raymond carver - di cosa parliamo quando parliamo d'amore

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Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore Postfazione di Fernanda Pivano Traduzione di Livia Manera Titolo originale: «What We Talk About When We Talk About Love» Garzanti Editore > Digitalizzazione a cura di Yorikarus @ forum.tntvillage.scambioetico.org <

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Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amoreitaliano

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Page 1: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Raymond Carver

Di cosa parliamoquando parliamo d’amore

Postfazione di Fernanda PivanoTraduzione di Livia Manera

Titolo originale: «What We Talk About When We Talk About Love»Garzanti Editore

> Digitalizzazione a cura di Yorikarus @ forum.tntvillage.scambioetico.org <

Page 2: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Perché non ballate?

In cucina, si versò ancora da bere e guardò i mobili della camera da letto nello

spiazzo davanti casa. Il materasso era nudo e le lenzuola a righe colorate erano

sopra il comò, accanto ai guanciali. Per il resto, tutto aveva più o meno lo stesso

aspetto che in camera da letto - comodino e lampada dalla parte di lui, comodino

e lampada dalla parte di lei.

La parte di lei, la parte di lui.

A questo pensava mentre sorseggiava il whiskey.

Il comò era a circa un metro dai piedi del letto. Quella mattina aveva trasferito

il contenuto dei cassetti in scatole di cartone e le scatole erano in salotto. Accanto

al comò c’era una stufetta elettrica. Ai piedi del letto una sedia di bambù e un

cuscino fantasia. I mobiletti da cucina di alluminio lucido occupavano una parte

del vialetto di accesso. Una tovaglia di mussola gialla troppo grande, un regalo,

ricopriva il tavolo e ricadeva ai lati. Sopra al tavolo c’era una felce in vaso,

insieme con una scatola di posate d’argento e un giradischi, regali anche quelli.

Un grande televisore era appoggiato sopra un tavolino basso, e poco oltre c’erano

una sedia, un divano, e una lampada a stelo. La scrivania stava contro la porta

del garage. Sul ripiano erano posati alcuni utensili, insieme con un orologio a

muro e due stampe incorniciate. Nel vialetto c’era anche una scatola con tazze,

bicchieri e piatti, avvolti uno per uno in carta di giornale. Quella mattina aveva

svuotato gli armadi, e a eccezione delle tre scatole in soggiorno, tutta la roba era

fuori. Aveva portato fuori una prolunga e tutto era collegato. Le cose

funzionavano, più o meno come quando erano dentro casa.

Di tanto in tanto una macchina rallentava e qualcuno dava un’occhiata. Ma

non si fermava nessuno. Gli venne da pensare che neppure lui si sarebbe

fermato.

«Deve essere una vendita di mobili usati», disse la ragazza al ragazzo.

Questi due ragazzi stavano ammobiliando un appartamentino.

«Sentiamo quanto vogliono per il letto», disse la ragazza. «È per il televisore»,

disse il ragazzo. Lui svoltò nel vialetto e si fermò davanti al tavolo di cucina.

Scesero dalla macchina e cominciarono a esaminare questo e quello, lei toccò

Page 3: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

la tovaglia di mussola, lui inserì la spina del frullatore e schiacciò il tasto tritare,

lei prese uno scaldavivande, lui accese il televisore e regolò i pulsanti.

Sedette sul divano a guardare il programma. Si accese una sigaretta, diede

un’occhiata in giro, e gettò il fiammifero nell’erba.

La ragazza si sedette sul letto. Si tolse le scarpe e si sdraiò. Le parve di vedere

una stella.

«Vieni qui, Jack. Prova questo letto. Porta uno di quei guanciali», disse.

«Com’è?», disse lui.

«Provalo», disse lei.

Lui si guardò intorno. La casa era buia. «Ho una strana sensazione», disse lui.

«Meglio guardare se c’è qualcuno in casa». Lei si molleggiò sul letto. «Prima

provalo», disse lei.

Lui si sdraiò sul letto e si mise il cuscino sotto la testa.

«Come ti sembra?», disse lei.

«Mi sembra solido», disse lui.

Lei si girò sul fianco e gli posò la mano sul viso.

«Baciami», disse.

«Alziamoci», disse lui.

«Baciami», disse lei.

Chiuse gli occhi. Lo trattenne.

«Vado a vedere se c’è qualcuno in casa», disse lui.

Ma si limitò a tirarsi su a sedere e restò dov’era, fingendo di guardare la

televisione.

Nelle case lungo la strada le luci cominciavano ad accendersi.

«Non sarebbe buffo se», disse la ragazza e con un sorriso lasciò la frase in

sospeso.

Il ragazzo rise, ma senza un motivo preciso. Senza un motivo preciso accese la

lampada sul comodino.

La ragazza scacciò via una zanzara, e subito dopo il ragazzo si alzò e si infilò

la camicia nei pantaloni.

«Vado a vedere se c’è qualcuno in casa», disse. «Non credo ci sia nessuno. Ma

se trovo qualcuno, mi faccio dire quanto vogliono per questa roba».

«Qualsiasi cosa ti chiedano offri dieci dollari di meno. È sempre una buona

idea», disse lei. «E poi devono essere disperati o roba del genere».

Page 4: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Il televisore non è niente male», disse il ragazzo.

«Senti quanto costa», disse la ragazza.

Lungo il marciapiede stava arrivando l’uomo con un sacchetto del

supermercato. C’erano panini, birra e whiskey. Vide la macchina nel vialetto e la

ragazza sul letto. Vide il televisore acceso e il ragazzo davanti all’entrata.

«Salve», disse l’uomo alla ragazza. «Ha trovato il letto. Brava».

«Salve», disse la ragazza e si alzò. «Lo stavo giusto provando». Batté con la

mano sul letto. «Mi sembra niente male».

«È un buon letto», disse l’uomo, posò il sacchetto e tirò fuori la birra e il

whiskey.

«Credevamo che non ci fosse nessuno», disse il ragazzo. «Siamo interessati al

letto e magari anche al televisore. Forse anche alla scrivania. Quanto vuole per il

letto?».

«Pensavo cinquanta dollari per il letto», disse l’uomo.

«Che ne dice di quaranta?», chiese la ragazza.

«Quaranta vanno bene», disse l’uomo.

Tirò fuori un bicchiere da una scatola. Scartò il bicchiere dal giornale. Ruppe

il sigillo del whiskey. «E per il televisore?», disse il ragazzo.

«Venticinque».

«Che ne dice di quindici?», disse la ragazza. «Vada per quindici. Mi stanno

bene quindici», disse l’uomo.

La ragazza guardò il ragazzo.

«Ragazzi, vorrete bere qualcosa», disse l’uomo. «I bicchieri sono in quella

scatola. Io mi siedo. Mi siedo sul divano».

L’uomo sedette sul divano, si appoggiò allo schienale, e fissò il ragazzo e la

ragazza.

Il ragazzo trovò due bicchieri e versò il whiskey. «Basta così», disse la ragazza.

«Vorrei un po’ d’acqua nel mio».

Tirò fuori una sedia e si sedette al tavolo di cucina.

«C’è dell’acqua in quel rubinetto laggiù», disse l’uomo. «Apri il rubinetto».

Il ragazzo tornò indietro col whiskey allungato. Si schiarì la gola e si sedette al

tavolo di cucina. Sorrise. Ma lasciò il suo bicchiere intatto.

L’uomo guardava la televisione. Vuotò il bicchiere e lo riempì di nuovo. Tese il

braccio per accendere la lampada a stelo. Fu allora che la sigaretta gli sfuggì dalle

Page 5: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

dita e cadde tra i cuscini.

La ragazza si alzò per aiutarlo a cercarla.

«Allora cosa vuoi?», disse il ragazzo alla ragazza.

Tirò fuori il libretto degli assegni e lo avvicinò alle labbra come se stesse

pensando.

«Voglio la scrivania», disse la ragazza. «Quanto costa la scrivania?».

A quella domanda assurda l’uomo fece un gesto con la mano.

«Dite una cifra», disse.

Li guardò mentre si sedevano al tavolo. Alla luce della lampada, c’era qualcosa

nelle loro facce. Qualcosa di bello o di brutto. Impossibile dirlo.

«Ora spengo il televisore e metto un disco», disse l’uomo. «Anche il giradischi è

in vendita. Costa poco. Fatemi un’offerta».

Versò dell’altro whiskey e aprì una birra.

«È tutto in vendita», disse l’uomo.

La ragazza tese il bicchiere e l’uomo glielo riempì.

«Grazie», disse lei. «Lei è molto gentile», disse.

«Ti dà alla testa», disse il ragazzo. «Io me lo sento in testa». Alzò il bicchiere e lo

agitò.

L’uomo vuotò il suo e lo riempì di nuovo, e poi trovò la scatola con i dischi.

«Prendine uno», disse l’uomo alla ragazza, e le porse i dischi.

Il ragazzo stava scrivendo l’assegno.

«Ecco», disse la ragazza prendendone uno, prendendone uno qualsiasi, dato

che quei nomi sulle etichette non li conosceva. Si alzò dal tavolo e si rimise a

sedere. Non voleva starsene lì immobile. «Non lo intesto», disse il ragazzo.

«Va bene», disse l’uomo.

Bevvero. Ascoltarono il disco. Poi l’uomo ne mise un altro.

Perché non ballate ragazzi? decise di dire, e poi lo disse. «Perché non ballate?».

«Non è il caso», disse il ragazzo.

«Coraggio», disse l’uomo. «Il prato è mio. Potete ballare se volete».

Allacciati, i corpi stretti l’uno all’altro, il ragazzo e la ragazza presero a

muoversi su e giù per il vialetto. Ballavano. E quando il disco finì, ricominciarono,

e quando anche quello finì, il ragazzo disse: «Sono ubriaco».

La ragazza disse: «No che non lo sei».

«E invece sì che sono ubriaco», disse il ragazzo.

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L’uomo voltò il disco e il ragazzo disse: «Sul serio».

«Balla con me», disse la ragazza al ragazzo e poi all’uomo, e quando l’uomo si

alzò, andò verso di lui a braccia aperte.

«Quella gente laggiù ci sta guardando», disse lei.

«Fa niente», disse l’uomo. «È casa mia», disse.

«Che guardino pure», disse la ragazza.

«Giusto», disse l’uomo. «Pensavano di avere visto di tutto qui. Ma questo non

lo avevano ancora visto, vero?», disse. Sentiva sul collo il respiro di lei.

«Spero che il letto ti piaccia», disse.

La ragazza chiuse gli occhi e poi li riaprì. Premette la faccia contro la spalla

dell’uomo. Lo avvicinò ancor di più a sé.

«Lei deve essere disperato o roba del genere», disse.

Qualche settimana dopo, lei raccontava: «Era un tipo di mezza età. Tutta la

sua roba là fuori sullo spiazzo. Sul serio. Ci siamo sbronzati e abbiamo ballato.

Nel vialetto. Oh, mio Dio. Non ridete. Metteva su questi dischi. Guardate il

giradischi. Ce lo ha dato il vecchio. E tutti questi dischi schifosi. La degnereste di

uno sguardo questa merda?».

Continuò a parlarne. Lo raccontò a tutti. Restava qualcosa, che non riusciva a

dire. Ci provò, poi smise.

Page 7: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Mirino

Un uomo senza mani si è presentato alla porta per vendermi una foto della

mia casa. A parte gli uncini d’acciaio, aveva un aspetto normale, più o meno sulla

cinquantina.

«Come ha perduto le mani?», ho chiesto dopo che mi aveva detto cosa voleva.

«Questa è un’altra storia», ha detto. «La vuole la fotografia o no?».

«Venga dentro», ho detto io. «Ho appena fatto il caffè».

Avevo appena fatto anche un Jell’O (marca di gelatina dolce N.d.T.). Ma questo

non gliel’ho detto. «Userei il suo gabinetto», ha detto l’uomo senza mani.

Volevo vedere come faceva a reggere la tazza.

Avevo visto come reggeva la macchina fotografica. Era una vecchia Polaroid,

nera, grande. La teneva su con delle cinghie di cuoio che gli giravano intorno alle

spalle e alla schiena fissandogli la macchina al petto. Andava a mettersi sul

marciapiede di fronte alla casa di uno, la inquadrava nel mirino, premeva la leva

con uno dei due uncini, e la fotografia saltava fuori.

Io, vedete, ero rimasto a guardare dalla finestra.

«Dove ha detto che era il gabinetto?».

«Là in fondo, giri a destra».

Piegandosi in avanti, ingobbendosi, si è liberato delle cinghie. Ha messo la

macchina fotografica sul divano e si è riassestato la giacca.

«Può darle un’occhiata mentre sono di là».

Gli ho preso la fotografia.

C’era un piccolo rettangolo di prato, il vialetto d’accesso, la tettoia per

l’automobile, i gradini dell’ingresso, la veranda, e la finestra della cucina, dalla

quale ero stato a guardare.

Perché mai avrei voluto una fotografia di questa tragedia?

Ho guardato un po’ più da vicino e mi sono visto la testa, la mia testa, là

dentro nella finestra di cucina.

Mi ha fatto riflettere, vedermi così. Ve lo garantisco, è una cosa che fa

riflettere un uomo.

Ho sentito lo sciacquone del gabinetto. Lui ha attraversato l’anticamera

Page 8: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

tirandosi su la cerniera e sorridendo, un uncino che reggeva la cintura, l’altro che

spingeva dentro la camicia.

«Che ne pensa?», ha detto. «Va bene? Personalmente mi sembra ben riuscita.

Vuole che non conosca il mio mestiere? Diciamo le cose come sono, ci vuole un

professionista».

Si grattò il pube.

«Ecco il caffè», ho detto.

Lui ha detto: «Lei è solo, o sbaglio?».

Ha guardato il salotto. Ha scosso la testa.

«Dura, dura», ha detto.

Si è seduto accanto alla macchina fotografica, si è appoggiato indietro con un

sospiro, e ha sorriso come se sapesse qualcosa che non aveva intenzione di dirmi.

«Beva il suo caffè», ho detto io.

Stavo pensando a qualcosa da dire. «Sono capitati qui tre ragazzini che

volevano dipingere il mio indirizzo sul marciapiede. Mi hanno chiesto un dollaro.

Lei non ne saprebbe qualcosa, vero?».

Era una mossa arrischiata. Ma non per questo ho smesso di osservarlo. Si è

piegato in avanti con sussiego, la tazza in equilibrio tra gli uncini. L’ha appoggiata

sul tavolo.

«Lavoro solo», ha detto. «È sempre stato così e sempre sarà. Cosa intende

dire?».

«Cercavo di stabilire un legame», ho detto io.

Avevo mal di testa. So che il caffè non serve ma qualche volta il Jell’O aiuta.

Ho preso la fotografia. «Ero in cucina», ho detto. «Di solito sono sul retro».

«Succede sempre così», ha detto lui. «Allora l’hanno piantata in asso, giusto?

Prenda me, per esempio, io lavoro solo. Insomma che dice? La vuole la

fotografia?».

«La prendo», ho detto io.

Mi sono alzato e ho raccolto le tazze.

«Come no», ha detto lui. «Quanto a me, ho una camera in città. Non è male.

Vado in giro in autobus, e quando ho battuto i paraggi, mi sposto in un’altra

città. Capisce cosa sto dicendo? Eh sì, avevo dei bambini una volta. Proprio come

lei», ha detto.

Ho aspettato con le tazze in mano e l’ho osservato mentre si divincolava per

Page 9: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

tirarsi su dal divano.

Ha detto: «È a loro che devo questi».

Ho osservato bene quegli uncini.

«Grazie per il caffè e per l’uso del gabinetto. Capisco quello che prova».

Ha alzato e riabbassato gli uncini.

«Me lo dimostri», dissi. «Mi dimostri quanto. Faccia delle fotografie a me e alla

casa».

«Non serve», ha detto il tipo. «Non torneranno».

L’ho aiutato lo stesso a infilare le cinghie.

«Posso farle un buon prezzo», ha detto. «Tre per un dollaro. Se mi tengo più

basso, non ne ricavo niente».

Siamo usciti. Ha sistemato l’otturatore. Mi ha detto dove mettermi e ci siamo

andati.

Abbiamo girato intorno alla casa. Con metodo. Qualche volta guardavo di lato.

Qualche volta guardavo dritto davanti a me.

«Bene», diceva lui. «Così va bene», diceva, finché non abbiamo fatto tutto il giro

della casa e siamo tornati sul davanti. «Sono venti. Adesso basta».

«No», ho detto. «Sul tetto», ho detto.

«Cristo», ha detto lui. Ha passato in rassegna l’intero isolato. «Come no», ha

detto. «Adesso sì che fa sul serio».

Ho detto: «Armi e bagagli. Se la sono svignata».

«Guardi qui!», ha detto l’uomo e di nuovo ha alzato gli uncini.

Sono rientrato e ho preso una sedia. L’ho messa sotto la tettoia

dell’automobile. Ma non bastava. Allora ho preso una cassa e ho messo la cassa

in cima alla sedia.

Non era male lassù sul tetto.

Mi sono alzato in piedi e ho dato un’occhiata in giro. Ho fatto un cenno, e

l’uomo senza mani ha risposto agitando gli uncini.

È stato allora che li ho visti, i sassi. Era come un piccolo nido di sassi sul tetto

del camino. Sapete come sono i ragazzi. Sapete come li lanciano su, sperando di

infilartene uno nel camino.

«Pronto?», ho gridato, ho preso un sasso e ho aspettato che mi avesse nel

mirino.

«Pronto!», ha gridato lui.

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Ho lasciato andare indietro il braccio e ho urlato: «Dai!», e ho scagliato quel

figlio di puttana più lontano che potevo.

«Non so», l’ho sentito gridare. «Non faccio foto in movimento».

«Ancora!», ho urlato, e ho raccolto un altro sasso.

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Mr. Coffee e Mr. Fixit

Ho visto alcune cose. Stavo andando a trovare mia madre per fermarmi

qualche giorno. Ma nel momento che misi piede in cima alle scale, guardai dentro

e lei era lì sul divano che baciava un uomo. Era estate. La porta era aperta, la

televisione andava. È una delle cose che ho visto.

Mia madre ha sessantacinque anni. È iscritta a un club per persone sole. Fu

un colpo lo stesso, però. Rimasi lì a guardare con la mano sulla ringhiera mentre

l’uomo la baciava. Lei rispondeva ai baci, e la televisione andava.

Le cose sono messe meglio ora. Ma in quel periodo, quando mia madre si dava

da fare con gli uomini, io ero senza lavoro. I miei bambini davano i numeri, e mia

moglie dava i numeri. Anche lei si dava da fare. L’uomo che ci andava a letto era

un ingegnere aerospaziale disoccupato che lei aveva incontrato all’Alcolisti

Anonimi. Dava i numeri anche lui.

Si chiamava Ross e aveva sei bambini. Zoppicava per una pistolettata tiratagli

dalla prima moglie. Non so cosa avevamo in testa in quel periodo.

La seconda moglie del tipo era sparita, ma a sparargli era stata la prima

moglie, perché lui non pagava gli alimenti. Adesso gli auguro ogni bene. Ross.

Che razza di nome! Allora però era diverso. In quel periodo parlavo di pistole.

Dicevo a mia moglie: «Credo che prenderò una Smith and Wesson». Ma non la

presi mai.

Ross era un piccoletto. Ma non molto piccolo. Aveva i baffi e indossava sempre

un maglione abbottonato davanti.

La moglie numero uno lo fece mettere in galera. La seconda lo stesso. Venni a

sapere da mia figlia che mia moglie aveva pagato la cauzione. A mia figlia Melody

piacque ancor meno che a me. La storia della cauzione. Non che a Melody

importasse di me. Non le importava di nessuno di noi, né di sua madre né di me.

Era solo che la situazione soldi era pesante, e se una parte andava a Ross, la

stessa parte in meno sarebbe andata a Melody. Perciò Ross era sulla lista nera di

Melody. E poi non le piacevano i suoi bambini e il fatto che ne avesse tanti. Ma in

generale Melody diceva che Ross era un brav’uomo.

Una volta le aveva persino predetto il futuro.

Page 12: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Questo tipo, Ross, passava il suo tempo a riparare di tutto, ora che non aveva

un impiego fisso. Ma avevo visto la sua casa dal di fuori. Era un caos.

Cianfrusaglie dappertutto. Sul prato, due Plymouth scassate.

All’inizio della loro storia, mia moglie sosteneva che quel tipo collezionava

automobili antiche. Erano parole sue, «automobili antiche». Ma erano solo

rottami.

Avevo il suo numero. Mr. Fixit.(Signor Aggiustatutto N.d.T.)

Però avevamo alcune cose in comune, Ross e io, non soltanto la stessa donna.

Per esempio, lui non riusciva a mettere a posto il televisore quando dava i numeri

e non si vedeva più niente. Neanch’io riuscivo a metterlo a posto. C’era l’audio,

ma non il video. Se volevamo il telegiornale, dovevamo sederci vicino allo schermo

ad ascoltare.

Ross e Myrna si incontrarono quando Myrna stava tentando di smettere di

bere. Andava alle riunioni, diciamo, tre o quattro volte alla settimana. Ci ero

passato anch’io. Ma quando Myrna incontrò Ross, io non ci andavo .

Bevevo una bottiglia al giorno. Myrna andava alle riunioni, e poi andava a

casa di Mr. Fixit a cucinare per lui e a mettere in ordine. In queste cose i suoi figli

non erano di nessun aiuto. Nessuno alzava un dito in casa di Mr. Fixit, tranne

mia moglie, quando c’era.

Tutto questo successe non molto tempo fa, tre anni all’incirca. Non era poco

allora.

Lasciai mia madre e il suo uomo sul divano e me ne andai in giro in macchina

per un po’. Quando arrivai a casa, Myrna mi fece il caffè.

Andò a prepararmelo in cucina; io aspettai finché non la sentii che faceva

venir giù l’acqua, poi allungai la mano sotto il cuscino e presi la bottiglia.

Credo che Myrna amasse veramente quell’uomo. Ma anche lui aveva una

storiella per conto suo - una ventiduenne di nome Beverly. Mr. Fixit se la cavava

bene per essere un piccoletto col maglione abbottonato.

Era sui trentacinque quando colò a picco. Perse il lavoro e si diede alla

bottiglia. Un tempo lo sfottevo quando me ne capitava l’occasione. Adesso non lo

sfotto più.

Dio ti benedica e ti protegga, Mr. Fixit.

Aveva detto a Melody di aver lavorato ai lanci sulla luna. Aveva detto a mia

figlia di essere grande amico degli astronauti. Le aveva detto che glieli avrebbe

Page 13: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

presentati se fossero venuti in città.

È un’impresa moderna quella, il posto aerospaziale dove lavorava Mr. Fixit. Io

l’ho visto. File alla tavola calda, sale da pranzo per i dirigenti eccetera. Mr. Coffee

(prima macchina automatica per il caffè, per uso domestico N.d.T.) in tutti gli uffici.

Mr. Coffee e Mr. Fixit.

Myrna dice che si interessava di astrologia, aure, I Ching, quelle cose lì. Io non

ho dubbi che questo Ross fosse davvero intelligente e interessante, come molti

nostri ex amici. L’ho detto a Myrna, che certo non le sarebbe importato di lui, se

così non fosse stato.

Mio padre morì nel sonno, ubriaco, otto anni fa. Era un venerdì a mezzogiorno

e aveva cinquantaquattro anni. Tornò a casa dal lavoro in segheria, tirò fuori dal

congelatore le salsicce per la colazione e aprì una bottiglia di Four Roses.

Mia madre era seduta allo stesso tavolo. Stava cercando di scrivere una lettera

a sua sorella a Little Rock. Alla fine, mio padre si alzò e andò a letto. Secondo mia

madre non disse mai buona notte. Ma era giorno, naturalmente.

«Tesoro», dissi a Myrna la sera che tornò a casa. «Teniamoci un po’ abbracciati

e poi ci prepari un pranzetto veramente buono».

Myrna disse: «Lavati le mani».

Page 14: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Gazebo

La mattina mi versa il Teacher’s sulla pancia e se lo lecca tutto. Il pomeriggio

cerca di buttarsi dalla finestra.

Io faccio: «Holly, non si può continuare così. Questa storia deve finire».

Siamo seduti sul divano in una delle suite al piano di sopra. Potevamo

scegliere una qualsiasi delle tante camere libere. Ma avevamo bisogno di una

suite, un posto dove poterci muovere e parlare. Così quella mattina abbiamo

chiuso a chiave l’ufficio del motel e siamo andati di sopra.

Mi fa: «Duane, tutto questo mi sta uccidendo».

Beviamo Teacher’s con acqua e ghiaccio. Abbiamo dormito un po’ tra mattina

e pomeriggio. Poi lei è scesa dal letto e ha minacciato di buttarsi giù dalla finestra

mezza nuda. Ho dovuto afferrarla. Eravamo solo al primo piano. Ma anche così.

«Basta», fa lei. «Non ne posso più».

Si mette una mano sulla guancia e chiude gli occhi. Piega la testa avanti e

indietro emettendo quel suo mormorio.

Mi sono sentito morire a vederla così.

«Di che cosa non ne puoi più?», faccio io, anche se naturalmente lo so.

«Non c’è bisogno che te lo spieghi ancora parola per parola», fa lei. «Ho perso il

controllo. Ho perso l’orgoglio. Una volta ero una donna orgogliosa».

È una bella donna che ha appena passato i trenta. È alta con lunghi capelli

neri e occhi verdi, l’unica donna con gli occhi verdi che abbia mai conosciuto. Ai

vecchi tempi le parlavo dei suoi occhi verdi, e lei mi rispondeva che grazie a loro

sapeva di essere destinata a qualcosa di speciale. Anch’io lo sapevo, eccome!

Tra una cosa e l’altra sto così male.

Sento il telefono che squilla al piano di sotto. Ha suonato a intervalli tutto il

giorno. Lo sentivo anche nel dormiveglia. Aprivo gli occhi, guardavo il soffitto, e

ascoltavo gli squilli chiedendomi cosa ci stesse succedendo.

Forse dovrei guardare il pavimento.

«Ho il cuore spezzato», fa lei. «È di pietra ormai. Non valgo niente. È questo il

peggio, che non valgo più niente».

«Holly», faccio io.

Page 15: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

All’inizio, quando ci siamo trasferiti quaggiù e siamo subentrati come gestori,

credevamo di avere risolto i nostri problemi. Affitto e servizi gratis più trecento al

mese. Non era poi una cosa da buttar via.

Holly teneva i conti. Era portata per i numeri, e in genere si occupava lei di

affittare le casette. Lei piaceva alla gente e la gente piaceva a lei. Io badavo alla

manutenzione, tosavo il prato e strappavo le erbacce, tenevo la piscina pulita,

facevo piccole riparazioni.

Per il primo anno tutto è andato bene. La sera avevo un secondo lavoro, e ce

la cavavamo benino. Avevamo dei progetti. Poi un giorno, non so. Avevo appena

messo le piastrelle nel bagno di una delle stanze, quando questa piccola

cameriera messicana entra a fare le pulizie. Era stata Holly ad assumerla. Non

posso davvero dire di avere mai notato prima quella ragazzetta, anche se ci

scambiavamo qualche parola quando ci incontravamo. Mi chiamava Mister,

questo me lo ricordo. Comunque, una cosa tira l’altra.

Perciò dopo quella mattina ho cominciato a farle caso. Era una cosina

graziosa con dei bei denti bianchi. Le guardavo spesso la bocca.

Ha preso a chiamarmi per nome.

Una mattina mentre ero in bagno a cambiare la guarnizione del rubinetto, lei

entra e accende il televisore com’è abitudine delle cameriere. Quando fanno le

pulizie, ovviamente. Ho piantato lì quello che stavo facendo e sono uscito dal

bagno. Era sorpresa di vedermi. Sorride e dice il mio nome.

E subito dopo averlo pronunciato siamo finiti sul letto.

«Holly, sei ancora una donna fiera», faccio io. «Sei ancora la numero uno. Dai,

Holly». Lei scuote la testa.

«Dentro di me è morto qualcosa», fa. «Ci ha messo un sacco di tempo, ma è

morto. Tu hai ucciso qualcosa, come se l’avessi fatto a pezzi con una scure. È

tutto uno schifo adesso».

Finisce il suo whiskey. Poi comincia a piangere. Accenno ad abbracciarla, ma

non serve a niente. Riempio i bicchieri e guardo fuori dalla finestra.

Due macchine con le targhe di un altro stato sono ferme davanti all’edificio

della reception, e i guidatori si parlano stando davanti alla porta. Uno dei due

finisce di dire una cosa all’altro e dà un’occhiata in giro alle casette, carezzandosi

il mento. C’è anche una donna che, con la faccia contro il vetro e le mani messe a

paraocchi, sta scrutando all’interno. Prova ad aprire la porta.

Page 16: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Di sotto il telefono ricomincia a suonare.

«Anche poco fa, quando lo stavamo facendo, tu pensavi a lei», fa Holly.

«Duane, questo fa male». Prende il bicchiere che le porgo.

«Holly», faccio io.

«È vero, Duane», fa lei. «Non contraddirmi».

Cammina su e giù per la stanza in mutande e reggiseno, col bicchiere in

mano.

Holly fa: «Non hai rispettato i vincoli del matrimonio. È la fiducia che hai

distrutto».

Mi metto in ginocchio e comincio a pregarla. Ma sto pensando a Juanita. È

spaventoso. Non so più cosa ne sarà di me o di nessun altro al mondo.

Faccio: «Holly, tesoro, ti amo».

Nel parcheggio qualcuno suona il clacson, si interrompe, e poi riprende a

suonare.

Holly si asciuga gli occhi. «Preparami qualcos’altro da bere», fa. «In questo c’è

troppa acqua.

Lascia che suonino i loro schifosi clacson. Non mi importa. Io mi trasferisco in

Nevada».

«Non andare in Nevada», faccio io. «Stai dicendo delle fesserie».

«Non sono fesserie», fa lei. «Non è mica una fesseria il Nevada. Tu puoi restare

qui con la tua donna delle pulizie. Io me ne vado in Nevada. O là o mi ammazzo».

