responsabilità medica e risarcimento danni

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Responsabilità medica e risarcimento danni: una materia in continua evoluzione Articolo 29.09.2007 (Giuseppe Mommo ) Nei tempi più recenti, un indiscutibile miglioramento nella tutela risarcitoria del malato è stato apportato dal cosiddetto “processo di costituzionalizzazione del diritto civile”, che ha consentito di interpretare le “norme ordinarie”, soprattutto quelle sulla professione e sulla responsabilità medica alla luce dei principi costituzionali. Infatti, l’interpretazione delle norme “costituzionalmente orientata” ha generalmente favorito, quanto alla responsabilità civile nei diversi settori di attività, il risarcimento del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, perché la giurisprudenza lo ha cominciato a riconoscere non solo in base alle disposizioni del Codice e alle “leggi ordinarie”, ma anche in base alla Costituzione (in relazione alla lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti). Responsabilità medica e risarcimento danni: indagine su una materia in continua evoluzione di Giuseppe Mommo 1. Cenni introduttivi in fatto di responsabilità civile medica. - 2. Le diverse forme di responsabilità: la responsabilità extracontrattuale e quella contrattuale. - 3. Responsabilità da contatto sociale. - 4. Evoluzione del rapporto (Paziente – Medico - Struttura Ospedaliera). - 5. Risarcimento danno patrimoniale e perdita di chance . - 6. Danni non patrimoniali per lesione di interessi costituzionalmente garantiti. - 7. Recente giurisprudenza di legittimità sui danni non patrimoniali da responsabilità medica. 8. Casistica giurisprudenziale sul risarcimento del danno non patrimoniale jure hereditatis. 1. Cenni introduttivi in fatto di responsabilità civile medica. La responsabilità civile, se riferita ad un soggetto, è generalmente la conseguenza giuridica di una colpa (comportamento illecito) ed è caratterizzata dall'aspetto patrimonialistico- risarcitorio, ove esista una rapporto fra comportamento illecito e danno. Il rimedio tipico della responsabilità civile è dunque il risarcimento del danno, determinato dal comportamento illecito. Tale tipo di responsabilità, di solito si ricollega al fatto che un soggetto danneggi altri ingiustamente per negligenza,

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Responsabiltà medica

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Page 1: Responsabilità medica e risarcimento danni

Responsabilità medica e risarcimento danni: una materia in continua evoluzioneArticolo 29.09.2007 (Giuseppe Mommo)

Nei tempi più recenti, un indiscutibile miglioramento nella tutela risarcitoria del malato è stato apportato dal cosiddetto “processo di costituzionalizzazione del diritto civile”, che ha consentito di interpretare le “norme ordinarie”, soprattutto quelle sulla professione e sulla responsabilità medica

alla luce dei principi costituzionali. Infatti, l’interpretazione delle norme “costituzionalmente orientata” ha generalmente favorito, quanto alla responsabilità civile nei diversi settori di attività, il

risarcimento del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, perché la giurisprudenza lo ha cominciato a riconoscere non solo in base alle disposizioni del Codice e alle “leggi ordinarie”, ma

anche in base alla Costituzione (in relazione alla lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti).

Responsabilità medica e risarcimento danni: indagine su una materia in continua evoluzione

di Giuseppe Mommo

1. Cenni introduttivi in fatto di responsabilità civile medica. - 2. Le diverse forme di responsabilità: la responsabilità extracontrattuale e quella contrattuale. - 3. Responsabilità da contatto sociale. - 4. Evoluzione del rapporto (Paziente – Medico - Struttura Ospedaliera). - 5. Risarcimento danno

patrimoniale e perdita di chance . - 6. Danni non patrimoniali per lesione di interessi costituzionalmente garantiti. - 7. Recente giurisprudenza di legittimità sui danni non patrimoniali

da responsabilità medica. 8. Casistica giurisprudenziale sul risarcimento del danno non patrimoniale jure hereditatis.

1. Cenni introduttivi in fatto di responsabilità civile medica.

La responsabilità civile, se riferita ad un soggetto, è generalmente la conseguenza giuridica di una colpa (comportamento illecito) ed è caratterizzata dall'aspetto patrimonialistico-risarcitorio, ove

esista una rapporto fra comportamento illecito e danno.

Il rimedio tipico della responsabilità civile è dunque il risarcimento del danno, determinato dal comportamento illecito.

Tale tipo di responsabilità, di solito si ricollega al fatto che un soggetto danneggi altri ingiustamente per negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o

discipline.

In seno alla generale categoria della responsabilità civile, si distinguono due fondamentali tipologie di responsabilità: contrattuale ed extracontrattuale.

Nel contesto della responsabilità civile, la colpa del medico ricorre quando, in relazione alla sua attività, venga lesa l'integrità psico-fisica di una persona o ne venga cagionata la morte.

Lo scopo di questo scritto è principalmente quello di evidenziare la continua evoluzione soprattutto giurisprudenziale in fatto di risarcimento dei danni alla persona, focalizzando l’indagine sulla

responsabilità dei medici e delle strutture ospedaliere.

Per le peculiari implicazioni che all’attività medica si ricollegano, la responsabilità del medico è oggi caratterizzata da alcuni aspetti specifici, che in parte la differenziano da quella di altri

professionisti, per il configurarsi di un aggravio di garanzia.

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Non così nel passato quando la prestazione medica, in quanto prestazione d'opera intellettuale, si considerava, come tutte le altre, regolata semplicemente dalla disciplina dettata dal Codice civile

per le professioni intellettuali.

Questo anche perché, almeno fino agli anni Novanta, le disposizioni del Codice non venivano esaminate alla luce dei principi costituzionali ed in particolare dell’articolo 32 della Costituzione

che tutela la salute quale fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.

Si può dire che prima degli anni Novanta gli strumenti di tutela di chi chiedeva una prestazione professionale (soprattutto medica!) erano limitati (solo quelli derivanti dalla interpretazione

“letterale” del Codice civile) ed erano dati in termini extracontrattuali, in quanto non era ipotizzabile alcuna convenzione contrattuale del professionista con il cliente (tra medico e malato).

Risalendo nel tempo a prima degli anni Ottanta, il medico di una struttura sanitaria pubblica era assimilato al dipendente pubblico e qualsiasi rapporto privatistico del malato con il medico veniva

escluso.

Peraltro, la struttura pubblica della quale faceva parte, si tendeva a considerarla una entità giuridica priva di una soggettività distinta rispetto a quella dello Stato.

Neppure verso le costituite Unità Sanitarie, da principio, si ritennero utilizzabili i comuni strumenti privatistici, già utilizzati in qualche caso nei confronti di strutture private, proprio perché si

consideravano dotate di personalità giuridica di diritto pubblico.

Inoltre, alcuni fattori, come la natura dell'attività, considerata in via astratta e generale comunque difficile e rischiosa, il principio paternalistico ed il cosiddetto privilegio terapeutico, che nel passato

anche recente facevano del medico l’unico interprete della salute e della malattia, determinavano (paradossalmente!) la tendenza a valutare con minore rigore la diligenza necessaria e di fatto

escludevano dal contenzioso le inosservanze che potevano risolversi nella colpa lieve.

Detto in altre parole: al medico che agiva in “scienza e coscienza” generalmente veniva “perdonata” dai pazienti (ed anche dal giudice) la colpa lieve prevista dall’articolo 1176 del Codice civile.

Considerato il suo ruolo paternalistico e la “particolare attività”, nel caso di contenzioso, poteva essere fatta valere (quasi sempre) l’attenuazione di responsabilità prevista dall’articolo 2236 dello

stesso Codice e quindi il medico, per essere considerato colpevole e tenuto al risarcimento del danno, doveva incorrere in una colpa grave.

Quindi, la richiesta di risarcimento per responsabilità del medico generalmente presupponeva una colpa grave o il dolo, anche per l’attività di routine e quindi a prescindere dalla “speciale difficoltà”

di cui all'art. 2236 del Codice civile.

Soltanto nel 1975, quando la Cassazione (Cass. civ., 18-06-1975, n. 2439) è arrivata a chiarire che la speciale difficoltà dell’operazione doveva riguardare “il singolo caso concreto in tutte le sue

particolarità operative”, si è aperto un varco alla “(…) responsabilità ordinaria del medico, anche per colpa lieve, ove la regola o le regole da applicare non siano osservate per inadeguatezza od

incompletezza della preparazione professionale comune e media (imperizia) o per omissione della diligenza media (negligenza), di fronte ad un caso concreto che sia comune ed ordinario, cioè che

sia tipico perché conosciuto dalla scienza e nell'esperienza medica, con la conseguente esistenza di regole precise ed indiscusse, (…)” .

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Con la stessa decisione si chiarì definitivamente che, “il medico risponde, invece, soltanto per colpa grave (oltre che per dolo) ma quando il caso concreto sia straordinario od eccezionale, si da

essere non adeguatamente studiato nella scienza medica e sperimentato nella pratica (se non addirittura ignoto), ovvero quando nella scienza medica siano proposti e dibattuti diversi, ed

incompatibili tra loro, sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica, tra i quali il medico operi la sua scelta (…)”.

Nei tempi più recenti, un indiscutibile miglioramento nella tutela risarcitoria del malato è stato apportato dal cosiddetto “processo di costituzionalizzazione del diritto civile”, che ha consentito di interpretare le “norme ordinarie”, soprattutto quelle sulla professione e sulla responsabilità medica

alla luce dei principi costituzionali.

Infatti, l’interpretazione delle norme “costituzionalmente orientata” ha generalmente favorito, quanto alla responsabilità civile nei diversi settori di attività, il risarcimento del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, perché la giurisprudenza lo ha cominciato a riconoscere non solo in base alle disposizioni del Codice e alle “leggi ordinarie”, ma anche in base alla Costituzione (in

relazione alla lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti).

