public_cibo ed etnopsichiatria

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  • 7/23/2019 Public_cibo Ed Etnopsichiatria

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    GIORNALE L> E L L 7 A L I 1\11E N T A Z I O N E

    E I:)ELLE PATCJLCJGIE CORRELATE

    I disturbi del comportamento

    alimentare tra clinica psichiatrica

    occidentale ed etnopsichiatria.

    Una riflessione nosografica

    Gli Autori passano in rassegna i principali dati epidemiologici

    e nosografici in atto disponibili sui disturbi della condotta ali-

    mentare, ed in particolare sulla bulimia, e propongono una se-rie di osservazioni storiche e cliniche sul significato che tali

    disturbi hanno assunto nella nosografia psichiatrica occiden-

    tale, in particolar modo in tempi recenti. Fondandosi su talidati, essi suggeriscono che in tali disturbi possa esistere unaforte connotazione culturale, sino a potersi ipotizzare che es-

    si possano essere considerati l'espressione occidentale mo-derna di una sindrome mediata dalla cultura (culture-bound

    syndrome), secondo la classica definizione dell'etnopsi-

    chiatria. In base a tale ipotesi, allora da ritenere possibileche il trattamento dell'anoressia e della bulimia - oltre che ov-

    viamente medico e psicologico 'ortodosso' - possa anche

    utilizzare gli stessi criteri metodologici e gli stessi strumenticlinici che possono essere utilizzati in etnopsichiatria per la

    terapia delle 'culture-bound syndromes'. Ci si riferisce nella

    fattispecie all'ipotesi di terapie che abbiano la finalit di ri-strutturare i modelli culturali e sociali occidentali alla base dei

    disturbi della condotta alimentare, attingendo alle risorse cul-

    turali originarie del paziente e mirando psicodinamicamentead un ridimensionamento del suo S.

    Parole Indice

    Disturbi del comportamento alimentare, Bulimia, Etnopsichiatria

    Nella storia della cultura occidentale, le prime descrizio-ni di anomalie dell'alimentazione o comunque di con-

    dizioni analoghe a quelle che oggi consideriamo di-

    sturbi della condotta alimentare (DCA)risalgono a centinaia di

    anni fa. Ma si tratta di descrizioni sporadiche, incerte, spesso

    inappropriate, senza alcuna rilevanza nemmeno dal punto di

    vista storico. Di certo non possono in alcun modo essere consi-

    derate delle descrizioni di un disturbo, ma semplicemente qual-

    cosa di assai simile a storie inattendibili, o ad osservazioni di

    'stranezze comportamentali' non dissimili dalla 'malattia d'a-

    more' descritta accuratamente dallo stesso Ippocrate.

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    D'altra parte, anche gli attacchi difame vorace ed insaziabile sono pre-senti nella antica letteratura grecaed ebraica, ma non possono affattoessere considerati descrizioni di un

    quadro patologico. invece nel basso Medioevo che i

    disturbi dell'alimentazione divengo-no oggetto di cronache dettagliateed attente, in particolare modo perquanto attiene alle manifestazioni diessi in sante o comunque in donneparticolarmente pie e devote. BelI haaddirittura suggerito che molte san-te del tredicesimo secolo fossero af-fette da anoressia (una 'santa ano-

    ressia', come l'Autore la definisce(1. Uno degli esempi pi ec1atantidi tale comportamento quello diSanta Caterina da Siena che, secon-do Rampling (2) era affetta da unasevera forma di anoressia nervosa.

    Scriveva Santa Caterina da Siena,per esemplO:"Vi assicuro, davanti a Dio... cheuna o due volte al giorno mi sforzodi assumere del cibo... Ho preso ac-

    curatamente in esame questa infer-mit e ho pensato che Dio, nella suabont, me la desse per correggermidal vizio della gola".D'altra prte basta pensare che lagrande magrezza era in qualchemodo connessa, nell'immaginariosociale di altre epoche, come il Me-dioevo, al desiderio di trascendere ilcorpo, di mortificarlo in favore dellospirito.Ma pur essendo comportamenti notisin dall'antichit, i disturbi dell'ali-mentazione non sono stati per lungotempo considerati delle condizionidi rilevanza clinica, non insommadelle vere e proprie malattie.Questo stato dovuto, probabilmen-te, non tanto alla irrilevanza clinicae nosografica del disturbo, o alla suaassenza, quanto probabilmente alfatto che i DCA erano culturalmente

