale al Governo il potere di adottare, entro 24 mesi dalla data della loro entrata in vigore, disposizioni integrative e correttive di decreti legislativi emanati al fine di recepire atti delegati dell’Unione europea.

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Le nuove frontiere del diritto sanzionatorio. Antimafia e illeciti amministrativi di nuovo conio: possibili profili di illegittimità dell’atto sanzionatorio

Paola Marino

Le nuove frontiere del diritto sanzionatorio: articolo 86, commi 3 e 4, del d.lgs. 159/2011

Le nuove frontiere del diritto sanzionatorio sono assimilabili a certe terre di confine, circondate da un orizzonte a tratti nebuloso, che impegna l’interprete nel difficile compito di conferire chiarezza sistematica a norme, spesso meri enunciati dispositivi, che nulla aggiungono con riguardo alle concrete conseguenze e modalità applicative.

In particolare, oggi, se è divenuto chiaro e nettamente tracciabile il discrimine tra illecito amministrativo e illecito penale (specie in seguito alla notevole incidenza della normativa volta a depenalizzare numerosi reati ritenuti di minore lesività), potrebbe suscitare qualche dubbio la competenza ad emanare sanzioni amministrative di nuovo conio da parte di organi diversi del medesimo plesso amministrativo, nel caso di specie: la prefettura.

In particolare, in tema di validità della documentazione antimafia, rileva il combinato disposto dei commi 3 e 4 dell’art. 86 d.lgs. 159/2011, in base ai quali, rispettivamente:

3. I legali rappresentanti degli organismi societari, nel termine di trenta giorni dall’intervenuta modificazione dell’assetto societario o gestionale dell’impresa, hanno l’obbligo di trasmettere al prefetto, che ha rilasciato l’informazione antimafia, copia degli atti dai quali risulta l’intervenuta modificazione relativamente ai soggetti destinatari di verifiche antimafia di cui all’art. 85.

4. La violazione dell’obbligo di cui al comma 3 è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 20.000 euro a 60.000 euro. Per il procedimento di accertamento e di contestazione dell’infrazione, nonché per quello di applicazione della relativa sanzione, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689. La sanzione è irrogata dal prefetto.

Coni d’ombra sulla competenza ad emanare la sanzione

Nel caso sopra enunciato, rilevano due dati normativi:

− il fatto che la norma richiamata sia inserita all’interno delle norme sulla documentazione antimafia, afferenti al Libro secondo del d.lgs. 159/2011 (Codice Antimafia);

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Gli approfondimenti

− il fatto che nell’art. 86 si faccia riferimento all’applicazione della legge 689/1981, ma solo in quanto compatibile (cioè armonizzabile con i principi e gli enunciati dell’ordinamento antimafia).

Orbene, potrebbe porsi il dubbio se tale sanzione, per il mero richiamo alla l. 689/1981, debba essere emanata dall’area della prefettura che si occupa di depenalizzazione speciale o, come sarebbe più razionale, dall’area a cui è demandata la cura dell’ordine e della sicurezza pubblica, che si dedica specificamente alla documentazione antimafia.

Invero, la questione sembra potersi risolvere attraverso il richiamo di plurimi indici sistematico-normativi, che diano un quadro completo della questione.

Di non minor rilievo, ed anzi dirimente sul punto, è il richiamo alla circolare n. 11001/119/20(5)-A, Uff. II Ord. Sic. Pubb., datata Roma, 24 aprile 2018 ed emanata dal Gabinetto del Ministro. Ed è proprio da questa che occorre partire per risolvere il dilemma.

La circolare n. 11001/119/20(5)-A, Uff. II Ord. Sic. Pubb., del 24 aprile 2018

La circolare in questione, rubricata nel seguente modo: Conseguenze derivanti dall’omessa comunicazione di modifiche all’assetto proprietario e degli organi sociali da parte dell’impresa iscritta nella white list, è stata emanata per rispondere ad un quesito avanzato dalla Prefettura di Belluno.

Sebbene la circolare riguardi la cancellazione dalla white list per inosservanza dell’omessa comunicazione di modifiche all’assetto proprietario e degli organi sociali (art.1, comma 55, l. 190/2012), il ragionamento che la stessa addita, lumeggiando i coni di incertezza innanzi prospettati, è estensibile anche al comma 3 del citato articolo 86 del Codice Antimafia.

Si riportano i passi più significativi della circolare, ai fini di una completa disamina della problematica sopra esaminata.

“A fronte di un’interpretazione letterale del dato normativo (Ndr: art.1, comma 55, l. 190/2012), secondo la quale assume rilevanza ogni variazione della compagine societaria o gestionale a prescindere che essa incida o meno sul novero delle persone da sottoporre ad accertamento, viene osservato che sarebbe possibile utilizzare anche un criterio ermeneutico “sostanzialistico”, così valorizzando i soli cambiamenti che si riflettono sui soggetti da controllare, in analogia con quanto previsto dall’art. 86, comma 3, del citato d.lgs. 159/2011, per l’ipotesi in cui sia stata rilasciata un’informazione.(…)

Sembra rispondere ad un fondamentale principio di legalità sostanziale riconoscere rilevanza alle sole modificazioni che abbiano effettivamente inciso sulla composizione proprietaria e degli organi sociali, rendendo necessarie nuove indagini”.

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Sicurezza pubblica e antimafia

La competenza ad emanare la sanzione

L’istruttoria per emanare il provvedimento di cancellazione dalla white list è la medesima richiesta per emanare la sanzione; l’irrogazione della sanzione ex articolo 86 richiede pertanto una valutazione circa l’incidenza, sul piano della rilevanza sostanziale, del mutamento della compagine societaria e gestionale, e altresì una valutazione che investa anche “la consistenza” del ruolo rivestito dal soggetto che si avvicenda ad altro (ad esempio direttore tecnico), come il TAR Campania ha di recente rilevato (Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione Prima, sentenza 13 aprile 2017 n. 2069).

Si tratta di valutazioni, che, in tutta evidenza, non può compiere il dirigente della depenalizzazione speciale, per una serie di ragioni:

− egli non ha sul punto uno specifico potere di accertamento, che invece è attribuito all’area Ordine Pubblico, ratione materiae, visto che la sanzione è prevista dall’art. 86 del Codice Antimafia;

− non può, quindi, sottrarre competenze all’area che di fatto ne è investita, senza emanare un provvedimento che risulti viziato da incompetenza relativa, visto che un organo deputato ad emanare la sanzione c’è ed è lo stesso che può di fatto compiere un’istruttoria simile a quella che già svolge per il rilascio della documentazione antimafia, integrata dalle regole procedimentali della l. 689/1981;

− il richiamo alla l. 689/1981 ha, invero, il solo scopo di dettare le norme su accertamento, contestazione ed emanazione dell’ordinanza e a fondare la giurisdizione (che in questo caso sarebbe del G.O. e non del G.A.), visto che la sanzione ha natura punitivo-dissuasiva e, come tale, rientra a pieno titolo nella giurisdizione del G.O. (ha quindi il solo scopo di chiarire gli aspetti relativi a procedimento e giurisdizione, ma non ha certo la forza di spostare la competenza ad emanare il provvedimento);

− il dirigente della depenalizzazione speciale non può, infatti, convocare il gruppo G.I.A. (Gruppo interforze antimafia) né può accedere ad informazioni di carattere riservato, a cui solo il dirigente dedicato all’antimafia può accedere, non fornisce i modelli di comunicazione di modifiche degli assetti proprietari e degli organi sociali, non può disporre dell’applicativo Telemaco (rete di collegamento tra Camera di commercio e prefettura) né, al fine di dare maggiore sostanza all’istruttoria sul piano dell’elemento soggettivo dell’illecito, verificare l’assenza di cause preclusive ex articolo 67 d.lgs. 159/2011 in capo ai subentranti, e neppure disporre accertamenti ex articolo 84 del d.lgs. citato per sondare indici di mafiosità degli stessi al solo fine di meglio motivare un provvedimento sanzionatorio, che ha gli stessi caratteri della misura ex articolo 1, comma 55, l. 190/2012 e che comporta, perciò, una valutazione sulla rinnovata composizione proprietaria e degli organi sociali tale da rendere necessarie nuove indagini (come la circolare sopra richiamata suggerisce); si tratta, quindi, di valutazione che solo il dirigente effettivamente competente in materia può di fatto effettuare; se tale valutazione la compisse, infatti, il dirigente della depenalizzazione speciale, egli spoglierebbe di attribuzioni specifiche e di

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Gli approfondimenti

poteri l’unico soggetto che dispone dei mezzi accertativi e comminativi adeguati (il dirigente antimafia appunto), oltre a vulnerare in radice la validità del provvedimento adottato, e ad esporre la prefettura al rischio di contenzioso con possibile sua condanna, se il provvedimento non fosse adeguatamente motivato; tale rischio, peraltro, si potrebbe riverberare anche nel successivo eventuale processo di esecuzione, ove l’opponente intendesse far valere l’illegittimità del titolo viziato da difetto di competenza (sia pure relativa), esponendo anche l’Agenzia delle entrate ad una possibile soccombenza in giudizio;

− al dirigente della depenalizzazione speciale, inoltre, secondo la Tabella 3 contenuta nell’allegato A del Decreto del Ministro dell’interno del 13 maggio 2014, è attribuita competenza relativamente a reati depenalizzati e sostanzialmente “bagatellari”, cioè ritenuti di tale minima lesività da essere convertiti in illecito amministrativo; la sanzione prevista dall’articolo 86 del Codice Antimafia nasce, invece, come sanzione pura (non è frutto cioè di depenalizzazione) ed è di rilevante importo (afflittiva come una sanzione penale secondo i criteri di recente affermati dalla CEDU ), il che contrasta vivamente con i cardini e la ratio per cui è stata istituita la branca della depenalizzazione speciale (che si occupa di illeciti amministrativi di minima lesività tali da non assurgere più al rango di reato) e deve essere emanata, secondo la circolare del Ministero sopra citata, con gli stessi criteri (improntati al rispetto della legalità sostanziale), che il dirigente dell’Ordine Pubblico utilizza per disporre un’eventuale cancellazione dalla white list;

− non si può invocare una generica competenza “residuale” del dirigente della depenalizzazione speciale per fondare astrattamente un amplissimo potere di emanare sanzioni “a tutto spiano” da parte di quest’ultimo, poiché tale competenza sussiste solo a condizione che non vi sia nessun altro organo al di fuori della prefettura (o all’interno della prefettura) investito del potere di emanare la specifica sanzione di pertinenza.

Si pensi, a titolo esemplificativo, alle sanzioni amministrative in materia di immigrazione (art. 5, comma 7, d.lgs. 286/1998; art. 7, comma 2 , decreto cit. e all’abrogato comma 7 dell’art. 22 decreto cit.), che, pur adottabili dal prefetto, non risulta siano mai state emanate dall’area depenalizzazione speciale.

Da tutto quanto sopra esposto risulta chiaro che il dirigente della depenalizzazione speciale non ha la competenza né gli strumenti né l’ampiezza di poteri (ad esempio, non può servirsi del gruppo G.I.A. né di informazioni coperte da segreto), di cui dispone il dirigente dell’Ordine Pubblico, attribuitigli dal legislatore.

La competenza ad emanare la sanzione spetta, quindi, a quest’ultimo e solo se emanato da organo effettivamente competente il provvedimento sanzionatorio potrebbe resistere a fronte di un possibile contenzioso, che, in caso contrario, vedrebbe l’amministrazione quasi certamente soccombente.

In ogni caso, basterebbe che il provvedimento fosse sottoscritto dal prefetto per evitare che la questione pregiudiziale sia sollevata in giudizio dalla controparte.

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Sicurezza pubblica e antimafia

Infine, giova rimarcare che la particolarità della sanzione de qua risiede nel fatto, come la circolare ben illustra, che essa non è indefettibile ad ogni cambio di compagine sociale non comunicato, ma solo ove questo abbia effettiva rilevanza (quale indice di permeabilità mafiosa degli organi sociali).

A questo fine, la sanzione sembra avere più uno scopo dissuasivo: cioè mira a circoscrivere il rischio che, una volta ottenuta l’informazione antimafia, la società sia indotta a mutare artatamente la compagine societaria, in modo da aggirare lo scopo delle norme dedicate alla documentazione antimafia.

Questa è la ragione principale per cui la sanzione, prima di essere adottata, dovrebbe essere fondata su di un’indagine di carattere sostanziale, come la circolare sopra enunciata saggiamente suggerisce.

L’esecuzione della sanzione inottemperata

Se attraverso l’esame sistematico delle diverse disposizioni normative e dell’intero ordinamento antimafia, l’interprete riesce a districarsi, riuscendo ad incasellare gli istituti divisati dal legislatore (compresi quelli sanzionatori), correttamente, nell’alveo loro proprio, egli non può, tuttavia, colmare le lacune legislative.

Non può compiere cioè uno sforzo ultroneo per compiere forzature “di sistema”.

Mi spiego meglio.

Poniamo che, correttamente, il dirigente antimafia decida di emanare la sanzione di cui all’articolo 86 cit., una volta emessa la relativa ordinanza (che è consigliabile sia comunque sottoscritta dal prefetto), la stessa, in caso di inottemperanza, dovrà essere iscritta al ruolo: si, ma quale ruolo?

Non certo quello relativo agli assegni emessi senza titolo e in difetto di provvista (ASSAP), ma neppure nell’altro ruolo della depenalizzazione speciale (VAMAIR): sarebbe infatti assai strano che nei ruoli che riguardano la riscossione di illeciti depenalizzati, che portano a esecuzione sanzioni inottemperate per divieto di fumo e indebita percezione di erogazioni di minima entità in danno dello Stato, cominciassero a comparire le ben più sostanziose sanzioni antimafia (sanzioni, peraltro, “pure”, non rivenienti da depenalizzazione).

Si potrebbe, tutt’al più, utilizzare il ruolo “VIOLAM” (visto che l’acronimo sembra più generico e includente).

Il problema di fondo non sarebbe neppure questo, ma la difficoltà della difesa tecnica.

Orbene, in caso di giudizio esecutivo, con chi dovrà collaborare l’Agenzia delle entrate per articolare meglio le sue difese? Con l’ufficio della depenalizzazione speciale, che nulla sa di antimafia, o non, piuttosto, proprio e solo con l’ufficio Antimafia, come sarebbe logico e congruo, il quale è l’unico a disporre di tutta la

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Gli approfondimenti

documentazione idonea a fondare una corretta ed efficace difesa in giudizio, anche al fine di evitare la soccombenza della prefettura in chiave di solidarietà passiva con l’Agenzia delle entrate?

Ci si augura che i contorni della problematica siano divenuti più nitidi, in seguito alla presente trattazione, e che l’orizzonte del diritto sanzionatorio sia divenuto, per via interpretativa, maggiormente sgombro da quelle nuvolaglie nebbiose, che rendono, a volte, più arduo tanto il decidere quanto l’amministrare.

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ORDINAMENTO ECONOMICO FINANZIARIO

La Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza nella programmazione economica e finanziaria del governo

Roberto Pellegrino

Premessa: il Documento di economia e finanza

Le recenti riforme in materia di finanza e contabilità pubblica assegnano un’importanza fondamentale agli strumenti di programmazione. Ciò è dovuto alla necessità di fornire una risposta rapida, coordinata ed efficace all’esigenza di garantire un effettivo equilibrio dei conti pubblici, anche alla luce dei sempre più stringenti vincoli di derivazione europea.

All’interno del ciclo di bilancio, così come delineato dalla Legge di contabilità e finanza pubblica1, un ruolo centrale è rivestito dal Documento di economia e finanza. Si tratta di uno strumento di programmazione, disciplinato dall’articolo 10 della Legge 196/2009, presentato annualmente dal Governo alle Camere entro il 10 aprile. Il DEF descrive il quadro della programmazione economico-finanziaria su base almeno triennale.

In particolare, il Documento è composto da tre sezioni2. La prima sezione del DEF contiene lo schema del Programma di Stabilità, che reca: gli obiettivi di politica economica e il quadro delle previsioni economiche e di finanza pubblica almeno per il triennio successivo; le previsioni macroeconomiche per ciascun anno del periodo di riferimento, con l’analisi dei contributi alla crescita dei diversi fattori, dell’evoluzione dei prezzi, del mercato del lavoro e dell’andamento dei conti con l’estero; gli obiettivi programmatici per l’indebitamento netto, per il saldo di cassa e per il debito delle pubbliche amministrazioni, articolati per sottosettori; la descrizione della manovra necessaria per il conseguimento degli obiettivi.

La seconda sezione del DEF contiene l’analisi del conto economico e del conto di cassa delle PA nell’anno precedente e degli eventuali scostamenti rispetto agli obiettivi programmatici indicati nel DEF e nella Nota di aggiornamento; le previsioni tendenziali a legislazione vigente per i principali aggregati del conto economico delle amministrazioni pubbliche riferite almeno al triennio successivo e del saldo di cassa del settore statale, e l’indicazione della pressione fiscale;

1 Legge 31 dicembre 2009, n. 196.2 Art. 10 legge 196/2009.

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Gli approfondimenti

sono inoltre contenute le previsioni relative al debito pubblico. In apposita nota metodologica sono descritti analiticamente i criteri di formulazione delle cennate previsioni tendenziali.

La terza sezione del DEF reca lo schema del Programma Nazionale di Riforma, che contiene lo stato di attuazione delle riforme avviate, gli squilibri macroeconomici nazionali e i fattori di natura macroeconomica che incidono sulla competitività, le priorità del Paese e le principali riforme da attuare, i prevedibili effetti delle riforme in termini di crescita economica, di competitività del sistema economico e di aumento dell’occupazione.

In allegato al DEF sono presentati3:

− il rapporto sullo stato di attuazione della riforma della legge di contabilità e finanza pubblica;

− la relazione di sintesi sugli interventi realizzati nelle aree sottoutilizzate e sui risultati conseguiti;

− il programma delle infrastrutture strategiche, ora Documento Pluriennale di Pianificazione (DPP), ai sensi dell’articolo 201 del d.lgs. n 50/2016;

− la relazione sullo stato di attuazione degli impegni per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra;

− per la spesa del Bilancio dello Stato, l’esposizione delle risorse destinate alle regioni e province autonome.

Nel DEF sono indicati gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, per il cui esame i regolamenti e la prassi parlamentare prevedono un canale “privilegiato”4.

Gli stessi regolamenti parlamentari disciplinano il procedimento per l’esame del DEF5, che si conclude, in ciascun ramo del Parlamento, con l’approvazione di una risoluzione, che può apportare eventuali modifiche e integrazioni al documento.

Entro il 30 aprile il Programma di Stabilità e il Programma Nazionale di Riforma contenuti nel DEF sono presentati al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea6.

La Nota di aggiornamento del DEF: caratteristiche e funzioni

Al fine di adeguare la programmazione all’effettiva evoluzione della finanza pubblica e agli eventuali cambiamenti delle dinamiche macroeconomiche, il legislatore ha opportunamente previsto uno strumento di aggiustamento, costituito dalla Nota di aggiornamento del DEF. Si tratta di uno strumento programmatorio che

3 Articoli 3 e 10 Legge 196/2009.4 Articolo 123-bis Regolamento della Camera dei Deputati e articolo 126-bis Regolamento del Senato.5 Articolo 118-bis Regolamento Camera e articolo 125-bis Regolamento Senato.6 Articolo 9 Legge 196/2009.

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Ordinamento economico finanziario

deve essere presentato entro il 27 settembre di ciascun anno. Non a caso il legislatore ha previsto la presentazione della Nota in un momento immediatamente successivo all’approvazione del disegno di legge annuale di approvazione del Rendiconto dell’esercizio precedente e del disegno di legge di assestamento delle previsioni del Bilancio dello Stato per l’anno in corso: le risultanze del rendiconto e le misure di assestamento, infatti, consentono di delineare un quadro aggiornato dell’andamento dei conti pubblici, sul quale innestare l’adeguamento della programmazione economico-finanziaria.

