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8 - Avventure nel mondo 2 | 2019 Testo di Domenico Megalizzi Coordinatrice Elena Bigliati Foto di Gabriele Fugazza e Virgilio Castellana D ecido di partire per l’Etiopia attratto dal velo di mistero che la circonda. Sembra sia il luogo ancestrale di tutto: la prima donna bipede, la culla della civiltà umana, il luogo di approdo dell’arca, la regione di Kafa da cui prende il nome la bevanda scura e intensa di cui non potrei fare a meno. Mi dico che ci deve essere qualcosa che giustifica i miti leggendari che vi sono ambientati: le esplorazioni di Bottego, del fiume OMO... Mi incuriosisce il fatto che le diverse etnie di questo pezzo d’Africa, mai unite in un unico popolo ed ancora oggi spesso in conflitto tra loro, hanno resistito da sempre ad ogni tentativo di dominazione, dai sultani arabi ai gas di Graziani. Alterno momenti di entusiasmo ad altri di diffidenza: ci sarà ancora qualcosa che mi sorprenderà? Temo che mitizzando troppo il viaggio potrei invece avere la delusione di qualcosa che, agognata, finisca con lo scontrarsi con la realtà di una globalizzazione che appiattisce ogni rilievo e azzera ogni differenza. Vedremo. Da un ETIOPIA-OMO SURMA EXPEDITION, gruppo Bigliati ETIOPIA avventu.re/2088 RACCONTI DI VIAGGIO | Etiopia ‘‘ Una prima nella terra dei Surma e del fiume Omo ‘‘ OMO SURMA EXPEDITION

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Page 1: avventu.re/2088 RACCONTI DI VIAGGIO | ETIOPIA …...Arrivati a Tulget andiamo a vedere il primo villaggio dei Surma. Capiamo che parte della loro fierezza è già storia, chiedono

8 - Avventure nel mondo 2 | 2019

RACCONTI DI VIAGGIO | Iran

Testo di Domenico MegalizziCoordinatrice Elena BigliatiFoto di Gabriele Fugazza e Virgilio Castellana

Decido di partire per l’Etiopia attratto dal velo di mistero che la circonda. Sembra sia il luogo ancestrale di tutto: la prima

donna bipede, la culla della civiltà umana, il luogo di approdo dell’arca, la regione di Kafa da cui prende il nome la bevanda scura e intensa di cui non potrei fare a meno. Mi dico che ci deve essere qualcosa che giustifica i miti leggendari che vi sono ambientati: le esplorazioni di Bottego, del fiume OMO... Mi incuriosisce il fatto che le diverse etnie di questo pezzo d’Africa, mai unite in un unico popolo ed ancora oggi spesso in conflitto tra loro, hanno resistito da sempre ad ogni tentativo di dominazione, dai sultani arabi ai gas di Graziani. Alterno momenti di entusiasmo ad altri di diffidenza: ci sarà ancora qualcosa che mi sorprenderà? Temo che mitizzando troppo il viaggio potrei invece avere la delusione di qualcosa che, agognata, finisca con lo scontrarsi con la realtà di una globalizzazione che appiattisce ogni rilievo e azzera ogni differenza. Vedremo.

