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PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO
LE TAPPE DELLO SVILUPPO EVOLUTIVO
CAP I
Dal determinismo alla probabilità
I modelli
La psicologia è stata a lungo dominata da modelli di spiegazione di tipo deterministico ed
unicausale. Essi, per quanto messi in discussione ormai da tempo a livello teorico, sono entrati
talmente nel nostro quotidiano modo di pensare e di spiegare il comportamento, da
continuare ad essere, più o meno consapevolmente, utilizzati.
I modelli deterministici sembrano infatti offrire una risposta certa ed esauriente a domande di
grande rilevanza, non solo teorica, ma anche pratica: perche una persona si comporta in un
certo modo? Quale sarà lo sviluppo di un bambino a partire da certe esperienze? Che peso
hanno i primi anni di vita sullo sviluppo futuro?
La risposta dei modelli deterministici e unicausali, per quanto confortante e consolatoria, è
però del tutto illusoria ed infondata, a causa della sua estrema semplificazione. Essa è
incapace, nella sua predittività meccanica, di comprendere le vicissitudini del comportamento
umano ed ancora meno è capace di spiegare la sua evoluzione nel tempo. Per queste ragioni, i
modelli unicausali e deterministici sono non solo teoricamente errati, ma potenzialmente
dannosi. Essi, possono infatti dare luogo a giudizi e scelte assoluti, dominati da una logica
meccanicistica che non lascia spazio alla modificazione e al cambiamento. Notiamo, anzitutto,
che il determinismo e la unicausalità sono inscindibilmente connessi. Infatti, il determinismo
ritiene di poter spiegare in modo certo e prevedibile il comportamento umano, e nel far ciò è
costretto a ricorrere ad una o pochissime cause, che diventano la sola spiegazione dell’agire
dell’uomo. I modelli deterministici sono perciò necessariamente unicausali, mentre i modelli
multicausali sono, altrettanto necessariamente, probabilistici.
La critica ai modelli deterministici è venuta, fin dagli inizi del nostro secolo, dalle scienze
fisiche.
Da un lato la psicologia è una scienza “giovane”, ammessa tardi nel novero delle discipline
scientifiche. Questa maggiore vulnerabilità ha fatto si che molto psicologi si aggrappassero ai
modelli deterministici delle scienze forti, senza accorgersi che essi, venivano sottoposti a
critica serrata ed erano via via abbandonati. D’altro lato, la stessa immensità del compito che si
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presentava agli psicologi- comprendere e spiegare il comportamento umano- ha condotto
molti studiosi a limitare l’analisi ad aspetti molto circoscritti, dimenticando la complessità del
quadro generale. Si è così preferito isolare alcuni nessi causali ritenuti certi e prevedibili. Le
critiche delle scienze fisiche al determinismo sono riconducibili alla considerazione che,
quando vi sono numerose variabili in gioco e quando queste sono in reciproca interazione
lungo il tempo, non è possibile predire in modo sicuro che cosa accadrà dopo un certo numero
di interazioni. Il numero di modificazioni reciproche è infatti talmente elevato da rendere il
problema praticamente intrattabile e da non consentire predizioni certe. È quanto avviene nei
sistemi complessi, all’interno dei quali non è possibile fare previsioni di tipo deterministico, se
non per le prime due o tre influenze; dopo si possono soltanto fare delle previsioni
probabilistiche, tanto migliori quando più solido è il modello teorico di base e quanto maggiori
sono le informazioni disponibili.
Ovviamente, la numerosità e la complessità delle variabili che sono coinvolte nel
comportamento umano, fin dal giorno del concepimento, sono infinitamente superiori a quelle
di qualunque fenomeno di tipo fisico. Agiscono infatti sia variabili di tipo biologico che variabili
di tipo ambientali. La stessa struttura biologica dell’uomo, a sua volta, è il prodotto di miriadi
di influenze sia di tipo genetico che di tipo ambientale. Il comportamento umano è dunque il
risultato di un’incalcolabile reciproca influenza lungo il tempo, vale a dire dal concepimento
alla morte, di variabili diverse, riconducibili sia al patrimonio innato ed alla struttura biologica,
sia alle influenze ambientali ed all’apprendimento. Se la fisica ha buone ragioni per rifiutare il
determinismo in nome della pluralità delle variabili, la psicologia ne ha infinitamente di più,
anche soltanto invocando il numero delle influenze biologiche ed ambientali e le loro
reciproche interazioni nel tempo.
Eppure, la pluralità delle influenze all’interno di un sistema complesso non è l’unica ragione
per cui non è possibile un approccio deterministico in psicologia. Esiste un’altra ragione,
ancora più decisiva e convincente, che deriva dalla specificità dell’organizzazione cognitiva
dell’uomo. L’uomo possiede infatti una mente attiva, che rielabora le informazioni, capace,
attraverso il pensiero, di svincolarsi dalle contingenze biologiche ed ambientali. La possibilità,
specificamente umana, di costruire una rappresentazione cognitiva della realtà e di se stesso,
sulla quale poi riflettere e ragionare, permette all’uomo di non essere determinato, nelle sue
azioni, dalle influenze biologiche ed ambientali.
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Continuità e discontinuità lungo lo sviluppo
La psicologia ha dunque ottime ragioni per rifiutare il determinismo, e non è un caso che siano
stati proprio gli psicologi dello sviluppo i primi a metterlo in discussione. Chi studia l’evoluzione
del bambino nel tempo - dalla nascita all’adolescenza ed ancor più all’età adulta - sa bene
quanto le rigide predizioni possano essere sconfessate, e quanto lo sviluppo di un bambino
possa avvenire in modo del tutto imprevedibile, smentendo le previsioni, ottimistiche oppure
pessimistiche, che erano state fatte a partire da certe condizioni. Perché ciò avvenga è spesso
oscuro. Un aspetto che i modelli deterministici avevano profondamente trascurato, è
dell’importanza del presente. Basti pensare alla convinzione, purtroppo ancora diffusa, che
entro il terzo anno di vita si sia già deciso tutto per quanto riguarda il carattere del bambino ed
il suo modo di relazionarsi agli altri adolescente e da adulto. Si stabilisce così un nesso causale
di rigida continuità tra i primi anni di vita e l’età adulta che salta completamente tutte le
esperienze intermedie. Ne deriva una svalutazione e un’indifferenza nei confronti del
presente, ossia delle esperienze attuali che il bambino sta facendo, le quali interagiscono
invece con il passato e possono contribuire a modificarne l’orientamento in modo decisivo.
Non esiste una continuità necessaria tra passato e presente, così come tra passato e futuro, né
per lo sviluppo cognitivo, né per quello affettivo o sociale. Infatti le esperienze del passato
interagiscono con quelle presenti e queste ultime possono contribuire in modo decisivo a
modificare gli orientamenti del bambino, ed a provocare perciò una diversa evoluzione, sia in
senso positivo che negativo. Tale sensibilità al cambiamento è particolarmente forte in alcuni
momenti critici, alcuni dei quali, come l’adolescenza, sono maggiormente comuni e prevedibili,
mentre altri sono del tutto personali e legati alla storia individuali di ogni bambino e do ogni
adulto. In una prospettiva è una sfida per gli psicologi e per gli educatori. Essa li chiama ad un
atteggiamento attivo, che non considera ineluttabile l’evoluzione negativa dello sviluppo del
bambino a partire dalle esperienze del passato, ma si interroga su quali possano essere gli
interventi da attuare per far sì che tale sviluppo segua una traiettoria positiva, sul piano
cognitivo, affettivo e sociale. Naturalmente, per fare degli interventi corretti, che abbiano
buona probabilità di riuscita, occorre condurre in primo luogo un’analisi approfondita della
condizione del bambino, della sua storia, delle sue capacità e potenzialità. È poi necessario
che, su questa base, vengano formulate delle ipotesi sulle possibili linee di sviluppo che il
bambino formulate delle ipotesi sulle possibili linee di sviluppo che il bambino potrebbe avere,
in modo da decidere come intervenire nel presente, a medio ed a lungo termine.
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La teoria dei sistemi evolutivi
Le sei proposizioni di base riguardo alle caratteristiche che vincolano e facilitano il
cambiamento e lo sviluppo vengono così formulate da Ford e Lerner:
1. Le funzioni biologiche, psicologiche e comportamentali sono continue, e avvengono sempre
nel tempo presente;
2. Un individuo agisce sempre come un’unità collocata entro un contesto;
3. Le condizioni esistenti ai confini dell’organismo definiscono le attuali possibilità evolutive;
4. Le condizioni esistenti ai confini dell’ambiente definiscono i percorsi evolutivi attualmente
disponibili;
5. Lo sviluppo inizia sempre da ciò che esiste attualmente;
6. I cambiamenti negli stati attuali sono sempre vincolati da una gerarchia di processi di
selezione.
Il contesto e l’azione individuale
Un altro aspetto che era stato fortemente trascurato dai modelli deterministici è il contesto di
vita dei bambini. Nel tentativo illusorio di definire in modo certo leggi universali e generali
dello sviluppo, valide per tutti i bambini, i modelli deterministici hanno ignorato che lo
sviluppo avviene, in realtà in contesti ambientali profondamente diversi. Ma l’aspetto che i
modelli deterministici hanno completamente ignorato, soprattutto a livello evolutivo, è il ruolo
attivo dell’individuo. I modelli deterministici hanno infatti ipotizzato, più o meno
esplicitamente, una completa passività individuale. Secondo tali modelli, le influenze
biologiche, così come quelle ambientali, determinerebbero il comportamento, ed in tale gioco
l’individuo non svolgerebbe alcun ruolo. L’individuo è presentato come un contenitore passivo,
attraversato da forze estranee che determinano il suo comportamento, sulle quali non esercita
influenza alcuna. Gli psicologi dello sviluppo hanno evidenziato come il bambino, anche molto
piccolo, sia in grado di intervenire sull’ambiente per modificarlo, per ricercare e addirittura per
creare situazioni diverse. A anche la ricerca in campo cognitivo ha dato un contributo decisivo,
evidenziando in particolare la capacità del pensiero di svincolarsi dalle contingenze ambientali
e biologiche. È inutile sottolineare come, nella prospettiva cognitiva, più del contesto in sé è
importante il significato che il soggetto, adulto o bambino, gli attribuisce. L’esempio relativo
alle influenze della condizione economica della famiglia sullo sviluppo del bambino, cruciale
non è tanto la condizione economica familiare, anche se, ovviamente, una condizione di
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povertà si tradurrà poi in minori risorse ed opportunità. Ancora più l’aspetto importante è il
modo in cui il bambino vive tale condizione ed il significato che le attribuisce, in relazione al
proprio presente e al proprio futuro. La concezione che stiamo proponendo è dunque di tipo
interazionista costruttivista, attenta all’interazione continua, lungo il tempo, tra l0individuo ed
il suo ambiente, nel presupposto che il soggetto sia attivo protagonista di tale processo
interattivo, soprattutto grazie alle proprie capacità cognitive, al di fuori delle quali la sia stessa
vita affettiva e sociale risulta incomprensibile. Le tesi che qualificano un modello interazionista
costruttivista possono, schematicamente, essere così riassunte:
a) Il comportamento è funzione di un processo interattivo continuo e multi direzionale tra
l’individuo e la situazione. La persona e la situazione corrispondono a due sistemi in
interazione e la comprensione delle loro relazioni è essenziale pe la piena comprensione delle
proprietà dell’uno e dell’altro;
b) L’individuo è protagonista attivo di tale processo interattivo e mai, anche da bambino, passivo
ricettore;
c) In tale interazione i fattori cognitivi svolgono un ruolo determinante. Ciò non implica che i
fattori emotivi siano irrilevanti, ma che la loro stessa comprensione nell’uomo non sia possibile
senza tenere conto dei processi cognitivi, che costruiscono il significato delle situazioni. Il
significato psicologico delle situazioni, non la realtà oggettiva delle situazioni in sé, è
determinante nel guidare il comportamento.
