profitto e ruolo sociale dell’impresa · dell’impresa centro internazionale studi luigi sturzo...
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III° INCONTRO
11 APRILE 1997
CONVEGNO
ORGANIZZATO
dal Centro Internazionale Studi Sturzo
In collaborazione con
Il gruppo Giovano Imprenditori
dell’Unione Industriali di Asti
PROFITTO
E RUOLO SOCIALE
DELL’IMPRESA
Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo
Sede di Asti e provincia – Presidente: Dott. Marcello Figuccio
Via Regione Bricco, 4 – 14026 Montiglio Monferrato (AT) – Tel. 0141/906251 – 3298217670
Sede Nazionale: Circonvallazione Trionfale, 34 – 00195 Roma
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PROFITTO
E
RUOLO SOCIALE
DELL’IMPRESA
Atti del convegno svoltosi ad Asti
venerdi 11 aprile 1997
nel salone della
Cassa di Risparmio di Asti
organizzato da :
Fondazione Cassa di Risparmio di Asti
Centro Internazionale Studi don Luigi Sturzo
Gruppo Giovani Imprenditori della provincia di Asti
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Indice
INTRODUZIONE Dr Marcello Figuccio
Responsabile del
Centro Internazionale
Studi Don Luigi Sturzo di Asti
IL RUOLO DELLE
FONDAZIONI BANCARIE Dr. Bruno Marchetti
Presidente della Fondazione
Cassa di Risparmio di Asti
LA TRASPARENZA NEL BILANCIO
COME FATTORE COMPETITIVO
PER L’IMPRESA GLOBALIZZATA Dr Giovanni Palladino
Presidente nazionale del
Centro Internazionale Studi Don Luigi Sturzo
Responsabile Area e Finanza
e Impresa della Confindustria
PROFITTO E BENE COMUNE
COME RENDERLI COMPATIBILI Prof. Marco Vitale
Economista d’Impresa
L’ETICA NELL’ECONOMIA
UNA SFIDA PER IL NUOVO MILLENNIO Don Alfio Spampinato
Docente presso lo studio Teologico S.Paolo
e l’Istituto Superiore di Scienze Religiose
S. Luca di Catania
NON SOLO OCCUPAZIONE DIPENDENTE
MA ANCHE
E SOPRATTUTTO IMPRESA Sergio Paro
Direttore Associazione
artigiani di Asti
Moderatore del convegno Ercole Zuccaro
Direttore Responsabile Redazione Astigiana Telesubalpina
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Introduzione
Nell’introdurre i lavori di questo convegno, fortemente voluto dal Centro Internazionale studi Don
Luigi Sturzo di Asti, mi viene in mente quello che affermava un grande economista liberale come
Luigi Einaudi che riteneva necessario “espellere dall’economia le sue tossine, gli amministratori
incapaci e disonesti, i megalomani a furia di debiti, i manipolatori di bilanci, gli illusionisti della
finanza. Non vi può essere risanamento finche gli scemi, i farabutti e i superbi non siano stati
cacciati via. Non l’euforia della carta moneta occorre, ma il pentimento, la contrizione e la
punizione dei peccatori...Fuori dal catechismo di Santa Romana Chiesa non c’è salvezza ; dalla
crisi non si esce se non allontanandosi dal vizio e praticando la virtù”.
Quanta verità e attualità vi sono in queste parole di Einaudi : esse esprimono concetti importanti
volti a sottolineare quelle che sono e debbono essere le responsabilità degli amministratori di una
azienda sia pubblica che privata.
Se da un lato i dipendenti hanno diritti e doveri nei riguardi della propria azienda in un ottica di
collaborazione e di condivisione degli obiettivi di crescita imprenditoriale, d’altra parte i manager e
gli amministratori debbono avere come obiettivo, non solo la crescita dei profitti, ma anche precise
responsabilità nei riguardi della collettività e quindi dei loro dipendenti : una gestione fallimentare
procura disoccupazione e disperazione nelle famiglie.
L’impresa svolge, nella sostanza, un ruolo sociale rilevante : la sua capacità di creare ricchezza, di
valorizzare al meglio le risorse umane, di utilizzare la moneta al servizio del lavoro produttivo
piuttosto che speculativo e una gestione manageriale efficiente, hanno indubbi effetti positivi per
l’intero sistema economico.