Da un ETIOPIA-OMO SURMA EXPEDITION, gruppo Bigliati

ETIOPIA avventu.re/2088 RACCONTI DI VIAGGIO | Etiopia

‘‘Una prima nella terra dei Surma e del fiume Omo

‘‘

OMO SURMA EXPEDITION

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24 dicembreArriviamo ad Addis Abeba la mattina della vigilia di Natale; e partiamo alla volta di Bonga. La periferia di Addis è una conferma delle teorie di Marc Augè, un crogiolo della peggiore speculazione edilizia di molte periferie urbane, molto somigliante a quella italiana degli anni 60/70 ma che qui sta crescendo senza regole. In tutte le scatole di fiammiferi in costruzione spicca l’aspetto “autoctono” dei ponteggi di pali irregolari che muovono un po’ queste facciate piatte da edifici del blocco sovietico contemporanei (le regole sulla sicurezza non sono ancora arrivate). Ci immettiamo in una strada polverosa costruita per i camion di marche cinesi che trasportano incessantemente tonnellate di materiale verso la nuova diga in costruzione di Gibe III e verso le rive del fiume Omo fino ad ora remote in cui spuntano come funghi impianti di lavorazione dello zucchero prodotto nelle piantagioni di canna delle diverse multinazionali che ne esportano i frutti lasciando alla popolazione locale lo zucchero peggiore. Mi sa che ormai è troppo tardi, vedremo un’Africa che esiste solo più sui depliant per turisti. La strada è un enorme cantiere con ai lati decine di baracche in cui la lamiera grecata e le strutture dirami di albero contengono qualsiasi mercanzia. Non mancano gli edifici con grandi finestre colpite dal sole, a queste temperature delle vere e proprie serre. Donne scavano e cementificano dei canali di scolo. Superato questo limbo si comincia a vedere un po’ di natura. Foreste di alberi di banano così coperti dalla polvere marrone da sembrare seccati da un onda di calore improvvisa e potente, un’istantanea color seppia.Arriviamo a Bonga, passiamo per la città brulicante di attività e di colori. Il campeggio è un posto isolato in mezzo alla natura verdeggiante che già apre un po’ il cuore. Ceniamo cucinando le prime risorse della cassa viveri e montiamo le tende. Un cielo così non lo vedevo da tempo; e la mattina, non più accecati dalla stanchezza, scopriamo di essere in un altipiano verdeggiante e fresco.

25 DicembreLa colazione di Natale in mezzo alla natura ha un suo perché: oggi andiamo a visitare le piantagioni biologiche di Kafa. La nostra guida, Talìa, oltre ad essere cortese e professionale evidenzia una grande gentilezza d’animo. Le piantagioni “bio” sono splendide, si inerpicano per l’altipiano in un bosco di vecchie piante coperte di licheni. Conosciamo i parenti della guida che ci riempiono di attenzioni sincere, ci fanno entrare in casa loro, una capanna in pali e paglia di pochi metri quadrati e in cui la poca luce filtra attraverso i pali disconnessi delle pareti li dove non è stato aggiunto il fango caduto, una panca irregolare per sederci, un letto per tutta la famiglia e le ragnatele affumicate dai fuochi accesi a terra per cucinare. L’atmosfera è indescrivibile. Nel bosco incontriamo gente che raccoglie gli ultimi chicchi di caffè rimasti a terra, ci sorridono. Bellissimo.È ancora mattina: mi sa che sarà un bel viaggio. Arriviamo nel pomeriggio a Mizan Tefar, facciamo un giro per il mercato, compriamo frutta, verdura e acqua in quantità. Entriamo in un posto fumoso

e scopriamo che è un mulino, la strada silenziosa lascia il posto al frastuono delle macchine che macinano, alla gente più numerosa di quanto da fuori si potesse immaginare. Le donne sono abbigliate con vestiti coloratissimi e la loro bellezza è amplificata dalla poca luce soffusa che dalle finestre filtra faticosamente attraverso la polvere sottile e dall’odore forte di curcuma che un po’ prende alla gola. E’ una luce che solo in pochi punti spezza la penombra del locale, si vedono scene che sembrano quadri di Caravaggio. In pochi minuti abbiamo uno spaccato di quotidianità molto intenso. Per strada dei bambini studiano all’uscio di un negozio con un libretto di Topolino, faccio per loro un paio di disegni di personaggi Disney e ridono.

26 dicembre Dobbiamo avere dei permessi per entrare nel territorio Surma: primo incontro con i tempi africani.