«Holly!», faccio io.

«Holly niente», fa lei.

Si siede sul divano e tira su le ginocchia fin sotto il mento.

«Dammi ancora da bere, figlio di puttana», fa lei. «Ma vadano a farsi fottere

quei suonatori di clacson. Le loro porcherie possono andarle a fare al Travelodge.

È là che la tua donna delle pulizie lavora adesso? Dammi ancora da bere, figlio di

puttana!».

Stringe le labbra e mi guarda in quel suo modo speciale.

Bere è strano. Se ci ripenso, tutte le decisioni importanti le abbiamo prese

bevendo. Persino quando discutevamo della necessità di bere di meno, eravamo

seduti al tavolo di cucina, o fuori a quello da picnic, con una confezione di sei

lattine di birra o una bottiglia di whiskey. Quando abbiamo deciso di venire a

vivere qui a gestire il motel, siamo rimasti alzati due notti a bere, soppesando i

Page 17: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

pro e i contra.

Verso nei bicchieri quello che è rimasto del Teacher’s e aggiungo un po’ di

acqua e ghiaccio.

Holly si alza dal divano e si sdraia per traverso sul letto.

Fa: «Sei stato con lei anche in questo letto?».

Io non ho niente da dire. Mi sento come se dentro avessi finito le parole. Le

porgo il suo bicchiere e mi siedo in poltrona. Bevo e penso che non sarà mai più

la stessa cosa.

«Duane?», fa lei.

«Holly?».

Il mio cuore ha rallentato i battiti. Aspetto.

Holly era il mio unico vero amore.

Con Juanita succedeva cinque giorni alla settimana, tra le dieci e le undici. In

qualsiasi stanza si trovasse quando faceva il giro delle pulizie. Bastava che io

entrassi dove stava lavorando e mi chiudessi la porta alle spalle.

Ma il più delle volte era alla 11. La 11 era la nostra camera fortunata.

Eravamo affettuosi l’uno con l’altro, ma rapidi. Era piacevole.

Credo che Holly avrebbe potuto benissimo superare la crisi. Credo che

avrebbe dovuto provarci, ma sul serio.

Quanto a me, mi ero tenuto quel lavoro serale. Avrebbe potuto farlo anche

una bestia. Ma le cose stavano precipitando velocemente. Non ne avevamo

proprio più voglia.

Smisi di pulire la piscina. Si era riempita di una specie di melma verde per cui

la gente non la usava più. Non riparavo più rubinetti né sostituivo più mattonelle

né facevo ritocchi alle pareti. Bè, la verità è che tutti e due ci stavamo dando

dentro col bere. L’alcool esige un sacco di tempo e di energia se ti ci vuoi dedicare

seriamente.

Anche Holly faceva dei pasticci nel registrare i clienti.

Chiedeva prezzi troppo alti oppure non riscuoteva quanto le era dovuto. A

volte metteva tre persone in una stanza con un solo letto, oppure dava una

camera matrimoniale a una persona sola. Inutile dire che c’erano lamentele, e

talvolta volavano parole pesanti. La gente faceva le valigie e se ne andava da

qualche altra parte.

Dopo un po’ arriva una lettera da quelli della direzione. Poi ne arriva un’altra,

Page 18: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

raccomandata con ricevuta di ritorno.

Ci sono delle telefonate. C’è un tizio che viene apposta dalla città.

Ma a noi non importava più niente, e questo è un fatto. Sapevamo di avere i

giorni contati.

Avevamo rovinate la nostra vita e ci stavamo preparando a un rivolgimento.

Holly è una donna intelligente. È stata la prima a capirlo.

Poi quel sabato mattina ci svegliammo dopo averci rimuginato su tutta la

notte. Aprimmo gli occhi e ci girammo nel letto. A quel punto lo sapevamo tutti e

due. Avevamo toccato il fondo di qualcosa, e adesso si trattava di capire da dove

ricominciare.

Ci alzammo, ci vestimmo, bevemmo il caffè e decidemmo di parlare. Senza

nessuna interruzione. Niente telefonate. Niente clienti.

Fu allora che presi il Teacher’s. Chiudemmo a chiave la porta e salimmo al

piano di sopra con ghiaccio, bicchieri e bottiglie. In un primo momento

guardammo la televisione a colori giocherellando un po’ e lasciando che il telefono

di sotto suonasse. Per mangiare scendemmo a prendere patatine al formaggio dal

distributore automatico.

C’era questa strana sensazione che tutto potesse succedere ora che capivamo

che tutto era successo. «Quando eravamo ragazzi prima di sposarci?», fa Holly.

«Quando avevamo grandi progetti e speranze? Ti ricordi?». Era seduta sul letto, le

braccia allacciate intorno alle ginocchia e il bicchiere in mano. «Mi ricordo, Holly».

«Non sei stato tu il primo, sai. Il primo è stato Wyatt. Pensa. Wyatt. E il tuo

nome è Duane. Wyatt e Duane. Chi sa cosa mi sono persa tutti quegli anni? Tu

eri tutto per me, proprio come nella canzone».

Io faccio: «Sei una donna meravigliosa, Holly. So che non ti sono mancate le

occasioni».

«Ma non ne ho approfittato!», fa lei. «Non potevo scavalcare il matrimonio».

«Holly, ti prego», faccio io. «Adesso basta, tesoro. Non torturiamoci. Cosa

dovremmo fare?».

«Senti», fa lei. «Ti ricordi la volta che siamo andati fino a quella vecchia fattoria

fuori Yakima, oltre Terrace Heights? E stavamo solo facendo un giro in

macchina? E eravamo su quella stradina sterrata e faceva caldo e c’era polvere?

Abbiamo proseguito un bel pezzo e siamo arrivati a quella vecchia casa, e tu hai

chiesto se potevano darci un sorso d’acqua? Te lo immagini noi che facciamo una

Page 19: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

cosa simile ora? Fermarci a una casa a chiedere un sorso d’acqua?

«Quei vecchi devono essere morti adesso», fa lei, «uno accanto all’altro in

qualche cimitero. Ricordi che ci hanno invitati a mangiare un dolce? E dopo ci

hanno fatto fare un giro intorno alla casa? E sul retro c’era questo gazebo? Giù in

fondo, sotto gli alberi? Aveva un piccolo tetto a punta e la vernice era tutta

scrostata e sui gradini crescevano le erbacce. E la donna ha detto che una volta,

tanto tempo fa voglio dire, gli uomini ci venivano la domenica a suonare, e la

gente si sedeva intorno ad ascoltare. Pensavo che saremmo stati così anche noi

da vecchi. Dignitosi. In un posto nostro. E la gente avrebbe bussato alla nostra

porta».

Sul momento non riesco a dire niente. Poi faccio: «Holly, un giorno

ricorderemo anche queste cose. Diremo “ti ricordi il motel con tutto quello schifo

nella piscina?”. Capisci cosa sto dicendo Holly?».

Ma Holly se ne sta seduta sul letto col bicchiere.

Vedo che non lo sa neppure lei.

Vado alla finestra e guardo fuori attraverso la tenda. Da basso un tizio dice

qualcosa e scuote la porta del bureau. Rimango lì. Prego che mi venga un segno

da Holly. Prego che Holly me lo faccia arrivare.

Sento una macchina partire. Poi un’altra. Puntano i fari contro la casa e una

dopo l’altra si allontanano per immettersi nel traffico.

«Duane», fa Holly.

Anche in questo aveva ragione?

Page 20: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Riuscivo a vedere ogni più piccola cosa

Ero a letto quando sentii il rumore del cancello. Tesi l’orecchio. Non sentii più

niente. Ma quello sì. Cercai di svegliare Cliff Era come morto. Allora mi alzai e

andai alla finestra. C’era una grande luna sopra le montagne intorno alla città.

Era una luna bianca piena di cicatrici. Anche un imbecille ci avrebbe visto una

faccia.

C’era abbastanza luce, tanto che riuscivo a vedere ogni cosa nel giardino: le

sedie a sdraio, il salice, il filo del bucato teso tra i pali, le petunie, le staccionate,

il cancello spalancato.

Ma non c’era nessuno in giro, né zone d’ombra che facessero paura. Tutto era

inondato dal chiarore della luna e io riuscivo a vedere ogni più piccola cosa. Le

mollette della biancheria sul filo, per esempio.

Misi le mani sul vetro per schermare la luna. Guardai ancora. Restai in

ascolto. Poi tornai a letto. Ma non riuscivo a prendere sonno. Continuavo a

girarmi. Pensavo al cancello spalancato. Era come una minaccia.

Il respiro di Cliff era insopportabile. Stava a bocca aperta con le braccia strette

sul petto bianco. Occupava quasi tutto il letto.

Provai più volte a spingerlo dalla sua parte. Ma lui emise solo un mugolio.

Rimasi immobile ancora un po’ finché decisi che non sarebbe servito a niente.

Mi alzai e infilai le pantofole.

Andai in cucina a farmi un tè e mi sedetti a berlo al tavolo. Fumai una

sigaretta di Cliff, senza filtro. Era tardi. Non guardai l’ora. Bevvi il tè e fumai

un’altra sigaretta. Dopo un po’ decisi di uscire a chiudere il cancello.

Presi dunque la vestaglia.

La luna illuminava tutto: case e alberi, pali e fili della luce, il mondo intero.

Diedi un’occhiata al giardinetto sul retro prima di uscire sotto il portico. C’era

una leggera brezza e mi avvolsi bene nella vestaglia.

Mi avviai verso il cancello.

Udii un rumore provenire dalle staccionate che ci separano dal terreno di Sam

Lawton. Aguzzai la vista. Sam stava appoggiato con le braccia sulla sua

staccionata; sì, perché di staccionate su cui appoggiarsi ce ne erano due. Sollevò

Page 21: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

una mano chiusa a pugno all’altezza della bocca e tossì, un colpo secco.

«Sera, Nancy», disse Sam Lawton.

Dissi: «Sam, mi hai fatto paura. Cosa fai alzato?». «Hai sentito qualcosa?»,

dissi. «Io ho sentito il mio cancello che si apriva».

«Non ho sentito niente», disse. «Non ho nemmeno visto niente. Potrebbe essere

stato il vento». Stava masticando qualcosa. Guardò il cancello aperto e alzò le

spalle.

I suoi capelli erano d’argento sotto la luce della luna, e gli stavano dritti sulla

testa. Riuscii a vedere il suo naso lungo, e le rughe sulla sua grande faccia triste.

Dissi: «Che fai alzato, Sam?», e mi avvicinai alla sua staccionata.

«Vuoi vedere una cosa?», disse.

«Vengo», dissi.

Uscii sul vialetto. Mi sentivo strana ad andarmene in giro in camicia da notte

e vestaglia. Mi dissi che dovevo proprio ricordarmelo questo, andarmene in giro in

quel modo.

Sam era là, vicino a casa sua, con i calzoni del pigiama arrotolati sopra le

scarpe bianche e marroni. Aveva una torcia elettrica in una mano e un barattolo

di qualcosa nell’altra.

Sam e Cliff erano stati amici un tempo. Poi una sera avevano bevuto. Avevano

litigato. E dopo quella sera Sam si era costruito una staccionata e Cliff ne aveva

costruita una anche lui.

Questo successe dopo che Sam aveva perso Millie, si era risposato, ed era

diventato di nuovo padre, il tutto in men che non si dica. Millie era stata una

buona amica per me fino al giorno in cui morì. Aveva solo quarantadue anni

quando accadde. Insufficienza cardiaca. Successe proprio nel momento in cui

imboccava il vialetto. La macchina continuò ad andare avanti fino a sfondare la

parete in fondo al garage.

«Guarda qua», disse Sam, tirandosi su i calzoni del pigiama e accovacciandosi.

Puntò la torcia elettrica sul terreno.

Guardai e vidi su una zolla tutto un brulicare di cose mollicce.

«Lumache», disse. «Gli ho appena dato un po’ di questa roba», disse,

sollevando un barattolo che poteva essere di Ajax. «Stanno per prendere il

sopravvento», disse, e masticò quella cosa che aveva in bocca. Voltò la testa di

lato e sputò qualcosa che pareva tabacco. «Devo continuare con questo se voglio

Page 22: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

tenerle sotto controllo». Puntò la luce su un vaso pieno di quelle cose. «Metto

l’esca e appena posso vengo fuori con questa roba. Bastarde, sono dappertutto.

Un disastro quello che possono combinare. Guarda qua», disse.

Si rialzò. Mi prese per il braccio e mi guidò fino ai suoi cespugli di rose. Mi

mostrò i forellini sulle foglie.

«Lumache», disse. «La notte se ti guardi intorno ne vedi dappertutto. Metto

l’esca e poi vengo a prenderle», disse.

«Un’invenzione schifosa, la lumaca. Le conservo in quel vaso lì».

Puntò la torcia elettrica sotto i cespugli di rose.

Un aereo passò sopra le nostre teste. Mi immaginai le persone, sedute ai loro

posti con le cinture allacciate, alcune che leggevano, altre che guardavano giù.

«Sam», dissi, «come stanno a casa?».

«Stanno bene», disse, e alzò le spalle.

Continuava a masticare quella roba che aveva in bocca.

«Come sta Clifford?», disse.

«Come sempre», dissi.

Sam disse: «Magari una volta che sono qua fuori alle prese con le lumache

guarderò verso casa vostra» disse. «Vorrei proprio che Cliff e io tornassimo ad

essere amici. Guarda là adesso», disse e tirò un brusco respiro. «Ce n’è una là. La

vedi? Proprio là dove sto facendo luce». Teneva la luce puntata sul terriccio sotto

il cespuglio di rose. «Ora fa attenzione», disse Sam.

Mi strinsi le braccia sul petto e mi chinai verso il punto che stava

illuminando. La cosa smise di muoversi e girò la testa da una parte all’altra.

Allora Sam le fu addosso col suo barattolo, e spruzzò la polvere.

«Che schifose», disse.

La lumaca si contorse. Poi si arrotolò e di nuovo si allungò.

Sam prese una palettina, raccolse la lumaca, e la buttò dentro il vaso.

«Ci ho rinunciato, sai», disse Sam. «C’è stato un momento che non sapevo più

cosa fare. Intorno alla casa ci stiamo ancora attenti, ma non è che ci badi più

molto».

Annuii. Lui mi guardò insistentemente.

«Sarà meglio che rientri», dissi.

«Certo», disse. «Continuo ancora un po’ e appena ho finito torno dentro

anch’io». Dissi: «Buona notte, Sam».

Page 23: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Senti», disse. Smise di masticare. Con la lingua spinse quella cosa dietro il

labbro inferiore. «Dì a Cliff che lo saluto».

«Gli dirò che hai detto così, Sam».

Sam si passò una mano sui capelli argentati come se volesse farli star giù una

volta per tutte, e poi la alzò in un gesto di saluto.

In camera da letto, mi tolsi la vestaglia, la ripiegai e la misi a portata di mano.

Senza guardare l’ora, controllai che la levetta della sveglia fosse alzata. Poi mi

infilai nel letto, tirai su le coperte, e chiusi gli occhi. Fu allora che mi venne in

mente che avevo dimenticato di chiudere il cancello.

Aprii gli occhi e restai lì ferma. Diedi una scrollatina a Cliff. Lui si schiarì la

gola. Deglutì. Qualcosa gli andò di traverso e gli gorgogliò dentro il petto.

Non so. Mi fece pensare a quelle cose che Sam Lawton cospargeva di polvere.

Per un minuto pensai al mondo là fuori, e poi non pensai più a nient’altro,

solo che dovevo sbrigarmi a dormire.

Page 24: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Sacchetti

È ottobre, una giornata umida. Dalla finestra del mio albergo riesco a vedere

anche troppo di questa città del Midwest. Vedo le luci che si accendono in alcuni

palazzi, il fumo delle ciminiere che si alza in una densa voluta. Vorrei non dover

guardare.

Voglio parlarvi di una storia che mi raccontò mio padre quando mi fermai a

Sacramento l’anno scorso. È a proposito di certi fatti che gli capitarono due anni

prima di quella volta, e quella volta fu prima che lui e mia madre divorziassero.

Sono un venditore di libri. Rappresento un’organizzazione molto conosciuta.

Pubblichiamo libri di testo, e la sede è a Chicago. La mia zona è l’Illinois, parte

dell’Iowa e del Wisconsin. Ero alla convention della Western Book Publishers

Association a Los Angeles quando mi venne l’idea di andare a passare qualche

ora con mio padre. Dico, non lo avevo più visto dai tempi del divorzio. Così tirai

fuori dal portafogli il suo indirizzo e gli mandai un telegramma. La mattina dopo

spedii la mia roba a Chicago e mi imbarcai su un aereo per Sacramento.

Mi ci volle un minuto per distinguerlo tra la folla. Stava in mezzo a tutti gli

altri - cioè dietro la transenna - capelli bianchi, occhiali, calzoni marroni, di quelli

che non si stirano.

«Come va, papà?», dissi. «Les», disse lui.

Ci stringemmo la mano e ci avviammo verso il terminal.

«Come stanno Mary e i bambini?», disse.

«Tutti bene», dissi, il che non era vero. Aprì un sacchetto bianco, di una

pasticceria. Disse: «Ho preso qualcosa che potresti portare a casa. Non molto.

Delle mandorle Roca per Mary e delle gelatine per i bambini».

«Grazie», dissi.

«Non te lo dimenticare quando vai via», disse.

Mentre ci tiravamo fuori dalla ressa, alcune monache ci vennero incontro

correndo verso l’imbarco. «Qualcosa da bere o un caffè?», dissi.

«Quello che vuoi tu», disse. «Ma sono senza macchina».

Trovammo il bar, prendemmo da bere, fumammo qualche sigaretta.

«Eccoci qua», dissi.

Page 25: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Beh, sì», disse.

Mi strinsi nelle spalle e dissi «già».

Mi appoggiai allo schienale della sedia e trassi un lungo respiro, aspirando

quell’aria di sventura che mi sembrava aleggiargli intorno alla testa.

Disse: «L’aeroporto di Chicago deve essere grande quattro volte questo».

«Anche di più», dissi.

«Sapevo che era grande», disse.

«Da quando porti gli occhiali?», dissi.

«Da un po’», disse.

Mandò giù una sorsata e poi andò dritto al punto.

«Avrei preferito morire», disse. Appoggiò le sue braccia pesanti ai lati del

bicchiere. «Tu sei uno che ha studiato, Les. Queste cose tu le puoi capire».

Capovolsi il posacenere per leggere cosa c’era scritto sul fondo:

HARRAH’S CLUB

RENO AND LAKE TAHOE

GOOD PLACES TO HA VE FUN.

«Lei era una venditrice di prodotti Stanley. Una donna piccolina, mani e piedi

piccoli, e capelli neri come il carbone. Non era la cosa più bella del mondo. Ma

aveva un modo di fare delizioso. Aveva trent’anni e dei bambini. Ma era una

donna per bene, comunque sia andata.

«Tua madre comprava sempre qualcosa da lei, una scopa, uno strofinaccio,

qualche ingrediente per i dolci. Sai com’è tua madre. Era sabato e io ero a casa.

Tua madre era andata da qualche parte. Non so dove. Non era andata al lavoro.

Io ero in soggiorno a leggere il giornale e a bere una tazza di caffè, quando sentii

bussare alla porta ed era quella donnina. Sally Wain. Disse di avere delle cose per

la signora Palmer. “Io sono il signor Palmer”, dico. “La sonora Palmer non è in

casa”, dico. Le dico se vuole entrare un momento, sai, così l’avrei pagata. Lei non

sapeva che fare. Se ne sta lì con quel sacchetto di carta in mano e la ricevuta.

«“Dia qua, lo prendo io”, dico. “Perché non entra e si siede un minuto, vedo se

trovo i soldi”.

«“Non importa”, dice. “Può prendere a credito. Lo fa un sacco di gente. Non

importa”. Sorride per farmi capire che andava bene lo stesso, capisci.

Page 26: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«“No, no”, dico io. “Ce li ho. Preferisco pagare adesso. Così a lei risparmio un

viaggio e a me un debito. Venga dentro”, dico, e tengo la porta aperta. Non era

educato farla aspettare là fuori».

Tossì e prese una delle mie sigarette. Dall’altra parte del bar una donna rise.

La guardai e di nuovo lessi la scritta sul posacenere.

«Lei entra, e io dico: “Un momento solo, per favore”, e vado in camera da letto

a cercare il mio portafogli. Guardo sul comò, ma non lo trovo. Trovo degli

spiccioli, dei fiammiferi e il mio pettine, ma non riesco a trovare il portafogli. Vedi,

tua madre quella mattina aveva riordinato la stanza. Così torno in soggiorno e

dico: “Bene, farò saltar fuori qualche soldo, comunque”.

“La prego, non si disturbi”, dice lei. «“Nessun disturbo”, dico. “Devo pure

trovarlo, il mio portafogli. Si metta comoda”. «“Oh, sto benissimo”, dice lei.

«“Guardi qua”, dico. “Ha sentito della grande rapina all’Est? Stavo proprio

leggendolo ora”.

«“L’ho visto in televisione ieri sera”, dice lei. «“Hanno fatto un lavoro pulito”,

dico. «“Proprio coi fiocchi”, dice lei. «“Il delitto perfetto”, dico io. «“Non a tutti

riesce”, dice lei.

«Non sapevo che altro dire. Stavamo lì in piedi a guardarci. Uscii sotto il

portico e andai a cercare i miei calzoni nella cesta della biancheria sporca, perché

mi era venuto in mente che tua madre poteva averli messi là. Trovai il portafogli

nella tasca posteriore, tornai dentro e le chiesi quanto le dovessi.

«Erano tre o quattro dollari, e la pagai. Poi, non so perché, le domandai che

avrebbe fatto se li avesse avuti lei, tutti quei soldi che si erano portati via i

rapinatori.

«Rise e le vidi i denti.

«Non so cosa mi successe allora, Les. Cinquantacinque anni. Figli grandi.

Sapevo bene come vanno certe cose. Questa donna aveva la metà dei miei anni, e

dei figli piccoli a scuola. Faceva questo lavoro per la Stanley solo nelle ore in cui

erano a scuola, tanto per tenersi occupata. Non aveva bisogno di lavorare.

Stavano abbastanza bene. Suo marito, Larry, faceva l’autista per la Consolidated

Freight. Guadagnava bene. Caposquadra, capisci».

Si interruppe e si asciugò la faccia.

«Tutti possono sbagliare», dissi.

Scrollò la testa.

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«Lei aveva questi due ragazzi, Hank e Freddy. Circa un anno di differenza. Mi

mostrò delle foto. In ogni caso, ride quando le dico quella cosa dei soldi, dice che

immagina che smetterebbe di vendere i prodotti Stanley, si trasferirebbe a Dago e

comprerebbe una casa. Disse che aveva dei parenti a Dago».

Accesi un’altra sigaretta. Guardai l’orologio. Il barista sollevò le sopracciglia e

io sollevai il mio bicchiere.

«Insomma, ora è seduta sul divano, e mi chiede se ho una sigaretta. Dice che

ha lasciato le sue nell’altra borsetta, e che non fuma da quando è uscita di casa.

Dice che non le va di comprarle dai distributori automatici quando a casa ne ha

una stecca. Le ho dato una sigaretta e le ho acceso un fiammifero. Ma ti dico,

Les, mi tremavano le dita».

Tacque e per un minuto esaminò le bottiglie. La donna che aveva riso teneva

ora sottobraccio due uomini.

«Quello che viene dopo è confuso. Ricordo che le domandai se voleva un caffè.

Dissi che lo avevo appena fatto. Lei disse che doveva andare. Disse che forse però

il tempo per una tazza ce l’aveva. Così andai in cucina e aspettai che il caffè si

scaldasse. Ti dico, Les, lo giuro davanti a Dio, non ho mai tradito tua madre per

tutto il tempo che siamo stati marito e moglie. Nemmeno una volta. Ci sono stati

momenti in cui ne ho avuto voglia e ho anche avuto l’occasione. Credimi, tu non

conosci tua madre come la conosco io».

Dissi: «Non sei tenuto a dirmi niente in proposito».

«Le portai il caffè, e lei a questo punto si era tolta il cappotto. Mi siedo dalla

parte opposta del divano e cominciamo a parlare di cose più personali. Lei dice di

avere due bambini che vanno alla scuola elementare Roosevelt, e Larry, che fa

l’autista e che a volte è via per una settimana o due. Su a Seattle, giù a L.A., o

magari a Phoenix. Sempre da qualche parte. Dice di avere incontrato Larry

quando andavano al liceo. Disse che era orgogliosa di averlo finito. Poco dopo si fa

una risatina per qualche cosa che avevo detto. Era una cosa che poteva essere

intesa in due modi. Poi mi chiede se conosco quella del venditore di scarpe che va

a trovare la vedova. Ci ridemmo sopra, e dopo io gliene raccontai una un po’ più

spinta. Allora lei si fa una bella risata e fuma un’altra sigaretta. Una cosa tira

l’altra, sai come succede, hai capito?

«A questo punto la baciai. Le appoggiai la testa sul divano e la baciai, e sento

ancora la sua lingua che s’infila nella mia bocca. Capisci cosa voglio dire? Un

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uomo può tirare avanti rispettando tutte le regole e poi, al diavolo, non conta più

niente. La fortuna lo molla, capito?

«Ma era tutto finito in un attimo. E dopo lei dice: “Penserai che sono una

puttana o qualcosa del genere”, e poi se ne va.

«Io ero così eccitato, sai? Rimisi in ordine il divano e girai i cuscini. Ripiegai

tutti i giornali e lavai persino le tazze che avevamo usato. Per tutto il tempo non

feci che pensare a come avrei dovuto affrontare tua madre. Avevo paura.

«Insomma, cominciò così. Tua madre e io andammo avanti lo stesso come

prima. Ma io presi a vedere quella donna regolarmente».

La donna in fondo al bar si alzò dallo sgabello. Fece qualche passo verso il

centro della stanza e cominciò a ballare. Piegava la testa da una parte e dall’altra

e faceva schioccare le dita. Il barista smise di servire le bibite. La donna sollevò le

braccia sopra la testa e cominciò a girare su se stessa. Ma poi si fermò e il barista

riprese a lavorare.

«Hai visto che roba?», disse mio padre.

Ma io non risposi.

«Ecco, è successo così. Larry ha la sua tabella di marcia, e io andavo da lei

ogni volta che mi capitava l’occasione. A tua madre dicevo che andavo ora qua

ora là».

Si tolse gli occhiali e chiuse gli occhi. «Non l’ho mai raccontato a nessuno».

Non c’era niente da dire. Guardai fuori verso i campi e poi l’orologio.

«Senti», disse. «A che ora parte il tuo aereo? Potresti prendere un altro aereo?

Lascia che ti offra qualcos’altro da bere, Les. Ordinane altri due. Farò alla svelta.

Finisco questa storia in un minuto. Ascolta», disse.

«Lei teneva la fotografia di Larry in camera vicino al letto. All’inizio mi dava

fastidio, vedere la sua fotografia là e tutto il resto. Ma dopo un po’ mi ci abituai.

Sai bene come ci si abitua a tutto». Scosse la testa. «È incredibile. Comunque,

finisce male. Questo lo sai. Sai già tutto».

«Io so soltanto quello che mi dici tu», dissi.

«Te lo dico io, Les. Ti dico io qual è la c8sa più importante in tutta questa

storia. Vedi, ci sono delle cose. Cose più importanti del fatto che tua madre mi ha

lasciato. Ora senti questa. Una volta eravamo a letto. Doveva essere circa l’ora di

pranzo. Stavamo là a parlare. Sonnecchiavo forse. Sai quando sonnecchi e

insieme sogni. Ma al tempo stesso mi stavo dicendo che avrei fatto bene ad

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alzarmi e andarmene. Insomma, ero in quello stato lì, quando l’auto entra nel

vialetto e qualcuno esce sbattendo la portiera.

«“Mio Dio”, strilla lei. “È Larry!”»

«Devo aver perso la testa. Mi sembra di ricordare che ho pensato che se

scappavo dalla porta sul retro lui mi avrebbe inchiodato alla grossa staccionata

del cortile e magari anche ucciso. Sally faceva strani versi. Come se non riuscisse

a respirare. Ha la vestaglia addosso, ma è aperta, e sta lì in piedi in cucina

scuotendo la testa. Tutto questo succede in un baleno, capisci. Per cui mi trovo

là, quasi nudo con i vestiti in mano, mentre Larry apre la porta d’ingresso. Allora

salto. Salto proprio dentro la finestra, proprio dentro, attraverso il vetro».

«Sei riuscito a scappare?», dissi. «Non ti ha inseguito?».

Mio padre mi guardò come se fossi pazzo. Fissò il suo bicchiere vuoto. Io

guardai l’orologio e mi stiracchiai.

Avevo un leggero mal di testa, vicino agli occhi.

Dissi: «È bene che mi avvii». Mi passai la mano sul mento e raddrizzai il

colletto. «È ancora a Redding, quella donna?».

«Tu non sai niente, vero?», disse mio padre. «Tu non sai niente di niente. Non

sai niente; sai solo vendere libri».

Era quasi ora di andare.

«Oh, Dio, mi dispiace», disse. «Quell’uomo è crollato, ecco cosa. Si buttò per

terra a piangere. Lei restò in cucina. Si fece il suo pianto là. Cadde in ginocchio a

pregare Dio, chiaro e forte perché lui la sentisse».

Mio padre fece per dire qualcos’altro. Poi scrollò il capo. Forse voleva che fossi

io a parlare.

Ma poi disse: «No, tu devi prendere l’aereo».

Lo aiutai a infilarsi il cappotto e uscimmo fuori. Con la mano lo guidavo

tenendolo per il gomito. «Ti chiamo un taxi», dissi.

Disse: «Vengo a salutarti alla partenza».

«Ma no!», dissi. «La prossima volta magari».

Ci stringemmo la mano. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Mentre andavo a

Chicago, mi ricordai di avere lasciato il sacchetto dei regali al bar. Non aveva

importanza. Mary non aveva bisogno di dolci, né di mandorle Roca o altro.

Questo fu l’anno scorso. Ora ne ha bisogno ancora meno.