    DISTURBI DELL'ALIMENTAZIONE ED ETNOPSICHIATRIA

    mascherati, la magrezza in partico-

    lare divenendo epifenomeno di una

    weltanshauung che tendeva alla spi-ritualit mistica ed all'ascetismo,

    passando attraverso la mortificazio-

    ne della corporeit. Ci avvenivanon solo attraverso il rifiuto del ci-

    bo, e quindi l'enfatizzazione della

    magrezza estrema come negazionedella corporeit stessa, ma anche at-traverso i sintomi secondari indotti

    da questa scelta, anch'essi evidenteespressione del rifiuto/negazionedel corpo. Si pensi, per esempio, alvissuto della mancanza di cicli me-

    struali nell'anoressia nervosa, come

    espressione simbolica della negazio-ne della sessualit (3), ed al rapporto

    di questo fenomeno - al tempo stesso

    culturale e patologico - con l'asceti-smo (nella fattispecie cattolico).

    D'altra parte, una visione dell'ano-ressia come condizione femminile

    purificata da ogni altra contamina-zione corporea mediata dal cibo (edella sua funzione "eccitante")

    presente ampiamente nella conce-

    zione medioevale, come stato al-trove suggerito (3, 4). Il problema

    dei disturbi del comportamento ali-mentare si pone storicamente, quin-

    di, quasi come categoria comporta-mentale atta a modificare non solo o

    non tanto il corpo femminile, quan-to le possibilit di espressione reale

    e di potenzialit simbolica del me-

    desimo, in assoluta aderenza con unideale estremo di incontaminazione

    mistica, che rendeva pertanto indi-

    spensabile il rifiuto di qualunqueforma di istintualit e comunque il

    privilegiare al corpo femminile co-me 'natura' un corpo femminile co-me 'cultura'.

    In epoca moderna, la prima descri-"zione clinica dell'anoressia nervosa

    venne fornita da Sir William Gull a

    Londra nel 1868, che propose perquesto quadro clinico proprio il ter-

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    mine di 'anoressia nervosa' (5); una

    ulteriore descrizione venne poi data

    a Parigi dal francese Lasgue (6),

    nel 1873. Precedentemente c'erano

    state altre descrizioni del quadro

    clinico: una abbastanza approssima-tiva di ]ohn Reynold nel diciassette-

    simo secolo, che riferisce di una

    'prodigious abstinence', e una inve-

    ce molto pi dettagliata di Richard

    Morton che, nel 1689 (7) e nel

    1694 (8), rilev le caratteristiche

    essenziali della sindrome, dal rifiuto

    del cibo ai disturbi mestruali che poi

    si evidenzi essere associati pressoc-

    ch costantemente a questo quadro

    clinico. Sebbene, pertanto, Morton

    possa essere considerato il medico

    che ha propriamente 'scoperto' l'a-

    noressia nervosa - come suggerisce

    Silverman (9) - CulI e Lasgue furo-

    no certamente i primi non solo a

    descriverne con precisione 'moder-

    na' il quadro clinico, ma anche a

    suggerire un approccio terapeutico.

    L'anoressia nervosa fu quindi de-

    scritta quasi contemporaneamente

    nella seconda met dell'800 in due

    grandi aree metropolitane.

    A differenza dell'anoressia, nota agli

    ambienti psichiatrici e medici da ol-

    tre un secolo, la bulimia nervosa na-

    sce come entit nosografica autono-

    ma solo nel 1980; prima di allora fu

    considerata solo un sintomo, sfumato

    nel quadro clinico dell'anoressia.

    In realt di tale disturbo si trova

    menzione nella letteratura medica

    francese (la Boulimie) gi del 1772,

    in cui veniva definita come "bulimia

    emetica" e descritta come consuma-

    zione forzata, con successivo rigur-

    gito di quantitativi maggiori di quel-

    li che possono essere digeriti. Verso

    la fine del secolo scorso (1899) la

    bulimia era descritta come "una fa~

    me patologica osservabile special-

    mente tra gli idioti e i maniaci, che

    induce i pazienti a mangiare in mo-

    ~

    C I B U S

    do cosi sfrenato da causare il rigur-

    gito e il vomito, dopo il quale essi

    riprendono a riempirsi".