Scopriamo che l’addetta dell’ufficio arriverà più tardi: siamo in periferia di Mizan Tefari ed è già passata un’ora alle auto, ma... IN AFRICA NON ESISTONO TEMPI MORTI, ce ne accorgiamo subito. All’ombra di un albero enorme si apre la vista sulla strada piena di gente che cammina carica delle proprie cose; i bambini vogliono giocare con noi a calcio, il gruppo cresce rapidamente, non si capisce da dove spuntano. Seguono la palla in modo disordinato urlando e ridendo e si contendono ogni passaggio. Qualche metro a piedi e sembra di essere nell’Italia meridionale di Carlo Levi. Gli abitanti del villaggio portano le loro bestie al veterinario venuto chissà da dove e chissà quando tornerà. Il “sana porcelle” si sta occupando di una asino ferito sotto la pancia. Tutti danno una mano e partecipano della preoccupazione del proprietario. Abbiamo perso la cognizione del tempo, arrivano i documenti.Ripartiamo. La luce è tagliente, le donne ai lati della strada scompaiono sotto i loro covoni o mazzi di

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legna molto più grandi di loro, formiche verso i loro formicai. Mucche, asini e capre ci impongono di rallentare o fermarci finchè serafiche e indifferenti passano oltre. I nostri autisti non pensano neanche lontanamente di usare il clacson, aspettano, Il tempo ha già valori diversi, non misurabili con i nostri strumenti precisi. Arrivati a Tulget andiamo a vedere il primo villaggio dei Surma. Capiamo che parte della loro fierezza è già storia, chiedono dei birr per fotografarli limitando un po’ la loro autenticità. Il nostro scout col suo AK47 non aiuta a rompere il ghiaccio,anzi… notiamo che chiedono soldi ma non sanno contarli, immagino che compreranno oggetti di cui non conoscono il valore in denaro e saranno depredati. Sulla sentiero del ritorno incontriamo la gente che torna al villaggio con l’acqua, ballano e ridono di noi, ci fermiamo in una scuola imposta dal governo per “istruire” questo popolo aggressivo...

27 dicembreRaggiungiamo a piedi un recinto di rami in cui un branco di tori imponenti sosta tranquillo. Fa uno strano effetto vedere queste bestie dotate di corna possenti così mansuete: gli occhi sono così buoni e le orecchie tagliuzzate in maniera decorativa. Alcuni ragazzi vestiti di collana o bracciale credo abbiano dormito qua. Stamattina assistiamo al rito del sangue. In effetti non ha niente di rituale, non ci sono motivi ancestrali, religiosi o magici dietro. Il sangue è un ottimo nutriente e ogni giorno qualche ragazzo della tribù ne beve una quantità direttamente sgorgante dal collo di un toro. Si tratta semplicemente di una pratica pragmatica in cui costi e benefici vanno a favore dei secondi. Con tanta maestria un uomo scaglia una freccia sul collo di un toro, abbastanza in profondità da forare l’arteria e farne uscire un flusso di sangue

abbondante . Un ragazzo lo raccoglie dentro una zucca vuota e lo beve tutto. Pare non si accorgano di noi, appare tutto naturale. Del fango viene applicato sulla ferita del toro a fermare il sangue. Scalzi questi uomini camminano fra gli escrementi senza prestare attenzione, anzi un bambino ne raccoglie un po’ per curare la mastite di una mucca, non conosco le proprietà curative della cacca di mucca ma evidentemente un’utilità la avrà. Mi diverto a fotografare i miei compagni di viaggio, le facce sorprese di chi viaggia con te sono probabilmente specchio della tua, denotano sorpresa e meraviglia. Le orecchie forate coi lobi allungati, le scarnificazioni, gli abiti di stoffe legate su una spalla o addirittura una sola collana come vestiario sono scene che ci

fanno viaggiare nel tempo. Intanto Elena, la nostra coordinatrice, si allontana da noi e fa conversazione, Dio solo sa in che lingua riesca, con dei ragazzi vicini a un fuoco. La loro distanza iniziale si azzera e possiamo immortalarli mentre ridono di gusto. Mi piacerebbe sapere come faccia a farli ridere così. Vedremo anche più tardi come questa sua capacità di entrare in contatto con le persone farà cadere quel velo protettivo di diffidenza e permetterà ai nostri straordinari fotografi di terminare le foto statiche da 5 Birr e scattare immagini veramente autentiche. Mi rendo conto che se non c’è un contatto si può andare in qualsiasi luogo e non vederne buona parte.Durante la pausa pranzo a Kibish assistiamo alla preparazione dell’injera a casa di una signora, entriamo in un bar in cui si beve alcol locale, e in un altro mulino. Ancora tempi “morti” straordinari, meglio delle visite guidate.Poi.. un matrimonio surma. Arriva sempre più gente che balla allo stesso, identico, ripetitivo e incessante ritmo di tamburi di plastica; bevono birra di sorgo a litri e ogni tanto nel cerchio le donne accolgono un uomo, lo frustano con dei rami e questo sorride mentre si prende delle gran nervate, lo buttano a terra e lo immobilizzano. Poi tutto si ripete così per ore. Ogni tanto sparano in aria con i kalasnikov. Il capo villaggio sfoggia l’abito migliore, maglietta marrone e coperta con disegni di Winny the Pooh legata alla loro maniera tradizionale. Contaminazione che ci fa sorridere. Quando il tasso alcolico ci sembra elevato andiamo via. Anche oggi giornata veramente ricca.