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Il bagno

Sabato pomeriggio la madre andò in auto dal panettiere allo shopping center.

Dopo aver sfogliato le pagine di un raccoglitore con incollate le fotografie delle

torte, ordinò quella al cioccolato, il dolce preferito da suo figlio. La torta che aveva

scelto era decorata con un’astronave e una base di lancio, sotto una spruzzata di

stelle bianche. Il nome SCOTTY sarebbe stato glassato sopra in verde, come se

fosse il nome dell’astronave.

Il panettiere ascoltò attentamente mentre la madre gli diceva che Scotty

avrebbe compiuto otto anni. Era anziano, questo panettiere, e portava uno strano

grembiule, un affare pesante con delle fettucce che gli passavano sotto le braccia,

si incrociavano sulla schiena e poi di nuovo davanti, dove formavano un nodo

molto grosso. Continuò ad asciugarsi le mani sul grembiule mentre ascoltava la

donna, e i suoi occhi umidi le esaminavano le labbra mentre lei studiava i

campioni e chiacchierava.

La lasciò decidere con calma. Non aveva fretta.

La madre decise per la torta con l’astronave, e poi diede al panettiere il suo

nome e il numero di telefono. La torta sarebbe stata pronta il lunedì mattina, in

tempo per la festa di lunedì pomeriggio. Questo era tutto quello che il panettiere

aveva da dire. Niente convenevoli, poche parole e quella sola semplice

informazione, lo stretto necessario.

Lunedì mattina il bambino stava andando a scuola a piedi. Era in compagnia

di un altro bambino e i due si scambiavano di continuo un grosso sacchetto di

patatine. Il bambino del compleanno stava cercando in tutti i modi di farsi dire

dall’altro bambino che cosa gli avrebbe regalato.

A un incrocio, il bambino del compleanno scese dal marciapiede senza

guardare e fu investito da un’auto. Cadde su un fianco, con la testa nella cunetta

e le gambe sulla strada che si muovevano come se stessero arrampicandosi su un

muro.

L’altro bambino restò lì con il pacchetto di patatine in mano, chiedendosi se

doveva finirle o proseguire e andare a scuola.

Il bambino del compleanno non pianse. Ma non aveva più voglia di parlare.

Page 31: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Non rispose quando l’altro bambino gli domandò che effetto faceva essere investiti

da un’auto. Il bambino del compleanno si rialzò e si avviò verso casa, e allora

l’altro bambino lo salutò con la mano e se ne andò a scuola.

Il bambino del compleanno raccontò a sua madre cos’era successo. Si

sedettero insieme sul divano. Lei gli tenne le mani tra le sue. Era questo che

stava facendo quando il bambino tirò via le mani e si sdraiò sulla schiena.

Naturalmente non ci furono feste di compleanno. Il bambino del compleanno

era in ospedale. La madre sedeva vicino al letto. Aspettava che il bambino si

svegliasse. Il padre arrivò di corsa dall’ufficio. Si sedette accanto alla madre. Così

adesso tutti e due aspettavano che il bambino si svegliasse. Aspettarono per ore,

poi il padre andò a casa a fare un bagno.

Tornò a casa in auto dall’ospedale. Guidò più veloce di come avrebbe dovuto.

Finora gli era sempre andato tutto bene nella vita. C’era stato il lavoro, la

paternità, la famiglia.

Era stato fortunato e felice. Ma la paura gli aveva fatto venir voglia di un

bagno.

Imboccò il vialetto. Rimase seduto in macchina, perché sentiva che le gambe

non gli rispondevano. Il bambino era stato investito ed era in ospedale, ma

sarebbe guarito. L’uomo scese dall’auto e andò verso la porta. Il cane abbaiava e

squillava il telefono. Continuò a squillare mentre lui apriva la porta e tastava il

muro cercando l’interruttore della luce.

Sollevò il ricevitore. Disse: «Sono entrato in casa in questo momento!».

«C’è qui un dolce che non è stato ritirato».

Questo disse la voce all’altro capo del filo.

«Che cosa sta dicendo?», disse il padre.

«Il dolce», disse la voce. «Sedici dollari».

Il marito tenne il ricevitore contro l’orecchio, sforzandosi di capire. Disse: «Io

non ne so niente». «Non penserà di darmela a bere», disse la voce.

Il marito riattaccò. Andò in cucina e si versò del whiskey. Chiamò l’ospedale.

Le condizioni del bambino non erano cambiate.

Mentre l’acqua scorreva nella vasca, l’uomo si insaponò la faccia e si fece la

barba. Era dentro la vasca quando sentì di nuovo squillare il telefono. Uscì e

attraversò di corsa la casa, dicendo «che stupido, che stupido» perché non si

sarebbe trovato in questa situazione se fosse rimasto dov’era in ospedale. Sollevò

Page 32: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

il ricevitore e gridò: «Sì?».

La voce disse: «È pronto».

Il padre tornò in ospedale dopo mezzanotte. La moglie era seduta sulla sedia

vicino al letto. Alzò gli occhi verso il marito e poi tornò a guardare il bambino.

Sopra il letto c’era un apparecchio con una bottiglia, e un tubicino che andava

dalla bottiglia al bambino.

«Cos’è?», disse il padre.

«Glucosio», disse la madre.

Il marito posò una mano sulla nuca della donna.

«Si sveglierà», disse l’uomo.

«Lo so», disse la donna.

Dopo un po’ l’uomo disse: «Va’ a casa e lascia che resti qua io».

Lei scrollò il capo. «No», disse.

«Davvero», disse lui. «Va’ un po’ a casa. Non devi preoccuparti. Sta solo

dormendo».

Un’infermiera spalancò la porta. Fece loro un cenno con la testa andando

verso il letto. Prese il polso sinistro da sotto le coperte e scrisse qualcosa sulla

cartella medica attaccata al letto.

«Come sta?», disse la madre.

«Stazionario», disse l’infermiera. Poi disse: «Il medico passerà di nuovo tra

poco».

«Le stavo dicendo che farebbe bene a andare a casa a riposarsi un po’», disse

l’uomo. «Dopo che è venuto il medico».

«Non vedo perché no», disse l’infermiera. La donna disse: «Sentiamo prima

cosa dice il medico». Si mise una mano sugli occhi e piegò in avanti la testa.

L’infermiera disse: «Certo».

Il padre guardò suo figlio, il piccolo torace che si alzava e si abbassava sotto le

coperte. Aveva più paura adesso. Cominciò a scuotere la testa. Parlava tra sé. Il

bambino sta bene. Invece di dormire a casa, dorme qui. Il sonno è lo stesso

ovunque uno dorma.

Entrò il medico. Strinse la mano all’uomo. La donna si alzò dalla sedia.

«Ann», disse il medico e le fece un cenno col capo. Il medico disse: «Vediamo

come sta». Si avvicinò al letto e prese il polso del bambino. Sollevò prima una

palpebra e poi l’altra. Tirò indietro le coperte e gli auscultò il cuore. Premette con

Page 33: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

le dita qua e là sul corpo. Andò ai piedi del letto e esaminò la cartella. Annotò

l’ora, scarabocchiò qualcosa sulla cartella e poi fissò il padre e la madre. Il medico

era un bell’uomo. Aveva la pelle liscia e abbronzata. Portava un completo col gilè,

una cravatta vivace, e una camicia con i gemelli.

La madre si stava dicendo queste cose. Deve aver fatto una comparsa in

pubblico. È da lì che arriva. Gli avranno dato una qualche medaglia.

Il medico disse: «Non c’è da cantare vittoria ma neppure da preoccuparsi. Fra

non molto dovrebbe svegliarsi». Il dottore guardò di nuovo il bambino. «Ne

sapremo di più quando arriveranno i risultati degli esami».

«Oh, no», disse la madre.

Il medico disse: «A volte capita di vedere fenomeni del genere».

Il padre disse: «Allora lei non crede che sia coma?»

Il padre attese la risposta e guardò il medico.

«No, non lo chiamerei in questo modo», disse il medico. «Sta dormendo. È un

sonno ristoratore. Il corpo sta facendo quello che deve fare».

«È coma», disse la madre. «Una specie di coma».

Il medico disse: «Io non lo chiamerei così».

Le prese le mani tra le sue con un gesto affettuoso. Salutò il marito.

La donna appoggiò le dita sulla fronte del bambino, e le tenne lì un po’. «Per lo

meno non ha la febbre», disse. Poi disse: «Non so. Senti tu».

L’uomo appoggiò la mano sulla fronte del bambino. Disse: «Penso che sia

normale».

La donna rimase lì in piedi ancora un po’, torturandosi le labbra coi denti. Poi

si avvicinò alla sedia e si sedette.

Il marito si sedette sulla sedia accanto a lei. Avrebbe voluto dire qualcos’altro.

Ma non sapeva proprio cosa. Le prese la mano e se la appoggiò sul ginocchio.

Questo lo fece sentire meglio. Lo fece sentire come se stesse dicendo qualcosa.

Restarono seduti così per un po’, guardando il bambino, senza parlare. Di tanto

in tanto, lui le stringeva la mano, finché lei non la tirò via. «Ho pregato», disse lei.

«Anch’io», disse il padre. «Ho pregato anch’io».

Entrò di nuovo un’infermiera a controllare il flusso del liquido nella bottiglia.

Entrò un medico e si presentò. Questo medico aveva i mocassini.

«Adesso lo portiamo da basso a fare altre lastre», disse. «Vogliamo fare anche

una stratigrafia».

Page 34: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Una stratigrafia?» disse la madre. Stava in piedi tra questo nuovo medico e il

letto.

«Non è niente», disse lui.

«Mio Dio», disse lei.

Entrarono due infermieri. Spingevano una specie di letto con le ruote.

Staccarono il tubicino e fecero scivolare il bambino su quella cosa con le ruote.

Fu dopo l’alba che riportarono in camera il bambino del compleanno. Il padre

e la madre seguirono gli infermieri dentro l’ascensore e su fino in camera. Ancora

una volta i genitori si sedettero ai loro posti vicino al letto.

Attesero tutto il giorno. Il bambino non si svegliò. Il medico tornò ancora e

visitò di nuovo il bambino e uscì dopo avere detto ancora le stesse cose.

Entrarono le infermiere. Entrarono i medici. Entrò un infermiere diplomato che

fece un prelievo di sangue.

«Non capisco perché, questo», disse la madre.

«Ordini del medico», disse l’infermiere diplomato.

La madre andò alla finestra e guardò fuori nel parcheggio. C’erano macchine

con i fari accesi che entravano e uscivano. Lei restò alla finestra con le mani sul

davanzale. Parlava tra sé e si diceva: Questa volta ci siamo proprio dentro, dentro

qualcosa di tremendo. Aveva paura.

Vide un’auto fermarsi e una donna con un cappotto lungo salire sull’auto.

Immaginò di essere lei quella donna. Immaginò di essere lei che se ne andava via

con l’auto, lontano da lì.

Entrò il medico. Era abbronzato e più in forma che mai.

Si avvicinò al letto e visitò il bambino. Disse: «Le reazioni sono buone. Va tutto

bene».

La madre disse: «Ma continua a dormire».

«Sì», disse il medico.

Il marito disse: «È stanca. Non ha mangiato niente». Il medico disse: «Dovrebbe

riposare. Dovrebbe mangiare, Ann».

«Grazie», disse il marito.

Strinse la mano al medico e quello diede una leggera pacca sulle spalle a tutti

e due e uscì.

«Credo che uno di noi dovrebbe andare a casa a dare un’occhiata», disse

l’uomo. «Il cane deve mangiare».

Page 35: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Telefona ai vicini», disse la moglie. «Qualcuno gli darà da mangiare se glielo

chiedi».

Cercò di pensare a chi si poteva dire. Chiuse gli occhi e si sforzò di pensare a

una cosa qualsiasi. Dopo un po’ disse: «Forse potrei farlo io. Forse se non sono

qui si sveglierà. Forse è perché sono qui a sorvegliarlo che non si sveglia».

«Ecco, magari è così», disse il marito.

«Vado a casa a fare un bagno e a mettermi qualcosa di pulito», disse la donna.

«Sì, fai bene», disse l’uomo.

Prese la borsetta. Il marito l’aiutò a infilarsi il cappotto.

Andò verso la porta, e si voltò. Guardò il bambino, e poi guardò il padre. Il

marito le fece un cenno con il capo e sorrise.

Passò davanti alla stanza delle infermiere e arrivò in fondo al corridoio; svoltò

e vide una piccola sala d’aspetto dove una famiglia stava seduta sulle sedie di

vimini: un uomo con una camicia cachi e un berretto da baseball cacciato

indietro sulla testa, una donna grassa con un vestito da casa e le pantofole, una

ragazza in jeans con i capelli annodati in tante piccole treccine, il tavolo tutto

pieno di pacchetti di sigarette vuoti, tazze da caffè e cucchiaini di plastica, e

bustine di sale e pepe. «Nelson», disse la donna. «È per Nelson?».

La donna sgranò gli occhi.

«Mi dica, signora», disse la donna. «È per Nelson?».

La donna stava cercando di alzarsi dalla sedia, ma l’uomo le teneva una mano

sul braccio.

«Sta’ buona, sta’ buona», disse l’uomo.

«Mi spiace», disse la madre. «Sto cercando l’ascensore. Mio figlio è in ospedale.

Non riesco a trovare l’ascensore».

«L’ascensore è da quella parte», disse l’uomo, e puntò il dito nella direzione

giusta.

«Mio figlio è stato investito da un’auto», disse la madre. «Ma se la caverà. Ora è

sotto shock, ma potrebbe anche essere una specie di coma. È questo che ci

preoccupa, questo fatto del coma. Io adesso esco un pochino. Magari faccio un

bagno. Ma c’è mio marito con lui. Ci sta attento lui. C’è una possibilità che le cose

cambino mentre sono via. Il mio nome è Ann Weiss».

L’uomo si mosse sulla sedia. Scrollò la testa.

Disse: «Il nostro Nelson».

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Lei entrò con l’auto nel vialetto. Il cane sbucò da dietro la casa. Cominciò a

correre in tondo sull’erba. Lei chiuse gli occhi e appoggiò la testa al volante.

Ascoltò il rumore del motore.

Scese dall’auto e andò alla porta. Accese le luci e mise sul fuoco l’acqua per il

tè. Aprì una scatoletta e diede da mangiare al cane. Si sedette sul divano con il tè.

Il telefono squillò.

«Sì!», disse. «Pronto!», disse.

«La signora Weiss», disse la voce di un uomo.

«Sì», disse. «Parla la signora Weiss. È per Scotty?».

«Scotty», disse la voce. «Per Scotty», disse la voce. «Sì, a proposito di Scotty, sì».

Page 37: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Di’ alle donne che usciamo

Bill Jamison era sempre stato grande amico di Jerry Roberts. Erano cresciuti

tutti e due nella zona a sud della città, vicino al vecchio spiazzo del circo, erano

andati insieme alle elementari e alle medie, e dopo all’Eisenhower, dove, appena

possibile, avevano scelto gli stessi professori, si erano scambiati le camicie, i

maglioni e i pantaloni a tubo, e avevano corteggiato e scopato le stesse ragazze

-quelle che ci stavano, è naturale.

D’estate facevano dei lavoretti insieme - potavano i peschi, raccoglievano

ciliegie, legavano il luppolo, - insomma qualsiasi cosa che fruttasse un po’ di soldi

e dove non ci fosse un padrone sempre lì a romperti le scatole. E poi insieme

comprarono un’auto. L’estate prima del loro ultimo anno di scuola misero insieme

i soldi e per 325 dollari comprarono una Plymouth rossa del ’54.

Se la dividevano. Andava tutto bene.

Ma poco prima della fine del primo semestre Jerry si sposò e lasciò la scuola

per un lavoro regolare da Robby e Mart (catena di supermercati N.d.T.). Quanto a

Bill, anche lui era uscito con quella ragazza. Si chiamava Carol e andava proprio

d’accordo con Jerry, e Bill andava a trovarli ogni volta che poteva. Lo faceva

sentire più grande, avere degli amici sposati. Andava da loro a pranzo o a cena, e

dopo magari ascoltavano Elvis o Bill Haley e i Comets. Ma qualche volta Carol e

Jerry cominciavano a pomiciare quando Bill era ancora lì e allora gli toccava

alzarsi, scusarsi e andare a piedi fino alla stazione di servizio Derzon a prendere

una Coca, perché c’era solo quel letto ribaltabile del soggiorno in tutto

l’appartamento. Oppure qualche volta Jerry e Carol si ficcavano in bagno, e Bill

doveva andare in cucina e far finta di guardare con interesse le tazze e il

frigorifero, sforzandosi di non sentire.

Smise perciò di andarci così spesso; e poi in giugno si diplomò, trovò lavoro

allo stabilimento Darigold, e entrò nei servizi dell’amministrazione locale. In capo

a un anno aveva una zona di distribuzione del latte tutta sua e faceva coppia

fissa con Linda. Per cui ora Bill e Linda andavano da Jerry e Carol, a bere birra e

sentire i dischi.

Carol e Linda andavano d’accordo, e Bill si era sentito molto lusingato quando

Page 38: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Carol gli aveva detto, in tono confidenziale, che Linda era proprio «una ragazza in

gamba».

Linda piaceva anche a Jerry. «È fantastica», diceva Jerry.

Quando Bill e Linda si sposarono Jerry fece da testimone. Il ricevimento era al

Donnelly Hotel, naturalmente, e Jerry e Bill fecero un gran casino tenendosi

sottobraccio e tracannando bicchieri di ponce. Ma a un tratto, in mezzo a tutta

quell’allegria, Bill guardò Jerry e pensò che sembrava molto più vecchio, molto

più vecchio dei suoi ventidue anni. A quell’epoca Jerry era padre felice di due

bambini ed era passato vicedirettore da Robby’s; quanto a Carol, ne aveva in

cantiere un altro.

Si vedevano tutti i sabati e le domeniche, anche più spesso se era vacanza.

Quando era bel tempo andavano da Jerry a cucinare hot dogs sul barbecue e a

far giocare i bambini nella piscina di plastica che Jerry aveva comprato a un

prezzo davvero stracciato, come tante altre cose che aveva preso al Mart.

Jerry aveva una bella casa su una collina da cui si vedeva il fiume Naches.

Intorno c’erano altre case, ma non troppo vicine. Jerry se la passava bene.

Quando Bill e Linda e Jerry e Carol si vedevano, era sempre a casa di Jerry

perché Jerry aveva il barbecue e i dischi e troppi bambini da tirarsi dietro.

Successe una domenica a casa di Jerry.

Le donne erano in cucina a mettere in ordine. Le bambine di Jerry erano fuori

in giardino che buttavano una palla di plastica in piscina, gridando, e tuffandosi

in acqua per riprenderla. Jerry e Bill stavano nel patio, seduti sulle sedie a sdraio

a bere birra e a godersi un po’ di riposo.

A parlare era soprattutto Bill - parlava di gente che conoscevano, della

Darigold, della Pontiac Catalina quattro porte che voleva comprarsi.

Jerry fissava il filo del bucato, oppure la Chevy coupé del ‘68 nel garage. Bill

ebbe l’impressione che Jerry stesse pensando ai fatti suoi, perché se ne stava lì

con lo sguardo fisso e quasi non apriva bocca.

Bill si agitò sulla sedia e accese una sigaretta.

Disse: «Qualcosa non va? Puoi dirmelo, sai».

Jerry finì la sua birra e poi stritolò la lattina.

Alzò le spalle.

«Sai com’è», disse.

Bill annuì.

Page 39: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Poi Jerry disse: «Che ne diresti di fare un giro?».

«Mi sembra una buona idea», disse Bill. «Vado a dire alle donne che usciamo».

Presero l’autostrada del Naches River fino a Gleed; guidava Jerry. Era una

bella giornata, calda, e il vento entrava dai finestrini.

«Dove si va?», disse Bill.

«A fare un paio di tiri», disse Jerry.

«Per me va bene», disse Bill. Si sentì più sollevato nel vedere che Jerry si stava

rasserenando.

«Un uomo ha bisogno di uscire ogni tanto», disse Jerry. Guardò Bill: «Lo sai,

no, cosa voglio dire?».

Bill capì. A lui piaceva uscire con quelli dello stabilimento per andare al

bowling il venerdì sera. Gli piaceva fermarsi a bere qualche birra con Jack

Broderick un paio di volte alla settimana, dopo il lavoro. Sapeva bene che un

uomo ha bisogno di uscire ogni tanto.

«È ancora in piedi», disse Jerry, fermandosi sulla ghiaia davanti al Ree Center.

Entrarono: Bill tenne la porta aperta a Jerry, Jerry, passando, diede a Bill un

leggero pugno sullo stomaco.

«Salve!»

Era Riley.

«Ehi, come state, ragazzi?».

Riley uscì fuori da dietro il banco, sorridendo. Era un omaccione. Portava una

camicia hawaiana a maniche corte, fuori dai jeans. Disse: «Allora ragazzi, come ve

la passate?».

«Ah, sta’ zitto e dacci un paio di Olys», disse Jerry, strizzando l’occhio a Bill.

«Allora, come va, Riley?».

Riley disse: «Allora ragazzi, cosa fate? Dov’eravate spariti? Avete qualche giro,

eh? Jerry, l’ultima volta che ti ho visto la tua vecchia era già di sei mesi».

Jerry rimase un attimo immobile e sbatté le palpebre.

«Allora, queste birre?», disse Bill.

Si sedettero sugli sgabelli vicino alla finestra. Jerry disse: «Riley, ma che razza

di posto è questo che non c’è nemmeno una ragazza di domenica pomeriggio?».

Riley rise. Disse: «Secondo me sono tutte andate in chiesa a pregare sempre

per la solita cosa».

Si scolarono cinque lattine di birra a testa e passarono due ore giocando tre

Page 40: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

partite a biliardo semplice e due a carambola, con Riley seduto sullo sgabello che

parlava e li guardava giocare, e Bill che continuava a guardare prima l’orologio e

poi Jerry.

Bill disse: «Allora Jerry, che ti succede? Eh? Che ti succede?».

Jerry scolò fino in fondo la sua lattina, la stritolò e restò lì a rigirarsela in

mano.

Di nuovo sull’autostrada, Jerry andò a tutto gas, con punte di centoquaranta,

centoquarantacinque. Avevano appena sorpassato un vecchio camioncino carico

di mobili, quando videro le due ragazze. «Guarda là», disse Jerry rallentando.

«Quelle me le farei volentieri».

Jerry proseguì più o meno per un chilometro e poi accostò. «Torniamo

indietro», disse. «Proviamoci». «Cristo», disse Bill. «Non so». «Io me le farei», disse

Jerry. Bill disse: «Già, ma io non so». «Oh, Cristo», disse Jerry.

Bill diede un’occhiata all’orologio e poi si guardò intorno. Disse: «Ci parli tu? Io

sono arrugginito». Jerry cacciò un urlo e con una brusca sterzata partì a tutta

velocità.

Quando fu quasi all’altezza delle ragazze rallentò. Accostò la Chevy alla

banchina, superandole. Le ragazze continuarono a pedalare, ma si scambiarono

un’occhiata e risero. Quella più all’interno era alta e sottile, e aveva i capelli scuri.

L’altra era piccolina e coi capelli chiari. Portavano tutt’e due pantaloni corti e top.

«Puttane», disse Jerry. Lasciò passare le altre auto e poi fece un’inversione a

U.

«Io prendo la mora», disse. «La piccola è tua».

Bill si appoggiò allo schienale e si toccò la sbarretta in mezzo agli occhiali da

sole. «Non ci staranno proprio per niente», disse Bill.

«Stavolta te le trovi dalla tua parte», disse Jerry. Attraversò la strada e tornò

indietro. «Tienti pronto», disse Jerry.

«Salve», disse Bill quando si trovarono affiancati. «Mi chiamo Bill».

«Carino», disse la mora.

«Dove state andando?», disse Bill.

Le ragazze non risposero. Quella piccola rise. Continuarono a pedalare e Jerry

tenne la loro andatura.

«Dai, forza, dove state andando?», disse Bill.

«In nessun posto», disse la piccola.

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«E cioè?», disse Bill.

«Ti piacerebbe saperlo, vero?», disse la piccola.

«Io ti ho detto il mio nome», disse Bill. «Perché non mi dici il tuo? Quello del

mio amico è Jerry», disse Bill.

Le ragazze si guardarono e risero. Dietro arrivò un’auto. Il tipo sonò il clacson.

«Fottiti!», gridò Jerry. Accostò un po’ per lasciare passare l’auto. Poi si portò di

nuovo a fianco delle ragazze.

Bill disse: «Vi diamo un passaggio. Vi portiamo dove volete. Promesso. Sarete

stanche di pedalare. Avete proprio l’aria stanca. Troppo moto non fa bene.

Soprattutto a delle ragazze».

Le ragazze risero.

«Visto?», disse Bill. «Ora diteci come vi chiamate».

«Io mi chiamo Barbara e lei Sharon», disse quella piccola.

«Benissimo!», disse Jerry. «Ora scopri dove stanno andando».

«Dove andate ragazze?», disse Bill. «Barb?».

Lei si mise a ridere. «In nessun posto», disse. «Solo in fondo alla strada».

«Dove in fondo alla strada?».

«Devo dirglielo?», disse lei all’altra ragazza.

«A me non importa», disse quella. «Non mi interessa», disse. «Tanto non vado

da nessuna parte con nessuno, comunque», disse quella che si chiamava Sharon.

«Dove state andando?», disse Bill. «Andate al Picture Rock?».

Le ragazze risero.

«Ecco dove stanno andando», disse Jerry.

Diede un colpo di acceleratore e si accostò alla banchina in modo che stavolta

le ragazze si sarebbero trovate dalla sua parte.

«Non fate così», disse Jerry. Disse: «Forza». Disse: «Ci siamo tutti presentati

no?».

Le ragazze continuarono a pedalare.

«Non mordo mica!», gridò Jerry.

La mora si voltò a guardarlo. Jerry ebbe l’impressione che lo guardasse

proprio in quel certo modo. Ma con una ragazza non si può mai dire.

Jerry lanciò di nuovo l’auto sulla strada, facendo schizzar via terra e sassi da

sotto le ruote.

«Ci vediamo!», disse Bill, passando accanto a tutta velocità.

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«È fatta», disse Jerry. «Hai visto che occhiata mi ha dato quella figa?».

«Non so», disse Bill. «Forse dovremmo filarcela a casa».

«Ma se è fatta!» disse Jerry.

Lasciò la strada e andò a fermarsi sotto gli alberi. Qui a Picture Rock la strada

si divideva, da una parte si continuava in direzione di Yakima, dall’altra per

Naches, Enumclaw, il passo Chinook, Seattle.

A un centinaio di metri dalla strada c’era uno sperone di roccia scura, alto e

ripido, parte di una bassa catena di colline, tutte segnate da sentieri e piccole

grotte che qui e là sulle pareti avevano tracce di pitture murali indiane. La parte

della roccia a strapiombo dava sull’autostrada ed era tutta coperta di scritte

come:

NACHES 67 - GLEED WILDCATS

(squadre locali di football N.d.T.)

- DIO TI AMA - BATTETE YAKIMA!

PENTITI ADESSO.

Rimasero seduti in auto a fumare. Dai finestrini entravano zanzare che

cercavano di posarsi sulle loro mani.

«Se avessimo una birra adesso», disse Jerry. «Mi andrebbe proprio una birra»,

disse.

Bill disse: «Anche a me», e guardò l’orologio.

Quando apparvero le ragazze, Jerry e Bill scesero dall’auto. Si appoggiarono al

parafango anteriore. «Ricorda», disse Jerry, allontanandosi dall’auto, «la mora è

mia. Tu prendi l’altra».

Le ragazze lasciarono le biciclette e imboccarono un sentiero. Scomparvero

dietro una curva, e poi riapparvero di nuovo, un po’ più in alto. Restarono lassù a

guardare di sotto.

«Perché ci seguite voi due?», disse la mora.

Jerry si incamminò su per il sentiero.

Le ragazze si voltarono e se ne andarono via correndo.

Jerry e Bill continuarono a salire piano. Bill stava fumando una sigaretta, e

ogni tanto si fermava a dare un tiro. A una curva del sentiero, si voltò indietro e

intravide l’auto.

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«Muoviti!», disse Jerry.

«Arrivo», disse Bill.

Continuarono ad arrampicarsi. Ma poi Bill si fermò a prender fiato. Non

vedeva più l’auto adesso. Non vedeva più nemmeno la strada. Alla sua sinistra,

giù in basso, riusciva a vedere una lingua del fiume Naches che pareva una

striscia di carta metallizzata.

Jerry disse: «Tu va’ a destra, io vado dritto. Così le pigliamo in trappola, quelle

due pollastre».

Bill annuì. Era troppo spompato per parlare.

Salì ancora per un po’, e poi il sentiero cominciò a scendere, girando verso la

valle. Guardò giù e vide le ragazze. Le vide rannicchiate dietro una roccia. Forse

stavano ridacchiando.

Bill tirò fuori una sigaretta. Ma non riuscì ad accenderla. Poi comparve Jerry.

Ma sì, non gliene importava un fico.

Bill aveva solo avuto voglia di scopare. O anche solo di vederle nude. Però, se

la cosa non andava in porto, per lui faceva lo stesso.

Non capì mai che cosa volesse Jerry. Ma tutto cominciò e finì con una pietra.

Jerry usò la stessa pietra su tutte e due le ragazze, prima su quella che si

chiamava Sharon e poi su quella che doveva essere di Bill.

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Dopo i jeans

Edith Packer aveva l’auricolare del registratore nell’orecchio e fumava una

sigaretta del marito. Il televisore era acceso, ma senza il sonoro, e lei se ne stava

accoccolata sul divano a sfogliare una rivista. James Packer uscì dalla stanza

degli ospiti, la stanza che aveva adibito a ufficio, e Edith

Packer si tolse l’auricolare dall’orecchio. Mise la sigaretta nel posacenere e

tese il piede agitando le dita in segno di saluto.

Lui disse: «Andiamo o no?». «Io vado», disse lei.