    Da quest'ultima data al 1975, data di

    pubblicazione del DSM-III, la buli-

    mia viene quasi del tutto dimenticata,facendola in qualche modo rientrare

    all'interno della sindrome anoressica,

    o una reazione psicologica gastroin-

    testinale, oppure una variante dell'o-

    besit. Russell fu colui che per primo

    nel 1979 propose la definizione di"bulimia nervosa" in cui incluse ol-

    tre agli episodi bulimici altre caratte-

    ristiche psicopatologiche quali il ter-

    rore di ingrassare, il vomito autoin-

    dotto e l'abuso di purganti.La bulimia acquist vasta notoriet

    presso il pubblico statunitense in se-

    guito ad una invasione di articoli di-

    vulgativi sulla stampa, tra cui un

    pezzo apparso nel 1981 sul NewYork Times che descriveva una ri-

    cerca condotta su una vera e pro-

    pria epidemia del disturbo insorta in

    un campus della State University di

    New York, in cui un buon 13% dei

    soggetti iscritti, di cui 1'87% era co-stituito da donne, rispondeva ai cri-

    teri diagnostici del DSM III per la

    bulimia, dichiarando cio un passa-

    to di eccessi alimentari seguiti da

    vomito volontario.

    La necessit di disporre di criteri

    oggettivi, per quanto possibile non

    dipendenti da assunti teorici e con-

    fessionali, ha spinto l'American Psy-chiatric Association alla formulazio-

    ne di criteri diagnostici accettabili da

    tutti gli operatori e a rendere cos

    confrontabili casistiche e protocolli.

    Da quando l'esistenza di disturbi del

    comportamento alimentare venne

    identificata come problema psichia-

    trico, i DCA hanno modificato di-

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    verse loro caratteristiche. Anzitutto

    stato osservato un aumentonell'incidenza dell'anoressia nervo-

    sa. Il fenomeno stato evidenziato

    per primo da Theander (IO), che ri-

    lev a Malmo, in Svezia, un aumen-to dell'incidenza tra gli anni 30 e i

    50. Questa rilevazione fu successi-vamente confermata da una serie dialtri studi: da Kendell et al. nel Re-

    gno Unito (I 1), da Szmukler et al.in Scozia (I 2), da Jones et al. negli

    Stati Uniti (I3), da Willi e Gros-smann in Svizzera (14).

    Un solo studio, realizzato negli Stati

    Uniti, ha negato l'aumento di inci-

    denza dell'anoressia nervosa (I5),analizzando i dati disponibili alla

    Mayo Clinic e relativi al periodo trail 1935 e il 1979. Si tratta dell'unico

    studio discrepante, e la differenza

    nei dati sembra poter essere attri-

    buita al fatto che la popolazione sul-la quale lo studio venne condotto

    era pi caratterizzata da registrazio-

    ni mediche generali che da registra-zioni psichiatriche.

    Di fatto, stata raccomandata pru-denza nell'interpretazione di questoaumento di incidenza dell'anoressia

    nervosa, ed stato provocatoriamente

    suggerito che tale aumento possa es-sere un altro 'mito medico' (16). In

    realt i dati disponibili s~mbranotutti concordare in direzione di un

    sicuro aumento dell'incidenza di di-

    sturbi del comportamento alimenta-

    re, come stato anche confermato

    da studi su popolazioni studente-

    sche, relativi in particolare alla buli-mia (I7).Tali dati sono stati anche valutati co-

    me allarmanti su riviste mediche non

    psichiatriche (18), mentre Masloney

    e Klykylo, nel 1983 (I9) e Vande-reycken e Meerman nel 1984 (20)

    hanno palesemente espresso l'opi-nione che il fenomeno della diffu-

    sione dei disturbi alimentari nella

    popolazione giovanile stesse aumen-tando con un vero andamento epi-

    demico, dato riportato anche in altristudi (2 I). I dati relativi a questa

    tendenza nella valutazione epide-

    miologica dei disturbi della condottaalimentare sembrano derivati talvol-ta da una eccessiva enfatizzazione -

