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Rapsodie Salentine n. 14

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Rapsodie Salentine 2009 (estratto)

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Rapsodie Salentine n. 14

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Rapsodie Salentine Arte, Musica, Poesia, Cultura, Bellezza, Salento

n. 14 - luglio 2008

Redazione: Emanuele e Francesca Filograna

A margine della 16^ Vacanza Studio

organizzata dai Volontari della Pro Civitate Christiana di Assisi 25 – 31 luglio 2009

Oasi Beati Martiri Idruntini Santa Cesarea Terme (LE)

In copertina: Lu Puzzu (2009) – Le Are (2008)

Otranto (2008) – La Palascia (2008)

Tutte le opere grafiche che compaiono nel testo sono di: Franco Filograna

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PREFAZIONE

Rallegrati, trasformata dalla grazia: il Signore è con te ! (Lc 1,28).

«De Maria numquam satis !». Questo principio è forse alla base di una

preponderanza quasi ineluttabile in ambito cattolico. La figura di Maria ha finito per assorbire quasi interamente il significato del femminile nelle scritture, oscurando quasi interamente le sue altre manifestazioni. Molti predicatori e ricercatori del passato, partendo da questo principio (“non se ne dice mai abbastanza”), hanno facilmente finito per esagerare, snaturando la devozione mariana rispetto al giusto ruolo che le compete nella fede cristiana (come anche avviene oggi in certi settori che propinano Maria al popolo come una sorta di autentica divinità). L'intervento dogmatico del Concilio Vaticano II (con l’ultimo, ma intero capitolo VIII della "Lumen gentium") ha contribuito a precisare le linee dello studio della funzione di Maria nell'economia della salvezza, proponendo autorevolmente una mariologia biblica: lo studio della sua figura di donna alla luce della Scrittura e non più, quindi, una sentimentale effusione di lodi sperticate e senza misura, ma vacue e a volte distraenti. Nel vecchio Testamento vi sono, per esempio, una serie di figure che si possono ricollegare ad una sorta di prefigurazione della Madre del Messia. Alla corte di Gerusalemme (ca. 1000 a.C.) la regina madre ha un ruolo molto importante: il termine tecnico che la caratterizza è "gebirah", ossia "la potente", o la "Grande Dama". La prima gebirah fu Betsabea, moglie di Davide: non la prima sposata in ordine cronologico, anzi sposata in un contesto di adulterio, di inganno e di omicidio premeditato del marito di Betsabea. Ciononostante è la madre di Salomone, colui nelle cui mani il regno si consolida. Il prestigio della gebirah è dato proprio dal fatto di essere la madre del re. Proprio alla corte di Salomone viene composta la prima "storia sacra", il primo sacro testo narrativo di tipo storico dell'antico Israele, quello che la moderna scienza esegetica chiama la tradizione Jahwista. Lo Jahwista è un teologo, forse meglio una scuola di teologi, che ripensa la storia passata. Alla corte di Davide, era stato formulato dal profeta Natan il grande oracolo di fondazione della dinastia: Dio garantisce cioè che un discendente di Davide siederà sul trono di Gerusalemme (cfr. 2Sam 7). In questo contesto storico e culturale è determinante il ruolo della regina madre: lo Jahwista darà allora grande rilievo alle figure femminili, soprattutto alle "matriarche" d'Israele, Sara e Rebecca, Lia e Rachele. Non è un caso che il primo racconto che lo Jahwista pone all'inizio della storia è l'episodio ben noto dell'uomo e della donna nel giardino dell'Eden, nel quale il ruolo di protagonista non è giocato dall'uomo (Adamo in ebraico significa semplicemente "Uomo"), ma dalla donna, e il vertice del racconto è dato proprio dal finale, quando l'uomo chiama la donna: "Hawah" (Eva nella nostra versione), perché fu la "Madre di tutti i viventi" (Gen 3,20) (Hawah è legato alla radice di "vita", quindi potremmo tradurre: "La chiamò Vita poiché fu la Gran Madre"). Ecco il prototipo, l'archetipo della Madre, della gebirah.

Donne e preghiere in Grecia. Determinare la funzione ed il valore di alcuni momenti religiosi presenti nel

teatro antico offre una occasione di indagine sui legami che le tragedie hanno con il contesto storico-sociale dell’Atene del V sec.: in che modo lo status della donna nella polis e la concezione che la polis stessa ha della sua componente femminile, si riflettono sul pregare di Clitemnestra e compagne ? Il teatro infrange la separazione tra lo spazio domestico e di pertinenza femminile (l’oikos, con le sue regole e funzioni) e il mondo esterno, scenario delle attività pubbliche e politiche dei maschi. La straordinaria presenza femminile sulle scene non può che essere avvertita e interpretata dal pubblico ateniese come una significativa

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devianza rispetto alla norme e alle consuetudini sociali della polis. Si è rimarcata la spiccata inclinazione alla sovversione delle eroine tragiche, donne che occupano uno spazio che non appartiene loro (la realtà esterna e pubblica) e svolgono funzioni e compiti diversi da quelli tradizionali. Un altro elemento va considerato: in Atene, come nelle altre poleis, la religione è un campo in cui frequentemente la presenza femminile è addirittura richiesta dalle norme della società maschile

Nella Lisistrata il coro delle donne espone il suo curriculum di partecipanti ai riti cittadini: prima di pronunciare un discorso utile alle sorti della città, le donne ricordano il rapporto che le lega alla polis. Nel momento di offrire un proprio contributo alla vita politica e civile, il coro rivendica, in presenza della parte maschile, quanto ha già fatto pubblicamente (nel campo della religione) per la città. Per il resto il rapporto donna/polis oscilla tra i due poli opposti delle Tesmoforie, la cerimonia femminile che stravolge i tradizionali usi religiosi, e le Panatenee, che potrebbero rivelare al contrario una cittadinanza culturale delle donne. Se religione e religiosità sono terreno preferenziale sul quale avvengono i confronti e gli scontri tra i due sessi, la preghiera diviene per le donne mezzo naturale con cui manifestare il proprio pensiero e la propria specificità che la società maschile tende a controllare e limitare. Le donne sembrano in generale obbedire al precetto enunciato da Eteocle di innalzare la “preghiera migliore”, più forte e, quindi, più efficace per se stesse e per la polis. È forse per questo che dal punto di vista narratologico, le preghiere femminili prese in considerazione sono tutte accolte e tutte raggiungono l’obiettivo. La preghiera è l’unica parola concessa alla donna: nei drammi di Eschilo essa non è solo “Parola di Donna”, ma è il mondo della donna: la preghiera porta con sé tutta la personalità della donna, il suo universo, il suo modo di essere e di agire.

Nella chiesa Lasciatesi ormai da lungo tempo alle spalle il processo di liberazione proposto

dal femminismo (ricacciato indietro, probabilmente, con l’acqua sporca di un periodo

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storico ormai anche gene razionalmente superato), le donne cristiane possono sempre andare in cerca di un loro… filo rosa nella Bibbia. Esiste davvero ancora oggi il desiderio di superare il ruolo in cui la storia tende ricorsivamente a confinarle ? Come già era stato proposto molti anni fa da una certa lettura i cui semi buoni resistono al tramonto delle esperienze percussive in cui si era manifestata (comunità di base e teoria femminista anche più radicale), tre simboli possono essere visti nelle figure della madre dei Maccabei, in Ester e in Giuditta. Nell’episodio di resistenza popolare dei c.d. Maccabei contro i decreti del governo di Antioco Epifane, le donne trovano la storia di una madre che ha superato qualsiasi attaccamento viscerale nei confronti dei propri figli, per instaurare con loro un rapporto da pari a pari, trattandoli con affetto di madre, ma considerandosi in tutto e per tutto una resistente come loro, ciò che la conduce ad un conflitto violentissimo con il potere nel momento in cui si vorrebbe fare proprio della sua maternità un’arma di ricatto e uno strumento di affermazione della sovranità delle istituzioni costituite (2 Maccabei, 7 e ss.)

Ester, pur regina, è ben consapevole della sua irrilevanza sociale come donna e della sua assoluta mancanza di potere nei confronti del marito, il Re Serse, che per un capriccio ha fatto ripudiare la sua moglie precedente. Essa si rende conto della condizione di solitudine totale, etnica e culturale, in cui si trova, e da questa consapevolezza tutta femminile deriva il chiamare il marito “leone”, e il detestare i giorni in cui, quale donna di harem, anche se regina, deve fare la sua “comparsa”. Quando decide, per amore del suo popolo, di rompere la regola assoluta per cui nessuno, neppure la moglie-regina, poteva presentarsi non convocata dinanzi al re, il terrore è tale che sviene due volte. Si può tralasciare il fatto che a convincerla sia stato Mardocheo, e dunque pur sempre un uomo che, avendola allevata ha anche in parte il ruolo di padre. Il suo coraggio nello sfidare la legge, rischiando la vita, è ciò che conduce ad una via d’uscita per l’intero popolo di Israele, minacciato di genocidio (Ester 4, 17; 5, 1).

Giuditta, che non è null’altro se non una vedova, usa l’arma del suo fascino e della sua bellezza (solitamente l’unica vera arma concessa alle donne, che altrimenti sono sospettate in tutti i diritti antichi di essere scopritrici e grandi utilizzatrici del veneficio, per definizione), per salvare anch’essa il suo popolo dal pericolo. Rischia personalmente la sua buona reputazione, che per una vedova significa mettersi in pericolo definitivo di vita. Nella sua preghiera prima dell’impresa contro Oloferne, chiede a Dio esplicitamente di darle una parola seduttrice: fatto alquanto singolare perché darebbe ad intendere che la seduzione stessa può venire da Dio ! (Giuditta, 9, 10). La storia vuole insegnare che chi crede di considerare la donna e la sua bellezza come un mero oggetto di piacere ed appropriazione può perdere tutto ed anche sé stesso e la vita, per averne sottovalutato le capacità intellettuali ed il coraggio. L’uomo bestione (così l’iconografia) che crede inoffensiva la donna finisce per perdere (letteralmente !) la testa. Forse per questo motivo in realtà una lunga storia ha travisato l’episodio, come spesso accade, rivoltandolo nel suo contrario, come ammonimento circa le capacità di crudeltà e sottigliezza ingannatrice (ancora una volta) delle donne.

L’unica oggettività attribuibile alle riletture bibliche formanti questo (ipotetico) filo rosa della Bibbia, consiste nel fatto che esse contribuiscono ad incrinare simbologie radicate nella nostra cultura, ad aprire uno spazio in cui possano svilupparsi a poco a poco le premesse della nascita di un nuovo linguaggio e di una nuova cultura, in cui la donna abbia la possibilità di cominciare ad esprimersi. Scoprire che Cristo paragona sé stesso ad una chioccia che vuol salvare i suoi pulcini (Luca 13, 34 e Matteo 23, 37) o a una donna che spazza tutta la casa per ritrovare la dracma perduta (Luca 15, 8 – 10), sconvolge ancora la visione maschile ed autoritaria di Dio Padre. Questo capovolgimento simbolico ha valore solo se risulta elemento eversivo che aiuta le donne (e pure donna e uomo in relazione fra loro), a rompere con i simboli unilaterali che dominano sino ad oggi.

Già qualche decennio fa una certa corrente (soffocata ?) ha sottolineato che

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al posto di una concezione sacrificale e cruenta dei rapporti fra Dio e l’umanità, le donne possono iniziare a porre l’accento sugli appelli biblici a concretizzare la gioia e la pienezza dell’esistenza, attraverso una prassi di cambiamento globale, individuale e collettiva (proprio quella evangelica metanoia, cioè rovesciamento, in questo senso). Ma come potranno le donne far sentire questo loro studio culturale, se la lettura della parola rimane appannaggio di quelli che Adriana Zarri chiamava, propri in quegli anni, “i celibi” ed aggiungeva crudamente: spesso forzati ?

Ancora violenza sulle donne In questi giorni in cui il vento folle dell’istinto securitario fa gridare ad ogni

triste, nuovo episodio di violenza sulle donne, si può ricordare un personaggio ben poco noto della Bibbia, che ben simboleggia gli orrori di una certa ideologia religioso-sacrificale del patriarcato: è la figlia di Jefte, che correva a festeggiare “con timpani e danze” la vittoria del padre contro gli Ammonniti, e si trovò a morire vittima del voto fatto da questi a Dio (Giudici, 11, 29 – 39). Nel suo pianto di due mesi sui monti prima del sacrificio è sintetizzato il pianto di tutte le donne che al loro desiderio di festa e di vita si son viste contrapporre nel corso del tempo le leggi del sacrificio e della prevaricazione (anche i greci avevano conosciuto la tragedia di Ifigenia). Ogni anno le fanciulle di Israele compivano un pianto rituale di quattro giorni per ricordare la sorte trista della figlia di Jefte (di cui non si ricorda però espressamente il nome…), morta vergine e senza discendenza. Ancora qui, l’uso è stato interpretato come semplice pianto per il destino di infertilità, facendo prevalere questo aspetto su quello complessivo della sorte della donna: oggi, alla nostra sensibilità, potrebbe invece apparire un pianto su tutte le non fecondità provocate dal vivere cruento che il potere porta con sé. Sacrificio e morte al posto della festa e della danza. Anche la storia di Santa Cesarea, è un supremo esempio del tragico destino delle donne minacciate: per tentare di salvarsi, Cesarea escogita un sublime inganno (anche se inutile: lega per le zampe delle colombe, affinché, battendo le ali, diano l’impressione che lei è ancora a bagnarsi nella vasca; ma mentre fugge è raggiunta dal padre e per sottrarsi alla violazione preferisce immolarsi lanciandosi dalle rocce). Meglio sarebbe, però, se gli “angeli dal ciel” della canzone popolare intervenissero prima del tragico gesto, per ispirare diversi sentimenti nei cuori degli uomini.