Nel campo della responsabilità medica, in particolare, l’evoluzione della giurisprudenza ha risentito, da un lato, dell’accentuarsi della tendenza a fondare le regole sui principi costituzionali e, sotto un

altro aspetto, della continua evoluzione scientifica e delle nuove forme organizzative di svolgimento della professione medica.

Progressivamente, anche con riferimento alle strutture pubbliche, la giurisprudenza si è dovuta orientare nel senso di collegare alla imperizia o negligenza del medico ospedaliero del servizio sanitario, una responsabilità anche a carico dell'ente ospedaliero di appartenenza, condannato in

molti casi a risarcire i danni, come si vedrà, “in via contrattuale ed extracontrattuale”.

Si è dovuta fare la distinzione tra la responsabilità del singolo e quella della struttura ospedaliera, dato che frequentemente si ha avuto modo di constatare che il “danno” subito dal paziente non poteva essere attribuito ad uno specifico atto del medico o dell’infermiere ma a irregolarità o

carenze organizzative dell’ospedale.

In questo quadro si inserisce l’attuale tendenza ad agire in giudizio sia contro il personale medico e sanitario per l’evento lesivo, sia contro l’ospedale (e/o l’azienda sanitaria da cui dipende la

struttura), che potrebbe aver contribuito a determinarlo.

C’è infine da sottolineare che il problema della responsabilità professionale del medico, ha suscitato soprattutto negli ultimi tempi un ampio dibattito, alimentato e sostenuto da una accresciuta e più

sentita esigenza di tutela del malato.

Attualmente l'attività medica è assoggettata ad un controllo forse troppo pregnante dell'Autorità Giudiziaria per il crescente numero di ammalati intenzionati a far valere giudizialmente la colpa

professionale del medico (in molti casi solo presunta!), fondata su errori o sull’imprudenza e negligenza nel formulare la diagnosi, oppure sul mancato approfondimento degli accertamenti

diagnostici.

La dottrina giuridica ha già fatto osservare come le regole in tema di responsabilità medica siano passate dalla rigidità precedente, che determinava una situazione di “under compensation” (in cui il

risarcimento assicurato alle vittime di errori medici era difficile da perseguire e assolutamente inadeguato), ad una eccessiva elasticità interpretativa che determina una situazione di “over

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compensation”, non tanto intesa come eccessiva misura dei risarcimenti concessi al paziente, quanto come sovrabbondante entità del contenzioso.

Si teme che possa accadere in Italia quel che è successo negli Stati Uniti d’America dove la costante crescita di procedimenti giudiziari contro i medici ha portato a situazioni paradossali: esodo di

massa dalle specializzazioni più rischiose verso quelle meno invasive; scarsità di neurochirurghi disposti ad operare in emergenza; ricorso alla “medicina difensiva” (prescrizione di accertamenti il più delle volte inutili per il paziente, finalizzati a prevenire accuse di scarsa diligenza da parte del medico); aumento dei premi assicurativi e delle spese sanitarie; sempre maggiori difficoltà per il paziente ad accedere alla tutela sanitaria se non provvisto di un’adeguata assicurazione che gli

consenta di sostenere gli elevati costi delle cure mediche.

2. Le diverse forme di responsabilità: la responsabilità extracontrattuale a quella contrattuale

La rinnovata cultura sociale sul modo di intendere il rapporto medico-paziente, con l’avvertita necessità di una maggiore tutela, è stata stimolata e assecondata, dalla giurisprudenza che,

attraverso il ricorso a concetti di ordine sistematico ha mutuato dalla materia contrattuale e dalla clausola di cui all'articolo 1173 del Codice civile un’apposita disciplina.

Anche in fatto di responsabilità medica, è stato applicato il principio che la responsabilità contrattuale non ricorre solo quando tra danneggiato e danneggiante sia stato stipulato un contratto, bensì ogni qual volta un soggetto si renda inadempiente rispetto a un qualsiasi rapporto obbligatorio

preesistente, sorto sulla base di una delle fonti individuate dall'articolo 1173 del Codice civile.

Sta di fatto che, nella casistica giudiziaria, viene sempre più limitato il ruolo della responsabilità extracontrattuale a favore di quella contrattuale.

Tanto che, sembrerebbe oggi definitivamente superato l’indirizzo secondo cui, in mancanza di un contratto, il medico può essere chiamato a rispondere soltanto in via extracontrattuale “per aver

provocato un danno ingiusto”.

Il vantaggio più evidente nel configurarsi di una responsabilità contrattuale, anziché per comportamento illecito, sta nel fatto che la responsabilità contrattuale esenta il danneggiato

dall’onere di provare il compimento di “un atto doloso o colposo che abbia cagionato un danno ingiusto”.

Si tratta di aggirare un insidioso ostacolo perché, nel caso di responsabilità per fatto illecito (detta anche responsabilità extracontrattuale, o aquiliana), ai sensi dell’art. 2697 del Codice civile,

spetterebbe al danneggiato dimostrare l’esistenza di tutte le immancabili condizioni del fatto illecito e quindi provare il dolo o la colpa del danneggiante, oltre al fatto che ha ricevuto un danno e che tra

il comportamento dell'agente e l'evento dannoso intercorre un nesso di causalità.

Nella nuova prospettiva interpretativa, ai fini del risarcimento dei danni prodotti dall’attività medica, la violazione di un obbligo di natura contrattuale determina per il debitore (medico e/o

struttura sanitaria) l'obbligo al risarcimento del danno causato al creditore (malato) dall’inadempimento o non corretta prestazione medica ed è sufficiente che il creditore danneggiato

(malato) provi la sussistenza del danno subito.

Spetta al debitore (medico e/o struttura sanitaria) convenuto, che si voglia liberare da ogni responsabilità, provare la diligenza nell’adempimento e/o l’incolpevolezza dell’inadempimento,

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dimostrando la correttezza della prestazione o che l'inadempimento è dovuto a causa non imputabile.

Del resto, anche nel caso in cui il medico voglia far valere la “speciale difficoltà”, ai sensi dell’artico 2236 del Codice civile, sarà sempre suo onere dimostrare che la prestazione implicava la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà e che, nella fattispecie, non vi era stato dolo o

colpa grave.

Un’altra differenza importante fra i due diversi tipi di responsabilità concerne il risarcimento del danno.

Mentre in tema di responsabilità contrattuale il risarcimento è limitato ai soli danni prevedibili al momento in cui è sorta l'obbligazione (articolo 1225 del Codice civile), a meno che

l'inadempimento abbia carattere doloso, nell'ipotesi di responsabilità extracontrattuale non è rilevante ai fini del risarcimento la prevedibilità del danno.

Infatti, nella valutazione dei danni derivanti da fatto illecito la norma da considerare è l'articolo 2056 del Codice civile, che contiene un espresso rinvio all’articolo 1223 (secondo il quale il

risarcimento deve comprendere sia il danno emergente sia il lucro cessante ove siano conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento), all’articolo 1226 (secondo cui, in mancanza di prova

sull’esatto ammontare del danno, spetta al giudice compiere una valutazione equitativa) e all’articolo 1227 (che stabilisce una diminuzione del risarcimento, in caso di concorso colposo del

danneggiato e la non risarcibilità dei danni che quest’ultimo avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza).

In mancanza del rinvio (anche) all’articolo 1225 dello stesso Codice, l’orientamento unanime è che il legislatore abbia voluto escludere l’applicabilità del criterio della prevedibilità del danno alla

responsabilità extracontrattuale.

Quanto ai tempi per agire, l'azione per il risarcimento del danno derivante da fatto illecito è soggetta a una prescrizione quinquennale (articolo 2947 del Codice civile), mentre l'azione per il

risarcimento del danno contrattuale è soggetta alla prescrizione ordinaria stabilita per le azioni nascenti dal contratto o da atto unilaterale (articolo 2946 del Codice civile).

Il trasferimento della responsabilità aquiliana sul versante della responsabilità contrattuale, ha consentito di affermare che, al fine di rafforzare la tutela del malato, i medici devono rispettare anche i cosiddetti “obblighi di protezione” in quanto accessori alla prestazione principale (nella

specie, diagnosi o cura), altrimenti destinati a ricevere tutela in base ai principi della responsabilità extracontrattuale

La giurisprudenza ha determinato un ampliamento del raggio di azione della responsabilità contrattuale, includendovi anche la violazione di obblighi esterni alla prestazione principale come quello di informazione, di sorveglianza sul decorso della malattia, di attenta vigilanza nella fase

postoperatoria.

La stessa giurisprudenza, pur focalizzando l’ attenzione sull’obbligo di informare il paziente circa la natura ed i rischi connessi al trattamento terapeutico, al fine di ottenere il suo consenso “informato”,

ha fatto assumere all’obbligo di informazione diverse dimensioni e contenuti, fino a considerare anche l’obbligo di informare il paziente circa eventuali carenze strutturali dell’ospedale presso cui è

ricoverato.

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Quanto detto non deve trarre in inganno, nel senso di far sembrare agevole l’inquadramento della responsabilità all’interno dell’una o dell’altra fattispecie.

In realtà capita di riscontrare posizioni difformi sul punto, sia in dottrina che in giurisprudenza, tanto che, al fine di garantire meglio il danneggiato, in alcuni casi, la Cassazione è arrivata ad

ammettere il cumulo dei due tipi di responsabilità.

Com’è noto, poi, alle due categorie occorre aggiungere la responsabilità precontrattuale che alcuni Autori collocano tra le ipotesi di responsabilità extracontrattuale ed altri la inseriscono nell’alveo

della responsabilità contrattuale.

Ma c’è pure una tesi intermedia secondo cui la responsabilità precontrattuale sarebbe un tertium genus di responsabilità, né contrattuale né extracontrattuale.

Inoltre, la giurisprudenza, alla ricerca di tutele da offrire a particolari situazioni giuridiche, ha pure ricostruito la figura della responsabilità da “contatto sociale” che, come sarà meglio specificato, si

pone ai limiti del contratto e del fatto illecito.