28 dicembreAttraversiamo il territorio surma, davanti a pastori con i loro greggi di mucche, unico “abbigliamento” un telo e il kalasnikov. Poi, dei check point improvvisati in cui gente sorridente ci saluta con gli Ak spianati: loro sorridono ma comunque un po’ di

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timore lo incutono. La faccia preoccupata del nostro poliziotto di scorta non ci tranquillizza. Maji si trova a quota 2500 m, il paesaggio è lussureggiante, arriviamo per la celebrazione della messa copta. Qui vive l’etnia Dizi, nemici storici dei Surma. Sono più cortesi e ospitali. Le donne sono tutte velate di bianco e gli uomini indossano turbanti. Il rito si svolge fuori dalla chiesa, in alcuni momenti tutti quanti si inginocchiano a terra in direzione del celebrante. Riscendiamo a valle lungo sterrati sconnessi e pieni di massi, qui durante la stagione delle piogge si è isolati. Passiamo piano piano dal fresco verde delle montagne al giallo secco e arido della savana. Non si fa in tempo ad abituarsi a un paesaggio che questo cambia nuovamente. Arriviamo al campeggio dentro l’Omo National Park. Io e Gabriele facciamo qualche km a piedi per arrivare ad una fontana che si aziona a mano con una leva. La sensazione dell’acqua fresca in mezzo a un paesaggio desertico, il ritorno a piedi senza bisogno di torce per il chiarore della luna, la gente che incontriamo per strada a riposare fuori dalle baracche sono un altro viaggio. Leggerezza e libertà, come fai a pensare a qualcosa? Il lavoro e lo stress di casa neanche esistono più.

29 dicembreGame drive alle 6:30 del mattino. E’un parco ma vi si trova una base logistica di uno dei tanti cantieri cinesi: file di camion sinohowke e una distesa di baracche in lamiera brillanti al sole come il Guggheneim di Bilbao in mezzo alla savana arida e piatta. Dopo colazione partiamo per Kangate, una fila di baracche cresciuta disordinatamente sulle due rive dell’Omo una volta insuperabili ma ora attraversate da un ponte di fabbricazione cinese. E’ l’infrastruttura che collega il territorio più incontaminato con il resto dell’Etiopia. Queste strade portano il “progresso” fin dentro i villaggi che si erano mantenuti autentici fino

ad ora. Al bar ci permettono di mangiare il nostro cibo e bere un paio di Habesha e Saint. George, due birre etiopi che non hanno niente da invidiare alle nostre. Un canale cinese pubblicizza aggeggi elettronici da noi di moda venti anni fa. Fuori in cortile, in attesa del loro buonissimo burna (caffè appena tostato), ci offrono un’erba da masticare che dovrebbe avere effetti eccitanti. Dopo questa pausa visitiamo il villaggio Nyangatom. C’è qui una certa organizzazione rispetto ai villaggi surma. E’ pianeggiante e con una maggiore identificazione delle proprietà, si vede il concetto di limite e confine . Ci sono recinti irregolari che contengono casa, depositi, spazi per gli animali. Le donne usano lunghe collane di perline colorate di plastica che una volta erano di pietre o legno. Saranno di qualche metro, avvolte con così tanti giri da dare la percezione di un collo più lungo ed elegante. Anche gli abiti in pelle di mucca sono decorati con figure geometriche coloratissime. I cinturini di orologio pendenti sulla fronte o tra i capelli sono un’altra dimostrazione delle capacità creative e di riciclo di queste donne stupende. La giornata sarebbe già piena, potremmo andare