Donne e diritti umani Sono da poco trascorsi i cinquant’anni dalla Dichiarazione Universale dei

Diritti dell’Uomo. Nel corso di questi cinque decenni il tema dei diritti umani delle donne è stato più oltre esplicitato, ma solo nell’ultimo decennio del XX sec. sono emerse con chiarezza la necessità di una riconcettualizzazione e la volontà di incorporare nell’agenda dei diritti umani questioni cruciali per le donne, troppo a lungo accantonate dalla legislazione internazionale: stupro, anche in ambito familiare, libertà di riproduzione, valutazione del lavoro domestico, ineguali opportunità nel campo dell’istruzione e del lavoro, della salute, delle politiche sociali, dello sviluppo. Fino ad oggi, inoltre, è scarso il riconoscimento della esposizione femminile al rischio di povertà che, nel concreto, significa difficoltà di accedere ai servizi sociali di base per la tutela della salute riproduttiva e, per molti paesi dell’Africa, misure per il contenimento della diffusione dell’HIV. In generale, nonostante i passi rilevanti compiuti, all’uguaglianza formale non è corrisposta per le donne un’uguaglianza sostanziale e sempre più si è parlato di un soffitto di cristallo, di una barriera invisibile e invalicabile che ostruisce la strada verso i vertici della politica e dell’economia.

I governi di tutti i Paesi membri dell’ONU (ed anche gli altri, naturalmente !) dovrebbero prendere serie misure per limitare tutte quelle pratiche discriminatorie derivanti dalle culture di appartenenza. Per i movimenti femministi la sfida nella battaglia per l’affermazione dei diritti umani delle donne sembra oggi essere costituita dal superamento sia di quelle forme di relativismo culturale che conducono alla paralisi, sia di un tipo di approccio essenzialista che glorifica i valori universali

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femminili, decontestaulizzandoli dalle strutture di potere che caratterizzano società diverse. Scrive Olwen Hufton: “L’ideale dei diritti umani è stato reinterpretato, espanso, sfidato, maltrattato, difeso e costantemente ripensato nei circa due secoli della sua esistenza. Esso resta vitale nella nostra lettura del passato e, se non si arriverà alla fine della democrazia occidentale, rimarrà ugualmente cruciale per la nostra visione del futuro”.

Donne in filosofia. Bisogna prendere atto che non esiste una tradizione di pensiero femminile

nella storia dell’Occidente. Solo in anni recentissimi si sono affacciate pensatrici tali da imporre la loro presenza nei manuali di storia della filosofia. E qualcuno potrebbe domandarsi: dal momento che la filosofia è un pensiero del tutto, un pensiero così generale, perché dovrebbe esserci uno specifico pensiero femminile (ad es.: in cosa sarebbe diversa la metafisica se pensata da una donna invece che da un uomo ?). Nella convinzione infondata che sia possibile «pensare alla filosofia delle donne come a una delle molte filosofie che affollano la scena contemporanea oppure come all’altra filosofia o alla filosofia dell’altro», vi è il rischio di incappare nella pretesa di produrre, una volta che la riflessione femminile si sia sottratta a una prospettiva subalterna, un nuovo ordine del pensiero, quasi si trattasse di gettar via la scala dopo esservi saliti, per dirla con Wittgenstein. Il viatico migliore per restituire voce e visibilità a quel fantasma della filosofia femminile che si aggira tra i sentieri del pensiero dell’Occidente sta nel riflettere su quello che le donne hanno pensato, a dispetto o in virtù della loro assenza dalla tradizione filosofica. Questo è il sentimento che restituisce la cifra delle riflessioni di Weil, Hillesun, Arendt, Zambrano e delle poche altre: un confrontarsi con i pensatori della tradizione in un abbraccio coraggioso che mette a repentaglio sia la propria singolarità sia l’identità dell’altro. E’ filosofico anche il noto passo delle Tre ghinee di Virginia Woolf che, sottolineano il senso di spaesamento provato dalle donne nei confronti delle istituzioni di potere e cultura, invita ancora a riflette sui meccanismi di riconoscimento e sui loro limiti. L’autrice inglese scrive, in nome di tutte le donne, una lettera immaginaria in risposta ad una richiesta di collaborazione da parte di un uomo per impedire un’altra guerra. Afferma che le donne sono disposte a collaborare e, tracciando un quadro della condizione femminile dal medioevo al secolo XIX, decide come potrebbe impiegare l’offerta di tre ghinee- evidentemente simbolica - a favore di cause alle quali tiene molto. La prima la darebbe per costruire un collegio di studi per le ragazze, che non hanno avuto possibilità di studiare. La seconda sarebbe destinata per aiutare le donne ad avviare una professione qualificata. E la terza ghinea ? La terza ghinea, dice la Woolf, potrebbe essere data all’uomo, a condizione che venga usata per la giustizia, l’uguaglianza e a libertà. Questo il senso: nell’unirsi al corteo dei loro fratelli e compagni, le figlie dell’uomo non devono perdere di vista la loro grande maestra, che risponde al nome di libertà (indipendenza da fittizi legami di fedeltà). L’iconografia ha un classico in materia di donne e filosofi: una giovane cavalca un vecchio piegato in avanti che procede carponi e uno spettatore sullo sfondo osserva la scena della sua umiliazione. Il vecchio barbuto è Aristotile e la donna Fillide, l’amante di Alessandro Magno, discepolo del sommo filosofo. La leggenda medioevale sconosciuta agli antichi e proveniente dall’Oriente, dice che Alessandro s’innamorò della cortigiana Fillide al punto che durante le lezioni di Aristotile pensava solo a lei. Il Maestro, quando si accorse che il suo discepolo era costantemente da un’altra parte con la mente, si sforzò di allontanare Fillide per distogliendolo dalla relazione amorosa.

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Fillide umilia Aristotile

Abbandonata da Alessandro che si era lasciato convincere, Fillide per vendicarsi riuscì ad entrare nelle grazie del filosofo, abbindolandolo e facendogli credere che, secondo un’antica tradizione di famiglia, lei, Fillide, prima di giacersi con lui, avrebbe dovuto cavalcarlo. Atistotile, che non capisce l’inganno, acconsente e capita che Alessandro assista alla scena del dileggio stupito e divertito dalla vista del Maestro impazzito per amore. L’episodio, invece di essere insegnato come ammonimento contro la stultitia che persino i più grandi filosofi dimostrano nel sottovalutare la donna, con un’altra inversione veniva indicato come exemplum della pericolosità delle donne !

Donne nel mondo (storto) del Diritto Pochi fuori dell’ambiente forense (ma anche e soprattutto fra le toghe…)

conoscono il nome di Teresa Labriola la quale, laureatasi in Giurisprudenza all’Università La Sapienza di Roma, e conseguita la libera docenza in filosofia del diritto, ai primi del Novecento non poté portare a termine la prima lezione in quella Università per la gazzarra inscenata dagli studenti contro una donna in cattedra (si sa che le facoltà di legge non sono frequentate né da rivoluzionari, né generalmente da idealisti, né sempre da coloro che hanno in mente la vocazione di difendere le cause perse…). Nel 1921 poi, Teresa Labriola presentò domanda di iscrizione all’Albo degli Avvocati. Il Consiglio dell’Ordine accetto con qualche dubbio e difficoltà la domanda, ma meno di un mese dopo, la Corte di Cassazione di Roma dichiarava che una donna non poteva esercitare la professione forense, riservata agli uomini. In un clima culturale ancora con il torcicollo sul diritto romano vivente, il Collegio investito del caso supportò la conferma della decisione con abbondanti citazioni al riguardo da Ulpiano e Papiniano Solo per informazione, il divieto (formalmente…) cadde nel 1919.

Un percorso (non) del tutto arbitrario. Ma veniamo ai testi di questo numero di Rapsodie Salentine. Poiché la scelta

non poteva che essere arbitraria, abbiamo deciso di concentrarci soltanto su alcune “Donne del Novecento”, figure femminili in alcuni casi forse neppure così celebri

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(almeno per i più). Molte donne sono destinate a rimanere sconosciute, anche quando fanno cose grandi (quanti in Italia, pur conoscendo Perlasca, ricordano gli oltre 25.000 ebrei salvati da Ada Sereni, la cui vita da film è invece nota quasi esclusivamente in Israele ?). Dietro queste vite si profila uno spaccato della storia di un secolo appena passato. Ci sarebbero stati infiniti casi emblematici da prendere a paradigma per riflettere sul ruolo della donna nel recente passato. Vi sono stati esempi inarrivabili di donne che hanno scritto pagine di storia ( Madre Teresa, per esempio, una delle figure maggiori di tutto il secolo, uomini compresi !). Ancora, donne educatrici, formatrici (la Montessori che il mondo ci invidia e il nostro sistema ha da sempre confinato in un innocuo cantuccio…). Vi sarebbero stati profili affascinanti ed attraenti di donne celebri e importanti, che però hanno finito per svolgere, sia pure con originalità o persino genialità, il ruolo sin troppo classico e stereotipo delle “ispiratrici” (meglio, dunque, tralasciare il capitolo relativo alle grandi “muse” di altrettanti grandi uomini, quello dell’ossequio al trito adagio: “dietro ogni grande uomo c’è una grande donna”… e il viceversa ?). Ma volevamo privilegiare donne affermatesi in settori non già visitati, per così dire, dal genio femminile e che anzi proprio al femminino convenzionalmente non si ritengono – ancora – fra i più confacenti e tradizionalmente riservati all’ingresso di “soli uomini”. Ecco allora donne di scienza, Marie Curie e Miss Leavitt, che o vengono neglette, o quando sono riconosciute fanno notizia (e storia !) perché donne. Ecco donne del giornalismo, che tragicamente pagano con la vita il loro coraggio intellettuale (altro che vana curiositas: vero fiuto per le notizie che contano…). Ecco infine due “donne di ingegno”, Margareth Mead e (non poteva mancare) Simone de Beauvoir, l’una intima, l’altra politica, a dare un’impronta personale – e magistrale - da un punto di vista per definizione altro.

Si potrebbe a questo punto sollevare un’eccezione: si tratta, nella quasi totalità, di donne occidentali. Ciò è in parte dovuto al fatto che per le donne europee e americane il Novecento è stato un secolo straordinario in cui è stata letteralmente inventata e disegnata a poco a poco una nuova identità, spesso invadendo - con successo - terreni a lungo preclusi. Per altra parte, è dovuto – inevitabilmente – alla nostra sostanziale ignoranza di ciò che avviene fuori dalle mura protettive sempre più alte che l’Occidente erige intorno al suo fortino in buona parte in decadenza.

A quest’ultimo proposito, per sugellare l’introduzione a questo percorso, una (buona) notizia. Nel numero del 17 ottobre 2008 si leggeva sul britannico Daily Telegraph “Una donna conduce la preghiera islamica. La professoressa Amina Wadud oggi lancerà il sermone in un centro di Oxford, in quello che è considerato un balzo in avanti per la parità nell’Islamismo. Sono però attese proteste per questa predica all’Oxford Center di Banbury Road. La situazione è controversa, visto che nella tradizione gli imam sono sempre uomini, e qualcuno crede che sia contro l’Islam che sia una donna a farlo. Mokhtar Badri, vice-presidente dell’associazione musulmana della Gran Bretagna si oppone alla predica: con tutto il rispetto per sorella Amina – dice - la preghiera è qualcosa da eseguire in conformità agli insegnamenti di nostro Signore; non ha nulla a che fare con la posizione delle donne nella società: questo è qualcosa di divino, non umano; dobbiamo farlo nel modo in cui è stato ordinato da Dio”.

§§ §§ §§ Speriamo che gli ormai proverbiali ‘rapsodici momenti di lettura’ che la

Vacanza Studio propizia fra la pineta dell’Oasi, il lungomare delle Terme e gli scogli di Porto Miggiano, un modo ulteriore per tenere il capo del filo che accompagnerà le riflessioni di queste giornate nell’incontro con le pagine sacre e fra tutti i partecipanti. Insieme all’augurio di buona lettura, anche il sincero augurio di un tempo sereno e intenso, ricco di momenti stimolanti.

[E.F.]