A Edith Packer piaceva la musica classica. A James Packer no.

Era un ragioniere in pensione. Ma teneva ancora la contabilità di qualche

vecchio cliente e non gli piaceva sentire la musica quando lavorava.

«Se vogliamo andare, andiamo».

Guardò il televisore, e poi andò a spegnerlo.

«Io vado», disse lei.

Chiuse la rivista e si alzò. Uscì dalla stanza e andò di là.

Lui la seguì per assicurarsi che la porta sul retro fosse chiusa e che la luce del

portico fosse accesa. Poi rimase in soggiorno e aspettò un bel po’.

Ci volevano dieci minuti di auto per andare al circolo sociale, il che voleva dire

che si sarebbero persi la prima partita.

C’era un vecchio camioncino tappezzato di adesivi nel posto dove di solito

James parcheggiava l’auto, e così dovette proseguire fino alla fine dell’isolato.

«Un mucchio di auto stasera», disse Edith Packer.

«Ce ne sarebbero state di meno se fossimo arrivati puntuali», disse lui.

«Ce ne sarebbero state molte lo stesso. Solo che non le avremmo viste». Gli

diede un pizzicotto sulla manica, così per scherzo.

James disse: «Edith, se vogliamo giocare a tombola, dobbiamo arrivare in

orario». «Zitto», disse Edith Packer.

James trovò un posto per parcheggiare e ci si infilò. Spense il motore e i fari.

Disse: «Non so se stasera avrò fortuna. Sentivo di avere fortuna mentre facevo le

tasse di Howard. Ma ora no. Non è certo una fortuna dover fare mezzo chilometro

a piedi solo per andare a giocare».

Page 45: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Stammi vicino», disse Edith Packer. «Sentirai che la fortuna è con te».

«Per il momento non mi sembra», disse James. «Blocca la portiera».

C’era una brezza fredda. James tirò su la cerniera della giacca a vento fino al

collo, e lei chiuse bene il cappotto. Si sentivano le onde frangersi sulle rocce ai

piedi della scogliera dietro l’edificio. Lei disse: «Prima vorrei una delle tue

sigarette».

Si fermarono sotto il lampione all’angolo. Era un lampione mezzo sgangherato,

tenuto su con cavi di rinforzo. I cavi oscillavano nel vento, creando ombre

sull’asfalto.

«Quando smetterai di fumare?», disse lui, accendendosi una sigaretta dopo

avere acceso quella di Edith.

«Quando smetterai tu», disse lei. «Smetterò quando smetterai tu. Proprio come

quando hai smesso di bere. Così. Come te».

«Potrei insegnarti a lavorare a piccolo punto», disse lui.

«Uno che ricama in casa è più che sufficiente», disse lei.

La prese per il braccio e continuarono a camminare.

Quando giunsero all’ingresso, lei buttò per terra la sigaretta e la calpestò.

Salirono su per la scala fino al foyer. Nel locale c’era un divano, un tavolo di

legno, e alcune sedie pieghevoli accatastate. Alle pareti erano appese fotografie di

barche da pesca e di navi, tra cui una dove si vedeva una barca capovolta, con un

uomo in piedi sulla chiglia che agitava le braccia.

I Packer attraversarono il foyer, e quando infilarono il corridoio James prese

Edith per il braccio. In fondo al corridoio, accanto alla porta, alcune signore del

circolo prendevano nota di quelli che entravano nella grande sala dove una donna

in piedi sul palco annunciava i numeri della partita che era già iniziata.

I Packer si affrettarono verso il loro solito tavolo. Ma il posto dei Packer era

occupato da una giovane coppia.

Sia la ragazza sia l’uomo con i capelli lunghi che l’accompagnava, erano in

jeans. Lei aveva addosso anelli, braccialetti e orecchini che la facevano luccicare

tutta nella luce lattiginosa. Proprio quando i Packer si avvicinarono, la ragazza si

girò verso il tipo che era con lei, e indicò un numero sulla sua cartella. Poi gli

pizzicò il braccio.

L’uomo portava i capelli tirati all’indietro, annodati dietro la testa, e i Packer

notarono anche un’altra cosa, un anellino d’oro al lobo dell’orecchio.

Page 46: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

James condusse Edith a un altro tavolo, girandosi di nuovo a guardarli prima

di sedersi. Si levò la giacca a vento e aiutò Edith a togliersi il cappotto, e poi

squadrò la coppia che aveva occupato il loro posto. La ragazza verificava le sue

cartelle man mano che venivano estratti i numeri, piegandosi in avanti per

controllare anche quelle dell’uomo, come se, pensò James, quel tipo non fosse

capace di badare da solo ai suoi numeri.

James prese la pila di cartelle per la tombola, che era stata preparata sul

tavolo. Ne diede la metà a Edith.

«Scegline qualcuna vincente», disse. «Perché io prenderò le prime tre sopra. È

inutile che le scelga. Edith, questa sera sento di non avere fortuna».

«Non badarci», disse lei. «Non fanno male a nessuno. Sono solo giovani, tutto

qua».

Lui disse: «Ma questa è la solita tombola del venerdì sera per quelli del

circolo».

«È un paese libero», disse lei.

Gli restituì la pila di cartelle. Lui le posò dall’altra parte del tavolo. Poi tutti e

due presero un po’ di fagioli dalla scodella.

James sfilò un biglietto da un dollaro dal rotolo che teneva per le serate di

tombola. Mise il dollaro vicino alle sue cartelle. Una delle signore del circolo, una

donna magra con i capelli azzurrini e una macchia sul collo - i Packer la

conoscevano solo come Alice - tra poco sarebbe arrivata con un barattolo del

caffè. Avrebbe ritirato le monete e scambiato le banconote, tirando fuori il resto

dal barattolo. Era questa, o un’altra donna, a pagare le vincite.

La donna sul palco annunciò «1-25», e qualcuno nella sala gridò «Tombola!».

Alice si fece largo tra i tavoli. Prese la cartella vincente e la tenne in mano

mentre la donna sul palco leggeva i numeri vincenti.

«È proprio tombola», confermò Alice.

«Quella tombola, signori e signore, vale dodici dollari!», annunciò la donna sul

palco. «Congratulazioni al vincitore!».

I Packer giocarono altre cinque partite senza risultato.

James ci andò vicino, una volta, con una delle sue cartelle. Ma poi furono

estratti cinque numeri di fila che lui non aveva, e il quinto fece fare tombola a

qualcun altro.

«Stavi quasi per farcela», disse Edith. «Tenevo d’occhio la tua cartella». - «Una

Page 47: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

vera tortura», disse James.

Inclinò la cartella e si fece scivolare i fagioli nella mano. Chiuse la mano a

pugno. Fece ballare i fagioli nel pugno. Ricordò qualcosa di un ragazzo che aveva

buttato dei fagioli dalla finestra. Era un ricordo molto lontano, che lo rese

malinconico.

«Cambiamo cartelle magari», disse Edith.

«Non è la mia serata», disse James.

Guardò di nuovo la giovane coppia. Stavano ridendo per qualcosa che aveva

detto l’uomo. James notò che non facevano caso a nessuno nella sala.

Alice fece un giro per raccogliere i soldi della partita successiva, e James,

appena fu estratto il primo numero, vide il tipo con i jeans posare un fagiolo su

una cartella che non aveva pagato. Fu estratto un altro numero, e James vide che

il tipo rifaceva la stessa cosa. Era strabiliato. Non riusciva a concentrarsi sulle

sue cartelle. Continuava ad alzare lo sguardo per vedere cosa faceva il tipo con i

jeans.

«James, guarda le tue cartelle», disse Edith. «Non hai segnato N-34. Sta

attento».

«Quel tipo laggiù al nostro posto sta barando. Non riesco a credere ai miei

occhi», disse James. «Come fa a barare?», disse Edith.

«Sta giocando su una cartella che non ha pagato», disse James. «Qualcuno

dovrebbe denunciarlo».

«Non tu, caro», disse Edith. Parlava adagio e cercava di tenere gli occhi sulle

sue cartelle. Mise un fagiolo su un numero.

«Quel tipo sta barando», disse James.

Lei tirò fuori un fagiolo dal palmo della mano e lo mise su un numero. «Gioca

sulle tue cartelle», disse Edith.

Lui vi gettò un’occhiata. Ma sapeva che avrebbe anche potuto lasciar perdere,

per questa partita. Chissà quanti numeri si era perso, quanto era rimasto

indietro. Strinse forte i fagioli nel pugno.

La donna sul palco annunciò: «G-60».

Qualcuno urlò: «Tombola!».

«Cristo!», disse James Packer.

Venne annunciato un intervallo di dieci minuti. La prima partita dopo

l’intervallo sarebbe stata un Blackout, un dollaro a cartella, chi vince prende

Page 48: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

tutto, novantotto dollari il monte premi di questa settimana.

Ci furono fischi e applausi.

James osservò la coppia. L’uomo guardava fisso il soffitto toccandosi l’anellino

all’orecchio. La ragazza gli teneva una mano sulla gamba.

«Devo andare in bagno», disse Edith. «Dammi le tue sigarette».

James disse: «Io intanto vado a prendere qualche biscotto con l’uva passa e

un po’ di caffè».

«Io vado in bagno», disse Edith.

Ma James Packer non andò a prendere i biscotti e il caffè.

Andò a mettersi dietro la sedia del tipo con i jeans. «Lo vedo quello che fai»,

disse James. L’uomo si voltò.

«Scusi?», disse fissandolo. «Che cos’è che faccio?».

«Lo sai», disse James.

La ragazza lasciò a mezzo il biscotto che stava mangiando.

«Uomo avvisato», disse James. Tornò al suo tavolo. Stava tremando.

Quando Edith tornò, gli restituì le sigarette e si sedette, senza parlare; non era

del suo solito umore. James la guardò attentamente. Disse: «Edith, è successo

qualcosa?».

«Ho di nuovo delle perdite», disse.

«Perdite?», disse lui. Ma sapeva bene cosa voleva dire. «Perdite», disse ancora,

sottovoce.

«Oh, cielo», disse Edith Packer, prendendo in mano le cartelle e facendole

passare per sceglierle. «Sarà bene che torniamo a casa», disse lui.

Lei continuava a scegliere le cartelle. «No, restiamo», disse. «Sono solo perdite,

tutto qui».

Lui le toccò la mano.

«Restiamo», disse lei. «Andrà tutto a posto».

«Questa è la peggior serata di tombola della storia», disse James Packer.

Giocarono a Blackout, con James che teneva d’occhio il tipo coi jeans. Quello

aveva ricominciato, stava di nuovo giocando su una cartella che non aveva

pagato. Di tanto in tanto, James controllava come stava Edith. Ma non riusciva a

capire. Teneva le labbra strette. Poteva significare tutto: decisione,

preoccupazione, dolore. O forse era solo che le piaceva tenere le labbra strette per

questo particolare tipo di gioco.

Page 49: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

A lui mancavano solo tre numeri su una cartella, cinque su un’altra, e non

aveva alcuna possibilità sulla terza, quando l’uomo coi jeans cominciò a urlare:

«Tombola! Tombola! Tombola! Una tombola, qui!».

Il tipo batteva le mani e urlava insieme alla ragazza. «Ha fatto tombola! Ha

fatto tombola, gente! Tombola!».

Il tipo coi jeans continuava ad applaudire.

Fu proprio la donna del palco ad avvicinarsi al tavolo della ragazza per

controllare i numeri con quelli del tabellone.

Disse: «Questa ragazza ha fatto tombola, e questa è una vincita da novantotto

dollari! Facciamole un bell’applauso, signori! C’è una tombola qui! Un Blackout.».

Edith applaudì insieme agli altri. Ma James tenne le mani sul tavolo.

Il tipo coi jeans abbracciò la ragazza quando dal palco la donna le consegnò la

vincita.

«Li useranno per comprarsi la droga», disse James.

Restarono per tutte le altre tombole. Restarono fino all’ultimo gioco. Questo si

chiamava Progressive, e il monte premi aumentava di settimana in settimana se

nessuno faceva tombola dopo un certo numero di estrazioni.

James puntò i suoi soldi e controllò le sue cartelle senza alcuna speranza di

vincere. Aspettava che il tipo coi jeans urlasse «Tombola!».

Ma non vinse nessuno, e il monte premi sarebbe rimasto per la settimana

successiva, più ricco che mai.

«Fine della tombola per stasera!», proclamò la signora sul palco. «Grazie a tutti

per essere venuti. Dio vi benedica e buona notte».

I Packer si misero in coda con tutti gli altri per uscire dalla sala, riuscendo in

qualche modo a infilarsi dietro al tipo coi jeans e alla sua ragazza. La videro che

si toccava tutta soddisfatta la tasca. La videro passare un braccio intorno alla vita

di lui.

«Lasciamoli andare avanti questi due», disse James all’orecchio di Edith. «Mi

dà fastidio vederli». Edith non rispose. Ma restò un po’ indietro per dare alla

coppia il tempo di allontanarsi.

Fuori, si era levato il vento. James era convinto di sentire il rumore delle onde

sopra quello dei motori che si avviavano. Vide la coppia fermarsi al camioncino.

Ma sicuro. Avrebbe dovuto capirlo subito.

«Bischero», disse James Packer.

Page 50: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Edith andò in bagno e chiuse la porta. James si tolse la giacca a vento e

l’appoggiò sullo schienale del divano. Accese il televisore e si sedette ad aspettare.

Dopo un po’ Edith uscì dal bagno. James cercò di concentrare la sua

attenzione sulla televisione. Edith andò in cucina e fece scorrere l’acqua. James

la sentì chiudere il rubinetto. Edith entrò nella stanza e disse:

«Domattina andrò dal dottor Crawford. Mi sembra che stia proprio succedendo

qualcosa là sotto».

«Fortuna schifosa», disse James.

Lei restò lì in piedi, scrollando la testa.

Quando James le si avvicinò per prenderla tra le braccia, lei si coprì gli occhi e

si appoggiò a lui. «Edith, carissima Edith», disse James Packer.

Si sentiva goffo e terrorizzato. Restò lì in piedi, sorreggendo più o meno con le

braccia sua moglie. Lei si protese verso il viso di lui e lo baciò sulle labbra, e poi

gli augurò la buona notte.

Lui andò al frigorifero. Rimase davanti alla porta aperta, a bere succo di

pomodoro e a esaminare tutto quello che c’era dentro. Sentì l’aria fredda sulla

faccia. Guardò i pacchetti e i contenitori per il cibo sui ripiani, un pollo coperto

con un foglio di plastica, tutte le cose avvolte per bene, ordinate. Richiuse la porta

e sputò l’ultimo sorso di succo di pomodoro nel lavandino. Poi si sciacquò la

bocca e si preparò una tazza di caffè solubile. Se la portò in soggiorno. Si sedette

davanti al televisore e accese una sigaretta. Si rese conto che bastava un niente

per mandare tutto in malora. Fumò e finì il suo caffè, e poi spense il televisore.

Andò fino alla porta della camera da letto e rimase un po’ ad ascoltare. Si

vergognò di stare a origliare, di starsene lì in piedi.

Perché non qualcun altro? Perché non quei due di stasera? Perché non tutti

quelli che non hanno mai problemi? Perché non loro invece di Edith?

Si allontanò dalla porta della camera da letto. Pensò di uscire a fare quattro

passi. Ma adesso il vento soffiava molto forte, tanto che si sentivano gemere i

rami della betulla dietro casa.

Tornò a sedersi davanti al televisore. Ma non l’accese. Fumò e pensò al modo

di camminare arrogante e disinvolto di quei due quando gli erano passati davanti.

Se soltanto l’avessero saputo! Se qualcuno almeno glielo avesse detto. Anche solo

una volta!

Chiuse gli occhi. Si sarebbe alzato presto e avrebbe preparato la colazione.

Page 51: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

L’avrebbe accompagnata dal dottor Crawford. Se a quei due fosse toccato di stare

con lui nella sala d’aspetto! Glielo avrebbe detto lui che cosa c’era da aspettarsi!

Li avrebbe messi a posto lui quei due stronzi.

Gli avrebbe detto cosa si dovevano aspettare dopo i jeans e gli orecchini, le

toccatine e il barare al gioco.

Si alzò e andò nella stanza degli ospiti, e accese la lampada sopra il letto.

Diede un’occhiata alle sue carte, ai registri dei conti e alla calcolatrice sul tavolo.

In un cassetto trovò un pigiama. Tirò giù le coperte del letto. Poi uscì dalla stanza

e attraversò tutta la casa spegnendo le luci e controllando le porte. Restò un po’

alla finestra di cucina a guardare l’albero agitato dal vento.

Lasciò accesa la luce del portico e tornò nella stanza degli ospiti. Spostò il

cestino del lavoro a maglia, prese il suo cestino da ricamo, e si sistemò sulla

sedia. Alzò il coperchio e tirò fuori il telaio di metallo. Teso sopra, c’era un panno

di lino bianco. Tenendo l’ago sottile contro luce, James Packer infilzò la cruna con

una gugliata di seta azzurra. Poi si mise al lavoro - punto dopo punto -

immaginandosi di agitare le braccia come l’uomo sulla chiglia.

Page 52: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Tanta acqua così vicino a casa

Mio marito mangia con molto appetito. Ma non credo che abbia veramente

fame. Mastica, con le braccia sul tavolo, e fissa qualcosa sulla parete di fronte.

Guarda verso di me, poi distoglie lo sguardo. Si pulisce la bocca col tovagliolo.

Alza le spalle, e continua a mangiare.

«Perché mi fissi?», dice. «Cosa c’è?», dice posando la forchetta.

«Ti stavo fissando?», dico scuotendo la testa.

Suona il telefono.

«Non rispondere», dice lui.

«Potrebbe essere tua madre», dico io.

«Prova a sentire», dice.

Io alzo la cornetta e ascolto. Mio marito smette di mangiare.

«Cosa ti avevo detto?», dice quando riattacco. Ricomincia a mangiare. Poi

butta il tovagliolo sul piatto. Dice: «Accidenti, perché la gente non si fa gli affari

suoi? Ditemi cosa ho fatto di male e allora vi darò retta. Non ero l’unico uomo

presente. Ne abbiamo discusso e abbiamo preso una decisione tutti insieme. Non

potevamo andarcene. Eravamo a otto chilometri dalla macchina. Non ti permetto

di giudicare. Capito?».

«Tu lo sai», dico io.

Lui dice: «Che cosa so, Claire? Dimmi cosa dovrei sapere. Io non so niente

tranne una cosa». Mi rivolge quella che, secondo lui, è un’occhiata carica di

significato. «Era morta», dice. «E mi dispiace come potrebbe dispiacere a

chiunque. Ma era morta». «Questo è il punto», dico io.

Alza le mani. Spinge via la sedia dal tavolo. Prende le sigarette e va fuori in

giardino con una lattina di birra. Lo vedo sedersi sulla sdraio e riprendere in

mano il giornale.

Il suo nome è in prima pagina. Insieme ai nomi dei suoi amici.

Chiudo gli occhi e mi aggrappo al lavandino. Poi passo il braccio sullo

scolatoio e butto tutti i piatti per terra.

Lui non si muove. Lo so che ha sentito. Alza la testa come se stesse ancora

ascoltando. Per il resto non si muove. Non si volta.

Page 53: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Lui, Gordon Johnson, Mel Dorn e Vern Williams giocano a poker e a bowling e

vanno a pesca. Vanno a pesca in primavera e all’inizio dell’estate, per evitare le

visite dei parenti. Sono uomini perbene, padri di famiglia, uomini che hanno a

cuore il proprio lavoro. Hanno figli e figlie che vanno a scuola con nostro figlio

Dean.

Venerdì scorso questi padri di famiglia partirono per andare al Naches River.

Lasciarono la macchina in montagna e proseguirono a piedi fino al punto in cui

intendevano pescare. Si portarono dietro i sacchi a pelo, le provviste, le carte da

gioco, il whiskey.

Videro la ragazza prima ancora di piantare le tende. La trovò Mel Dorn.

Addosso non aveva nulla. Era incastrata tra i rami che si affacciavano sull’acqua.

Chiamò gli altri che accorsero a vedere. Discussero sul da farsi. Uno degli

uomini - il mio Stuart non ha detto chi - sosteneva che era bene tornare subito

indietro. Gli altri pesticciavano la sabbia, dicendo che non se la sentivano.

Tirarono in ballo la stanchezza, l’ora tarda, il fatto che tanto la ragazza di lì non si

sarebbe mossa.

Alla fine decisero di piantare le tende. Accesero il fuoco e bevvero whiskey.

Quando si alzò la luna, parlarono della ragazza. Qualcuno disse che bisognava

impedire al corpo di scivolare via. Presero le torce e tornarono al fiume. Uno degli

uomini - potrebbe essere stato Stuart - entrò nell’acqua per recuperare la

ragazza. La prese per le dita e la tirò sulla riva. Prese una corda di nylon, gliela

legò intorno ai polsi assicurando l’altro capo a un albero.

La mattina dopo prepararono la colazione, bevvero caffè e whiskey, poi,

ognuno per conto proprio, andarono a pescare. Quella sera cucinarono pesce e

patate, bevvero caffè e whiskey, poi portarono i piatti e gli utensili da cucina giù

al fiume, e li lavarono proprio dove si trovava la ragazza.

Più tardi giocarono a carte. Probabilmente giocarono finché non riuscirono più

a vederle. Vern Williams andò a dormire. Ma gli altri rimasero a raccontare storie.

Gordon Johnson disse che le trote che avevano pescato erano dure perché l’acqua

era terribilmente fredda.

La mattina dopo si alzarono tardi, bevvero whiskey, pescarono un po’,

smontarono le tende, arrotolarono i sacchi a pelo, raccolsero la loro roba, e si

misero in cammino. Una volta in macchina cercarono un telefono. Fu Stuart a

fare la telefonata, gli altri rimasero al sole ad ascoltare. Diede i loro nomi allo

Page 54: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

sceriffo. Non avevano niente da nascondere. Non si vergognavano. Dissero che

avrebbero aspettato finché fosse arrivato qualcuno per avere indicazioni più

precise e raccogliere le loro deposizioni.

Dormivo quando tornò a casa. Ma mi svegliai sentendolo entrare in cucina. Lo

trovai appoggiato al frigorifero con una lattina di birra in mano. Mi strinse con le

sue pesanti braccia e mi strofinò le sue manone sulla schiena. A letto mi mise

addosso di nuovo le sue mani e poi rimase in attesa, come pensando a

qualcos’altro. Mi girai e aprii le gambe. Dopo, credo che sia rimasto sveglio.

Quella mattina era già alzato prima che scendessi dal letto. Per vedere se c’era

qualcosa sui giornali, credo.

Il telefono cominciò a squillare subito dopo le otto.

«Andate al diavolo!», lo sentii gridare.

Subito dopo ci furono altri squilli.

«Non ho niente da aggiungere a quello che ho già detto allo sceriffo!».

Sbatté giù la cornetta.

«Che sta succedendo?», chiesi.

Allora mi raccontò quello che vi ho appena raccontato.

Raccolgo con la scopa i piatti rotti ed esco. È sull’erba ora, sdraiato supino, il

giornale e la lattina a portata di mano.

«Stuart, che ne dici di andare a fare un giro in macchina?», dico.

Lui si volta su un fianco e mi guarda. «Andiamo a prendere della birra», dice.

Si alza in piedi e passandomi vicino mi tocca il fianco. «Dammi un minuto», dice.

Attraversiamo la cittadina senza parlare. Stuart si ferma a un minimarket

lungo la strada per comprare la birra. Dietro la porta, noto una grossa pila di

giornali. Sul gradino d’ingresso una donna grassa con un vestito fantasia dà un

bastoncino di liquirizia a una bambina. Più tardi, attraversiamo l’Everson e

giriamo nello spiazzo per i picnic. Il torrente passa sotto il ponte e poche centinaia

di metri più oltre finisce in un laghetto. Vedo degli uomini laggiù. Vedo che

pescano.

Tanta acqua così vicino a casa.

Dico: «Era necessario fare tanti chilometri?».

«Non rompere», dice lui.

Ci sediamo su una panca al sole. Apre una lattina di birra. Dice: «Rilassati,

Claire».

Page 55: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Dicevano che erano innocenti. Dicevano che erano pazzi».

Lui dice: «Chi?». Dice: «Di cosa stai parlando?».

«I fratelli Maddox. Hanno ammazzato una ragazza che si chiamava Arlene

Hubly proprio dove sono nata e cresciuta. Le hanno tagliato la testa e l’hanno

buttata nel Cle Elum River. È successo quand’ero ragazzina».

«Ma allora vuoi proprio rompere», dice lui.

Io guardo il torrente. Ci sono dentro, occhi sbarrati, faccia in giù, a guardare

la melma sul fondo, morta.

«Non so cosa ti prende», dice lui mentre torniamo a casa. «Mi dai sempre più

sui nervi».

Non so pensare a niente da dirgli.

Cerca di concentrarsi sulla strada. Ma continua a guardare nello specchietto

retrovisore.

Lui sa.

Stuart è convinto di avermi lasciato dormire stamattina. Ma io ero sveglia

molto prima che sonasse la sveglia. Stavo pensando, sdraiata sulla sponda del

letto, lontano dalle sue gambe pelose.

Manda Dean a scuola, e poi si rasa, si veste, e va a lavorare. Si affaccia in

camera due volte e si schiarisce la gola. Ma io tengo gli occhi chiusi.

In cucina trovo un suo biglietto. Sopra la firma c’è scritto «Con amore».

Mi siedo in un angolo a bere una tazza di caffè che lascia una macchia

circolare sul biglietto. Do un’occhiata al giornale e lo giro e lo rigiro sul tavolo. Poi

lo faccio scivolare verso di me e leggo. Il corpo è stato identificato, reclamato. Ma

è stato necessario esaminarlo, infilargli dentro delle cose, tagliarlo, misurarlo,

rimettere a posto delle cose e cucirle.

Sto lì seduta a pensare per un sacco di tempo, col giornale in mano. Poi

telefono per fissare un appuntamento dal parrucchiere.

Mi siedo sotto il casco con una rivista sulle ginocchia, e lascio che Marnie mi

faccia le mani. «Domani vado a un funerale», dico.

«Mi dispiace», dice Marnie.

«È stato un omicidio», dico.

«Il genere peggiore», dice Marnie.

«Non che fossimo molto intime», dico. «Ma sa com’è».

«Non dubiti che sarà in ordine domani», ha detto Marnie.

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La sera mi faccio il letto sul divano, e alla mattina sono la prima ad alzarmi.

Metto su il caffè e preparo la colazione mentre lui si rade.

Compare sulla porta della cucina, l’asciugamano sulle spalle nude, con l’aria

di valutare la situazione.

«Ecco il caffè», dico. «Le uova saranno pronte tra un minuto».

Sveglio Dean, e tutti e tre mangiamo. Ogni volta che Stuart mi guarda, chiedo

a Dean se vuole ancora latte, pane tostato, ecc.

«Ti telefono oggi», dice Stuart aprendo la porta.

Io dico: «Non credo che sarò in casa oggi».

«Va bene», dice. «Certo».

Mi vesto con cura. Provo un cappello e mi guardo allo specchio. Scrivo un

biglietto a Dean.

Tesoro, questo pomeriggio la mamma ha da fare ma tornerà più tardi. Tu

resta in casa o va’ al parco giochi finché uno di noi non torna.

Un bacio, mamma

Guardo la parola bacio e la sottolineo. Poi vedo parco giochi. Ci vuole il

trattino o no?

Guido in aperta campagna, tra campi di avena e barbabietole, meleti e

bestiame che pascola. Poi tutto cambia, più baracche che cascine, più vivai che

frutteti. Poi montagne, e sulla destra, molto sotto, qualche volta intravedo il

Naches River.

Dietro a me c’è un camioncino verde che mi resta attaccato per chilometri. Io

continuo a rallentare nei momenti sbagliati, sperando che mi sorpassi. Poi

accelero. Ma anche questo nei momenti sbagliati. Afferro stretto il volante finché

le dita mi fanno male.

Mi sorpassa su un lungo rettilineo deserto. Ma resta affiancato per un po’, un

uomo coi capelli a spazzola e una camicia di tela azzurra. Ci guardiamo. Lui

saluta, suona il clacson, e accelera.

Io rallento e trovo una piazzola. Accosto e spengo il motore. Si sente il rumore

del fiume, giù sotto gli alberi. Poi sento il camioncino che torna indietro.

Chiudo la portiera e alzo il finestrino.

«Sta bene?», dice l’uomo. Batte sul vetro. «Si sente bene?». Appoggia le braccia

contro la portiera e avvicina la faccia al finestrino.

Io lo fisso. Non saprei che altro fare.

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«Tutto bene? Come mai si è chiusa dentro?».

Io scuoto la testa.

«Tiri giù il finestrino». Scuote la testa, guarda l’autostrada e poi di nuovo me.

«Lo tiri giù adesso».

«La prego», dico. «Devo andare».

«Apra la portiera», dice come se non sentisse. «Soffocherà là dentro».

Mi guarda i seni, le gambe. Ne sono sicura.

«Ehi, tesoro», dice. «Sono qui solo per dare una mano, nient’altro».

La bara è chiusa e coperta di corone di fiori. Nell’attimo in cui mi siedo

comincia a suonare l’organo. La gente sta entrando e prendendo posto. C’è un

ragazzo in pantaloni scampanati e camicia gialla a maniche corte. Si apre una

porta; entra la famiglia in gruppo, e avanza di lato verso uno spazio chiuso da

tende. Le sedie scricchiolano mentre la gente si mette seduta. Dritto davanti a noi

un bell’uomo biondo con un bel completo scuro, in piedi, ci chiede di chinare la

testa. Recita una preghiera per noi, i viventi, e quando ha finito dice una

preghiera per l’anima della scomparsa.

Io sfilo insieme agli altri davanti alla bara. Poi esco sulla scalinata nella luce

del pomeriggio. C’è una donna che scende davanti a me zoppicando. Sul

marciapiede si guarda intorno. «Bè, lo hanno preso», dice. «Se questa è una

consolazione. L’hanno arrestato stamattina. L’ho sentito alla radio prima di

venire. Un ragazzo, proprio di qui, del paese».