Tutto ciò contribuisce efficacemente alla sua stabilità e favorisce la riduzione della
disoccupazione, frutto di spreco immane di risorse, di saccheggio di denaro pubblico e di incapacità
manageriale E’ su queste basi che gli illustri relatori svolgeranno i loro interventi e, nel ringraziarli
del loro prezioso contributo vorrei riportare un significativo pensiero di Don Luigi Sturzo :
“La libertà non è un punto di arrivo che si guadagna una volta per sempre ; la libertà è una
conquista quotidiana, sempre insidiata e sempre messa in pericolo, dalle forze contrarie. Come
ciascun di noi, per non cadere schiavo dei vizi ed essere moralmente libero della libertà che Dio ci
ha dato, deve combattere tutta la vita, così è delle libertà politiche e sociali ; combattere ed essere
pronti a rigettare quei vincoli che vorrà imporci un potere assoluto, sia il dittatore di destra o di
sinistra, sia il capitalismo degli affaristi o il comunismo degli illusi. La libertà non è per un solo o
per i pochi : la libertà e per tutti : questo solo fatto pone un limite morale e naturale agli eccessi di
un solo (dittatura) o di pochi (oligarchia del capitalismo o del militarismo) o della folla
(demagogia ed anarchismo).”(dall’Opera Omnia “Politica e Morale - Coscienza e Politica -
Zanichelli Bologna).
Marcello Figuccio
Responsabile
del Centro Internazionale Studi
Don Luigi Sturzo di Asti
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BRUNO MARCHETTI
IL RUOLO DELLE
FONDAZIONI BANCARIE
“...Non si capisce...perché ad un ente “privato” viene inibita la gestione di una qualsiasi
partecipazione anche azionaria in campo imprenditoriale, specie se di natura bancaria,come si
evince dalla preannunciata nuova normativa, mentre gli è consentitala gestione di una iniziativa
diretta al dissolvimento del proprio patrimonio..”
(Dr. Bruno Marchetti)
Bruno Marchetti - Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Asti
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Porgo alle autorità presenti, ed a quanti altri hanno ritenuto di partecipare al presente convegno, il
più cordiale saluto da parte dei componenti il Consiglio di Amministrazione della Fondazione Cassa
di Risparmio di Asti, che ho l’onore di presiedere, oltre il mio personale, unito ad un caloroso
ringraziamento all’indirizzo degli oratori per la loro provata disponibilità e per il loro costante
impegno profuso nel campo economico ed imprenditoriale ed infine intendo rivolgere un vivo ed
ulteriore ringraziamento al Consiglio di Amministrazione della cassa di Risparmio di Asti S.p.A.,
che ci ha messo a disposizione il salone dei convegni di cui siamo attualmente ospiti, degna cornice
di un incontro così importante incentrato su alcune problematiche di notevole interesse nel settore
della imprenditoria nazionale.
Noi, come Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, in base alle nostre disponibilità, che ci
pervengono soprattutto dalla nostra partecipazione azionaria nell’azienda bancaria, ci occupiamo di
realizzare alcuni interventi nei settori della ricerca scientifica, dell’arte, dell’istruzione, della cultura
e della sanità, attivandoci anche in campo sociale a sostegno delle categorie più deboli con le nostre
residuali disponibilità finanziarie.
Ciò non toglie che potremmo, in caso di autorizzazioni legislative, realizzare delle attività, oltre
che negli specifici settori di nostra competenza, anche nel campo della imprenditoria pura, senza
dimenticare che un tale progetto potrebbe approdare a dei risultati non molto congeniali per le
fondazioni, spesso sprovviste all’interno dei loro organismi rappresentativi, di imprenditori di una
certa levatura, che sappiano assumersi gravi ed importanti responsabilità in campo industriale e
commerciale.
Quindi andrebbe svolta al riguardo una verifica caso per caso, consentendo alle Fondazioni più
agguerrite di intraprendere qualche iniziativa in campo imprenditoriale, da sole o insieme ad altre
disponibili consorelle.