Due aspetti caratteristici del modello,, in primo luogo, lo sviluppo è considerato come il
risultato dell’azione individuale, volta a trovare la migliore realizzazione dei propri scopi e delle
proprie potenzialità, con gli strumenti cognitivi caratteristici di ogni età, in relazione alle
opportunità ed alle richieste del contesto. In secondo luogo, l’azione produce cambiamenti
non solo nell’individuo che la realizza, ma anche nel contesto di sviluppo. I cambiamenti del
contesto offrono a lavoro volta nuove opportunità per lo sviluppo, in una relazione circolare
incessante: dall’azione individuale al contesto e da quest’ultimo nuovamente all’azione
dell’individuo.
I percorsi differenziati di sviluppo
Il tema della continuità e della discontinuità è centrale nella psicologia dello sviluppo. In una
prospettiva tradizionale, esso è stato affrontato soprattutto attraverso i concetti di stadio e di
fase. Essi sono stati usati sia in senso stretto – ad esempio nel modello di Piaget relativo allo
sviluppo cognitivo e in quello di Freud relativo allo sviluppo psico-sessuale – sia in senso
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ampio, per definire periodi della vita contraddistinti da qualche particolare caratteristica. In
tutti i casi, una concezione stadiale comporta che vi sia un cambiamento qualitativo nel
passaggio da uno stadio all’altro, oppure da una fase all’altra, secondo una successione che
avviene in modo fisso ed il cui motore è dato sostanzialmente dallo sviluppo biologico. Lo
stadio è concepito come una struttura unitaria, che informa tutto il modo di ragionare e tutto il
modo di agire del bambino che si trova in quel periodo. In sostanza i concetti di stadio e di
fase- pur riferendosi a teorie diverse – piagetiana e psicoanalitica- postulano un’uniformità del
funzionamento psichico dei bambini che si trovano in una certa età, indipendentemente dalle
caratteristiche dell’ambiente culturale di appartenenza, dalla specificità delle esperienze di
ognuno. Questi concetti sono stati messi profondamente in discussione in una prospettiva
probabilistica ed interazionista, attenta alla complessità delle interazioni che si realizzano tra
patrimonio genetico ed esperienza. Già Vygotskij (1930-31) aveva chiarito, con il concetto di
“zona di sviluppo prossimale”, che lo sviluppo biologico definisce l’ambito delle possibilità
dello sviluppo, la cui concreta realizzazione è demandata alle influenze culturali ed alle
opportunità offerte dalla società. Così, pur essendo ogni bambino sano dotato della capacità di
apprendere a leggere e scrivere, tale possibilità non si realizza se non nelle culture che hanno
sviluppato, nella loro storia, la lingua scritta e che dispongono di una specifica organizzazione
scolastica rivolta a tale scopo. A partire da queste osservazioni, gli studi più recenti degli
psicologi hanno evidenziato la grande variabilità sia interindividuale ch intraindividuale nello
sviluppo infantile. La variabilità interindividuale fa riferimento alle differenze di sviluppo che ,
alla stessa età e per la stessa abilità, possono essere riscontrate tra bambini differenti e che
sono riconducibili al complesso intreccio dei fattori biologici e dei fattori ambientali lungo la
storia del bambino. Diversi sono infatti gli ambienti sociali, i climi familiari, i significati
attribuiti, così come sono diverse le condizioni biologiche di ogni bambino. Il risultato
del’interazione reciproca di fattori biologici e dei fattori ambientali a partire dal concepimento
fa sì che ogni bambino sviluppi, sia sul piano cognitivo che affettivo e sociale, un certo livello di
capacità, che non è mai uguale a quello degli altri. La variabilità intraindividuale fa invece
riferimento alla differenzazione delle varie capacità all’interno dello stesso individuo. La
concezione stadiale classica ipotizzava una sostanziale unitarietà di funzionamento psichico,
per ogni stadio o fase, sia riguardo alle capacità cognitive cha a quelle affettive o sociali. Così,
secondo Piaget (1964), il bambino che si trovava nella fase preoperatoria aveva un modo
peculiare di ragionare, che riguardava tutti i campi e tutti i domini cognitivi. Gli scostamenti da
tali modalità, sia in senso cognitivo che affettivo o sociale, configuravano delle regressioni,
oppure delle fissazioni, ed erano considerati delle anomalie nello sviluppo. Riconoscere la
variabilità intraindividuale ha portato invece ad accettare che i bambini possano presentare
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livelli diversi di sviluppo per quanto riguarda le varie capacità. Un bambino può essere molto
abile cognitivamente in un certo ambito, o dominio cognitivo, perche ha potuto avere in esso
un maggiore addestramento, mentre può presentare in altri domini una maggiore immaturità
o incapacità. Ancora , un bambino può mostrare un’ottima competenza sociale in certe
situazioni di relazione con i pari, mentre può mostrarsi del tutto incapace di affrontare altre.
Tali “decalage” orizzontali non hanno nulla di anomalo i di patologico, ma sono riconducibili
alla varietà delle esperienze del soggetto nei vari domini, nonché alle sue diversificate modalità
di fare fronte a compiti differenti. Il riconoscimento dell’estrema variabilità sia interindividuale
che intranindividuale nel corso dell’età evolutiva ha dunque condotto a superrare l’idea che lo
sviluppo costituisca una progressione sistematica attraverso una serie di stadi comuni a tutti i
bambini, i quali si succedono in un ordine fisso e precostituito. Non esiste un unico percorso
evolutivo uguale per tutti, e non esiste un criterio di maturità o normalità applicabile
rigidamente a tutti. Parlare di percorsi individualizzati e differenziati di sviluppo significa certo
abbandonare un concetto rassicurante, quale quello di stadio, che permetteva si incasellare e
valutare il comportamento del bambino. Psicologo ed educatore servono capire su quali fattori
favorenti, oppure potenzialmente dannosi, possano intervenire, nel presente, per modificare
la traiettoria di sviluppo con uin modello astratto di normalità, valido per tutti, si tratta
insomma di chiedersi quanto un certo percorso sia adattivo, oppure disattivo, per quello
specifico, ,i in quello specifico contesto.
I percorsi evolutivi probabilistici
La crescita psicologica è stata spesso descritta come una progressione sistematica attraverso
una serie di stadi comuni a tutti, che si succedono secondo un ordine precostituito: ciascuno di
essi avvicina il bambino alla maturità, rappresentata dal funzionamento adulto. Ci si è
soprattutto concentrati sui principi universali dello sviluppo, piuttosto che sulle differenze
individuali. La teoria freudiana, ad esempio, aveva evidenziato gli stadi psicosessuali: orale,
anale, fallico, di latenza e genitale. Piaget, invece, aveva sottolineato la progressione dei
meccanismo cognitivi, dallo stadio senso motorio, attraverso quello preoperatorio e concreto,
fino allo stadio delle operazioni formali (in cui diviene attivo il ragionamento logico),
dall’adolescenza in poi. Kohlberg estese l’approccio allo sviluppo morale. Ma le “grandi” teorie
non permettono di inquadrare in maniera adeguata lo sviluppo errale. Basandosi sugli stadi,
esse implicano una predittività meccanica, che non tiene conto del ritmo dinamico del
cambiamento, del suo estendersi nel tempo e del grado di variabilità individuale. Inoltre, tali
teorie partono dal presupposto ce esista un unico percorso evolutivo uguale per tutti e che ci
sia una punto finale coincidente con la maturità.
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CAP II
La raccolta dei dati iniziali
La centralità del bambino e della sua storia
Assumendo come dato indiscutibile la centralità del bambino e ritenendo di conseguenza che
tutto quanto avviene a scuola dovrebbe essere a lui riferito. L’insegnante deve compiere due
tipi di operazioni, orientate temporalmente in modo opposto. Il primo tipo è orientato verso il
passato e consiste nella raccolta di dati relativi all’evoluzione personale del bambino, alla sua
storia, agli apprendimenti e alle capacità di cui già dispone, alle teorie ingenue che si è
costruito. Lo scopo di queste operazioni consiste nel delineare il profilo cognitivo del bambino
stesso che, come richiama il significato della parola “profilo”, ha carattere individuale e riflette,
in accordo con la teoria delle intelligenze multiple, il diverso possesso delle competenze
intellettuali e delle relative abilità. Il secondo tipo di operazioni dovrebbe essere la naturale
conseguenza del primo: è la programmazione. Gli studi Vygotskij riguardanti l’apprendimento
prescolastico e scolastico, hanno ormai reso impossibile a ogni insegnante ignorare la storia,
soprattutto cognitiva, del bambino. Ma come devono essere raccolte le informazioni su questa
storia? Il primo elemento, sottolineato da molti psicologi, si riferisce al fatto che lo sviluppo del
bambino, e in particolare l’acquisizione di molti concetti, ripercorre, in forma ovviamente più
veloce, le tappe attraverso le quali gli esseri umani conseguirono gli stessi apprendimenti. Il
secondo elemento, ancora più significativo, è relativo alla “casualità” degli apprendimenti che
il bambino realizza nei primi anni di vita, casualità analoga a quella che consentì alla specie
umana di acquisire quelle competenze che costituirono la base del successivo sviluppo delle
civiltà.