Facciamo qualche passo sul marciapiede infuocato. La gente mette in moto le

macchine. Io allungo una mano e mi tengo al contatore del parcheggio. Cofani e

parafanghi che luccicano. Mi gira la testa.

Dico: «Questi assassini hanno sempre degli amici. Non si può mai sapere».

«Conoscevo quella bambina fin da piccola», dice la donna. «Ogni tanto veniva a

trovarmi, e io le facevo i biscotti e glieli lasciavo mangiare davanti al televisore».

A casa, Stuart è seduto al tavolo davanti a un bicchiere di whiskey. Per un

folle istante penso che sia successo qualcosa a Dean.

«Dov’è?», dico. «Dov’è Dean?».

«Fuori», dice mio marito.

Vuota il bicchiere e si alza. Dice: «Credo di sapere di cosa hai bisogno».

Mi mette un braccio intorno alla vita e con l’altra mano comincia a

sbottonarmi la giacca e poi la camicetta.

Page 58: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Prima le cose importanti», dice.

Dice qualcos’altro. Ma non ho bisogno di ascoltare. Non sento niente con tutta

quest’acqua che scorre.

«Giusto», dico, finendo di sbottonarmi da sola. «Prima che arrivi Dean. Svelto».

Page 59: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

La terza cosa che uccise mio padre

Vi racconterò che cosa uccise mio padre. La terza cosa fu Dummy, la morte di

Dummy. La prima cosa fu Pearl Harbor. E la seconda fu il trasferimento alla

fattoria di mio nonno, vicino a Wenatchee. È là che mio padre finì i suoi giorni,

anche se probabilmente erano già finiti da un pezzo.

Mio padre attribuì la colpa della morte di Dummy alla moglie. Poi diede la

colpa ai pesci. E alla fine a se stesso -perché fu lui a mostrare a Dummy,

sull’ultima pagina del «Field and Stream», la pubblicità del persico trota, che

spedivano vivo per posta in tutti gli Stati Uniti.

Fu dopo aver ricevuto i pesci che Dummy cominciò a comportarsi in modo

strano. I pesci cambiarono completamente la sua personalità. Almeno così diceva

mio padre.

Non ho mai saputo il vero nome di Dummy. Se qualcuno lo sapeva, io non l’ho

mai sentito dire.

Era Dummy allora, ed è come Dummy che lo ricordo adesso. Era un uomo

piccolo e rugoso, con la testa pelata, basso ma molto robusto di gambe e di

braccia. Se sorrideva, cosa che accadeva di rado, gli si ritiravano le labbra sopra i

denti rovinati e scuri. Questo gli dava un’aria astuta. I suoi occhi acquosi ti

stavano incollati alla bocca quando parlavi - e quando stavi zitto, si spostavano

su qualche altro strano punto del corpo.

Non credo che fosse davvero sordo. Almeno non così sordo come faceva

credere. Ma di certo non poteva parlare. Questo è garantito.

Sordo o no, Dummy aveva lavorato come manovale alla segheria fin dagli anni

Venti. Era la Cascade Lumber Company di Yakima, Washington. Negli anni in cui

l’ho conosciuto, Dummy si occupava delle pulizie. E in tutti quegli anni non l’ho

mai visto con addosso qualcosa di diverso: un cappello di feltro, una camicia

color cachi, e un giubbotto di jeans sopra la tuta. Nelle tasche del giubbotto

portava dei rotoli di carta igienica, dato che uno dei suoi compiti era pulire e

rifornire i gabinetti. Quell’incombenza era piuttosto impegnativa visto che gli

operai del turno di notte avevano l’abitudine di portarsi via un rotolo o due nelle

gavette.

Page 60: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Dummy portava con sé una torcia, anche se lavorava di giorno. Più le chiavi

inglesi, le pinze, i cacciaviti, il nastro isolante, tutto quello che portavano gli

operai della segheria. Bè, lo prendevano sempre in giro per quella sua mania di

portarsi tutto addosso. Carl Lowe, Ted Slade e Johnny Wait erano quelli che lo

sfottevano di più. Ma Dummy non se la prendeva. Credo che ci fosse abituato.

Mio padre non sfotteva mai Dummy. Non che io sappia, almeno. Papà era un

omone con le spalle larghe, i capelli a spazzola, il doppio mento, e una pancia di

cospicue dimensioni. Dummy stava sempre a fissargli la pancia. Entrava nel

reparto della piallatura dove lavorava mio padre e si sedeva su uno sgabello a

guardargli la pancia mentre usava le grandi mole a smeriglio sulle seghe.

Dummy aveva una casa non peggiore di altre.

Era un coso ricoperto di carta catramata vicino al fiume, otto o nove

chilometri fuori città. Un chilometro dietro la casa, alla fine di un campo, c’era

una grande cava che lo stato aveva fatto scavare quando le strade della zona

erano state pavimentate; C’erano rimaste tre grosse buche, che negli anni si

erano riempite d’acqua. Poi, col tempo, i laghetti si erano uniti in uno.

Era profondo. Aveva un aspetto piuttosto cupo.

Dummy, oltre alla casa, aveva una moglie. Era una donna molto più giovane

di lui che dicevano andasse con i messicani. Secondo papà erano voci messe in

giro da pettegoli come Lowe, Wait e Slade.

Era una donna piccola e tozza con occhietti luccicanti. La prima volta che la

vidi, notai quegli occhi. Ero in giro in bicicletta con Pete Jensen e ci fermammo da

Dummy a chiedere un bicchier d’acqua.

Quando aprì la porta le dissi che ero il figlio di Del Fraser. Dissi: «Lavora

con...». E poi mi resi conto che non sapevo il suo vero nome. «Sa, suo marito.

Eravamo in giro in bicicletta e abbiamo pensato che potesse darci qualcosa da

bere».

«Aspettate qui», disse lei.

Tornò con due tazzine di latta piene d’acqua, una per mano. Buttai giù la mia

d’un fiato.

Ma lei non ce ne offrì un’altra. Ci scrutò senza dire niente. Quando fummo sul

punto di risalire in bicicletta, si spinse fino al limite del portico.

«Se avevate una macchina, ragazzi, magari venivo a farmi un giro».

Sorrise. Aveva dei denti troppo grandi per la sua bocca. «Andiamo», disse Pete,

Page 61: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

e ce ne andammo. Non c’erano molti posti dove pescare persico trota nel nostro

stato. C’erano soprattutto trote iridate e marmorate nei torrenti di alta montagna,

e trote silver nel Blue Lake e a Lake Rimrock. Questo era tutto, eccetto i passaggi

di salmoni in certi corsi d’acqua dolce nell’autunno inoltrato. Ma se eri un

pescatore, ce n’era abbastanza per tenerti occupato. Nessuno pescava il persico

trota. Un sacco di gente che conoscevo non ne aveva mai visto uno se non in

fotografia. Ma mio padre ne aveva visti parecchi quand’era bambino in Arkansas e

Georgia, e nutriva grandi speranze nel persico trota di Dummy, per via che

Dummy era un amico.

Il giorno che arrivarono i pesci ero andato a nuotare alla piscina comunale. Mi

ricordo di essere tornato a casa e uscito di nuovo per andare a prenderli, dato che

papà voleva dare una mano a Dummy: tre vasche spedite per posta da Baton

Rouge, Louisiana.

Andammo con il camioncino di Dummy, papà, Dummy e io.

Risultò poi che queste tre vasche erano in realtà dei barili, imballati in casse

di assi di pino.

Stavano all’ombra dietro al deposito merci, e ci volle la forza di Dummy e di

mio papà insieme per sollevare ogni cassa e metterla nel camion.

Dummy guidò molto piano attraverso la città e altrettanto piano fino a casa

sua. Poi attraversò il cortile di casa senza fermarsi. E proseguì fino a pochi passi

dallo stagno. Poiché ormai era quasi buio, tenne i fari accesi e tirò fuori da sotto il

sedile un martello e un piede di porco, poi insieme trascinarono le casse fino

all’acqua e cominciarono ad aprire la prima.

Il barile all’interno era tutto avvolto in tela da imballaggio, e sul coperchio

c’erano dei buchi grandi come monetine. Aprirono il barile e Dummy puntò la

torcia.

Sembrava che contenesse un milione di pesciolini tutti in movimento. Era una

cosa stranissima, tutti quegli esserini vivi che si muovevano lì dentro, come un

piccolo oceano arrivato in treno. Dummy trascinò il barile fino ai bordi dell’acqua

e lo rovesciò. Prese la torcia e illuminò lo stagno. Ma non c’era più niente da

vedere. Si sentiva il rumore delle rane, ma questo succedeva sempre non appena

faceva buio.

«Lascia che prenda io le altre casse», disse mio padre, e allungò la mano per

prendere il martello dalla tuta di Dummy. Ma Dummy si ritrasse scuotendo la

Page 62: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

testa.

Sballò le altre due casse da solo, lasciando sulle assi delle scure macchie di

sangue, poiché si era ferito a una mano.

Da quella notte in poi, Dummy non fu più lo stesso.

Adesso non permetteva più a nessuno di avvicinarsi. Aveva messo un recinto

tutt’intorno al campo, e poi cintato lo stagno col filo spinato attraversato dalla

corrente elettrica. Dicevano che in quel recinto avesse impiegato tutti i suoi

risparmi.

È ovvio che mio padre non ebbe più niente a che fare con Dummy. Non dopo

che Dummy lo ebbe cacciato via. Non perché pescasse, per carità, visto che i

pesci erano ancora neonati. Gli proibì anche solo di dare un’occhiata.

Due anni dopo, una sera in cui papà si trattenne al lavoro fino a tardi e io gli

portai la cena e una brocca di tè freddo, lo trovai che parlava con Syd Glover, il

padrone della segheria. Proprio mentre stavo entrando, sentii papà che diceva:

«Sembra proprio che quell’idiota li abbia sposati i suoi pesci, da come si

comporta».

«Se sono vere certe voci», disse Syd, «quel recinto farebbe meglio a metterlo

intorno alla casa».

A quel punto mio padre si accorse della mia presenza e lo vidi fare un segnale

con gli occhi a Syd Glover.

Ma un mese dopo papà riuscì a convincere Dummy. Fece così: gli disse che

era necessario ridurre il numero di pesci deboli per far posto agli altri. Dummy

fissava il pavimento tirandosi un orecchio. Papà disse che ci sarebbe andato

l’indomani mattina perché era una cosa che andava fatta. Dummy veramente non

disse mai di sì. Solo che non disse mai di no, ecco. Tutto quello che fece fu di

darsi un’altra tirata all’orecchio.

Quando papà rientrò quel giorno, io ero già pronto e aspettavo. Avevo tirato

fuori le sue vecchie esche e stavo provando col dito gli ami a tre punte.

«Ci sei?», mi urlò, saltando giù dalla macchina. «Io vado al gabinetto, tu metti

dentro la roba. Puoi guidare tu, se vuoi».

Avevo cacciato tutto sul sedile posteriore e stavo provando il volante, quando

lui tornò fuori con in testa il cappello da pesca, mangiando una fetta di torta che

teneva con tutt’e due le mani.

La mamma stava sulla porta a guardare. Era una donna con la pelle chiara, i

Page 63: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

capelli biondi raccolti in una crocchia stretta, fissata da un fermaglio di Strass.

Mi chieda se in quei giorni felici lei se ne sia mai andata in giro, o cosa facesse

veramente.

Lasciai andare il freno a mano. La mamma rimase a guardare finché non

cambiai marcia, poi, sempre senza sorridere, tornò dentro.

Era un bel pomeriggio. Tenevamo tutti i finestrini abbassati per fare circolare

l’aria. Attraversammo il Moxee Bridge e svoltammo a ovest sulla Slater Road. La

strada era fiancheggiata da campi di erba medica, e più avanti da campi di mais.

Papà teneva la mano fuori dal finestrino. Lasciava che il vento gliela spingesse

indietro. Era agitato, lo vedevo benissimo.

Non ci volle molto per arrivare da Dummy. Lui uscì di casa col cappello in

testa. Sua moglie guardava dalla finestra.

«Hai preparato la padella?», gridò papà a Dummy, ma Dummy rimase lì

impalato a fissare la macchina. «Ehi, Dummy», urlò papà. «Ehi, Dummy, dove hai

la canna, Dummy?».

Dummy alzò e abbassò il capo di scatto. Spostò il peso da una gamba all’altra

e guardò prima a terra, poi noi.

Teneva la lingua fuori, sul labbro inferiore, poi cominciò a rovistare nella terra

col piede.

Io mi caricai la nassa sulle spalle. Passai a papà la sua canna e presi la mia.

«Possiamo andare?», disse papà. «Ehi, Dummy, siamo pronti?».

Dummy si tolse il cappello e, con la stessa mano, si passò il polso sulla testa.

Si girò bruscamente, e lo seguimmo sul terreno soffice del campo. Più o meno

ogni sei metri un beccaccino saltava fuori dai ciuffi d’erba sull’orlo dei vecchi

solchi.

Alla fine del campo il terreno declinava leggermente e diventava secco e

roccioso, con cespugli di ortica e sterpi sparsi qua e là. Piegammo a destra,

seguendo delle vecchie tracce di macchine, e passammo attraverso un campo di

asclepiadi che ci arrivavano alla vita, con i baccelli secchi in cima agli steli che

cricchiavano rabbiosi al nostro passaggio. In quel momento vidi il luccichio

dell’acqua sopra alla spalla di Dummy, e sentii papà gridare: «Oh, Dio, guarda!».

Ma Dummy rallentò, continuando ad alzare la mano e a spostare il cappello

avanti e indietro sulla testa; poi si bloccò di colpo.

Papà disse: «Allora che ne dici, Dummy? Va bene qualunque posto? Da che

Page 64: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

parte dobbiamo avvicinarci secondo te?».

Dummy si inumidì il labbro inferiore.

«Che ti succede, Dummy?», disse papà. «Questo è il tuo stagno, no?».

Dummy abbassò lo sguardo e scacciò una formica dalla tuta.

«Al diavolo», disse papà sbuffando. Tirò fuori l’orologio. «Se non hai niente in

contrario, ci andiamo prima che faccia buio».

Dummy si ficcò le mani in tasca e si voltò verso lo stagno.

Riprese a camminare. Noi lo seguivamo in fila indiana. Si riusciva a vedere

tutto lo stagno adesso, con l’acqua increspata dai pesci che venivano a galla. Ogni

tanto un pesce guizzava fuori e si rituffava con uno spruzzo. Sentii mio padre che

diceva: «Signore Iddio».

Ci avvicinammo allo stagno in un punto privo di vegetazione, una specie di

spiaggia di sassi.

Papà mi fece un segnale e si accovacciò. Mi piegai anch’io. Stava scrutando

l’acqua davanti a noi, e quando guardai a mia volta, capii che cosa l’aveva tanto

colpito.

«Bontà divina», bisbigliò.

Un branco di venti, trenta pesci, nessuno sotto il chilo, si aggirava nello

stagno. Si allontanarono, poi cambiarono direzione e tornarono indietro, così

vicini che sembrava andassero a sbattere l’uno contro l’altro. Mentre passavano,

riuscii a vedere i loro grandi occhi dalle spesse palpebre, che ci fissavano. In un

lampo sparirono e tornarono.

Era come se ci provocassero. Non faceva nessuna differenza che stessimo

accovacciati o in piedi. Quei pesci non si curavano affatto di noi. Era una vista da

lasciare sbalorditi, veramente.

Restammo lì seduti per un po’, guardando quel branco di pesci vagare

innocentemente per i fatti propri, mentre Dummy non la finiva più di far

schioccare le dita e di guardarsi intorno come se aspettasse di veder sbucare fuori

qualcuno. In tutto lo stagno i pesci affioravano in superficie oppure saltavano

fuori e ricadevano dentro, o nuotavano sul pelo dell’acqua con le pinne dorsali

fuori.

Al segnale di papà ci alzammo per pescare. Giuro che tremavo per l’emozione.

Quasi non riuscivo a staccare l’esca dall’impugnatura di sughero della mia canna.

Proprio mentre cercavo di estrarre l’amo, sentii Dummy che mi afferrava le spalle

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con le sue grosse dita. Lo guardai, e in risposta Dummy girò il mento verso papà.

Era chiaro quel che voleva: non più di una canna alla volta.

Papà si tolse il cappello e se lo rimise, poi venne verso di me.

«Comincia tu, Jack», disse. «Non preoccuparti, figliolo, va’ tu ora».

Un attimo prima del lancio guardai Dummy. La faccia gli si era irrigidita, e un

filo di bava gli colava sul mento.

«Gira forte il mulinello appena dà lo strappo», disse papà. «Quei figli di puttana

hanno bocche dure come sassi».

Feci scattare la levetta del mulinello e buttai indietro il braccio. La lenza finì

una dozzina di metri più in là. L’acqua ribolliva ancora prima che avessi il tempo

di tendere il filo.

«Prendilo!», gridò papà. «Prendi quel figlio di puttana! Tienilo saldo!».

Tirai la lenza con forza, due volte. Aveva abboccato, eccome. La canna era

piegata e sussultava. Papà continuava a gridarmi che cosa dovevo fare.

«Allenta adesso, lascialo andare! Lascialo correre! Dagli più filo! Ora

riavvolgilo! Riavvolgilo! No, lascialo correre! Guarda un po’ cosa fa!».

Il pesce saltava intorno allo stagno. Ogni volta che emergeva dall’acqua

scuoteva la testa così forte che si sentiva tintinnare l’amo. Poi ripartiva. Pian

piano lo stancai, riuscii a tirarlo vicino. Era enorme, forse tre o quattro chili.

Stava sdraiato su un fianco, vinto, a bocca aperta, con le branchie in azione. Le

ginocchia mi tremavano così forte che mi reggevo a malapena in piedi. Ma tenni la

canna dritta, la lenza tesa.

Papà entrò nell’acqua fino alle caviglie. Ma quando raggiunse il pesce, Dummy

cominciò a farfugliare, scuotendo la testa, agitando le braccia.

«Che diavolo ti succede ora, Dummy? Il ragazzo ha acchiappato il persico trota

più grosso che abbia mai visto, e puoi star certo che non lo ributterà in acqua,

per Dio!».

Dummy continuò la sua scena gesticolando in direzione dello stagno.

«Guarda che non lascerò andare il pesce che ha preso il ragazzo. Mi senti,

Dummy? Fatti venire un’altra idea se è questo che stai pensando».

Dummy allungò il braccio verso la mia lenza. Nel frattempo il pesce aveva

ripreso un po’ di forza. Si girò e ricominciò a nuotare. Io gridai, poi persi la testa e

schiacciai il freno del mulinello e cominciai a riavvolgere. Il pesce fece un’ultima,

furiosa corsa.

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E fu la fine. Il filo si ruppe. E io per poco non caddi all’indietro.

«Andiamo, Jack», disse papà, e lo vidi afferrare la sua canna. «Accidenti a quel

cretino, andiamo prima che lo stenda».

A febbraio il fiume straripò.

Aveva nevicato parecchio le prime settimane di dicembre, e sotto Natale arrivò

un gran freddo. Il terreno gelò. La neve rimase dov’era. Ma verso la fine di

gennaio, ci arrivò addosso il vento Chinook. Una mattina svegliandomi sentii il

vento sferzare la casa e l’acqua scendere ininterrotta dal tetto. Soffiò per cinque

giorni; il terzo giorno il livello del fiume cominciò ad alzarsi.

«Cinque metri», disse una sera mio padre, alzando gli occhi dal giornale. «Un

metro di più di quanto basta perché straripi. Il vecchio Dummy sta per perdere i

suoi tesori».

Volevo andare giù al Moxee Bridge a vedere quant’era alta l’acqua. Ma papà

non mi diede il permesso. Diceva che non c’è niente da vedere in un’alluvione.

Due giorni più tardi l’acqua raggiunse il livello più alto e poi cominciò a

scendere.

Una mattina della settimana seguente, andai da Dummy in bicicletta con Orin

Marshall e Danny Owens. Lasciammo le biciclette e a piedi attraversammo il

campo che confinava con la proprietà di Dummy.

Era una giornata umida, da temporale, con le nuvole nere e sfilacciate che si

muovevano veloci nel cielo. Il terreno era zuppo e finivamo continuamente nelle

pozzanghere nascoste dall’erba alta.

Danny, che per l’appunto stava imparando a bestemmiare, riempì l’aria con le

migliori che sapeva ogni volta che sprofondava nell’acqua oltre la caviglia. Alla

fine del campo si vedeva il fiume ingrossato. L’acqua era ancora alta e fuori dal

suo letto, e turbinava intorno ai tronchi degli alberi sgretolando l’argine di terra.

Verso il centro, la corrente scorreva rapida e pesante, e ogni tanto si vedeva

passare un cespuglio, o un albero con i rami protesi.

Arrivammo al recinto di Dummy e trovammo una mucca incastrata tra i fili.

Era gonfia e aveva la pelle lucida e grigia. Era la prima cosa morta che avessi mai

visto, di qualunque dimensione. Ricordo che Orin prese un bastone e le toccò gli

occhi aperti.

Camminammo lungo il recinto, verso il fiume. Avevamo paura di avvicinarci ai

fili perché temevamo che avessero ancora la corrente. Ma sul bordo di quello che

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sembrava un profondo canale, la recinzione finiva. Qui la terra era semplicemente

sprofondata nell’acqua, e la recinzione insieme a lei.

Attraversammo e seguimmo il canale che solcava il terreno di Dummy, e

andava dritto nello stagno, per poi uscire dalla parte opposta, e infine serpeggiare

fino al punto in cui si univa al fiume, più avanti.

Era chiaro che si era portato via quasi tutti i pesci di Dummy. Ma quelli che

erano scampati erano liberi di andare e venire.

Poi vidi Dummy. Mi spaventò vederlo così. Feci un cenno agli altri e ci

chinammo.

Dummy stava sulla sponda opposta dello stagno, vicino al punto in cui la

corrente era forte. Stava lì e basta, l’uomo più triste che avessi mai visto.

«Certo che mi spiace per il vecchio Dummy», disse mio padre a tavola, poche

settimane dopo. «Bada, quel povero diavolo se l’è proprio voluta. Ma come fai a

non sentirti male per lui?».

Papà continuò dicendo che George Laycock aveva visto la moglie di Dummy

seduta allo Sportsman’s Club con un messicano grande e grosso.

«E questo è solo l’inizio...».

La mamma gli lanciò un’occhiataccia e poi guárdenme. Ma io continuai a

mangiare come se niente fosse.

Papà disse: «Ma che diavolo, Bea, il ragazzo è grande abbastanza!».

Era molto cambiato, Dummy. Non si avvicinava più agli operai, se poteva

evitarlo. Nessuno era più in vena di scherzare con lui, non da quando aveva

rincorso Carl Lowe con un pezzo di legno in mano, dopo che Carl gli aveva fatto

volar via il cappello. Ma il peggio è che ora Dummy si assentava dal lavoro in

media un giorno o due alla settimana, e correva voce che lo avrebbero licenziato.

«Quello sta per toccare il fondo», disse papà. «Pazzo completo se non ci sta

attento».

Poi una domenica pomeriggio, proprio prima del mio compleanno, papà e io

stavamo pulendo il garage. Era una giornata calda e ventosa. Si vedeva la polvere

fluttuare nell’aria. La mamma si affacciò alla porta del cortile e disse: «Del, è per

te. Credo che sia Vern».

Seguii papà in casa per lavarmi. Quando finì di parlare, mise giù la cornetta e

si girò verso di noi. «Si tratta di Dummy», disse. «Ha ammazzato sua moglie con

un martello e si è affogato. Vern l’ha appena saputo in paese».

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Quando arrivammo noi c’erano macchine parcheggiate tutt’intorno. Il cancello

del campo era aperto, e si vedevano dei solchi di gomme in direzione dello stagno.

La porta di casa era tenuta socchiusa con una scatola, e sulla soglia c’era un

uomo magro, con la faccia butterata, in borghese, con una fondina a tracolla. Ci

osservò mentre scendevamo dalla macchina.

«Ero suo amico», disse papà a quell’uomo.

Lui scosse la testa. «Non mi importa chi è lei. Si tolga dai piedi se non ha

niente da fare qui».

«Lo hanno trovato?», disse papà.

«Stanno dragando», disse l’uomo, assestando meglio la pistola nella fondina.

«Niente in contrario se andiamo fin giù? Lo conoscevo bene».

L’uomo disse: «Faccia un po’ come crede. Se la cacciano via, non dica che non

l’avevo avvisato». Attraversammo il campo, prendendo più o meno la stessa strada

del giorno in cui avevamo tentato di pescare. C’erano dei motoscafi nello stagno, e

fumi neri di gas sul pelo dell’acqua. Si vedeva dove l’acqua alta aveva eroso la

terra e trascinato via alberi e pietre. Sulle due barche che andavano avanti e

indietro c’erano due uomini in divisa, uno alla guida e l’altro che maneggiava la

fune e gli uncini.

Un’ambulanza attendeva sulla spiaggia di ghiaia dove quel giorno eravamo

andati a pescare i pesci di Dummy. Appoggiati allo sportello posteriore c’erano

due uomini vestiti di bianco, che fumavano. Uno dei motoscafi si fermò di colpo.

Tutti alzarono gli occhi in quella direzione. L’uomo che era a poppa si alzò e

cominciò a tirare la fune. Dopo un po’ emerse dall’acqua un braccio. A quanto

pareva gli uncini avevano afferrato Dummy per il fianco. Il braccio si inabissò e

poi ritornò su, insieme a una specie di fagotto.

Non è lui, pensai. E qualcos’altro che è stato là per anni.

L’uomo andò a poppa, e insieme i due uomini issarono a bordo quella cosa

grondante.

Guardai papà. La sua faccia aveva preso una piega strana.

«Le donne», disse. «Ecco a cosa può ridurti il tipo di donna sbagliato, Jack».

Ma non penso che papà ci credesse veramente. Penso che non sapesse a chi

dare la colpa o cosa dire.

Ho l’impressione che da quel momento tutto gli sia andato storto. Proprio

come Dummy, non era più la stessa persona. Quel braccio che andava su e giù

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nell’acqua fu come un addio ai bei tempi e un buongiorno alla sventura. Perché

dopo che Dummy si è annegato in quelle acque buie gli anni non hanno portato

che questo.

È questo che succede quando muore un amico? Cattiva sorte per gli amici che

si è lasciato dietro? Ma come ho detto, Pearl Harbor e il dover tornare a vivere in

casa di suo padre non furono certo salutari per il mio papà.

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Un discorso serio

La macchina di Vera era lì ed era la sola, e di questo Burt fu ben lieto. Sterzò

nel vialetto e si fermò accanto alla torta che gli era caduta la sera prima. Era

ancora lì, la teglia di alluminio capovolta, un alone di ripieno di zucca sul

selciato. Era il giorno dopo Natale.

A Natale era venuto a trovare la moglie e i figli. Vera lo aveva messo in guardia

in anticipo. Gli aveva detto tutto chiaro e tondo. Se ne sarebbe andato entro le sei

perché veniva a cena il suo amico con i figli.

Si erano seduti in soggiorno e avevano solennemente aperto i regali che Burt

aveva portato. Avevano aperto i suoi pacchetti mentre altri pacchetti avvolti in

carte colorate restavano sotto l’albero in attesa dell’ora di cena.

Aveva osservato i figli mentre aprivano i loro regali, e aspettato che Vera

disfacesse il nastro del suo. La vide togliere la carta, alzare il coperchio, tirare

fuori il golf di cachemire.

«È carino», disse. «Grazie Burt».

«Provalo», disse la figlia.

«Mettitelo», disse il figlio.

Burt guardò il figlio, grato per il sostegno.

Lei lo misurò. Andò in camera da letto e ne uscì con il golf addosso.

«È carino», disse.

«È carino addosso a te», disse Burt, e sentì qualcosa gonfiarglisi in petto.

Aprì i suoi regali. Da Vera, un buono per il reparto uomo di Sondheim’s. Dalla

figlia, un pettine e una spazzola coordinati. Dal figlio, una penna a sfera.

Vera offrì delle bibite e fecero quattro chiacchiere. Ma soprattutto guardarono

l’albero. Poi sua figlia si alzò e cominciò ad apparecchiare la tavola in sala da

pranzo, e suo figlio andò in camera sua.

Ma a Burt piaceva stare lì. Stava bene davanti al caminetto, con il bicchiere in

mano, nella sua casa, il suo rifugio.

Poi Vera andò in cucina.

Di tanto in tanto sua figlia entrava nella sala da pranzo con qualcosa per la

tavola. Burt la osservava. La vide piegare i tovaglioli di lino dentro i bicchieri da

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vino. Livide mettere un vaso sottile al centro della tavola. La vide infilare un fiore

nel vaso con una cura infinita.

Un tronchetto di cera e segatura bruciava sulla grata. In uno scatolone per

terra ce n’erano pronti altri cinque. Si alzò dal divano e li mise tutti nel camino.

Rimase a guardarli finché presero fuoco. Poi finì la sua bibita e si avviò alla porta

del patio. Passando, vide le torte allineate sulla credenza. Le impilò e le caricò

sulle braccia, tutte e sei, una per ogni dieci volte che lei lo aveva tradito.

Nel vialetto, al buio, ne lasciò cadere una mentre armeggiava con la portiera.

La porta principale era rimasta chiusa dalla sera in cui gli si era rotta dentro

la chiave. Fece il giro e andò sul retro. Alla porta del patio era appesa una

ghirlanda. Picchiò sul vetro. Vera indossava l’accappatoio. Guardò verso di lui

aggrottando le sopracciglia. Socchiuse la porta.

Burt disse: «Voglio chiederti scusa per ieri sera. Voglio chiedere scusa anche

ai ragazzi».

Vera disse: «Non ci sono».

Lei stava sulla soglia e lui nel patio, accanto al filodendro. Si tolse una filaccia

dalla manica.

«Non ne posso più», disse lei. «Hai cercato di dare fuoco alla casa».

«No, non è vero».

«Sì, che è vero. Tutti qui erano testimoni».

Lui disse: «Posso entrare, così ne parliamo?».