in tenda e saremmo già deliziati. Ma no, c’è ancora altro, ci fermiamo al di là del famoso ponte. Architettonicamente è di basso profilo, dei bambini lo usano come trampolino di lancio per gettarsi nelle acque scure dell’Omo, li vediamo volare per una quindicina di metri e stiamo col fiato sospeso per secondi interminabili prima di vederli riemergere tranquilli. Sulle rive uomini nudi con corpi di bronzo si lavano accanto a donne che fanno il bucato. I miei compagni di viaggio scuotono la testa sorpresi e indicano ora di qua, ora di là scene da condividere. Io sono al secondo viaggio in Africa, ma ci sono dei veterani: Gabriele è stato quattro volte in Etiopia, eppure... è sempre sorpreso!Ripartiamo e percorriamo km di strada rossa sollevando nuvole di polvere. Queste pianure rossastre sono segnate da spaccature profonde scavate dall’acqua della stagione delle piogge e punteggiate da altissimi termitai che si ergono come totem sul terreno. Qualche albero che sembra un baobab in miniatura ci sorprende con i suoi abbondanti fiori rosa. Arriviamo al crepuscolo al villaggio di Korcho. Senza parole, scendiamo muti dalle auto e osserviamo l’ansa del fiume ai nostri piedi, siamo su un punto che domina tutta la vallata. Facciamo in tempo a montare le tende e il tramonto rende tutto ancora più magico. Si riesce a sentire la gente che parla sull’altra sponda .

30 dicembreOgnuno di noi nella notte si è affacciato a guardare il fiume sotto un cielo pesante di stelle. Visitiamo il villaggio Karo: sono più ricchi di altre popolazioni, bellissimi cesti di canne intrecciate coperti da tetti in paglia si ergono su piccole palafitte per conservare il raccolto al riparo dalle termiti. Recinti di pali contengono un numero di case adeguato a quello delle mogli e altri più piccoli per gli animali. La luce

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radente del primo mattino allunga le ombre filtrando tra i pali delle recinzioni e tra le case e disegnando geometrie mozzafiato. I corpi dei Karo sono colorati, il bianco è il colore più diffuso, inutile dire che su corpi così longilinei e scuri impreziosisce l’effetto. Le pietre per comporre i colori arrivano da montagne a venti chilometri da qui. Ci dicono che le donne che indossano pelli di mucca non sono ancora sposate, mentre chi indossa gonne in tessuto si. Hanno ottimi rapporti con gli Hammer, consolidati da frequenti matrimoni tra le due etnie. I visi sono sottili, gli zigomi pronunciati e i capelli corti. Bellissimi.Nel pomeriggio ci spostiamo a Turmi, alcuni di noi montano le tende in un campeggio vicino al greto di un fiume in secca sotto alberi di mango di cui mangiamo i frutti caduti. Nel pomeriggio andiamo a vedere il salto del toro. Un rito di passaggio. Un ragazzo per diventare uomo e potersi sposare deve superare la prova: saltare per tre volte di fila una serie di tori affiancati senza cadere, una sorta di tauromachia africana. Prima di questo però le donne hammer si fanno frustare a sangue da alcuni uomini che avranno il compito di benedire i tori e il jumper. Queste donne portano i capelli lunghi fino alle spalle raccolti in sottili treccine colorate da fango rosso. Sono splendide e fiere,hanno i visi allungati, dai tratti somatici e dagli occhi quasi orientali, uno sguardo di sfida. Si mettono di fronte al frustatore affrontandolo con canti e danze finché non ricevono la sferzata senza battere ciglio. Le loro schiene nude sono segnate da tagli profondi e insanguinati. Lo sprezzo del dolore che mostrano ha qualcosa di ancestrale e animalesco. Prima del rito le donne circondano la mandria di tori ballando intorno con centinaia di campanellini alle caviglie e soffiando dentro a corni di metallo.