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GIORNALISTE E TESTIMONI

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Cronista senza tregua Anna Politkovskaja proviene dall’alta società sovietica, da quell'élite metropolitana che conosceva il mondo meglio delle fabbriche negli Urali e che garantiva ai suoi figli un buon posto nelle caotiche burocrazie di Mosca. Superati i quarant'anni e avuti due figli, Anna Politkovskaja si è trovata sola sulle colline cecene, in fuga nell'oscurità della notte. Scappava dai servizi di sicurezza russi, l’Fsb, che volevano arrestarla. Ma sugli altopiani di una regione senza legge e immersa nel sangue poteva cadere vittima di qualunque cosa: banditi ceceni, squadre della morte del governo di Mosca o di Grozny, una frattura al collo. Era l'Europa, ed era il 2002. "Ho camminato tutta la notte", racconta. “Volevo continuare a vivere. E’ stato terribile. Ho raggiunto il villaggio ceceno di Stary Atagi all'alba. Ci sono rimasta un giorno e una notte, tenendo la testa bassa". Continua a parlare per un po', poi sembra riprendere il controllo di sé. Forse teme che raccontare a uno sconosciuto uno dei tanti episodi della sua vita in cui ha rischiato di andare in prigione o di fare una brutta fine sia irrilevante per la seria professione del giornalista. "Ma questi sono solo dettagli", taglia corto. Nell'atmosfera tranquilla dell'appartamento di un editore londinese, sul volto della Politkovskaja - una delle più coraggiose tra i tanti coraggiosi giornalisti russi - si possono leggere le diverse stagioni della sua vita, e il suo impegno in ciascuna di esse: la studentessa degli anni settanta, la giovane cronista sovietica onesta e curiosa, la giornalista che ha abbracciato le libertà della perestrojka alla fine degli anni ottanta, la veterana dei recenti conflitti russi, pronta a tornare più volte in Cecenia, facendo infuriare la leadership del Cremlino che cerca di trasformare Vladimir Putin in un khan infallibile. La sua serietà non traspare solo

dall'espressione accigliata, dagli occhiali austeri e dai capelli bianchi. Sono la tensione, la rabbia e l'impazienza di tutto il corpo a rendere evidente che la coscienza delle continue ingiustizie compiute nel suo paese non la lascia mai. Non può metterla a tacere, come riescono a fare molti giornalisti britannici, perfino quelli più impegnati e radicali. E’ una sorpresa, quindi, sentirla prendere in giro il fotografo che vuole convincerla a posare. “I fotografi fanno sempre così", spiega nel suo inglese esitante. “Costringono le persone a fare cose che normalmente non fanno". Il fotografo è piuttosto infastidito, e mi rendo conto che Anna - 46 anni - è ancora giovane. Ed è ancora piena di speranza. La sua foto sulla quarta di copertina del nuovo libro, La Russia di Putin (pubblicato in Italia da Adelphi; n.d.r.), è così consapevolmente tragica e l'argomento così cupo, che le chiedo se secondo lei ci vorranno generazioni perché il suo paese diventi veramente libero. “Non vorrei mai dover dire che serviranno generazioni", risponde. "Nell'arco della mia esistenza voglio riuscire a vivere una vita da essere umano, in cui ogni individuo è rispettato".

Alla scoperta dei mondo Anna Politkovskaja è nata a New York dove i suoi genitori ucraini erano diplomatici sovietici all'Onu - nel 1958, cinque anni dopo la morte di Stalin. Rispedita a casa per studiare, dopo la scuola è entrata nella facoltà di giornalismo dell'università statale di Mosca, una delle più prestigiose dell’Urss. Tra gli altri vantaggi, lo status diplomatico dei suoi genitori le dava la possibilità di consultare libri che all'epoca erano al bando, permettendole di scrivere una tesi di laurea su una poetessa quasi proibita, l'emigrata Marina Cvetaeva. Dopo la laurea, Anna ha lavorato per il quotidiano Izvestija e poi è passata al giornale della linea aerea Aeroflot. “I

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giornalisti avevano biglietti gratis tutto l'anno: potevamo prendere qualsiasi aereo e andare dove volevamo. Ho girato in lungo e in largo il nostro enorme paese. Venivo da una famiglia di diplomatici, ero una lettrice accanita, un po' secchiona. Non sapevo niente della vita". Con l'arrivo della perestrojka, Anna Politkovskaja è passata alla stampa indipendente, che in quegli anni cominciava a emergere e ad affermarsi: prima la Obshaja Gazeta, poi la Novaja Gazeta. Nessuna delle cose terribili accadute dopo l'arrivo al potere di Mikhail Gorbaciov, nel 1985, l'ha convinta che sarebbe stato meglio salvare l'Unione Sovietica. "Da un punto di vista economico la vita diventò molto difficile", racconta, "ma politicamente fu tutt'altro che uno shock. Era pura felicità, quella di poter leggere, pensare e scrivere tutto ciò che volevamo. Era una gioia. Bisogna essere disposti a sopportare molto, anche in termini di difficoltà economica, per amore della libertà". Ma appena i nuovi paesi dell'ex Unione Sovietica hanno cominciato a camminare sulle loro gambe, è scoppiata una serie di guerre intestine. La più feroce, che continua ancora oggi, è quella per riconquistare il controllo della piccola regione della Cecenia. E Anna Politkovskaja è diventata una delle croniste più tenaci del conflitto.

Il prezzo dei conflitto I russi parlano di due guerre cecene: la prima, dal 1994 al 1996 sotto la presidenza di Eltsin, è finita con un accordo di pace e il ritiro delle truppe di Mosca, grazie alla pressione dei mezzi d'informazione e dell'opinione pubblica. All'epoca della seconda invasione, nel 1999, Putin ha cercato di impedire che i giornalisti lo mettessero in imbarazzo raccontando i misfatti russi in Cecenia. Se, come ritiene Anna Politkovskaja, fermare la prima guerra cecena è stato il maggiore successo dei reporter russi negli anni relativamente liberi di Eltsin, la seconda guerra cecena è stata il loro più grande disastro. Un tempo voce indipendente tra tante altre, la Novaja Gazeta è oggi uno dei

pochi mezzi d'informazione russi che non si è lasciato intimidire e non segue la linea del Cremlino. Ad Anna Politkovskaja la seconda guerra cecena è costata innanzitutto il suo matrimonio. Un giorno del 1999 dopo un reportage su un attacco russo a Grozny in cui erano stati colpiti un mercato e un reparto di maternità ed erano rimaste uccise decine di persone, tra cui donne e bambini - tornò a Mosca e il marito le disse: "Non ce la faccio più a sopportare tutto questo". Qualche mese fa ha rischiato la vita quando, in viaggio verso Beslan subito dopo il sequestro degli ostaggi nella scuola, qualcuno le ha versato del veleno in una tazza di tè. E in questi anni ha ricevuto molte minacce di morte da soldati russi, combattenti ceceni e altri gruppi armati che operano ai margini della guerra. I sequestri, le uccisioni extragiudiziarie, le sparizioni, le torture e gli stupri l'hanno convinta che sono proprio le scelte politiche di Putin ad alimentare il terrorismo che dovrebbero eliminare. “Ancora oggi, la tortura è praticata in qualunque centro dell’Fsb in Cecenia. Il cosiddetto ‘telefono’, per esempio, che consiste nel far passare la corrente elettrica attraverso il corpo di un detenuto. Ho visto centinaia di persone che hanno subito questa forma di tortura. Alcune sono state seviziate in modo così perverso che mi riesce difficile credere che i torturatori siano persone che hanno frequentato il mio stesso tipo di scuola e letto i miei stessi libri". Anna non si pente delle volte in cui ha messo da parte il suo ruolo di giornalista per assumerne un altro – di negoziatrice durante l’assedio al teatro di Mosca e di potenziale negoziatrice a Beslan, prima di essere avvelenata. "Sì, sono andata al di là dei miei doveri di cronista", spiega. "Ma sarebbe del tutto sbagliato sostenere che da un punto di vista giornalistico è stata una brutta mossa. Rinunciando al mio ruolo ho imparato tante cose che non avrei mai capito continuando a essere una semplice cronista”. Ha parole dure per quello che considera il guanto di velluto dell'occidente nei confronti di Putin e della Russia. "Il più delle volte dimenticano la parola Cecenia. La

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ricordano solo quando c'è un attentato. E allora tutti si stupiscono. Ma di fatto nessuno parla di cosa succede realmente in Cecenia, e dell'aumento del terrorismo. La verità è che i metodi di Putin stanno generando un’ondata di terrorismo senza precedenti nella nostra storia". “La guerra al terrore di Bush e Blair ha aiutato enormemente Putin”, sostiene Anna Politkovskaja. Molti russi hanno provato un piacere perverso nel vedere le foto degli abusi americani nel carcere di Abu Ghraib. "L’ho sentito ripetere molte volte. In Russia la gente ne parla con orgoglio: “Noi quelli lì li abbiamo trattati così prima degli americani, e avevamo ragione perché sono terroristi internazionali”. L'unico modo in cui l'occidente può recuperare la sua autorità morale, sostiene Anna, è quello di trattare Putin come tratta Aleksandr Lukashenko, il presidente della Bielorussia - non le sanzioni, ma una forma di isolamento più personalizzata.

“Com'è possibile parlare del mostruoso numero di vittime e del terrorismo in Cecenia, e poi stendere un tappeto rosso davanti a Putin, abbracciarlo e dirgli: ‘Noi siamo con te, sei il migliore’ ? Questo non dovrebbe succedere. Capisco che il nostro paese è un grande mercato, che è molto allettante. Me ne rendo perfettamente conto. Ma noi non siamo persone di serie B, siamo gente come voi, e vogliamo vivere". [di James Meek, giornalista di “The Guardian”, tratto da “Internazionale” nr. 566] [Anna Stepanovna Politkovskaja è stata assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006. Il 15 luglio 2009 è stata rapita e uccisa Natalja Estemirova, considerata l'erede di Politkovskaja e nota per il suo lavoro di ricerca di testimonianze e prove relative a violazioni dei diritti umani in Cecenia].

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Il tuo nome è il nostro nome. Per non dimenticare Ilaria Alpi.

Prologo

Ci sei, Ilaria, ci sei. Uccidendoti, i tuoi assassini e i loro mandanti, non ti hanno tolto la vita, non ti hanno sottratto alla terra. Non sapevano che scavandoti la fossa, ti scavavano una nicchia nei cuori di tanti che ti hanno accolta ed amata. No, loro, questo proprio non lo volevano. Mai potevano immaginare, stupide teste vuote, che la morte, il genere di morte che la sorte ti ha destinata, germina ammirazione e rispetto. Nè potevano presagire che la tua vita avrebbe assunto il ruolo della testimonianza. Annientarti significava tapparti la bocca, zittendoti per sempre. Miseri uomini… Il potere dei forti si sbriciola in cenere anche quando è convinto di vincere ancora. Quello che può ottenere la forza dell’amore per la verità non l’ottiene la forza bruta del prepotente. Sottraendo la rapida gioia al tuo sguardo, loro, gli assassini e i mandanti, non sapevano che ti attribuivano un nuovo sguardo,carico di luce nuova.

Il tuo nome Il tuo nome è il nostro nome. Leggero come l’aria, forte come le rocce dei nostri monti di confine,il tuo nome si amplifica su mille bocche, s’incide mille volte in un anno sui fogli bianchi dei nostri studenti. Questa è una lunga lettera che ti scrivo. Lo faccio per renderti onore, per sottolineare la forza che ci trasmetti. Per fortificarci. Una scuola che sceglie te per darsi la nuova denominazione è una scuola che rimarca il valore della propria missione educativa e formativa. E’ un’istituzione la scuola, un “territorio”, un luogo di crescita e di formazione, un posto quasi sacro che aiuta a trovare la rotta a moltitudini di individui. In questo luogo, noi costruttori di coscienze e di valori, spendiamo le ore di tutta una vita nel fermo convincimento di agire per finalità di enorme portata. Quando sbagliamo, se sbagliamo, non possiamo neutralizzare l’eventuale danno che arrechiamo a menti e cuori. Quando

seminiamo, quando nelle aule quadrettiamo, squadernando il sapere, guardando negli occhi puntati o distratti, persi o inconsapevoli dei nostri alunni, lo facciamo sospinti da una forza interiore che non si misura e non si quantifica,perché è una forza che cresce e non decresce con il passare del tempo. I nostri ragazzi, anche quelli che sembrano ostinatamente sordi e ciechi, hanno sempre qualcosa da dirci e da donarci. In questi tempi certo non facili, né felici,noi vogliamo dare anche attraverso il tuo nome, un segnale forte, deciso, significativo. Per noi sei l’emblema di un futuro fatto di speranze possibili. Sei,in fondo, l’isola felice cui vorremo si approdasse per osservare nuovi orizzonti . Su in alto vorremmo guardare non stracci di un cielo di pece, ma spazi azzurri tersi e distesi, attraversati dai dispiegati voli dei gabbiani. Uccelli leggiadri e liberi che non a caso sono il logo del nostro Istituto. Anche in questo caso una scelta felice, un’intuizione intelligente. Pensa che bel connubio, Ilaria. Tu,con il tuo nome e il gabbiano… Metaforicamente potremmo anche dire: l’amore costante e deciso per la ricerca del vero (il tuo spirito professionale); il discostarsi dal terreno, dal contingente per puntare sempre più in alto, sospinti dal desiderio di affermare una libertà di pensiero e di essere, l desiderio che nobilita ed eleva gli spiriti ( il volo del gabbiano).