Il contenuto della Nota di aggiornamento è definito dall’articolo 10-bis della Legge 196/2009, e comprende:

− l’eventuale aggiornamento delle previsioni macro-economiche e di finanza pubblica per l’anno in corso e per il restante periodo di riferimento;

− l’eventuale aggiornamento degli obiettivi programmatici individuati dal DEF, al fine di prevedere una loro diversa ripartizione tra lo Stato e le amministrazioni territoriali ovvero di recepire le indicazioni contenute nelle raccomandazioni eventualmente formulate dalla Commissione europea;

− le eventuali modifiche e integrazioni al DEF conseguenti alle raccomandazioni del Consiglio europeo relative al Programma di Stabilità e al PNR;

− l’obiettivo di saldo netto da finanziare del Bilancio dello Stato e di saldo di cassa del settore statale;

− l’indicazione dei principali ambiti di intervento della manovra di finanza pubblica per il triennio successivo, con una sintetica illustrazione degli effetti finanziari attesi dalla manovra stessa in termini di entrata e di spesa, ai fini del raggiungimento degli obiettivi programmatici.

Qualora il Governo intenda procedere a una modifica degli obiettivi programmatici di finanza pubblica, è tenuto ad inviare, preventivamente alla presentazione della Nota, entro il 10 settembre, le linee guida per la ripartizione degli obiettivi alla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, per il relativo parere da esprimere entro il 15 settembre. Le linee guida sono altresì trasmesse entro il medesimo termine alle Camere.

La Nota di aggiornamento del DEF è corredata delle relazioni programmatiche sulle spese di investimento per ciascuna missione di spesa del Bilancio dello Stato e le relazioni sullo stato di attuazione delle relative leggi pluriennali. Alle relazioni è allegato un quadro riassuntivo delle leggi di spesa a carattere pluriennale. In un’apposita sezione del suddetto quadro riassuntivo, è contenuta la ricognizione di tutti i contributi pluriennali iscritti nel Bilancio dello Stato.

In allegato alla Nota sono indicati gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica. Tale indicazione integra o corregge quella contenuta nel DEF. Alla Nota è inoltre allegato il Rapporto sui risultati conseguiti nel contrasto all’evasione fiscale.

Anche la NADEF, al pari del DEF, è sottoposta ad esame parlamentare, che si conclude anch’esso con l’approvazione di una risoluzione.

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Gli approfondimenti

La nota di aggiornamento del DEF per il 2019

È evidente che la Nota di aggiornamento del DEF, in quanto strumento di aggiustamento della programmazione, è sempre caratterizzata da un certo margine di elasticità, che consente la riparametrazione degli obiettivi dell’intervento governativo in base all’andamento dell’economia e della finanza pubblica, alla luce degli indirizzi politici del Governo, nonché delle indicazioni delle istituzioni europee. La NADEF del 2019, collocandosi in un peculiare contesto politico-istituzionale ed economico, ha accentuato tale connotazione, assumendo le caratteristiche, per alcuni aspetti, di un “nuovo DEF”.

Il contesto politico-istituzionale, che ha visto, successivamente alla crisi di governo di agosto scorso, la formazione di una maggioranza parlamentare di differente composizione, ha fatto sì che il nuovo Esecutivo, nel mettere mano alla NADEF, si sia trovato a dover aggiornare la programmazione economico-finanziaria, adattandola ad una linea politica sensibilmente diversa. In tali condizioni, la Nota di aggiornamento non poteva che sfruttare al massimo grado la propria elasticità, allo scopo di raccordare l’adeguamento della manovra di bilancio alle linee programmatiche del nuovo Governo.

Il contesto economico presenta non poche incognite e difficoltà derivanti dalla enunciata volontà di dare sostegno alla crescita del PIL, conciliando una sensibile spinta espansiva con la delicata questione della cosiddetta “sterilizzazione” delle clausole di salvaguardia. Le clausole di salvaguardia sono norme che prevedono la variazione automatica di specifiche voci di tasse e imposte con efficacia differita nel tempo rispetto al momento dell’entrata in vigore della legge che le contiene. É noto che la legislazione vigente, al fine di conseguire il rispetto dei parametri di stabilità europei, ha previsto, per il 2020 e il 2021, un aumento delle aliquote IVA, per garantire maggiori entrate finalizzate a migliorare i saldi di finanza pubblica. Qualora si voglia evitare il detto aumento (quantificato in 23 miliardi di euro per il 2020 e in 29 miliardi per il 2021) con le prevedibili nefaste conseguenze sulla domanda globale e sul PIL, la prossima legge di bilancio dovrà individuare maggiori entrate alternative (e/o minori spese).

Il quadro macroeconomico e finanziario di riferimento è descritto sinteticamente nella Relazione al Parlamento allegata alla NADEF 2019, in cui si evidenzia che, negli ultimi 12 mesi, le previsioni di crescita del PIL hanno subito continue revisioni al ribasso, portandosi allo 0,1 per cento nel 2019 e allo 0,6 per cento nel 2020, a fronte rispettivamente dell’1,5 per cento e dell’1,6 per cento stimati nella NADEF 2018. Inoltre, nel periodo 2007-2018 il Pil pro-capite italiano si è contratto del 7 per cento, mentre nell’Area euro è cresciuto del 5,4 per cento.

Sono state riviste, altresì, le previsioni dei saldi contenute nel DEF 2019, che aveva previsto un indebitamento netto strutturale al -1,5 per cento nel 2019, al -1,4 per cento nel 2020, al -1,1 per cento nel 2021 e al -0,8 per cento nel 2022, con un peggioramento strutturale di 0,1 punti percentuali nel 2019, un miglioramento di 0,2 punti percentuali nel 2020 e di 0,3 punti percentuali in ciascuno degli anni

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Ordinamento economico finanziario

seguenti. La Nota di aggiornamento del DEF 2019 definisce un profilo che prevede un peggioramento del saldo strutturale di 0,1 punti percentuali per il 2020.

Rispetto ai livelli programmatici del DEF 2019, l’obiettivo di indebitamento netto in rapporto al PIL passa dal 2,1 al 2,2 per cento nel 2020, risulta invariato nel 2021 e migliora nel 2022 di 0,1 punti percentuali. In termini strutturali, il livello del saldo risulta invariato nel 2020, per poi peggiorare di 0,1 punti percentuali nel 2021 e 0,2 punti percentuali nel 2022. Il saldo netto da finanziare del Bilancio dello Stato di competenza potrà aumentare fino a 79,5 miliardi di euro nel 2020, 56,5 miliardi nel 2021 e 37,5 miliardi nel 2022. Il corrispondente saldo netto da finanziare di cassa potrà aumentare fino a 129 miliardi di euro nel 2020, 109,5 miliardi nel 2021 e 87,5 miliardi nel 2022.

Il Governo ha inserito nella Nota di aggiornamento una serie di obiettivi strategici, che recepiscono le raccomandazioni rivolte all’Italia da parte delle istituzioni europee, approvate dal Consiglio Ecofin del 9 luglio 2019 e riguardanti, in particolare, l’invito ad adottare provvedimenti specifici volti a:

• ridurre il rapporto debito/PIL;

• contrastare il lavoro sommerso e ridurre la pressione fiscale sul lavoro;

• accrescere gli investimenti;

• migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione;

• ridurre la durata dei processi, in tutti i gradi di giudizio;

• favorire il risanamento del sistema bancario.

La strategia del Governo è illustrata nel Capitolo IV della Nota, che incide sul Programma Nazionale di Riforma (PNR) ed è dedicato alle riforme e alle iniziative che il nuovo Esecutivo, secondo le linee programmatiche, intende adottare in risposta alle raccomandazioni del Consiglio europeo.

Si parla, al riguardo, di “Green New Deal”, inteso come un programma di sviluppo orientato verso una crescita sostenibile.

Le linee programmatiche fondamentali del progetto fanno riferimento: 1) all’aumento degli investimenti pubblici e privati, con particolare attenzione a quelli finalizzati a favorire l’innovazione, la sostenibilità ambientale e a potenziare le infrastrutture materiali, immateriali e sociali, a partire dagli asili nido; 2) alla riduzione del carico fiscale sul lavoro; 3) a un piano organico di riforme volte ad accrescere la produttività del sistema economico e a migliorare il funzionamento della pubblica amministrazione e della giustizia; 4) al contrasto all’evasione fiscale e contributiva e alla digitalizzazione dei sistemi di pagamento; 5) alle politiche per ridurre la disoccupazione, a partire da quella giovanile e femminile, e le diseguaglianze sociali, territoriali e di genere, anche attraverso un miglioramento della qualità dei servizi pubblici.

Nella prospettiva di un potenziamento degli investimenti pubblici, è prevista l’istituzione di due nuovi fondi nella prossima legge di bilancio, da assegnare a Stato e Enti territoriali, per un ammontare complessivo di almeno 50 miliardi su un orizzonte pluriennale, che si affiancheranno e daranno continuità ai fondi costituiti

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Gli approfondimenti

con le ultime tre leggi di bilancio. Le risorse saranno assegnate per attivare progetti di rigenerazione urbana, di riconversione energetica e di incentivo all’utilizzo di fonti rinnovabili.

È stato fissato, altresì, l’obiettivo di orientare gli investimenti pubblici in modo tale da attenuare divario tra il Sud e il Nord del Paese.

Viene, inoltre, posto l’accento sull’esigenza di migliorare l’efficienza e la trasparenza del sistema bancario, nella prospettiva di ampliare le possibilità di accesso al credito e al mercato dei capitali per le piccole e medie imprese.

Per quanto concerne le materie di stretto interesse del Ministero dell’interno, le linee programmatiche esposte nella Nota prevedono interventi rispettivamente in materia di sicurezza e ordine pubblico e in tema di riforme istituzionali.

Per quanto attiene il primo ambito di competenza, sono previsti: il miglioramento della gestione dei flussi migratori, anche attraverso una riforma del Regolamento di Dublino; un processo di rivisitazione del decreto-legge c.d. “Sicurezza-bis”, alla luce delle osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica.

Sul versante delle riforme costituzionali e dell’autonomia differenziata delle Regioni, si prevedono: la conclusione dell’iter di approvazione della legge di riduzione del numero dei parlamentari e, conseguentemente, la riforma della legge elettorale; la revisione del testo unico sugli Enti locali; la prosecuzione del processo di autonomia differenziata sul piano regionale; la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

La prossima legge di bilancio (il cui iter è in fase di avvio al momento della redazione del presente scritto) costituirà il banco di prova dell’ambizioso progetto di riforma, con la predisposizione delle opportune misure normative e finanziarie.

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POLIZIA AMMINISTRATIVA

Le tre “S” del servizio di stewarding nel nuovo decreto ministeriale: safety, security e service

Paola Giusti

Con l’inizio della nuova stagione agonistica 2019/2020 sono arrivate importanti novità per la gestione della sicurezza negli stadi italiani. Con il decreto del Ministro dell’interno del 13 agosto in materia di “Organizzazione e servizio degli steward negli impianti sportivi”, pubblicato il successivo 23 agosto sulla Gazzetta Ufficiale, sono stati, infatti, definiti in maniera dettagliata l’organizzazione e il servizio degli steward negli impianti sportivi.

Il provvedimento è stato adottato in attuazione dell’art. 2-ter, comma 1, del decreto legge 8 febbraio 2007, n. 8, recante misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche, nonché norme a sostegno della diffusione dello sport e della partecipazione gratuita dei minori alle manifestazioni sportive.

Detto schema, che si compone di nove articoli e di cinque allegati tecnici, è volto a revisionare le disposizioni del precedente decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2007, che è stato completamente abrogato, nell’ottica di dare chiarezza, organicità e precisione alle disposizioni concernenti il servizio svolto dagli steward, anche alla luce del loro numero, cresciuto in maniera esponenziale. Sono, infatti, 30 mila gli steward attivi sul territorio italiano.

Scopo del provvedimento è, dunque, quello di “riordinare” la disciplina dello stewarding in un’ottica di maggiore sicurezza – safety e security – e fruibilità, service, degli impianti sportivi.

Gli allegati sono stati ampliati, liberando l’articolato dal peso di minuziose disposizioni tecniche proprie dell’attività regolata le quali, pertanto, sono state trasfuse nella sede più idonea.

Lo schema contiene norme di carattere ordinamentale – che nella sostanza ripropongono quelle contenute nel provvedimento abrogato – che non determinano nuovi oneri per la finanza pubblica.

Sul provvedimento sono stati acquisiti i pareri delle competenti Commissioni parlamentari.

Prima di entrare nel merito del decreto è opportuno ricordare che la figura dello steward rappresenta un tratto caratteristico del modello di sicurezza adottato in diversi Paesi europei e, in particolare, nel Regno Unito.

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Gli approfondimenti

Nel nostro ordinamento disposizioni specifiche sono state introdotte nell’ambito di provvedimenti finalizzati al contrasto degli episodi di violenza in occasione di manifestazioni sportive.

In particolare, il già citato D.M. 8 agosto 2007, sul quale il nuovo testo va ad incidere, definiva i requisiti, le modalità di selezione e la formazione del personale incaricato del controllo dei titoli di accesso agli impianti sportivi, nonché dell’instradamento degli spettatori e della verifica del rispetto del regolamento d’uso degli impianti stessi, stabilendo le modalità di collaborazione degli steward con le forze dell’ordine.

I principali elementi di novità introdotti dal decreto di recente adozione riguardano la delimitazione del suo ambito di applicazione, le figure professionali, le modalità di selezione e formazione degli steward, la qualificazione delle strutture formative e le ipotesi di divieto di impiego degli steward.

Relativamente all’ambito di applicazione, l’articolo 1, al comma 3, amplia il precedente ambito di operatività (limitato agli impianti con capienza superiore a 7.500 posti), prevedendo che le disposizioni del decreto trovino applicazione negli impianti sportivi ove si svolgono competizioni calcistiche professionistiche (indipendentemente dalla capienza), nonché negli impianti sportivi ove si svolgono competizioni calcistiche dilettantistiche che abbiano capienza superiore a 7.500 posti.

Con riferimento, invece, alle figure professionali, l’articolo 3, al comma 1, individua le specifiche “attività” in cui si articola il servizio svolto dagli steward.

Il comma 2 delinea il sistema di “figure professionali” sulle quali è organizzato il servizio di stewarding. Con il nuovo decreto, infatti, la figura del delegato alla sicurezza cambia nome. Si chiama “delegato per la gestione dell’evento”, ma continua ad avere compiti fondamentali di raccordo ed organizzazione della sicurezza in sinergia con club e forza di polizia. Il suo ruolo è stato, infatti, potenziato anche nel caso di eventi sportivi di livello dilettantistico (sempre, comunque, con uno stadio di almeno 7.500 posti di capienza).

Il successivo comma 3, demanda all’allegato D la definizione delle modalità di collaborazione con le Forze di polizia e dei servizi ausiliari dell’attività di polizia relativi ai controlli nell’ambito dell’impianto sportivo. Il comma 4 affida all’allegato E la definizione delle caratteristiche dell’abbigliamento di riconoscimento in dotazione agli steward.

Per quanto riguarda, poi, le modalità di selezione e formazione degli steward l’articolo 4 del nuovo decreto definisce in modo più stringente i limiti d’età per accedere a ogni ruolo all’interno della filiera della sicurezza e, in particolare, prevede una regolamentazione più specifica per l’iter di formazione, che dovrà obbligatoriamente essere concluso prima che lo steward possa iniziare a prendere servizio. Inoltre, per gli aspiranti steward extraeuropei, ci saranno controlli molto più approfonditi sui requisiti di condotta della persona nel suo paese d’origine.

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Polizia amministrativa

Viene, altresì, istituito per ogni figura professionale il c.d. libretto professionale personale, come definito nell’allegato E. Il libretto è una novità e costituisce un efficace strumento – che si affianca all’abbigliamento di riconoscimento – per l’individuazione degli steward.

L’obbligatorietà del libretto formativo dello steward sottolinea l’importanza del percorso di formazione per intraprendere questo ruolo.

Inoltre, è stato ridotto a 60 giorni il limite temporale per le verifiche della questura sui requisiti dei nuovi steward, e questo ridurrà i tempi di inserimento sul campo dei nuovi addetti.

Ancora, per quanto riguarda la qualificazione delle strutture formative, l’articolo 6 prevede che detta qualificazione, obbligatoria per lo svolgimento dell’attività di formazione degli steward, sia attestata dall’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive.

L’Osservatorio potrà, inoltre, avvalersi dell’ausilio delle questure per i controlli sulla veridicità della documentazione prodotta dalle strutture formative.

Il nuovo decreto contempla l’istituzione di un elenco nazionale delle società di formazione degli steward, pubblicato sul sito web dell’Osservatorio, che provvede a curarne la tenuta.

In tal modo le questure hanno la possibilità di verificare la permanenza in capo agli steward dei necessari requisiti soggettivi.

La questura tiene l'elenco degli steward, formato sulla base delle comunicazioni effettuate dalle strutture formative all'esito dei corsi di formazione, al fine di verificare periodicamente, e comunque prima dell'inizio di ogni stagione calcistica, la permanenza dei requisiti soggettivi richiesti.

Il nuovo decreto prevede espressamente, ampliandole rispetto al precedente, le ipotesi di divieto di impiego negli stadi degli steward che versino in particolari condizioni. Detto divieto − che scatta quando lo steward non soddisfi almeno uno dei requisiti previsti − è disposto dal prefetto della provincia, su segnalazione del questore. Nel divieto sono inclusi anche i requisiti professionali relativi alla formazione, come disciplinata dal nuovo provvedimento.

Alla luce delle argomentazioni suesposte, è auspicabile che le tre “S”, alla base delle nuove disposizioni − security, safety e service, cioè sicurezza intesa sia come salvaguardia dell’ordine pubblico che come incolumità degli spettatori e maggiore fruibilità dei servizi offerti − siano up to date, rispondendo, in maniera idonea, alle esigenze connesse alla rapida evoluzione della società moderna.

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CONVERSAZIONE CON STEFANO SOLIMAN

Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale

Dott. Soliman, può descrivere ai nostri Lettori la posizione dell’Ufficio Legislativo all’interno della complessiva organizzazione del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e la sua strutturazione?

L’ufficio legislativo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale è, come le strutture omologhe negli altri Ministeri, uno degli uffici di diretta collaborazione del Ministro. In base al regolamento di organizzazione di tali uffici (decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 2001, n. 233 e successive modificazioni), l’ufficio legislativo può essere diretto da un funzionario diplomatico, con grado non inferiore a consigliere d’ambasciata, oppure da un magistrato (ordinario, amministrativo o contabile), da un avvocato dello Stato, da un consigliere parlamentare, un docente universitario o un dirigente delle amministrazioni dello Stato.

Nell’ufficio lavorano attualmente funzionari diplomatici (di cui uno con funzioni vicarie), un magistrato ordinario in posizione di fuori ruolo, funzionari amministrativi dei ruoli del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e personale di archivio e segreteria sempre appartenente ai ruoli del Ministero.

Nell’ambito della diretta collaborazione del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, esiste inoltre un separato Ufficio per i rapporti con il Parlamento, diretto da un funzionario diplomatico (attualmente il collega Alessandro Prunas).

Può indicare le aree di attività dell’ufficio da Lei diretto?

Come tutti gli uffici legislativi, provvediamo all’analisi dei provvedimenti normativi di iniziativa governativa, inclusa la preparazione della documentazione per la partecipazione del Ministro al Consiglio dei Ministri. Inoltre, predisponiamo gli atti normativi di competenza della Farnesina e i loro provvedimenti attuativi. Forniamo altresì consulenza in materia normativa e giuridica al Ministro, ai Vice Ministri e ai Sottosegretari di Stato. L’ufficio ha due grandi settori di attività, che si riflettono nella sua organizzazione: l’ambito del diritto interno ed europeo e quello dell’adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale.

Quanto al primo ambito, va tenuto presente che la Farnesina non è una grande “produttrice” di norme interne. La politica estera del Paese è l’attività fondamentale della nostra amministrazione e questa è disciplinata da norme internazionali.

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Conversazione con Stefano Soliman

Di conseguenza, gli interessi pubblici e le esigenze della collettività cui siamo chiamati a dare risposta raramente possono essere affrontati efficacemente con provvedimenti normativi interni. Ci sono naturalmente eccezioni a questa regola: penso all’erogazione dei servizi ai cittadini e alle imprese all’estero, alla cooperazione allo sviluppo, alla promozione culturale all’estero e, infine, al commercio internazionale, che, a seguito del decreto legge n. 104 del 2019, in vigore da poche settimane, è ora affidato alla Farnesina. Infine, va tenuto conto che il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale è coinvolto come concertante in tutti i provvedimenti legislativi e regolamentari di recepimento del diritto europeo.