Poi silenzio, tutti intorno guardano con apprensione quello che sta per accadere. Se il ragazzo cadrà sarà reietto dalla tribù.

La sera, dopo aver passato un po’ di tempo al lodge dei nostri compagni, ritorniamo a piedi verso il campeggio sotto la luce della luna e accompagnati da hammer che tornano a casa. Surreale. Un ragazzo in moto lascia il fratello un po’ più avanti e torna indietro per darci un passaggio: gesto spontaneo e gentile.31 dicembreSaliamo su una canoa per attraversare il fiume

e vedere un villaggio dell’etnia dei Dassanech. L’organizzazione spaziale è piuttosto semplice, casupole a forma di covone di grano ma ricoperte di lamiere piegate. Sono dei forni al sole. Durante il giorno gli abitanti stanno fuori, sotto pergole di rami per godere dell’ombra. I Dassanech sono alti e hanno dei visi quasi effeminati. Le donne ballano e cantano in gruppo; sono bravissime a recitare anche se fosse per turisti, si divertono. Degli uomini costruiscono un nuovo recinto, altri scolpiscono con grande maestria

degli sgabelli/cuscini dal design funzionale ed elegante. Un ragazzo si occupa di fare i fori per il manico in corda o pelle di mucca. Usa uno strumento primitivo: arroventa una punta di acciaio e la poggia sul punto da forare; ne brucia pochi millimetri e lo rimette sul fuoco. Ci vorranno ore a finire i buchi. Mi chiedo se non sia giusto informarli che esiste anche un bulino… Se ne vedessero uno, lo saprebbero riprodurre! Hanno una manualità che la maggior parte di noi occidentali ha perso. Al mercato locale vediamo contenitori di legno scolpito con manici e tappi di pelle di mucca, sgabelli e altri oggetti fatti con gli stessi pochi materiali. Da qui ripartiamo per Jinka. Ci inerpichiamo di nuovo per le montagne, lasciamo la savana per tornare al verde lussureggiante. Per strada ci vengono incontro dei bambini dipinti su tutto il corpo che camminano su trampoli altissimi.

Arrivati li ci concediamo un alberghetto, una doccia dopo tanti giorni non la disdegna nessuno.

1 gennaioVisita al villaggio Mursi, imparentati con i Surma: ne usano gli stessi costumi ma hanno tratti somatici differenti. Qualche bella istantanea con queste donne che però diventano insistenti e invadenti con le loro richieste di fotografie a 5 birr. Riesco a godere meglio il villaggio quando decido di posare in auto la fotocamera. Confido nella pazienza e bravura di Gabriele, che vedrò poi non saranno smentite. La nostra coordinatrice a un certo punto è circondata da questa gente che ride guardando il video del matrimonio dei loro cugini Surma di qualche giorno prima, anche se sembra siano

passate settimane. Ha proprio un dono. Aiutiamo una donna ad accendere un fuoco, disinfetto una brutta ferita al braccio di un’altra. Nessuno ci chiede più

insistentemente di fotografarli, abbiamo ottenuto il loro rispetto. Un’immagine mi rattrista un po’, i soldi che noi diamo vengono subito dati agli scout in cambio di bustine di aranciata da diluire in acqua. Una foto vale 5 birr, una bustina anche, e a loro di questi soldi che neanche conoscono non rimane niente. Il pomeriggio lo passiamo a visitare Jinka con Znabu, un cuoco che aveva fatto amicizia con Elena; ci porta a casa sua dove ci mostra gli strumenti per distillare una grappa dolciastra che ci fa anche assaggiare, dalla sua vicina che prepara l’injera, al mercato locale, dove incontriamo anche sua madre che fa compere in un tripudio di colori, schiamazzi e odori. Tutto gratuitamente. Abbiamo dovuto insistere per dargli dei soldi per aver passato il pomeriggio con lui. Unica pecca di questa giornata è stata la nostra “invadenza” di fotografie in un’area che non aveva mai visto un turista: mi viene in mente che lo scatto della fotocamera si chiama shoot. Forse è il nome più adatto. A volte la fotocamera è il mezzo migliore per non vedere. Dopo cena Gabriele, Antonio ed io ci vediamo di nuovo con Znabu e altra gente del posto in una discoteca locale per festeggiare il capodanno, eravamo gli unici bianchi, divertentissimo.