Quale verità? Le commissioni d’inchiesta sul tuo caso,Ilaria ben lo sai, sono state simili ad un serpente velenoso che ha snodato,ondeggiando in un lungo e tortuoso percorso, tutto il suo possibile fiele nelle pieghe di carteggi ponderosi. Negli anni si è perso il conto delle commissioni che dovevano servire a chiarire la dinamica sia della tua morte, sia del movente del tuo assassinio. E quando si dice “tuo assassinio”, certo, lo si congiunge a quello di Hrovatin, che è morto standoti al fianco, sul campo, come si dice in questi casi. Ebbene,attraverso le commissioni d’inchiesta, i vari governi succedutesi dopo la tua morte, dovevano aiutarci a far luce. Invece, più si procedeva, più il

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buio diventava fitto. Le verità si sono venute a distorcere, si sono sfumati i contorni dei dati che sembravano certi, si sono deformati i fatti. Ci si è trovati in un ginepraio dove gli eventi sono stati interpretati a proprio piacimento. La storia delle commissioni di inchiesta sul tuo caso è la metafora del nostro tempo marcio, che noi, a scuola come nelle altre occasioni di vita, cerchiamo di contrastare con i mezzi di cui disponiamo. Ossia, l’esercizio della virtù della conoscenza, coltivata nell’humus fervido delle idealità possibili.

Un manifesto di Reporters sans Frontiérs

Il bene, il giusto, il bello, insieme a tanti altri principi orientano il nostro cammino e non può esserci marcio che li possa ottundere, facendoci smarrire. Al tuo animo e a quello dei tuoi, invece, si nega la pace. Il serpente mortifero ha sparso i suoi veleni: l’ultimo amaro fiele è stata la pronuncia del lungo procedere, nel febbraio 2006. In fondo, cara Ilaria, così vogliono farci credere: tu e il tuo collega-amico, eravate in vacanza in Somalia e lì per sciagura,per fortuita sciagura, avete trovato la morte. Vi godevate il sole della Somalia, sorseggiando bibite

dissetanti, seduti in qualche bar. Tranquilli come si conviene a turisti in cerca di relax o di possibili emozioni, con macchine fotografiche con cui catturare solo scorci di paesaggi o momenti particolarmente belli. Mi sorridi e nel tuo sorriso amaro colgo la polpa del rammarico nei cuori di chi in te ha creduto, amandoti e rispettandoti. In quelle laconiche e stupide parole del Presidente della ormai famosa Commissione d’Inchiesta, traspaiono la mistificazione sfacciata, l’impunita protervia del potere e l’arroganza liquidatoria degli uomini che non temono né vergogna, né giudizio. Si sono lette e udite parole in contrasto tra loro, che confermavano e poi smentivano i fatti; ci sono stati uomini che dichiaravano il falso, altri che infangavano e altri ancora che sottraevano fonti e documenti preziosi che avrebbero aiutato a meglio comprendere, a capire la vera versione degli eventi. Fra un’umanità così varia, c’è stata gente che ostinatamente ha cercato di farsi strada nel buio, lottando per ristabilire l’onore ai fatti e,soprattutto a te ed al tuo collega, che avevate osare fare bene e fino in fondo il vostro mestiere. Queste persone hanno scavato fra le “macerie” prodotte dall’altra gente e scavando, a volte, si sono fatti male,ma non si sono fermati.

Il tuo viso Ci guardi Ilaria, sei in classe con noi. Sorridi mentre esploriamo un po’ della tua vita. Vedi i visi dei ragazzi e ti sorprendi a vederli interessati alla tua storia. Una storia complessa che coinvolge e cattura. Stiamo entrando nella tua vita per rafforzare le nostre; lo stiamo facendo per avere gambe più robuste, per avere più energie ad affrontare i giorni che verranno. Ci stiamo immergendo in verità scomode che potrebbero smorzare la fiducia negli organismi che ci sovrintendono, ma lo facciamo lo stesso perché sappiamo che la retorica è un velo che appanna il reale. Noi siamo orientati verso percorsi educativi che portano a leggere tutta la realtà, nel bene, come nel male. Pensiamo ad un modello di scuola che induca a ragionare e a riflettere,sapendo analizzare i fatti. Perciò i fatti li vogliamo

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guardare per come si presentano. Non ammaestriamo menti, ma le aiutiamo a delinearsi alimentandole con i costrutti che esse stesse si sanno dare con i nostri stimoli che inducono a scavare,a trovare,a costruire,ad ideare, ad ipotizzare. Tu continui a sorridere perché sai bene l’intenzione del nostro credo,come altrettanto bene conosci le passioni che ci animano. Nelle ore di lezione che stiamo dedicando a te, esaminando la macchina complicata allestita dopo la tua morte, anche l’alunno più restio sta seguendo, con una luce nuova negli occhi che gli ha acceso anche il sorriso. Si parla di “Report Hope”, di traffici illeciti, di responsabilità occultate, di commissioni d’inchiesta, di armi, di bossoli,di carte smarrite e poi ritrovate e di altro,come tu ben sai, e non si colgono sbadigli. Le stai vedendo ,Ilaria,le mani alzate per chiedere la parola,li stai vedendo i ragazzi stupiti che chiedono il “perché”. Il tuo viso si fonde con questi visi che hai di fronte. Sono impegnati in un impresa che li porta a confrontarsi con uno spaccato di vita e con un pezzo del nostro tempo. Lo facciamo questo percorso proprio perché sappiamo che il tempo che ancora dovremo vivere, lo dobbiamo affrontare sapendolo “governare”, ma soprattutto cambiare in positivo. Nel gioco delle dinamiche sociali, numerose e

complicate, noi ci vogliamo entrare non in punta di piedi, perché ci vogliamo mettere la pancia, le viscere e il pensiero. Noi il pensiero lo vogliamo “poliedrico” e “plurimo”; in poche parole lo vogliamo fecondo e per essere tale il pensiero si deve “sporcare”. Questo è ciò che vogliamo. Allora, se questa è la nostra missione, Ilaria, anche tu con la tua vita e con la tua morte, ci stai dando una mano…. Per questo il tuo viso forma con i nostri un solo viso… Cogli il senso di questa lunga lettera che ti sto scrivendo ? Sai che parlo a te e di te, per parlare ad altri; sai che tutto questo non è vano. Sei parte di noi,ormai. La tua impronta è visibile in ognuno di noi e il tuo nome, ah il tuo nome, quello nessuno ce lo potrà mai sottrarre. Mai. Così continueremo a parlare di te, come del resto ho fatto per decenni a centinaia di studenti. Speravo ieri e spero oggi che sia servito e sia stato utile bagnarsi in acque così poco chiare, così poco dolci, così poco fresche. Grazie Ilaria,grazie di cuore. [Discorso di una professoressa in occasione della intitolazione di una scuola superiore ad Ilaria Alpi. Riportato da SkyNews-tg24] .

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DONNE DI SCIENZA

La donna che scoprì come

misurare l’universo

Le ‘computatrici’. Immaginare cosa potesse significare essere un ‘computer’ un centinaio di anni fa, presso l’osservatorio di Harvard, non è cosa facile. Con il termine “computer” non si indicava, infatti, un macchinario senza anima, fatto di conduttori e silicio, ma un essere vivente, e nel nostro caso una giovane donna in carne e ossa. Il suo nome era Henrietta Swan Leavitt, il suo lavoro consisteva nel contare le stelle. Oggi come oggi compiti del genere sono affidati alle macchine. Una serie di sensori elettronici acquisisce immagini del cielo, sotto forma di una fiumana di cifre che poi un moderno computer prende debitamente in esame. Ma intorno al 1890, quando Harvard si imbarcò nel progetto interminabile di catalogare la posizione, la magnitudine e il colore di ogni stella del cielo, gli aggeggi più simili ad un moderno calcolatore elettronico erano ingombranti calcolatori meccanici con le loro tipiche file di rumorosi pulsanti le rigide leve di comando da azionare manualmente e relativi campanelli. E poi ci voleva il cervello di un essere umano. Impiegati diligenti dello stampo di Miss Leavitt (venivano proprio chiamati “computer”) ricevevano un compenso pari a 25 centesimi di dollaro l’ora, vale a dire 10 centesimi in più di un operaio di un cotonificio. Il loro compito era quello di esaminare una cascata di puntini, ovvero le fotografie del cielo stellato. Li avrebbero misurati e computati uno a uno registrando le loro osservazioni in un libro mastro. Il risultato di quel lavoro immenso è un archivio di inestimabile valore, la rappresentazione del cielo così come appariva nelle diverse notti in cui fu fotografato, a partire dal 1890 circa, ovvero dall’inizio del rilevamento. Curva su quelle lastre in una delle stanze dell’osservatorio, Miss Leavitt scovò una configurazione grazie alla quale si

sarebbe finalmente avuta la risposta: scoprì come misurare fino a protendersi all’esterno della nostra galassia e come cominciare a mappare l’universo. Il telescopio di Harvard, chiamato “grande rifrattore”, è ormai andato in pensione, ma quando nel 1847, puntò per la prima vota verso la volta celeste, era uno dei più potenti del mondo. Il primo astronomo a poter sbirciare attraverso quello strumento restò praticamente senza fiato: “E’ meraviglioso – annotò poi – poter osservare stelle che, fin dalla creazione, erano state nascoste all’occhio umano. In questo scenario c’è una magnificenza, una maestosità tale che quasi soggioga l’animo, e che non c’è modo di esprimere a parole”. Vista la mole di dati da assimilare e integrare, gli astronomi furono ben presto oberati di lavoro; un fiorire inarrestabile di dati grezzi che chiedevano di essere categorizzati. Fu a questo punto che entrarono in gioco i computer. Immaginate di dovervi procurare personale in grado di eseguire un lavoro di precisione per 25 centesimi l’ora, ovvero la paga oraria minima. Probabilmente al giorno d’oggi il conteggio delle stelle sarebbe stato affidato a qualche imprenditore sfruttatore e realizzato in qualche paese asiatico sottosviluppato. Ma per la fine del XIX secolo, occuparsi di quei calcoli non era poi un cattivo affare. Sette ore al giorno per sei giorni la settimana permettevano di raggiungere 10 dollari e 50 centesimi alla settimana, più un mese di vacanza. Si trattava peraltro di un lavoro noioso, e a chiedere il posto non c’erano molti uomini, ma soprattutto donne.

L’arte di misurare le stelle. Sebbene a indicarlo non ci sia nemmeno una targa, la stanza al secondo piano nella quale lavoravano Miss Leavitt e gli altri computer è ancora intatta. Quando , nel 1893, si unì all’equipe dell’osservatorio a titolo di volontaria, Henrietta Swan Leavitt aveva 25 anni e

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si era laureata l’anno prima. Non è stata trovata nessuna testimonianza su ciò che nelle stelle la colpì così tanto da farne il centro della sua vita. Non trattandosi che di un personaggio minore, s’è lasciato che le vicende della sua vita svanissero nel nulla. Non si sposò e morì giovane. Nell’osservatorio le fu assegnato il lavoro di registrazione della magnitudine delle stelle, un’arte chiamata “fotometria stellare”. A seguito del periodo di esposizione, le stelle più luminose lasciavano sulle lastre fotografiche punti di diametro superiore, scurivano cioè molti più grani dell’emulsione fotosensibile. Di conseguenza le dimensioni diventavano un indicatore della luminosità. Osservando quelle immagini con una lente, Miss Leavitt le confrontava una a una con quelle delle stelle la cui magnitudine era già nota e registrava l’informazione con calligrafia perfetta sulle pagine a righe rosa e blu. Ben presto le fu chiesto di cercare le stelle variabili, ovvero quegli astri la cui luminosità cresceva e diminuiva come se si fosse trattato di fari al rallentatore. Tra le variabili ce n’erano certe che completavano il loro ciclo nel giro di pochi giorni, mentre per altre ci volevano settimane o mesi. Chiedersene il motivo non rientrava nelle mansioni di Henrietta. Ella trascorreva ogni santo giorno dedicandosi a quel lavoro scrupoloso, talmente assorta in quelle misurazioni che uno dei colleghi in seguito l’avrebbe definita posseduta da “uno zelo quasi religioso”. In un giorno di primavera del 1904, mentre confrontava diverse lastre, ottenute a intervalli diversi, che ritraevano la piccola nube di Magellano, Henrietta notò che in quel guazzabuglio di stelle c’erano diversi puntini che avevano cambiato dimensioni. Variabili !

Un indizio. I risultati da lei ottenuti apparvero via via in brevi resoconti. Nel 1908 preparò un resoconto intitolato 1777 Variabili nelle Nubi di Magellano, pubblicato negli “Annals of the Astronomical Observatory of Harvard College”. Composto di ventuno pagine, quel lavoro includeva due lastre e quindici pagine di tabelle. Il solo numero di variabili era già, di per se

stesso, sufficientemente sorprendente. Ma, se un lettore avesse avuto la pazienza di arrivare a leggere quel lavoro fino in fondo, avrebbe trovato qualcosa di ancor più interessante. Henrietta aveva aggiunto ciò che sembrava essere frutto di un’ultima riflessione, una selezione di sedici stelle, sistemate in modo da mostrare fianco a fianco sia i periodi sia la magnitudine. “E’ da rilevare – aveva osservato – che le variabili più luminose sono anche quelle contraddistinte dal periodo più lungo”. Alla luce di quanto gli astronomi sanno oggi, quella nota racchiude un’informazione straordinariamente importante, e costituisce una clamorosa minimizzazione di una scoperta sensazionale. Ma Miss Leavitt non intendeva essere falsamente modesta, voleva semplicemente evitare di spingersi troppo oltre nell’interpretazione dei suoi dati. Dal momento che le variabili si trovavano tutte nelle Nubi di Magellano, dovevano trovarsi più o meno alla stessa distanza dalla Terra. Se la correlazione che aveva colto si fosse rivelata valida, si sarebbe potuta giudicare la vera luminosità della stella in base al ritmo della sua pulsazione. A quel punto si sarebbe potuta confrontare la vera luminosità con la luminosità apparente, come osservata dalla Terra, e stimarne la distanza. Ma si trattava di una teoria troppo importante per poterla basare unicamente su quel gruppo di stelle. Servivano altre misurazioni. Nel 1912, in una “Harvard Circular”, fu pubblicato un grafico in cui Miss Leavitt, dopo aver nuovamente rivolto la sua attenzione alla strana faccende delle variabili magellaniche, aveva tracciato su un asse la loro luminosità e sull’altro il loro periodo. A quel punto la struttura era più chiara che mai. Le stelle sia allineavano con tale precisione che la stessa Henrietta aveva sottolineato senza indugi: “C’è una notevole correlazioni tra la luminosità di queste variabili e la durata del loro periodo, non si può fare a meno di notarla”. Più la stella era luminosa più lento era il suo pulsare. In altri termini, si poteva determinare quale fosse la loro vera luminosità.