La seconda delle macroaree di cui si occupa l’ufficio che dirigo, l’adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale, è una specificità della Farnesina. Nell’ambito degli accordi internazionali firmati dall’Italia, l’ufficio legislativo ha la responsabilità di stabilire quali possano essere ratificati senza legge di autorizzazione (in gergo: “ratifica presidenziale” o “ex articolo 87 [della Costituzione]”) e quali richiedono invece tale autorizzazione (in gergo: “ratifica parlamentare” o “ex articolo 80”). Per quest’ultima categoria di accordi, curiamo la concertazione interministeriale e la sottoposizione al Consiglio dei Ministri dei disegni di legge di ratifica.

È questa un’attività molto particolare. Innanzitutto, per la sua quantità. Nell’anno e mezzo trascorso dall’inizio di questa legislatura abbiamo portato in Parlamento 93 disegni di legge governativi di ratifica di trattati internazionali, ai quali se ne sono aggiunti numerosi altri di iniziativa parlamentare. Attualmente, abbiamo in corso la concertazione interministeriale di altri 26 disegni di legge e altri provvedimenti sono in corso di preparazione.

Un ulteriore elemento di complessità è di carattere procedurale. La Costituzione italiana prevede specifiche cautele nell’assunzione di impegni internazionali: l’articolo 80 della Costituzione impone la “ratifica parlamentare” per un novero molto ampio di accordi; le leggi di autorizzazione sono sottoposte a riserva di assemblea; la ratifica, firmata dal Capo dello Stato e controfirmata dal Ministro degli Esteri, è un atto ulteriore e successivo rispetto alla legge di autorizzazione. Le leggi di ratifica sono quindi leggi “lente”.

Ai tempi imposti dal rispetto dei procedimenti costituzionali si aggiungono anche le complessità di concertazioni interministeriali che coinvolgono spesso molte amministrazioni e in ambiti estremamente specifici, talora di elevato tecnicismo. Al riguardo va tenuto presente che l’ordinamento italiano presenta, nel confronto internazionale, una particolarità: sono rari i Paesi, come il nostro, che dispongono l’adattamento dell’ordinamento interno direttamente con la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Questo, da un lato, minimizza le possibilità che il diritto nazionale contrasti con gli impegni internazionali assunti. Dall’altro, però, il processo di ratifica è talvolta rallentato, soprattutto quando si tratta di accordi multilaterali complessi sul piano tecnico o giuridico.

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L’intervista

La missione istituzionale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale è assai vasta. Comprende, tra l’altro la negoziazione a difesa degli interessi nazionali, l’individuazione di soluzioni pacifiche alle eventuali controversie con altri Stati, la promozione di relazioni commerciali, la raccolta ed analisi di informazioni utili per la politica estera del Paese. Nello svolgimento di tali compiti si instaura, tra il Ministro pro-tempore e gli appartenenti alla carriera diplomatica, un particolare ed intenso rapporto, in relazione alle peculiari funzioni svolte da questi ultimi, nell’Amministrazione centrale e all’estero, presso le ambasciate e i consolati. Quali sono, a Suo avviso, gli elementi tipici del rapporto con il decisore politico nello specifico settore?

Sicuramente, la politica estera ha esercitato da sempre un grande fascino. È questo un elemento che fa parte dell’immagine pubblica non solo dei diplomatici di carriera, ma anche dei decisori politici investiti della responsabilità di questo settore del Governo.

Non credo però che il rapporto con il decisore politico sia radicalmente diverso tra un’amministrazione e l’altra: viviamo tutti nella medesima realtà sociale e culturale e siamo tutti chiamati a curare al meglio gli interessi del nostro Paese.

La Farnesina, indubbiamente, ha alcune specificità, derivanti, più che dalle materie di sua competenza, da un fattore, per così dire, “geografico”: la nostra struttura si estende su cinque continenti, per più di 300 uffici (ambasciate, rappresentanze permanenti presso organismi multilaterali, consolati, istituti italiani di cultura, delegazioni diplomatiche speciali, scuole statali all’estero). Questo porta il personale del Ministero (non solo i diplomatici, ma anche i dipendenti dei ruoli amministrativi) ad una mobilità frequente, con un continuo ricambio di personale negli uffici sia in Italia che all’estero. Un adattamento costante che ci rende generalmente flessibili e aperti alle novità, ma comporta uno sforzo continuo, soprattutto quando dobbiamo affrontare temi complessi o materie specialistiche.

A partire dal secondo dopoguerra, L’Italia ha sottoscritto importanti convenzioni internazionali in linea con i principi e i valori della nostra carta costituzionale. È inoltre parte di trattati e accordi bilaterali e multilaterali. L’adesione all’Unione Europea, di cui l’Italia è uno dei paesi fondatori, rafforza, per parte sua, il quadro giuridico appena descritto. Uno dei fattori di complessità e criticità che possono verificarsi nella concreta gestione della politica estera può essere rappresentato dalla necessità di instaurare, mantenere o rafforzare rapporti con paesi i cui ordinamenti e le cui condizioni politiche e sociali, non sono pienamente in linea con principi e valori della nostra carta costituzionale, ma che tuttavia appaiono strategici sul piano delle relazioni internazionali. Come incide a Suo avviso questo

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Conversazione con Stefano Soliman

fattore sull’attività dei diversi settori dell’amministrazione degli affari esteri, compreso l’ufficio legislativo da Lei diretto?

Ogni Paese ha i propri valori e i propri problemi, frutto talora di situazioni contingenti, ma più spesso della storia e della cultura. Conoscerli e capirli è uno dei compiti essenziali di chi fa politica estera, per promuovere al meglio i nostri interessi e per difendere più efficacemente i nostri valori.

Questo mandato si riflette nell’attività di tutta la struttura della Farnesina, non solo di quella all’estero. Come capo dell’ufficio legislativo del Ministero degli esteri mi capita spesso di dover spiegare come le formulazioni contenute nei trattati che portiamo a ratifica siano il frutto del contemperamento di sensibilità diverse o di dover individuare, per esempio con l’apposizione di dichiarazioni e riserve a strumenti multilaterali, punti essenziali di difesa dei nostri principi costituzionali e dei nostri valori. Abbiamo sviluppato nel corso degli anni, in raccordo con i vari uffici del Ministero, metodi di lavoro che consentono, fin dalle prime fasi della negoziazione degli accordi, di evitare soluzioni per noi inaccettabili. Non ci sono tuttavia soluzioni valide per ogni occasione: ogni negoziato e ogni accordo sono un caso a sé.

Nel corso del Suo percorso professionale ha svolto incarichi anche all’estero. Nel più recente periodo, ha maturato una pluriennale esperienza presso gli uffici della Farnesina. Si tratta, intuitivamente, di esperienze professionali sensibilmente diverse. Potrebbe indicare ai nostri Lettori quali sono, secondo la sua opinione le principali caratteristiche dell’una e dell’altra missione?

Prestare servizio in un ufficio all’estero è prima di tutto un’esperienza di vita, che coinvolge l’ambito lavorativo quanto la sfera privata. Ogni trasferimento è un’opportunità di imparare cose nuove e di vivere una realtà diversa, ma è anche un trauma. Ad ogni trasferimento, ciascuno di noi deve provvedere personalmente a risolvere un’infinità di problemi pratici: il trasloco, la ricerca della casa, la scuola per i figli… In molti Paesi dobbiamo modificare comportamenti ed abitudini, per esempio a causa di condizioni sanitarie e di sicurezza difficili, se non addirittura critiche.

Al di là di queste difficoltà, il lavoro all’estero è complesso, ma estremamente interessante. Richiede, come tutti sanno, una notevole dose di sangue freddo e di autocontrollo, ma anche sensibilità per le ragioni altrui e capacità di trovare rapidamente soluzioni equilibrate e praticabili.

Ma forse quello che forse più distingue il lavoro all’estero da quello nella sede centrale in Italia è la sua estrema varietà. Innanzi tutto, ogni realtà è diversa e noi dobbiamo adattarci, con rispetto, alle sue specificità: siamo ospiti del Paese dove lavoriamo. Il nostro lavoro comprende inoltre una varietà di funzioni molto ampia, perché dobbiamo assicurare all’estero la totalità delle funzioni dello Stato:

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L’intervista

dalla rappresentanza politica all’erogazione di servizi consolari ai connazionali e alle imprese, dalla promozione economica e culturale alla difesa degli interessi e talvolta della stessa incolumità fisica dei cittadini.

Infine, i nostri uffici all’estero sono generalmente molto piccoli: compreso il personale assunto localmente, la media è di 16 persone per sede (circa 5.000 persone sono distribuite su 300 strutture). Questo comporta che, salvo nelle poche grandi sedi, all’estero tutti noi siamo chiamati a svolgere, spesso nell’arco della stessa giornata di lavoro, funzioni molto diverse.

In conclusione, nel ringraziare il prefetto Marco Valentini e la redazione di “Itinerari interni” per questa opportunità, desidero esprimere − anche a nome dei miei collaboratori − sentimenti di profonda stima per la professionalità e il senso dello Stato delle donne e degli uomini del Viminale. Lavorare con voi è sempre un piacere e un onore.

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Palazzo della Farnesina − Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale

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STANISLAO PIETROSTEFANI

L'Alpinista, l'Uomo, l'Istituzione

a cura di Ines Millesimi1

Il volume “Stanislao Pietrostefani, l’alpinista, l’uomo, l’istituzione”, curato da Ines Millesimi, è stato pubblicato nell’anno 2010, sotto l’Alto patrocinio del Ministero dell’interno, dal Club Alpino Italiano, sezione di Rieti.

L’interesse della nostra Rivista scaturisce dalla straordinaria vicenda umana e professionale di Stanislao Pietrostefani, prefetto della Repubblica, Cavaliere di Gran Croce e Medaglia d’oro del CAI, la più alta onorificenza dell’associazione.

La biografia che pubblichiamo, tratta dallo stesso volume, consente di cogliere appieno come il prefetto Pietrostefani sia riuscito a coniugare i suoi fondamentali interessi di vita raggiungendo, in ogni campo, vette di eccellenza.

Ciò vale per l’attività alpinistica, svolta soprattutto nell’Appennino centrale – gruppo del Terminillo, Monti Sibillini e Gran Sasso d’Italia – dove apre vie nuove e colleziona prime ascensioni a partire dagli anni trenta; per l’impegno diretto nella vita del CAI, in cui ha rivestito numerosi incarichi di alta responsabilità, da sempre socio della sezione dell’Aquila e di quelle dove svolgerà le funzioni di prefetto; per le numerose pubblicazioni, tra cui la prima guida alpinisticamente completa del Gran Sasso d’Italia, scritta con Carlo Landi Vittorj nel 1943 e più volte ristampata nella storica collana “Guide dei monti d’Italia”; per il suo servizio alla Repubblica, quale appartenente al corpo prefettizio, funzionario con numerosi incarichi e in differenti sedi, poi prefetto di Caltanissetta, Gorizia e infine Arezzo.

Dalla biografia che pubblichiamo emerge come la passione per la montagna abbia permeato in modo osmotico ogni aspetto della vita di questo servitore delle Istituzioni. Nato a Leonessa nel 1908, allora provincia dell’Aquila, si laurea all’Università La Sapienza di Roma, a ventitré anni, con una tesi sull’assetto economico-demografico della montagne dell’Abruzzo aquilano, subito pubblicata sulla rivista del CAI, che sembra già rappresentare una sorta di predestinazione.

La vita di questo figlio della bella e severa terra appenninica, da sempre messa in pericolo dai terremoti – particolarmente ferita nell’ultimo decennio a

1 Ines Millesimi, laureata a Roma e specializzata a Siena in Storia dell’arte contemporanea, insegna Storia dell’arte presso il Liceo artistico di Rieti. Si occupa di critica d’arte scrivendo su importanti riviste del settore e collaborando continuativamente alla realizzazione di mostre e cataloghi con Istituzioni museali italiane. Escursionista, arrampicatrice e attualmente socio pro attivista del CAI sezione di Amatrice ha ideato e curato, subito dopo le sequenze sismiche ad Amatrice, la rassegna culturale annuale “Montagne in movimento”, quest'anno giunta alla terza edizione.

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L’Aquila e ad Amatrice – appare insomma caratterizzata, come evidenziato dal prefetto di Rieti nell’introduzione al volume, dalla simbiosi tra il forte senso del dovere nel servizio reso allo Stato e la grande passione per la montagna, come fossero una cosa sola.

Una passione che può apprezzarsi nelle sue stesse parole, per come riportate nel testo che pubblichiamo, a seguire, in estratto, del discorso celebrativo del IV centenario della prima ascensione al Gran Sasso d’Italia, pronunciato a Prati di Tivo il 31 agosto 1973.

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DISCORSO CELEBRATIVO DEL IV CENTENARIO DELLA PRIMA ASCENSIONE AL GRAN SASSO D’ITALIA1

Autorità, gentili Signore e Signori, amici alpinisti

Premetto che sono sinceramente commosso di essere stato invitato a tenere il discorso celebrativo del IV Centenario della Prima ascensione al Gran Sasso d’Italia.

Non sono un oratore ed appartengo, ormai, alla generazione che, dopo aver percorso tanti sentieri, è prossima ad iniziare quello del tramonto e che chiede a Dio di poter camminare fino all’ultimo raggio di luce.

Due generazioni di alpinisti seguono la mia − nella quale io sono stato un modesto protagonista − due generazioni che hanno il crescente merito di aver portato l’alpinismo sul Gran Sasso ad altissimo grado di perfezione tecnica e spirituale compiendo − specie nell’ultimo ventennio − imprese estive ed invernali difficilissime ed estremamente difficili; qualcuno di tali alpinisti, meno avanti nell’arco degli anni, avrebbe meglio di me onorato questa solenne cerimonia portando nella parola l’incisività con la quale furono concepite e realizzate quelle imprese, sempre più tendenti all’ideale della “purezza” della scalata.

Questa concezione moderna della conquista della montagna che − come ho avuto occasione di scrivere nella Guida del Gran Sasso − rappresenta lo sviluppo logico, nel tempo, del contenuto ideale dell’alpinismo, cioè dell’intima gioia del superamento delle difficoltà, specie se nelle condizioni più dure, ha trovato anche nel Gran Sasso vasto campo di azione, ha portato l’alpinismo abruzzese al livello di quello delle regioni alpine, ha preparato gli alpinisti del Gran Sasso a cimentarsi con maturità di spirito ed ottima preparazione tecnica, in ardite imprese sulle bianche altitudini himalayane.

Lontano, io, per dieci anni dall’Abruzzo, rifacendo, nel 1962, in collaborazione con il caro amico Carlo Landi Vittorj − la seconda edizione della Guida del Gran Sasso e, soprattutto, curandone insieme, nel 1972, la terza edizione − nella quale, tra l’altro, rividi e completai per la terza volta il capitolo sull’alpinismo − ho sentito la bellezza di questo appassionato progresso dei giovani, e tra essi includo anche alpinisti ultra quarantenni.

Bellezza… e nostalgia, si che, talvolta, pur introducendo rare pause nel lavoro relativo alla mia carica di prefetto in Gorizia e poi in Arezzo, per il conforto di

1 Estratto del testo discorso di Stanislao Pietrostefani. La versione integrale del discorso è pubblicata in www.vecchiegloriedelgransasso.it

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qualche facile ascensione nelle Alpi Giulie, con amici di lassù, quindi su per l’alto Appennino tosco-emiliano e nelle Alpi Apuane, avendo compagno l’amico teramano dr. Aldo Possenti, riecheggiavano nella mia mente i versi del grande Poeta Abruzzese sulla lontananza che: “abolita nella parola come inane cura” sembrava, invece, “spandersi senza fine di pianura in pianura, di monte in monte”.

Valga, dunque, amici questa premessa a spiegare se, immodestamente, ho accettato l’invito così gentilmente rivoltomi dall’Ente Provinciale per il Turismo di Teramo, che ringrazio di cuore. Ho avuto così modo di tornare tra montagne amate, a rincontrare amici di tempi lontani, mai dimenticati, poiché anni di lontananza non cancellano le amicizie nate in montagna in quanto nutrite da un comune ideale.

* * *

Tutti questi problemi non occupavano certo la mente dell’ingegnere militare capitano Francesco De Marchi, la mattina del 19 agosto di quattrocento anni fa, quando, dietro la guida “sercese” Francesco di Domenico e seguito dal milanese Cesare Schiaffinato e da Diomede dell’Aquila, arrampicava mani e piedi per la pietraia sconnessa e franosa che da Campo Pericoli montava verso la cresta del “Corno Monte” e che secondo il compianto Avv. Michele Iacobucci − potrebbe identificarsi con il “canalone Bissolati”.

Eccezionale figura quella dell’ingegnere De Marchi, nato a Bologna nel principio del 1504, morto il 15 febbraio 1576 all’Aquila. Autore di un trattato di “architettura militare”, ultimato nel 1565, e di altre opere, ritiratosi nel capoluogo abruzzese, rivide ed aggiornò il proprio lavoro e vi inserì la descrizione della sua ascensione al Gran Sasso, l’accenno alla visita ad altri monti della zona, tra i quali il Terminillo e la relazione della esplorazione della Grotta a Male, sopra Assergi.

Angelo Maurizi nella sua brillante sintesi della storia dell’Alpinismo sul Gran Sasso, scritta nel 1936 nel numero unico sul Cinquantenario del Rifugio Garibaldi, edito dalla Sezione di Roma del CAI – alla redazione del quale ebbi l’onore di collaborare − dopo aver dato come “probabile” l’ascensione del 1573, volle definire, o meglio, ritenne bello immaginare il capitano Francesco De Marchi “un isolato … forse uno di quegli uomini che nascono non si sa come fuori del loro tempo. E in questo vivono a disagio”: E lo immagino “apparso d’un tratto a ricordare agli Italiani l’esistenza della loro più poderosa montagna mediterranea, poi sparito così con il tempo. E gli italiani dimenticarono tutto subito dopo di lui”.

Lo studio di Mario Esposito, pubblicato nel 1938 sul Bollettino della Società Geografica Italiana, condotto con attenta erudizione, dopo aver ricordato che già nel 1895 l’abruzzese Giovanni Pansa basandosi su “un codice fiorentino del 1816 stampato a Modena dal celebre fisico Giambattista Venturi”, aveva attribuito al De Marchi il merito della prima ascensione del Gran Sasso d’Italia, portò alla luce il “codice autografo” dell’ingegnere militare cinquecentista, rimasto a lungo ignorato e dal 1938 depositato alla Biblioteca Comunale di Bologna.

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È peraltro, anche storicamente certo che nel 1794, quando lo scienziato teramano Orazio Delfico inspirandosi, sembra, alla nota descrizione del Monte Bianco di Orazio Benedetto de Saussure, salì per primo − anch’egli con chiari intenti scientifici − la Vetta Orientale del Gran Sasso, meno alta di 4m ma meno facile della Occidentale, l’ascensione del De Marchi era ancora nell’oblio.

Figura eccezionale, ripeto, quella del De Marchi, ma, a mio parere, non del tutto fuori del suo secolo.

Non sappiamo se egli abbia avuto presenti altre ascensioni dell’epoca o precedenti, cominciando da quella del Petrarca al Monte Ventoux (m. 1912) nel 1336 o di Enea Silvio dei Piccolomini (Pio II) che tra le varie escursioni alpine attraversò molte volte il S. Gottardo e lasciò descrizioni vive della natura alpestre. Forse il De Marchi seppe o lesse qualcosa sulla attività nel secolo XVI degli umanisti svizzeri: di Vadiano che, nel 1518, salì una delle cime del Pilatus, di Marty di Berna che vinse, nella stessa epoca, lo Stokhorn (m. 2192) e il Miesen (m. 2366), di Corrado Gessner che nel 1555 salì il Pilatus per poter poi descrivere le catene alpine e che già nel 1541 aveva scritto: “quale divertimento, in questo mondo, può essere così elevato, prezioso e perfetto come l’andare in montagna?”.

Siamo nel cosiddetto periodo del pre-alpinismo, che si concluderà nelle Alpi col De Saussure, nel 1787, l’anno dopo la conquista del Monte Bianco da parte di Paccard e Balmat (8 agosto 1786), data d’inizio dell’alpinismo classico.

E come altre imprese del periodo pre-alpinistico quella del De Marchi − indubbiamente la salita più importante del secolo XVI − ebbe scopi scientifici: “Il detto Monte − scrive il De Marchi − era trentadu’anni che io desideravo di montarci sopra per levar le dispute delle altezze di altri Monti”.

Nel frattempo si era recato “in li monti di Leonessa del Regno”... ove è il “Termenile”... “altissimo e pieno di fontane”. In una di esse si lavò le mani e in breve “si scorticarono”.