2 gennaioMercato di Alduba. Dopo ore di cammino da ogni villaggio arrivano popoli con addosso ogni tipo di mercanzia. C’è una gran varietà di oggetti ottenuti da materiali locali: borse, bracciali, pettini, spezie, formaggi; gli uomini invece si occupano del bestiame. Mangiamo una carne appena macellata, grigliata e servita in fornellini di terracotta; beviamo le nostre immancabili birre etiopi.Ripartiamo verso Konso. Rettangoli irregolari di sorgo col loro giallo intenso ricordano i quadri di Van Gogh. Le capanne hanno ancora una struttura diversa, sembrano dei bottiglioni di vino col vimini intrecciato alla base, coperti poi da bellissimi tetti

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di paglia costituiti da un tronco di cono e da un altro cono soprastante; e il tutto termina con una scultura in terracotta in cima. I bambini per strada offrono dei giocattoli in legno fatti da loro, tra questi si trovano purtroppo anche dei kalashnikov perfettamente intagliati. Facciamo una passeggiata per il centro. Sulla strada principale si vede la tipica periferia urbana africana, la gente veste all’occidentale, le auto e le imitazioni dell’ape Piaggio fanno da taxi, edifici moderni in cemento ai bordi della strada, banche e negozi di elettronica mostrano una città sospesa tra progresso e povertà antica. Poi una bambina ci porta al mercato e appena spostati dalla strada principale tutto cambia. Veniamo letteralmente assaliti da un nugolo di bambini e venditori che cercano la nostra attenzione mostrandoci ogni cosa. Ci parlano, ci toccano, ridono di noi e ci seguono fino dentro il villaggio, giochiamo con i bambini ma appena facciamo finta di inseguirli corrono via ridendo e urlando: farangiii. Siamo la novità della giornata, non riusciamo quasi più a camminare per la gente che ci sta intorno contendendosi la nostra attenzione. Non abbiamo neanche per un attimo la sensazione di non essere al sicuro, ci offrono tutto quello che hanno da mostrare: siamo solo a trenta metri in linea d’aria dalla strada principale.

3 gennaioDopo una visita alle gole di Gesergio, entriamo in una scuola. Ogni centimetro di muro è utilizzato come lavagna. I banchi sono vecchi e gli allievi hanno un unico quaderno che trattano come una reliquia. In un luogo in cui la gente vive in baracche polverose, fatte di legna e fango, i quaderni sono più in ordine e curati di quelli dei miei allievi. Si sente la loro fame di sapere. In un’aula con circa 60 alunni si ode solo il graffiare del gesso sulla lavagna. Il villaggio Mechecke ha già un’organizzazione cittadina, ci sono spazi di aggregazione per la vita pubblica e luoghi di ritrovo in cui si beve insieme.

Una splendida piazza si erge sopra la valle verdissima con i terrazzamenti che a ragione sono patrimonio dell’Umanità. Le case sono un ottimo esempio di bioarchitettura e di sapienza costruttiva. Dei pilastri in legno sostengono il pavimento della casa ma fanno anche da spazio pubblico: di giorno all’ombra sosta la gente, di notte dormono i giovani del consiglio cittadino. Il livello superiore presenta dei fasci di rami sottili intrecciati e piegati in cerchi sempre più piccoli fino alla sommità, una specie di ragnatela che sostiene uno strato di fasci di paglia di circa 40 cm di spessore. Isola dall’acqua piovana, premette il passaggio dell’aria, mantiene costante la temperatura. Io guardo molto le case perché sono espressione dei modi di vivere quanto gli abiti o le usanze, è interessante questa ambivalenza tra pubblico e privato sotto i “pilotis”. E’ il primo villaggio in cui si sente maggiormente l’idea di comunità, la gente sta insieme durante il giorno anche per fare le proprie attività. Il paese segue l’orografia del terreno adattandosi al pendio con bellissimi terrazzamenti sorretti da pietre rosse incastonate tra loro, gli stessi che permettono di coltivare il sorgo in terreni così scoscesi evitando l’erosione e trattenendo l’acqua per rendere più fertili i campi. Interessanti anche i giocattoli dei bambini, qui se li costruiscono con gli scarti del sorgo o del teef, ne usano la base legnosa per tagliare dei cilindretti che collegano perforandoli con la corteccia e costruiscono camion, auto, animali. Un bambino vede gli occhiali di uno di noi e un attimo dopo ne aveva fatta un’imitazione in legno, bellissimo. Nel pomeriggio ci dirigiamo verso il lago Chamo ammirando scenari ancora nuovi: campi sterminati di banani e di sorgo, gente lungo la strada che vende caschi di banane accatastati in splendide nature morte, rivoli d’acqua in cui ci si lava o nascono piccoli mercati coloratissimi. Siamo stanchi e verrebbe voglia di dormire, ma qui i trasferimenti sono belli quanto le visite, non ci riusciamo.