Il bambino come sistema non lineare
Regolarità e casualità, quindi, ma non determinismo. Come la nozione di sistemi non lineari
consente di comprendere. Un sistema non lineare è contraddistinto dalla presenza di
biforcazioni, in presenza delle quali si verifica una scelta. I nodi costituiscono invece gli “eventi
critici”, i quali pongono l’individuo di fronte alla necessità di operare la scelta, che è sempre di
carattere binario: o si sceglie la possibilità che si presenta o non la si sceglie. Ciascuna scelta
comporta a propria volta una biforcazione, e così via. Le biforcazioni si caratterizzano per la
sensibilità: << piccole variazioni nei casi di un sistema conducono alla scelta preferenziale di un
ramo piuttosto che di un altro>>. Non è quindi possibile né prevedere con certezza il futuro,
pur conoscendo la situazione iniziale, né ricostruire in modo esaustivo la storia passata, perché
è impossibile prevedere o ricostruire nella sua totalità il gioco dei diversi fattori, influenzati
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fortemente dal caso. Questi concetti permettono quindi di chiarire i limiti dalle operazioni
richiamate poco sopra: nessuna diagnosi potrà mai essere ritenuta definitiva. Nessuna
programmazione potrà mai prevedere con assoluta certezza il percorso di apprendimento e di
sviluppo di un bambino. Riconoscere l’incidenza del caso nel comportamento umano in
genere, e in quello del bambino in particolare, significa imparare a ragionare in termini di
probabilità. Ma vuol dire anche rendersi conto che probabilità non è sinonimo di impossibilità
assoluta di predittività. La statistica ci ha insegnato, infatti, che con il concetto di probabilità gli
eventi si possono o non si possono verificare secondo un ventaglio di possibilità che va da zero
a cento: zero corrisponde all’impossibilità di qualsiasi previsione cento al determinismo, cioè
alla certezza. Ogni insegnante, se riflette in merito, si rende conto che l’efficacia della propria
azione si colloca in punti diversi di questa linea da 0 a 100 a seconda dell’incidenza di una serie
di elementi: il contesto sociale e culturale nel quale insegna; gli anni di esperienza; la
preparazione(specie di tipo psicologico; la padronanza di capacità e strumenti di osservazione.
Tutti questi elementi contribuiscono ad affinare le capacità intuitive dell’insegnante, le sole
che lo mettono davvero in grado, nel contesto concreto e quotidiano della classe, di affrontare
tutte quelle situazioni assolutamente imprevedibili che, proprio in quanto tali, richiedono
risposte efficaci, il più possibile immediate.
Il Profilo Iniziale
La delineazione del profilo iniziale del bambino costituisce, una delle operazioni
professionalizzanti più profonde. Essa significa infatti:
a) Superare il concetto del “capaci e meritevoli”, che misura pur sempre lo sviluppo sulla base
dei risultati ottenuti dai migliori. Nella società di oggi non interessano le capacità definite in
modo arbitrario, ma lo sviluppo del talento che ciascuno possiede, perché il talento di tutti è
necessario all’interesse generale.
b) Riconoscere che il bambino che fa il proprio ingresso a scuola è un individuo competente, non
una tabula rasa.
c) Assumere la scuola come ambiente all’interno del quale i bambini realizzano esperienze (di
apprendimento, di socializzazione, ecc.) che ne modificano le caratteristiche.
d) Pensare al bambino come ad un essere unico e irripetibile.
L’insegnate, cioè, deve diventare un “lettore” del bambino e regolare la propria azione sulla
base di tre necessità. <<Studiare, per capire, per assumere decisioni>>.
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La Significatività dei Dati
Si rende necessario lavorare su un aspetto finora non sufficientemente considerato: quello
della significatività o non significatività dei dati. Certamente, la selezione dei contenuti e
l’identificazione dei nodi concettuali “forti” di ciascuna disciplina costituiscono il necessario
presupposto per il suo insegnamento, ma a nostro avviso occorre prima identificare criteri
generali, indipendenti dal contenuto. Per ora ci sembra sufficiente evidenziare come il profilo
iniziale e la programmazione debbano essere costruiti identificando:
1) I dati più direttamente correlati all’apprendimento, e particolarmente: a) gli apprendimenti
primari (percezione, categorizzazione, linguaggio, capacità di risolvere i problemi, ecc.)
esistenti nel bambino fin dalle età più precoci, i quali <<generano e controllano le diverse
risposte comportamentali agli stimoli ambientali>>; b) gli apprendimenti secondari, legati a
contenuti specifici e resi possibili dai primi.
2) I dati relativi alla storia del bambino, e precisamente gli eventi critici che sono stati all’origine
di cambiamenti di direzione nel corso dello sviluppo.
La Preistoria degli Apprendimenti
Vygotskij sottolineava che “Ogni materia di insegnamento con la quale il bambino ha a che fare
nella scuola ha la sua preistoria”.
a) Sottolineare l0importanza della preistoria degli apprendimenti non vuol dire accertarne il
possesso da parte di tutti gli alunni: fortunatamente, la maggioranza degli alunni dispone di
tali apprendimenti.
b) Constatare l’inadeguato possesso di tali apprendimenti non deve tradursi in una semplice
legittimazione della situazione esistente: al contrario, deve indurre alla predisposizione di
attività e di esercizi che permettano al bambino di colmare le lacune.
Gli Eventi Critici
Da parte di alcuni insegnanti si mette talvolta in discussione l’importanza di acquisire la
conoscenza di eventi, specie se fortemente traumatici, avvenuti nel passato del bambino. La
scusa che viene addotta è che <<occorre dare al bambino la possibilità di ricominciare
daccapo>>. Hayden, insegnante americana di scuola speciale, descrive in un suo romanzo un
caso emblematico dei rischi che può comportare l’ignoranza di certi fatti del passato del
bambino:
<<[…] sai, abbiamo pensato che per Kevin era meglio ricominciare tutto da capi, in clinica. Non
la si può certo chiamare un’infanzia felice, la sua. Gli erano già capitate talmente tante cose
brutte che gli altri si erano già fatti un sacco di preconcetti su di lui. Insomma, non si era mai
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visto un ragazzo al quale fossero andate storte più cose che a lui. E nessun voleva più
occuparsene. Non c’era nessuna speranza. Così si è pensato di cancellare ogni cosa e farlo
ricominciare da capo. Solo perché dimenticasse il suo passato, prima di essere ricoverato. Il
fatto è, Marlys, che Kevin non l’ha mai dimenticato il suo passato>>.
CAP III
TEORIE DELL’APPRENDIMENTO
Dai dati iniziali alla programmazione: caos, probabilità, contingenza.
LA SCUOLA COME SISTEMA CAOTICO
Non c’è dubbio che la maggior parte degli insegnanti sottoscriverebbe senza indugi
l’affermazione secondo la quale una classe è un “sistema caotico”. A nostro avviso è la notizia
di “caos”, strettamente connessa a quella di “probabilità”, a prospettare nuove modalità di
interpretazione dei fenomeni pedagogici.
Gli aspetti che i diversi autori evidenziano come caratteri dei sistemi caotici sono i seguenti: a)
piccole cause possono avere grandi effetti; b) si tratta di sistemi nei quali il tempo che occorre
per tornare in uno stato in cui si siano già trovati in passato è immenso; c) il comportamento
appare casuale, ma in realtà la complessità e l’imprevedibilità nascono dal fatto che siamo
costretti ad ignorare un gran numero di libertà nascoste.
Tali elementi fanno sì che <<in un sistema caotico […] il comportamento [venga] pesantemente
influenzato dal più piccolo disturbo, cosicché non c’è speranza di poter fare previsioni se non a
brevissimo raggio>>. Sapere che esiste la dipendenza sensitiva dalle condizioni iniziali (o
“effetto farfalla1”) e che essa agisce non soltanto sui fenomeni meteorologici o fisici, ma
altresì su quelli umani, permette sia di comprendere questi ultimi sia di non abbandonarsi allo
sconforto.
Sarebbe tuttavia profondamente errato ritenere che il comportamento dei bambini sia del
tutto casuale e, soprattutto, che sia casuale anche il loro apprendimento, giungendo così alla
conclusione dell’intuibilità della programmazione.. Si tratta semmai di ragionare sui limiti della
1 L’espressione “effetto farfalla” fu coniata nel 1961 da un metereologo americano, Edward Lornz. Egli stava tentando
di prevedere il tempo attraverso l’uso del computer e quindi di un sistema matematico. Inserendo i dati riguardanti le condizioni iniziali e facendo partire il programma, si sarebbero dovute leggere le previsioni finali. Del tutto casualmente, egli constatò che era sufficiente cambiare in misura minima le cifre decimali dei dati iniziali per ottenere risultati finali completamente divergenti. I piccoli errori iniziali si gonfiavano cioè in breve tempo. Utilizzando una metafora, si poteva affermare che era sufficiente il battito d’ali di una farfalla in Brasile per creare un tornado che, nel giro di una settimana, avrebbe devastato il Texas. L’ “effetto farfalla” da quel momento stette ad indicare l’impossibilità di fare previsioni se non a brevissimo raggio, essendo impossibile conoscere tutte le influenze che gravano sul sistema considerato.
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diagnosi iniziale, sui limiti di programmazione e, in particolare, ancora una volta, di ragionare
sul tempo.
Che cos’è il tempo necessario?
Il concetto di “tempo necessario” fu elaborato da Carrol in riferimento alla considerazione che
il grado di apprendimento è una funzione del rapporto tra tempo impiegato ad apprendere e
tempo necessario ad apprendere. In particolare, il tema è concesso alle ricerche effettuate
dalla crono psicologia sui ritmi di apprendimento scolastico.
La crono psicologia, rifacendosi all’esistenza di ritmi biologici che regolano il funzionamento di
ogni individuo, ha in particolare sottolineato come ogni bambino possieda una dimensione e
un’organizzazione temporale che occorre rispettare. Non è pertanto possibile manipolare i
tempi di apprendimento e imporre ritmi che siano in contrasto con l’ “orologio personale” del
bambino. Il problema del tempo necessario e quello dei ritmi scolastici costituiscono un
aspetto scarsamente indagato dagli insegnanti, anche se tra i loro poteri c’è anche quello di
dirigere e scandire il tempo scolastico, attraverso l’organizzazione di esperienze nel tempo.
LE FASI DELL’APPRENDIMENTO
Pur essendo consapevoli che una rigida distinzione in fasi è artificiosa e non corrisponde al
modo in cui effettivamente il bambino apprende, indirizzare l’attenzione su ciascuna di queste
fasi è però utile nel momento in cui l’insegnante prepara il proprio lavoro e quindi esperimenta
mentalmente ciò che potrà verificarsi nella realtà.