La freschezza delle alte fontane del Terminillo mi è nota. Le mani dell’illustre architetto militare della Corte di Margherita d’Austria Farnese avevano, forse, l’epidermide delicata ma, per contro, quest’uomo aveva la forza e l’indomito spirito del montanaro.

Aveva sessantanove anni il 19 agosto 1573. Dal Castello di Sercio (Assergi) Lui, la guida, i portatori Giovanni e Giovanpietro di Giulio e gli altri due compagni si portarono a cavallo a “Campo Priviti” (Campo Pericoli), quindi su a piedi. “Qui − scrive − non si vede strada ne sentiero ne scala, ma a giudicio bissogna andare, dimodoché cominciassimo a camminare dove io arrivai in una vena di pietra altissima dove io non potteva andar più innanzi se non havesse havute l’ali. Et così tornai indietro con grandissimo pericolo e pigliai un’altra strada. Con la guida fussimo forzati tornare e pigliarn’un’altra, di modo che passassimo per sino alla sommità del monte dove non vedemmo modo di potervi salire, ma Francesco ch’era la guida diss’: ‘Io voglio andare in ogni modo’. Et io dissi ‘dove tù anderai veniro anc’io’”.

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Cesare Schiaffinato e Diomede dell’Aquila nulla obiettarono a quella decisa unità d’intenti. È il momento critico dell’ascensione; il suo superamento e la condizione del successo. Ed è anche il momento storico in cui si accende per la prima volta, sulla più alta vetta dell’Appennino, la fiamma della passione alpinistica.

Al cacciatore di “camoccie” Francesco Di Domenico ben poco importano le “misurazioni” dell’ingegnere. Ma egli − che di malavoglia ha accettato di tornare sul “Corno Monte” − sente che deve superare le difficoltà della montagna poiché egli è in quel momento “la guida”.

Giustamente Virgilio Ricci lo considererà, in un articolo sulla rivista del CAI, la prima guida italiana nel tempo. E il quasi settantenne ingegnere con la sua pronta risposta: “dove tù anderai veniro anc’io” e gli altri in silenzio, sanno che − indipendentemente dallo scopo scientifico − l’ascesa deve essere condotta a termine.

Nasce cosi, nel secolo XVI, l’alpinismo sul Gran Sasso d’Italia. L’alpinismo che è sport nel senso più nobile della parola poiché la competizione è tra l’uomo e le difficoltà ben più grandi della natura.

È una fiamma di breve durata che tornerà ad ardere soltanto tre secoli dopo ma in quel 19 agosto di quattrocento anni or sono portò il De Marchi e i suoi compagni ad arrampicare per “pietre fragilissime” e per “vene di sassi … cosa horrenda d’andarvi”, fino a raggiungere dopo oltre cinque ore la vetta.

Secoli dopo altri uomini avrebbero imparato non solo a superare ma anche ad amare su tutte le grandi montagne le “vene di sassi orrende”, le pareti di roccia e di ghiaccio, quel mondo che – scrive Rebuffat − “nella sua povertà estrema, nella sua nudità totale, elargisce una ricchezza che non ha prezzo: la felicità che si scorge negli occhi di coloro che lo frequentano”.

Così fu, dunque, raggiunta la Vetta del Gran Sasso d’Italia.

“Quand’io − scrive il De Marchi − fuoi sopra la sommità, mirand’all’intorno parea che io fussi in aria”. Tutti gli altri monti erano più bassi. L’ingegnere diede fiato al suo corno facendo levare in volo dalle pareti “Aquile, Falconi, Sparvieri, Gavinelle e Corvi”: Quindi De Marchi, Schiaffinato e Diomede intagliarono sulle rocce i loro nomi (non vi era ancora il libro della vetta!). Infine l’ingegnere piantò “lo strumento” e cominciò le “misure”.

Tralascio la descrizione abbastanza precisa che il De Marchi fa della orografia e della idrografia del Gruppo e passo a ricordare che il giorno dopo l’ascensione, tornato ad Assergi l’ingegnere compiva un’altra eccezionale impresa: l’esplorazione della Grotta “Amare” (A Male) lasciandone una descrizione di carattere scientifico “ricca di particolari, di intuizioni brillanti e di misurazioni” − notano gli speleologi aquilani Lucrezi e Villante − da considerare il preludio alla moderna speleologia.

Non uomo fuori del suo secolo, ma, indubbiamente un precursore fu Francesco De Marchi ma tutt’altro che romantico. La sua prosa è scarna e fredda, precisa nelle descrizioni, con qualche inevitabile iperbole ma senza entusiasmi.

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L’aver raggiunto la vetta lo soddisfa ma non sembra commuoverlo. Salvo quella frase: “mirand’all’intorno parea che io fussi in aria”.

Ma era lo stile di molti scienziati, architetti, geografi ecc. del Rinascimento; incisivi e precisi, anticiparono, talvolta, con studi attenti, osservazioni minute e sorprendente intuizione ciò che la scienza e la tecnica avrebbero scoperto o realizzato secoli dopo.

Era l’epoca nella quale il grande Leonardo dipingeva con passione “La Cena” creando − dirà poi il D’Annunzio nella “Canzone in morte di Giuseppe Verdi” − “la luce in Cristo e l’ombra in Giuda” e progettava la macchina per volare.

Nessuna meraviglia quindi che un maestro nell’arte delle fortificazioni militari salisse sui più alti monti della penisola per misurarne le altezze o scendesse ad esplorare le viscere della terra, compiendo queste imprese a tre anni dalla sua morte, quando, ormai, il secolo XVI, “il secolo carnale, di grandi cose moribonde carco” volgeva al tramonto.

E come su altri trattati e manoscritti − che rare ancora erano le stamperie, benché sembra che L’Aquila ne avesse una (1) − anche sulla relazione del De Marchi cade la polvere dei secoli successivi e l’impresa resta a lungo ignorata.

Secoli dopo altri uomini saliranno sulle cime del colosso appenninico, in estate e in inverno.

Saranno i cosiddetti “pionieri” del CAI di Roma con le guide Acitelli di Assergi, gli artefici cioè dell’alpinismo classico sul Gran Sasso. Seguiranno, poi gli alpinisti “senza guide” della SUCAI Roma, degli “Aquilotti del Gran Sasso” di Pietracamela e del CAI dell’Aquila. Avrà, quindi, inizio nel 1934 anche sul Gran Sasso l’alpinismo moderno che porterà a salite di VI° grado e alla ripresa dell’alpinismo invernale su vie già difficilissime e di fortissimo impegno in estate.

Nessuno scriverà più la frase “quand’io fui sopra la sommità, mirand’all’intorno parea che io fussi in aria”.

Ma all’ombra delle grandi vette, come in tutte le vallate alpine, anche in Abruzzo sarà il canto popolare a celebrare il Gran Sasso con i versi della canzone: “me parea che passu passu je sajesse a j’infinitu”.

Così il canto montanaro, nella sua poesia ingenua e serena enuncerà la vera essenza dell’alpinismo di tutti i tempi, poiché in ogni ascensione, ogni passo verso la vetta, o per aspri sentieri o sulla dirittura implacabile di pareti di roccia e di ghiaccio, è, per l’alpinista, ascendere verso quei momenti di serenità e di gioia che dona la vetta raggiunta e che nascono, forse, dal mistero infinito dell’anima umana.

Prati di Tivo, 31 agosto 1973

(1) Dalle precise note di Alessandro Clementi nella pubblicazione “IL CORNO MONTE” finita

di stampare all’Aquila il 5 settembre 1973, risulta che il Trattato di De Marchi, con la relazione

dell’ascensione fu pubblicato postumo a Brescia nel 1599 dallo stampatore Dall’Oglio e ripubblicato

a Roma nel 1810.

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ANDREA CAMILLERILa concessione del telefono

Sellerio, Palermo, 1998

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Andrea Camilleri - La concessione del telefono

Per questo numero abbiamo scelto di pubblicare alcuni brani estratti dal sagace e divertente racconto La concessione del telefono del compianto “maestro” Camilleri, di recente scomparso all’età di 93 anni.

Il breve romanzo descrive una storia che si svolge tra Palermo, Montelusa e Vigata tra il 12 giugno 1891 e il 20 agosto 1892 ed è stato terminato dall’Autore nel 1997, un paio d’anni dopo il ritrovamento tra le sue carte di casa di un decreto ministeriale che concedeva l’installazione di una linea telefonica privata.

Prendendo spunto proprio da quel provvedimento datato 1892, con una attenzione spasmodica ai particolari che si traduce in una precisissima ricostruzione storica, sia nell’ambientazione che nella citazione di ministri e personaggi politici dell’epoca, Camilleri plasma uno dei suoi racconti più convincenti ed amabili.

La trama vede protagonista un piccolo commerciante di legnami ed ex perdigiorno, Filippo Genuardi, al quale viene in mente di richiedere la concessione di una linea telefonica per la sua attività. Dopo aver scritto una prima lettera al prefetto di Montelusa, rimasta priva di seguito, scrive due solleciti. Per il tramite di un boss mafioso, che s’interessa alla faccenda, il Genuardi scopre di aver sbagliato il cognome del prefetto: si chiama Marascianno e non Parascianno, che in napoletano allude a dimensioni anatomiche. Il prefetto, insomma, si è convinto che Pippo Genuardi gli abbia rivolto un’offesa inaccettabile. Quello che segue è il racconto di una serie di incredibili disavventure per il povero Filippo Genuardi, il quale, scambiato con un altro F. Genuardi − quest’ultimo segnalato da tempo alle autorità come sobillatore e rivoluzionario − viene perseguitato quasi da tutti: lo Stato, la polizia, i suoi stessi concittadini; a voltargli le spalle sono perfino i grossisti presso cui comprava la legna. Viene, infine, mandato a nascondersi a Palermo, con la scusa di doversi occupare di affari importanti…lui che di politica, non ci ha mai capito nulla, anzi se n’è sempre tenuto lontano!

Lo stile del divertente racconto è un misto di forma epistolare e di trascrizione di dialoghi che consente al lettore, pur in mancanza di una voce narrante, di farsi trasportare nella vicenda e nella trama, nonostante l’alternanza di cambi di registro, che oscillano tra lo scritto e l’orale, il burocratico ed il colloquiale, il familiare e l’ossequioso estremo.

Quello che ne vien fuori è una amabilissima storia dal tono ironico, fatta di fraintendimenti e di eccessivi formalismi che ci fa tanto sorridere al pensiero di quanto, ancor oggi, sia faticoso e burocraticamente complesso il rapporto di un cittadino con la Pubblica Amministrazione.

I colpi di scena − che non mancano in questo contesto narrativo assai complesso ma altrettanto godibile – sono alimentati da una serie di equivoci che spingono il pubblico alla risata, nonostante il retrogusto amaro per le evidenti contiguità al potere mafioso, percepito all’epoca come inevitabile.

Per il grande gradimento riscosso presso il pubblico e la critica, La Concessione del telefono è diventato una pièce teatrale di successo nonché la sceneggiatura di un film per la regia di Roan Johnson le cui scene sono attualmente in corso registrazione in splendide città siciliane.

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Cultura

A Sua Eccellenza Illustrissima

Vittorio Parascianno

Prefetto di

Montelusa

Vigàta li 12 giugno 1891

Eccellenza,

il sottoscritto GENUARDI Filippo, fu Giacomo Paolo e di Posacane Edelmira, nato in Vigàta (provincia di Montelusa), alli 3 del mese di settembre del 1860 e quivi residente in via dell’Unità d’Italia n. 75, di professione commerciante in legnami, desidera venire a conoscenza degli atti occorrenti per ottenere la concessione di una linea telefonica per uso privato.

Gratissimo per la benigna attenzione che V.E. vorrà dedicare alla richiesta, si professa devot.mo in fede

Genuardi Filippo

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Andrea Camilleri - La concessione del telefono

A Sua Eccellenza Illustrissima

Vittorio Parascianno

Prefetto di

Montelusa

Vigàta li 12 luglio 1891

Eccellenza,

il sottoscritto GENUARDI Filippo, fu Giacomo Paolo e di Posacane Edelmira, nato in Vigàta (provincia di Montelusa), alli 3 del mese di settembre del 1860 e quivi residente in via dell’Unità d’Italia n. 75, di professione commerciante in legnami, osò, in data 12 giugno corrente anno, vale a dire un mese or’è esatto, di sottoporre alla generosità e alla benevolenza di Vostra di Vostra Eccellenza la richiesta di venire edotto delle pratiche indispensabili al fine d’ottenere la concessione governativa di una linea telefonica per uso privato.

Non avendo, certo per un banale disguido, ricevuta risposta veruna dall’Officio che Ella tanto equamente presiede, il sottoscritto si trova nell’assoluta necessità di dover umilmente rinnovare la domanda.

Gratissimo per la benigna attenzione che V.E. saprà dedicare alla mia richiesta e profondamente iscusandomi per il disturbo arrecato alle Sue Alte Funzioni, mi professo devot.mo in fede

Genuardi Filippo

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Cultura

A Sua Eccellenza Illustrissima

Vittorio Parascianno

Prefetto di

Montelusa

Vigàta li 12 agosto 1891

Eccellenza illustrissima e riveritissima!

Il sottoscritto GENUARDI Filippo, fu Giacomo Paolo e fu Posacane Edelmira, nato in Vigàta (provincia di Montelusa), alli 3 del mese di settembre del 1860 e quivi residente in via Cavour n. 20, commerciante in legnami, temerariamente s’azzardò, in data 12 giugno corrente anno, vale a dire due mesi esatti orsono, di sottoporre alla magnifica generosità, alla larga comprensione e alla paterna benevolenza di Vostra Eccellenza una supplica onde venire informato degli adempimenti necessari (documenti, certificati, attestazioni, testimonianze, deposizioni giurate) alla formulazione di una domanda tendente ad ottenere la concessione governativa di una linea telefonica per uso privato. Certamente per un banale disguido, che neanche lontanamente il sottoscritto si sogna d’imputare alla Regia Amministrazione delle Poste e Telegrafi, non ricevuta risposta veruna si vide costretto, con estremo rammarico, a tornare a importunare l’Eccellenza Vostra in data 12 luglio corrente anno.

Nemmanco questa seconda volta gli pervenne la desiata risposta.

Certo di non meritare lo sdegnoso silenzio di Vostra Eccellenza, il sottoscritto per la terza volta si prosterna, impetrando la Vostra Augusta Parola.

Gratissimo per la benigna attenzione e profondamente iscusandomi per il disturbo arrecato alle Vostre Alte Funzioni, mi professo di V.E. devot.mo in fede

Genuardi Filippo

P.S. Come V.E. potrà dedurre dalla comparazione di questa mia con le due che l’hanno preceduta, nelle more dell’iter la mia compianta Mamma è stata chiamata dal Signore e il sottoscritto si è perciò trasferito nel di lei appartamento resosi vacante e ubicato appunto in via Cavour n. 20.

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Andrea Camilleri - La concessione del telefono

TENENZA dei REALI CARABINIERI di VIGÀTA

A Sua Eccellenza

il Prefetto di

Montelusa

Vigàta li 2 novembre 1891

Oggetto: Genuardi Filippo

In ottemperanza alla richiesta, la Tenenza dei RR CC di Vigàta si pregia trasmettere quanto segue attinente al nominativo in oggetto:

Genuardi Filippo fu Giacomo e fu Posacane Edelmira, nato in Vigàta il 3 settembre 1860 e quivi domiciliato in via Cavour 20, di professione commerciante di legnami, risulta essere a tutti gli effetti incensurato. Non ha carichi pendenti.

Purtuttavia si segnala che il Genuardi è da lungo tempo sottoposto, da questa Tenenza, a vigile attenzione.

Dopo anni di sregolatezza e di deboscio, il Genuardi, negli ultimi tempi, si è, agli occhi della pubblica opinione, ravveduto, menando vita regolare che non offre luogo a scandalo o a vociferazioni.

Questa Tenenza però nutre il sospetto che tale ravvedimento sia soltanto apparente, inteso a nascondere sotterranee mene.

Il Genuardi difatto è uomo di smodata ambizione, disposto a tutto pur di raggiungere i suoi fini. Ama, inoltre, mettersi sempre in evidenza. Prova ne sia, tra l’altro, che si è fatto arrivare dalla Francia un costosissimo quadriciclo a motore che la Ditta Panhard-Levassor che lo fabbrica ha de nominato «Phaëton». Esso quadriciclo ha una capacità d 2 C.V. (cavalli vapore); trasmissione a cinghia, lampade acetilene. Il suo motore, funzionante a petrolio, può raggiungere la velocità di 30 chilometri all'ora.

A questa Tenenza risulta che macchine di questo tipo in tutta Italia ce ne siano solamente tre.

Non pago di ciò, il Genuardi si è fatto pervenire, sempre dalla Francia, una macchina parlante e cantante, chiamata alla francese, «phonograph Edison».

Il Genuardi quindi, per il suo tenore di vita, necessita d molto danaro che il commercio di legnami certamente non può rendergli. Egli supplisce, ma solo in parte, facendo sovente ricorso alla magnanimità del suocero, Emanuele Schirò, ricco e stimato commerciante.

A parte le suddette ragioni, questa Tenenza ha motivi assi rilevanti per continuare la vigilanza sulla persona in oggetto.

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Cultura

Risulta infatti incontrovertibilmente che nella sua abitazione sita in via Cavour 20, per ben due volte (in data 20 gennaio e 14 marzo corrente anno) ha avuto convegno con noti agitatori e sobillatori politici Rosario Garibaldi Bosco, siciliano, ragioniere, Carlo Dell’Avalle e Alfredo Casati, questi ultimi due milanesi, operai.

Questa Tenenza ritenne allora di non doversi procedere all’arresto mancando precise disposizioni in proposito.

In fede.

Con osservanza

Il Comandante la Tenenza dei RR CC.

(Ten. Gesualdo Lanza-Turò)

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Andrea Camilleri - La concessione del telefono

DELEGAZIONE di PUBBLICA SICUREZZA di VIGÀTA

Al Signor Questore

di Montelusa

Vigàta li 7 novembre 1891

Nel compiegarmi copia del rapporto inviato dal Tenente dei RR CC. Gesualdo Lanza-Turò a Sua Eccellenza il Prefetto di Montelusa Lei mi domanda se sono a conoscenza della collusione di Genuardi Filippo con noti agitatori politici e, in caso affermativo, perché non abbia ritenuto opportuno segnalarLe il fatto. Ero perfettamente al corrente che i sobillatori Rosario Garibaldi Bosco, Carlo Dell’Avalle e Alfredo Casati eransi recati li 20 gennaio e li 14 marzo corrente anno in un appartamento di via Cavour n. 20 in Vigàta.

Come lei certamente ricorderà, tanto il dimissionario Governo Crispi quanto l’attuale Governo Di Rudinì, mai hanno emesso ordini di cattura a vista contro agitatori politici che si limitano ad esprimere le loro opinioni. Sono perseguibili, come qualsiasi altro cittadino, solo nel caso commettano reati contemplati dal Codice Penale. Di conseguenza questa Delegazione si è attivata solamente per sorvegliare i movimenti dei tre individui e per farne rapporto all’allora Questore in carica, comm. Bàrberi-Squarotti. Le date delle due visite dei predetti rivoluzionari in via Cavour n. 20, sono, così come segnalate dal Ten. Lanza-Turò, assolutamente esatte.

Però, se sono esatte, si evidenzia immediatamente che tanto in gennaio quanto in marzo il Genuardi Filippo ancor non erasi trasferito in via Cavour n. 20 bensì abitava via dell’Unità d’Italia n. 73 in un appartamento locato.

Difatto, sino al 1 agosto corrente anno l’appartamento via Cavour n. 20 era abitato dalla madre del Genuardi, Posacane Edelmira in Genuardi.

Essendo defunta la signora, il figlio, con assoluta mancanza di tatto, il giorno appresso il funerale materno s’accampava nell’appartamento con la moglie.

Mi necessita a questo punto portare a Sua conoscenza la casa sita in via Cavour n. 20 si compone di due appartamenti sovrapposti. Quello al piano terreno è tutt’ora occupato dalla signora Verderame Antonietta, nata a Catania novantatré anni orsono; quello sovrastante è l’attuale abitazione del Genuardi Filippo. Orbene, la signora Verderame Antonietta è la zia materna del sobillatore Rosario Garibaldi Bosco che nutre verso di lei sensi di tenerissimo affetto. Trovandosi in Vigàta nei giorni 20 gennaio e 14 marzo corrente anno, non poté trattenersi dall’andare a trovarla tutte e due le volte, dopo avere comprato nella locale pasticceria Castiglione una dozzina di cannoli di ricotta dei quali la sig Verderame, a malgrado della veneranda età, è ghiottissima. Aggiungo, per la precisione, che nella seconda visita i signori Dell’Avalle e Casati non entrarono nell’appartamenti limitandosi ad attendere il loro compagno nell’androne (lo si desunse dai mozziconi di sigaro lasciati in loco).