    forse - dei dati disponibili (22), ma

    bisogna anche ammettere che dati

    epidemiologici fondati derivano dastudi sulle ammissioni in ospedale di

    giovani donne con quadro clinico di

    anoressia nervosa (IO, 14, 23), maanche sulle condizioni cliniche di

    pazienti non ricoverati e apparte-

    nenti ad una popolazione giovanile(24), o da casistiche derivate da re-

    gistri epidemiologici (I I, 12, 25).Gli studi epidemiologici non hannocomunque mostrato alcun incre-mento dei casi maschili di anoressia

    nervosa (26, 27). il caso anche dirilevare come recenti studi epide-

    mio logici (Fombonne, 1995) (28)abbiano messo in evidenza non solola mancanza di dati sufficienti a suf-

    fragare l'ipotesi di un aumento nel-l'incidenza in particolare dell'ano-

    ressia nervosa, ma anche il cambia-mento nei criteri diagnostici (per

    esempio il fatto non irrilevante che

    per una diagnosi di anoressia nervo-sa il DSM III richiedesse una dimi-

    nuzione di peso del 25%, mentre il

    DSM III-R ridusse tale percentuale al

    15%, aggiungendo per la mancanzadi tre cicli mestruali consecutivi,modificando in tal modo inevitabil-

    mente - anche se magari in mahieranon rilevante - i tassi di anoressiamentale diagnosticati nei vari studi).

    L'evidenza maggiore del fatto chel'anoressia nervosa abbia subito no-

    tevoli cambiamenti l'emersione re-

    cente della bulimia nervosa. In ef-

    fetti - e questo giustifica la sua con-

    nessione nosografica con l'anoressia- si tratta di un fenomeno dalle

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    uguali determinanti, solo che assu~

    me caratteristiche pi 'violente, nelsenso che il mantenimento di un

    adeguato peso corporeo stabilitomediante il vomito o l'uso di lassati-

    vi da parte dei soggetti affetti. Nonsi tratta di un dato storico~nosogra~

    fico legato all'anoressia nervosa,tanto che resoconti pi antichi rela-

    tivi al disturbo in oggetto, come quel ~lo di Kay e Leigb del 1954 (29), nondicono alcunch di rilevante su que-

    ste pratiche di induzione del vomito

    o di abuso finalizzato di purganti.L'evidenziazione del fatto che queste

    prassi avevano con notazioni patolo~

    giche, risale solo agli anni '70 (30).Nel 1959, Stunkard (31) coni l'e~

    spressione - ormai entrata nell'uso

    comune ~ di 'binge-eating syndro~me', riferendosi a pazienti obese che

    vomitavano per mantenere un certo

    grado di 'forma' fisica.La Bruch (32) descrisse nel 1974 le

    persone che vomitavano dopo ampie

    ingestioni di cibo con una espressio-ne caratteristica, e difficilmente tra-

    ducibile in senso letterale: parla in ~fatti di 'thin fat people', qualcosa di

    simile a 'gente magra-grassa'.Solo nel 1979 Russell (33) introdus~se il termine di 'bulimia nervosa'

    per descrivere pazienti caratterizza-

    te da un abuso episodico e compul~sivo di cibo (le 'abbuffate') e dallasuccessiva e volontaria 'induzione di

    vomito per limitare gli effetti 'in-

    grassanti' del cibo. Russell dedusseche questo comportamento non dif~

    feriva da quello tipico delle pazientianoressiche, e che quindi poteva es-serne considerato una variante.