Fase di acquisizione
La realizzazione di un nuovo apprendimento chiama in gioco una serie di condizioni e di
aspetti:
a) L’analisi delle conoscenze de delle abilità pregresse richieste dal nuovo apprendimento,
unitamente alla definizione di quali di queste conoscenze e abilità sono già in possesso degli
alunni. Non è sufficiente conoscere che cosa il bambino sa in generale: se si vuole che egli
proceda spostando gradualmente verso l’alto la propria zona di sviluppo potenziale occorre
precisare le capacità, le competenze, le informazioni su cui i nuovi apprendimenti si
costruiscono. Non bisogna infatti dimenticare che apprendimento vuol dire
<<accumulazione, perché le esperienze che si fanno, generalmente, non svaniscono nel nulla,
non vengono cancellate da quelle successive (non del tutto); ma si accumulano, si
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influenzano e si modificano a vicenda>>. Ciò diventa possibile solo se si evitano al bambino
due esperienze negative: la noia, che si verifica allorché gli si propone qualcosa che è già
padroneggiato, e l’ansia, come conseguenza di richieste eccessive.
b) L’analisi delle condizioni che favoriscono o rendono difficile l’esercizio dell’attenzione. Se è
vero che non è possibile costringere qualcuno a stare attento (in quanto la postura fisica
denota attenzione può corrispondere a una mente che vaga in tutt’altro luogo), è anche vero
che nell’ambito della scuola elementare occorre educare a prestare attenzione, in quanto
senza di essa non può esserci apprendimento. La collocazione dei diversi soggetti nell’aula
(atta a favorire il contatto oculare tra insegnante e alunni), i tempi di durata delle attività,
l’uso di immagini, l’uso di oggetti concreti, la formulazione precisa delle consegne, sono
alcuni dei fattori favorenti l’attenzione che devono essere pensati in anticipo.
c) Lo stile di insegnamento utilizzato, comprende in sé le diverse metodologie, che devono
essere molteplici per venire incontro agli stili cognitivi dei diversi bambini. In particolare,
l’insegnate deve riflettete sul peso che ha nel proprio stile la componente verbale. Anche se
essa rimane lo strumento principale per veicolare informazioni, deve essere accompagnata,
in misura tanto maggiore quanto più i bambini sono piccoli, da strumenti fondati sulla
visualizzazione e sull’attività. Lo stile di insegnamento non può pertanto essere rigido.
d) Le modalità di utilizzazione degli strumenti e, in particolare, di quelli che il bambino deve
imparare a padroneggiare e che hanno lo scopo di ampliare il raggio della sua attività. Ci sono
strumenti riconosciuti facilmente come tali: i libri, le immagini, il dizionario, l’enciclopedia. Ce
ne sono altri non considerati strumenti, ma che invece possiedono la caratteristica di
allargare il sistema delle attività del bambino e quindi il campo dei comportamenti: in primo
luogo il linguaggio, orale e scritto.
e) La sequenzialità dei contenuti presente, che non deve essere di tipo estrinseco ma deve
rispettare il rapporto tra ciò che il bambino sa già e ciò che di nuovo deve sapere. L’incidenza
degli apprendimenti precedenti su quelli successivi, che sta all’origine della nozione di
“apprendimento significativo”, deve essere considerata però non soltanto in senso positivo,
come elemento facilitante, ma altresì nei possibili aspetti negativi, come si verifica nel caso di
automatismi acquisiti che diventa difficile abbandonare.
f) L’organizzazione del contesto sociale. Assumendo come punto di partenza l’affermazione di
Vygotskji, secondo cui <<il bambino si appropria delle forme sociali del comportamento e le
trasferisce su se stesso […] trasformando le relazioni sociali in funzione psichiche>>, occorre
riflettere su quali apprendimenti vengono conseguiti più facilmente nel contesto della classe
e quali invece all’interno di piccoli gruppi. Le ricerche dei post-vygotskiani hanno messo in
evidenza come i compagni svolgano una preziosa azione di regolazione e controllo.
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Anche per quanto riguarda il contesto sociale occorre rammentarsi che interviene il principio
della zona di sviluppo potenziale: i contributi dei compagni devono cioè collocarsi all’interno di
essa per poter essere efficaci. Questo conduce a considerare la negatività, ai fini
dell’apprendimento, sia delle classi o dei gruppi omogenei, costituiti secondo il livello delle
prestazioni, sia delle classi o dei gruppi in cui le differenze di capacità e competenze tra gli
alunni sono troppo ampie. In entrambi i casi risulta infatti estremamente difficile che gli alunni
mettano in atto quei processi di osservazione e di imitazione che la biologia e la psicologia
hanno considerato come modalità primarie di apprendimento.
g) La cura per la dimensione estetica. Fabbri sottolinea che <<quando impariamo, quando
conosciamo, esiste sempre in noi un progetto estetico, anche se inconscio, che ci fa costruire
e mettere in relazione quanto stiamo facendo secondo dei modelli che possiedono un loro
fascino, che sembrano rispondere a certi giudizi di gusto>>. Se questo elemento è
importante per un adulto, lo è in misura ancora maggiore per un bambino: egli non è
disponibile a occuparsi di ciò che non è bello, che non è piacevole a vedersi. L’incidenza della
dimensione estetica nell’apprendimento dei bambini è collegata alla percezione sin estetica,
la quale, come segnala Werner, costituisce uno degli aspetti dell’indifferenziazione che
caratterizza le prime fasi dello sviluppo infantile. Quanto più il bambino è piccolo, tanto più
sensazioni visive, uditive, tattili, gustative saranno fuse insieme. Ciò significa, allora,
attenzione per i colori, per le forme (ricordando che le forme tondeggianti sono correlate a
una disposizione positiva), per le dimensioni, per i caratteri, per gli spazi sul foglio: quanto di
più lontano, tra l’altro, possa esserci da una fotocopia in bianco e nero, troppo spesso
utilizzata nel lavoro didattico.
Fase di elaborazione
Costituisce la fase che più di ogni altra necessita di una programmazione accurata. Se è vero
infatti che essa richiama processi che si svolgono all’interno della mente del bambino, e che
sono quindi difficilmente osservabili, è altrettanto vero che essi si verificano solo se sussistono
una serie di condizioni esterne, su cui l’insegnante può avere la possibilità di intervenire.
Sull’elaborazione degli apprendimenti l’insegnante può intervenire in forma più o meno
indiretta e con modalità diverse, ma in modo accuratamente programmato, attraverso:
a) L’assegnazione di esercizi. L’esercizio non ha soltanto lo scopo di obbligare il bambino alla
ripetizione e quindi fissare l’apprendimento. Soprattutto, non deve essere finalizzato
soltanto alla verifica del conseguimento dell’apprendimento. Se accuratamente graduato nel
livello di difficoltà, e se davvero rappresentativo del percorso di apprendimento realizzato,
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esso richiede di ripensare a ciò che è stato appreso, di creare relazioni nuove tra le diverse
nozioni, di trasferire l’apprendimento in un contesto diverso.
L’esercizio, demonizzato dalla didattica fondata sull’apprendimento per scoperta, ha subito
una rivalutazione grazie alla psicologia cognitiva: <<C’è una serie di sacrosanti esercizi che un
tempo venivano fatti fare ai bambini e che oggi erroneamente non vengono più proposti. Far
fare certi esercizi, rendendoli ovviamente il più sopportabili possibili, è una delle poche
garanzie di democraticità della nostra scuola, perché è la condizione che permette
effettivamente, alla lunga, di porre tutti i bambini sullo stesso piano.
b) L’assegnazione di compiti a casa. La finalità del compito sta proprio nel costringere il
bambino a ritornare su quanto ha imparato a scuola. Essa può però essere raggiunta solo se il
compito può essere svolto autonomamente dal bambino, senza l’intervento del genitore. I
lavori a casa dovrebbero essere individuati già nel momento in cui si programma il lavoro.
c) L’organizzazione della giornata scolastica, sia nella direzione della successione delle attività,
sia in quella dell’alternanza di pause e momenti di attività. Gli studi sulla fatica scolastica
hanno evidenziato alcuni aspetti che risultano in correlazione con le modalità di
funzionamento del cervello. In particolare hanno sottolineato l’esigenza che: 1) nel corso
della giornata scolastica vengano alternate attività il più possibile diverse tra loro (ad
esempio attività linguistiche, attività matematiche e attività artistiche); 2) si tenga conto non
solo dell’attività in sé, ma anche del tipo di impegno intellettivo richiesto al bambino, che è
correlato sia all’età, sia al livello di padronanza raggiunto; 3) si rispettino i limiti
dell’attenzione e quindi si prevedano adeguati momenti di pausa, nei quali il bambino non sia
impegnato in nuovi apprendimenti ma possa rielaborare quelli realizzati in precedenza.
d) L’utilizzo della ridondanza, affinché più facilmente si costruiscano rapporti tra ciò che è già
noto e ciò che si presenta come nuovo, favorendo così il ritorno a quanto è stato appreso.
Dal punto di vista didattico la ridondanza è riferita a due modalità diverse di intervento: 1)
l’utilizzazione di forme di presentazione diverse per lo stesso contenuto; 2) il riferimento a
contesti di esperienza molteplici e differenziati, ma tutti mirati a conseguire lo stesso
obiettivo.
e) L’espressione di quanto appreso in forma verbale, utilizzando soprattutto il linguaggio scritto,
che obbliga in misura maggiore del linguaggio orale ad esplicitare i nessi che sussistono tra i
fenomeni e le informazioni.