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Senza che ci fosse bisogno di lasciare la Terra, si potevano contare i battiti della pulsazione di quelle stelle e servirsene per calcolare la loro magnitudine intrinseca. Confrontando quel valore con la magnitudine apparente, si sarebbe ottenuta la loro distanza. L’universo aveva così fornito un indizio della sua grandiosità.

Un lavoro di cui essere orgogliosi. Immaginiamo di starcene tranquilli in veranda, intenti a contemplare il panorama delle campagne di notte. Laggiù in fondo c’è una fila misteriosa di luci elettriche. Alcune di esse sono più luminose, altre più deboli, ma dal momento che non abbiamo idea della loro effettiva potenza, non sapremmo dire se si trovino a pochi metri o a pochi chilometri di distanza. Supponiamo ora che quelle luci lampeggino, e che sia stato decretato da una qualche autorità internazionale che ogni lampadina deve essere costruita in modo da lampeggiare in accordo alla sua effettiva luminosità. Le lampadine da 50 watt lampeggiano più rapidamente di quelle da 100 watt. Se due di queste particolari lampadine-faro pulsano con la stessa frequenza, se una di esse, pur avendo la stessa frequenza dell’altra, è quattro volte più debole, significa soltanto che è molto più lontana. Restava un unico problema: le cefeidi (variabili) di Henrietta fornivano solo distanze relative. Si sarebbe potuto affermare, con tutta sicurezza, che una stella era due volte più lontana di una seconda e tre volte più lontana di una terza stella. Ma nessuno poteva ancora dire se si trovassero rispettivamente a uno, due e tre anni luce dalla terra, o magari a venti, quaranta e sessanta. Non c’era modo di saperlo. Per trasformare quei rapporti in distanze vere e proprie, qualcuno avrebbe dovuto scoprire a quale distanza dalla Terra si trovasse la prima delle tre stelle di cui sopra. Per l’intanto il metro di paragone di Miss Leavitt restava privo di scala graduata. Il passo successivo sarebbe per l’appunto consistito nel calibrarlo. Per chiunque si appresti a misurare l’universo sfruttando appieno la cavalcata del Sole, le stelle più vicine

sembreranno muoversi più rapidamente rispetto alle stelle più lontane, mentre quelle perse nella profondità dello spazio non mostreranno alcun movimento apparente. Bisognerebbe quindi registrare accuratamente la posizione di una cefeide e poi misurarla nuovamente anni dopo, avendo atteso che il Sole abbia trascinato la Terra e i suoi astronomi in una diversa zona dello spazio. Una volta calcolata l’ampiezza di quell’enorme base di rilevamento, si potrebbe effettuare una triangolazione. E, una volta fissata la distanza di una cefeide, si potrebbe finalmente calibrare il parametro di Miss Leavitt, quindi procedere alla misurazione di tutte le altre. Henrietta Leavitt non ebbe modo di dedicarsi personalmente a quella faccenda. A partire dal’agosto del 1912, anno della sua scoperta in merito alle cefeidi, Henrietta prese a registrare la sua routine quotidiana su un libretto di appunti bianco e rosso rilegato in cuoio. Il diario di lavoro prosegue per quattro anni con qualche pausa, segno del ripetersi dei suoi malanni. Il 13 gennaio 1914 Henrietta concluse, o almeno così credeva, le misurazioni della sua Sequenza Polare Nord, una serie di 96 stelle di cui aveva determinato la magnitudine con tale attenzione e precisione che potevano essere impiegate come standard per il resto del firmamento. Quel lavoro fu finalmente pubblicato tre anni dopo. Un non addetto ai lavori l’avrebbe sicuramente trovato arido e noioso, ma quel suo lavoro era un’autentica meraviglia, e combinava i dati ricavati dall’analisi di 299 lastre fotografiche, ottenuta da 13 diversi telescopi. Era un lavoro di cui essere davvero orgogliosi.

Quanto amava le sue nubi ! Henrietta Swan Leavitt morì il 12 dicembre del 1921, abbiamo un breve descrizione degli ultimi giorni della sua vita grazie al diario della sua collega Annie Cannon. Qualche giorno prima della sua morte Henrietta aveva scritto di suo pugno il testamento lasciando alla madre tutta una serie di oggetti di poco valore. Lasciò anche una ricerca

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fotometrica sul cielo australe e uno studio delle curve luminose delle Nove, compresa (come l’avrebbe successivamente definita il bollettino annuale di Harvard) la “famosa nuova stella del 1918”, che era apparsa improvvisamente nella costellazione dell’Aquila. Henrietta non era riuscita a completare l’ennesima serie di revisioni del suo capolavoro, la Sequenza Polare Nord. Quando, il maggio seguente, l’International Astronomica Union tenne a Roma la sua prima assemblea generale, la Commission for Stellar Photometry, di cui la stessa Henrietta Leavitt era stata membro, volle ricordare ufficialmente il suo “grande contributo all’astronomia”: “E’ stata tra i pionieri di questo difficile settore della ricerca, in cui ha lavorato ottenendo risultati

notevolissimi, ed è davvero un peccato che non abbia potuto portare a termine la sua ultima impresa.” Quattro mesi dopo il funerale, Annie Cannon si ritrovò su un piroscafo diretto in Perù. Avrebbe fatto un giro sulle Ande e visitato l’osservatorio di Arequipa. Una sera, dopo essersi immersa nello splendore del limpido cielo australe, scrisse sul suo diario: “La Grande Nube di Magellano è così luminosa! Mi fa sempre tornare in mente la povera Henrietta: quanto amava le sue ‘Nubi !’”. [da Johnson, Le stelle di Miss Leavitt (La storia mai raccontata della donna che scoprì come misurare l’universo), Codice ed., 2006]

Madonna dei Gigli, 2003

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Il mondo interiore di Marie Curie Parigi, 20 aprile 1995: il tappeto bianco si stendeva, isolato dopo isolato, lungo Rue Soufflot per terminare di fronte al Pantheon, drappeggiato con bandiere tricolore che andavano dalla cupola fino a terra. Sulle note della Marsigliese gli uomini della Guardia Repubblicana si incamminarono lungo la bianca distesa. Le migliaia di persone assiepate lungo le strade erano insolitamente silenziose; alcuni lanciavano fiori al passaggio del corteo. Il corpo docente dell’Istituto Curie era seguito da liceali parigini che reggevano lettere alte un metro di colore blu, bianco e rosso – i simboli greci per i raggi alfa, beta e gamma. Il presidente Mitterand aveva deciso di collocare, con un gesto teatrale, le ceneri di Madame Curie e del marito, Pierre, nel Pantheon, facendo così di Marie (Marya Salomee Sklodowska) Curie la prima donna ad esservi sepolta per i risultati raggiunti. E’ noto che Louis Pasteur disse: “La fortuna favorisce le menti preparate”. Il carattere di Marie Curie, forgiato dalla discriminazione e dalla privazione, dalle pressioni e dalle ambizioni parentali, dal patriottismo e dalla dissimulazione, corrispondeva a un profilo di tale genere. Marie Sklodowska proveniva da una famiglia polacca impoverita e lavorò per otto anni per guadagnare soldi a sufficienza per studiare alla Sorbona. Superò sacrifici incredibili. Nel 1893 diventò la prima donna a ottenere una laurea in fisica in quella università. L’anno seguente ne ricevette una seconda in matematica. Fu la prima donna a venire nominata professoressa alla Sorbona. Fu la prima donna a essere eletta all’Accademia Francese di Medicina, un’istituzione vecchia di 224 anni. Viene ricordata come la Giovanna d’Arco della scienza.

Un’infanzia dickensiana. Nel 1860, all’età di 28 anni, il professor Sklodowsky, padre di Marie, aveva sposato una giovane donna, bellissima e

raffinata, Bronislava Boguski. Jozef Sklodowsky era assistente all’Università di Varsavia e Bronislava, grazie alla sua intelligenza e capacità era passata dal ruolo di insegnante a quello di direttrice di una scuola. I coniugi Sklodowsky ebbero cinque figli, l’ultima dei quali nel novembre del 1867 Manya(Marya). Nel 1871, quando Manya (Marie) aveva quattro anni, la madre si ammalò di tubercolosi e il marito, sebbene al verde, decise di mandare la moglie a curarsi in un clima mite con la figlia Zosia di dieci anni che si prese cura della madre come una infermiera adulta. In assenza della moglie il professor Sklodosky si occupò dell’educazione degli altri figli. I giorni e le sere dei bambini erano attentamente divisi tra momenti di studio e attività fisica. Manya ricordava che anche la conversazione più casuale conteneva una lezione morale, che una passeggiata in campagna serviva come mezzo pere spiegare un fenomeno scientifico o i misteri della natura, e che un tramonto offriva l’occasione per un discorso sui movimenti astrologici. Alla fine, nel maggio 1878, Bronislava soccombette alla tubercolosi. La domenica seguente andò in chiesa come di solito, ma mentre si inginocchiava riflettè che non avrebbe mai più creduto nella benevolenza di Dio. Uno a uno i bambini Sklodosky esaudivano le aspettative paterne diplomandosi come i migliori del loro anno. Manya ricevette il diploma dal ginnasio governativo come prima della sua classe e con una medaglia d’oro come miglior studentessa del 1883. aveva quindici anni. L’anno in cui Manya si diplomò al ginnasio, un positivista polacco diede inizio ad un’accademia clandestina per l’istruzione superiore delle donne cui, nel giro di un anno, erano iscritte oltre duecento donne che si incontravano in segreto. Dopo alcuni mesi furono scoperti dai russi e la maggior parte degli insegnanti venne costretta all’esilio. Fu come una sfida. Nei successivi tre anni l’Accademia divenne nota come “l’Università Volante”,

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con altre mille donne iscritte, fra cui Manya e la sorella Bronya che volevano diventare rispettivamente scienziato e medico.

Verso Parigi. Alla fine del novembre del 1891 Manya decise di iscriversi alla Sorbona; fece fagotto: i suoi vestiti, il materasso di piuma, cibo, acqua e uno sgabello, comprò il biglietto del treno più economico per Parigi e cominciò un viaggio di milleseicento chilometri verso l’ignoto. All’età di ventitré anni il carattere di Manya era formato. Aveva imparato che se aveva abbastanza pazienza e tenacia poteva raggiungere anche ciò che era apparentemente inarrivabile. Nel giro di una settimana era iscritta alla Sorbona e aveva firmato i moduli di iscrizione con l’equivalente francese di Manya, Marie. Alla Sorbona gli studenti potevano frequentare qualunque lezione volevano e ogni volta che volevano. Gli esami erano volontari e potevano essere sostenuti in ogni momento. E tutto questo, con alcuni dei migliori professori al mondo, era gratuito. Marie aveva coronato il suo sogno di studiare, di avere libertà e indipendenza.

Era una delle ventitrè donne su quasi duemila studenti iscritti alla Scuola di Scienze. La sera in cui Pierre incontrò Marie era inconsapevole di quanto avessero in comune. Pierre aveva incontrato “una donna di genio” che comprendeva “la sua natura e la sua anima”. Si sposarono con una semplice cerimonia il 26 luglio 1895. Il ricevimento si tenne nel giardino della casa dei genitori di Pierre e i novelli sposi se ne andarono su due biciclette che avevano acquistato come loro regalo di nozze. Fecero ritorno a Parigi in ottobre. A quel punto erano diventati un’unità. Erano profondamente innamorati. Marie portò nel matrimonio lo stesso ardore che aveva per la scienza. Si applicò alle attività domestiche come se fossero progetti scientifici. La studentessa che non sapeva come prepararsi una zuppa, ora faceva marmellata di uva spina e ne scriveva la ricetta; aveva acquistato un libro dove annotare attentamente anche le più piccole spese. Allo stesso tempo proseguiva gli studi sulle proprietà magnetiche dell’acciaio e la sera frequentava delle lezioni sui cristalli per meglio comprendere il lavoro dl marito. Riuscì a destreggiarsi tra queste responsabilità fino a che si trovò incinta e con la nausea “tutto il giorno da mattina a sera”. Il 12 settembre del 1897 il padre di Pierre, il dottor Eugène Curie, fece nascere una bimba, Irene. Marie si trovò ad affrontare un pesante carico di lavoro cui si sommavano le cure da prestare ad un neonato, era esausta e depressa, arrivarono gli attacchi di panico, era così stravolta e a pezzi che i dottori la avvertirono che sarebbe stata mandata in una casa di cura, ma lei non lasciava né il lavoro, né il marito e la bambina. Era vicina ad un collasso nervoso quando il padre di Pierre, avendo perduto la moglie lo stesso mese in cui era nata Irene, si offrì spontaneamente di venire a vivere con Pierre e Marie e di badare alla bambina e alla casa. Presto le cose ripresero ad andare avanti con tranquillità.