    De Azevedo e Ferrira hanno con-

    dotto uno studio di prevalenza sullaanoressia nervosa e sulla bulimia

    nelle Azzorre, rilevando come la

    C I B U S

    prevalenza di tali disturbi sia pres~socch irrilevante. Essi non conte-

    stano gli altri studi di prevalenza,ma attribuiscono tale risultato alla

    mancanza di pressioni sociocultura~

    li indirizzate al controllo dell'ali~mentazione e del peso (34). stato suggerito che i disturbi dellacondotta alimentare abbiano deter-

    minanti culturali tali da poter essereconsiderati culture-bound syndromes(35, 36), ovvero come un disturboetnopsichiatrico, nel senso che esso fortemente caratterizzato dalla sua

    presenza in certi contesti culturali esociali ed in certi momenti storici,

    per motivazioni che possono essereconnesse con uno specifico assettosociale e con uno specifico significatoetnologico - per esempio di inconsciaprotesta contro una conflittualit im-plicita nel ruolo femminile moderno(donna autonoma/donna asservita aruoli domestici tradizionali) (36).Esistono dati relativi e questa conno~tazione dei disturbi del comporta~mento alimentare: essi sono eviden~

    ziati quasi esclusivamente in Occi-dente, e riguardano tipicamentegiovani donne di classe sociale ele~vata o comunque agiata (24, 33,37). Bartocci e Paoletti (38) hannofornito una suggestiva sinossi dellecaratteristiche culturali dei disturbi

    del comportamento alimentare, conspecifico riferimento comunque al~l'anoressia nervosa: l'assenza del di-

    sturbo nelle cosiddette popolazioni

    'primitive', l'esistenza di disturbi si~mili, anche se non sovrapponibili al ~l'anoressia mentale in popolazioninon bianche nei Paesi in via di svi~

    luppo; una incidenza massima nellasociet Occidentale industrializzata;una bassa incidenza del disturbo in

    popolazioni di colore emigrate datempo in Occidente.D'altra parte, Schwartz el al. (39)hanno sostenuto, non senza ragione,

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    che l'anoressia nervosa sembra esse-re una moderna forma di isteria es-sendo entrambe sostenute da una

    forte base sociale, ed essendo per-tanto socialmente determinata.

    Nelle culture non occidentali il con-cetto di peso corporeo femminile neisuoi risvolti estetici e sessuali sicu-ramente considerato in maniera mol-to differente che in Occidente (40).

    I valori vengono anzi assai spesso ri-ba1tati, nel senso che la magrezza,che in Occidente ritenuta attratti-

    va sessuale desiderabile, in altrecontrade ritenuta fattore negativodell'attrazione sessuale femminile.

    L'essere abbastanza grasse statoconsiderato un fattore di grande at-trazione sessuale.

    un dato di fatto che ogni culturaha il proprio concetto di femminilite di estetica del femminile.

    Nella cultura araba la magrezza considerata indesiderabile, e l'ideastessa di grassezza consideratasimbolica di femminilit e di mater-

    nit (41, 42). Al contrario, nella so-ciet occidentale moderna la femmi-nilit inevitabilmente associata ad

    una idea di magrezza, secondo mo-delli che trovano nella mitica bam-bola americana Barbie il loro ideale

    e la loro pi compiuta espressioneestetica. Non a caso, il Mildtown

    Manhattan Study (43) ha rilevatol'esistenza di una correlazione in-

    versa tra lunghezza del periodo di

    esposizione ai valori della societamericana e obesit.

    Ci che appare insolito, inopportu-no, limitativo e problematico l'ap-proccio a questa sindrome nella mo-derna medicina occidentale. Si ha

    talvolta l'impressione che, in effetti,tutti concordino sul fatto che la bu-

    limia, cos come in genere i disturbi

    DISTURBI DELL'ALIMENTAZIONE ED ETNOPSICHIATRIA

    del comportamento alimentare, sia-no espressione della cultura occi-dentale dominante anche perchdissentire da questo punto di vistasignificherebbe saltare a pi pari

    tutti i dati epidemiologici disponibilied una serie di contributi clinici eteoretici di indubitabile valore scien-

    tifico. Il problema non , per, que-sto. che a fronte di un riconosci-

    mento necessario, la prassi terapeu-tica comune di recupero psicologicoe psichiatrico non tiene in alcunconto questo dato di fatto obiettivo. presumibilmente rilevante il fatto- squisitamente medico - che indivi-

    duata una patologia la terapia adot-tata sia tanto pi precisa quanto piessa sia eziologica, quanto pi, cio,essa tenda ad agire sulla causa dellapatologia medesima. , questo, undato di fatto che contraddistingueteoreticamente la storia stessa dellamedicina occidentale.Ci che non si comprende bene nelcaso dei disturbi del comportamentoalimentare, ed in particolare della

    bulimia, il fatto che a fronte di ri-conoscimenti epidemiologici di ca-ratteristiche che si accordano in

    qualche modo con una culturalbound syndrome, i provvedimentiterapeutici non tengano sufficiente-mente conto di questa variabile, chediviene a conti fatti una delle varia-bili fondamentali.