Fase di conservazione
Chiama in gioco i diversi tipi di memoria e le strategie di memorizzazione. Nonostante gli
insegnanti siano consapevoli del fatto che la memoria non sia un sistema unico e distinguano
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quanto meno tra memoria che utilizza criteri logici, memoria visiva e memoria uditiva, altre
specificazioni sono pressoché ignorate. Preoccuparsi della memorizzazione dovrebbe voler dire
in primo luogo orientare l’azione didattica secondo tre linee direttrici che partono dalla
considerazione delle caratteristiche di funzionamento della memoria.
a) La memoria non è un magazzino, anche se a livello scientifico si parla di “stoccaggio” delle
informazioni. Il motivo è semplice: la memoria funziona secondo un criterio che è
esattamente l’opposto di quello di un magazzino, dove l’aumentare della merce riduce lo
spazio vuoto disponibile. Al contrario, nella memoria l’aumento delle informazioni comporta
un aumento della possibilità di ricordare altre informazioni. La memorizzazione non è quindi
soltanto un problema di quantità e non ci si deve preoccupare unicamente del numero di
informazioni. Ciò non significa però ignorare l’importanza anche numerica delle conoscenze
ritenute in memoria, poiché ad una loro maggiore numerosità corrisponde una rete più
complessa di connessioni.
b) Non esiste un nuovo apprendimento che sia completamente nuovo: ogni apprendimento si
fonda su conoscenze ed esperienze preesistenti. Le conoscenze e le esperienze precedenti
influenzano infatti il nuovo apprendimento, sia nel caso in cui l’insegnante le prenda in
considerazione esplicitamente, sia nel caso in cui non vi dedichi alcuna attenzione. Ma
ignorare il patrimonio conoscitivo di cui il bambino è in possesso significa più facilmente
constatare difficoltà o fallimenti. Da questa consapevolezza, discendono due esigenze: 1)
compiere un esame preventivo e il più possibile accurato delle conoscenze, delle abilità, delle
capacità che il nuovo apprendimento dà per presupposte e, di conseguenza, verificarne
l’esistenza nei bambini; 2) dedicare tempo ad attività di richiamo che consentano, per
l’appunto, di riportare alla luce ciò che il bambino sa già.
c) Capacità di memorizzazione e linguaggio sono strettamente interrelati. Per comprendere
l’importanza di questa relazione è sufficiente considerare che, nel momento in cui il bambino
acquisisce il linguaggio, diventa anche capace di ricordo consapevole. Dal punto di vista
didattico la relazione dovrebbe ovviamente essere intesa in senso biunivoco: aver acquisito
efficaci strategie di memorizzazione consente di disporre di un linguaggio più ricco e
strutturalmente più complesso; all’inverso, la padronanza del linguaggio consente una
memorizzazione migliore.
Non bisogna però dimenticare che è la padronanza dei concetti che fa veramente la differenza,
perché memoria e linguaggio non possono esercitarsi sul vuoto.
Su questi presupposti si dovrebbe poi inserire l’attenzione per le forme specifiche di memoria
che vengono attivate in rapporto ai diversi contenuti. La memorizzazione non consiste nel
depositare in un luogo del cervello gli apprendimenti realizzati. La memorizzazione interviene
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in ogni momento del processo di apprendimento, che quindi deve essere pensato e
organizzato a priori in modo da favorire l’utilizzo della memoria. Ciò significa:
1) Tenere presenti i limiti della memoria di lavoro (o memoria a breve termine). La sua durata,
molto limitata, dovrebbe indurre l’insegnante ad organizzare in modo adeguato l’alternanza
degli stimoli e delle pause, le quali in questo caso sono finalizzate all’elaborazione, ma alla
possibilità di mettere in rapporto gli elementi nuovi con le conoscenze già possedute;
2) Considerare l’importanza della memoria lessicale, chiamata in gioco ogniqualvolta il bambino
debba apprendere una parola nuova. Le parole nuove vengono apprese più facilmente se
vengono considerate come “oggetti” e quindi analizzate e rappresentate anche visivamente,
in riferimento alla forma, al suono, alle sensazioni che producono. L’attenzione per la
memoria lessicale è quindi importante non soltanto nell’apprendimento di una lingua
straniera, ma anche nell’apprendimento delle discipline. Essa infatti è correlata
all’acquisizione del linguaggio di ogni contesto disciplinare, che deve essere non soltanto
corretto ma anche specifico. L’incidenza che la memoria lessicale possiede su tutti gli
apprendimenti induce infine anche a comprendere che la capacità del bambino di ripetere
quanto ha appreso, utilizzando le stesse parole, costituisce una fase indispensabile per
appropriarsi dei contenuti, quindi segnala il primo livello di padronanza.
3) Dedicare attenzione alla memoria procedurale, la quale non interviene soltanto per gli
apprendimenti percettivi e motori, ma è direttamente chiamata in causa anche nei processi
che portano alla padronanza della serie di azioni implicate nella realizzazione di un
apprendimento. Le procedure di lettura necessarie per poter apprendere da un testo scritto,
quelle messe in atto per risolvere i problemi matematici, quelle che permettono di redigere
un testo scritto coerente, devono poter essere padroneggiate a livello di automatismo, ma
devono , in precedenza, essere oggetto di insegnamento specifico.
4) Fare ricorso, il più possibile, alle memorie sensoriali, le quali, ad eccezione della memoria
visiva e di quella uditiva, presentano una durata limitata, ma consentono di utilizzare
molteplici canali di apprendimento e, soprattutto, permettono di effettuare l’analisi di
quanto viene presentato da molteplici punti di vista.
5) Curare in modo particolare l’organizzazione del contenuto da apprendere, al fine di rendere
possibile al bambino l’utilizzazione della memoria semantica, cioè di quel sistema di memoria
che fa ricorso alle connessioni, alle inferenze, ai ragionamenti, alla categorizzazione secondo
criteri logici. La memoria semantica è quella che richiama più fortemente il patrimonio di
conoscenze già esistente nel bambino, in quanto, fondandosi sui significati, presuppone che il
soggetto metta in rapporto quello che sa già con quello che è nuovo.
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6) Preoccuparsi di insegnare al bambino anche le strategie mentali specifiche necessarie per
memorizzare quantità via via più ampie di informazioni. Ci pare opportuno richiamare
l’attenzione su quella che consideriamo la strategia più importante: la selezione delle
informazioni, cioè la capacità di distinguere ciò che è essenziale da ciò che non lo è.
Fase di recupero
Identifica il problema delle verifiche dell’apprendimento realizzato, le quali consistono, in
realtà, nella verifica delle capacità di recupero in memoria ciò che è stato imparato.
Sarebbe opportuno insegnare ai bambini che il recupero intenzionale di quanto si è imparato
richiede che prima siano stati costruiti e lasciati “indizi” (quasi come i sassolini di Pollicino) che
consentano di rifare il percorso. Questo vuol dire, ad esempio:
a) Utilizzare una specie di “segnaletica” che corra a lato dei testi e che consenta di evidenziare
le parole e i concetti chiave;
b) Insegnare a costruire gli schemi e le mappe dei contenuti, i quali attraverso la disposizione
sul foglio delle diverse informazioni, permettono anche di esplicitare le relazioni esistenti tra
i concetti e di stabilire tra essi delle gerarchie;
c) Avviare alla tecnica del prendere appunti che, nel caso dei bambini di scuola elementare,
significa in primo luogo curare la velocità della scrittura e insegnare a selezionare le
informazioni;
d) Insegnare che non si devono memorizzare tutte le parole ma per l’appunto, soltanto gli
indizi.
A fondamento della capacità di recupero sta quindi la capacità di effettuare la sintesi dei
contenuti e di mettere in atto procedure di espansione a partire da quanto è stato
memorizzato. Diventa chiaro ancora una volta come il bambino di scuola elementare non
possa assolutamente essere autonomo in questi processi ma necessiti della guida
dell’insegnante.
CAP IV
Possibili interventi nelle situazioni educative complesse
Gestire l’opposizione e il conflitto nelle situazioni educative
I bambini che creano più difficoltà agli insegnanti (o agli operatori per l’infanzia in generale)
per la gestione della classe (o degli asili e ludoteche in generale) sono solitamente quelli
che non rispettano le regole, non danno retta agli adulti e pretendono di fare come pare a loro.
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E in più si oppongono e reagiscono malamente ai tentativi di mettere limiti al loro
comportamento, disturbano il lavoro della classe, provocano i compagni e creano situazioni di
scontro fisico e a volte di rischio per l'incolumità loro, dei compagni e a volte anche degli
adulti. Questo tipo di problemi è concentrato di solito nelle scuole elementari (con i piccoli in
generale), meno nelle scuole medie e nelle superiori (dove la problematica assume diversi
connotati).
Si tratta essenzialmente di due tipi di situazioni.
In un caso sono bambini con handicap psichico e relazionale, riconosciuto in base alla L 104/92
e seguiti di solito con insegnante di sostegno educatore scolastico e altri interventi. Si tratta
per lo più di bambini diagnosticati come autistici, con ritardo mentale più o meno complicato
da disturbi neurologici o da problematiche psicosociali (adozione, affidamento, ecc). In questo
caso il disturbo comportamentale fa parte di un quadro clinico di difficoltà globali, e
solitamente sono bambini 'certificati' per la Legge 104, con insegnanti e educatori di sostegno.
Nell'altro caso si tratta di bambini con normale intelligenza e sviluppo ma con comportamento
refrattario a regole e limiti alla loro volontà, incapaci o indisposti a frenare i loro impulsi. Vi si
può aggiungere, ma non sempre una difficoltà di apprendimento che complica ulteriormente
le cose e che può variamente essere interpretata come causa o effetto delle difficoltà
comportamentali. Questo tipo di bambini all'inizio non sono 'certificati', ma molto spesso dopo
alcuni anni di guerre scolastiche vengono anch'essi classificati fra gli 'handicap' in base alla L
104, per avere a scuola adulti in più di supporto, cosa resa possibile solo dalla famigerata
'certificazione'. Anche in questo caso a volte, ma non sempre, le cose sono complicate da
aspetti psicosociali, marginalità, immigrazione, adozione, disagi familiari.
Le situazioni descritte sopra, dell'uno e dell'altro caso, sono fra le più difficili da gestire, per la
scuola e per tutti gli operatori del settore, spesso indipendentemente dal fatto che ci sia o
meno la certificazione e le persone in più di sostegno. Una complicazione è che si creano
spesso scontri o vere e proprie guerre fra scuole, famiglie, a volte anche i servizi ASL e si rischia
talora uno spiacevole scaricabarile con accuse e messe in colpa reciproche che non fa che
complicare le cose.
Come evitare di complicare ulteriormente la situazione e come trovare le modalità più utile e
funzionali per affrontare la situazione col minor danno per tutti e poi con dei risultati positivi,
memori della regola fondamentale in medicina: primo non nuocere ?
Resta beninteso che le situazioni di entrambi i tipi visti sopra necessitano di interventi specifici
per approfondire la conoscenza dei problemi e la loro risoluzione, ove possibile. Ciò richiede
l'intervento di servizi di npi/psicologia dell'età evolutiva per interventi extrascolastici,
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psicoterapici ed educativi, volti a favorire lo sviluppo del bambino, la sua maturazione e il
superamento di tali comportamenti.