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Cultura

Pertanto devo confermare quanto già dichiarato nel mio precedente rapporto: Genuardi Filippo non ha idee politiche e men che mai contatti con mestatori di qualsiasi genere.

Di Lei devot.mo

Il Delegato di P.S. di Vigàta

(Antonio Spinoso)

Apprendo in questo preciso momento che il Genuardi Filippo è stato, su preciso ordine di S.E. il Prefetto, ristretto in carcere dal Ten. Lanza-Turò.

Per amor di Dio, intervenga!

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Dalla libreria

Le lingue ufficiali dell’Unione Europea sono attualmente 24. È sufficiente forse solo questo dato per evidenziare come la gestione della comunicazione sia un affare serio e complicato per l’euroburocrazia di Bruxelles.Che la babele linguistica europea sia destinata, ancora oggi, a rappresentare un ostacolo per un compiuto processo di integrazione dell’Unione è evidente. Ciò che rischia di rimanere in ombra è, invece, la circostanza che politiche europee, strategie comunicative, legittimazione delle stesse istituzioni europee hanno assunto nel tempo una sempre maggiore interdipendenza. Ed è proprio questo il tema che si propone di approfondire e lumeggiare il libro “La Comunicazione pubblica dell’Europa” di Lucia D’ambrosi, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze politiche, della Comunicazione e delle Relazioni

internazionali dell’Università di Macerata.Le riflessioni che l’Autrice sviluppa sulla strategia di comunicazione dell’UE, a partire dall’analisi critica dei documenti ufficiali più recenti, si intrecciano con questioni di stretta attualità e di fondamentale importanza quali: l’assetto dell’attuale sfera pubblica europea, il faticoso percorso di costruzione della governance comunitaria, il rapporto tra istituzioni europee, cittadini e professionisti dell’informazione, nell’ambito delle sfere mediatiche nazionali e nel contesto sovranazionale. I più recenti fattor i cr itici dell’europeizzazione, costituiti dalla crescente pressione migratoria, dalla precarizzazione del lavoro, dalle misure di austerità, hanno fatto emergere sentimenti antieuropeisti ed alimentato una generale sfiducia nei confronti dell’UE che,

LUCIA D’AMBROSILa comunicazione pubblica dell’EuropaIstituzioni, cittadini e media digitali

Carocci, Roma, 2019

Luca Antonio Colarusso

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Lucia D'Ambrosi

secondo l’Autrice, sarebbero da imputare anche ad un deficit di comunicazione, vale a dire, alla mancanza di un’adeguata informazione su cosa sia l’Unione e sulle sue diversificate attività. In effetti, il percorso analitico seguito nel volume evidenzia come le notizie che provengono dall’Europa siano spesso percepite come lontane, difficilmente comprensibili, poco funzionali alle esigenze di informazione e alla richiesta di trasparenza dei cittadini; emerge in particolare che le informazioni veicolate assumono frequentemente un carattere troppo specialistico, mentre l’analisi critica delle notizie, venendo filtrata dai media con questioni di politica nazionale, finisce per risultare asfittica sul piano dell’approfondimento del più ampio dibattito europeo. In sostanza, la tesi è che le difficoltà cui va incontro l’UE nella gestione della comunicazione sembrano, in qualche modo, intimamente legate alla sua stessa complessità sistemica. Problema non da poco.Anche per questo, evidenzia l’Autrice, negli ultimi anni le istituzioni comunitarie hanno reso centrale l’obiettivo di migliorare l’informazione e la comunicazione, nella consapevolezza che tali attività risultino indispensabili per approfondire il processo di integrazione politica europea, assicurare la legittimità democratica delle istituzioni, recuperare quella parte di opinione pubblica che da un originario euroentusiasmo è scivolata, con vertiginosa parabola, verso atteggiamenti di euroscetticismo, o addirittura di eurofobia, in particolare dopo l’allargamento ad est dell’Unione.Un particolare focus è dedicato alla strategia comunicativa dell’UE messa a punto nell’ultimo ventennio; periodo in cui le istituzioni europee, orientandosi

decisamente verso un approccio going local, hanno privilegiato una comunicazione basata sui cittadini più che sulle istituzioni, e un modello più decentrato − meno imperniato su Bruxelles − in cui la comunicazione pubblica europea è intesa come una funzione diffusa tra i diversi organi centrali e locali. Il volume ripercorre, in sintesi, le tappe principali dello sviluppo dell’attività di comunicazione promossa dall’UE, soffermandosi sulle finalità perseguite, non limitate alla sola dimensione informativa bensì volte a favorire la costituzione della cittadinanza europea, stimolare l’ascolto e l’attivazione degli strumenti di partecipazione diretta ed indiretta.Proprio alla spinosa questione della partecipazione dei cittadini alle politiche comunitarie è dedicato il capitolo conclusivo del volume che esplora il tema dell’e-democracy e il rapporto con i tradizionali strumenti che l’ordinamento dell’UE ha previsto per favorire iniziative dal basso come le petizioni, il mediatore europeo, l’iniziativa europea dei cittadini, sino a giungere ai recenti interventi di consultazione pubblica on line avviati dalla Commissione Europea, con risultati, tuttavia, non sempre soddisfacenti.Di qui l’esigenza di sperimentare nuove e sempre più efficienti forme di comunicazione al passo con i tempi e la necessità, come suggeriscono le pagine finali del volume, di costruire un processo circolare virtuoso tra informazione, creazione della conoscenza e incoraggiamento all’impegno civico transnazionale, al fine di favorire quel processo di identità e di integrazione su cui poggia il destino dell’Europa nei prossimi decenni. C’è ancora molto da fare... e da comunicare.

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Dalla libreria

A. CANALE, D. CENTRONE,F. FRENI, M. SMIROLDOLa Corte dei Conti.Responsabilità, Contabilità, Controllo

Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019

Alessandra Cupi

Quel che connota a prima vista l’opera, conferendo ad essa una visione prospettica di ampio respiro, è la completezza delle tematiche affrontate: la Corte dei conti viene tratteggiata sia come istituzione, sia in relazione alle funzioni che ad essa sono assegnate e alle attività che è chiamata a svolgere.Colpisce l’impostazione che, lungi dall’essere meramente manualistica, riesce a ricostruire strutture, funzioni e attività attraverso i principi che tali strutture, tali funzioni e tali attività governano.Una ricostruzione che declina istituti, concetti, principi, regole e nozioni curando per ogni singolo argomento una metodica disamina di tutti i

1 Ci si riferisce al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 con il quale, in attuazione della legge delega 7 agosto 2015, n. 124, è stato adottato il Codice di giustizia contabile.

profili e di tutte le implicazioni e che arricchisce la trattazione con spunti giurisprudenziali, sia relativi all’origine pretoria di alcuni istituti, sia connessi al profilo in divenire, all’evoluzione ancora in atto.È il caso, per citarne uno, dell’appro-fondimento relativo alle fattispecie di responsabilità sanzionatoria, come enucleate alla luce del Codice di giu-stizia contabile che, atteso l’ancora troppo breve periodo di vigenza e di applicazione, non ha creato orienta-menti consolidati.La sistematicità dell’opera, d’altronde, forse si ispira proprio al principio informatore che ha guidato il legislatore del 20161 nella redazione del Codice: la sistematizzazione di

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A. Canale, D. Centrone, F. Freni, M. Smiroldo

disposizioni, stratificate nel tempo, eterogenee, frastagliate, scomposte in un caleidoscopio incredibilmente frammentato, relative a tutte le tipologie di procedimenti esperibili innanzi alla Corte. Un sistema di giustizia, quello delineato dal decreto legislativo n. 174/2016, depurato da pleonasmi e superfetazioni normative e restituito all’interprete come strumento snello ed efficace. Tra la giurisprudenza analizzata nel testo non può non farsi riferimento alla sentenza n. 18/2019 della Corte Costituzionale che ha sacramentato, sulla base dei principi del federalismo solidale e della equità intergenerazionale, il divieto per gli enti locali in stato di predissesto, di fare ricorso al debito per finanziare la spesa corrente. La Corte ha infatti dichiarato incostituzionale la disposizione che consente agli enti locali in stato di predissesto di ricorrere all’indebitamento per gestire in disavanzo la spesa corrente per un trentennio. La procedura di prevenzione dal dissesto degli enti locali è costituzionalmente legittima, a parere della Corte, solo se supportata da un piano di rientro strutturale di breve periodo. Il legislatore statale – sulla base dei principi del federalismo solidale – può destinare nuove risorse per risanare gli enti che amministrano le comunità più povere ma non può consentire agli enti, che presentano bilanci strutturalmente deficitari, di sopravvivere per decenni attraverso la leva dell’indebitamento. Quest’ultimo, ha rilevato la Corte, deve essere riservato, in conformità all’articolo 119, sesto comma, della Costituzione, alle sole spese di investimento (cosiddetta regola aurea).

Il volume è suddiviso in quattro parti.La prima tratteggia l’organizzazione della Corte dei conti e le sue funzioni.La seconda è riservata alla respon-sabilità amministrativa della quale vengono dapprima delineati i profili sostanziali per poi approfondire, inve-ro magistralmente, il tema del danno, in tutte le sua variegate sfaccettature, e dei criteri per la sua quantificazione. È evidente la particolare cura riserva-ta dagli Autori alla enucleazione del-le fattispecie di danno più rilevanti: dal danno all’immagine al danno da disservizio, dal danno da tangente a quello da illegittimo conferimento di incarichi e consulenza; dal danno da omesso versamento del compenso da parte del dipendente pubblico inde-bito percettore, a quello ambientale, solo per citarne alcuni. Il tutto, sem-pre, con occhio attento all’evoluzione giurisprudenziale.La parte terza è dedicata alla respon-sabilità contabile, alla distinzione tra gestioni amministrative e gestioni contabili, all’individuazione dei sog-getti obbligati a rendere il conto giu-diziale e al giudizio per resa di conto e sul conto.La parte quarta approfondisce la contabilità e la funzione della finanza pubblica, sviscera la tematica dei controlli nell’ordinamento contabile, illustra i principi del bilancio dello Stato, anche con riferimento alla nuova governance europea; esplicita i principi relativi alla copertura finanziaria delle leggi illustrando le diverse tecniche di copertura e descrive i bilanci degli altri enti pubblici alla luce del principio di armonizzazione.Una parte speciale è dedicata all’ap-profondimento dei principi della con-

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Dalla libreria

tabilità finanziaria, di quella economi-ca e di quella analitica.Vengono esaminat i i l tema dell’equilibrio dei bilanci pubblici nella Costituzione nella legislazione ordinaria e quello dell’armonizzazione, coordinamento e consolidamento dei conti pubblici. Un’ampia e approfondita disamina viene dedicata alla finanza degli enti territoriali, alle situazioni di crisi finanziaria degli enti locali, ai piani di riequilibrio finanziario pluriennale e alla procedura di dissesto guidato.

2 Angelo Buscema, Presidente della Corte dei Conti.

Segue, infine, una parte relativa ai controlli.In chiusura, torna utile il richiamo alle parole del Presidente Buscema2 che, nella pregevole presentazione del volume, afferma che questo “può costituire un utile strumento di buona informazione e comunicazione alla collettività delle attività svolte dal nostro Istituto, anche al fine di rassicurare i cittadini che l’azione della Corte è svolta nel loro interesse, rafforzando in tal modo la fiducia nelle istituzioni.”.

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Carlo Galli

Sosteneva Tocqueville, il cui padre era prefetto, che quando il cittadino è passivo, inevitabilmente la democrazia si ammala. In pieno Ottocento, da sociologo raffinato, da magistrato travagliato dal sentimento della realtà contraddittoria e sfuggente della sua epoca, da osservatore disincantato della società francese ed americana messe opportunamente a confronto, egli giunse alla conclusione che vi è la certezza della sovranità popolare, quando tutti, indistintamente, partecipano alla gestione della cosa pubblica.Se, per ipotesi, volessimo partire da queste limpide considerazioni di Tocqueville, solo per ribaltarne l’ordito dei suoi assunti e leggerne il rovescio, scopriremmo, senza sorpresa, che anche l’affermazione opposta, e tuttavia uguale e contraria, risulterebbe, allo stesso modo, vera: quando le istituzioni,

i partiti, i movimenti politici, le strutture burocratiche, che innervano lo Stato, lasciano sullo sfondo il cittadino e la sua proiezione collettiva − il popolo − ritenendoli, paradossalmente, marginali spettatori di scelte, che solo incidentalmente li riguardano, la democrazia se ne impoverisce, si svuota, e rischia persino di svanire.Si potrebbe assistere, per questa via, al delinearsi e, al contempo, al sublimarsi di un paradosso: l’instaurazione di una democrazia senza popolo (una contraddizione in termini), che perpetuerebbe nelle istituzioni solo il nome, la vaga eco di un démos, di fatto estinto nelle coscienze.Questo timore anima il fortunato saggio del politologo Carlo Galli, dal titolo emblematico: Democrazia senza popolo, in cui l’autore traccia una personale cronaca della sua esperienza

CARLO GALLIDemocrazia senza popoloCronache dal Parlamento sulla crisi della politica italiana

Feltrinelli, Milano, 2017

Paola Marino

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Dalla libreria

parlamentare a partire dal 2013, quale deputato fino all’assemblea nazionale del Partito Democratico del 18 dicembre 2016.Secondo la ricostruzione di Galli, il PD è diventato il “perno del potere” nel momento in cui sulla scena politica italiana si affaccia il Movimento 5 Stelle, una forza che, dichiaratamente, mira a porsi come alternativa rispetto al sistema partitico tradizionale, pur inserendosi nel solco delle forme istituzionali della democrazia rappresentativa.E, tuttavia, Galli coltiva il timore che l’azione degli attori politici, per quanto svecchiata, non si affranchi a sufficienza dalle influenze dei potentati economici, nella consapevolezza che, probabilmente, quello politico, tra i poteri in campo, è il meno forte, sebbene sia il più adatto ad essere “democratizzato”. Di contro, il potere mediatico, quello scientifico-tecnologico e il surrichiamato potere economico risultano essere, per loro natura, opachi ed elitari.Questa debolezza della politica può oggettivamente determinare l’instabilità di governo. Il saggio di Galli è uscito per Feltrinelli nel 2017, dopo che il Governo Renzi era caduto, in seguito all’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, quindi ben prima che avesse termine il Governo Conte 1 (durato 1 anno, 3 mesi e 4 giorni) e che il Presidente Conte, con riconosciuta abilità, grazie all’appoggio del PD, riuscisse a dare vita a un secondo governo “di coalizione” nel settembre del 2019.Nell’impietosa cronaca di Galli relativa alla sua esperienza parlamentare, egli non risparmia critiche ai protagonisti

politici della sua stagione da deputato. Ma la sua disamina, apparentemente destruens, si rivela, in realtà, construens, nella misura in cui auspica che la politica consenta alla società di liberare le proprie migliori energie in uno spazio pubblico in cui (…) ai cittadini sia restituita la capacità di determinare il proprio destino.Fedele al suo retroterra ideologico, l’Autore amplia lo spettro della sua analisi, attraverso la lente di uno spirito dichiaratamente di sinistra, per mettere in guardia il lettore dai rischi di una globalizzazione senza regole, di un neoliberismo dove la concorrenza ed il mercato contano più degli interessi dei cittadini e degli Stati, ritenendo indispensabile una “ripoliticizzazione della società”, nel segno della riconquista di uno spazio pubblico, dell’interesse collettivo, da recuperare attraverso una significativa stagione di riforme, che non abbiano come unico, malcelato obiettivo la compatibilità di bilancio coi parametri di Maastricht.Perché la democrazia ritorni al popolo, seppure nell’ottica del parlamentarismo rappresentativo, è necessario che la classe politica, non limitandosi a contrastare le rendite di posizione (promuovendo di fatto un livellamento delle condizioni generali verso il basso), ponga al centro della sua azione concreta la difesa dei diritti sociali.Sembra quasi impossibile conciliare gli opposti, perché Tocqueville, da cui pure siamo partiti, era pur sempre un liberale, mentre Galli rimane, al contrario, un “socialista” convinto; eppure, entrambi, come le facce di una medesimo tessuto, sia che lo si guardi dal dritto che dal rovescio, allo stesso modo, potrebbero sostenere che “Il nostro problema,

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Carlo Galli

oggi, è di scegliere tra una società democratica, che progredisca senza grandezza, ma con ordine e moralità, e una democrazia…in preda a furori frenetici…”.Quale dei due soggetti evocati avrebbe scritto queste parole ispirate, riprodotte anche in uno scritto di Zagrebelsky: il liberale francese dell’Ottocento o il politologo di sinistra dei nostri tempi?Quello appena evocato sembrerebbe proprio un motto di ascendenza socialista, se non fosse che un simile pensiero è stato tratto da una lettera che Tocqueville scrisse nel 1835.Chi osserva la realtà ed è nemico dei privilegi, ma sempre amico della giustizia sostanziale e quindi del principio di uguaglianza, può giungere da rive diverse, parafrasando Eraclito, allo stesso fiume: la democrazia, che non può esistere senza popolo.Di ciò Tocqueville, che studiò la società americana nel suo complesso più che il suo sistema penitenziario, era così consapevole da trovare, proprio in quella società d’oltreoceano, i germi del principio di uguaglianza (forse più che nella sua patria, la Francia illuminata della Rivoluzione, che pure dell’égalité aveva fatto la sua bandiera più significativa, scivolando però nel Terrore, stigmatizzato dallo stesso Tocqueville).E tanto gli americani sono intimamente convinti, ancora oggi, di essere un

popolo di tanti “Signor Rossi” con le medesime possibilità di partenza e la reale capacità di cambiare il proprio destino, in un sistema autenticamente democratico, così come Tocqueville li vedeva, che il regista Frank Capra dedicò a questo “sentimento” dell’americano medio un film dal titolo emblematico “Meet John Doe” (Incontra John Doe, il corrispettivo del nostro Signor Rossi, un uomo qualunque), che in italiano venne tradotto coll’espressione decisamente meno evocativa “Arriva John Doe”.Il film racconta la storia di un uomo qualunque, che cambia la vita di tanti uomini qualunque, e non si lascia comprare dal potere né schiacciare da esso.La democrazia bisogna volerla, non solo attenderla.Lo sosteneva il nostro Vincenzo Cuoco in pieno Settecento, ma il concetto ha origini lontane.Un uomo del V secolo a.C. pronunciò un discorso, un giorno, che cominciava così: “Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Ad Atene noi facciamo così”.Si chiamava Pericle e parlava, senza saperlo, a tutti i John Doe del mondo. Ai John Doe di ogni generazione.Di ogni longitudine, di ogni latitudine.A tutti i popoli della terra, per sempre.Sì, John Doe, stringi la mano al tuo vicino, il mondo ti appartiene.

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Dalla libreria

DARIO ANTISERIIl prezzo della libertà è l’eterna vigilanza

Editoriale scientifica, Napoli, 2017

Sandro Zappi

Non inganni il titolo, che potrebbe generare più diffidenza che curiosità nel suo combinare in modo tanto enigmatico concetti profondi, grandiosi, ‘difficili’ (libertà, eternità, vigilanza): al contrario, il saggio di Dario Antiseri, filosofo e professore emerito di metodologia delle scienze sociali presso la Luiss di Roma, è una lettura scorrevole, stimolante, tutto sommato semplice nel linguaggio, nell’argomentare e nel procedere, pur tra continue citazioni di Karl Popper, del quale ripercorre velocemente alcune delle tesi più importanti, e, in misura minore, di Albert Einstein. Semmai (può sembrare un paradosso) la vera difficoltà per il lettore sta nel mettere ordine tra i frequenti spunti di riflessione che la lettura propone su temi di viva attualità, sui quali quotidianamente ci esprimiamo e facciamo scelte, ognuno con le sue presunte certezze, in politica e più

semplicemente nei rapporti con gli altri. Alcuni temi su tutti: la democrazia, la disponibilità al dibattito, alla critica e, quindi, agli altri, tanto più se ‘diversi’.Del resto, l’obiettivo dell’autore non sembra certo quello di proporre o analizzare tesi filosofiche per un pubblico di élite, bensì quello di divulgare, con un linguaggio accessibile a tutti, procedendo per punti (anche con qualche salto logico), alcune questioni di fondo della società contemporanea. Punto di partenza: ‘esiste una asimmetria logica tra la conferma e la smentita di una teoria scientifica: miliardi di conferme non rendono certa la teoria, mentre un solo fatto contrario la distrugge logicamente’. Dunque ‘non è possibile dimostrare l’assoluta verità di una teoria mentre è sempre possibile dimostrarne la falsità’. Principio che non vale solo in campo scientifico, ma che l’autore ritiene di applicare ad ogni idea o teoria.