    Il problema , probabilmente, chequella culturale viene considerata

    una variabile, decisamente meno ri-levante di altre - per esempio deimeccanismi serotoninergici del foodintake o del ruolo dei fattori mera-

    mente cognitivi. fuori discussioneche entrambi i fattori citati (selezio-

    ne del cibo, meccanismi neurome-diatoriali e fattori cognitivi) abbianouna loro rilevanza. Qui il problema, crediamo, della rilevanza, pi omeno evidente, di un fattore eziopa-

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    togenetico rispetto ad un altro.Dalla revisione della letteratura e

    dai dati disponibili, l'ipotesi che labulimia abbia tutte le connotazionidi una cultura! bound syndrome

    estremamente forte. Essa affonda lesue radici nella cultura occidentale,nella visione del mondo suggerita dauna societ consumistica, dove an-che il sesso e l'immagine della don-na insana e mercificata; essa trovale sue origini in un mondo domina-to, per dirla con Erich Fromm, assaipi dall'avere che dall'essere, dal-l'apparire pi che dal concretizzarsicome persona. ovvio che di questo

    meccanismo le pazienti anoressichee bulimiche sono vittime inconsape-voli. Ma altrettanto ovvio che una

    strategia terapeutica non pu nontenere conto di questo fattore. Si hal'impressione, invece, che una ec-cessiva attenzione verso gli aspettineurochimici o psicoterapici na-sconda in fondo la rimozione stessa

    del problema, la determinazionepervicace ad eliminare l'idea di

    questa malattia, che al contempofonte del nostro disagio sociale. Di-sagio nei confronti di un disturboche, con le sue caratteristiche, con ilsuo modo di porsi come critica di-sperata al consumismo, ad una so-ciet dell'apparenza e della forma (un caso di coincidenza linguisticache la bulimia sia proprio patologiadella forma?), pone in crisi le fon-damenta stesse della cultura occi-

    dentale contemporanea. Ed difronte a questo atto d'accusa che lamedicina occidentale moderna ponein atto le proprie difese.Di norma un disturbo psichiatricoculturale pu essere affrontato inalmeno tre modi diversi. Il primo:evitare di pensare che sia un distur-bo culturale, ed agire come se co-munque non lo fosse, utilizzandometodi e modelli esclusivi della psi-

    -

    C I B U S

    chiatria occidentale moderna. Il se-condo: considerarlo un disturbo che

    abbia qualche connotazione cultu-rale ma, nonostante questo, conti-nuare a ritenerlo un fatto nosografi-

    co per il quale comunque applicarenorme e metodi codificati dalla me-

    dicina pi ortodossa. Il terzo: consi-derarlo e trattarlo come un disturbo

    culturale e quindi applicare per lasua cura metodi etnopsichiatrici.L'uso di tali strategie deve tenerconto di alcune peculiarit 'cultura-li' dei DCA, per esempio il fatto chei tassi di incidenza e prevalenza ditali disturbi sia diverso tra sotto-

    gruppi differenziati all'interno dellostesso sistema culturale.

    Da un punto di vista teorico apparein proposito ben giustificata l'inter-pretazione che di questo fenomenodanno Bartocci e Paoletti (38) checonsiderano la possibilit della pre-senza in popolazioni specifiche diatteggiamenti psichici che rappre-sentino, dal punto di vista psicodi-namico, una sorta di 'immunit psi-

    cologica' che si oppongono allepressioni socioculturali all'originedei DCA, cos come - da una pro-spettiva genetica- la presenza di unaradicata organizzazione mentale chereputi il cibo, per motivi storici, tal-mente rilevante da non potersi con-cepire la negazione del cibo stesso.Sul piano clinico, se si vuole adotta-re una strategia etnopsichiatrica, bi-sogna tenere conto di alcuni altri

    fondamentali fattori.1. Il cibo, le sue modalit di assun-zione, il suo significato rituale ed et-nico variano da popolazione a po-polazione, dove si intende per popo-lazione un gruppo umano sufficien-temente strutturato da avere una

    propria storia, ed una propria seriedi consuetudini culturali. Questoimplica allora l'obbligo per il tera-peuta, per ogni paziente con distur-