Neppure agevole o definitivo è stato lo spostamento dell’orientamento giurisprudenziale dalla responsabilità aquiliana sul versante della responsabilità contrattuale

Si possono citare come esemplificative del periodo di maggiore “confusione giurisprudenziale” due sentenze della Cassazione (stessa sezione!) della fine degli anni novanta dove nella prima si ipotizza per il medico una responsabilità extracontrattuale (in mancanza di un contratto!) e nella seconda una

responsabilità contrattuale a prescindere dell’esistenza di un contratto.

In base alla prima decisione, “qualora tra medico e paziente sussista un rapporto contrattuale antecedente al ricovero in una struttura ospedaliera, oltre alla responsabilità contrattuale della

struttura stessa, si può configurare una duplice responsabilità del medico: contrattuale, in virtù di detto rapporto fiduciario, ed extracontrattuale per aver causato un danno ingiusto” (Cass. civ. Sez.

III, 13-03-1998, n. 2750).

Nel corso dello stesso anno 1998 la stessa sezione della Cassazione ha ipotizzato un cumulo di responsabilità “contrattuale” (del medico con la struttura) precisando che “in ipotesi di non corretta

esecuzione della prestazione professionale medica, eseguita in struttura sanitaria pubblica, ne rispondono a titolo di responsabilità contrattuale sia l'ente ospedaliero, gestore di un servizio

pubblico sanitario, sia il medico dipendente ex art. 28 cost.” (Cass. civ. Sez. III, 02-12-1998, n. 12233).

Quando la prevalente giurisprudenza era pervenuta a ritenere applicabili i principi dettati in tema di responsabilità contrattuale, è intervenuta la sentenza della Corte di Cassazione n. 589/1999 che ha

giustificato la natura contrattuale della responsabilità dei medici dipendenti da strutture ospedaliere, sulla base della teoria del “contatto sociale”.

Può essere interessante notare come il Tribunale di Milano (Trib. Milano, 19-02-2001) prende atto del cambio di indirizzo giurisprudenziale di legittimità, ipotizzando anche il “contatto sociale”: “La

giurisprudenza, da ultimo, ha qualificato come contrattuale - oltre che extracontrattuale - la responsabilità del medico che opera all'interno di una struttura ospedaliera, ribaltando i precedenti orientamenti giurisprudenziali che ravvedevano in capo al medico solo una

responsabilità extracontrattuale, per violazione dei doveri inerenti alla professione, ex art. 2236 c.c., concorrente con quella contrattuale dell'ente”(…).

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Aggiunge lo stesso Tribunale che “Se si guarda alla genesi del rapporto tra paziente e medico dipendente, esiste un momento in cui le parti stabiliscono se entrare in relazione e, da quel

momento, assumono un impegno reciproco e pongono una regola di comportamento: obbligazione e prestazione entrano a pieno titolo in un rapporto fondato sulla volontà delle parti”.

Anche se la matrice negoziale del rapporto è indebolita, perché “da una parte, il medico, in quanto dipendente della struttura, è tenuto a prestare la sua attività nei confronti del soggetto che abbia

concluso un accordo con l'ente; dall'altra parte, il paziente non è libero di scegliere il professionista a cui rivolgersi essendo in ciò vincolato dall'indicazione fornita dalla struttura”, c’è

da considerare che, “secondo il più recente orientamento della Corte di cassazione, il contatto sociale surroga la consensualità tipica dell'accordo negoziale, giustificando la nascita di vincoli

contrattuali in tutto equivalenti a quelli generati da un contratto di prestazione d'opera”.

Precisa il Tribunale che la particolare situazione, “alla luce dei nuovi orientamenti giurisprudenziali, può essere definita come una fattispecie contrattuale a struttura complessa,

dominata dalla presenza di un collegamento negoziale tra tre rapporti "ex contractu": quello tra ente e medico, quello tra ente e paziente e quello tra paziente e medico”.

Se ne fa derivare la conseguenza che, “mentre le prestazioni pecuniarie - prezzo, compenso, spese - sono regolate dai primi due rapporti e la predisposizione di un’adeguata struttura organizzativa

compete principalmente all'ente, la prestazione professionale è oggetto, a diverso titolo, di entrambi i rapporti facenti capo al paziente: quello instaurato con l'ente, in quanto l'ente assicura la disponibilità di personale qualificato a cui rivolgersi, riservandosi di condizionare la scelta del medico da parte del paziente; quello instaurato col medico nel momento in cui il paziente decide di avvalersi di quella disponibilità, in quanto è in questo preciso ambito in cui il rapporto di cura si

sviluppa che la prestazione viene definita ed eseguita concretamente”.

Infine, il Tribunale ne trae la conclusione che:

“L'esistenza di un rapporto contrattuale tra medico e paziente, il cui contenuto obbligatorio si individua nel contratto di prestazione d'opera professionale, configura in capo al primo una responsabilità da inadempimento nei confronti del secondo che, dunque, concorre con

quella dell'ente, emergente ad altro titolo”. “La distinzione dei due rapporti spiega la diversità dei criteri d'imputazione della

responsabilità dell'ente e di quella del medico: il regime della responsabilità oggettiva dell'ente, quello della responsabilità per colpa, coi criteri di cui all'art. 2236 c.c., per il

secondo”.

3. Responsabilità da contatto sociale

La cosiddetta responsabilità da "contatto sociale", come sopra accennato, è una figura introdotta nel nostro ordinamento dalla giurisprudenza ed è caratterizzata dal fatto che, pur in mancanza di un contratto, la fattispecie può essere sottoposta alle regole proprie dell'obbligazione contrattuale.

Il contatto sociale, nasce dalla richiesta (di una parte) di erogazione di un servizio e dall'accettazione (dell’altra parte) di tale richiesta.

Tecnicamente si tratta di un “fatto integrato in un negozio giuridico”; ove sia integrato il “contatto”, la disciplina applicabile diventa quella prevista nel caso di esistenza di un contratto.

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Secondo un recente orientamento giurisprudenziale, nel campo medico la relazione negoziale fra i soggetti coinvolti farebbe sorgere il contratto di spedalità del malato con l'ente ospedaliero ed una relazione negoziale con il medico (che la giurisprudenza ancora stenta a definire compiutamente

come obbligatoria).

Il contatto sociale, che da luogo al nuovo tipo di responsabilità di origine negoziale, è caratterizzato dall'affidamento che il malato ripone nel medico (esercente una “particolare” professione protetta,

in quanto ha per oggetto beni costituzionalmente tutelati).

E’ stato precisato dai giudici, che tale situazione si riscontra nei confronti dell'operatore di qualsiasi professione cosiddetta protetta (per la quale cioè è richiesta una speciale abilitazione), ma in modo

particolare “quando essa abbia ad oggetto beni costituzionalmente garantiti come il bene della salute tutelato dall'artico 32 della costituzione”.

La locuzione “contatto sociale”, a proposito della obbligazione del medico dipendete dal Servizio sanitario nazionale, come sopra indicato, entra nella giurisprudenza della Cassazione nel 1999,

quando la suprema Corte, a proposito dei rapporti medico-paziente li definisce come “rapporti che nella previsione legale sono di origine contrattuale e tuttavia in concreto vengono costituiti senza

una base negoziale e talvolta grazie al contatto sociale”.

Come la stessa sentenza precisa, si tratta di una espressione risalente agli scrittori tedeschi, che facevano riferimento al “rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale”.

Secondo quanto è stato massimato “l'obbligazione del medico dipendente del servizio sanitario per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non fondata su contratto, ma sul

"contatto sociale" connotato dall'affidamento che il malato pone nella professionalità dell'esercente una professione protetta, ha natura contrattuale. Tale natura viene individuata non con riferimento alla fonte dell'obbligazione, ma al contenuto del rapporto”. (Cass. civ. Sez. III, 22-01-1999, n. 589)

Recentemente la Corte è tornata ad affrontare lo stesso argomento, precisando che “in tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, l'ente ospedaliero risponde a titolo contrattuale per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della

prestazione medica da parte di un medico proprio dipendente ed anche dell'obbligazione di quest'ultimo nei confronti del paziente, la quale ancorché non fondata sul contratto, ma sul

"contatto sociale", ha natura contrattuale, atteso che ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso” (Cass. civ. Sez. III, 19-04-2006, n. 9085).

La nuova teoria serve ad estendere l’ambito delle fonti di obbligazione (articolo 1173 del Codice civile) ed a rendere applicabile la disciplina in tema di responsabilità contrattuale anche ai rapporti

che sorgono attraverso il solo obbligo sociale di prestazione.

In tale prospettiva il medico, pur in assenza del “formale” negozio giuridico, è tenuto ad adempiere obblighi di cura che derivano dalla sua appartenenza ad una “particolare” professione protetta, su

cui il paziente ha fatto “affidamento” entrando in “contatto” con lui.

In altri termini, il medico e/o la struttura sono chiamati a rispondere a titolo contrattuale dei danni cagionati nell’esercizio della propria attività professionale per il solo fatto di essere venuti in

contatto con il paziente, anche in assenza di un vero e proprio obbligo di prestazione a favore del paziente posto a loro carico.

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Da ultimo il Tribunale di Genova ha così deciso: “In tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, rispondono a titolo di responsabilità contrattuale - come tale subordinata al

termine di prescrizione decennale - per i danni subiti dal paziente, sia l'ente ospedaliero per la non diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un proprio dipendente, sia il sanitario che abbia eseguito la prestazione, la cui obbligazione, pur non basata su un contratto tra professionista

e paziente, si fonda sul cd. contatto sociale, ovvero sull'affidamento che il malato pone sulla professionalità dell'esercente una professione protetta”. (Trib. Genova Sez. II, 23-03-2007)

4. Evoluzione del rapporto (Paziente – Medico - Struttura Ospedaliera)

Consolidatasi l’opinione che riconosce la natura contrattuale del rapporto intercorrente tra il paziente ed il medico e la struttura di ricovero (anche del Servizio sanitario nazionale), l’ente

ospedaliero è venuto a trovarsi rispetto ai privati non più in una posizione di potere ma di parità, in quanto a seguito della richiesta di ricovero o, più in generale, della prestazione medica, si

costituisce un rapporto giuridico, basato su di un diritto soggettivo del privato e sul dovere di una “diligente” prestazione dell’ente.