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Dario Antiseri

La consapevolezza piena, accettata, coerente della fallibilità della nostra conoscenza è dunque il presupposto cardine della società aperta (Karl Popper) e perciò libera: ‘se sono consapevole di essere fallibile, allora, se mi preme davvero risolvere un problema, sarò sinceramente grato a chi mostrerà sbagliata la mia proposta risolutiva e sarà in grado di prospettare un’alternativa migliore della mia. E parimenti tu aspetterai con ansia critiche ed alternative mie e di altri se hai davvero a cuore la soluzione di un problema’. Dunque: liberi perché consapevoli di essere fallibili. Fermiamoci un attimo e cerchiamo di immaginare l’impatto di una tesi del genere. Quanto sarebbe più evoluta, efficiente, pacifica, serena la nostra società se un simile approccio, o anche solo la sua eco, potesse prevalere nel dibattito politico, nelle sedi istituzionali, e anche nella sfera della vita quotidiana di ognuno, a casa, in ufficio, in palestra, ovunque, laddove invece prevale di norma, alla fine, il bisogno, comunque motivato o mascherato, di affermazione della propria parte o di sé stessi, a scapito della qualità della decisione. Ad ogni modo, la consapevolezza della propria fallibilità comporta una repulsione radicale, definitiva, verso ogni forma di intolleranza, di chiusura, di assolutismo ideologico e la necessità di apertura ‘a più visioni filosofiche del mondo e a più fedi religiose’, ad una molteplicità di proposte per la soluzione dei problemi e la disponibilità ad una maggiore quantità di critica. Una prima conclusione dell’Autore: ‘si ha dunque democrazia quando esistono e vengono abbracciate regole – cioè leggi e istituzioni – che alla guerra

delle spade sostituiscono la guerra delle parole, vale a dire la contesa delle idee’. Ma ecco una domanda chiave: ‘come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?’. L’intera storia della teoria dello Stato ha risposto a tale domanda indicando ‘chi’ deve comandare (via via nei secoli: un principe figlio di un dio, una casta di sacerdoti, un re per grazia di Dio, un re per volontà della nazione, una classe sociale – il proletariato, la classe operaia, una determinata razza…).La risposta di Antiseri è ancora con Popper: la questione non è ‘chi’ deve comandare, ma ‘come’ controllare chi comanda. La democrazia non è un indeterminato governo del popolo, ma la possibilità da parte dei governati di controllare i governanti mediante una serie di istituzioni in grado di permetterne il ricambio attraverso procedure ordinate e precostituite, perciò senza violenza. ‘Non ci dovrebbe essere alcun potere politico incontrollato in una democrazia’. La risposta, così formulata, se ha il pregio di evidenziare la necessaria presenza di un limite ad ogni potere pubblico in una democrazia matura, nulla dice sul punto cruciale della qualità e della effettività del controllo. Il punto è tanto più attuale e rilevante, intanto, ovi si abbiano a mente le ricorrenti pretese di vari uomini di governo italiani, ancora in tempi recentissimi, che hanno rivendicato per sé – quale condizione per governare in modo efficiente − un potere sostanzialmente sciolto da controlli troppo penetranti di altre istituzioni (ovviamente in nome della volontà del popolo).

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Dalla libreria

D’altra parte, vi è pure il problema della capacità del controllore di eseguire il suo compito in modo efficace e non rituale. È chiaro che perché ciò avvenga è necessario che il controllore disponga di conoscenze, informazioni, competenze tecniche ed esperienza adeguati, altrimenti il controllo è solo apparente o basato, alla fine, su suggestioni, pregiudizi o convenienze.Il problema si pone soprattutto quando vengono invocati − come teorizzato da varie parti politiche di questo Paese, sempre in nome della democrazia − poteri decisionali su scelte politiche di particolare impatto, complessità tecnica e delicatezza in capo alla collettività popolare (nazionale o locale), che non può avere nel suo insieme, di fronte a determinate scelte, le conoscenze occorrenti ad una decisone sufficientemente ponderata. Riprendiamo la lettura: ‘la possibilità di combattere con le parole, invece che con le armi, è la base stessa della nostra civiltà, e in modo particolare di tutte le istituzioni legali e parlamentari’. Questa base fu posta dalla cultura greca classica con quella grande e fondamentale invenzione che è l’argomentazione razionale o critica. Lì, dunque, osserva l’Autore, c’è una parte delle nostre radici, mentre un’altra di pari importanza è nella ‘rivoluzione cristiana’, la più grande, a suo giudizio, che l’umanità abbia mai compiuto, cui dobbiamo la ‘gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l’umanitarismo, la libertà, l’uguaglianza’. Questi valori, la discussione critica, la tolleranza, il rispetto dell’altro, costituiscono dunque le coordinate

di fondo della nostra vita civile, anzi: il nostro DNA. Dovremmo prendere completa coscienza che ‘ogniqualvolta nella storia vi abbiamo messo le mani, rimuovendone un pezzo, ne è seguito un qualche inferno’ nel quale l’umanità è precipitata. Ma allora, ‘che cosa è rimasto nella mente di non pochi cittadini e soprattutto – e purtroppo – di non pochi dei nostri giovani di questa idealità?’Da questa domanda il saggio muove verso alcune conclusioni, sulle quali pare preferibile rimandare alla lettura del testo, dove ognuno potrà trovare qualcosa di attinente con la propria esperienza, e di assonante o dissonante dai propri convincimenti, più o meno approfonditi.Vi si parla di idolatria del denaro e del potere, della frantumazione del principio di libertà in mancanza del rispetto del pari diritto degli altri, della TV cattiva maestra e delle nuove e insidiose forme di solitudine prodotte da Internet (l’insidiosa ‘malattia’ della ‘solitudine di chi si perde nella moltitudine della rete’), ma soprattutto della necessità di una nuova, coerente, inflessibile battaglia culturale, al tempo stesso collettiva e individuale, contro la disonestà e per la legalità, che costituisce il primo e fondamentale bene comune, di tutti e di ognuno. Tra i vari, si ritiene qui di segnalare con maggior risalto un tema, assai attuale e controverso, spesso mal riassunto – ad avviso di chi scrive – nella fuorviante contrapposizione tra formazione umanistica e formazione tecnico-scientifica, se non, ancora più superficialmente, nell’alternativa liceo classico si/liceo classico no. È

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il tema della formazione dei cittadini o, per dirla con le parole dell’Autore, della ‘educazione alla ragione’. Dunque alla discussione critica. Non solo una democrazia sana, ma lo stesso mercato del lavoro, la crescita del nostro Paese, qui e ora, ricorda Antiseri, hanno bisogno di cittadini in possesso tanto di adeguate competenze tecniche e scientifiche, quanto della capacità di pensare in modo critico, addirittura ‘fantasioso’, di ‘elaborare soluzioni creative per risolvere problemi complessi, di adattarsi a circostanze mutevoli e a vincoli nuovi’. Abbiamo bisogno di cittadini capaci di ‘trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come cittadini del mondo’. Di qui l’imprescindibilità, nella formazione dei giovani, dell’insegnamento della filosofia,

della storia e della letteratura, cioè delle fondamentali materie della formazione umanistica. L’ultimo capitolo del saggio e lo stesso suo titolo, che solo alla fine diventa comprensibile, sono specificamente dedicati al ruolo dei prefetti sul fronte della difesa dei diritti civili e sociali dei cittadini, che costituiscono la base della nostra società, e, in particolare, dei diritti alla sicurezza e alla libertà. Sta a loro una responsabilità essenziale di presidio di questi beni, mai acquisiti definitivamente. Ma ‘le istituzioni sono come le fortezze, resistono se è buona la guarnigione’, e cioè se è formata da uomini capaci di onestà, di rigore logico, di creatività e di svolgere con costanza, coerenza e coraggio il loro compito. In questo senso, il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza.

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I BERSAGLIERI VERSO PORTA PIA: “FERMATE GARIBALDI”La Stampa, 19 settembre 2019

di Roberto Coaloa

Raccomando massima sorveglianza Garibaldi».Nell’Archivio Storico di Casale Monferrato, tra i documenti radunati nel 1982 per la mostra del centenario della morte dello statista Giovanni Lanza, c’è la copia del documento che più di ogni altro spiega la difficile situazione del Regno d’Italia alla vigilia della Presa di Porta Pia avvenuta il 20 settembre di 149 anni fa. L’originale si trova a Roma nell’Archivio Centrale dello Stato e ne esiste un duplicato anche all’Archivio Storico della Camera dei deputati, nei verbali dell’Ufficio della Presidenza. Dopo la morte del casalese, durante il ventennio fascista, i documenti furono riordinati nell’Archivio De Vecchi di Val Cismon. L’atto in questione fu trascritto, nel 1938, dal quadrumviro della marcia su Roma Cesare Maria De Vecchi, che non fu certo un raffinato archivista e confuse la lettura dell’originale. Chi lo ha citato si è sempre attenuto all’interpretazione di De Vecchi, sbagliando.Il testo esatto, che accende una nuova luce sulle complesse relazioni fra i Savoia e l’eroe dei due mondi, recita appunto «Raccomando massima sorveglianza Garibaldi». E continua: «Sua presenza Continente causerebbe gravi imbarazzi Governo. Partecipi pure Comandante Nicastro questa raccomandazione. G. Lanza». È un dispaccio telegrafico dalla

capitale del Regno d’Italia, Firenze, dell’allora Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Giovanni Lanza al prefetto di Sassari (N. 2182 bis 8 settembre 1870). Da Firenze, negli stessi giorni, Lanza raccomandava ai prefetti di Palermo e Napoli, con la stessa premura, di controllare Mazzini. In agosto, addirittura, scriveva al prefetto di Genova per un eventuale arresto del patriota.Cos’era successo? Nove anni dopo l’Unità, Roma e il Papa erano difesi dai francesi. Garibaldi aveva tentato due volte nel 1867, a settembre e novembre, di conquistare la Città Eterna con una rivolta della popolazione. Nella prima occasione fu arrestato e riuscì a fuggire dalla prigione. Nel secondo tentativo, all’inizio di novembre, a Mentana, i garibaldini furono massacrati dai soldati francesi, dotati del fucile Chassepot a retrocarica. Garibaldi fu arrestato nuovamente e rinchiuso a Varignano fino al 25 novembre.Dopo aver lasciato la carica di deputato, il Generale dalla camicia rossa tornò nel suo buen retiro di Caprera. Nove anni dopo il 1861, l’Impero francese di Napoleone III entrò in guerra con la Prussia di Bismarck, alleata agli altri Stati tedeschi. Il 2 settembre 1870, i francesi furono sconfitti dai tedeschi a Sedan. Nasceva il Secondo Reich.

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I bersaglieri verso Porta Pia: "Fermate Garibaldi"

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Per il Regno d’Italia era l’occasione di conquistare Roma, difesa soltanto dall’esercito pontificio.Il governo italiano era presieduto da Giovanni Lanza, che non voleva uno scontro fratricida con Garibaldi. Gli altri uomini della «Destra Storica», in primis il «prussiano» Sella, avrebbero voluto addirittura Re Vittorio Emanuele II al comando dell’esercito, facendo strage di «papalini». Lanza, lottando con gli stessi uomini del suo governo, preferì fare di testa sua e controllò astutamente la situazione con i prefetti, raccomandando ai suoi uomini la massima attenzione sul partito dei repubblicani. Nel 1870, Mazzini, eroe del 1849, non prese nemmeno in considerazione l’ipotesi di organizzare una Repubblica romana, per non guastare il ricordo di ventuno anni prima, e restò a Genova, ma perdendo − superato dall’iniziativa vincente di Lanza − l’ultimo appello largamente condiviso con cui progredire alla causa italiana nella Penisola.L’Urbe in mano del Papa era un rimprovero alla monarchia e una speranza per il partito repubblicano. Garibaldi lo sapeva e dopo la sconfitta francese di Sedan scalpitava per conquistare Roma. Lanza era disposto ad approfittare di ogni circostanza per risolvere la questione romana, escludendo però il ricorso a mezzi rivoluzionari. Dinanzi al pericolo di colpi di mano di matrice repubblicana, il politico monferrino si cautelò inviando un forte contingente sul confine del Lazio al comando di Raffaele Cadorna.Il 20 settembre 1870 l’artiglieria del Regno d’Italia tuonò su Roma e sbriciolò le mura di Porta Pia. Con limitate perdite, in poche ore, entrarono i bersaglieri a Roma. Nella breccia di Porta Pia morì

il maggiore dei bersaglieri Pagliari, ma l’iniziativa di Lanza fu un grande successo militare. Ai patrioti più combattivi, tuttavia, l’opera da eminenza grigia di Lanza diede l’impressione di essere stata l’iniziativa di un uomo incerto fino all’ultimo, meritando i versi incisivi di Carducci: l’Italia grande e una, che andava nottetempo a Roma «perché il dottor Lanza teme i colpi di sole».In realtà Lanza aveva agito intelligentemente, curando le relazioni internazionali e assicurandosi il sostegno dell’alleato prussiano. Gestì al meglio la politica interna della Penisola, compiendo l’Unità agognata da Cavour, strappando al potere del Papa-Re Roma capitale. La Presa di Roma fu salutata come il compimento della lotta risorgimentale. L’opzione piemontese al Risorgimento prevalse su quelle democratiche dei vari Mazzini, Cattaneo e Garibaldi, grazie all’abilità di una nuova classe politica, nata sotto Re Carlo Alberto, rappresentata da personaggi considerati ingiustamente minori dalla storiografia, come Giovanni Lanza.Il Presidente del Consiglio di Casale Monferrato mori a Roma, il 9 marzo 1882 Lo stesso anno di Garibaldi, che si spegneva nella sua isola il 2 giugno. Nonostante l’aut-aut per Roma e la sorveglianza costante di Lanza, alla fine del 1870, il Generale dalla camicia rossa andò in soccorso dei francesi, che si organizzarono in repubblica, e strappò ai prussiani, il 23 gennaio 1871, con il suo volontario esercito dei Vosges, la bandiera del sessantunesimo reggimento. Garibaldi fu eletto deputato all’Assemblea Nazionale di Bordeaux, dove fu elogiato da Victor Hugo per il suo coraggio.

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LA CROCE ROSSA: SONO 200 MILIONI I DISEREDATI DEL NUOVO CLIMAIl Sole 24 Ore, 20 settembre 2019

di Gianluca Di Donfrancesco

Inondazioni, tempeste, incendi, siccità potrebbero costringere duecento milioni di persone ogni anno a dover far affidamento agli aiuti umanitari per sopravvivere, se non verranno prese contromisure adeguate: è la stima elaborata dalla Federazione internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa (Ifrc) in un rapporto diffuso ieri a New York.L’Ifrc ha scelto la cornice dei vertici Onu sul clima, in corso in questi giorni, per lanciare l’appello a intensificare gli sforzi contro il surriscaldamento globale. Oggi sono 108 milioni i diseredati del climate change: sono i più poveri − con redditi inferiori a 10 dollari al giorno − tra i 206 milioni di persone che ogni anno vengono colpite da catastrofi naturali. Entro il 2030, potrebbero aumentare del 66% e quasi raddoppiare (+85%) entro il 2050.Parallelamente, salirebbe anche lo sforzo finanziario necessario per fornire assistenza: nello scenario peggiore, si arriverebbe a 20 miliardi di dollari l’anno entro il 2030. Secondo il presidente dell’Ifrc, Francesco Rocca, «questi risultati confermano l’impatto che il cambiamento climatico ha e avrà sulle popolazioni più vulnerabili del pianeta. Ed evidenzia lo sforzo che i disastri a esso legati impongono sulle agenzie umanitarie e sui donatori internazionali». Il report, aggiunge Rocca, mostra però

anche che «è possibile fare qualcosa», a patto di «agire subito», con investimenti in misure in grado di mitigare gli effetti dei disastri del surriscaldamento globale e di promuovere uno sviluppo più inclusivo: questo potrebbe permettere di ridurre a 68 milioni le persone che contano sugli aiuti umanitari entro il 2030. E addirittura a 10 milioni entro il 2050.

Investimenti redditizi

Il report dell’Ifrc va nella stessa direzione di altri studi di organismi internazionali, come quello appena pubblicato dalla Global Commission on Adaptation (Gca), l’organismo guidato dall’ex segretario generale Onu, Ban Ki-moon, Bill Gates e dal candidato europeo alla guida dell’Fmi, Kristalina Georgieva. Secondo questo studio, entro il 2050 il climate change potrebbe arrivare a ridurre del 30% il raccolto in tutto il mondo. Nello stesso periodo di tempo, la domanda di cibo è però destinata ad aumentare del 50%. Nei prossimi 10 anni, il cambiamento climatico potrebbe spingere sotto la soglia della povertà 100 milioni di abitanti dei Paesi in via di sviluppo.Sempre secondo la Gca, entro il 2050 il numero di persone che non avranno un accesso sufficiente all’acqua salirà dai 3,6 miliardi attuali a 5 miliardi,

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La Croce Rossa: sono 200 milioni i diseredati del nuovo clima

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mentre l’innalzamento del livello dei mari e gli uragani (sempre più violenti) genereranno un costo di mille miliardi di dollari l’anno a carico delle aree costiere urbane.Il report della Global Commission on Adaptation sostiene anche che gli investimenti in misure in grado di mitigare gli effetti del cambiamento climatico possono generare un ritorno sul capitale che va dal 100 al 1000 per cento: in media, 1800 miliardi di dollari spesi in cinque aree di intervento (sistemi di allerta, infrastrutture, produzione agricola, risorse idriche e difesa delle mangrovie − una barriera naturale contro le inondazioni) potrebbero garantire benefici netti per 7200 miliardi.Il primo investimento, sottolinea il rapporto, sono le «perdite evitate». I sistemi di allerta, oltre a salvare vite, possono permettere di ridurre del 30% i danni economici causati da una tempesta, con un preavviso di appena 24 ore. Spendere 800 milioni di dollari in questi sistemi nei Paesi in via di sviluppo permetterebbe di risparmiare dai 3 ai 16 miliardi all’anno. Analogamente, costruire infrastrutture a prova di maltempo può farne salire i costi del 3%, ma garantirebbe benefici del 400%. Le foreste di mangrovie assicurano 80 miliardi di dollari l’anno di costi evitati, grazie alla loro capacità di fare da barriera contro le inondazioni. A queste somme si sommano 40-50 miliardi di dollari in benefici non

commerciabili, legati a pesca, forestazione e ricreazione.

L'appello dell'Ocse

Secondo un altro rapporto, questa volta diffuso dall’Ocse il 13 settembre, nel 2017 i Paesi avanzati hanno fornito o mobilitato a favore dei Paesi in via di sviluppo 71 miliardi di dollari di finanziamenti (pubblici e privati) per iniziative di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, con un incremento del 21% rispetto al 2016. Per arrivare al traguardo fissato di 100 miliardi entro il 2020 servirà però un aumento del 30% in 4 anni. Il segretario generale dell’Ocse, Ángel Gurría, prova a essere ottimista e giudica l’obiettivo «ancora raggiungibile, ma dobbiamo rafforzare con urgenza gli sforzi».

Geopolitica dei climate change

Secondo Michel le Bachelet , commissario Onu per i diritti umani, il cambiamento climatico ha conseguenze geopolitiche: il 40% delle guerre civili degli ultimi 60 anni sarebbe infatti causato dal degrado delle condizioni ambientali: nel Sahel, la perdita di terreni coltivabili «sta intensificando la competizione per il controllo di risorse alimentari già scarse», ha detto Bachelet. Un processo che esaspera le tensioni etniche e alimenta l’instabilità politica.