Lei si chiuse l’accappatoio alla gola e tornò dentro.

Disse: «Devo uscire fra un’ora».

Lui si guardò intorno. Le luci dell’albero si accendevano e si spegnevano. In

fondo al divano c’era un mucchio di carta da regalo e scatole lucide. La carcassa

di un tacchino stava su un piatto al centro della tavola da pranzo, con gli avanzi

rinsecchiti su un letto di prezzemolo come in un orribile nido. Una piramide di

cenere riempiva il camino. C’erano dentro anche delle lattine vuote di Shasta

Cola. Un baffo di fumo saliva su per i mattoni fino alla mensola del caminetto,

dove la tavola di legno era annerita dal fuoco.

Si voltò e tornò in cucina.

Disse: «A che ora se n’è andato il tuo amico, ieri sera?».

Lei disse: «Se cominci così, puoi andartene subito».

Lui tirò fuori una sedia e si sedette al tavolo di cucina, davanti al grande

Page 72: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

portacenere. Chiuse gli occhi e li riaprì. Scostò la tenda e guardò fuori in

giardino. Vide una bicicletta capovolta, senza la ruota anteriore. Vide le erbacce

che crescevano lungo la palizzata di sequoia.

Lei riempì d’acqua una pentola. «Ti ricordi il giorno del Ringraziamento?»,

disse. «Dissi allora che quella era l’ultima festa che ci avresti rovinato. Mangiare

uova e pancetta invece del tacchino, alle dieci di sera».

«Lo so», disse lui. «Ho detto che mi dispiace».

«Non basta».

L’accensione automatica della cucina non funzionava. Lei era davanti ai

fornelli che cercava di accendere il gas sotto la pentola d’acqua.

«Non ti bruciare», disse lui. «Stai attenta a non prendere fuoco».

Immaginò l’accappatoio che prendeva fuoco, lui che schizzava in piedi, la

buttava per terra e la faceva rotolare fino al salotto, dove l’avrebbe coperta col suo

corpo. O avrebbe dovuto correre in camera da letto a prendere una coperta?

«Vera».

Lei lo guardò.

«Hai niente da bere? Mi ci vorrebbe qualcosa da bere stamattina».

«C’è della vodka nel freezer».

«Da quando tieni la vodka nel freezer?».

«Non fare domande».

«Okay», disse lui. «Non farò domande».

Tirò fuori la vodka e ne versò un po’ in una tazza che aveva trovato sul

ripiano.

Lei disse: «La bevi così, in una tazza?». Disse: «Cristo, Burt. Di che cosa vuoi

parlare, insomma?

Ti ho detto che devo uscire. Ho una lezione di flauto all’una».

«Prendi ancora lezioni di flauto?».

«L’ho appena detto. Cosa c’è? Dimmi cos’hai in mente, che poi mi devo

preparare».

«Volevo dirti che mi dispiace».

«Lo hai già detto».

«Se hai un qualsiasi succo di frutta, allungo un po’ la vodka».

Lei aprì il frigorifero e spostò qualche contenitore.

«C’è del succo di mele e mirtilli», disse.

Page 73: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Va bene», disse lui.

«Io vado in bagno», disse lei.

Lui mandò giù la vodka col succo di mele e mirtilli. Accese una sigaretta e

lanciò il fiammifero nel grande portacenere che da sempre stava sul tavolo in

cucina. Esaminò i mozziconi che c’erano dentro. Alcuni erano della marca di

sigarette di Vera e altri no. Certi erano addirittura color lavanda. Si alzò e buttò

via il tutto sotto il lavandino.

Il portacenere non era un vero portacenere. Era un grande piatto di ceramica

che avevano comprato da un vasaio con la barba, sulla passeggiata di Santa

Clara. Lo sciacquò e lo asciugò. Lo rimise sul tavolo. E poi ci schiacciò dentro la

sigaretta.

L’acqua sul fornello cominciò a bollire proprio nel momento in cui si mise a

suonare il telefono.

La sentì aprire la porta del bagno e gridare attraverso il soggiorno: «Rispondi!

Io sto per fare la doccia».

L’apparecchio in cucina era sul ripiano, in un angolo dietro la teglia del forno.

Lui spostò la teglia e alzò la cornetta.

«C’è Charlie?», disse la voce.

«No», disse Burt.

«Okay», disse la voce.

Mentre si occupava del caffè, il telefono suonò di nuovo. «Charlie?».

«Non c’è», disse Burt.

Stavolta lasciò la cornetta staccata.

Vera tornò in cucina in jeans e maglione, spazzolandosi i capelli.

Lui mise qualche cucchiaino di caffè solubile nelle tazze di acqua calda, poi

nella sua versò un po’ di vodka. Portò le tazze sul tavolo.

Lei raccolse la cornetta e l’avvicinò all’orecchio. Disse: «Cos’è questo? Chi era

al telefono?». «Nessuno», disse lui. «Chi fuma sigarette colorate?».

«Io».

«Non lo sapevo». «Bè, ora lo sai».

Vera sedette dalla parte opposta del tavolo e bevve il caffè. Fumarono e si

servirono del portacenere.

Tante erano le cose che lui voleva dire, cose tristi, cose consolanti, cose così.

«Fumo tre pacchetti al giorno», disse Vera. «Se davvero ti interessa sapere cosa

Page 74: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

sta succedendo qui».

«Mio Dio», disse Burt.

Vera annuì.

«Non sono venuto per sentire queste cose», disse lui.

«Cosa sei venuto a sentire, allora? Volevi sentire che la casa è andata a

fuoco?».

«Vera», disse. «È Natale. Per questo sono venuto».

«È il giorno dopo Natale», disse lei. «Natale è già passato», disse. «Non voglio

più vederne un altro».

«E io allora?», disse lui. «Credi che io sia contento quando arrivano le feste?».

Il telefono squillò ancora. Fu Burt a rispondere. «È qualcuno che vuole

Charlie», disse. «Cosa?». «Charlie», disse Burt.

Vera prese il ricevitore. Mentre parlava gli dava le spalle. Poi si girò e disse:

«Vado a rispondere dalla camera da letto. Ti dispiace attaccare dopo che ho alzato

di là? Guarda che me ne accorgo, quindi attacca quando te lo dico».

Lui prese il ricevitore. Lei uscì dalla cucina. Burt alzò il ricevitore all’orecchio e

si mise ad ascoltare. Non sentì niente. Poi udì un uomo che si schiariva la voce. E

infine Vera che alzava l’altro ricevitore. Gridò: «Okay, Burt! L’ho presa ora, Burt!».

Lui riattaccò e rimase a guardare il telefono. Aprì il cassetto delle posate e

spostò qualche oggetto. Aprì un altro cassetto. Guardò nel lavandino. Andò nella

sala da pranzo e prese il coltello dell’arrosto. Lo tenne sotto l’acqua calda finché il

grasso si sciolse. Asciugò la lama sulla manica. Andò verso il telefono, piegò in

due il filo, e lo tranciò senza la minima difficoltà. Esaminò le due estremità del

filo. Poi spinse di nuovo il telefono nel suo angolo dietro la teglia del forno.

Lei entrò. Disse: «È caduta la linea. Hai fatto qualcosa al telefono?». Guardò

l’apparecchio e lo sollevò dal ripiano.

«Figlio di puttana!», gridò. Gridò: «Fuori, fuori, vattene!». Gli sbatté il telefono

sotto il naso. «Chiederò al giudice che ti proibisca di vedere i bambini, ecco cosa

farò».

Il telefono emise un ding quando Vera lo sbatté sul ripiano.

«Vado dai vicini a chiamare la polizia se non te ne vai immediatamente!».

Lui afferrò il portacenere per il bordo. Si mise nella posizione di uno che sta

per lanciare il disco. «Ti prego», disse lei. «Quello è il nostro portacenere».

Lui uscì dalla porta del patio. Non ne era sicuro, ma credeva di avere

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dimostrato qualcosa. Sperava di avere messo una cosa in chiaro. Che presto

dovevano fare un discorso serio. C’erano cose di cui era necessario parlare, cose

importanti che andavano affrontate. Avrebbero parlato ancora. Magari dopo le

feste, quando tutto fosse tornato alla normalità. Le avrebbe detto che quel

maledetto portacenere era un maledetto piatto, per esempio.

Evitò di calpestare la torta nel vialetto e risalì in macchina. Mise in moto e

innestò la marcia indietro. Gli fu difficile far manovra finché non posò il

portacenere.

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La calma

Ero dal barbiere a tagliarmi i capelli. Stavo sulla sedia e c’erano tre uomini

seduti lungo il muro, dalla parte opposta della stanza. Due di loro non li avevo

mai visti. Ma l’altro lo riconobbi, anche se non mi ricordavo bene chi fosse.

Tenevo gli occhi su di lui mentre il barbiere mi tagliava i capelli. L’uomo, un tipo

corpulento, con capelli corti ondulati, si stava frugando in bocca con uno

stuzzicadenti. Poi di colpo me lo vidi in divisa con un berretto, gli occhietti all’erta

nell’atrio di una banca.

Degli altri due, uno era decisamente più vecchio, con una gran testa di capelli

grigi e ricciuti. Stava fumando. Il terzo, sebbene non fosse vecchio, era quasi

calvo in cima alla testa, ma ai lati i capelli gli coprivano le orecchie. Portava

scarponcini alti e pantaloni lucidi di olio di motore.

Il barbiere mi mise una mano sulla testa per farmela girare e guardarla

meglio. Poi disse alla guardia: «Lo hai preso il tuo cervo, Charles?».

Mi piaceva quel barbiere. Non ci conoscevamo abbastanza da chiamarci per

nome. Ma quando entravo per farmi tagliare i capelli mi riconosceva sempre.

Sapeva che andavo a pescare. Così parlavamo di pesca. Non credo che andasse a

caccia. Ma era capace di parlare di qualsiasi argomento. In questo senso era un

buon barbiere.

«Bill, è una storia assurda. Veramente pazzesca», disse la guardia. «L’ho preso

e non l’ho preso. Quindi sì e no, è la risposta alla tua domanda».

Non mi piaceva la voce di quell’uomo, non era adatta a una guardia. Non era

la voce che ti saresti aspettato.

Gli altri due uomini alzarono lo sguardo. L’uomo più anziano stava fumando e

sfogliava una rivista, l’altro guardava un giornale. Entrambi posarono ciò che

avevano in mano e si girarono per ascoltare la guardia.

«Continua, Charles», disse il barbiere. «Sentiamo».

Mi fece girare di nuovo la testa e si rimise a lavorare di forbici.

«Eravamo su a Fikle Ridge. Il mio vecchio, io e il ragazzo. Eravamo a caccia

lungo i torrenti in secca. Il vecchio era appostato sul greto di uno, e io e il ragazzo

sul greto di un altro. Il ragazzo aveva i postumi di una sbornia, accidenti a lui.

Page 77: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Era verde e continuò a bere acqua tutto il giorno facendo fuori la sua razione e la

mia. Ormai era pomeriggio ed eravamo fuori dall’alba. Ma non avevamo perso le

speranze. Secondo i nostri calcoli i cacciatori che stavano più in basso avrebbero

stanato un cervo spingendolo nella nostra direzione. Stavamo quindi seduti dietro

un ceppo a tenere d’occhio il letto del torrente quando abbiamo sentito degli spari

nella valle».

«Ci sono dei frutteti laggiù», disse il tipo col giornale. Non riusciva a star fermo

e continuava ad accavallare una gamba, facendo oscillare lo scarponcino per un

po’ prima di accavallare l’altra. «E intorno ai frutteti si aggirano i cervi».

«È vero», disse la guardia. «Quei bastardi ci vanno di notte a mangiarsi le mele

quando sono ancora verdi. Bè, abbiamo sentito questi spari e stavamo proprio lì a

far niente quando questo vecchio, grosso maschio, salta fuori dal sottobosco a

meno di un centinaio di metri. Il ragazzo lo vede nello stesso istante in cui lo vedo

io, naturalmente, e si mette subito a sparare. L’imbecille. Quel vecchio cervo non

correva alcun pericolo. Certo non da parte del ragazzo.

Ma il cervo non capisce da dove vengono gli spari. Non sa da che parte saltare.

Allora io sparo un colpo. Ma nella confusione riesco soltanto a tramortirlo».

«A tramortirlo?», disse il barbiere.

«Hai capito bene, tramortirlo», disse la guardia. «Era un colpo nelle budella. Lo

tramortisce e basta. Il cervo abbassa la testa e comincia a tremare. Trema tutto. Il

ragazzo sta ancora sparando. A me sembrava di essere tornato in Corea. Perciò

sparo ancora ma lo manco. Poi il vecchio Signor Cervo se ne torna nel bosco. Ma

ora, per Dio, non ha più nessuna forza. Il ragazzo ha scaricato il suo maledetto

fucile per niente. Ma io ho colpito nel segno. Gliene ho ficcato uno nelle budella.

Questo volevo dire quando ho detto tramortirlo».

«Poi cos’è successo?», disse il tipo che stava battendo sul ginocchio il giornale

arrotolato. «Poi cos’è successo? Lo avrete inseguito. Quelli ogni volta trovano un

posto difficile per morire».

«Lo avete davvero inseguito?», chiese l’uomo più anziano, anche se non era

proprio una domanda. «Certo. Io e il ragazzo, l’abbiamo inseguito, sì. Ma il

ragazzo non è stato di nessun aiuto. Si sente male per la strada, fa perdere tempo

anche a me. Quel buono a nulla». La guardia fu costretta a ridere adesso,

ripensando alla situazione. «Beve birra e va a donne tutta la notte, e poi dice che

è capace di andare a caccia di cervi. Ora ha capito qualcosa di più, per Dio.

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Comunque, certo, lo abbiamo inseguito. È anche una buona traccia. Sangue sul

terreno e sangue sulle foglie. Sangue dappertutto. Mai visto un cervo con tanto

sangue. Non so come facesse quel disgraziato ad andare avanti».

«Certe volte non si fermano più», disse l’uomo col giornale. «Quelli ogni volta si

trovano un posto difficile per morire».

«Ho dato una strapazzata al ragazzo che aveva mancato il bersaglio, e quando

mi ha risposto tutto risentito gliene ho mollato uno di quelli giusti. Proprio qua».

La guardia indicò la tempia e rise. «L’ho preso a ceffoni quel deficiente. Non è

troppo vecchio per prenderle. Se l’è meritato. Ma il fatto è che era buio e poi,

come fare col ragazzo che rimaneva indietro e vomitava».

«Bè, adesso ce l’avranno i coyote quel cervo», disse il tipo con il giornale. «Loro,

i corvi e le poiane».

Srotolò il suo giornale, lo lisciò tutto, e lo mise da parte. Accavallò di nuovo le

gambe. Diede uno sguardo intorno a tutti noi e scosse la testa.

L’uomo più anziano si era girato e stava guardando fuori dalla finestra. Accese

una sigaretta.

«È quello che penso anch’io», disse la guardia. «Proprio un peccato. Era un

figlio di puttana grande e grosso. Tornando alla tua domanda, Bill, il mio cervo

l’ho preso e non l’ho preso. Ma in tavola abbiamo avuto comunque della

cacciagione. Perché salta fuori che il vecchio nel frattempo aveva preso un piccolo

cerbiatto. Lo ha già portato al campo, appeso e scuoiato, bello e liscio come un

fischietto, fegato, cuore e rognoni avvolti nella carta oleata e già sistemati nella

borsa frigorifera.

Un cerbiatto. Un affarino piccolo piccolo. Ma il vecchio sì che era euforico».

La guardia girò gli occhi intorno come se stesse ricordando. Poi prese lo

stuzzicadenti e se lo ricacciò in bocca.

L’uomo più anziano spense la sigaretta e si voltò verso la guardia. Prese fiato e

disse: «Adesso dovresti essere là fuori a cercare quel cervo, invece di stare qui a

farti tagliare i capelli».

«Come ti permetti di parlarmi così», disse la guardia. «Vecchio rimbambito. Ti

ho già visto da qualche parte».

«Ti ho già visto anch’io», disse il vecchio.

«Ragazzi ora basta. Questo è il mio negozio», disse il barbiere.

«Dovrei prendere a ceffoni te», disse il vecchio.

Page 79: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Provaci», disse la guardia. «Charles», disse il barbiere.

Posò la spazzola e le forbici sul ripiano e mi mise le mani sulle spalle, come se

credesse che avessi intenzione di balzare dalla sedia e buttarmi nella mischia.

«Albert, sono anni che taglio i capelli a Charles e a suo figlio. Vorrei che lasciassi

perdere».

Il barbiere guardò prima l’uno poi l’altro, sempre tenendomi le mani sulle

spalle.

«Andate fuori», disse il tipo col giornale, rosso in faccia, sperando di veder

succedere qualcosa. «Basta così», disse il barbiere. «Charles, non voglio sentire

un’altra parola su questo argomento. Albert, tocca a te. Ora». Il barbiere si girò

verso il tipo col giornale. «Non ho il piacere di conoscerla, signore, ma le sarei

grato se non si impicciasse».

La guardia si alzò in piedi. Disse: «Credo che ripasserò più tardi. In questo

momento la compagnia lascia a desiderare».

Uscì e chiuse la porta con un colpo secco.

Il vecchio era rimasto seduto e fumava. Diede un’occhiata fuori. Esaminò

qualcosa sul dorso della mano. Si alzò e si mise il cappello.

«Mi spiace, Bill», disse il vecchio. «Posso tenermeli ancora qualche giorno».

«Non ti preoccupare, Albert», disse il barbiere.

Dopo che il vecchio fu uscito, il barbiere si avvicinò alla vetrina per guardarlo

mentre si allontanava.

«Albert sta morendo di enfisema», disse il barbiere dalla vetrina. «Una volta

andavamo a pesca insieme. Mi ha insegnato tutto sul salmone. E le donne.

Strisciavano ai suoi piedi. Ora però gli è spuntato un caratteraccio. Ma,

onestamente, la provocazione c’era».

L’uomo col giornale non riusciva a stare fermo. Era in piedi e girava per il

negozio, fermandosi a esaminare tutto, l’attaccapanni, le fotografie di Bill e dei

suoi amici, il calendario del ferramenta con una scena diversa per ogni mese

dell’anno. Lo sfogliò pagina per pagina. Arrivò persino al punto di esaminare la

licenza di Bill, che era incorniciata sul muro. Poi si girò e disse: «Me ne vado

anch’io», e se ne andò davvero.

«Allora, devo finire di sistemarli questi capelli o no?», mi disse il barbiere,

come se fossi io la causa di tutto.

Il barbiere fece girare la sedia per mettermi dritto davanti allo specchio. Mi

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prese la testa tra le mani. Mi sistemò nella posizione giusta prima di abbassare la

sua testa accanto alla mia. Guardammo nello specchio insieme, con le sue mani

che ancora mi incorniciavano la testa.

Io mi guardai e anche lui mi guardò. Ma se il barbiere vide qualcosa, non fece

commenti.

Mi passò le dita tra i capelli. Lentamente, come se stesse pensando a

qualcos’altro. Mi passò le dita tra i capelli. Teneramente, come avrebbe fatto un

amante.

Questo avvenne a Crescent City, in California, su vicino al confine con

l’Oregon. Me ne andai subito dopo. Ma oggi ripensavo a quel posto, a Crescent

City, e a come proprio lì avevo cercato di ricominciare una nuova vita con mia

moglie, e a come quella mattina, nella poltrona del barbiere, avevo deciso di

andarmene. Ripensavo alla calma che provai quando chiusi gli occhi lasciando

che le dita del barbiere scorressero tra i miei capelli; alla dolcezza di quelle dita,

ai capelli che già cominciavano a ricrescere.

Page 81: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Meccanica popolare

(Nell’originale, «Popular Mechanics», che è anche il titolo di un mensile)

La mattina presto il tempo era cambiato e la neve stava sciogliendosi in acqua

sporca. Scorreva giù a rivoli dalla piccola finestra all’altezza della spalla che dava

sul giardinetto dietro la casa. Fuori le macchine schizzavano fango sulla strada,

dove stava diventando buio. Ma stava diventando buio anche in casa.

Lui era in camera da letto che cacciava i vestiti in valigia, quando lei comparve

sulla porta.

Sono contenta che tu te ne vada! Sono contenta che tu te ne vada! ha detto.

Mi senti?

Lui continuò a mettere la sua roba in valigia.

Figlio di puttana! Sapessi come sono contenta che tu te ne vada! Cominciò a

piangere. Non riesci nemmeno a guardarmi in faccia, eh?

Poi lei vide la fotografia del bambino sul letto e la prese in mano.

Lui la guardò e lei si asciugò gli occhi e ricambiò lo sguardo prima di voltarsi

per tornare in soggiorno.

Ridammela, disse lui.

Prendi la tua roba e vattene, disse lei.

Lui non rispose. Chiuse la valigia, s’infilò il cappotto, e diede un’occhiata alla

camera prima di spegnere la luce. Poi andò in soggiorno.

Lei era in piedi sulla porta della piccola cucina, con il neonato in braccio.

Voglio il bambino, disse lui. Sei impazzito?

No, ma voglio il bambino. Manderò qualcuno a prendere la sua roba.

Tu non lo tocchi, il bambino, disse lei.

Il piccolo cominciò a piangere e lei gli liberò la testa dalla coperta.

Oh, oh, disse guardando il bambino. Le si avvicinò.

Per l’amor di Dio! disse lei. Indietreggiò di un passo in cucina.

Voglio il bambino. Fuori di qui!

Lei si rintanò con il bambino in un angolo dietro i fornelli.

Ma lui si fece sotto. Tese le braccia oltre i fornelli e agguantò il bambino.

Lascialo andare, disse.

Page 82: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Vattene via, vattene via! urlò lei.

Il bambino aveva la faccia rossa e strillava. Nella zuffa fecero cadere un vaso

di fiori appeso sopra la cucina.

Lui la bloccò contro il muro, e cercò di farle mollare la presa. Tenne fermo il

bambino e la spinse con tutte le sue forze.

Lascialo andare, le disse.

No, disse lei. Fai male al bambino, disse.

Non gli faccio male al bambino, disse lui.

Non entrava luce dalla finestra della cucina. Nella semioscurità lui con una

mano cercò di allentare la stretta di lei e con l’altra afferrò per un braccio, sotto la

spalla, il bambino che strillava.

Lei sentì che le dita le cedevano. Sentì che il bambino si allontanava da lei.

No! urlò nel momento in cui fu costretta a mollare la presa.

Lo avrebbe tenuto lei, il bambino. Gli afferrò l’altro braccio. Lo prese per il

polso e si buttò indietro.

Ma lui non mollò. Sentì il bambino scivolargli via dalle mani e tirò a tutta

forza.

In questo modo la questione fu risolta.

Page 83: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Gli si è appiccicato tutto addosso

È a Milano per Natale e vuole sapere di quando era piccola.

Raccontami, dice. Raccontami di quando ero piccola. Beve un sorso di Strega,

e aspetta, guardandolo fissamente.

È una ragazza fredda, sottile, attraente, una che se la cava sempre.

È passato tanto tempo. Sono passati vent’anni, dice lui.

Però ti ricordi, dice lei. Va’ avanti.

Che cosa vuoi sapere? dice lui. Che altro posso dirti? Potrei raccontarti una

cosa che è successa quando eri neonata. Ti riguarda, dice lui. Ma in modo molto

marginale.

Racconta, dice lei. Ma prima versa ancora da bere a tutti e due, così non

dovrai interromperti a metà.

Lui torna dalla cucina coi bicchieri, si accomoda in poltrona e comincia.

Erano giovanissimi ma pazzamente innamorati, questo ragazzo di diciott’anni

e questa ragazza di diciassette, quando si sposarono. Non molto tempo dopo

ebbero una bambina.

La bambina arrivò verso la fine di novembre durante un periodo freddo che

per caso coincideva col momento di massima migrazione delle anatre. Al ragazzo

piaceva andare a caccia, capisci. Questo fa parte della storia.

Il ragazzo e la ragazza, marito e moglie, padre e madre, abitavano in un

piccolo appartamento sotto lo studio di un dentista. Ogni sera pulivano le stanze

del dentista in cambio di affitto, luce e gas. D’estate dovevano anche curare il

prato e i fiori. D’inverno il ragazzo spalava la neve e spargeva sale sui vialetti. Mi

segui? Ti sei fatta un’idea? Sì, dice lei.

Bene, dice lui. Allora un giorno il dentista scopre che usavano la sua carta da

lettere per la loro corrispondenza privata. Ma questa è un’altra storia.

Si alza dalla sedia e guarda fuori dalla finestra. Vede la neve che cade

incessante sui tetti di tegole. Racconta la storia, dice lei.

I due ragazzi erano molto innamorati. E avevano anche grandi ambizioni.

Parlavano sempre delle cose che avrebbero fatto e dei posti dove sarebbero

andati.

Page 84: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Dunque, i due dormivano in camera da letto, e la bambina dormiva in

soggiorno. Diciamo che la bambina aveva più o meno tre mesi, e aveva appena

cominciato a dormire per tutta la notte.

Il sabato in questione, dopo avere finito il lavoro al piano di sopra, il ragazzo

rimase nello studio del dentista e chiamò un vecchio compagno di caccia di suo

padre.

Carl, disse quando l’uomo alzò la cornetta, che tu ci creda o no, sono padre.

Congratulazioni, disse Carl. Come sta tua moglie?

Sta bene, Carl. Stiamo tutti bene.

Bene, ha detto Carl, sono contento. Ma se hai chiamato per andare a caccia, ti

dirò una cosa. Ci sono tante anatre da perdere la testa. Non credo di averne mai

viste tante. Solo oggi ne ho prese cinque. Domattina ci vado di nuovo; puoi venire

anche tu se vuoi.

Certo che voglio, disse il ragazzo.

Riattaccò e scese a dirlo alla ragazza. Lei rimase a guardarlo mentre lui tirava

fuori la roba. Giubbotto da caccia, borsa, stivali, calze, cappello, mutandoni,

fucile.

A che ora torni? disse la ragazza.

Probabilmente verso mezzogiorno, disse il ragazzo. Ma magari resto fuori fino

alle sei. È troppo tardi?

Va bene, disse lei. La bambina e io ce la caveremo benissimo. Tu va’ e

divertiti. Quando torni, la vestiamo e andiamo a trovare Sally.

Il ragazzo disse, Mi sembra una buona idea.

Sally era la sorella della ragazza. Era uno schianto. Non so se l’hai mai vista

in fotografia. Il ragazzo era un po’ innamorato di Sally, come del resto era un po’

innamorato di Betsy, che era un’altra sorella della ragazza. Le diceva, Se non

fossimo sposati, potrei anche innamorarmi di Sally. E Betsy allora? diceva la

ragazza. Non mi piace ammetterlo, ma credo proprio che sia più bella di Sally e di

me. E Betsy allora?

Anche di Betsy, diceva il ragazzo.

Dopo cena accese la caldaia e aiutò la ragazza a fare il bagno alla bambina. Si

stupì ancora una volta che avesse per metà i lineamenti suoi e per metà quelli

della ragazza. Coprì di talco il corpicino della piccola. Glielo mise anche tra le dita

delle mani e dei piedi.

Page 85: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Svuotò la vaschetta nel lavandino e andò di sopra a vedere com’era il tempo.

Faceva freddo e il cielo era coperto. L’erba, la poca che era rimasta, era rigida e

grigia, sembrava di stoppa sotto la luce del lampione.

La neve era ammucchiata lungo il sentiero. Passò un’auto. Sentì lo scricchiolio

della sabbia sotto le ruote. Provò a immaginare come sarebbe stato il giorno dopo,

con le anatre che fendevano l’aria sopra la sua testa, e il fucile da caccia che gli

batteva contro la spalla.

Poi chiuse a chiave la porta e scese.

A letto provarono a leggere. Ma entrambi si addormentarono, lei per prima,

lasciando cadere la rivista sulla trapunta.

Lo svegliò il pianto della bambina.

Nella stanza accanto la luce era accesa, e la ragazza stava in piedi vicino al

lettino a cullare la bambina tra le braccia. La rimise giù, spense la luce, e tornò a

letto.

Sentì la bambina che piangeva. Questa volta la ragazza rimase dov’era. La

bambina fece qualche strillo e tacque. Il ragazzo tese l’orecchio, poi riprese sonno.

Ma il pianto della bambina lo svegliò di nuovo. La luce brillava nel soggiorno. Si

tirò su a sedere e accese la lampada.

Non so cosa c’è che non va, disse la ragazza, camminando avanti e indietro

con la bambina. L’ho cambiata e le ho dato da mangiare, ma continua a piangere.

Sono così stanca che ho paura di farla cadere.

Vieni a letto, disse il ragazzo. La tengo un po’ io.

Si alzò e prese la bambina mentre la ragazza tornò a sdraiarsi.

Cullala solo qualche minuto, disse la ragazza dalla camera da letto. Magari si

riaddormenta.

Il ragazzo si sedette sul divano con la bambina in braccio. La fece saltellare

sulle ginocchia finché riuscì a farle chiudere gli occhi, proprio quando stava per

chiudere i suoi. Si alzò cautamente e la rimise nella culla.

Erano le quattro meno un quarto, il che voleva dire che gli restavano

quarantacinque minuti. Raggiunse a tentoni il letto e ci si buttò sopra. Ma alcuni

minuti dopo la bambina ricominciò a piangere, e questa volta si alzarono tutti e

due.

Il ragazzo fece una cosa terribile. Bestemmiò.

Per l’amor del cielo, cosa ti prende? disse la ragazza al ragazzo. Potrebbe

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anche essere malata. Forse non avremmo dovuto farle il bagno.

Il ragazzo prese in braccio la piccola. Lei agitò le gambette e sorrise.

Guarda, disse il ragazzo, non mi pare proprio che stia male.

Come fai a saperlo? disse la ragazza. Dai qua. Credo che dovrei darle

qualcosa, ma non so cosa. La ragazza posò di nuovo la bambina. Tutti e due la

guardarono, e la piccolina ricominciò a piangere.

La ragazza la riprese in braccio. Bambina mia, bambina mia, disse con le

lacrime agli occhi.