Per quanto riguarda l’individuazione dello specifico collegamento o legame che fa sorgere l’obbligazione dell’ospedale verso il paziente, secondo il tradizionale orientamento

giurisprudenziale l’attività svolta dall’ospedale è da assimilarsi all’attività svolta dal medico nell’esecuzione dell’obbligazione della prestazione.

In questa prospettiva, al rapporto fra Ente sanitario e paziente si applicano in via analogica le norme che disciplinano il contratto di prestazione d’opera intellettuale ed il presupposto essenziale per

l’affermazione della responsabilità contrattuale dell’ente, diviene l’accertamento di un comportamento non diligente del sanitario.

L’operato del sanitario viene riferito all’ente o attraverso il richiamo all’art. 28 della Costituzione, che enuncia il principio della cosiddetta immedesimazione organica, o attraverso il richiamo

all’articolo 1228 del Codice civile, che disciplina la responsabilità del debitore per il fatto dei propri ausiliari.

Tale ricostruzione sistematica, non esclude l’applicabilità dell’articolo 2236 del Codice civile nel caso di prestazione particolarmente complessa.

L’ultimo orientamento che sta emergendo tiene conto della forma strutturata di gestione dei servizi ospedalieri e del fatto che i servizi erogati dalla struttura ospedaliera sono molto più ampi e

complessi rispetto a quelli resi dal singolo medico.

Per questo motivo è stata prospettata una diversa qualificazione del rapporto struttura-paziente che trova la sua fonte nel c.d. “contatto sociale”, cioè in un contratto non espressamente previsto dalla

legge (atipico), che è stato genericamente definito come “contratto di spedalità”.

Tale orientamento nasce dalla constatazione che la prestazione medica è solo una parte della più complessa obbligazione assunta dalla struttura e quindi dall’esigenza di superare la qualificazione

del rapporto tra paziente e struttura di ricovero in termini di contratto di prestazione d’opera intellettuale.

Alla base di questo nuovo indirizzo giurisprudenziale vi è la considerazione che ciò che caratterizza il servizio reso dall’ospedale, rispetto a quello tradizionale reso dal medico, è la natura sempre più

“organizzata, multisettoriale e complessa” (che, accanto alla prestazione principale di cura,

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comprende anche una serie di altre prestazioni fornite come l’alloggio, l’alimentazione, la sicurezza degli impianti e la gestione delle risorse umane e delle attrezzature di cui dispone la struttura).

Il citato nuovo orientamento, ha sminuito il legame tra colpa del sanitario e responsabilità dell’ente di fronte ad una responsabilità autonoma della struttura per violazione di doveri suoi propri, tra i

quali spicca il dovere di una efficiente organizzazione.

La struttura, in altre parole, ove tale efficienza organizzativa manchi, può essere ritenuta responsabile del danno causato, indipendentemente da una colpa del singolo medico.

Occorre ricordare che dal punto di vista legislativo la crescente importanza rivestita dagli aspetti organizzativi e gestionali è stata sancita dal D.P.R. 14 gennaio 1997 che in un apposito atto allegato stabilisce i requisiti minimi di tipo strutturale, organizzativo e tecnologico necessari per l’esercizio

delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private.

A seguito della approvazione del D.Lgs. n. 229 del 1999, inoltre, le Regioni sono state legittimate a richiedere ulteriori requisiti rispetto a quelli minimi previsti a livello nazionale per l’accreditamento

istituzionale ed il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio di attività sanitaria.

Anche il legislatore, quindi, ha sancito la “liceità dell’aspettativa” che la gestione delle strutture sia ispirata a parametri di efficienza organizzativa che riducano al minimo, o almeno a livello

accettabile, il rischio cui è sottoposto il paziente durante il ricovero.

Quanto alla responsabilità delle strutture private, come accennato all’inizio, si giunse prima a ritenere applicabile quanto previsto dall’articolo 1218 del Codice civile secondo cui “il debitore che

non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno”.

La più recente elaborazione giurisprudenziale di legittimità ha individuato la fonte del rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero pubblico) “in un atipico contratto a

prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo” dove “a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente,

dall'assicuratore, dal Servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione

del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze”.

Se ne è tratta la conseguenza che “la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 c.c., all'inadempimento

delle obbligazioni direttamente a suo carico nonché, ai sensi dell'art. 1228 c.c., all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario

necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non

rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto”. (Cass. Civ. sez. III 14.06.2007, n. 13953 -

Cass. civ. Sez. III, 14-07-2004, n. 13066 - Cass. civ. Sez. III, 26-01-2006, n. 1698 - Cass., Sez. Unite., 01.07. 2002, n. 9556).

Nella dinamica giurisprudenziale volta ad aumentare le possibilità di ristoro del paziente danneggiato, alla configurazione della deficienza organizzativa come fonte autonoma di responsabilità della struttura, chiamata a rispondere dei danni occorsi al paziente a causa

dell’inadempimento del contratto di cura o di spedalità intercorso con lo stesso, si ricollegano nuovi

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obblighi anche per i medici come quello di informare il paziente anche in merito alle eventuali carenze strutturali e quello di prestare una maggiore diligenza nel caso la prestazione dovesse

svolgersi in una situazione ambientale difficile.

5. Risarcimento danno patrimoniale e perdita di chance

Con riguardo al danno provocato da inadempimento del medico, genericamente si può dire che il risarcimento può riguardare ogni danno (patrimoniale e non) che sia conseguenza diretta e

immediata dell'inadempimento.

Quindi, in primo luogo, qualsiasi pregiudizio (incluse tutte le spese sostenute e quelle previste per il futuro), che vada ad influire sulla situazione economica del danneggiato, determinando una perdita

economica o un mancato guadagno.

Nella categoria dei danni patrimoniali rientra anche il danno patrimoniale indiretto o consequenziale, individuabile nelle conseguenze economiche che derivano dalla lesione a un bene

non valutabile economicamente, quale la diminuita capacità di reddito.

Nei casi in cui il professionista si impegni a fornire un risultato, come accade ad esempio nel caso della chirurgia estetica o della sterilizzazione, si può chiedere il risarcimento del danno derivante

dal mancato raggiungimento del “risultato sperato”.

Anche nelle prestazioni medico-chirurgiche di routine, per le quali le regole tecniche assicurano il raggiungimento del risultato sperato, il mancato raggiungimento del risultato fa “presumere” la

negligenza o l’imperizia del sanitario.

In questo caso però la responsabilità non discende dal mancato raggiungimento del risultato sperato dal cliente, ma dal mancato impiego da parte del professionista (debitore della prestazione) della

necessaria diligenza.

Si parla anche di “perdita di chance” in relazione a tutte le possibilità che la vita può offrire ad una persona sana.

Ci sono dei casi in cui il paziente non ha diritto al risarcimento del danno derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato, ma può ottenere il risarcimento per le chances di guarigione perdute (non viene risarcita la perdita del risultato, ma la perdita delle possibilità di conseguirlo).

In ordine poi al risarcimento del danno patrimoniale è stato ripetutamente affermato che: “il danno patrimoniale inteso come conseguenza della riduzione della capacità di guadagno, e, a sua volta,

della capacità lavorativa specifica (e non, dunque, della sola inabilità temporanea o dell'invalidità permanente) è risarcibile autonomamente dal danno biologico soltanto se vi sia la prova che il

soggetto leso svolgeva - o presumibilmente in futuro avrebbe svolto - un'attività lavorativa produttiva di reddito, e che tale reddito (o parte di esso) non sia stato in concreto conseguito”

(Cass. civ. Sez. III, 02-02-2001, n. 1512).

Tale interpretazione trova poi una sua specificazione proprio con riferimento alla risarcibilità del danno patrimoniale futuro connesso alla figura della cosiddetta perdita di chances.

In proposito, relativamente al regime della prova, la Suprema Corte ha stabilito, che sebbene non sia possibile vagliare con assoluta certezza l'esistenza del danno patrimoniale futuro deve pur sempre

essere verificata la ragionevole e fondata probabilità del suo verificarsi.

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Rilevante a tal proposito è la sentenza della Cassazione secondo cui: ”La cosiddetta perdita di "chance" costituisce un’ipotesi di danno patrimoniale futuro. Come tale, essa è risarcibile a condizione che il danneggiato dimostri (anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di

circostanze di fatto certe e puntualmente allegate) la sussistenza d’un valido nesso causale tra il danno e la ragionevole probabilità della verificazione futura del danno” (Cass. 25-9-1998 n. 9598).

In sintesi, con riferimento al danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica ed al risarcimento del danno patrimoniale futuro, può affermarsi che il primo si aggiunge al danno biologico soltanto ove sia raggiunta la prova certa di una perdita concreta di reddito, mentre il

secondo può ritenersi configurabile solo ove venga formulato un giudizio di ragionevole probabilità che la lesione subita impedisca la realizzazione di guadagni futuri e non sulla base della sola astratta

ipotizzabilità dei medesimi.

Pronunciatasi in tema di responsabilità medica, la Cassazione (Cass. civ. Sez. III, 04-03-2004, n. 4400 vedi Responsabilità medica, perdita di chance e nesso di causalità) ha chiarito che la chance deve essere intesa come “concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato” e che quindi “non è una mera aspettativa di fatto, ma un'entità patrimoniale e sé

stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione”.

La sua perdita configura un “danno concreto e attuale” perché rappresenta “la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza”.