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    bi del comportamento alimentare interapia, di considerare con grandeattenzione a quale gruppo origina-rio appartiene, indipendentementedal contesto di inserimento. Questo

    proprio perch, come evidenziatoancora da Bartocci e Paoletti (38),alcuni gruppi culturali possono ave-re proprie potenzialit 'difensive'importanti nei confronti dei DCAanche se inseriti in culture ad alto

    rischio per gli stessi. possibile ipo-tizzare al riguardo che ogni gruppoumano abbia le proprie difese 'cultu-rali' contro la patologia psichiatrica,e compito di ogni terapia non pu

    che essere che quello di attivarle.2. Un momento fondamentale di

    una terapia etnica dei DCAdovreb-be essere costituito dalla ristruttura-

    zione affettiva del rapporto col cibo,a partire dal tentativo del terapeutadi stabilire non tanto un rapporto dimaternage col paziente, bens un as-setto relazionale che contrasti l'as-

    setto relazionale intrafamiliare tipi-co del paziente con DCA (padre de-

    bole, madre molto forte), utilizzan-do i modelli della cultura originariadel paziente.3. La finalit di un approccio tera-peutico etnopsichiatrico dovrebbe co-munque essere la modificazione delrapporto del paziente con il suo stessoS. Studi di grande suggestione sug-geriscono che la persona con DCA,cos come Falcolista o il tossicodipen-dente, abbia la tendenza a procurarsi,

    attraverso tale comportamento ano-malo, stati alterati di coscienza che inqualche modo sostituiscano il rappor-to con la realt 'vera', in favore diuna realt 'altra' (44,45).Questa 'fuga' motivata dal bisognodi sfuggire all'angoscia esistenzialeche nasce dal conflitto tra un ideale

    di S grandioso che, al confrontocon la realt, appare drammatica-mente inadeguato. Come scrivono

    DISTURBI DELL'ALIMENTAZIONE ED ETNOPSICHIATRIA

    Salvemini et al. (45): "La ricerca distati di coscienza non ordinari rap-presenterebbe una sorta di auto me-dicazione, un rimedio contro l'ango-scia insopportabile che attanaglia

    questi pazienti quando le oscillazio-ni del sistema cognitivo e gli inputprovenienti dall'esterno li portano aricorrere al confronto con la pro-pria immagine ideale che per vienepercepita come inarrivabile e quindinon utilizzabile".

    Ma la costruzione di una immaginedel proprio S grandiosa e rigida ipotizzabile che sia connessa a im-portanti inputculturali (per esempio

    specifiche modalit di espressionedelle emozioni nel gruppo familiare,o la relazione culturalmente mediata

    tra livello di prestazioni concrete ericonoscimento affettivo (44) o tuttequelle condizioni che caratterizzanoun quadro di "violenza culturale"(38). Ogni etnoterapia dei DCA nondovrebbe allora prescindere dalporre in atto una destrutturazionedell'ideologia sociale dominante e

    patogena - e non solo nel campo ali-mentare, nel quale si esprime sem-plicemente il sintomo di un disagioben pi profondo. Una simile tera-pia, che ci sentiamo in questa sedesoltanto di ipotizzare, dovrebbe av-venire nel contesto di un 'quadro' diriferimento che possa attivare ancherisorse terapeutiche trasversali etradizionali, come nel modello del'cadre' di Tobie Nathan (46), appli-

    cabile in molteplici contesti cultura-li (47).Dicevamo pi sopra dei tre modellisecondo cui affrontare un disturbo

    etnopsichiatrico.La psichiatria sembra sinora essersiorientata nei confronti della bulimia

    tra il primo e il secondo modello. Irisultati appaiono deludenti. pre-sumibile che solo il passaggio al terzomodello - sia in termini di clinica e

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    IANNUZZO E COLI,.

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