Forse ha qualcosa sullo stomaco, disse il ragazzo.

La ragazza non rispose. Continuò a cullare la bambina senza badare al

ragazzo.

Il ragazzo rimase in attesa. Andò in cucina e scaldò l’acqua per il caffè. Si

infilò i mutandoni di lana sopra le mutande e la maglietta, li abbottonò, e si vestì.

Che stai facendo? disse la ragazza.

Vado a caccia, disse il ragazzo.

Non mi sembra il caso, disse lei. Non voglio restare sola con la bambina in

questo stato.

Carl mi sta aspettando, disse il ragazzo. Eravamo già d’accordo.

Non me ne importa niente degli accordi tuoi e di Carl, disse lei. E non me ne

importa niente neanche di Carl. Non lo conosco nemmeno, Carl.

L’hai incontrato una volta. Lo conosci, disse il ragazzo. Perché dici che non lo

conosci?

Non è questo il punto e tu lo sai, disse la ragazza.

Quale sarebbe il punto? disse il ragazzo. Per quanto mi riguarda il punto è che

Carl mi sta aspettando.

La ragazza disse, Io sono tua moglie. E questa è la tua bambina. È malata

probabilmente. Guardala. Altrimenti perché piangerebbe?

Lo so che sei mia moglie, disse il ragazzo.

La ragazza si mise a piangere. Adagiò la bambina nella culla. Ma la bambina

ricominciò ancora. La ragazza si asciugò gli occhi con la manica della camicia da

notte e riprese in braccio la bambina.

Lui si allacciò gli stivali. Si infilò la camicia, il maglione, la giacca. In cucina il

bollitore fischiava sul fornello.

Guarda che dovrai scegliere, disse la ragazza. Carl o noi. Dico sul serio.

Page 87: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Cosa vuoi dire? disse il ragazzo.

Esattamente quello che ho detto. Se vuoi una famiglia, dovrai scegliere, disse

lei.

Si fissarono negli occhi. Poi il ragazzo prese la sua attrezzatura da caccia e

uscì. Accese il motore della macchina. Scese e fece il giro dei finestrini,

raschiando via il ghiaccio con gran cura.

Spense il motore e rimase seduto in macchina per un po’.

Poi scese e rientrò in casa.

La luce del soggiorno era accesa. La ragazza era addormentata sul letto. La

bambina dormiva accanto a lei.

Il ragazzo si tolse gli stivali. Poi si tolse anche il resto. In calzini e mutandoni

sedette sul divano a leggere il giornale della domenica.

La ragazza e la bambina continuarono a dormire. Dopo un po’ il ragazzo andò

in cucina e cominciò a friggere della pancetta.

Arrivò la ragazza in vestaglia e lo abbracciò.

Ehi, disse il ragazzo.

Mi dispiace, disse la ragazza.

Non importa, disse il ragazzo.

Non intendevo scattare in quel modo.

E stata colpa mia, disse lui.

Ora siediti, disse la ragazza. Che ne diresti di una frittella con la pancetta?

Ottima idea, disse il ragazzo.

La ragazza tolse la pancetta dalla padella e preparò la pastella. Lui stava

seduto al tavolo a guardarla trafficare in cucina.

Lei gli mise davanti un piatto con la pancetta, e la frittella. Lui la spalmò di

burro e ci versò sopra lo sciroppo.

Ma quando fece per tagliarla il piatto gli andò a finire sulle ginocchia.

Non è possibile, disse, balzando in piedi. Se ti vedessi, disse la ragazza.

Il ragazzo abbassò lo sguardo su tutta quella roba appiccicata alle mutande.

Stavo morendo di fame, disse scuotendo la testa.

Stavi morendo di fame, disse la ragazza ridendo.

Lui si sfilò i mutandoni di lana e li lanciò contro la porta del bagno. Poi

spalancò le braccia e la ragazza si strinse a lui.

Non litigheremo mai più, disse la ragazza. Il ragazzo disse, No, mai più.

Page 88: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Si alza e riempie di nuovo i bicchieri. Ecco, dice, fine della storia. Ammetto che

non è poi una gran storia. A me interessava, dice lei.

Lui alza le spalle e va alla finestra portando con sé il bicchiere. È buio adesso,

ma sta ancora nevicando.

Le cose cambiano, dice lui. Non so come, ma succede senza che tu te ne

accorga o lo desideri.

Sì, è vero, solo che... Ma non finisce la frase.

Lascia cadere il discorso. Nel riflesso della finestra lui la vede che si guarda le

unghie. Poi alza la testa. Con voce allegra gli chiede se ha ancora intenzione di

mostrarle la città.

Lui dice, Mettiti gli stivali che usciamo.

Ma rimane vicino alla finestra, preso dal ricordo. Avevano riso. Si erano

appoggiati l’uno all’altra e avevano riso fino alle lacrime, mentre tutto il resto - il

freddo e dove voleva andare lui con quel freddo - era là fuori, almeno per un po’.

Page 89: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore

Stava parlando il mio amico Mel McGinnis. Mel McGinnis è cardiologo, e ciò

gli dà talvolta questo diritto.

Eravamo tutti e quattro nella sua cucina, seduti attorno alla tavola a bere gin.

La luce del sole inondava la stanza dalla grande finestra dietro il lavandino.

Eravamo Mel, io, la sua seconda moglie Teresa - Terri per noi - e mia moglie,

Laura. Abitavamo allora ad Albuquerque. Ma venivamo tutti da altre parti.

Sulla tavola c’era un secchiello del ghiaccio. Il gin e l’acqua tonica

continuavano a girare, e non so come ci siamo messi a parlare d’amore. Mel

pensava che il vero amore fosse soltanto l’amore spirituale. Disse che era stato

cinque anni in seminario, prima di smettere per passare a medicina. Disse che

ripensava a quegli anni in seminario come agli anni più importanti della sua vita.

Terri disse che l’uomo con cui era vissuta prima di vivere con Mel l’amava al

punto che aveva tentato di ucciderla. Poi Terri disse: «Una sera mi ha picchiata.

Mi ha trascinata per le caviglie intorno alla stanza. Non smetteva di dirmi: “Ti

amo, ti amo, troia”. E intanto mi trascinava per il soggiorno. Sbattevo la testa

dappertutto». Terri diede un’occhiata intorno alla tavola. «Cosa si fa con un amore

così?».

Era una donna pelle e ossa con una faccia graziosa, occhi scuri e capelli

castani che le scendevano sulla schiena. Le piacevano le collane di turchese, e i

lunghi orecchini pendenti.

«Non essere sciocca, mio Dio. Quello non è amore e tu lo sai», disse Mel. «Non

so come chiamarlo, ma certo non si può chiamare amore».

«Dì quello che ti pare, ma io so che era amore», disse Terri. «Potrà sembrare

assurdo a te, ma non cambia le cose. Non siamo tutti uguali, Mel. Certo, qualche

volta si sarà comportato come un pazzo. Va bene. Ma mi amava. A modo suo

forse, ma mi amava. Quello era amore, Mel. Non dire che non lo era».

Mel emise un sospiro. Col bicchiere in mano si girò verso Laura e me.

«Quell’uomo ha minacciato di uccidermi», disse Mel. Finì il suo gin e allungò la

mano per prendere la bottiglia. «Terri è una romantica. Terri è della scuola

dammiuncalcioesapròchemiami. Terri, tesoro, non fare quella faccia». Mel allungò

Page 90: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

la mano attraverso la tavola e le sfiorò la guancia con le dita. Le fece un sorriso.

«Ora vuole aggiustarla», disse Terri.

«Aggiustare cosa?», disse Mel. «Cosa c’è da aggiustare? So di cosa sto

parlando. Ecco».

«Ma com’è che ci siamo imbarcati in questo argomento?», disse Terri. Alzò il

bicchiere e bevve un sorso. «Mel pensa sempre all’amore», disse. «Non è vero,

tesoro?». Sorrise, e con questo pensavo che l’argomento fosse chiuso.

«È solo che io non chiamerei amore il comportamento di Ed. Tutto qui quello

che volevo dire, tesoro», disse Mel. «E voi, ragazzi?», disse a Laura e me. «A voi, vi

sembra amore?».

«Lo chiedi alla persona sbagliata», dissi. «Io non lo conoscevo nemmeno. L’ho

solo sentito nominare di sfuggita. Non saprei. Bisognerebbe conoscere i

particolari. Ma forse quello che stai dicendo tu è che l’amore è qualcosa di

assoluto».

«Il genere di amore che dico io lo è», disse Mel. «Il genere di amore che dico io

non cerca di ammazzare la gente».

Laura disse: «Io non so niente di Ed, e nemmeno della situazione. Ma chi può

giudicare la situazione di un altro?».

Sfiorai il dorso della mano a Laura e lei mi fece un rapido sorriso. Le presi la

mano. Era calda, le unghie smaltate, perfettamente curate. Le circondai con le

dita il polso largo, e la tenni così. «Quando me ne sono andata, ha preso del

veleno per i topi», disse Terri. Si afferrò con le mani le braccia. «Lo hanno portato

all’ospedale di Santa Fe. Abitavamo allora, quindici chilometri fuori città. Gli

hanno salvato la vita. Ma gli sono saltate le gengive. Non so come dire, si

staccavano dai denti. E dopo i denti sporgevano come zanne. Mio Dio», disse

Terri. Restò così un momento, poi lasciò le braccia e riprese il bicchiere.

«Cosa non farebbe la gente!», disse Laura.

«Ormai è fuori gioco», disse Mel. «È morto».

Mel mi passò il piattino del lime. Ne presi uno spicchio, lo spremetti nel

bicchiere, e rigirai i cubetti di ghiaccio col dito.

«Adesso viene il peggio», disse Terri. «Si è sparato in bocca. Ma gli è andata

storta anche quella, povero Ed», disse Terri scrollando la testa.

«Povero Ed un bel niente», disse Mel. «Era pericoloso».

Mel aveva quarantacinque anni. Era alto, slanciato, con i capelli ricci e

Page 91: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

morbidi. La faccia e le braccia erano scure perché giocava a tennis. Quando era

sobrio, i suoi gesti, tutti i suoi movimenti, erano precisi, molto accurati.

«Però mi amava davvero, Mel. Concedimelo questo», disse Terri. «È tutto quello

che chiedo. Non mi amava nel modo in cui mi ami tu. Non sto dicendo questo. Ma

mi amava. Questo me lo concedi, no?».

«Che vuoi dire, gli è andata storta anche quella?», dissi io.

Laura si sporse in avanti col bicchiere. Mise i gomiti sulla tavola tenendo il

bicchiere con entrambe le mani. Spostò lo sguardo da Mel a Terri e rimase in

attesa con un’espressione smarrita sulla sua faccia aperta, come stupefatta che

cose del genere accadessero a gente con cui si era in amicizia. «Che cosa gli è

andato storto quando si è ucciso?», dissi io.

«Ti racconto come è successo», disse Mel. «Ha preso questa calibro ventidue

che aveva comprato per minacciare Terri e me. Oh, dico sul serio, quello

minacciava continuamente. Avreste dovuto vedere come vivevamo quei giorni.

Come fuggiaschi. Io stesso sono arrivato a comprarmi una pistola. Ci credereste?

Un tipo come me? Eppure l’ho fatto. Ne ho comprata una per legittima difesa e la

tenevo nel cassetto del cruscotto. Certe volte dovevo uscire nel cuore della notte.

Per andare all’ospedale, capite? Terri e io non eravamo sposati allora, e la mia

prima moglie aveva la casa e i bambini, il cane, tutto, e Terri e io vivevamo qui, in

questo appartamento. Qualche volta, come dico, ricevevo una chiamata nel cuore

della notte e dovevo andare in ospedale alle due o alle tre del mattino. Fuori nel

parcheggio era buio, e prima ancora di arrivare alla macchina ero in un bagno di

sudore. Che ne sapevo, poteva sbucare fuori dai cespugli o da dietro una

macchina, e cominciare a sparare. Voglio dire, quello era pazzo. Era capace di

mettere una bomba, qualsiasi cosa. Chiamava la mia segreteria telefonica a tutte

le ore e diceva che aveva bisogno di parlare col dottore, e quando io lo richiamavo

diceva: “Figlio di puttana, hai i giorni contati”. Cosette del genere. C’era da aver

paura, ve lo garantisco».

«Eppure mi fa pena», disse Terri.

«È come un incubo», disse Laura. «Ma che cosa è successo esattamente, dopo

che si è sparato?». Laura è segretaria in uno studio legale. Ci eravamo conosciuti

sul lavoro. Senza neanche accorgercene, ci siamo innamorati. Lei ha trentacinque

anni, tre anni meno di me. Oltre a essere innamorati, ci piacciamo e stiamo bene

insieme. È una persona con cui è facile andare d’accordo.

Page 92: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Cos’è successo?», disse Laura.

Mel disse: «Si è sparato in bocca nella sua stanza. Qualcuno ha sentito lo

sparo e l’ha detto al direttore. Sono entrati con un passepartout, hanno visto

cos’era accaduto e hanno chiamato un’ambulanza. Per caso ero presente quando

lo hanno portato dentro, vivo ma senza più speranza. È vissuto tre giorni. La

testa gli si è gonfiata fino a due volte la grandezza normale. Non avevo mai visto

una cosa simile e spero di non vederla mai più. Quando l’ha saputo, Terri è

voluta entrare e rimanere con lui. Su questo abbiamo bisticciato. Ero del parere

che non dovesse vederlo in quello stato. Lo ero allora, e lo sono ancora oggi».

«Chi l’ha avuta vinta?», disse Laura.

«Ero nella sua stanza quando è morto», disse Terri. «Non si è mai ripreso. Ma

sono rimasta con lui. Non aveva nessun altro».

«Era pericoloso», disse Mel. «Se questo lo chiami amore, puoi tenertelo».

«Era amore», disse Terri. «Certo, agli occhi della maggior parte della gente è

anormale. Ma lui era disposto a morire per questo. È morto, per questo».

«Col cavolo che quello era amore», disse Mel. «Voglio dire, nessuno sa perché lo

abbia fatto. Ho visto un sacco di gente che si è ammazzata, e credo che nessuno

abbia mai saputo perché».

Mel si mise le mani dietro la nuca e inclinò indietro la sedia. «Non mi interessa

questo tipo di amore», disse. «Se questo è amore, puoi tenertelo».

Terri disse: «Avevamo paura. Mel ha persino fatto testamento e scritto in

California a suo fratello, che era stato un Berretto Verde. Gli ha scritto a chi

doveva rivolgersi se gli fosse successo qualcosa».

Terri bevve un sorso. Disse: «Ma Mel ha ragione -vivevamo come fuggiaschi.

Avevamo paura.

Mel certamente, non è vero, tesoro? A un certo punto ho persino chiamato la

polizia, ma non sono stati di nessun aiuto. Hanno detto che non potevano

muoversi finché Ed non avesse realmente fatto qualcosa. Non è da ridere?», disse

Terri.

Si versò nel bicchiere il gin rimasto e scrollò la bottiglia. Mel si alzò da tavola,

andò verso l’armadio e tirò giù un’altra bottiglia.

«Bè, Nick e io sappiamo cos’è l’amore», disse Laura. «Per noi, intendo», disse

Laura. Mi sfiorò il ginocchio. «Tocca a te dir qualcosa adesso», disse Laura,

volgendo il suo sorriso verso di me.

Page 93: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Per tutta risposta, le presi la mano e la portai alle labbra. Feci una grande

esibizione del mio baciamano. Erano tutti divertiti.

«Siamo fortunati», dissi.

«Voi due», disse Terri. «Piantatela adesso. Mi fate venire la nausea. Siete

ancora in luna di miele, per Dio. Ancora troppo presi per cantar vittoria.

Aspettate. Da quanto state insieme? Cos’è? Un anno? Più di un anno?».

«Quasi un anno e mezzo», disse Laura, tutta rossa e sorridente.

«Oh, allora», disse Terri. «Aspettate un po’».

Teneva in mano il bicchiere e fissava Laura.

«Sto solo scherzando», disse Terri.

Mel aprì il gin e fece il giro del tavolo con la bottiglia.

«Ecco qua, ragazzi», disse. «Facciamo un brindisi. Voglio proporre un brindisi.

Un brindisi all’amore. Al vero amore», disse Mel.

Si brindò.

«All’amore», dicemmo in coro.

Fuori in cortile un cane prese ad abbaiare. Le foglie del pioppo che si

protendeva oltre la finestra battevano leggere contro il vetro. Il sole del pomeriggio

era come una presenza in quella stanza, la luce ampia del benessere e

dell’abbondanza. Avremmo potuto essere in qualsiasi luogo, un luogo incantato.

Alzammo di nuovo i bicchieri sorridendoci a vicenda come bambini d’accordo su

qualcosa di proibito.

«Vi dirò io cos’è il vero amore», disse Mel. «Voglio dire, ve ne darò un buon

esempio. E poi potrete trarre le vostre conclusioni». Si versò dell’altro gin.

Aggiunse un cubetto di ghiaccio e una fettina di lime. Noi restammo in attesa

sorseggiando il nostro gin. Laura e io ci toccammo le ginocchia un’altra volta. Le

misi una mano sulla coscia calda e ve la lasciai.

«Che cosa ne sappiamo noi veramente dell’amore?», disse Mel. «A me sembra

che siamo soltanto dei principianti in amore. Diciamo di amarci, e ci amiamo,

non ne dubito. Io amo Terri e Terri ama me, e voi due ragazzi vi amate anche voi.

Sapete di che tipo di amore sto parlando adesso. Amore fisico, quell’impulso che

ti attira verso qualcuno in particolare, e anche amore per l’altro essere, la sua

essenza, per così dire. Amore carnale e, beh, chiamatelo amore sentimentale,

l’attenzione quotidiana per l’altro. Ma a volte è per me molto difficile spiegarmi

come ho potuto amare anche la mia prima moglie. Eppure l’ho amata, so che l’ho

Page 94: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

amata. Quindi, immagino di essere come Terri in questo. Terri e Ed». Ci pensò su

e poi proseguì. «C’è stato un momento in cui pensavo di amare la mia prima

moglie più della vita stessa. Ma ora la odio con tutte le mie forze. Davvero. Come

ve lo spiegate? Che fine ha fatto quell’amore? Vorrei proprio saperlo che fine ha

fatto. Vorrei che qualcuno me lo spiegasse. E poi c’è Ed. D’accordo, siamo tornati

a Ed. Ama Terri al punto che cerca di ucciderla e finisce con l’uccidere se stesso».

Mel si fermò e prese un sorso dal bicchiere. «Voi due siete insieme da diciotto

mesi e vi amate. Basta guardarvi. Raggianti d’amore. Ma tutti e due avete amato

altre persone prima di incontrarvi. Siete stati sposati tutti e due, proprio come

noi.

E probabilmente avete amato altre persone ancora prima. Terri e io stiamo

insieme da cinque anni, sposati da quattro. E la cosa tremenda, la cosa tremenda

è, - ma anche la cosa buona, l’ancora di salvezza si può dire, - è che se

succedesse qualcosa a uno di noi, perdonatemi se dico così, ma se succedesse

qualcosa a uno di noi domani, penso che l’altro, l’altra persona, si tormenterebbe

per un po’, no? Ma poi quello dei due che è sopravvissuto tornerebbe ad amare di

nuovo, si troverebbe abbastanza presto qualcun altro. Tutto questo, tutto questo

amore di cui stiamo parlando, sarebbe soltanto un ricordo. Forse nemmeno un

ricordo. Mi sbaglio? Sono fuori strada? Perché voglio che mi correggiate se

sbaglio. Voglio saperlo. È chiaro, io non so niente, e sono il primo ad ammetterlo».

«Mel, per amor del cielo», disse Terri. Allungò la mano e gli prese il polso. «Ti

stai ubriacando? Tesoro? Sei ubriaco?».

«Tesoro, sto solo parlando», disse Mel. «Va bene? Non ho bisogno di essere

ubriaco per dire quello che penso. Voglio dire, stiamo tutti solo parlando, no?»,

disse Mel, e puntò lo sguardo su di lei. «Amore, non sto criticando», disse Terri.

Prese il bicchiere.

«Non sono di turno oggi», disse Mel. «Lascia che te lo ricordi. Non sono di

turno», disse.

«Mel, ti vogliamo bene», disse Laura.

Mel guardò Laura. La guardò come se non riuscisse a individuarla, come se

non fosse la donna che era.

«Anch’io ti voglio bene, Laura», disse Mel. «E tu, Nick, voglio bene anche a te.

Sapete una cosa?», disse Mel. «Voi due siete i nostri migliori amici», disse Mel.

Prese il bicchiere.

Page 95: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Mel disse: «Volevo raccontarvi qualcosa. Per farvi capire. È accaduto qualche

mese fa, ma continua ancora adesso, e dovrebbe farci vergognare di noi stessi

quando parliamo come se sapessimo di cosa parliamo quando parliamo d’amore».

«Ti prego», disse Terri. «Non parlare come se fossi ubriaco quando non sei

ubriaco».

«Chiudi la bocca per una volta in vita tua», disse ma con molta calma. «Mi fai il

favore di tenerla chiusa per un minuto? Allora, come stavo dicendo, ci sono

questi due vecchi, marito e moglie che hanno avuto un incidente sull’autostrada.

Un ragazzo li ha investiti e li ha ridotti in merda, e nessuno sarebbe stato

disposto a scommettere che se la sarebbero cavata».

Terri guardò noi e poi di nuovo Mel. Sembrava ansiosa, ma forse è una parola

troppo fotte.

Mel faceva girare la bottiglia intorno alla tavola.

«Quella sera ero di turno», disse Mel. «Era maggio, o forse era giugno. Terri e io

ci eravamo appena messi a tavola quando ha chiamato l’ospedale. Era successa

questa cosa sull’autostrada. Un ragazzo ubriaco era andato a infilarsi col furgone

del padre dritto dentro un camper con a bordo i vecchi. Tutti e due sui

settantacinque. Il ragazzo -diciotto, diciannove anni, più o meno - c’è rimasto. Gli

è entrato il volante nello sterno. I due vecchi, erano vivi, capite. Insomma, si fa

per dire. Ma avevano di tutto. Fratture multiple, ferite interne, emorragie,

contusioni, lacerazioni, qualsiasi cosa, e commozione cerebrale tutti e due.

Conciati male, potete credermi. E naturalmente, l’età giocava contro. Direi che lei

era conciata peggio di lui. Aveva la Milza in pezzi oltre a tutto il resto. Tutte e due

le rotule rotte. Ma avevano le cinture di sicurezza, e Dio solo lo sa, questo gli ha

impedito di morire sul colpo».

«Gente, questo è un annuncio dell’Ente Prevenzione Infortuni», disse Terri. «Vi

parla il dottor Melvin R. McGinnis», rise Terri. «Mel», disse, «certe volte esageri. Ma

ti amo, tesoro», disse. «Tesoro, ti amo», disse Mel.

Si piegò in avanti sul tavolo. Terri gli andò incontro a metà strada. Si

baciarono.

«Terri ha ragione», disse Mel rimettendosi seduto. «Mettetevi sempre le cinture.

Ma seriamente, erano mal ridotti i vecchietti. Quando sono arrivato il ragazzo era

morto, come ho detto. Era in un angolo, steso su una barella. Ho dato

un’occhiata ai vecchi e ho detto all’infermiera del pronto soccorso di mandarmi

Page 96: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

giù subito un neurologo e un ortopedico e un paio di chirurghi».

Bevve un sorso. «Cercherò di farla breve», disse. «Allora abbiamo portato i due

in sala operatoria e lavorato come dannati quasi tutta la notte. Avevano delle

riserve incredibili, quei due. Cose che si vedono raramente. Abbiamo fatto tutto il

possibile e verso mattina gli davamo un cinquanta per cento di probabilità, forse

a lei un po’ meno. Così eccoli ancora vivi la mattina dopo. Naturalmente li

spostiamo al reparto cure intensive, dove sgobbano per due settimane,

migliorando su tutti i monitor. E poi li trasferiamo nella loro stanza».

Mel si interruppe. «Ecco qui», disse, «facciamoci fuori questo pessimo gin. Poi

andiamo a cena, vi va? Terri e io conosciamo un posto nuovo. Andremo lì, in

questo posto nuovo che sappiamo. Ma non ci muoveremo di qui finché non

avremo finito questo schifoso gin da quattro soldi».

Terri disse: «Veramente non ci abbiamo mai mangiato. Ma pare buono. Da

fuori, ovviamente».

«Mi piace mangiare», disse Mel. «Se dovessi ricominciare daccapo farei il

cuoco, sapete? Giusto, Terri?», disse Mel.

Rise. Girò il ghiaccio col dito.

«Terri lo sa», disse. «Terri ve lo può dire. Ma lasciate che vi dica questo. Se

potessi tornare indietro un’altra volta, in un’altra vita, un altro tempo e tutto,

sapete una cosa? Mi piacerebbe rinascere cavaliere. Si stava sicuri con tutta

quell’armatura addosso. Non era male essere cavaliere, prima che arrivassero la

polvere da sparo, i moschetti e le pistole».

«A Mel piacerebbe andare a cavallo e portare una lancia», disse Terri.

«Portare sempre con sé i colori di una donna» disse Laura.

«O solo una donna», disse Mel. «Vergogna», disse Laura.

Terri disse: «E se invece rinascessi servo della gleba? I servi non se la

passavano molto bene a quei tempi», disse Terri.

«I servi non se la sono mai passata bene», disse Mel. «Ma immagino che anche

i cavalieri fossero i vessilli di qualcuno. Non è così che funzionava? C’è da dire

che ognuno è sempre il vessillo di qualcun altro. È vero o no? Terri? Ma quello

che mi piaceva dei cavalieri, a parte le dame, era che avevano quel vestito di

corazza, e non potevano farsi male tanto facilmente. Non c’erano macchine a quei

tempi, giusto? E nemmeno ragazzini ubriachi a sfasciarti il culo».

«Vassalli», disse Terri. «Cosa?», disse Mel.

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«Vassalli», disse Terri. «Si chiamavano vassalli, non vessilli».

«Vassalli, vessilli», disse Mel, «che cazzo di differenza fa? Si è capito quello che

volevo dire. Va bene», disse Mel. «Così sono ignorante. Ho imparato il mio lavoro.

Sono un cardiochirurgo, come no, ma sono solo un meccanico. Entro, faccio due

stronzate e aggiusto la roba. Merda», disse Mel.

«La modestia non ti si addice», disse Terri.

«È solo un mediocre aggiustaossa», dissi io. «Ma qualche volta soffocavano con

tutta quell’armatura addosso, Mel. Avevano persino degli attacchi di cuore se

faceva troppo caldo e erano stanchi sfiniti. Ho letto da qualche parte che

cadevano da cavallo e non erano più capaci di alzarsi perché erano troppo stanchi

per stare in piedi con tutta quell’armatura addosso. Venivano calpestati dai loro

stessi cavalli, a volte».

«È terribile», disse Mel. «Questa è una cosa terribile, Nicky. Immagino che

restassero là per terra ad aspettare finché non arrivava qualcuno a farne

spezzatino».

«Un altro vessillo», disse Terri.

«Giusto», disse Mel. «Arrivava un altro vassallo e infilzava il bastardo in nome

dell’amore. O di quel cazzo per cui si battevano a quei tempi».

«Le stesse cose per cui ci battiamo oggi», disse Terri.

Laura disse: «Non è cambiato niente».

Le guance di Laura erano ancora accese. Gli occhi le luccicavano. Portò il

bicchiere alle labbra.

Mel si versò ancora da bere. Guardò l’etichetta da vicino come se esaminasse

una lunga serie di numeri. Posò la bottiglia sul tavolo lentamente e lentamente

tese la mano per prendere l’acqua tonica.

«E allora la vecchia coppia?», disse Laura. «Non hai finito la storia che avevi

cominciato».

Laura faceva una gran fatica ad accendersi la sigaretta. Le si spegnevano

continuamente i fiammiferi.

Ora nella stanza la luce era diversa, stava cambiando, diventava più tenue.

Ma le foglie fuori dalla finestra luccicavano ancora, e io contemplai le forme che

disegnavano sui vetri e sul ripiano di formica. Non erano gli stessi disegni,

naturalmente.

«E allora, la vecchia coppia?», dissi.

Page 98: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Più vecchia ma più saggia», disse Terri.

Mel le puntò gli occhi in faccia.

Terri disse: «Va’ avanti con la tua storia, tesoro. Stavo solo scherzando. Che

cosa è successo dopo?».

«Terri, certe volte», disse Mel.

«Per favore, Mel», disse Terri. «Non essere sempre così serio, amore. Non sai

stare allo scherzo?». «Dov’è lo scherzo?», disse Mel. Teneva in mano il bicchiere e

guardava fisso sua moglie. «Cos’è successo?», disse Laura.

Mel puntò gli occhi su Laura. «Laura, se non avessi Terri e se non la amassi

tanto, e se Nick non fosse il mio migliore amico, mi innamorerei di te. Ti porterei

via con me, tesoro», disse.

«Racconta la tua storia», disse Terri. «Poi andiamo in quel nuovo posto, va

bene?».

«Va bene», disse Mel. «Dov’ero rimasto?», disse. Fissò la tavola e poi riprese a

parlare.

«Andavo a trovarli tutti i giorni, anche due volte al giorno, se ero lì per qualche

altra chiamata. Gesso e bende dalla testa ai piedi, tutti e due. Lo sapete come, lo

avete visto al cinema. Erano così, proprio come al cinema. Piccoli fori per gli

occhi, fori per il naso, fori per la bocca. E lei oltre a tutto doveva tenere le gambe

appese. Bene, il marito era quello più depresso dei due. Anche dopo aver saputo

che sua moglie ce l’avrebbe fatta, era molto depresso. Non per l’incidente, però.

Voglio dire, l’incidente era una cosa, ma non era tutto. Mi sono avvicinato al foro

della bocca e lui mi ha detto no, non era per l’incidente, ma perché non la poteva

vedere con quei fori per gli occhi. Diceva che era questo che lo faceva star male.