Quindi, “tale danno, non meramente ipotetico o eventuale (quale sarebbe stato se correlato al raggiungimento del risultato utile), bensì concreto e attuale (perdita di una consistente possibilità

di conseguire quel risultato) non va commisurato alla perdita del risultato ma alla mera possibilità di conseguirlo”.

La stessa decisione ha specificato che “in tema di responsabilità medica, costituisce danno risarcibile in favore del paziente o dei suoi eredi non solo la perduta possibilità, in conseguenza

dell'omissione colposa da parte del medico, di una guarigione certa, ma anche la perduta possibilità di una guarigione eventuale; quest'ultimo danno, consistente nella perdita della chance

di sopravvivenza, è ontologicamente diverso dal danno consistente nella perdita del risultato sperato”.

Ed ancora:“la diagnosi errata o inadeguata integra di per sé un inadempimento della prestazione sanitaria e, in presenza di fattori di rischio legati alla gravità della patologia o alle precarie

condizioni di salute del paziente, aggrava la possibilità che l'evento negativo si verifichi, producendo in capo al paziente la perdita delle chances di conseguire un risultato utile; tale

perdita di chances configura una autonoma voce di danno emergente, che va commisurato alla perdita della possibilità di conseguire un risultato positivo, e non alla mera perdita del risultato stesso, e la relativa domanda è domanda diversa rispetto a quella di risarcimento del danno da

mancato raggiungimento del risultato sperato”.

Recentemente la Suprema Corte è tornata sull’argomento precisando che la "chance" è “una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno

attuale e risarcibile, qualora:

a) si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità della esistenza di detta chance intesa come attitudine attuale;

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b) il creditore provi, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e

impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta” (Cass. civ. Sez. III, 07-07-2006, n. 15522).

Quindi, in caso di lesioni personali con postumi invalidanti permanenti, “la perdita di "chance", consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell'attività lavorativa,

costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di

una possibilità attuale”.

6. Danni non patrimoniali per lesione di interessi costituzionalmente garantiti

L’art. 2059 del Codice civile dispone che il danno non patrimoniale deve essere risarcito soltanto nei casi determinati dalla legge.

Originariamente, la risarcibilità di tale danno era circoscritta all’ipotesi, contemplata dall’articolo 185 del Codice penale, relativa al danno non patrimoniale derivante da reati.

Questa disposizione del Codice civile, in seguito all’evoluzione del nostro ordinamento, deve oggi essere interpretata nel senso che il risarcimento del danno non patrimoniale spetti anche in altre

ipotesi di lesione di interessi costituzionalmente garantiti, a prescindere dal configurarsi di un reato: “L'articolo 2059 del codice civile va letto in relazione al disposto dell'articolo 2 della Carta

costituzionale come norma di tutela dell'esplicazione della persona umana nella realtà sociale. Ne consegue che il riferimento, contenuto nell'articolo 2059, al reato di cui all'articolo 185 del cod.

pen., non postula la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente, nella sua oggettività, all'astratta previsione di una figura di reato, così che il

danno non patrimoniale potrà essere risarcito anche nell'ipotesi in cui, in sede civile, la responsabilità dell'autore del fatto sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge. Cass. civ.

Sez. III, 16-1-2006, n. 720.

Da un lato, infatti, il legislatore ha introdotto casi di risarcimento del danno non patrimoniale estranei alla materia penale, riguardo ai quali è del tutto inconferente qualsiasi riferimento ad

esigenze di carattere repressivo (si pensi, ad esempio, in particolare all'art. 2 legge. n. 117 del 1988 in tema di risarcimento anche dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; all'art. 29, comma 9, legge n. 675 del

1996, in tema di modalità illecite nella raccolta di dati personali; all'art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286 del 1998, in tema di adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; all'art. 2 legge n. 89 del 2001, in tema di mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo);

dall’altro, la giurisprudenza – sia pure muovendosi nell’ambito di operatività dell’articolo 2043 del Codice civile, nel corso di un travagliato itinerario interpretativo nel quale la Corte Costituzionale è ripetutamente intervenuta – ha da tempo individuato ulteriori ipotesi di danni sostanzialmente non

patrimoniali, derivanti dalla lesione di interessi costituzionalmente garantiti, risarcibili a prescindere dalla configurabilità di un reato.

Il mutamento legislativo e l’evoluzione giurisprudenziale, venuti in tal modo a concretizzarsi nella interpretazione costituzionale del diritto civile, hanno fatto assumere all’articolo 2059 del Codice civile una funzione non più sanzionatoria, ma soltanto tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del

danno non patrimoniale.

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In fatto di risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona, come è noto, la decisione della Corte Costituzionale (Sentenza 30 giugno - 11 luglio 2003, n. 233), ha rappresentato una svolta

storica, avendo considerato “ormai superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall’art. 2059 c.c., si identificherebbe col danno morale soggettivo” ed avendo confermato “due recentissime pronunce (Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827, 8828)” alle quali è stato riconosciuto “l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona” per aver prospettato, ” con ricchezza di

argomentazioni - nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale - un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., tesa a

ricomprendere nell’astratta previsione del norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti la persona”.

Quindi, il precetto costituzionale ha consentito di fondare un sistema completo di garanzia del principio generale del “neminem laedere”, inteso quale violazione di un diritto fondamentale

dell’individuo, tutelabile, senza limitazioni risarcitorie, ex articolo 2059 del Codice civile.

Ovviamente, anche nel caso di colpa professionale medica può oggi considerarsi tutelabile, senza limitazioni risarcitorie, ex articolo 2059 del Codice civile, e quindi risarcibile ogni danno di natura non patrimoniale, indipendentemente dalla prova della sussistenza di un reato, per inadempimenti

contrattuali o extracontrattuali che abbiano, comunque, provocato la violazione di un diritto fondamentale dell’individuo, garantito dalla Costituzione.

La stessa decisione della Corte costituzionale sopra richiamata ha distinto le singole componenti del danno non patrimoniale del quale possono far parte:”sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto,

inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, dell’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia, infine, il danno, spesso

definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.”

Il tema relativo al risarcimento dei danni alla persona, ed in particolare quello relativo alla diversificazione ed ai “confini” dei danni non patrimoniali (morale, biologico, esistenziale), è un

argomento troppo vasto ed a carattere “generale” per essere trattato in questa sede in modo sintetico e “parziale” (nella prospettiva della responsabilità medica).

Mi riprometto di esaminare approfonditamente in un altro lavoro, il modo in cui la giurisprudenza di legittimità si è sviluppata ed evoluta nel riconoscimento dei danni non patrimoniali (anche ai

“prossimi congiunti”), puntualizzando anche il modo in cui sono stati tracciati dei confini, anche se labili, nella diversificazione del danno morale, biologico ed esistenziale.

Quanto ai dubbi interpretativi riguardanti la possibile configurabilità del danno esistenziale, come autonoma figura suscettibile di risarcimento la questione è stata affrontata dalle Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 24-03-2006, n. 6572 vedi Danno esistenziale: sulla prova del danno da

demansionamento) che hanno riconosciuto la categoria del "danno esistenziale" quale autonoma voce di danno individuabile in “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore,

ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione

e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.

Resta comunque assodato che “il danno esistenziale non può essere identificato nei dolori, nelle sofferenze, nel patema d'animo, ma nella perdita o limitazione di attività, non aventi contenuto

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patrimoniale, in cui si esplica la persona umana. Ne consegue che l'indennizzo di tale voce di danno esige che venga specificata la concreta attività, non avente contenuto patrimoniale,

realizzatrice della persona umana, sulla quale abbia inciso l'azione che si assume dannosa. (Cass. civ. Sez. I, 23-08-2005, n. 17110)

Nella generica categoria di “danno esistenziale” sono state fatte confluire diverse fattispecie di donno ricollegate alla interpretazione costituzionale dell’articolo 2059 del Codice civile, basti dire

che alcune recenti controversie hanno esteso la nozione di danno esistenziale ad istanze di risarcimento per l’uccisione dell’animale domestico.

In merito al danno esistenziale per la perdita dell’animale domestico, era attesa una sentenza di legittimità e nel giugno scorso la Cassazione (Cass.. civ. sez. III, 14.6.2007) ha escluso che il

risarcimento “esistenziale” possa essere riconosciuto per la perdita di un animale domestico da affezione (nel caso di specie un cavallo morto in un incidente stradale), “in mancanza della prova sia per l’an che per il quantum debeatur”, in base alla semplice deduzione di un danno in re ipsa,

con “generico riferimento alla perdita della qualità della vita”.

Questa la motivazione: “pur ammettendo questa Corte (v. Cass. SS. unite 14 marzo 2006 n. 6572 e Cass. 15 luglio 2005 n. 15022) la tutela di situazioni soggettive costituzionalmente protette o

legislativamente protette come figure tipiche di danno non patrimoniale, rientranti sotto l’ambito dello articolo 2059 del codice civile, costituzionalmente orientato, la perdita del cavallo in

questione, come animale da affezione, non sembra riconducibile sotto una fattispecie di un danno esistenziale conseguente alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una

sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta”.

Quanto ai soggetti legittimati a domandare il danno morale, per molto tempo la Corte di cassazione ha ritenuto che soltanto la vittima del reato potesse chiedere il risarcimento (Cass. civ. Sez. III, 17-

11-1997, n. 11396 ; Cass. civ. Sez. III, 21-05-1996, n. 4671; Cass. civ. Sez. III, 17-10-1992, n. 11414) .