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SABINO CASSESE1 SE VOLETE CAPIRE LA POLITICA LEGGETE STENDHALLa Repubblica, 21 settembre 2019

di Antonio Gnoli

1 Nasce ad Atripalda (Avellino) nel 1935 e cresce a Salerno. Il padre Leopoldo è storico e archivista, la madre insegnante. A 17 anni vince il concorso alla Normale di Pisa, dove si laurea in giurisprudenza con una tesi sul corporativismo fascista. Nel 1957 entra a lavorare all’Eni di Enrico Mattei. Passa poi a insegnare all’università: primo incarico ad Ancona e alla Corte Costituzionale. L’ultimo libro, riflessione sulla politica attuale, s’intitola La svolta (il Mulino). Tra i saggi recenti: La democrazia e i suoi limiti (Mondadori) e Dentro la Corte (il Mulino).

La forte immagine di decadenza che la società italiana sta offrendo di sé non è una novità. Dai tempi di Dante e Machiavelli si ripropone puntualmente, rivelando la nostra costante debolezza politica. Sabino Cassese l’affronta ne La svolta, il nuovo libro edito da il Mulino. È una disamina arguta su questa estate incattivita dalle svolte dei suoi protagonisti. Gli chiedo se oggi la politica sia solo tattica o anche strategia. Gli obiettivi si colgono a fatica, dice, però consiglierei di meditare su una frase di Stendhal: «La politica non è una lotta del bene contro il male, ma una scelta tra il preferibile e il detestabile». Un invito alla prudenza e, forse, anche alla letteratura che lui frequenta con soddisfazione. Ha tra le mani alcuni fogli di appunti per poter guidare il nostro incontro. Ma poi scopro che sono soprattutto richiami letterari, citazioni da vari autori: Conrad e Mann, Diderot e Goethe. L’elenco è lungo.

Che funzione svolge la letteratura nella sua vita?«Ha da sempre un ruolo importante.

Ho una predilezione per quella tedesca: Goethe e Mann sopra a tutti. E poi quella russa. Ma anche la Francia mi affascina: le Massime di La Rochefoucauld; Dìderot e Stendhal. Proust. Ho un mio Proust fatto con tutte le frasi che ho annotato».

Prende spesso appunti quando legge?«Sono il prolungamento dei miei pensieri».

Vedo che ha annotato una frase di Conrad.«È piuttosto famosa ma rende bene l'idea della mia giornata: «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?»».

Lui scrisse anche: “Si vive come si sogna, perfettamente soli”.«Credo fosse in Cuore di tenebra, uno dei grandi romanzi della disperazione. Lo lessi a Salerno, da giovane».

È lì che è nato?«Sono nato ad Atripalda, un paesino dell'avellinese. Però ho vissuto a Salerno. Mio padre era direttore

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Sabino Cassese - Se volete capire la politica leggete Stendhal

dell'archivio di Stato e in seguito professore universitario. Mia madre insegnante al ginnasio. Ho una sorella che ha sposato Tullio De Mauro e un fratello, Antonio, che è stato un esperto importante di diritto internazionale. Il suo lavoro nell'ambito del tribunale speciale contro i crimini di guerra è stato pionieristico».

A Salerno fino a quando è restato?«Sono andato via a 17 anni. La cosa più bella era il lungomare. Quella più terrificante l’ho vissuta nel settembre del 1943. Seicento navi schierate nel golfo puntavano i cannoni sulla città».

Divenne poi celebre per lo sbarco di Salerno.«Lo fu grazie alla svolta di Togliatti, nell'aprile del 1944».

Svolta perché?«Togliatti era tornato dall'Urss e tutti si aspettavano dal capo del comunismo italiano una posizione filosovietica. In realtà capì che la cosa migliore fosse quella di trovare un compromesso tra le forze in campo».

Si creò un governo provvisorio.«Furono rappresentate tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale. Nel 1944 avevo nove anni. Ricordo che un pezzo di quel governo si riuniva a casa mia».

Poi lascia Salerno per andare dove? «A 17 anni vinco il concorso di ammissione alla Normale di Pisa. Il presidente di commissione era Delio Cantimori».

Grande storico.«Indubbiamente. Una volta chiesi a Rosario Villari chi era più grande tra Chabod e Cantimori».

Cosa rispose? «Chabod, anche se giudicava Cantimori uno storico straordinario».

Era comunque l’università di Giovanni Gentile. «La sua morte ancora si percepiva. E l'idealismo gentiliano continuava ad avere lì le radici. Ma, in quei primi anni Cinquanta, l'azione degli studenti della Normale fu di netta contrapposizione alla politica conservatrice del corpo accademico. Personalmente mi iscrissi alla federazione giovanile comunista, fino a diventarne segretario locale».

Non sapevo di questo suo impegno diretto.«Fino ai primi anni 70 l'Italia non ha mai smesso, nei propri corpi statuali, la vocazione repressiva, ereditata dal precedente regime. Il governo di Scelba, lo scelbismo come fu chiamata la sua azione, ne divenne l’espressione più significativa. Allora poteva accadere, come a me è accaduto, che la polizia o i carabinieri venissero a informarsi col portiere o con i vicini se eri o no di sinistra».

Siamo una nazione che stenta a fare i conti con il proprio passato?«Tra le tante cose c’è mancata una figura come Lutero».

Torna ai suoi amori tedeschi. «In questo caso è più di un fatto letterario, anche se Lutero ha forgiato la lingua tedesca».

In che senso lo assume?«È il primo a elaborare, sulla scorta di Paolo, il concetto di Beruf, che significa “vocazione”».

Vocazione per cosa?«A ciò che siamo chiamati a svolgere.

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Spesso è mancata l'idea di compito o, se vuole, di dovere. Il «debbo farlo» non è il frutto di un sentimento interiore, è vissuto solo come un fastidioso o insopportabile obbligo esteriore».

Siamo il paese della malavoglia?«Non accettiamo di buon grado quello che noi stessi ci diciamo di dover fare».

Tornerei a Pisa: quando si laurea?«Nel 1956, in giurisprudenza con una tesi sul corporativismo fascista».

Un argomento da prendere con le molle.«Capisco la perplessità, ma non era mia intenzione rivalutare quella esperienza bensì vedere come nasce prima del fascismo e sopravvive perfino nella mentalità odierna».

Chi frequentava alla Normale?«Divenni amico di Sebastiano Timpanaro, e poi di Marino Berengo e di Carlo Rubbia, che si laureò un anno dopo di me con una tesi sui raggi cosmici. Era un ambiente vivace e perfino stravagante. C’era anche Aldo Capitini, che non insegnava ancora».

L’apostolo della pace.«Era affascinato dalla figura di Gandhi. Si definiva un religioso laico. Certe volte pranzavamo insieme alla mensa della Normale. La sua scelta vegetariana lo portava a escludere ogni sospetta presenza di grassi animali. Poteva chiamare il cameriere che arrivava in guanti bianchi per ritirare il piatto incriminato».

Guanti bianchi in mensa?«Era così che funzionava la Normale».

Ma alla fine chi è stato il suo maestro?«Indiscutibilmente Massimo Severo

Giannini. Giunse in Normale nel 1952. Fu accolto come fosse il diavolo. Era stato socialista e capo di Gabinetto di Nenni. La sua intelligenza e le sue competenze si rivelarono fondamentali per la nascita della Costituzione».

Dopo la laurea che le accade?«Nel 1957 entrai all'Eni. Fu Giannini a segnalare il mio nome a Giorgio Fuà, allora consigliere economico di Mattei. Voleva che un giovane con ottimi voti studiasse l’azione delle imprese pubbliche. Divenni anche capo ufficio studi del legislativo. Era ancora possibile che un giovane di 26 armi ricoprisse un ruolo così importante».

Ha frequentato Mattei?«Sì, come scrisse Nenni nei Diari: “Personaggio di infinita seduzione”. La sua convinzione fu che un paese piccolo e senza materie prime poteva diventare grande. Coltivò questo sogno con straordinaria dedizione e realismo».

Da lui, si è scritto, nacque il sistema delle tangenti.«Non c'è ombra di dubbio. C'erano i libretti di assegni che firmava regolarmente per partiti e uomini politici».

Come oggi?«Però in un contesto diverso».

Nel senso?«La corruzione, in certi momenti, è parte organica del sistema. Non la sto giustificando. Dico che occorre distinguere il giudizio storico da quello morale. Oltretutto Mattei aveva un totale disinteresse per le esigenze personali e viveva in maniera modesta. Era figlio di un carabiniere ed era stato partigiano nella Resistenza».

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Cosa pensa della sua morte?«Propendo per la fatalità. Sull'aereo che è precipitato io volai diverse volte. Lo spazio interno era ridottissimo, come fosse un caccia. C’erano quattro posti. Un velivolo piccolo e veloce. Il temporale che lo investì, durante il volo Catania-Milano, fu la causa della tragedia. Il che non esclude che furono diversi a gioire della sua morte».

Era ingombrante.«Il conflitto con il consorzio petrolifero delle “Sette sorelle” era palese e aspro. Agendo per lo più in regime di monopolio non potevano accettare la strategia di un uomo che parteggiava per i paesi, soprattutto africani, che il petrolio lo avevano».

Muore Mattei e lei che fa?«Vado via, abbastanza disgustato dai nuovi capi dell’Eni. Fuà che tra l’altro insegnava economia mi chiamò all’università di Ancona, dove sono stato per 13 anni».

Una scuola prestigiosa di economia.«Assolutamente. Del gruppo facevano parte, tra gli altri, Giorgio Ruffolo, Claudio Napoleoni, Antonio Pedone».

Ma lei, giurista di formazione, che cosa c’entrava?«Non credo che il diritto si studi solo con il metodo giuridico. Oggi è un'affermazione scontata ma un tempo era considerata una specie di eresia. Il diritto comprende molte componenti: socia l i , economiche, per f ino psicologiche. A me interessa come istituzione sociale. Ho anche scritto intorno alla costituzione economica».

Quindi un diritto che tenga conto delle spinte al cambiamento?

«Non può ignorarle, ma neppure piegarsi per debolezza a esse».

Vale anche per la Costituzione?«La conoscenza e il rispetto della Carta sono requisiti indispensabili. Poi è il contesto storico che ne orienta il senso».

Intende dire che alcune cose che valevano non valgono più?«Meglio: valgono meno. Piero Calamandrei e lo stesso Giannini sapevano che in certi punti la nostra Costituzione era sbilenca. Calamandrei disse che in nessuna parte della Carta era previsto il rafforzamento del governo. Ma si immagina in quel momento, con il mondo occidentale spaccato in due, con l’esperienza del fascismo alle spalle, chi avrebbe potuto avere il coraggio di inserire una norma del genere?».

Lei fu eletto giudice della Corte Costituzionale. Che esperienza è stata?«Per nove anni, dal 2005 al 2014, ho esercitato quel ruolo che mi fu offerto da Ciampi, allora Presidente della Repubblica. Mi telefonò chiedendomi la disponibilità. Sinceramente non me lo aspettavo e in un primo momento pensavo di rifiutare».

Cosa le ha fatto cambiare idea?«L’ammirazione e l’amicizia che avevo per Ciampi. Quando tre mesi dopo mi ritelefonò, chiedendomi cosa avessi deciso, accettai la nomina. In quell’arco di tempo avevo maturato l’idea che avrei potuto svolgere quel ruolo non solo da giudice, ma anche da storico e da politologo».

Ha seguito la sua natura versatile.«Non ho mai cercato di occupare il centro di una disciplina scientifica».

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Restare ai margini?«Era Einstein che diceva che il progresso delle scienze avviene sui confini. Voleva dire che è conveniente per un ricercatore tenersi in contatto con altri saperi».

Le piace il potere intellettuale?«Mi chiedo se esista ancora, comunque è preferibile a quello politico».

Perché?«Il potere politico è una brutta bestia».

Lei più volte lo ha sfiorato.«A me interessa svolgere la funzione di entomologo, consapevole che gli «insetti» che studio sono gli attori principali della felicità o dell’infelicità altrui».

Sono le promesse, spesso infondate, degli uomini politici.

«Loro calcano la scena, a noi studiosi il compito di valutarne le conseguenze».

Quasi sempre frutto di promesse inattendibili.«Lo so, ma appartiene alle regole della retorica politica. Il punto vero è un altro».

Quale?«Sapere che il potere spesso corrompe e allora bisogna avere dei correttivi. La domanda che io ritengo oggi capitale non è tanto chi va o non va al governo; ma che cosa accade se chi governa esce fuori dai binari. Ci vuole un capostazione che dica attenti: così si deraglia».

È lei l’uomo dei treni?«La mia passione è cercare di capire dove sono i correttivi. Anche i migliori possono deragliare».

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IL FUTURO DELLE CITTÀArtisti sociali, campus digitali e preti di strada. A Napoli la speranza sorge a Est. L’Espresso, 29 settembre 2019

di Paola Natalicchio

Alle spalle. Bisogna lasciarsi alle spalle il passeggio di via Toledo. Il viavai di turisti tra il centro storico e Chiaia. La salita che va da Piazza Plebiscito a Monte di Dio. I negozi di souvenir e le pescherie con le cozze nere nei vasconi di Mergellina. Alle spalle il lungomare, il Castel dell’Ovo puntellato di barchette sbilenche. I frangiflutti sotto al muretto di pietra. Bisogna salire verso la stazione, dopo. Oppure scendere lungo via della Marina. Uscire senza nostalgia dalla Napoli da cartolina e passare oltre. Oltre il grande parcheggio Brin, con quello scivolo che sembra una giostra, e la filiera di palme a centro strada. Una grande rotonda rallenta il passo e segna il confine. A sinistra, giganti e grigi, i cilindri numerati dell’area di stoccaggio della Q8. Sito d’interesse nazionale. Zona altamente inquinata e da bonificare, mare non balneabile. Subito dopo, tra le curve a gomito della tangenziale, decine di container rossi, blu, marroni, impilati in un Tetris. Ciminiere sparse, un corso con i palazzi bassi ai lati, un parco giochi con le altalene e gli animali a dondolo, all’incrocio con un grande bar. È li che iniziano le pattuglie della polizia. Gli agenti in stivali scuri e radiotrasmittente nelle tasche, al bancone del caffè. È li

che inizia il rebus di Napoli Est, che non è proprio una città a parte e che non è ancora hinterland.L’ex area industriale napoletana, con i quartieri popolari addosso e la bellezza delle ville vesuviane a due passi, dove oggi ha preso casa un pezzo della camorra metropolitana. Ancor più quando si sono accesi i riflettori su Scampia. E Napoli Est è diventato un luogo più sicuro per fare affari un po’ nascosti. Eppure è anche uno spazio di resistenza, orgoglio e riscatto. Una specie di laboratorio clandestino di pratiche, politiche, contaminazioni dove brillano tra le esperienze migliori del civismo nazionale. A chiamarla per nome, a Napoli, questa è la sesta municipalità. Oltre 100 mila abitanti. Tre quartieri attaccati: San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli. II “triangolo rosso”, si diceva un tempo. I portuali a San Giovanni, gli operai delle fabbriche a Barra, i braccianti a Ponticelli, a coltivare vigneti e campi di pomodori. La Napoli di sinistra passava da qui. E conviene passare da qui ancora oggi per cercarla di nuovo. Una sinistra terrestre, a dire il vero. Che sinistra non vuole neanche più essere chiamata. Civica, spuria, no logo. Dialettale, concreta e verace. Che chiude i circoli

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di partito e occupa i teatri, le scuole, le associazioni. Telefona ai rapper, agli scrittori, ai graffitari e li convoca al lago. Anche se il lago non c’è più, è rimasta solo una vasca di cemento buona per il jogging e il pattinaggio, al centro del Parco Massimo Troisi. Sullo sfondo, i palazzi della Taverna del Ferro. Quello che qualcuno ancora chiama “il Bronx”, con l’enorme Maradona disegnato dallo street artist Jorit, a fare il paio con l’enorme Che Guevara dall’altra parte (e un murales più piccolo e nascosto, all’interno, di Pablo Escobar). Popolo e rivoluzione. E la presenza pervicace, sfrontata dell’illegalità che non si sposta. E allora la rete di Napoli Est la circonda. Le mamme del centro minori in fondo alla strada e i professori del Campus di ingegneria. Gli artisti del teatro occupato NEST e i preti delle parrocchie. Gli anziani della Società Operaia di Mutuo soccorso, gli allenatori delle giovanili di calcio e i presidi delle scuole. Una rete informale ma sostanziale, sempre più organizzata. Ogni tanto qualcuno prova a strapparla, la rete. E gli spara addosso. Come è successo una domenica di metà settembre, pochi giorni fa, davanti al portone della Fondazione Famiglia di Maria, il centro diurno dove vanno i bambini, i ragazzi e le mamme del quartiere. Una specie di bandiera anti camorra, piantata al centro di San Giovanni.La presidente della Fondazione è Anna Riccardi, 42 anni, professoressa di lettere in una scuola superiore del quartiere intitolata a Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”. Sorridente, sempre: scarpe da ginnastica, magliette colorate, k-way. Promotrice di un calendario martellante di iniziative. Troppe, per chi non vuole luci accese. «Ci siamo

svegliati e abbiamo trovato un foro nel muro. La prima preoccupazione è stata quella di cancellarlo, perché non dilagasse la paura tra i bambini. Allora abbiamo disegnato i petali di un fiore attorno al foro. Come se quella pistola avesse sparato un fiore per noi, per loro. Che sono il futuro di Napoli Est. Da cui dipende cosa succederà qui fra dieci, ventanni», spiega Anna. «Sappiamo di essere sulla strada giusta, ma sono strade che non si possono percorrere da soli. Ora serve un cordone di solidarietà che duri nel tempo. Ognuno deve fare la sua parte. Serve disarmare la città. Il nuovo Governo prenda subito in mano la situazione e si occupi con urgenza di periferie, infanzia, bambini». Ogni giorno, Anna e la sua squadra seguono 120 minori della zona, con un affidamento del Comune di Napoli. Fanno attività di doposcuola e contrasto alla dispersione scolastica, ma anche laboratori di cinema, teatro, arte, educazione ai sentimenti. Con la scrittrice Valeria Parrella e l’associazione Sepofa, Anna ha messo su una biblioteca e un progetto-lettura. Con l’assessora alla socialità Roberta Gaeta ha inaugurato il murales sulla Fiducia dell’artista Roberto Matlaklas − 37 anni, straordinario performer di adozione londinese, originario di Scampia, che ha lavorato quattro giorni con i bambini, a inizio estate, in un progetto di arte sociale partecipata − proprio di fronte al grande Maradona. «E il primo di 26 murales con cui stiamo dipingendo i muri della città. Ognuno è legato a un progetto di educativa territoriale. L’idea è quella di portare i giovani con fragilità dalla rassegnazione al protagonismo. Non fare le cose per loro, ma con loro, che collaborano con gli

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artisti alla progettazione del disegno», spiega Gaeta. Intanto le mamme del quartiere, insieme alla Fondazione di Anna Riccardi e a quattro scuole della zona, hanno attivato il progetto “Wonderwù”, un’eroina che distribuisce i suoi superpoteri ai maschi, per lavorare sulla lotta alla violenza di genere, in una zona in cui la violenza domestica è una realtà silente e diffusa.E, a inizio luglio, è stata inaugurata anche la prima aula digitale del centro, dove da settembre i professori dell’Università Federico II inizieranno dei corsi di cultura digitale ai bambini e ai ragazzi della Fondazione. «Stiamo provando a spiegare ai ragazzi che i telefonini non conviene rubarli, per farci al massimo 50 euro, ma è meglio imparare a programmarli. Si impara un mestiere e si guadagnano molti più soldi», scherza (ma non troppo) Antonio Pescapè, 48 anni, professore universitario di Ingegneria informatica e direttore della Digita Academy, un centro di alta formazione post universitaria che ha sede nel vicinissimo campus-astronave insediato dall’Università Federico II nei capannoni della ex Cirio. Qui, insieme all’Università, hanno messo le tende partner come Apple, Deloitte, Ferrovie dello Stato. «L’esperienza del Campus di San Giovanni sta provando, da qualche anno, a mettere Napoli Est al centro della rivoluzione digitale italiana. Con la Digita Academy, ad esempio, formiamo ogni anno 50 digital distruptor: esperti di transizione digitale aziendale, una figura molto richiesta sul mercato. Rafforzare le competenze sulla blockchain, il cloud computing, l’intelligenza artificiale oggi significa spalancare opportunità di lavoro. Qui nel meridione, da cui secondo lo Svimez

scappano più di 30 giovani al giorno. L’Apple Center, poi, è uno dei più importanti investimenti americani in Europa», spiega ancora Pescapè. «Non è un caso che tutto questo avvenga a San Giovanni, provando a ridisegnare davvero la riconversione economica dell’ex area industriale attraendo sul territorio investitori nazionali e internazionali del settore digitale».Sale e scende la speranza, a Napoli Est, se si pensa che per ogni tentativo riuscito c’è una crisi dietro l’angolo. Come quella della Whirlpool, forse la crisi più simbolica che infiamma in questo momento il Paese (e l’avvio del Conte Bis). La fabbrica al centro delle cronache ha sede qui, non lontano dai container del Porto e dal casello della tangenziale che dista pochi minuti da casa di Luigi Di Maio a Pomigliano. «Se chiude la Whirlpool, chiude Napoli Est», ripetono dal picchetto i 400 lavoratori, tra cui moltissime donne, che di riconversione da polo produttivo a distretto di logistica, con tanto di tagli al personale, non vogliono sentire nemmeno parlare. Quasi tutti abitano da queste parti. E mentre ai cancelli della fabbrica continuano le staffette di solidarietà, Napoli Est cade e si rialza di continuo e moltiplica le esperienze di protezione sociale e promozione culturale diffusa che provano a togliere alla zona il marchio a fuoco di periferia disperata. La periferia della “stesa”: colpi di pistola in aria, a cavallo del motorino, per segnare le regole di un’altra legge, dare simbolo e rumore al potere che conta. Sul pericolo-stese è arrivato l’allarme del senatore Vincenzo Presutto, Movimento Cinque Stelle, residente ed eletto a San Giovanni a Teduccio, che in questi giorni ha scritto