Nel frattempo e contemporaneamente - nell'attesa (a volte un po' miracolistica) che gli
interventi esterni diano i loro frutti - la scuola si trova a dover affrontare i comportamenti
negativi cercando di salvare capra (il bambino in questione) e cavoli (il resto della classe),
evitando se possibile risposte peggiorative della situazione che talvolta vengono messe in atto.
Per questo è necessaria di solito un'opportuna consulenza alla scuola per affrontare al meglio
le varie situazioni critiche che possono crearsi, senza detrimento né degli altri alunni né del
soggetto in questione, e nemmeno degli operatori, che sono in una situazione di stress
accentuato dalla situazione attuale globale della scuola nei confronti della società.
Occupandoci qui dei casi del secondo tipo (poiché per i primi è necessaria una conoscenza
clinica approfondita), cioè di bambini che non presentano disturbi neuropsichiatrici specifici,
c'è da dire che sono, anche queste, situazioni che durano a lungo, almeno alcuni anni, di solito,
con alti e bassi, ed è necessario per le scuole e per le strutture che accolgono i bambini quindi
resistere ed attrezzarsi a un impegno di lunga durata. La fatica richiesta è compensata di solito
da un miglioramento che segue alla maturazione del ragazzo o ad altri cambiamenti esterni
favorevoli. E' realistico aspettarsi dei miglioramenti, spesso anche macroscopici, ma solo a
distanza di tempo e dopo aver resistito a lungo. Se la scuola e le strutture riescono a resistere
alle diverse sollecitazioni dirette o indirette, fornendo un contenitore resistente ed adeguato,
e senza farsi distruggere o trascinare in reazioni distruttive, la prognosi è di solito positiva.
Per ottenere ciò le varie strutture devono però potersi organizzare opportunamente per
reggere alle situazioni che si presentano, sia quelle abituali, di routine, per così dire, che quelle
impreviste, di emergenza. Qui di seguito tentiamo di trovare alcuni suggerimenti per aiutare ad
affrontare tali situazioni.
Direi che operativamente, per affrontare i problemi suddetti, è opportuno differenziare due
aspetti, quelli di routine e quelli di emergenza.
La routine è importante per organizzare il lavoro nel modo più opportuno per le persone
coinvolte e interessate, e per prevenire le complicazioni possibili; le situazioni di emergenza
sono quelle che scatenano crisi e a volte conseguenze gravi e sono pertanto da imparare a
contenere nel modo migliore possibile.
E' una questione di previsione di quanto può accadere, di organizzazione per prevenirlo e di
procedure utili a contenerlo.
Le situazioni che talora si creano sono a volte di emergenza, almeno nel vissuto di chi vi
partecipa, e come tali sono fortemente ansiogene.
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Gli insegnanti e gli operatori potranno dire che non era questo il lavoro che pensavano di fare
ma si può considerare che ogni lavoro può avere le sue emergenze e richiede una preparazione
per affrontarle. Si tratta di dare una preparazione di base, qualcosa di simile a quanto viene
fatto anche nelle scuole per preparazione ad eventuali calamità, esercitazioni antincendio, di
evacuazione, ecc. Anche ai passeggeri sugli aerei o sulla navi vengono date simili istruzioni e
l'equipaggio deve possederle in modo ben più sicuro dei passeggeri.
Si tratta quindi di essere preparati ad affrontare le 'emergenze comportamentali' che possono
verificarsi nella scuola, negli asili e nelle ludoteche proprio come le emergenze di altro tipo,
terremoti, incendi, ecc.
E' opportuno quindi prima di tutto che le persone coinvolte acquisiscano una certa
competenza a intervenire in tali situazioni. Più o meno come le persone che lavorano
nell'ambito di situazioni di rischio e emergenza (protezione civile, ecc): la prima cosa che viene
insegnata è a valutare lucidamente la situazione, individuare le priorità e le necessità, e
applicare procedure già predisposte, se possibile. Tutto ciò permette solitamente di contenere
l'ansia dilagante che può precipitare comportamenti di panico nelle persone e aggravare le
situazioni.
L'informazione e la preparazione sono importanti per dare agli operatori gli strumenti per
intervenire con sicurezza e contenere l'ansia, prima di tutto in se stessi e poi negli altri. Questo
può essere fatto essenzialmente in due modi: o tramite corsi di aggiornamento estemporanei,
esterni alla situazione, cui poi riportare le competenze formatesi; o tramite gruppi di lavoro in
cui discutere l'esperienza propria e di colleghi, con incontri a cadenza periodica che
permettono di seguire nel tempo i casi in osservazione. O con entrambi.
Più che l’entità dei comportamenti e rischi è la non previsione e la non preparazione ad
affrontare le cose che crea ansia e costituisce la maggiore difficoltà.
Occorre invece tener conto che la presenza di bambini che possono dare problemi di questo
tipo è ormai ampiamente prevedibile e dall’esperienza degli ultimi anni lo è in modo crescente.
In mancanza di una adeguata preparazione e organizzazione per affrontare l'emergenza e le
difficoltà, il rischio è di fare confusione, farsi prendere da ansia e reazioni emotive non
sufficientemente pensate, e complicare le cose già complicate.
La rimostranza prevalente degli operatori, al di là dell’incolumità fisica, è di non poter
contemporaneamente occuparsi del bambino e del resto della classe e la soluzione richiesta è
quindi l'insegnante di sostegno o di ulteriore personale, ma se questo non pone questioni per
le strutture private le pone per quanto riguarda le norme della Legge 104. Ma la presenza di
insegnanti di sostegno o di operatori per l’infanzia, come abbiamo avuto esperienza varie
volte, spesso non risolve i problemi e non evita le emergenze.
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Fondamentale è il concetto che le strutture devono organizzarsi per affrontare e poter
contenere le situazioni che si creano al loro interno, chiarendo compiti, spazi di competenza,
procedure e modalità, in modo che gli operatori sappiano di base come affrontare le varie
situazioni che possono presentarsi.
Uno dei problemi che emergono più spesso è quello dei contatti scuola/struttura - famiglia: a
questo proposito è opportuno che si crei una buona collaborazione fra le strutture, la famiglia
e i servizi esterni, ma occorre stabilire i limiti delle reciproche competenze, per evitare
interferenze e intrusioni.
In particolare un elemento critico è quello delle comunicazioni tra i diversi interlocutori. Non
c'è di peggio che comunicazioni improvvisate, estemporanee, magari sull'uscio o davanti a tutti
o ai bambini stessi; tanto meno chiamate urgenti durante l'orario scolastico per chiedere
l'intervento dei genitori o semplicemente per informarli seduta stante di quanto sta
avvenendo. Ciò crea solo disagio ulteriore, confusione, svalutazione reciproca e conflitti.
Occorre prevedere modalità di comunicazione di routine e di emergenza, considerando però
che non tocca ai genitori intervenire nella scuola, né avrebbero competenze e capacità per
farlo.
Spesso dalla scuola (ma anche nelle strutture private) viene posta l'esigenza di 'uniformare le
regole' fra casa e famiglia. Si può dire che è un falso problema, l'unica regola importante è che
"comandano gli adulti", a casa i genitori, a scuola gli insegnanti, nelle strutture private gli
operatori per l’infanzia. Che vuol dire che sono gli adulti che hanno la responsabilità della
situazione e devono 'governarla'.
Non occorrono altre regole particolari. Piuttosto il problema è non confondere questa regola, il
principio di autorità e responsabilità, che vale per gli adulti, con la questione di "far sentire
l'autorità degli adulti ai bambini": è l'esperienza che mostrerà ai bambini che gli adulti
comandano e sono responsabili, e che li farà riconoscere come autorità, non le spiegazioni, le
prove di forza o le punizioni. Le violazioni andranno ovviamente sancite, qualsiasi legge
prevede delle sanzioni, ma secondo il regolamento, non come reazioni emotive dell'adulto
all'accaduto. Questo è un aspetto cui occorre dare una particolare importanza, e cozza con la
tendenza dei recenti anni a 'comprendere' e 'accogliere' il bambino, frutto forse di
un'eccessiva psicologizzazione (sbagliata, per di più) che ha fatto inflazionare il termine
'sofferenza psichica', stravolgendone il significato. Più che di 'sofferenza', cui si appellano
spesso molti insegnanti e operatori, preoccupati di usare metodi educativi più giusti e
adeguati, è meglio parlare di 'fatica' di adattarsi, di imparare, di contenere desideri ed impulsi.
La fatica si affronta allenandosi, esercitandosi, un po' alla volta, e l'effetto è quello di
rinforzarsi e fare meno fatica una volta allenati.
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Fondamentale è la collaborazione fra famiglia, scuola, strutture varie, servizi, la conoscenza
delle reciproche responsabilità e dei propri spazi, ma senza invasioni di campo, con la
consapevolezza inoltre di potere e dovere solo fare del proprio meglio, ma non di più. Nessuno
ha la ricetta miracolosa o la bacchetta magica.
Gli obiettivi devono essere realistici e progressivi. Primo la sicurezza per tutti, il
comportamento sugli aspetti essenziali, poi via via gli aspetti educativi e infine di
apprendimento.
Molto spesso questa semplice organizzazione di base, che richiede però un forte impegno di
tutti permette di reggere la situazione in attesa che la maturazione del bambino, gli interventi
posti in atto all'esterno, e quanto di più, permettano che la maturazione porti a superare le
difficoltà.
Sintesi:
Routine: chiarire compiti scopi regole e limiti, e possibili sanzioni (Regolamento)
Situazione di Difficoltà: modalità comunicative e relazionali per prevenire le crisi
Emergenza (violenza o minaccia di violenza, fuga, altro): definizione di procedure di
comportamento per affrontare la crisi.
Operatori in gioco e spazi di competenza: personale scolastico a scuola, famiglia all’esterno.
Non violare confini e rispettive competenze e responsabilità
Procedure previste da utilizzare nelle varie situazioni: intervento di direttore, o vice- o
colleghi, inserimento 'contenitico' in classe o gruppi di bambini più grandi
In caso di crisi incontenibile: definire a chi rivolgersi, dentro la scuola, all’esterno (118, forza
pubblica, pompieri, ecc)
Chiarimento di responsabilità, competenze e spazi
Modalità di comunicazione fra operatori e famiglia, per routine, difficoltà, emergenza:
comunicazione urgente solo per trasporto in ospedale del bambino. Altrimenti comunicazioni
su canali predefiniti, privati - non davanti a tutti - con periodicità definita, in modo che la
famiglia è informata e può prendere le sue misure, predefinite, col bambino.