Bagliori sospesi nell’oscurità. Marie era pronta a cominciare la sua tesi di dottorato. Nel marzo del 1898 Marie

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aveva scoperto al di là di ogni dubbio che parecchi minerali emanavano più raggi energetici dell’uranio puro. Ad aprile scrisse quello che sarebbe diventato un saggio autorevole, che portava a un modo completamente nuovo di scoprire gli elementi misurandone la radioattività, spalancando in tal modo la porta alla scienza atomica. La relazione conteneva due osservazioni rivoluzionarie: l’affermazione che la radioattività poteva essere misurata, fornendoci così un mezzo per scoprire nuovi elementi, e che la radioattività era “una proprietà atomica”, intendendo semplicemente dire che la radioattività era una proprietà dell’atomo stesso. Prima dell’osservazione di Marie si pensava che il soggetto dell’atomo fosse “finito”. In ogni caso, le scoperte di Marie Curie furono accolte con indifferenza. Chi era questa persona ? Uno scienziato mancato che non aveva ancora completato la tesi di dottorato; un’emigrata polacca; era una donna. Ma col passare degli anni la scoperta di Marie Curie permise agli scienziati di fare più scoperte riguardanti l’atomo e la sua struttura che in tutti i secoli passati. Come disse uno scienziato: ”La più grande scoperta di Pierre Curie fu Marie Sklodoska. Quella di Marie fu…la radioattività”. Ha scritto Marie: “Nonostante le difficoltà delle nostre condizioni di lavoro, ci sentivamo molto felici. Le nostre giornate trascorrevano nel laboratorio, dove spesso consumavamo un povero pasto da studenti, quando avevamo freddo, una tazza di tè caldo preso presso la stufa ci confortava. Vivevamo con un’unica preoccupazione, come in un sogno”. Sì, erano due sognatori. Il fascino del radio intensificava la loro alleanza. La ricerca de radio puro stava entrando ne suo terzo anno. Erano state trasformate otto tonnellate di residuo di pechblenda. “Di sera potevamo vedere sagome leggermente luminose e questi bagliori che sembravano sospesi nell’oscurità, ci agitavano con nuove emozioni e incanti… Era davvero una visione adorabile… come deboli luci di fiaba”. La luce era causata da atomi radioattivi che rilasciavano la loro energia, ma i Curie erano inconsapevoli del fatto che

l’esposizione a queste sostanze aveva delle ripercussioni sulla loro salute. Pierre soffriva di reumatismi, Marie perdeva rapidamente peso.

Il primo Nobel a una donna. Nel giugno del 1903 Marie discusse la tesi di dottorato davanti ad un comitato scientifico, prima donna in Francia a conseguire questo risultato. Nel 1901 il primo premio Nobel per la fisica andò a Rongten, nel 1902 a H. A. Lorentz e P. Zeeman. Fu una delusione perché era stato Pierre ad aver posto la maggior parte delle basi per questi studi. L’anno seguente, dimostrando in maniera sconvolgente cosa significasse essere donna in campo scientifico, un crudele sessismo stracciò ogni finzione sulla possibile accettazione di Marie Curie come una pari. Quando nel 1903 vennero proposti i nomi di Pierre Curie e Henri Becquerel, Pierre fece sapere che se la sua nomina era seria, non poteva accettare il premio se il comitato per il Nobel non includeva anche Madame Curie. Alla fine fu deciso di aggiungere anche il nome di Madame Curie riconoscendole di “avere aperto una nuova area di ricerca nel campo della fisica”. Nel novembre del 1903 i Curie ricevettero una comunicazione ufficiale che li informava della vittoria e l’invito a ricevere il premio il 10 dicembre alla presenza del re Oskar. Marie era diventata la prima donna insignita del Nobel e per trentadue anni (con l’eccezione del suo secondo premio Nobel) sarebbe rimasta l’unica a ricevere questo onore, fino a che fu consegnato a sua figlia, Irène Joliot-Curie, nel 1935. [da Goldsmith, Genio Ossessivo (Il mondo interiore di Marie Curie), Codice ed., 2006]

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DONNE DI INGEGNO

Le malvarose in fiore. Autobiografia di una grande

antropologa. Quando avevo sedici anni, lessi sulla parete dello studio di un vecchio medico condotto una scritta il cui tono ricordava quello dei bigliettini che ci si scambia il giorno di san Valentino: “Tutte le cose concorrono al bene per coloro che amano Dio”. Secondo la mia personale interpretazione, quella scritta significava che, se stabilisci una rotta e orienti le vele a ogni vento per procedere nel tuo viaggio, sempre fiducioso che il percorso sia quello esatto, essa risulterà realmente giusta, anche se, a un certo momento, la nave dovesse affrontare. I popoli primitivi ancora esistenti, mancando di scrittura come di ogni altra possibilità di testimonianza che non si il loro linguaggio parlato, dispongono solo di se stessi per esprimere quello che sono. Analogamente, esporrò la mia vita per gettare quanta luce è possibile su come si possono allevare i figli, affinché genitori e figli, insieme, riescano a superare i mari più tempestosi. I giovani già mi chiedono: “Saremo estrani nei confronti dei nostri figli, come lo siamo stati noi nei confronti dei nostri genitori ?”. Credo di no. Ho messo il rilievo la consapevolezza che i miei genitori e mia nonna mi diedero della cultura in cui vivevamo. Quella consapevolezza, certamente, è stata affinata dai molti anni di lavoro che ho trascorso fra i popoli dei Mari del Sud. Credo, però, che ciascuno possa maturarla dentro sé.

Generazioni. In passato, negli Stati Uniti,

quando la gente, specialmente i giovani, era solita chiedermi come mai sembrassi comprendere ciò che cercavano di fare e di dire, molto spesso rispondevo: “Perché sono un’antropologa !”. Mentre lavoravo a questo libro (e scriverlo è stato un po’ come mettere insieme un film per il quale sono stati girati metri e metri di pellicola con tale abbondanza che per ogni singola

sequenza da montare c’è un eccesso di materiale da cui scegliere), ho riscoperto per quali motivi mi era occorso di crescere in anticipo rispetto al mio tempo. In parte è stato perché, per tutta la mia fanciullezza, ho condiviso gli intensi rapporti di mia nonna con il passato e il presente. Ma fu così anche perché ero la figlia di due sociologi che erano profondamente – e in modi diversi – interessati alla situazione del mondo. Per me essere allevata perché potessi divenire una donna capace di vivere in modo responsabile nel mondo contemporaneo da un lato, e imparare a diventare un’antropologa, cosciente della cultura in cui vivevo, dall’altro, furono pressappoco la stessa cosa.

Il prossimo in sé. Quando correvo con gli altri

bambini per i prati della Buckingham Valley a guardare un falò o a vedere quanto fosse spesso il ghiaccio degli stagni in inverno, sapevo già che la vita della gente attorno a noi differiva da quella dei suoi antenati e mi rendevo pienamente conto che la nostra esistenza stava cambiando sotto i nostri stessi occhi. Quando la nonna decise di imparare a fare il burro, non fu come fare il burro in casa ai tempi in cui non si poteva ancora comperarlo prodotto meccanicamente in negozio. Quando un dirigibile si librò pigramente nel cielo sopra i nostri prati, lo misi in rapporto con i primi voli con il pallone e, nello stesso tempo, con le idee vaghe sui viaggi aerei non ancora tradotte in realtà. E quando nelle molte località dove abitammo durante la mia infanzia, i nostri vicini si comportavano in modi che erano diversi dai nostri e anche diversi tra loro, imparai che questo era determinato dalle loro esperienze di vita e da quelle dei loro antenati e dei miei, non dalla diversità del colore della nostra pelle o dalla forma delle nostre teste. Non è necessario andare a Samoa o in Nuova Guinea per imparare queste cose. Questo modo di vedere e di considerare il mondo, i bambini lo possono imparare

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(e oggi spesso lo imparano) a casa loro. E’ vero naturalmente, che se i primi antropologi non fossero andati in quei luoghi lontani e non avessero registrato ciò che vi avevano trovato, mia madre non avrebbe potuto insegnarmelo. Ed è pure probabile che se la domanda: “Chi è il tuo prossimo in sé ?” non fosse stata parte dell’esperienza religiosa di mia nonna, né l’interesse di mia madre, né quello di mia nonna per il genere umano avrebbero avuto un senso per me. E certamente non avrei interpretato come poi ho fatto la convinzione di mio padre che la cosa più importante che una qualsiasi persona potesse fare era di accrescer il patrimonio di sapere del mondo.

Traslocare Per molte persone traslocare è una cosa e viaggiare un’altra ben diversa. Viaggiare significa andarsene e starsene lontano da casa; è un rimedio, insomma, alla noiosa ripetitività della vita quotidiana, un preludio a una vacanza che ognuno ha diritto di godersi dopo mesi di monotonia. Tarso locare, invece, significa disfare una casa, rompere, con tristezza o con gioia, con il passato: un’avventura felice o una pena, qualcosa a cui bisogna sottostare volenti o nolenti. Per me, traslocare e rimanere a casa, viaggiare e arrivare sono tutt’uno. Il mondo è pieno di case nelle quali ho vissuto un giorno, un mese, un anno o molto di più. L’intensità del mio attaccamento a una casa non è in rapporto al tempo che vi ho abitato: una sola notte in una camera con un fuoco che danza nel caminetto può avere per me maggior significato di molti mesi trascorsi in una camera senza caminetto, in una camera in cui la mia vita è trascorsa con un ritmo meno stimolante. Da quando avevo sette anni, andavamo a passare l’estate da qualche parte. E così ci spostavamo quattro volte all’anno, poiché in autunno e in primavera ritornavamo nella nostra casa di Hammonton. Tutte le altre case erano estranee e, per non sentirle più tali, dovevamo cercare di “farle nostre” il più presto possibile. Ciò non significava che ci facessero paura, ma solo che dovevamo imparare a

conoscere ogni angolo e cantuccio, altrimenti era difficile giocare a nascondino. Non appena arrivavamo, correvo subito a cercarmi una camera che fosse il più lontano possibile dalle altre, preferibilmente all’ultimo piano della casa, dove potessi sempre sentire in tempo il passo di chi saliva. Quindi, finché non ci eravamo sistemati, ero occupatissima a esplorare, a impadronirmi del mio nuovo dominio. C’era un pozzo con una pompa che usavamo per preparare l’acqua calda, finché un giorno il mio fratellino di cinque anni e un suo amico, di un anno minore e con l’argento vivo addosso, vi gettarono dentro tutti gli oggetti che era loro possibile portare e da allora non si potrà più usarlo. C’era una vecchia barca a remi nella quale coltivavamo i fiori, finché i ragazzi non la fecero a pezzi. E una volta, quando fu rimesso a posto il granaio e dentro vi vennero ammicchiate in ordine le vecchie assi da bruciare durante l’inverno, i due bambini le gettarono tutte fuori. La nonna disse che ciò dimostrava solamente che i dei bambini, ciascuno dei quali da solo era buonissimo, insieme combinavano disastri. Quando si mettevano insieme due bambini, non si poteva mai sapere quale sarebbe stato il risultato. E quelle parole contribuirono ad allargare i miei orizzonti su quello che sono i maschietti. E ciò faceva da contrappunto a un0incisione racchiusa in una cornice artigianale di rame, appesa sopra il caminetto. Essa rappresentava una coppia di bambini: una bambina che cuciva con estrema diligenza e un maschietto, bello e distaccato, che se ne stava semplicemente seduto a guardar fuori, gli occhi puntati sul mondo. Molti anni dopo, la stessa incisione fornì l’immagine centrale di un’amara poesiola di femminile protesta che scrissi quando Edward Sapir mi disse che avrei fatto meglio a rimanere a casa a fare dei figli anziché partire per i Mari del Sud a studiare il comportamento degli adolescenti di quei popoli primitivi.