Sul finire degli anni ’90, la terza sezione della Cassazione ha abbandonato l’orientamento tradizionale, ammettendo il risarcimento del danno morale dei prossimi congiunti della vittima, ove ne avessero provato (anche in via presuntiva) l’effettiva esistenza (Cass. civ. Sez. III, 23-04-1998, n. 4186; Cass. civ. Sez. III, 19-05-1999, n. 4852; Cass. civ. Sez. III, 01-12-1999, n. 13358; Cass.

civ. Sez. III, 05-01-2001, n. 116; Cass. civ. Sez. III, 02-02-2001, n. 1516; Cass. civ. Sez. III, 27-07-2001, n. 10291; Cass. civ. Sez. III, 21-02-2002, n. 2503; Cass. civ. Sez. Unite, 01-07-2002, n. 9556; Cass. civ. Sez. III, 26-02-2003, n. 2888; Cass. civ. Sez. III, 14-05-2003, n. 7379; Cass. civ. Sez. III, 16-05-2003, n. 7629; Cass. civ. Sez. III, 14-07-2003, n. 10996; Cass. civ. Sez. III, 04-11-2003, n. 16525; Cass. civ. Sez. III, 09-03-2004, n. 4754; Cass. civ. Sez. III, 11-03-2004, n. 4993; Cass. civ. Sez. III, 08-06-2004, n. 10816; Cass. civ. Sez. III, 14-12-2004, n. 23291; Cass. civ. Sez. III, 03-10-2005, n. 19316; Cass. civ. Sez. III, 12-06-2006, n. 13546; Cass. civ. Sez. III, 14-06-2006, n. 13754;

Cass. civ. Sez. III, 08-11-2006, n. 23865; Cass. civ. Sez. III, 19-01-2007, n. 1203).

7. Recente giurisprudenza di legittimità sui danni non patrimoniali da responsabilità medica

Può essere utile, a conclusione di questa esposizione, verificare concretamente come la più recente giurisprudenza di legittimità, in alcuni significativi casi di colpa professionale medica, abbia

ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale (al danneggiato o “prossimi congiunti”) nelle sue (non sempre chiaramente distinte) categorie del danno biologico, del danno morale e del danno

esistenziale.

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Come da più parti sottolineato, ad anticipare la decisione della Corte costituzionale era stata la giurisprudenza di merito ed alcune sentenze di legittimità del 2003 (sentenze 7281, 7282, 7283,

8827, 8828).

Anzi, è a due di esse (“due recentissime pronunce (Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827, 8828”) che la Corte riconosce “l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo

della tutela risarcitoria del danno alla persona”.

Una delle due (Cassazione 31 maggio 2003, n. 8827 vedi Errore medico - risarcimento - danno biologico e morale - danno esistenziale), in questa trattazione merita particolare attenzione: in primo

luogo perché è considerata una pietra miliare del percorso di modernizzazione della disciplina del danno non patrimoniale, attraverso la strada della reinterpretazione dell’articolo 2059 del Codice civile; in secondo luogo perché è stata emessa a conclusione di una vicenda giudiziaria originata

dalla richiesta di risarcimento da “comportamenti omissivi del personale sanitario” di un ospedale.

Questi in sintesi i fatti: due medici, la U.S.L. e l’ospedale dove era avvenuto un parto cesareo, erano stati convenuti in giudizio dai genitori di un minore (in proprio ed in nome del figlio), “per il risarcimento dei danni connessi alla tetrapresi spastica ed alla atrofia cerebrale da asfissia

neonatale” da cui era affetto il minore.

A proposito della risarcibilità del danno di “interessi costituzionalmente garantiti” i giudici della Cassazione, con la decisione in discorso, anticipando l’intervento della Corte costituzionale,

chiarirono che “il danno non patrimoniale conseguente all'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite

derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della

Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale”.

Quanto alla nozione di danno non patrimoniale, per la posizione preminente che la Costituzione riconosce e garantisce ai diritti inviolabili dell'uomo, “il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona,

non esaurendosi esso nel danno morale soggettivo”.

Quindi, “la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai come strumento di

duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare le lacune nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al sistema bipolare del danno

patrimoniale e di quello non patrimoniale, quest'ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto (configurabile solo quando vi sia una lesione dell'integrità psicofisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica), del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso (il cui

ambito resta esclusivamente quello proprio della mera sofferenza psichica e del patema d'animo) nonché dei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un

interesse costituzionalmente protetto”.

La decisione si sofferma anche sui “criteri di liquidazione” e considera la liquidazione equitativa come “unica possibile forma di liquidazione di ogni danno privo, come il danno biologico ed il

danno morale, delle caratteristiche della patrimonialità”.

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Viene pure precisato che “la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura di tale danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è

reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico”.

A proposito della condizione di cui all’articolo 1226 del Codice civile, secondo cui la valutazione equitativa presuppone l’indicazione delle ragioni per le quali il danno non può essere provato nel

suo ammontare, è stato fatto osservare che “in tanto una precisa quantificazione pecuniaria è possibile, in quanto esistano dei parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il

danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare”.

Quindi al giudice non è possibile addebitare “di non aver indicato le ragioni per le quali il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare - costituente la condizione per il ricorso alla

valutazione equitativa di cui all'art. 1226 c.c.”.

Fermo restando, ovviamente, il dovere del giudice di “dar conto delle circostanze di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa e dell'"iter" logico che lo ha condotto a

quel determinato risultato”.

Altra questione nodale affrontata nella circostanza è stata quella relativa alla “risarcibilità del danno non patrimoniale in favore dei prossimi congiunti del soggetto che sia sopravvissuto a

lesioni seriamente invalidanti”.

Il riferimento in questo caso è all’articolo 29, primo comma, della Costituzione che riconosce i "diritti della famiglia" da interpretarsi “non già, restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni

della persona nell'ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell'individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando bensì bisogni e

doveri, ma dando anche luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati”.

Secondo i giudici, anche la lesione dell’interesse ad un sereno assetto del nucleo familiare, “deve senz'altro trovare ristoro nell'ambito della tutela ulteriore apprestata dall'art. 2059 c.c. (…)

allorché il fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto, provocando una rimarchevole dilatazione dei bisogni e dei doveri ed una determinante riduzione, se non

annullamento, delle positività che dal rapporto parentale derivano, il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita del genitore in relazione all'esigenza di provvedere perennemente ai (niente affatto ordinari) bisogni del figlio, sopravvissuto a lesioni

seriamente invalidanti”.

In precedenza la sezione lavoro della stessa Cassazione, a proposito del diritto al risarcimento dei danni morali ai congiunti di persona che avesse subito “lesioni personali, ancorché gravissime (e non anche la morte)”, lo aveva escluso: “I prossimi congiunti di una persona lesa nella salute in

conseguenza dell'altrui atto illecito non hanno diritto al risarcimento del danno morale” (Cass. civ. Sez. lavoro, 23-02-2000, n. 2037).

La stessa Cassazione, con altra “esemplare” decisione in fatto di responsabilità medica (Cass. civ. Sez. III, 29-07-2004, n. 14488 - vedi Colpa medica e diritto a non nascere se non sano del concepito), si è occupata anche di risarcimento spettante nel caso di “omessa diagnosi di

malformazioni del concepito”, in relazione anche al fatto che in questo caso l'errore del medico fa perdere alla donna la possibilità di abortire.

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Si è parlato in tal caso di danno risarcibile per la mancata interruzione della gravidanza che è rappresentato “non solo da quello dipendente dal pregiudizio alla salute fisio-psichica della donna specificamente tutelata dalla predetta legge n. 194 del 1978, ma anche da quello più genericamente

dipendente da ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell'inadempimento del sanitario nonché del danno biologico in tutte le sue forme”.

Nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, l'inadempimento del medico, secondo quanto deciso, preclude alla donna la possibilità di compiere la scelta di interrompere la gravidanza (in presenza dei presupposti previsti dalla legge) evitando “il

pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al proprio stato di salute”.

Il medico che abbia omesso di diagnosticare rilevanti patologie del feto è responsabile dei danni, patrimoniali e non, conseguenza immediata e diretta del suo inadempimento, posto che, in caso di gravi malformazioni fetali, “si assume come normale e corrispondente a regolarità causale che la

gestante, se informata correttamente e tempestivamente sulla gravità delle patologie cui va incontro il nascituro, interrompa la gravidanza”.

Ne consegue che “non sono danni che derivano dall'inadempimento del medico quelli che il suo adempimento non avrebbe evitato: una nascita che la madre non avrebbe potuto scegliere di

rifiutare; una nascita che non avrebbe in concreto rifiutato; la presenza nel figlio di menomazioni o malformazioni al cui consolidarsi non avrebbe potuto porsi riparo durante la gravidanza in modo

che il figlio nascesse sano”.

Nel caso l’omessa od errata informazione del sanitario sia tale da incidere sul mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza, “è risarcibile non solo il danno dovuto al pregiudizio

psicofisico della madre, ma più genericamente ogni danno - patrimoniale e non - che sia conseguenza diretta e immediata dell'inadempimento”.

La Cassazione ha enunciato il suddetto principio con riguardo ai danni subiti dal padre, legittimato, insieme alla madre, “a domandare il risarcimento del danno (patrimoniale e non)”.

Il padre del concepito – è stato chiarito - per effetto dell'attività professionale del medico diventa o non diventa padre (o diventa padre di un bambino anormale), quindi, configurandosi il contratto

come contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei suoi confronti il danno provocato da inadempimento del sanitario costituisce una conseguenza immediata e diretta

anche per il padre e, come tale, è risarcibile a norma dell'art. 1223 del Codice civile.

E’ stata usata l’espressione “ danno biologico in tutte le sue forme”, come comprensiva di tutte le ipotesi di danno non legate al reddito.

Poiché si versa in tema di inadempimento contrattuale, argomenta la Corte, è il danno (pregiudizio) subito dal creditore che occorre risarcire, secondo i principi della regolarità causale (art. 1223 c.c.), nel quale danno “rientra non solo il danno alla salute in senso stretto ma anche il danno biologico

in tutte le sue forme ed il danno economico, che sia conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata (Cass. n. 12195/1998)”.