Fra scuola e bambino interessato: rassicurazione e contenimento nell’emergenza, colloquio di
chiarificazione a freddo: la spiegazione di base al ragazzo del comportamento dell’operatore e
dello scopo è fondamentale. Lo scopo durante la crisi è tranquillizzarlo non criticarlo o punirlo.
L’operatore dovrebbe poter contenere le sue reazioni emotive (ansia, paura, rabbia) che
possono precipitare comportamenti sbagliati. La conoscenza e la preparazione serve anche a
questo.
La definizione delle varie procedure può essere fatta da un team scuola/famiglia/servizi sulla
base delle conoscenze generali e delle caratteristiche particolari della scuola, ecc.
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Ci sono dei miti duri a morire. Quello della pace come bontà, come armonia, come volersi bene
è uno dei più duri in assoluto. È un mito deleterio, perché sostanzialmente autodistruttivo, che
contiene al suo interno un’impossibilità operativa che lo rende del tutto inutile sul piano
pratico e storico. L’educazione alla pace è un movimento che parte da lontano. Fin dagli inizi
del XX secolo si hanno delle tracce, dei reperti documentari, però sempre con questo fervore
filantropico. L’educazione alla pace finiva con l’attenere al rafforzamento delle zone di luce
dell’essere umano e quindi a tutto ciò che riguardava il miglioramento dei buoni sentimenti.
L’analisi di Franco Fornari, forse lo psicanalista che a livello internazionale ha lavorato di più sui
temi della pace recuperando la tradizione freudiana e kleiniana, ci ha permesso di evidenziare
come questo tipo di posizione fosse fisiologicamente ingestibile, nel senso che conteneva in sé
la sua sostanziale negazione. Negazione dettata dal fatto che è proprio sul terreno della bontà
e dei buoni sentimenti che la cultura di guerra, o comunque le ragioni della violenza, si
raccolgono maggiormente. Il guerriero, il mafioso, il terrorista, l’integralista religioso sono
assolutamente convinti di aderire a una causa il cui scopo è la permanenza di quei valori che gli
antagonisti stanno mettendo in discussione. Questi valori riguardano sostanzialmente il senso
di appartenenza affettivo, ma possono anche essere valori subliminali di tipo ideologico, così
com’è stato per alcuni terroristi, o in tante guerre di liberazione, e implicano un’adesione
incondizionata e fortissima dell’individuo. Questi valori possono riguardare l’ambito della
famiglia, della madre patria, del proprio gruppo, del proprio clan, della propria causa (nei
gruppi di carattere ideologico). C’è comunque sempre un richiamo primario a una simbiosi e a
una fusionalità gruppale di appartenenza che implica la disponibilità dell’individuo al sacrificio
supremo, ovviamente anche al sacrificio di sé, pur di far trionfare i valori in cui crede. Sono gli
stessi valori che vengono predicati da chi fa dell’educazione alla pace un territorio di
enfatizzazione dei buoni sentimenti. Il caso più eclatante è senz’altro quello della mafia, dove
addirittura attività oggettivamente criminali vengono gestite come attività appartenenti al
proprio clan e sotto la componente eticovaloriale della famiglia. Tante volte il termine
“famiglia” sostituisce addirittura quello di mafia. Perciò combattere la mafia sul terreno dei
buoni sentimenti è quantomeno ridicolo e grottesco. Non si tratta soltanto di un adeguamento
passivo e conformistico, così come ci avevano segnalato gli studi di Salomon Asch, di Stanley
Milgram, e poi le riflessioni puntuali della filosofa ebraica Hanna Arendt, ma proprio di una
motivazione psichica che si legittima sulla base di un fortissimo senso di appartenenza, anche
etnica e di sangue, che non solo consente, ma addirittura enfatizza nell’individuo la
disponibilità a creare, come dice Fornari, una cultura paranoica dell’altro, come se fosse l’altro
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la causa di ogni male. È difficile, in interviste a militari o comunque a individui impegnati in
azioni non soltanto belliche, ma violente in generale (si pensi ad esempio ai tifosi ultras), non
notare come le loro azioni abbiano un richiamo preciso a delle componenti più grandi, a delle
finalità ideali, a dei sentimenti che vanno al di là del particolare o a una presunta malvagità
personale.
Tale tipo di distorsione della realtà produce, sul piano strettamente educativo, delle difficoltà
relazionali e gestionali facili a immaginarsi.
Possiamo definire queste difficoltà col termine di prescrizioni impossibili, ossia porsi obiettivi
che da un punto di vista della realtà risultano assolutamente incompatibili. Si tratta di strategie
di gestione dei problemi basate sulla banalizzazione la cui logica è sostanzialmente la
seguente: “il problema verrà risolto quando non ci sarà più il problema”. Da un punto di vista
strettamente logico questo è una sorta di tautologia, ma sotto il profilo di gestione dei
problemi nella realtà, purtroppo questa strategia basata sul buon senso ha ancora un
fortissimo impatto. Lo registriamo anche a livello educativo. È diffusa per esempio l’idea che i
litigi fra i bambini scompariranno quando i bambini smetteranno di litigare, oppure quando
tutti si vorranno bene, o quando anche i più agitati saranno tranquilli, i disturbatori non
disturberanno più, i timidi parleranno, e via di seguito, in una lunga serie di autoprescrizioni di
tipo formativo che sono, se non in casi eccezionali, di impossibile raggiungimento. Purtroppo
spesso queste prescrizioni diventano anche obiettivi didattici.
Nell’ambito dei temi che stiamo trattando troviamo programmazioni educative in cui fra gli
obiettivi viene incluso quello di evitare litigi fra i bambini. A partire da questo esempio
possiamo fare una serie di considerazioni che ruotano attorno alla inevitabilità di certi
fenomeni, comportamenti e situazioni. Esiste una mitologia percettiva legata alla pace come
armonia che non consente di affrontare le situazioni di perturbazione, di conflittualità, di
aggressività e di tutto quello che succede nel momento in cui la divergenza entra a far parte
della relazione interpersonale. Da questo punto di vista è chiaro che le prescrizioni impossibili
generano ansia, in quanto irraggiungibili, generano uno stato di tensione permanente, di
insoddisfazione, uno stato talvolta di frustrazione. Oggi riscontriamo spesso tra gli educatori un
senso di sconforto in relazione alle difficoltà relazionali che si presentano anche soltanto nel
gestire la disciplina, come se il contrasto fosse imputabile al contenuto, e non al processo.
Certi fenomeni sono fisiologici: componenti di ordine e di disordine appaiono imprescindibili; il
problema è come affrontarli, con che spirito, con che atteggiamento. Il problema non sono
tanto le situazioni in sé, quanto lo spirito con cui l’educatore cerca di affrontarle. Ciò vale per i
genitori, per gli insegnanti. Oggi c’è una forte enfasi sulle difficoltà genitoriali nell’ambito della
gestione dei preadolescenti e degli adolescenti, ma può essere che il problema non risieda
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tanto nelle difficoltà delle caratteristiche dei giovani, che peraltro risultano oggi ben più vicini
ai genitori che non le generazioni precedenti, quanto nella difficoltà da parte del genitore di
collocarsi in un contesto relazionale problematico e viverlo come una dimensione che possa
comunque avere senso. È necessaria una decontrazione emotiva, accettando la dimensione di
perturbazione come componente essenziale e normale della relazione stessa. In questo modo
l’ansia che le prescrizioni impossibili generano si abbassa, diventa più facile allora introdurre
elementi positivi dentro situazioni che apparentemente risultano distruttive.
Si arriva pertanto alla necessità di affrontare la questione della pace sotto un profilo
completamente diverso rispetto a quella che è stata finora la cultura del buon senso. Se la
pace è stata considerata antitetica rispetto al conflitto, e il conflitto visto come guerra, come
devastazione, come combattimento armato (sono queste sostanzialmente le definizioni che
compaiono su tutti i dizionari) un nuovo modo per affrontare le possibilità di una pace che sa
essere qualcosa di concreto e operativo, è sottoporre sotto il profilo epistemologico il termine
e la concezione stessa di pace a una ristrutturazione semantica, culturale e psichica.
Recentemente si è sviluppato un filone di ricerca, specialmente in ambito educativo, che
considera la pace coerente con il conflitto. La pace è conflitto, in quanto permette di
mantenere la relazione anche nella divergenza. In quest’ottica la guerra spesso assume le
sembianze di un tentativo paradossale e ossessivo di ristabilire la pace intesa come un
elemento di aconflittualità, di ordine e di assenza di divergenze, contrasti e diversità. Questo lo
abbiamo registrato con molta enfasi e anche con molta ripugnanza nell’ambito di quelle che
oggi si definiscono “guerre etniche”, che appaiono come un tentativo psicotico di ristabilire un
ordine che passa attraverso l’eliminazione totale della perturbazione che l’altro procura con la
sua presenza.
L’educazione alla pace tenta di proporre un’idea di pace come conflitto, e quindi una nuova
mappa per attraversare questi territori. Una mappa che abbia questo orientamento preciso,
assumere il conflitto come un elemento generativo, un elemento creativo, una risorsa
all’interno della costruzione di una serie di relazioni che non possono prescindere dal
valorizzare e contenere la diversità. È chiaro che in questo tipo di lavoro emerge la difficoltà
nel decentrarsi, nel capire le ragioni altrui, nell’accettare la divergenza. Sta in questo la sfida
dell’educazione alla pace, nel creare le condizioni affinché il rapporto possa alimentarsi non
solo nella simpatia ma anche nella discordanza e nella diversità. È una sfida enorme ma
imprescindibile all’interno di una società che diventa sempre più densa di complessità etniche
e sociali, in cui i cambiamenti sono molto rapidi, in cui l’ingresso di immigrati procura
continuamente ventate di fisiologiche perturbazioni.
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L’educazione alla pace non significa altro che un processo di apprendimento di un’arte della
convivenza più raffinata della semplice tolleranza, del semplice controllo della diversità.
Un’arte della convivenza che diventa un addestramento continuo, incessante, una vera e
propria alfabetizzazione che ci porti ad acquisire al livello primario, relazionale, la capacità di
stare dentro il conflitto e la diversità come un momento di crescita, e non più come un fattore
di paura o di minaccia.