4 gennaioLago ChamoGiro in barca in un lago che sembra mare, con enormi uccelli, coccodrilli ed ippopotami. Poi il mercato di Hayzo. Gentilezza diffusa, non chiedono soldi per le foto, vendono mercanzie particolarissime. Ci propongono canne da zucchero, farina di albero di banano fermentata che è la base di una specie di pizza dolce che si mangia col miele e con delle salse piccanti. Anche le confezioni sono particolari, gli involti del formaggio o di questa pasta fermentata sono ancora di foglia di banano legata con fiocchi di erba ed esposte in ordine su stuoie di canne intrecciate. Nei locali i pavimenti e le pareti sono dello stesso materiale e i vecchietti bevono bottigliette di idromele che somiglia al limoncello. E’ un continuo scambio di saluti, strette di mano e sorrisi. Le case Dorze hanno una struttura

sorretta da tre pali ed una pelle in canne di bambù che a contatto col terreno marcisce col tempo. Nessun problema, sono molto alte e ogni tanto viene tagliato lo strato marcio, la casa si abbassa ma è ancora utilizzabile per un altro anno. Hanno una forma a testa di Elefante, somigliano al Mammut dell’”era glaciale”. Anche l’interno ha una suddivisione più complessa di quelle viste fino ad ora. Mangiamo questa pietanza di banano fermentato insieme a miele e beviamo la loro grappa. Nel pomeriggio passeggiando per il villaggio conosciamo Marta, una bambina dalla risata contagiosa e dagli occhi furbi. Ci accompagna da una signora molto anziana che ci accoglie in casa e si dispera perché ha da offrirci solo qualche seme di grano. Ci sediamo su un tavolato in legno e Domenech ci mostra come si fila il cotone. Quelle mani ossute, cordate di vene trasformano dei batuffoli in filo di cotone con gesti precisi, rapidi e sicuri. Marta ride e balla. Ogni tanto insiste per avere dei birr, ma preferiamo regalarle un pezzo di sapone per la madre. Sappiamo che questa spontaneità si perderà, se paghiamo.

5 gennaioCi dirigiamo verso Awasa, dobbiamo rinunciare ai pozzi cantanti di Jabelo. Le strade sono un concentrato di vita locale e di costumi. I fiumiciattoli semiasciutti sono punti di accumulazione di molte attività. Cominciamo a vedere donne velate, entriamo nel territorio a maggioranza mussulmana di Sashemene. La città di Awasa è bruttina, si vede la povertà che non si vedeva altrove, derivante dalla sperequazione di bisogni indotti, forse.

6 gennaioGiriamo per il mercato di Awasa, che offre spaccati di vita interessanti e autentici; ma stiamo poco tempo perché dobbiamo partire per Addis. Arriviamo in serata e ceniamo nel più antico ristorante della città, un luogo storico in stile liberty con arredi e ringhiere in legno piegato in forme organiche. Bello.Partiamo in nottata per l’Italia con scalo a Il Cairo. Lungo viaggio durante il quale, sonnacchiosi, mescoliamo ricordi a pensieri sulla nostra vita quotidiana che ricomincerà domani. Sembra di essere stati qui dei mesi. Ci accorgiamo solo adesso di ricominciare a misurare il tempo.

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