E’ bene ricordate che il danno biologico in senso stretto, consiste nella lesione dell'integrità psico-fisica della persona (costituzionalmente garantita dall’ art. 32 Cost.) accertabile in sede medico-

legale.

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Nonostante le difficoltà di accertamento e di valutazione, dottrina e giurisprudenza oggi concordano sul fatto che è risarcibile non soltanto il danno biologico di tipo fisico, ma anche il danno biologico

che è conseguenza della lesione inferta alla salute mentale e psichica dell'individuo.

Sostanzialmente la Cassazione ha confermato la correttezza della liquidazione equitativa stabilita dalla Corte di merito per i danni subiti dai genitori che, per effetto della nascita della bambina

gravemente ammalata, “erano caduti in uno stato di stress ed affaticamento e che, con giudizio ex ante, tale stato patologico della madre era pronosticabile; che il padre certamente non aveva il diritto di interrompere la gravidanza, competendo tale facoltà solo alla madre, ma che il danno

alla salute della moglie si era riflesso sulla sua salute”.

La decisione di merito è stata confermata, con una serie di interessanti motivazioni aggiuntive, anche in merito al fatto che “nessun risarcimento era dovuto alla piccola (omissis) in quanto la

scienza medica non offriva un rimedio per eliminare nel nascituro la talassemia, ovvero attenuarla, durante la gestazione, per cui lo stato di invalidità non poteva essere imputato al professionista,

che il suo comportamento aveva privato i genitori della facoltà di scelta tra continuare la gravidanza o procedere all'aborto, da cui poteva conseguire solo l'inesistenza di quel soggetto”.

Ancora nel 2005 la Cassazione è tornata ad affrontare il tema della responsabilità civile del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata.

Anche nel caso di specie, la Cassazione (Cass. civ. Sez. III, 20-10-2005, n. 20320 vedi Danno da nascita indesiderata: anche il padre va risarcito) ha ribadito che, sottratta alla madre la possibilità di

scegliere in ordine all'interruzione della gravidanza a causa dell'inesatta prestazione medica, ai conseguenti effetti negativi non può ritenersi estraneo il coniuge, soggetto che deve perciò rientrare tra quelli protetti dal contratto col medico, e quindi tra coloro rispetto i quali la prestazione mancata

o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relativa conseguenze sul piano risarcitorio.

Quindi, “il risarcimento dei danni, conseguenza diretta ed immediata dell'inadempimento dell'obbligazione di natura contrattuale gravante sul ginecologo, spetta non solo alla madre, ma

anche al padre”.

Anche in questo caso, è stata confermata la validità della decisione di merito che aveva riconosciuto una cospicua somma “a titolo di danno biologico, comprensivo del danno alla vita di relazione, del

pregiudizio arrecato alla carriera professionale dei genitori, nonché del danno alla sfera sessuale”.

Legittima è stata ritenuta la liquidazione equitativa, considerata “unica possibile forma di liquidazione di ogni danno privo, come il danno biologico (ed il danno morale) delle caratteristiche

della patrimonialità”.

Con la precisazione che “la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura di tale danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è

reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico”.

Da ultimo la Cassazione (Cass. civ. Sez. III, 24-01-2007, n. 1511, vedi Errore diagnostico e danno non patrimoniale), in tema di responsabilità contrattuale del medico per errata diagnosi, ha

riconosciuto il danno morale soggettivo, riformando la decisione del giudice di appello che aveva rigettato la domanda sotto il profilo della mancanza del nesso causale.

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La suprema Corte ha fatto osservare che “il discorso sul nesso causale può riguardare il danno patrimoniale ed il danno biologico ma non il danno non patrimoniale soggettivo e, cioè, il patema d'animo cagionato non dalla terapia asseritamene errata ma dalla diagnosi sbagliata” (nel caso di

specie era stato dichiarato un carcinoma schneideriano in luogo di un papilloma transizionale).

In questo caso, la risarcibilità del danno non patrimoniale soggettivo è stata ricollegata alla particolare natura del rapporto professionale che si instaura tra il medico ed il paziente.

In altri termini, “poiché l'intervento del medico riguarda non tanto o non solo la fisicità del soggetto ma la persona nella sua integrità (si cura non la malattia ma il malato), è ragionevole

ritenere che eventuali errori diagnostici compromettano, oltre alla salute fisica, l'equilibrio psichico della persona, specie se l'errore - come nel caso di specie - riguarda la diagnosi di

malattie assai gravi e comunque in grado di pregiudicare grandemente la serenità del paziente per le sue prospettive infauste e quindi ansiogene”.

La giurisprudenza di legittimità in fatto di responsabilità medica, a giudizio dello scrivente, non ha fino ad ora chiarito sufficientemente la nozione di danno esistenziale nel senso della individuazione

dei “pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto”.

Tale danno deve necessariamente inserirsi nel solco tracciato dalle Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 24-03-2006, n. 6572 vedi Danno esistenziale: sulla prova del danno da demansionamento)

che hanno riconosciuto la categoria del "danno esistenziale" quale autonoma voce di danno individuabile in "ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma

oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e

realizzazione della sua personalità nel mondo esterno".

Quanto alla giurisprudenza di merito, per il Tribunale di Bologna, il danno esistenziale non può essere riconosciuto in mancanza della prova di un concreto e specifico pregiudizio, “laddove si

riconosca la sussistenza del danno biologico, inteso quale menomazione dell'integrità psico-fisica della persona in sé e per sé considerata, riconducibile di conseguenza a tutte le funzioni naturali afferenti al soggetto danneggiato ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica e

relazionale, con riferimento all’art. 32 Cost., nonché la sussistenza del danno morale, inteso quale transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso, in relazione al combinato disposto degli

artt. 2059 e 590 c.p.”. (Trib. Bologna Sez. III, 30-12-2004).

Secondo il Tribunale di Venezia, per la lesione del diritto di autodeterminazione del paziente in ordine alla propria salute deve essere riconosciuto il danno esistenziale ex articolo 2059 del Codice

civile; anche nel caso in cui la struttura sanitaria, “pur avendo fatto sottoscrivere al ricoverato il modulo per il consenso informato, non fornisce adeguate informazione in merito ai rischi ed alle

eventuali complicazioni correlabili all'intervento chirurgico, in relazione anche alla natura dell'operazione e al livello culturale ed emotivo del paziente”. (Trib. Venezia Sez. III, 04-10-2004).

8. Casistica giurisprudenziale sul risarcimento del danno non patrimoniale jure hereditatis

Nell’anno 2004 viene sottoposta al vaglio della Cassazione la richiesta di risarcimento dei genitori di un bambino, in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sul figlio, che aveva subito gravi

danni al momento della nascita in una clinica privata.

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Le condizioni del neonato si erano presentate subito precarie, tanto che era stato ricoverato al Policlinico dove era stata emessa una diagnosi di "asfissia perinatale e convulsioni".

Il giudizio, sin dalle prime fasi, doveva essere proseguito dalla madre quale erede del marito, nel frattempo deceduto, nonché quale esercente la potestà sui tre figli minori in proprio e quali eredi del

padre.

Nel corso del giudizio di appello, dopo che era quindi trascorso “un apprezzabile lasso di tempo”, si verifica la morte anche del bambino danneggiato, a causa delle gravi lesioni riportate durante il

parto.

Davanti alla Corte di merito e nel giudizio di legittimità si pone quindi il problema della trasmissibilità del danno biologico e morale jure ereditatis e quello della quantificazione di tali

danni, considerato il decesso del danneggiato durante il giudizio di appello.

La Corte di Appello, riduce sensibilmente i danni liquidati dal Tribunale, ragione per cui avverso la sentenza, oltre al ricorso principale, viene proposto quello incidentale (da parte della madre del

bambino danneggiato e poi morto).

Il ricorso principale e quello incidentale, proposto dalla madre in proprio e quale erede del marito e del figlio deceduto e quale esercente la potestà genitoriale sugli altri due figli, vengono riuniti a

norma dell'art. 335 Codice procedura civile.

A proposito della trasmissione del diritto, la ricorrente principale deduce la "violazione di legge delle norme e della giurisprudenza su diritti personalissimi non disponibili né trasferibili".

In particolare, nel 5° motivo, lamenta che “il diritto al risarcimento del danno biologico, in quanto diritto personalissimo, non poteva essere riconosciuto agli eredi della vittima. Per le stesse ragioni non era trasferibile per successione, in quanto personalissimo, anche il diritto al risarcimento del

danno morale riconosciuto al padre”.

La Cassazione trova il motivo privo di fondamento facendo osservare come sia pacifico nella giurisprudenza della stessa Corte che, “nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse (ed è questo il caso di specie), è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla effettiva menomazione della integrità

psicofisica patita dal soggetto leso per il periodo di tempo indicato”.

Anche perché, se si considera che il risarcimento del danno entra nel patrimonio della vittima e viene trasferito agli eredi, è ovvio che “il diritto poi del danneggiato a conseguire il risarcimento è

trasmissibile agli eredi, che possono agire in giudizio nei confronti del danneggiante jure hereditatis (v. per es. Cass. 3 gennaio 2002, n. 24; Cass. 10 febbraio 1999, n. 1131)”.

La Cassazione aggiunge che “a conclusioni identiche deve pervenirsi per il danno morale, il cui diritto è trasferito dalla vittima agli eredi (Cass. 25 febbraio 1997, n. 1704; Cass. 6 ottobre 1994,

n. 8177)”.

Non viene ritenuta fondata la doglianza della ricorrente incidentale basata sull'esistenza di un giudicato sull'entità (e sulla spettanza) delle singole voci liquidate dal Tribunale, per essere stato

l'appello genericamente rivolto all'enormità della somma da pagare e l’altra con la quale la ricorrente si duole della liquidazione di una cifra inferiore per il danno biologico, in conseguenza della morte sopravvenuta del minore, in base alla considerazione che la morte dell'avente diritto

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intervenuta nelle more del giudizio, non costituisce circostanza che rilevi ai fini dell'accertamento dell'entità dell'obbligazione perfezionatasi antecedentemente.