Le vere relazioni umane consentono il conflitto, ossia il confronto, lo scambio, la divergenza e
l’opposizione. I genitori che non consentono l’opposizione a se stessi da parte dei figli,
trattandoli come amichetti con cui cercare una continua complicità, impediscono agli stessi
figli di mettersi alla prova e di usare la relazione con gli adulti come banco di prova del proprio
valore, come territorio di esplorazione e di apprendimento. La formula “so-stare nel
conflitto”implica proprio l’accettazione della necessità che la relazione rappresenti l’occasione
per ciascuno di esprimere parti di sé, e liberare le proprie dimensioni più vere e più profonde,
che solo nelle relazioni conflittuali possono venire alla luce. L’educazione autoritaria negava
questa possibilità con la formula “o con le buone o con le cattive”, e imponeva un’unica logica
-in genere unilaterale- che era la logica del raddrizzare, cercando delle facili scorciatoie che in
qualche modo escludessero il conflitto. Oggi viviamo un altro tipo di situazione: spesso e
volentieri gli educatori rinunciano a ogni tipo di confronto, rinunciano al loro potere educativo,
accontentandosi di una facile dimensione di accondiscendenza reciproca, che però non
consente la crescita. Non esistono ricette, modalità preconfezionate nelle relazioni, ma esiste
una necessità di vivere la relazione in ambito educativo e di assumere questa relazione anche
conflittuale come una sfida che porta all’apprendimento di competenze, e permette alle nuove
generazioni di mettersi alla prova.
Troppo spesso il discorso sul conflitto è stato impostato nel senso della soluzione, senza
rendersi conto che tanti conflitti sono di per sé irrisolvibili. Gli esperti distinguono fra conflitti
riducibili e irriducibili: molti conflitti sono irriducibili, cioè non hanno possibilità di
cambiamento. L’alfabetizzazione al conflitto affronta questo tipo di situazione non tanto sotto
il profilo della soluzione, ma sotto il profilo della gestione: come possiamo gestire le situazioni
che non hanno una prospettiva di cambiamento vero e proprio, e che racchiudono in sé un
elemento di negazione dello sviluppo di una soluzione? La velleità di soluzione del conflitto
nasconde comunque e quasi sempre una velleità totalizzante, fatta di risposte esatte, di
normativizzazione, che può portare anche a delle conseguenze nefaste. Per contro, la
dimensione trasformativa ci permette, in un contesto di problematicità, di cercare le
condizioni affinché questa situazione possa creare meno danni possibili e possa eventualmente
evolversi in senso positivo. L’individuo, specialmente l’educatore, deve rafforzare la capacità di
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stare dentro il conflitto, di non pensare sempre alle soluzioni. Vediamo tanti insegnanti
indeboliti anche nei confronti dei “casi difficili” a scuola a causa della loro difficoltà a
trattenere l’ansia della soluzione. Il loro desiderio di tornare in una condizione di ordine e di
stabilità, il desiderio insomma che le cose tornino al loro posto li indebolisce.
Oggi l’educatore deve saper convivere con le situazioni dissonanti, con l’informalità più che
con la formalità.
Una volta c’erano i galatei, che prescrivevano i comportamenti giusti, oggi non esistono più: è
l’educatore che aiuta nella crescita, ponendosi come riferimento per i più piccoli. Nell’ambito
dell’alfabetizzazione al conflitto questo diventa assolutamente inevitabile.
Il primo passo è: Ricorda che il conflitto è un problema da gestire non una guerra da
combattere. Questo primo punto riguarda il tema della percezione, e propone una
ristrutturazione percettiva e semantica volta a cogliere il conflitto come una situazione da
gestire. Detto così può sembrare un obiettivo fin troppo scontato, ma in realtà, specialmente
in ambito educativo, succede spesso che gli educatori siano più propensi ad abolire il conflitto
contrastando direttamente chi lo porta che non cercando di affrontare la situazione. È più
facile per l’educatore, spesso e volentieri, annichilire il soggetto che porta il problema che non
affrontare il problema stesso. Questo primo passo fornisce all’educatore l’occasione di
cambiare la prospettiva, prendere atto dell’esistenza di una situazione critica e cercare di
affrontarla.
Il secondo passo dice: Conta fino a dieci prima di agire. Questo passo riguarda la dimensione
temporale, la capacità di aspettare il momento giusto, prendere tempo, evitare le reazioni
impulsive e compulsive. È un’indicazione di grande utilità tattica e strategica. Tutte le volte che
si può evitare una reazione immediata si rafforza la possibilità che una provocazione possa
essere trasformata in un’esperienza di apprendimento. Inoltre prendere tempo consente
all’educatore di spostare il conflitto da una logica reattiva a una logica di comunicazione, intesa
come livello simbolico della relazione, in cui si passa all’elaborazione del problema. La
comunicazione è già una ritualizzazione del conflitto. Troppo spesso in ambito scolastico si
lavora immediatamente sulla comunicazione. Non va dimenticato che quando si arriva alla
comunicazione il conflitto, in quanto problema, è già in fase di definizione. La competenza al
conflitto riguarda la capacità di spostare il conflitto sul piano della comunicazione. In ambito
educativo molti ragazzini hanno difficoltà, da questo punto di vista, e vanno aiutati
sistematicamente ad andare oltre la loro tendenza alla reazione immediata e spesso brutale.
Il terzo passo dice: Non fare muro contro muro. Questo ci ricorda il momento trasformativo
del conflitto, la possibilità di elaborare la provocazione in senso non simmetrico, trovando una
strada diversa da quella che la provocazione suggerisce. È un momento sdrammatizzante:
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quando c’è tensione il primo passo da fare è abbassare il livello della tensione, consentire la
decantazione, evitare l’avvitamento e il frequente deragliamento dai contenuti stessi del
conflitto. Questo è un fenomeno che compare in ogni tipo di conflitti, anche in quelli familiari.
Immaginiamo, ad esempio, che un marito risponda alla moglie, irritata perché lui ha rovesciato
il caffè sulla tovaglia pulita, che lei non è pettinata bene. In situazioni del genere siamo di
fronte alla logica del muro contro muro, in cui gli antagonisti vogliono prevalere ad ogni costo,
privilegiando le strategie di superiorità rispetto alle strategie di negoziazione.
Il quarto punto è: Rispetta i contenuti del conflitto. Questo punto è strettamente collegato al
punto precedente, e invita a evitare le “risposte tangenziali”, molto diffuse nella
comunicazione conflittuale distorta. Quando non si riesce ad assumere il problema in quanto
tale, ma si rimanda sempre a un quadro generale, a una situazione precedente, a un contesto
di antipatia o simpatia personale, si ricorre a risposte tangenziali. Questo atteggiamento
implica un senso di manipolazione. In ambito educativo, il ragazzo o la ragazza che propone
qualcosa che ha un forte contenuto perturbativo, se affrontato debitamente gli consente di
sentirsi riconosciuto. La risposta tangenziale è invece umiliante, perché non riconosce all’altro
la possibilità di proporre dei contenuti conflittuali, e impedisce all’altro di proporre una propria
visione delle cose. Questo punto è importante perché riguarda il riconoscimento di se stessi,
che, in senso ontologico, ci riguarda tutti. Ciascuno di noi nel momento in cui non coglie nella
comunicazione il rispetto di ciò che ha espresso avverte la sensazione di fastidio che sta
creando all’altro.
Il quinto punto riguarda un tema fortemente pedagogico: Evita il giudizio stigmatizzante;
sperimenta la critica costruttiva. Ci sono due dimensioni nella gestione educativa del conflitto
particolarmente importanti: la dimensione dell’ascolto e la dimensione del contenimento.
Questa è la dimensione dell’ascolto. Il giudizio è il contrario dell’ascolto. Giudicare in senso
stigmatizzante implica umiliare, ma allo stesso tempo è vero che in molte occasioni è
necessario esprimere un consiglio, un’indicazione, un suggerimento, o anche un ordine. Come
si può fare? Esistono strategie basate sulla “critica costruttiva”, una modalità di porgere
all’altro una serie di osservazioni senza suscitare un senso di minaccia, senza che l’altro si senta
giudicato. Presenta varie fasi: la prima è chiedere permesso; le altre fasi riguardano la gestione
del problema, che mira a mantenere la critica sul problema e non sulla persona. È un
atteggiamento diverso: porgere la critica in modo che l’altro non si senta invaso.
L’ultimo punto dice: Sappi dire di no, quando occorre. Nell’ambito dell’educazione alla pace
molti hanno sempre sostenuto che fosse molto più pericolosa una posizione di passività, di
conformismo, che non una posizione di divergenza e di critica attiva e creativa. Il saper dire di
no è una competenza essenziale in un contesto di crescita sui temi dell’educazione alla pace.
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Saper dire di no vuol dire staccare la spina, evitare un’adesione conformista a delle procedure
che possono danneggiare. I ragazzi si trovano spesso coinvolti in gruppi dentro ai quali possono
svilupparsi azioni o comportamenti lesivi nei confronti degli altri (si pensi a fenomeni come il
bullismo, le bande, i gruppi di ultras, basati sull’omertà e sulla sottomissione). Saper dire di no
vuol dire mantenere sempre la propria idea, il proprio punto di vista, conoscere il proprio
valore. Nel rapporto educativo, gli educatori devono assumere la capacità di dire di no,
tollerando anche la frustrazione che questo dire di no comporta nei ragazzi, per uscire da un
rapporto di amichevolezza che rischia di essere molto pericoloso. Dire di no significa assumersi
una responsabilità adulta, il che non coincide con l’assumere un atteggiamento negativo
continuo, sistematico, ma un atteggiamento opportuno nei contesti adeguati. Questo aiuta i
ragazzi ad assumere lo stesso atteggiamento nel momento in cui si trovano in situazioni in cui
dire di no potrà salvaguardarli anche personalmente (ad esempio evitare di salire su un’auto
con l’autista ubriaco, di notte, dopo la discoteca).
Per concludere
L’educazione alla pace è un processo di alfabetizzazione relazionale nel cuore dei processi
sociali del nostro tempo, per garantire agli attori sociali, a partire da quelli che sono i
protagonisti dei momenti formativi, la capacità di leggere, di riconoscere e di produrre una
cultura che sappia vivere il conflitto come un potenziale di crescita. È un processo che nasce
nella relazione. Non si tratta di insegnare contenuti pacifisti, ma di riconoscere la possibilità di
uno scambio continuo con l’altro. L’educazione alla pace ha la necessità di rivedere sempre i
contenuti che vengono trasmessi da una generazione all’altra, specialmente nell’ambito dei
temi legati al nazionalismo, al razzismo, all’intolleranza, ma non va dimenticato che il razzismo
e l’intolleranza sono comunque delle consegne che agiscono a livello relazionale, in termini
subliminali, e non di trasmissione diretta. In quest’ottica assume un’importanza fondamentale
la formazione degli educatori, una formazione nuova che sappia incidere sulle capacità di
relazionarsi delle nuove generazioni in una logica di alfabetizzazione al conflitto.