A questo punto, come Fondazione di origine bancaria, non possiamo non accennare che il
Consiglio dei Ministri in data 30 gennaio 1997 ha approvato un disegno di legge dal titolo “Delega
per il riordino della disciplina civilistica e fiscale degli Enti Conferenti (Fondazioni) di cui all’art.
11, comma 1, del decreto legislativo 20 novembre 1990 n. 356 e della disciplina fiscale delle
operazioni di ristrutturazione bancaria”.
Il disegno di legge in questione risulta presentato alla Presidenza della Camera dei Deputati il 12
febbraio 1997 ed andrà in discussione, presumibilmente, nella prima o seconda quindicina del mese
di aprile, corrente anno.
Fino ad oggi, infatti, qualsiasi attività nei sensi che andiamo discutendo, ci è stata preclusa, in
quanto siamo stati sempre considerati enti ad esclusiva struttura pubblica e come tali impossibilitati
a gestire qualsiasi forma di attività privata, specie in campo imprenditoriale.
Senonché il disegno di legge in parola, dopo aver preannunciato il riconoscimento di “Ente
Privato” a favore di tutte le fondazioni bancarie, ha aperto uno spiraglio, laddove alla lettera d)
dell’articolo 2), si stabilisce che le Fondazioni “possono esercitare, con contabilità separate,
imprese direttamente strumentali ai fini istituzionali e detenere partecipazioni di controllo in enti e
società che abbiano per oggetto esclusivo l’esercizio di tali imprese”.
Tutto ciò sembra provocare un grosso contrasto, per il fatto che da una parte, si concede il
riconoscimento di ente privato alle Fondazioni e quindi in grado di svolgere qualsiasi attività di
diritto privato, purchè svolta nei termini e con i limiti imposti alle fondazioni dal vigente diritto
civile e commerciale e quindi anche in condizione di gestire una partecipazione azionaria di
qualunque tipo, specie se radicata nel territorio di propria competenza, mentre, dall’altra, viene
inibita loro la possibilità di svolgere qualsiasi altra forma di attività fuori dallo scenario imposto
dalla legge “Amato”, ossia in poche parole qualsiasi tipo di operazione in campo imprenditoriale è
ammessa soltanto se riveste carattere strumentale rispetto alle finalità sopra indicate, ossia ricerca
scientifica, sanità, istruzione, ecc.
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Non è infatti un mistero che, dopo qualche anno, qualsiasi attività finalizzata alla ricerca
scientifica, alla realizzazione di strutture ospedaliere o di strutture a carattere universitario non può
determinare alcun effetto positivo in base ai rispettivi conti economici, ma può senza dubbio alcuno
provocare il dissolvimento del patrimonio delle Fondazioni, a causa dell’immancabile e progressivo
accumulo di passività e di perdite.
Non si capisce a questo punto perché ad un Ente “privato” viene inibita la gestione di una qualsiasi
partecipazione anche azionaria in campo imprenditoriale, specie se di natura bancaria, come si
evince dalla preannunciata nuova normativa, mentre gli è consentita la gestione di una iniziativa
diretta al dissolvimento del proprio patrimonio !
Per quanto riguarda le nostre iniziative nei particolari settori tracciati dalla legge “Amato”
possiamo rammentare, con una certa punta di orgoglio, di aver provveduto in breve tempo a
realizzare in Asti un corso di Economia a livello universitario, nonché ad impegnarci
finanziariamente, per la costruzione del locale nosocomio, unica strada percorribile per
corrispondere alle aspettative della cittadinanza in ambito sanitario e soprattutto a quelle degli
addetti ai lavori, offrendo loro una struttura moderna ed efficiente, realizzazione che, ci sia
consentito di affermarlo, senza il nostro apporto finanziario, oltre beninteso di quello di cui si è fatto
carico insieme a noi anche la Cassa di Risparmio di Asti s.p.a., non avrebbe mai potuto pervenire a
compimento e tutto ciò con un riflesso positivo a favore dell’imprenditoria e della occupazione, da
non sottovalutare in ambito locale.