Sul punto la Cassazione ha precisato che: “In tema di danno biologico, qualora la persona offesa sia deceduta successivamente alle lesioni subite e per cause ricollegate (o meno) alle originarie

menomazioni, non può ritenersi maturato un diritto di credito da danno biologico "consolidato", da liquidarsi cioè come se il soggetto fosse sopravvenuto alle lesioni per il tempo corrispondente alla sua originaria speranza di vita, ma il credito trasmissibile agli eredi è esclusivamente quello da

danno biologico subito per l'effettiva durata della sopravvivenza (Cass. 24 febbraio 2003, n. 2775; Cass. 16 maggio 2003, n. 7632; Cass. 3 gennaio 2002, n. 24; Cass. 14 marzo 2002, n. 3728)”.

Quanto alla quantificazione del risarcimento:“La liquidazione del danno morale del danneggiato conseguente all'illecito sfugge necessariamente ad una precisa valutazione analitica e resta

affidata al criterio equitativo, non sindacabile in sede di legittimità ove il giudice del merito dia del medesimo conto, la valutazione risulti congruente al caso e la concreta determinazione

dell'ammontare del danno non sia, per difetto o per eccesso, palesemente sproporzionata”.

Quanto al soggetto obbligato “Il soggetto (pubblico o privato) gestore della struttura sanitaria risponde per i danni derivanti al paziente da praticati trattamenti sanitari, con conseguente

obbligazione al relativo risarcimento”.

Sempre in merito al risarcimento del danno jure hereditatis, merita di essere citata una sentenza del Tribunale di Venezia dello stesso anno 2004 (Trib. Venezia Sez. III, 06-12-2004 vedi Danno da

agonia: responsabilità medica per mancata diagnosi di grave patologia), emessa in un giudizio in cui “gli attori agivano per il ristoro di ogni danno sofferto a causa di ritardo diagnostico di carcinoma

maligno in danno dell’avente causa, nelle more deceduta”.

Nel caso di specie, il Tribunale ha accertato che ove la grave patologia fosse stata diagnosticata tempestivamente ci sarebbe stata “una altissima probabilità di guarigione” che avrebbe potuto evitare la morte della paziente; nonché le conseguenze dolorose della malattia ed una lunga

“agonia” derivante dalla consapevolezza di una condanna a morte ingiusta e assurda.

Per questo il Tribunale ha deciso che “la mancata diagnosi, a cui segue la morte della paziente dopo una lunga agonia, dà diritto al risarcimento del danno jure hereditatis non solo a titolo di danno biologico e morale, ma anche a titolo di danno da agonia per le sofferenze causate dalla consapevolezza di una ingiusta condanna a morte e di una lenta ed inutile agonia. Il c.d. danno

esistenziale non esaurisce, infatti, l'impatto dannoso degli eventi sulla sfera giuridica della vittima”.

Si tratta evidentemente di un danno esistenziale liquidato ai familiari del defunto per la mancata diagnosi della grave patologia che ha determinato la morte del congiunto dopo lunga agonia,

dolorosa anche per loro.

Con altra decisione emessa qualche giorno dopo, lo stesso Tribunale di Venezia (vedi Tribunale Venezia, sentenza 13.12.2004, Errore medico e omessa informazione: danno esistenziale

riconosciuto agli eredi), a proposito di responsabilità medica e di danno risarcibile jure hereditatis, ha riconosciuto il “danno da morte”, (cosiddetto tanatologico) avendo deciso che “In caso di evento

letale riconducibile ad omessa o errata diagnosi, non è configurabile un danno biologico permanente, poiché la malattia non si risolve in una diminuzione permanente dell'integrità psico-fisica, ma incide sul diverso bene giuridico della vita; ne consegue che è ravvisabile nel caso di

specie un danno da morte o da perdita della vita, risarcibile iure hereditatis”.

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A proposito di risarcimento del “danno da morte” agli eredi, è bene richiamare l’attenzione sul fatto che la questione è molto dibattuta e che l’orientamento prevalente in dottrina e giurisprudenza, non

lo ammette.

Stando a tale orientamento, se può ipotizzarsi un danno biologico, subito dalla vittima rimasta in vita per un apprezzabile lasso di tempo prima di morire, trasmissibile jure haereditatis, non può

ammettersi un risarcimento del “danno da morte”.

La negazione del diritto viene giustificata dal fatto che occorre distinguere tra diritto alla vita e diritto all’integrità psico-fisica come qualità della vita, dove la morte non può essere qualificata un

estremo danno alla salute di un individuo.

Il tribunale di Venezia, evidentemente, ha aderito all’indirizzo minoritario secondo cui anche il “diritto di vita” sarebbe giuridicamente tutelato e quindi risarcito agli eredi nei casi di illegittima

lesione.

La risarcibilità agli eredi del danno da morteLa perdita del diritto alla vita (danno tanatologico), quando è determinata da un evento lesivo determina la

nascita di un diritto al risarcimento in capo agli eredi a carico dell'autore dell'evento dannoso.

La perdita del diritto alla vita (danno tanatologico), quando è determinata da un evento lesivo determina la

nascita di un diritto al risarcimento in capo agli eredi a carico dell’autore dell’evento dannoso.

In primo luogo i prossimi congiunti possono richiedere – ove ne sussistano gli estremi – il risarcimento del danno

alla salute da questi subito (danno biologico iure proprio). Si tratta della lesione all’integrità psico-fisica che le

persone più “vicine” alla vittima possono subire: tale danno deve essere provato con specifiche perizie medico-

legali.

Per i parenti può anche prospettarsi il risarcimento del danno morale - inteso nella sua qualificazione soggettiva

– cioè delle sofferenze e del perturbamento dell’animo. Anche in tale ipotesi si configura l’onere probatorio per

colui che richieda il risarcimento.

Chiarificatrice è in proposito la Sentenza della Cassazione n. 3594/04 (conforme a Cass. 9556/02 e Cass.

3592/97): “Non vi è dubbio in linea di principio che possa sussistere in favore dei prossimi congiunti di un

soggetto ucciso un danno alla salute cd. iure proprio, di questi congiunti. Anche questo danno infatti, come il

danno morale dei prossimi congiunti della vittima si pone come conseguenza immediata e diretta del fatto

illecito posto in essere dall’agente. E’ necessario, però che anche per questo danno biologico posto in essere

dall’agente sia accertata in concreto una compromissione dell’integrità psico-fisica del soggetto, che si assume

danneggiato”.

La categoria più dibattuta tra quelle concernenti il risarcimento ai parenti della vittima da fatto illecito del terzo

è il danno biologico iure hereditatis. Il problema - che appassiona da anni giudici e studiosi di diritto - riguarda la

risarcibilità, agli eredi, del “danno alla salute” subito dalla “vittima”, distinguendo tra due ipotesi diverse: la

perdita istantanea della vita e le lesioni con successivo esito mortale.

Data la particolarità della sede in cui si tratta, sarebbe fuori luogo esaminare i diversi orientamenti che negli

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anni si sono succeduti e che tutt’oggi si contrappongono; tenteremo, pertanto, di fare chiarezza in materia

seguendo l’iter logico del più recente e consolidato orientamento della Cassazione.

Tale orientamento (tesi compromissoria) prende le mosse da una visione da molti ritenuta singolare.

Distinguendo il “bene salute” dal “bene vita” si ritiene, infatti, che la morte non costituisca la maggiore possibile

lesione della salute ma incida sul distinto e separato diritto alla vita.

La lesione della integrità psico-fisica (salute) subita da un soggetto è ritenuta risarcibile ai suoi eredi; non così

per la privazione della vita la cui risarcibilità non è ritenuta trasmissibile:“ Il danno alla salute presuppone pur

sempre un soggetto in vita …” Cass. 3549/04

In questo contesto si inserisce il concetto di “apprezzabile lasso di tempo” cioè il periodo che deve intercorrere

tra la produzione delle lesioni e la morte perché si produca in capo agli eredi il risarcimento del danno biologico

da morte del proprio dante causa. In caso di morte immediata, questo diritto per i congiunti è escluso; sussiste

invece, nell’ipotesi di sopravvivenza anche per un breve periodo in quanto la vittima abbia avvertito e subito le

conseguenze del danno.

In sostanza a parere della Cassazione “la trasmissibilità agli eredi del diritto di credito risarcitorio per danno

biologico va escluso quando la morte segua l’evento lesivo a distanza di tempo talmente ravvicinata da rendere

inapprezzabile l’incisione del bene salute. Ne consegue che se il danno biologico della vittima si protrae anche

solo per qualche giorno, salvo ovviamente le peculiarità del caso concreto rimesse sempre alla esclusiva

valutazione del giudice di merito, in linea di massima esso è apprezzabile, in quanto … è ritenuto apprezzabile

anche il danno biologico temporaneo di pochi giorni (ed addirittura un giorno) e non si vede perché, se la vittima

del sinistro deceda, invece di guarire, detto danno biologico non dovrebbe essere apprezzabile …” (Cass.

1704/97).

Una volta accertata la sussistenza dell’“apprezzabile lasso di tempo” la liquidazione del danno biologico iure

hereditatis dovrà essere effettuata tenendo conto della particolare gravità del cd. “danno biologico terminale”. Il

giudice di merito può, naturalmente, utilizzare il criterio di liquidazione equitativo “puro” o servirsi dei criteri

tabellari nel qual caso sarà necessario un adeguamento alla fattispecie concreta e tener conto che in questo

caso il danno raggiunge la misura del 100%. Infatti: “limitare la liquidazione del danno biologico terminale alla

mera applicazione dei valori liquidatori tabellari a punti per ogni giorno di validità, comporta la liquidazione del

principio sopradetto in tema di necessaria personalizzazione dei valori monetari espressi dalle tabelle …”

Cass.3549/04.