Casa. Il bisogno di definire chi sei dal luogo in cui vivi rimane intatto, persino quando quel luogo è definito da un singolo

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oggetto, come il vasetto turchino che soleva significare la “casa” per un’amica, figlia di un’infermiera vedova che si trasferiva continuamente da una località all’altra. I boscimani del Kalahari spesso non costruiscono muri quando si accampano nel deserto. Si limitano a scavare nella sabbia un piccolo spazio. Ma poi vi piegano sopra un sottile alberello, come per formare l’arco di una porta, l’ingresso a un’abitazione sacrosanta e protetta dall’invasione come lo sono i poderi cintati dei ricchi o come lo è il Makati, a Manila, dove alcuni custodi montano la guardia ai ricchi per difenderli dai poveri. Mi resi conto di quanto siano necessarie poche cose per creare una “casa” quando condussi la mia bambina di sette anni a fare il suo primo viaggio per mare. La nave – il Marine Jumper - un trasporto-truppe non ancora rimesso in ordine, con i ponti in ferro, era affollata da più di un migliaio di studenti alloggiati sotto coperta, mentre io e Cathy dividevamo una cabina con altri sei membri del corpo insegnante. Cathy si arrampicò fino alla cuccetta più alta, aprì i pacchettini che le avevano regalato al momento dell’imbarco e li dispose in circolo intorno a sé. Poi sporgendosi dal bordo della cuccetta esclamò: “Ora sono pronta ad andare a vedere la nave !”. La “casa”, ho imparato, può essere dovunque te la crei. Casa è anche il luogo al quale ritorni di volta in volta. Il distacco veramente doloroso è quello che può essere definitivo. Ed è proprio questa sensazione che ogni partenza per mare può essere senza ritorno a spaventare i popoli delle isole del Pacifico. Lo stesso giorno in cui giunsi a Samoa, la gente cominciò a chiedermi: “Quando ripartirai ?”. e quando rispondevo: “Fra un anno” sospiravano: “Ahimè, Talofai ! il nostro amore a te !” avendo nella voce la tristezza di mille partenze. Lo loro isole erano popolate da viaggiatori che partivano per un viaggio dal tragitto breve e conosciuto e le cui canoe erano talvolta sospinte dal vento a centinaia di chilometri lontano dalla loro rotta. Ma perfino quando salpa una

canoa da pesca, c’è una possibilità che essa si rovesci contro uno scoglio pericoloso e che qualcuno finisca annegato. Il viaggio più breve po’ divenire un viaggio per l’eternità.

Non si è voltata indietro ! In tutti i miei anni di spedizioni di studio, ogni luogo dove ho vissuto è diventato una “casa”. Andarmene sapendo che ritornerà nello stesso luogo e fra la stessa gente – così è sempre stato nella mia vita. Quando nel 1925 partii per Samoa, per il mio primo viaggio, tenemmo un pranzo d’addio nella sala grande della fattoria nella quale ci eravamo trasferiti quando avevo dieci anni. C’erano papà, mamma e nonna, mio fratello e le mie sorelle, Richard, Elizabeth e Priscilla, e il mio marito-studente, Luther Cressman. Papà e Richard, in parte per stuzzicarmi e in parte per mascherare i loro sentimenti, cantarono, alternandole, Il futuro sale lo stesso su per il camino – una canzone che erra diventata una ricorrente facezia in famiglia da quando ci eravamo trasferiti nella fattoria e tutti i comignoli fumavano – e Ci rivedremo, ma sentiremo la sua mancanza, signorina. Dopo pranzo, andammo in macchina a Philadelphia fino alla vecchia stazione. Con un bacio dissi addio a tutti e varcai i cancelli. Più tardi mio padre commentò: “Non si è voltata indietro !”. Quello era un nuovo passo nella mia vita. Partivo per la mia prima ricerca sul campo, mentre Luther aveva una borsa di studio per un viaggio in Europa – la cosa che desiderava fare più di ogni altra. Non era una separazione definitiva. Sarei tornata alla fattoria quando le malvarose fossero state nuovamente in fiore… [da Margareth Mead, L’inverno delle more, Mondadori, 1977]

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. L’eterno femminino

Se la sua funzione di femmina non basta a definire la donna, se ci rifiutiamo anche di spiegarla con “l’eterno femminino” e se ciò nonostante ammettiamo che, sia pure a titolo provvisorio, ci sono donne sulla terra, dobbiamo ben proporci la domanda: che cosa è una donna ? L’enunciazione stessa del problema mi suggerisce subito una prima risposta. E’ significativo che io la proponga. A un uomo non verrebbe mai in mente di scrivere un libro sulla singolare posizione che i maschi hanno nell’umanità. Se io voglio definirmi, sono obbligata anzitutto a dichiarare: “Sono una donna”; questa verità costituisce il fondo sul quale si ancorerà ogni altra affermazione. Un uomo non comincia mai col classificarsi come un individuo di un certo sesso: che sia uomo, è sottinteso. E’ una pura formalità che le rubriche: maschile, femminile appaiono simmetriche nei registri dei municipi e negli attestati d’identità. Il rapporto dei due sessi non è quello di due elettricità, di due poli: l’uomo rappresenta insieme il positivo e il negativo al punto che diciamo “gli uomini” per indicare gli esseri umani, il senso singolare della parola vir essendosi assimilato al senso generale della parola homo. La donna invece appare come il solo negativo, al punto che ogni determinazione le è imputata in guisa di limitazione, senza reciprocità. Ma si sono irritata talvolta, durante qualche discussione, nel sentirmi obiettare dagli interlocutori maschili: “voi pensate la tal cosa perché siete una donna”; ma io sapevo che la mia sola difesa consisteva nel rispondere: “La penso perché è vera”, eliminando con ciò la mia soggettività. Non era il caso di replicare: “E voi pensate il contrario perché siete un uomo”; perché è sottinteso che il fatto di essere un uomo non ha nulla di eccezionale. Un uomo è nel suo diritto essendo tale, la donna in torto. Praticamente, nello stesso modo che gli antichi c’era una verticale assoluta in rapporto alla quale si definiva l’obliquo,

esiste un tipo umano assoluto, che è il tipo maschile. Sfogliando alcune opere consacrate alla donna, vediamo che uno dei punti di vista adottati più di frequente quello del bene pubblico, dell’interesse generale: in realtà ognuno intende con ciò l’interesse della società secondo ch’egli spera di confermarla o di stabilirla. A nostro giudizio non c’è altro bene pubblico all’infuori di quello che assicura il bene privato dei cittadini; giudichiamo le istituzioni dal punto di vista delle possibilità concrete che offrono agli individui. Né confondiamo l’idea d’interesse privato con quella di felicità: codesta è un’opinione che spesso trova credito. Si dice: le donne dell’harem non sono forse più felici di un’elettrice ? La massaia non è più felice dell’operaia ? Non si sa bene che cosa significhi la parola felicità, e tanto meno quali valori autentici nasconda; non è assolutamente possibile misurare la felicità degli altri ed è troppo facile dichiarare fortunata la situazione che si vuole loro imporre: in particolare, col pretesto che la felicità è immobilità, si dichiarano felici coloro che vengono condannati a una esistenza stagnante. [da Il Secondo Sesso, di Simone de Beauvoir]

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POST SCRIPTUM

La chiesa e il significato di “sociale” I vescovi hanno riscoperto il sociale, conducendo una ammirevole battaglia sui temi dell’immigrazione e della crisi. È necessario ed utile richiamare e ammirare chi si spende per il bene comune. Ma poi si stende, invece, un velo pietoso su atteggiamenti contrari. È dunque una presenza schizofrenica nella vita sociale e politica del paese ? come conciliare stili di presenza pubblica e privata a volte tanto in contrasto fra loro ? Si rischia che la riscoperta di un interventismo pubblico in questioni di morale anche (o soprattutto ?) privata e personale finisca per penalizzare con una certa inflessibilità solo i singoli più sfortunati (le famiglie Englaro e Welby, per esempio…) rimanendo morbido o distratto verso esponenti politici dai comportamenti privati (d’accordo privati, ma è di ciò che si stava discorrendo) che non sono affatto un esempio di virtù. E mentre i primi hanno compiuto scelte difficili ed anche coraggiose per certi ideali, i secondi tengono comportamenti discutibili senza alcun riguardo al bene comune. Di recente si è sentito invece coniugare, finalmente, il tema della famiglia all’insegna proprio di un giusto contemperamento delle due tendenze sopra viste: la Chiesa sembra aver preso la linea che invita non solo a parlare di famiglia ma ad appoggiarla concretamente (il che è fatto condivisibile da tutti) e non tralascia di richiamare ad un concreto esempio di testimonianza in proposito i politici. Sembra l’inizio di una rotta mediana che potrà evitare facili (e fondate) critiche e che non mancherò di rivelare la sua efficacia.

Il Sisma che scuote le coscienze.

Appena celebrato il centenario del terremoto di Messina, fatte le dovute proporzioni, si è dovuto prendere atto ancora una volta della impotenza o ignoranza dell’uomo di fronte alla natura. Impotenza, poiché ancora non c’è scienza che sappia prevedere l’imponderabile. Ignoranza, poiché solo una certa volgare misconoscenza delle cose e della virtù civica può portare a continuare a costruire e a comportarsi in modo tale che ogni scrollata della crosta terrestre si trasformi in tragedia e disastro. Alcuni amici cileni sono rimasti indignati e disgustati, ma soprattutto sorpresi: da loro terremoti di questo tipo fanno ridere e non solleticano neppure le strutture, antisismiche ormai da decenni. L’ultimo terremoto ad aver fatto vittime in numero consistente risale a prima degli anni cinquanta. E parliamo di un paese ingrato da molti punti di vista naturali, dal difficile sviluppo economico e tenuto sotto il tallone per anni dalla dittatura. E noi ? Due aneddoti circa il rapporto del tutto innaturale fra sciagure naturali e sciagure politche – burocratiche – amministrative. Dopo il terremoto di Messina, a distanza di mesi, a volte magari di anni, i ministeri romani continuavano ad inviare decine di migliaia di raccomandate, vaglia e simili a Messina, al solo scopo di completare i procedimenti dovuti vedendoseli puntualmente restituire con la dicitura: “destinatario morto”. Ed ancora: le baracche destinate ai superstiti furono spazzate via soltanto dalla seconda guerra mondiale e qualcuna durò anche più a lungo. Anche se quello dell’Aquila non è stato per fortuna che un pallido riflesso di quello che fu definito l’evento sismico più letale dell’intera storia del mondo occidentale (Dickie), speriamo che coloro che oggi ricevono promesse e rassicurazioni nelle tendopoli non debbano attendere nulla che assomigli ad una terza guerra mondiale per poter tornare ad una qualche normalità.

Questione morale

Il nostro Paese si trova in seria difficoltà con talune leggi presenti da decenni in altri

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ordinamenti e corrispondenti a principi non certo di ieri mattina. Prendiamo la legge sulla privacy e quella sulle pari opportunità. Come tutte le norme calate in un contesto sociale senza essere sufficientemente metabolizzate vengono applicate in maniera a volte persino assurda, quando non finiscono per essere strumenti di tutela del potere costituito. La legge sulle pari opportunità dovrebbe essere strumento per offrire maggiori opportunità di successo alle donne, esaltando quello che manca anche dall’altra parte del cielo, ovvero le reali capacità e il merito. Ma viene messa nel nulla dalle relazioni familiari o affettive, dalle amicizie e da una fitta rete di rapporti che conducono a copiare il sistema non certo meritocratico di selezione della classe dirigente maschile. La legge sulla privacy sembra valere solo per i potenti che ne invocano l'applicazione per nascondere i propri comportamenti dimenticando che, rispetto a chi sceglie di avere un ruolo pubblico, gli elettori hanno il diritto di conoscere anche i vizi privati. A quest’ultimo proposito, è persino banale dire che le abitudini sono indice dell'etica di una persona e quindi rivelatrici dell'approccio (anche) alla gestione della cosa pubblica. Non a caso nei paesi anglosassoni la classe politica viene posta sotto il microscopio e persino un comportamento appena rimarchevole può determinare l'uscita di scena di un uomo politico. L'attenzione è direttamente proporzionale all'importanza del ruolo svolto perché si pensa che tanto più si svolge un ruolo di rilievo tanto più occorre essere irreprensibili. “Di quelle cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono lodati o biasimati” è il titolo di un paragrafo del XV capitolo del Principe di Machiavelli Sappiamo da Machiavelli in poi che la politica è diversa dalla morale. Qualche secolo dopo si è accettato che anche l’economia è diversa dalla morale. Ma la distinzione tra etica, politica ed economia separa sfere di azione, campi di attività. Come ha detto Sartori in maniera tagliente: “In concreto, e a monte di queste differenziazioni, esiste la singola persona umana che non è trina ma soltanto una, e che può variamente essere una persona morale, amorale o immorale”. Quando si dibatte la ‘questione morale’ è di questo che si dibatte. Le persone morali sono tali in tutto: anche in politica e anche in economia. Le persone amorali non son campioni di virtù, ma nemmeno si dedicano al male: conservano taluni freni interiorizzati. Le persone immorali sono quelle che ridono dei poveri cretini ancora convinti della bontà di certi valori e non sono fermate da nulla (neppure dal pericolo di finire in prigione). Sempre nella sintesi di Sartori: per i primi non è vero che il fine giustifica i mezzi; per i secondi il fine può giustificare qualche mezzo scorretto, ma non tutti; per le persone immorali il fine di fare soldi o di conquistare potere giustifica qualsiasi mezzo: non c’è scrupolo, non c’è «coscienza » che li fermi. Il fondo è raggiunto quando, come scrive Ilvo Diamanti, non c’è più scandalo che riesca a scandalizzare e dilaga un profondo disincanto. Quando si pretende di non essere neppure ripresi per quello che si è fatto. E qui i due versanti si ricongiungono: quando qualcuno tratta proprio le donne (qualunque donna, la propria moglie, le colleghe parlamentari, le giornaliste, le professioniste, le minorenni) senza il dovuto rispetto, è perché non è capace di rispetto per niente altro. Da sempre, infatti, è questa la cartina al tornasole per un uomo come per una società: dal modo come vengono trattate le donne ci si può rendere conto del livello relativo di civiltà.