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una lettera indirizzata al neo Ministro dell’interno, Luciana Lamorgese, descrivendo una vera e propria emergenza incolumità. «Sotto casa mia si spara con regolarità disarmante. Raffiche di pistola contro macchine, balconi», denuncia il senatore. E sale lo spavento. Perché se qualche colpo finisce per aria o sul muro, qualche altro, a volte, centra il bersaglio. Come il 9 aprile scorso, davanti a una scuola: un morto ammazzato, in pieno giorno, nella guerra fra clan. Il panico tra le famiglie, i docenti, i bambini: risposta forte e chiara. Arresti illustri, qualche settimana dopo. Una bella marcia popolare, a inizio maggio. «C’erano in piazza i giovani, le parrocchie, tutto il quartiere perbene. Un segnale fortissimo», ricorda don Fulvio Stanco, 32 anni, il vice parroco della chiesa di Sant’Anna a Barra. Ma la preside della scuola davanti a cui è avvenuta la sparatoria (800 studenti e 80 docenti), Valeria Pirone, 47 anni, non usa mezzi termini: «Il Rione Villa è ancora il cuore dei clan e non è presidiato a dovere. Anche a via Sorrento, dove ha sede la nostra scuola, avevano sparato già a settembre, pochi giorni prima dell’inizio della scuola. E ad aprile c’è stato il morto. Ma le forze dell’ordine spesso sono altrove. E io ho i docenti che fanno domanda di trasferimento. Anche quest’anno, a scuola iniziata, ho difficoltà a fare gli organici. Un continuo turn over, perché anche gli insegnanti, oltre che le famiglie, hanno paura a stare qui. Questo è considerato un luogo di lavoro insicuro». Nessuno, però, si arrende. Si sposta di un centimetro. Si fa prendere dallo sconforto e dal disamore. «Dieci anni esatti fa ho occupato la palestra della scuola media dove studiavo da ragazzo. Ho smontato i canestri con il

cacciavite, piano piano ci abbiamo fatto un teatro. Oggi abbiamo una scuola, un cartellone annuale. Vinciamo concorsi, collaboriamo con i grandi del settore: Toni Servillo, Mario Martone», dice con orgoglio Francesco Di Leva, 41 anni, attore e fondatore di NEST, officina teatrale da 100 posti a sedere. Una delle prime esperienze di riuso dei beni comuni napoletana. E intanto anche la politica prova a fare un investimento forte sul quartiere. Il sindaco Luigi De Magistris a Napoli Est è di casa. Ed è proprio di Barra uno dei suoi assessori di punta, Ciro Borriello, 47 anni. Figlio di un operaio del metallurgico, cresciuto tra le case popolari del quartiere rosso, parte dai Verdi e fonda a Napoli Sel. Oggi è lui uno dei leader di Dema, il movimento che attorno al sindaco prepara il grande salto nazionale. Non prima di aver superato lo scoglio delle regionali. «Stiamo pensando a una Lista Civica di Dema in Regione. È un passaggio troppo delicato per non metterci alla prova come movimento, sperimentando la nostra forza fuori dalla città dove abbiamo governato per un ciclo lungo e importante. Certo: in Regione veniamo da anni deludenti. È stato impossibile dialogare con il PD dell’armata De Luca, trasversale e imbottita di pezzi di centrodestra, colonnelli di voti e campioni di clientele», dice Borriello, senza mezze misure. «Lo scenario politico però sta cambiando e l’asse nazionale Pd-Cinque Stelle potrebbe comportare anche per il Pd locale un cambio di marcia. Fino a far saltare una nuova candidatura di De Luca, opzione che fino a qualche settimana fa sembrava impensabile. Se questo dovesse accadere, ragionare in un’ottica di campo largo può e deve essere una strada anche per noi».

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OSSERVATORIO DELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE DI INTERESSE PER IL MINISTERO DELL’INTERNO

A CURA DI CIRO SILVESTRO1

Corte cost. 24 luglio 2019, n. 195 – Pres. Lattanzi – Est. Amoroso

Legittimo il Daspo urbano esteso ai presídi sanitari ma non i nuovi poteri sostitutivi dei Prefetti nei casi di “mala gestio” negli enti locali interessati da procedimenti ex art. 143 TUEL

Sorte opposta per due disposizioni del Decreto sicurezza − d.l. n. 133/2018 − sottoposte al giudizio della Consulta.

Con la sentenza n. 195 del 2019 il Giudice delle Leggi ha, infatti, acclarato la legittimità dell’estensione ai presídi sanitari del cosiddetto Daspo urbano (divieto di accedere a taluni luoghi per esigenze di decoro e sicurezza pubblica). A condizione, però, che il divieto stesso − interpretato in senso costituzionalmente orientato − non si applichi a chi ha bisogno di cure mediche o di prestazioni terapeutiche e diagnostiche, essendo il diritto alla salute prevalente sulle altre esigenze.

Indenne, quindi, l’art. 21, comma 1, lettera a), del decreto n. 113 limitatamente alla parte in cui è stata aggiunta la previsione dei presidi sanitari tra le aree che i regolamenti di polizia urbana possono includere tra quelle protette dalla misura del Daspo urbano.

Diversa fortuna, invece, per il successivo art. 21-bis, comma 2. La dichiarazione di illegittimità colpisce, qui, la mancanza di alcun coinvolgimento della Regione nella formazione delle Linee guida nazionali, approvate, su proposta del Ministro dell’interno, volte ad orientare gli accordi sottoscritti tra il prefetto e le organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti per l’individuazione di specifiche misure di prevenzione, basate sulla cooperazione tra i gestori degli esercizi e le Forze di polizia.

La Corte ha, poi, cancellato l’articolo 28, comma 1, del d.l. n. 113/2018, che aveva inserito nell’articolo 143 del Testo unico degli enti locali (TUEL) – recante disciplina dello scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazioni mafiose − un nuovo sub − procedimento per l’attivazione di poteri sostitutivi del prefetto sugli atti degli enti locali. Una misura correttiva inedita, meno invasiva dello scioglimento e più duttile, introdotta come appendice del procedimento regolato

1 Viceprefetto, Capo di Gabinetto presso la Prefettura di Pisa.

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dai primi sette commi dell’art. 143 TUEL, a fronte dell’ipotesi di insussistenza dei presupposti per lo scioglimento del consiglio comunale o provinciale ovvero per l’adozione di provvedimenti correttivi dell’azione dell’ente e sanzionatori, in senso lato, dei dipendenti coinvolti nell’infiltrazione di tipo mafioso.

Secondo la norma cassata, laddove fosse, comunque, emersa una situazione di “mala gestio” dell’ente, il prefetto individuava i prioritari interventi di risanamento, indicava gli atti e assegnava un termine non superiore a 20 giorni per la loro adozione, scaduto il quale scattava la sostituzione all’amministrazione inadempiente, mediante la nomina di un commissario ad acta. Ma nel far ciò – ha rimarcato la Consulta – il legislatore ha disegnato, in contrasto con il principio di tipicità e legalità dell’azione amministrativa, un potere prefettizio sostitutivo extra ordinem, ampiamente discrezionale, sulla base di presupposti generici e assai poco definiti, e per di più non mirati specificamente al contrasto della criminalità organizzata; ossia complessivamente in termini tali da non essere compatibili con l’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali territoriali.

In particolare, la Consulta ha sottolineato che “essendo già previsto dal TUEL – oltre al potere sostitutivo del Governo in determinate circostanze (art. 137) – anche un generale potere di annullamento straordinario con cui il Governo si sostituisce agli organi degli enti locali in caso di «atti […] viziati di illegittimità» (art. 138), le «condotte illecite gravi e reiterate», di cui al censurato comma 7-bis dell’art. 143, non possono consistere soltanto in meri atti illegittimi, per i quali è già previsto un rimedio in chiave di potere sostitutivo. Occorre qualcosa di più, che però la disposizione censurata non solo non specifica, ma neppure espressamente richiede. Il riferimento a «condotte illecite gravi e reiterate», se inteso come riguardante fatti penalmente rilevanti di amministratori dell’ente locale o di dipendenti dello stesso, sarebbe comunque ampiamente generico se comparato a quello del primo comma dell’art. 143, il quale evoca chiaramente una fattispecie penale ben specifica: il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p. Né tale presupposto di fatto risulta meglio definito dalle conseguenze che da tali «condotte illecite gravi e reiterate» devono derivare. È richiesto infatti che esse siano tali da comportare «un’alterazione delle procedure e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali o provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi»; formulazione questa pur sempre generica e che non aggiunge nulla alla definizione del presupposto, se sol si consideri che ogni condotta illecita, grave e reiterata, non può che incidere negativamente ex se sul buon andamento dell’attività dell’ente”.

Inoltre, “la disposizione censurata assegna allo stesso prefetto, che ritenga sussistere una situazione di mala gestio dell’ente, non già un potere d’impulso e sollecitatorio dell’adempimento di obblighi di legge (come, ad esempio, nel procedimento che può condurre alla deliberazione dello stato di dissesto dell’ente: art. 243-quater, comma 7, TUEL), bensì quello ben più incisivo della diretta individuazione, ampiamente discrezionale, di «prioritari interventi di risanamento» da cui sorge, per l’ente locale, l’obbligo di conformazione. È quest’obbligo – non

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preesistente nella legge, ma sorto ad hoc per determinazione del prefetto – che poi, ove non adempiuto dall’ente, facoltizza l’esercizio del potere sostitutivo mediante commissario ad acta. L’insufficiente determinazione del presupposto del potere sostitutivo risulta così aggravata dalla latitudine del suo contenuto atipico e indifferenziato, mentre ogni potere amministrativo deve essere determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa”.

Infine, la Consulta stigmatizza che la garanzia costituzionale di autonomia degli enti locali territoriali richiede non solo che i presupposti dei poteri sostitutivi, incidenti nell’attività dell’ente, “siano sufficientemente determinati dalla legge, ma anche che l’eventuale sostituzione a organi dell’ente rispetti il canone dell’art. 120, secondo comma, Cost., integrato dalla norma di attuazione di cui all’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sull’assunzione a livello governativo della responsabilità per l’esercizio di tali poteri. Invece, la disposizione censurata lascia l’esercizio di un potere sostitutivo, che si è visto essere ampiamente discrezionale, al livello meramente amministrativo dei poteri del prefetto, senza alcun coinvolgimento del Governo (come nell’ipotesi del comma 1 dell’art. 143) e neppure del Ministro dell’interno (come nell’ipotesi del comma 5 della stessa disposizione)”.

Corte cost. 24 luglio 2019, n. 194 – Pres. Lattanzi – Est. Cartabia, de Pretis, Zanon, Barbera

Immigrazione, asilo e rapporti tra legislazione statale esclusiva e competenze regionali

Per il Giudice delle Leggi le nuove regole introdotte dal Decreto sicurezza n. 113 del 2018 su permessi di soggiorno, iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo e SPRA, adottate nell’ambito delle competenze riservate in via esclusiva allo Stato in materia di asilo, immigrazione, condizione giuridica dello straniero e anagrafi (articolo 117, comma 2, lettere a, b, i, Cost.), non manifestano incidenza diretta o indiretta sulle competenze regionali. Di conseguenza, la Corte ha giudicato inammissibili i ricorsi promossi dalle Regioni Calabria, Emilia Romagna, Marche, Toscana e Umbria.

La sentenza sottolinea che con l’art. 1 del d.l. n. 113/2018 il legislatore è intervenuto sulle qualifiche che danno titolo ai permessi di soggiorno sul territorio nazionale specificando, in un ventaglio di ipotesi nominate, i «seri motivi di carattere umanitario» prima genericamente enunciati all’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione. Il vizio di incostituzionalità della legge statale lamentato dalle Regioni ha fatto, invece, leva sulla illegittima restrizione dei titoli di soggiorno e sulla conseguente illegittima esclusione di una quota di persone dal novero della popolazione regolarmente residente sul territorio e beneficiaria delle prestazioni

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sociali erogate dalle Regioni (e dagli enti locali). Indimostrato è rimasto, però, l’assunto che il passaggio da un permesso di soggiorno generale e atipico, per «seri motivi di carattere umanitario», a una serie di «casi speciali», comporti di per sé una restrizione della protezione complementare contraria a Costituzione.

Considerazioni simili valgono anche per le modifiche al sistema territoriale di accoglienza. Esso è rimasto, in realtà, sostanzialmente invariato per quanto riguarda la sua organizzazione, l’ampiezza della rete territoriale e le modalità di accesso a tale sistema da parte degli enti locali, mentre oggetto di modifica risulta essere la platea dei soggetti ammessi a beneficiare dell’accoglienza territoriale. Tuttavia, “nessuna delle norme impugnate importa obblighi, divieti o condizionamenti, a carico delle Regioni e dei Comuni, tali da impedire loro di esercitare, anche a favore dei richiedenti asilo – al di fuori del sistema territoriale di accoglienza – le proprie attribuzioni legislative o amministrative, nelle materie di competenza concorrente o residuale, ovvero tali da costringerli a esercitare dette attribuzioni secondo modalità costituzionalmente illegittime per lesione di parametri costituzionali non attinenti al riparto delle competenze statali o regionali”.

Analogamente, neppure è rinvenibile una incidenza negativa delle disposizioni in tema di iscrizione anagrafica dei richiedenti protezione internazionale sulle competenze amministrative proprie dei Comuni, posto che i servizi gestiti dai Comuni in materia di anagrafe restano pur sempre «servizi di competenza statale» e le relative funzioni sono esercitate dal sindaco «quale ufficiale di Governo».

Corte cost. 19 giugno 2019, n. 149 – Pres. Lattanzi – Est. Zanon

Diritto al lavoro e riconoscimento della cittadinanza italiana a persone nate e già residenti nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico e ai loro discendenti

Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa diTrento pone al vaglio del Giudice delle Leggi questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e già residenti nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico e ai loro discendenti) e dell’art. 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).

Le due disposizioni sono censurate nella parte in cui non prevedono che il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza – rilasciato ai discendenti di persone nate e residenti nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920, e prima di tale data emigrate all’estero – consenta lo svolgimento di attività di lavoro.

La Consulta, ribadita la non applicabilità a casi del genere della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 286 del 1998, poiché rispondente a una logica del tutto

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distinta da quella della legge n. 379 del 2000, rileva l’inammissibilità delle questioni sollevate. Argomenta, infatti, che “non è sconosciuta all’ordinamento l’ipotesi di permessi di soggiorno che, pur non essendo convertibili in permessi abilitanti al lavoro, consentono comunque lo svolgimento di attività lavorativa per tutta la durata del permesso stesso, e la consentono, perciò, senza direttamente incidere né sulla tassatività delle ipotesi di conversione, né sulla regolamentazione dei flussi e delle quote di stranieri che entrano in Italia per ragioni di lavoro (si veda, ad esempio, il combinato disposto degli artt. 29, comma 6, e 31 del d.lgs. n. 286 del 1998; l’art. 20-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera h), del d.l. n. 113 del 2018; l’art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, recante «Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato»). Nell’assenza di una espressa disciplina che regolamenti la situazione di quanti, destinatari della legge n. 379 del 2000, hanno ottenuto il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza pur senza avere un precedente titolo abilitante alla permanenza in Italia, e in Italia aspettano la conclusione del procedimento volto alla verifica dei prescritti requisiti, il giudice rimettente avrebbe perciò dovuto verificare la praticabilità, in base alla ratio della legge n. 379 del 2000 e alla luce della Costituzione, di un’interpretazione che non trasformi l’imprevisto ritardo della procedura di verifica (anche considerando i termini generalmente previsti per la conclusione dei procedimenti per l’acquisto e la concessione della cittadinanza) in una lesione di diritti costituzionali essenziali, quale il diritto al lavoro. Lesione che assume connotati peculiari considerando, altresì, che essa avviene ai danni di un soggetto cui la legge, oltretutto, riconosce la cittadinanza, in caso di esito positivo della verifica, a decorrere dal giorno successivo in cui è stata resa la dichiarazione richiesta (art. 15 della legge n. 91 del 1992)”.

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PRINCIPALI PROVVEDIMENTI NORMATIVI

di interesse del Ministero dell'interno pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dal 19 luglio 2019 (aggiornato al 15 novembre 2019)

LEGGI

Legge 19 luglio 2019, n. 69(Pubblicata nella G.U. del 25 luglio 2019, n. 73)

“Modifica al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”

Legge 8 agosto 2019, n. 77(Pubblicata in G.U. del 9 agosto 2019, n. 186)

“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”

Legge 1° agosto 2019, n. 85(Pubblicata in G.U. del 16 agosto 2019, n. 191)

“Conversione in legge del decreto-legge 2 luglio 2019, n. 61, recante misure urgenti in materia di miglioramento dei saldi di finanza pubblica”

Legge 4 ottobre 2019, n. 117(Pubblicata in G.U. del 18 ottobre 2019, n. 245)

“Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea − Legge di delegazione europea 2018”

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Principali provvedimenti normativi

DECRETI-LEGGE

Decreto-legge 21 settembre 2019, n. 104 (Pubblicato in G.U. del 21 settembre 2019, n. 222)

“Disposizioni urgenti per i l trasferimento di funzioni e per la riorganizzazione dei Ministeri per i beni e le attività culturali, delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo, dello sviluppo economico, degli affari esteri e della cooperazione internazionale, delle infrastrutture e dei trasporti e dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, nonché per la rimodulazione degli stanziamenti per la revisione dei ruoli e delle carriere e per i compensi per lavoro straordinario delle Forze di polizia e delle Forze armate e per la continuità delle funzioni dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni”

Decreto-legge 21 settembre 2019, n. 105. (Pubblicato in G.U. del 21 settembre 2019, n. 222)

“Disposizioni urgenti in materia di perimetro di sicurezza nazionale cibernetica”

Decreto-legge 14 ottobre 2019, n. 111(Pubblicato in G.U. del 14 ottobre 2019, n. 241)

“Misure urgenti per il rispetto degli obblighi previsti dalla direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria e proroga del termine di cui all’articolo 48, commi 11 e 13, del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 dicembre 2016, n. 229”

Decreto-legge 24 ottobre 2019, n. 123(Pubblicato in G.U. del 24 ottobre 2019, n. 250)

“ D i s p o s i z i o n i u r g e n t i p e r l’accelerazione e il completamento delle ricostruzioni in corso nei territori colpiti da eventi sismici”

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Documentazione

Decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124(Pubblicato in G.U. del 26 ottobre 2019, n. 252)

“Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili”

DECRETI DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 11 giugno 2019, n. 78(Pubblicato in G.U. del 9 agosto 2019, n. 186)

“Regolamento per l’organizzazione degli Uffici centrali di livello dirigenziale generale del Ministero dell’interno”

DECRETI MINISTERIALI

Decreto Ministeriale 13 agosto 2019(Pubblicato in G.U. del 23 agosto 2019, n. 197)

“Modifica del Decreto 8 agosto 2007, recante Organizzazione e servizio degli steward negli impianti sportivi”

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ITINERARI INTERNI

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