Ve lo immaginate? Vi sto dicendo che il cuore di quest’uomo si stava spezzando

perché non poteva girare la sua stramaledetta testa e vedere la sua stramaledetta

moglie».

Mel volse lo sguardo intorno alla tavola e scosse la testa per quello che stava

per dire.

«Insomma, quel vecchio rimbambito stava morendo solo perché non riusciva a

vedere quel suo cazzo di moglie».

Tutti guardammo Mel.

«Capite cosa sto dicendo?», disse.

Forse a quel punto eravamo tutti un po’ ubriachi. So che era difficile

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mantenere le cose a fuoco. La luce svaniva dalla stanza ritirandosi attraverso la

finestra da cui era entrata. Tuttavia nessuno fece il gesto di alzarsi per accendere

la lampada sopra la tavola.

«Sentite», disse Mel. «Finiamoci questo gin di merda. Ce n’è per un altro giro

completo. Poi andiamo a mangiare. Andiamo in quel posto nuovo».

«È depresso», disse Terri. «Mel, perché non prendi una pillola?».

Mel scosse la testa. «Ho preso tutto quello che c’era da prendere».

«Tutti abbiamo bisogno di una pillola ogni tanto», dissi io.

«Certa gente quel bisogno ce l’ha dalla nascita», disse Terri.

Grattava col dito qualcosa sulla tavola. Poi smise.

«Credo che telefonerò ai bambini», disse Mel. «Niente in contrario? Telefono ai

bambini», disse. Terri disse: «E se risponde Marjorie? Voi due, ci avete mai sentito

sull’argomento Marjorie? Tesoro, sai che non vuoi parlare con Marjorie. Ti farà

sentire anche peggio».

«Non voglio parlare con Marjorie», disse Mel. «Ma voglio parlare coi bambini».

«Non passa un giorno senza che Mel dica che spera che lei si risposi. Oppure

che muoia», disse Terri. «Soprattutto per una cosa», disse Terri, «ci sta mandando

in rovina. Mel dice che è solo per fare dispetto a lui che non si risposa. Ha un

uomo che vive con lei e i bambini, così Mel mantiene anche lui».

«È allergica alle api», disse Mel. «Quando non prego perché si risposi, prego

che sia punta a morte da uno sciame di schifosissime api».

«Vergogna», disse Laura.

«Bzzzzzzzz», disse Mel, trasformando le dita in api e facendole ronzare alla gola

di Terri. Poi lasciò cadere le mani lungo i fianchi.

«È perfida», disse Mel. «Qualche volta penso che andrò da lei vestito da

apicoltore. Ce li avete in mente, quel cappello che sembra un elmetto e quello

schermo che viene giù sulla faccia, i guantoni e il cappotto imbottito? Busserò

alla porta e libererò in casa uno sciame di api. Ma prima mi accerterò che i

ragazzi siano fuori, ovviamente».

Accavallò le gambe, e la cosa sembrò richiedergli molto tempo. Poi posò

entrambi i piedi per terra e si piegò in avanti, i gomiti sul tavolo, il mento nel cavo

delle mani.

«Forse non chiamerò i bambini, dopotutto. Forse non è poi un’idea così

grandiosa. Forse andremo solo a mangiare. Che ne dite?».

Page 100: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Per me va bene», dissi. «Mangiare o non mangiare. O continuare a bere. O

uscire e andare incontro al tramonto».

«Che cosa significa, tesoro?», disse Laura.

«Significa quello che ho detto», dissi. «Significa che potrei semplicemente

andare senza fermarmi. Ecco che cosa significa».

«Io mangerei volentieri qualcosa», disse Laura. «Credo di non aver mai avuto

tanta fame in vita mia. Non c’è qualcosa da sgranocchiare?».

«Tiro fuori del formaggio e dei crackers», disse Terri.

Ma Terri restò seduta dov’era. Non si alzò a prendere proprio niente.

Mel rovesciò il bicchiere. Tutto il contenuto si sparse sul tavolo.

«Il gin è partito», disse Mel.

Terri disse: «E adesso?»

Sentivo il cuore che mi batteva. Sentivo il battito del cuore di ognuno. Sentivo

il rumore umano che facevamo tutti, lì seduti, senza muoverci, nemmeno quando

la stanza diventò tutta buia.

Page 101: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Ancora una cosa

Sua moglie Maxine gli disse di andarsene la sera in cui tornando dal lavoro lo

trovò di nuovo ubriaco che insultava Rae, la figlia quindicenne. L.D. e Rae, seduti

al tavolo in cucina, litigavano. Maxine non ebbe nemmeno il tempo di metter via

la borsa o di togliersi il cappotto.

Rae disse: «Diglielo, mamma. Digli di cosa abbiamo parlato».

L.D. rigirò il bicchiere nella mano, ma senza bere. Rae lo fissava minaccioso.

«Non t’impicciare in cose di cui non sai nulla», disse L.D. Disse: «Non posso

prendere sul serio una persona che sta tutto il giorno a leggere riviste di

astrologia».

«Questo non ha niente a che fare con l’astrologia», disse Rae. «Non c’è bisogno

che mi insulti». Rae, dal canto suo, non andava a scuola da settimane. Diceva che

nessuno poteva obbligarla. Maxine diceva che questa era l’ultima di una lunga

serie di tragedie da quattro soldi.

«Perché non chiudete la bocca tutti e due!», disse Maxine. «Mio Dio, ho già mal

di testa». «Diglielo, mamma», disse Rae. «Digli che è tutto nella sua testa.

Chiunque ne sappia qualcosa ti dirà che è proprio lì».

«E il diabete allora?», disse L.D. «E l’epilessia? Il cervello controlla anche

quelli?».

Alzò il bicchiere sotto gli occhi di Maxine e lo scolò.

«Anche il diabete», disse Rae. «L’epilessia. Qualsiasi cosa! Il cervello è l’organo

più potente del corpo, per tua informazione».

Prese le sigarette di L.D. e ne accese una per sé.

«Cancro. E il cancro allora?», disse L.D.

Pensava di averla inchiodata. Guardò Maxine.

«Non so più come abbiamo cominciato», disse L.D. a Maxine.

«Cancro», disse Rae, e scosse la testa di fronte a tanta ingenuità. «Anche il

cancro. Il cancro comincia nel cervello».

«Questo è assurdo!», disse L.D. Batté il palmo della mano sul tavolo. Il

portacenere sussultò. Il bicchiere si rovesciò rotolando sul tavolo. «Sei pazza, Rae.

Lo sai?».

Page 102: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

«Chiudi la bocca!», disse Maxine.

Si sbottonò il cappotto e appoggiò la borsa sul ripiano. Guardando L.D. disse:

«L.D., io ne ho abbastanza. E anche Rae. E tutti quelli che ti conoscono. Ci ho

riflettuto. Voglio che tu te ne vada. Stasera. In questo momento. Ora. Vattene

immediatamente di qui».

L.D. non aveva intenzione di andare da nessuna parte. Volse lo sguardo da

Maxine al vaso di sottaceti che era rimasto sul tavolo dall’ora di colazione. Prese il

vaso e lo scagliò contro la finestra della cucina.

Rae balzò dalla sedia. «Dio! E pazzo!».

Corse a mettersi vicino alla madre. Respirava affannosamente.

«Chiama la polizia», disse Maxine. «È violento. Esci dalla cucina prima che ti

faccia del male. Chiama la polizia», disse Maxine.

Fecero per uscire dalla cucina camminando all’indietro.

«Me ne vado», disse L.D. «Va bene, me ne vado subito», disse. «Non chiedo di

meglio. Comunque voi siete matte. Questa è una gabbia di matti. Ma la vita non

finisce qui dentro. Credetemi, c’è poco da stare allegri in questa gabbia di matti».

Sentiva sulla faccia l’aria che entrava dal buco nella finestra.

«Ecco dove vado», disse. «Là fuori», disse puntando l’indice.

«Bene», disse Maxine.

«Va bene, me ne vado», disse L.D.

Picchiò forte la mano sul tavolo. Scostò la sedia con un calcio. Si alzò in piedi.

«Non mi rivedrai mai più», disse L.D.

«Mi lasci molti ricordi», disse Maxine.

«Okay», disse L.D.

«Avanti, vattene», disse Maxine. «Sono io che pago l’affitto qui, e sono io che ti

dico di andare. Adesso».

«Me ne vado», disse lui. «Non farmi fretta», disse. «Me ne vado».

«Va’ allora», disse Maxine.

«Lascio questa gabbia di matti», disse L.D.

Andò in camera da letto e prese una delle valigie della moglie dall’armadio.

Era una vecchia Naugahyde bianca, con una chiusura rotta. Un tempo lei la

riempiva di golf e se la portava all’università. Anche lui era andato all’università.

Buttò la valigia sul letto e cominciò a metterci dentro la biancheria, i calzoni, le

camicie, i maglioni, la vecchia cintura di pelle con la fibbia di ottone, i calzini e

Page 103: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

tutte le altre cose che possedeva. Dal comodino prese delle riviste per avere

qualcosa da leggere. Prese il portacenere. Infilò in valigia tutto quello che poteva,

tutto quello che ci stava. Chiuse la serratura funzionante, allacciò la cinghia, e

solo allora si ricordò degli oggetti da toilette. Trovò la busta di plastica sul ripiano

dell’armadio dietro i cappelli di Maxine. Rasoio e crema da barba, talco, stick

deodorante e spazzolino finirono dentro. Prese anche il dentifricio. E il filo

interdentale.

Le sentì che parlavano a bassa voce in soggiorno.

Si lavò la faccia. Mise il sapone e l’asciugamano nella busta di plastica. Poi

aggiunse il portasapone, il bicchiere che era sopra il lavandino, le forbici per le

unghie e il piegaciglia di Maxine.

Non riuscì a chiudere la busta, ma poco importava. Si infilò il cappotto e prese

la valigia. Andò in soggiorno.

Quando lo vide, Maxine mise un braccio intorno alle spalle di Rae.

«Ecco», disse lui. «Questo è un addio», disse. «Non so che altro dire, se non che

immagino di non rivederti mai più. E neanche te», disse L.D. a Rae. «Tu e le tue

idee picchiate».

«Va’», disse Maxine. Prese la mano di Rae. «Non credi di aver fatto già

abbastanza danni in questa casa? Va’, L.D. Vattene di qui e lasciaci in pace».

«Ricordati», disse Rae. «È nella tua testa».

«Me ne vado, è tutto quello che posso dire», disse L.D. «In qualunque posto.

Via da questa gabbia di matti», disse. «Questa è la cosa più importante».

Lanciò un’ultima occhiata al soggiorno e poi passò la valigia da una mano

all’altra e infilò la busta di plastica sotto il braccio. «Mi farò vivo, Rae. Maxine,

faresti meglio a lasciare questa gabbia di matti anche tu».

«Sei tu che l’hai fatta diventare una gabbia di matti», disse Maxine. «Se è una

gabbia di matti, è per colpa tua».

Lui appoggiò la valigia per terra e la busta di plastica sulla valigia. Raddrizzò

le spalle e si piazzò davanti a loro.

Rae e Maxine fecero un passo indietro.

«Attenta, mamma», disse Rae.

«Non mi fa paura», disse Maxine.

L.D. infilò sotto il braccio la busta di plastica e raccolse la valigia.

Disse: «Soltanto una cosa voglio ancora dire».

Page 104: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Ma poi non riuscì a pensare cosa mai potesse essere.

Page 105: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Il Minimalismo di Raymond Carverdi Fernanda Pivano

Raymond Carver è considerato il leader del Minimalismo letterario americano e

la sua comparsa si fa datare dal 1976 quando uscì la raccolta di 22 racconti Will

You Please Be Quiet, Please? (di prossima pubblicazione presso Garzanti): che anni

prima era uscita un’altra raccolta, Put Yourself in My Shoes, ma non è più inclusa

nelle bibliografie.

Da quel 1976, lo stesso anno in cui uscirono il primo romanzo (Chilly Scenes of

Winter) e la prima raccolta di racconti (Distorsions) di Ann Beattie allora

ventinovenne, questa corrente ha raccolto un largo numero di scrittori, tutti ostinati,

Raymond Carver per primo, a rifiutare l’etichetta di minimalista.

Mentre Madison Bell scriveva un saggio dispettoso col titolo Less is Less nel

quale raggruppava con Carver e la Beattie giovani scrittori come David Leavitt,

Frederick Barthelme, Bobbie Ann Mason, Amy Hempel e Peter Taylor, il celebre

narratore postmoderno John Barth ne pubblicava uno anche più dispettoso

annunciando che il suo prossimo romanzo sarebbe stato definito massimalista e

avrebbe avuto per argomento la storia di uno scrittore minimalista. Intanto il «New

York Times» pubblicava un prospetto del Minimalismo nell’arte e nella musica,

partendo da John Cage che diede l’archetipo del movimento col suo famoso 4’33”

per arrivare alle Civil wars di Bob Wilson musicato da Philip Glass, attraverso la

danza di Yvonne Rainer, Lucinda Childs e Trisha Brown e le composizioni di

LaMonte Young e Morton Feldman.

Il prospetto di John Rockwell citava gli artisti Robert Morris, Richard Serra, Sol

LeWitt e gli altri «concettuali»; ed è caratteristico che tutti loro, musicisti a artisti,

abbiano respinto la definizione di minimalisti. Probabilmente respingeranno il

raggruppamento anche Michelangelo Antonioni di cui Rockwell cita L’avventura e

Deserto rosso o Sergio Leone di cui vengono ricordati il dialogo monosillabico e i

deserti sconfinati degli «spaghetti western» o Samuel Beckett o Bertolt Brecht.

Rockwell sposta la sua proposta anche nel costume, citando la «Nouvelle Cuisine»

(come una reazione contro gli ornamenti dell’«alta» cucina francese) e nella moda,

partendo dalle minigonne e i bikini per arrivare agli «abitini neri» detti anche «tubini»

Page 106: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

in voga all’inizio degli Anni, Sessanta; e qualcuno protesterà per la definizione

anche per questi esempi.

Insomma nessuno vuol essere considerato minimalista, meno di tutti David

Leavitt, Jay McInerney e Bret Easton Ellis che a suo tempo ho definito

postminimalisti nonostante le enormi differenze esistenti fra loro per suggerire ai

lettori che si trattava comunque di tre scrittori posthemingwayani di una New Wave

che stava facendo la storia degli Anni Ottanta d’America; e capostipite di questi

autori resta al di là di qualsiasi definizione Raymond Carver, uno dei più grandi

scrittori di racconti della letteratura americana di tutti i tempi.

Nel 1976, quando fu pubblicato il libro che gli diede la fama, Carver aveva 38

anni e usciva da una vita drammatica per povertà e squallore, proprio la povertà e

lo squallore che hanno fatto da ambiente a tante sue storie. Era figlio di un operaio

di segheria e di una cameriera di ristorante in una cittadina dello Stato di

Washington e appena finito il Liceo andò a lavorare per sei mesi nella segheria col

padre. Aveva 18 anni e aspettava un figlio da una ragazza di 16, Maryann Burk,

che subito sposò. Più tardi Carver scrisse: «Non abbiamo avuto giovinezza. Ci siamo

trovati in ruoli che non sapevamo come recitare. Ma abbiamo fatto del nostro

meglio. Lei ha finito per laurearsi 14 anni dopo che ci eravamo sposati».

Anche Carver si laureò dopo il matrimonio. Cominciò a passare da una cittadina

all’altra, a lavorare di notte e frequentare le lezioni di giorno. La laurea la prese

alla Chico State College, dove lo scrittore John Gardner lo incoraggiò a scrivere:

Carver ricordò riconoscente i suoi rapporti con lui nell’introduzione che fece al suo

libro postumo On Becoming a Novelist. Dopo la laurea andò allo Iowa Writers”

Workshop con l’aiuto del suo insegnante Dick Day che mandò un suo racconto e

qualche sua poesia a Don Justice, incaricato di assegnare le borse di studio e

abbastanza illuminato da assegnarne a Carver una di 500 dollari. La somma però

non gli bastava per la moglie e i due figli nonostante Carver lavorasse nella

biblioteca per un dollaro all’ora e sua moglie facesse la cameriera.

Lo scrittore dovette così lasciare lo Iowa Writers” Workshop e ritornò in

California dove campò per tre anni facendo il portiere di notte in un ospedale: a

metà della notte andava a casa e scriveva la mattina mentre la moglie faceva la

venditrice di libri a domicilio. Carver aveva 29 anni. Ma una notte invece di tornare

a casa andò in un bar a bere e così cominciò il suo alcoolismo.

Questa fu la piaga della sua vita; Carver riuscì a liberarsene soltanto dopo

Page 107: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

arresti, ricoveri e disintossicazioni con un gesto di volontà che ha datato col 7

giugno 1977, quando viveva ormai separato dalla moglie in una cittadina della

California. La raccolta di racconti che gli diede la fama era uscita l’anno prima

senza migliorare la sua situazione economica e Fred Hills, presidente dell’editore

McGraw Hill, lo aveva invitato a colazione per dargli un anticipo per un romanzo.

Ma quando andò alla colazione Carver era completamente ubriaco. Hills gli offrì lo

stesso l’anticipo e Carver riuscì a smettere di bere, anche con l’aiuto dell’Alcoholics

Anonymous, nella cui sede per il primo mese di astinenza passò tutte le giornate.

L’alcoolismo non gli aveva impedito però di insegnare allo Iowa Writers”

Workshop nel semestre d’autunno del 1973 insieme a John Cheever, anche lui

alcolizzato, l’altro grande scrittore di racconti che cinque anni dopo rilanciò questo

«genere» così disprezzato dagli editori (convinti che i racconti non si vendessero più

dopo gli storici successi di Hemingway, Fitzgerald e Faulkner) con una raccolta che

vendette 200.000 copie nell’edizione rilegata, 500.000 nella tascabile e restò per

mesi sugli elenchi dei bestsellers.

Non gli aveva impedito neanche di continuare a scrivere in condizioni disperate,

magari su un notes tenuto in grembo in automobile per evitare il chiasso dei

bambini, o rifugiato in un angolo del garage, o sul tavolo di cucina, o in una

biblioteca pubblica e così via. Non era ancora laureato il giorno che considera

tuttora il più fortunato della sua vita, quando una rivista gli accettò un racconto e

un’altra rivista gli accettò una poesia: il racconto si chiamava Pastoral e la poesia

The Brass Ring; ora Carver dice di essere stato orgoglioso del fatto che la poesia

venisse pubblicata sullo stesso numero in cui era pubblicata una poesia di Charles

Bukowski che a quei tempi era uno dei suoi eroi. Un’altra rivista poco nota gli

pubblicò il racconto December: e fu questo ad attirare l’attenzione di Martha Foley,

che lo incluse nella sua antologia annuale delle Best American Short Stories.

Non conosceva ancora l’alcool, tuttavia, quando ascoltava il padre leggergli forte

le storie di Zane Grey o raccontargli episodi della sua vita di povero diavolo e

neanche mentre frequentava il Liceo, quando scrisse il suo primo racconto, la storia

di un pesce (pescato o forse che non si era lasciato pescare), che la madre copiò con

una macchina presa apposta in affitto e mandò a una rivista che naturalmente lo

respinse.

Quando dimenticò l’alcool andò a insegnare in un College a El Paso, il suo

primo lavoro da disintossicato, e lì nel 1979 conobbe Tess Gallagher, una poetessa

Page 108: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

che insegnava letteratura all’Università di Syracuse: da due anni Carver era

separato dalla moglie e iniziò la sua convivenza con Tess, andando con lei a

insegnare a Syracuse. Fu lì che Jay McInerney, il bravissimo e fortunato autore di

Brighi Lights, Big City, lo conobbe e diventò suo allievo e suo protetto.

Ormai i tempi difficili per Carver erano finiti. Nel 1981 uscirono i 17 racconti di

What We Talk About When We Talk About Love per l’editore Knopf di cui era

presidente Robert Gottlieb diventato di recente direttore del «New Yorker» (una

rivista alla quale Carver non collaborò mai) e dove fungeva da editor Gordon Lish, il

mentore del Minimalismo che forgiò un intero gruppo di giovani scrittrici.

Si parlò di una New Wave letteraria e nel 1983, quando uscirono i 18 racconti di

Cathedral Irving Howe li citò come capolavori, Carver ricevette l’ambita borsa di

studio Mildred and Harold Strauss Livings che gli assicurava per cinque anni

35.000 dollari all’anno dell’Accademia Americana di Arti e Lettere e la «Paris

Review» gli pubblicò una lunga intervista che lo rese famoso; lo scrittore lasciò

l’Università di Syracuse e scrisse una sceneggiatura per Michael Cimino che gli

permise di comprarsi una Mercedes e costruirsi una casa a Port Angeles (nello

Stato di Washington), la città natale di Tess Gallagher. Da allora divise il suo tempo

tra la minuscola casa solitaria sul mare dove va a pesca di salmoni e quella di

Syracuse dove continua a stare con Tess.

Nella nuova agiatezza ricominciò a scrivere poesie e l’anno scorso uscì la

raccolta Where Water Comes Together With Other Water, la quarta dopo Near

Klamath (1968), Winter Insomnia (1970) e At Night the Salmon Move (1976).

Ormai era diventato un maestro, corteggiato dagli editori, rispettato dai critici,

idolatrato dagli aspiranti scrittori, amato dal pubblico: il primo nome che mi fecero

David Leavitt e Jay McInerney quando li incontrai a New York nel 1985.

Da vero artista non si lasciò inflazionare dal successo. Continuò a scrivere con

umiltà, rispetto e ostinazione, rifacendo i racconti anche trenta volte, con infinite

correzioni e ripensamenti. Nelle interviste disse che dopo aver passato gli anni del

Liceo a leggere riviste di pesca e di caccia o i racconti di Mickey Spillane, scoprì

Ernest Hemingway, che diventò la sua più grande influenza letteraria: «Lo scrittore

il cui lavoro ammiro più di ogni altro», disse. Gli altri «suoi» autori sono Tolstoj, Isaac

Babel, Flannery O’Connor, John Cheever (coi suoi celebri racconti ambientati tra

WASP dell’alta borghesia), Joseph Conrad, Harold Pinter e soprattutto Cechov, di

cui mentre era al Liceo trovò una lettera che consigliava di non scrivere su gente

Page 109: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

straordinaria che compie azioni straordinarie.

E il Minimalismo? Il Minimalismo esisteva nelle altre arti, era nell’aria come

reazione all’appassionata visceralità del neoespressionismo astratto o dell’Action

Painting di Jackson Pollock e di Willem De Kooning e della indimenticata poesia e

narrativa cosiddetta «beat» di Ginsberg, Kerouac e Burroughs.

Gli artisti negli Anni Sessanta presero a ridurre la figurazione a segni

elementari, quello che gli Americani chiamano basic, basici, calati in uno spazio

vuoto di significato: gli scultori riducevano la scultura a una struttura geometrica e

metafisica, i pittori riducevano la pittura a una struttura matematica e metafisica.

In uno stesso clima ma con colossali differenze Carver ridusse gli eventi a stati

metafisici, a segni basici, e li collocò in un vuoto sociale, raccontando i disastri

prodotti dalla società, ma di una società che non si vede mai, di cui si vedono

soltanto le conseguenze. Le sue storie potrebbero avvenire dovunque e comunque

avvengono quasi sempre nell’interno delle case, intorno a un tavolo di cucina o

davanti a un televisore: sono storie che si svolgono in scene condensate su una

lastra da vivisezione, dove l’emozione nasce dalla suspense di un evento che

avviene in un vuoto totale, alla cui logica siamo impreparati, un po’ (molto

vagamente) come in certi quadri di Edward Hopper.

In questo vuoto totale si muovono autisti e manovali, contabili in pensione e

amministratori di motel, venditori di libri scolastici e fornai, commesse di

supermercati e cameriere di ristoranti, uomini delle pulizie e gente disoccupata:

poveri diavoli che non sognano neanche il successo ma soltanto un po’ di serenità e

la possibilità, come disse Carver in un’intervista, «di mettere un po’ di latte e di cibo

sul tavolo e di pagare l’affitto».

Con descrizioni ridotte eroicamente al minimo (una volta Carver ha detto: «Se

tagliassi ancora non resterebbe più niente», e anche: «Non taglio soltanto fino

all’osso, taglio fino al midollo») i personaggi sono rappresentati mentre vivono la

loro vita smorta, svolgendo lavori smorti in luoghi smortì; ma la loro anima non è

mai smorta ed è in queste anime doloranti che Carver scava con la sua poesia

tanto ricca di umanità quanto la sua prosa è parca di parole. Sono personaggi che

soffrono orrendamente per una incomunicabilità resa più inesorabile dal senso non

detto di una kafkiana minaccia terribile che incombe sulla vita quotidiana,

l’impotenza di capire non soltanto perché qualcosa è successo, ma che è successo

qualcosa.

Page 110: Raymond Carver - Di Cosa Parliamo Quando Parliamo d'Amore

Per questo i personaggi che negli Anni Trenta sarebbero stati descritti come

«lavoratori» nella tradizione della letteratura filoproletaria non hanno alcuna

aspirazione di rivendicazioni sociali ma sono soltanto dei poveri diavoli sbattuti

dagli imperscrutabili misteri della vita in situazioni inafferrabili e comunque

incontrollabili. Uno dei nostri racconti narra di un marito che andandosene cacciato

dalla moglie dichiara: «Voglio dire soltanto una cosa»; ma, conclude il racconto: «Non

riuscì a pensare che cosa avrebbe potuto dire».

Laconica e scabra, priva di lirismo e di eloquenza, parsimoniosa di immagini e

di commenti la prosa di Carver conduce la «semplicità» sognata da Hemingway alle

sue estreme conseguenze, senza concessioni a metafore, a esuberanze, a

sentimentalismi. Il nulla che ha fatto da protagonista al racconto di Hemingway A

Clean, Well Lighted Place (diventato per gli scrittori minimalisti una specie di

manifesto letterario) è anche protagonista di tutti questi racconti, a volte spezzati in

capitoli, con le storie inframmezzate di flashbacks tali da togliere profondità alla

narrazione, come per esempio in What We Talk About When We Talk About Love

che dà titolo al libro; ed è un nulla carico di significati metafisici che conduce a

certe allusive conclusioni kafkiane, come il «Lui sa» di So Much Water So Close To

Home, o alla «voce» che conclude il dramma di The Bath. Vorrei ricordare come una

curiosità che questo racconto The Bath rivela una tipica tecnica di Carver. The Bath

nella nostra raccolta finisce con una delle abituali sospensioni carveriane lasciando

incerta la sorte del bambino protagonista; in un ripensamento il racconto è ripreso

nella raccolta successiva e il bambino viene condotto alla sua fine, con la «voce»

impersonata da un personaggio che diventa il consolatore dei genitori dopo la morte

del bambino.

Questo come gli altri è un racconto così immerso nella realtà da sembrare del

tutto autobiografico; eppure di autobiografico nei racconti di Carver c’è solo il clima

degli ambienti piccolo borghesi o popolani che l’autore ha conosciuto così da vicino

per averli vissuti negli anni che precedettero la sua fama. In un’intervista ha detto:

«Nessuna delle mie storie è mai avvenuta in realtà. Ma c’è sempre qualcosa, un

elemento, qualcosa che mi è stato detto o a cui ho assistito, che ha fatto da punto di

partenza. Per esempio una volta da ubriaco mi sono sentito dire: “Questo è l’ultimo

Natale che ci rovinerai!” e me lo sono ricordato. Più tardi, molto più tardi, quando

ero sobrio, usando soltanto quella frase insieme a cose immaginate, ma

immaginate con tanta precisione che avrebbero potuto accadere, ho scritto il

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racconto: A Serious Talk».

Anche Why Don’t You Dance? è nato da un fatto vero. Carver ha detto che

mentre si trovava tra alcuni scrittori uno di loro ha raccontato la storia della barista

Linda che una sera si ubriacò e sistemò in cortile tutti i mobili della camera da letto.

Uno degli amici chiese: «Chi la scriverà, questa storia?» e la scrisse Carver cinque

anni dopo. Fu il suo primo racconto quando smise di bere.

Il lettore ritroverà questi racconti nella nostra raccolta, tutta vagamente

autobiografica senza esserlo, ripeto, fino in fondo. In un’intervista Carver ha

ricordato l’affermazione di John Cheever, secondo la quale tutti i suoi racconti sono

autobiografici e ha aggiunto: «Questo non è vero alla lettera. Ma in un certo senso

tutto quello che scriviamo è autobiografico... Quando si è giovani continuiamo a

sentirci dire che dobbiamo scrivere di quello che sappiamo, e che cosa sappiamo

meglio dei nostri segreti?».

È stato, questo, un altro insegnamento di Hemingway a incidere nella poetica di

Carver, e non c’è dubbio che anche alcuni racconti di questa raccolta sembrano

ricalcati da vicino su racconti hemingwayani, per esempio After the Denim coi suoi

dialoghi intimisti, o The Third Thing That Killed My Father Off con le sue descrizioni

di pesca, o The Cairn con quelle di caccia. Detto questo va aggiunto che non sempre

si ritrovano in Carver, magnifico scrittore di racconti, quella universalità e quella

creatività infinita, quella felicità di scoperta e quella drammaticità di sconfitta,

quella stellante poesia e quel disperato amore della vita che hanno fatto di

Hemingway l’eroe della narrativa contemporanea d’America e del mondo; ma va

aggiunto anche che con Hemingway Carver ha sicuramente diviso un’appassionata

ricerca di semplicità e di verità (che alcuni vogliono far risalire agli infruttuosi

tentativi di Wordsworth e Coleridge convinti di usare «il linguaggio veramente

parlato dagli uomini») e ha sicuramente diviso l’appassionata devozione allo

scrivere.

In un’intervista ha formulato quello che sembra il suo credo letterario: «La

narrativa non deve fare niente. Deve solo esserci, per l’ardente piacere che ci viene

dallo scriverla e per il diverso tipo di piacere che ci viene nel leggere qualcosa di

duraturo e scritto per durare, oltre che bello in sé e per sé. Qualcosa che getti

qualche scintilla in un chiarore persistente e saldo anche se fioco».

F. P.

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Febbraio 1987