Piombo fuso a capodanno Sono passati appena pochi mesi e già pochi rammentano l’inizio tragico di questo anno 2009 con l’offensiva di Israele contro la Striscia di Gaza nella operazione chiamata Piombo Fuso. Tralasciando il ricordo dei disastri e delle atrocità trasmesse per l’ennesima volta in diretta, la questione che si pone (rispetto alla politica prima, ed alla sua continuazione per mezzo della guerra poi, da parte dello Stato di Israele a Gaza) è quella della difendibilità delle c.d. punizioni collettive. Il discorso è già stato proposto (ma evidentemente non risolto) con riferimento alle quasi identiche vicende del Libano (mutando il Sud con il Nord, Hamas con Hezbollah, ecc.). Per l’appunto,

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nessuno sembra avere la benché minima memoria al riguardo. In sostanza, il solo fatto di trovarsi ad essere cittadini di un certo paese o addirittura peggio: anche solo il fatto di trovarsi fisicamente ad abitare un certo luogo, indipendentemente da qualunque adesione, diretta o indiretta, intenzionale o non intenzionale, a ciò che in quel luogo del mondo si agita, determinerebbe uno stato di (cor)reità sufficiente non solo a mettere a posto la coscienza di chi opera la sanzione collettiva, ma anche a fornirgli un supporto di giustificazione in grado di auto-legittimarsi. Come se si dicesse: ogni siciliano, anche un coraggioso seguace di Danilo Dolci o di Peppino Impastato, dovrebbe essere ritenuto direttamente imputabile di ogni omicidio mafioso che si perpetra nell’isola della Trinacria. E ovviamente la serie degli esempi potrebbe proseguire, a disvelare tutte le sfaccettature assurde e insostenibili del ragionamento sopra ripercorso. Il nodo torna ad essere quello della discriminazione, nel senso positivo del termine questa volta. Perché la punizione, per definizione, deve discriminare. Anche il tanto minaccioso ventilabro evangelico invocato dal profeta Giovanni è precisamente uno strumento per scremare e separare i colpevoli, prima che finiscano nel fuoco della Geenna. Invece, un regime sanzionatorio indiscriminato finisce per essere solo terroristico, nel senso letterale del termine. E, come è notorio, i soggetti che provano terrore non si comportano razionalmente. Dunque il circolo per cui sarebbe razionale allo scopo utilizzare le punizioni collettive non è un cerchio e non si chiude affatto. La storia non insegna nulla, neppure quella sacra. La moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale. Poiché vogliamo vedere colpe dappertutto, anche in chi non ce le ha (appunto, come nel caso delle punizioni collettive), abbiamo sempre creduto che la trasformazione delle statua di sale fosse una punizione nei confronti della moglie di Lot per aver contravvenuto all’ordine degli angeli del Signore che avevano intimato di non voltarsi durante la fuga verso il paesino di Zoar. Ma ciò che le accade è solo quel rimanere di stucco che coglierebbe chiunque si voltasse a guardare uno spettacolo come la pioggia di fuoco e cenere sulla città abitata fino a quel momento, con la distruzione di tutto ciò che essa conteneva. L’invito a non voltarsi andava inteso precisamente con l’ammonimento rispetto al rischio che corre chi prende sul serio gli effetti di una punizione tanto tremenda da togliere il fiato (o da lasciare probabilmente leso dal punto di vista psichico lo spettatore, come forse accadde alla moglie di Lot, rimasta magari afasica per il trauma). L’episodio della Genesi è particolarmente significativo di come il Dio degli eserciti e dei flagelli, al quale si è sempre imputato di aver sterminato una intera generazione di primogeniti in Egitto e un numero non indifferente di altri genocidi e tremende ritorsioni contro i popoli a lui non graditi, sia stato invece ‘chirurgico’: ha distrutto la città di Sodoma non senza consentire prima che chi vi era di giusto in essa potesse mettersi in salvo. Sbaglia dunque chi prende l’esempio (alla lettera, che come sempre mente, mentre lo spirito soffia la verità più profonda) come paradigma della necessità di punizioni di massa indistinte e devastanti al fine di estirpare il male che altrimenti “non sta ad aspettare”. Semmai, il capitolo in questione sottolinea che non ha senso la distruzione generalizzata, la vendetta indifferenziata, l’ira scatenata indistintamente contro una intera città o una intera valle con cinque città, se non si compie il vero gesto importante che, nel caso di specie, non è lo scatenare la pioggia di lapilli ardenti, ma il lasciare scampo a Lot e alla sua famiglia. L’art. 33 della Convenzione di Ginevra rimane un esempio di norma sulla carta. Qualcosa che dovrebbe essere insegnato nelle facoltà di giurisprudenza, quando serve un esempio di norma inattuata, o di norma violata, senza sanzione per questa violazione. Neppure il Dio dell’Antico Testamento, a ben guardare, punisce mai indistintamente o inutilmente. E quando punisce lo fa in vista di una salvazione, di una alleanza, di una redenzione. Scatenare la pioggia di fuoco o la colata di “Piombo Fuso” contro tutta una popolazione senza consentire a nessuno neppure quel piccolo posto da nulla in cui rifugiarsi è un tipo di azione che si spiega solo con la errata credenza che ci sarà un momento nel quale si potrà uscire dal gioco, che cioè ci sarà un momento nel quale

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dopo tanto scannarsi si conteranno i morti e si finirà di uccidere, mentre è ovvio che la catena delle generazioni, proprio come nella Bibbia, continua e si arresterà. In una terra martoriata dalle continue punizioni non crescerà nulla, proprio come il Genesi dice che la valle occupata da Sodoma e Gomorra rimase sterile. Oggi sappiamo che, fra leggenda e botanica, vi crescono solo i “Pomi di Sodoma”, anche detti morelle di Sodoma corrispondenti ad una specie di pomodoro selvatico la cui polpa, dopo la maturazione, si trasforma in una sorta di polvere nera che perciò gli antichi associarono alle ceneri di Sodoma, appunto. Frutti non buoni. Pervicaci, ma non buoni.

Un presidente vestito di nuovo Novità o eventi epocali mettono puntualmente alla prova schermi teorici e criteri interpretativi che credevamo di non dover più rivedere. Le elezioni americane, con il cambiamento che rappresentano, hanno smentito quanto sin qui insistentemente sostenuto, cioè lo stato di presunta agonia della democrazia rappresentativa in termini di partecipazione elettorale e di sempre maggiore equivalenza degli schieramenti in competizione. La campagna dal basso di Obama, salvo errore, ha rappresentato un fenomeno di mobilitazione memorabile, mentre dire Obama o dire qualunque candidato dell’altro schieramento non è affatto come dire due cose uguali sotto bandiere diverse. Il nuovo presidente è tale grazie allo sforzo di più un milione e mezzo di volontari, avendo raccolto fondi non solo dai soliti grandi elettori dei poteri forti, ma da milioni e milioni di persone che hanno versato pochi dollari ciascuna e messo a disposizione risorse anche personali di impegno diretto. Così, pochi anni dopo la stagione del terrore dentro casa, della diffidenza e della massima allerta, dello stato di guerra infinita e permanente, Obama rappresenta il superamento della paura. Chi avrebbe potuto immaginare non tanto il primo presidente nero, ma un presidente con un nome come “Barack Hussein Obama II” mentre ancora i soldati americani sollevano polvere nel deserto che fu di Saddam Hussein e quando non si è ancora mai trovato davvero Osama Bin Laden ? Primi passi fondamentali: Guantanamo va verso la chiusura, consegnando il suo buco nero abissale della civiltà giuridica allo studio della storia del diritto, piuttosto che dell’ordinamento vigente. Il 30 giugno i marines hanno lasciato le città della valle dei due fiumi e forse, dopo le recenti offensive, potrebbe profilarsi una strategia di uscita anche dall’Afghanistan. Alcuni finanzieri corrotti sono stati condannati sonoramente (anche se i milioni di dollari sottratti agli investitori difficilmente potranno materializzarsi di nuovo). Ci sono molte premesse. Rimane solo da sperare che non siamo di fronte ad un’opera nella quale l’ouverture rimane la parte migliore…

A scuola cantano i cigni Della scuola italiana si potrebbe dire tutto il male del mondo (e infatti lo dice,

bien sure !). Ma questa indefessa lamentela quasi mai si eleva alla dignità di un’autentica, produttiva riforma. Per capire certi versanti della scuola italiana ci vorrebbe una filosofia del male, una cultura della disperazione. Oggi Sofocle ambienterebbe le sue tragedie in una scuola. Invece, di norma, nei film, nei romanzi, nelle fiction all’italiana, la scuola viene raccontata come universo comico, tendente alla farsa, al limite pervasa di lirismo elegiaco, quasi mai alla serietà. Il dibattito pubblico si esaurisce in uno strepitare in falsetto da parte di moralisti mai sfibrati dalle loro invettive che non portano a nulla. Il vorticoso riformismo ministeriale è finalmente il sintomo di una patologia degenerativa che va poi curata con lunghe e dolorose sedute quotidiane costellate dagli sforzi per farcela comunque e nonostante tutto. Questo atteggiamento è frutto di un meccanismo di rimozione: proprio perché la scuola è una realtà tragica, ci si rifiuta di prenderla sul serio (con tutto ciò che questo comporterebbe). Ben diversa la realtà francese rappresentata nel docu-film “La Classe” (di Laurent

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Cantet). La macchina da presa gira per l’aula senza privilegiare né il punto di vista dell’insegnante (giovane, dotato, motivato, sensibile, ma imperfetto, vivaddio, come tutti gli umani…) né quello degli adolescenti (neri o magrebini, cinesi o autoctoni, individui in formazione, per niente scontati, già con le loro regole, non le solite vittime-delle-sirene-del-mondo-d’oggi). Il professore non li ascolta, almeno quanto loro non ascoltano lui. E’ significativo che il titolo originale fosse Entre le murs: infatti, solo chi è dentro la scuola può capire quanto sia serio attraversarla. Chiunque, da fuori, la prende come un parcheggio di giovani da avviare prima o poi al lavoro oppure come un ricettacolo di tutti coloro che non avevano abbastanza professionalità per sfondare in altri campi, fa esattamente come quelle simpatiche canaglie (gente sovrappeso e di mezz’età) che al bar sport sono brave solo a pontificare su come andava battuto un rigore alla finale mondiale o come andava fatto un sorpasso al gran premio. Pietro Citati, proponendo di raddoppiare gli stipendi ai professori, ha fatto notare che, mentre un tempo i modesti salari erano quasi il crisma dell’elezione (di una meritata e nobilitante esenzione dalla classificazione sociale su base censitaria), oggi vengono invece imputati loro come lo stigma di appartenenza a una sorta di sotto-classe, una specie di sottoproletariato per lo più inutile. L’umiliazione di un cursus formativo che sembra non termina Fra i molti conflitti attuali, accanto a quello generale fra giovani e vecchi, c’è anche quello fra studenti che non vogliono imparare e docenti (e genitori) che probabilmente hanno perso la voglia di insegnare. D’altra parte, il capitale della cultura impartita a scuola, come quelli andati in fumo nelle crisi finanziarie dello scorso autunno, azzera quasi interamente il suo valore appena fuori dal cortile scolastico. Una prova ? Le ultime tracce della maturità, incentrate sui Internet e sui social-networks. Si è detto che per la prima volta dalla Riforma Gentile erano temi rispetto ai quali l’alunno medio ne sapeva dieci volte di più del professore medio. Ma si è trattato in realtà di una imboscata, in un duplice senso. Da un lato, una sorta di becera mano tesa (quello che una volta faceva il Commissario Interno…), per far scrivere qualcosa a tutti e non rischiare - anche per colpa della nuova aria di rigore che tira - di dover respingere percentuali bulgare di candidati. Dall’altro lato, il solito modo di fare rovesciato, superficiale, suicida: che senso ha infatti far parlare a ruota libera i ragazzi su ciò che credono di conoscere a menadito, ma su cui non sono mai stati istituzionalmente e sapientemente guidati a riflettere oltre l’uso meccanico ed interessato che fanno del mezzo telematico ? Discite patienter…! [E.F.]

Fonti Per realizzare questo numero abbiamo, letto, divorato, saccheggiato, confrontato, assimilato, abbiamo condiviso o non siamo stati d’accordo, studiato o spulciato, ci sono piaciuti o ci hanno deluso, i seguenti testi:

FOSSATI, E Dio creò la donna (Chiesa, religione e condizione femminili), Mazzotta, 1977. AMENDOLA, Donne e preghiera (Le preghiere dei personaggi femminili nelle tragedie superstiti di Eschilo), Hakkert, Amsterdam, 2006. JOHNSON, Le stelle di Miss Leavitt (La storia mai raccontata della donna che scoprì come misurare l’universo), Codice, 2006. BARTOLINI (a cura di), A volto scoperto (Donne e diritti umani), Manifestolibri, 2002. BOSIO (a cura di), La ricerca dell’impossibile (voci della spiritualità femminile), Mondadori, 1999. de BEAUVOIR, Il secondo sesso, Saggiatore, 2008. GAROTA, La roccia e il martello (Sui sentieri della Scrittura sacra), Paoline, 2004.

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