A titolo personale possiamo aggiungere sull’argomento che ogni iniziativa oggi si infrange spesso
contro gli scogli della burocrazia, in quanto per portare a regime una attività industriale, ad
esempio, occorrono attualmente anni ed anni di impegno nella soluzione di problemi immensi che
vanno dalla scelta dell’area fino all’adempimento di tutte le prescrizioni in materia di edilizia, di
sicurezza sul lavoro, in quanto, secondo le disposizioni legislative che ci siamo dotati, e di quelle a
carattere innovativo che mettono in discussione tutte le procedure già iniziate e spesso quasi
terminate (leggasi revisioni dei P.R.C., emergenze determinate da eventi imprevedibili : terremoti
ed alluvioni, nuove norme in materia di sicurezza, ecc.) allo stato attuale delle cose qualsiasi tipo di
costruzione da adibire ad industria o commercio, fatte salve beninteso le doverose disposizioni in
materia di sicurezza del lavoro, giammai da trascurare, va adeguata non all’esigenze dell’impresa
ma spesso alle direttive ed alle prescrizioni di piano regolatore, oltre che alle disposizioni fiscali in
campo tributario e contributivo.
Oggi torna più comodo investire in rendite parassitarie i propri capitali, anziché impiegarli in
nuove avventurose ed aleatorie attività imprenditoriali, che in caso positivo, dopo il congelamento
delle rendite dei capitali investiti, durante il periodo di esecuzione dei lavori e del successivo
necessario rodaggio, non forniranno mai un rendimento, al netto degli oneri fiscali, superiore a
quello ricavabile da un oculato investimento dei propri capitali in semplici Titoli di Stato, alla
portata di tutti e di facile amministrazione, come investimento.
Ma non saremmo impegnati in questa discussione se fossimo sprovvisti di idee e di entusiasmi e
quindi a parere nostro, lungi dal pensiero che questi suggerimenti possano rappresentare il
necessario “toccasana” per la soluzione dei problemi che andiamo esaminando, data per scontata in
ogni caso di nuove iniziative in campo imprenditoriale, la competenza, la specializzazione ed in una
parola la professionalità dei dirigenti responsabili del nuovo processo produttivo e dei loro più
stretti collaboratori, sarebbe il caso di metterci tutti, ossia gli addetti ai lavori (banchieri,
imprenditori, autorità pubbliche, sindacati e loro eventuali rappresentati di categoria) intorno ad un
tavolo per favorire, in caso di nuovi programmati insediamenti produttivi, una ormai nota
“Conferenza dei Servizi”, che consenta, in breve tempo, di individuare e di risolvere tutte le
problematiche inerenti alla realizzazione di una qualsiasi nuova iniziativa e giungere ad un accordo
su di un programma che favorisca, in termini precisi, oltre che in tempi brevi ed indilazionabili, la
fattibilità dell’opera, anche attraverso la sua copertura finanziaria, nonché attraverso
l’individuazione di ogni altro adempimento necessario, rappresentando questa procedura, a parer
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nostro, uno dei modi, se non addirittura l’unico, per favorire la realizzazione di nuove iniziative
specie nel comparto industriale e soprattutto a difesa dell’occupazione.
A ciò va aggiunta, per le generazioni di domani, la necessità di introdurre nuovi insegnamenti
scolastici, da impartire dai banchi delle scuole materne ed elementari, fino alle superiori aule
universitarie, che siano finalizzati, oltre che allo studio delle materie di base, anche al culto ed alla
filosofia dell’impresa, in ogni sua dimensione ed in ogni sua variegata produzione e soprattutto tali
insegnamenti devono essere mirati alla riscoperta di tutti i valori che costituiscono l’espressione
dell’impresa stessa.
Soltanto in tal modo le ormai spesso inflazionate parole “programmazione”, “monitoraggio”,
“trasparenza”, nonché il concetto di “conferenza di sevizi”, di frequente richiamo nei discorsi
politici e negli ambienti amministrativi di chi ci governa, a livello sia centrale che periferico,
possono effettivamente tradursi in alcune concrete realtà ed in tal modo entrare a far parte di
direttive e di programmi ben definiti, a vantaggio della nostra economia e della nostra occupazione,
anziché essere ricomprese in un linguaggio moderno e soltanto di estrazione burocratica.
Ma non possiamo tacere che all’orizzonte, specie per le generazioni successive, non si profila un
domani molto roseo ed allora prendendo spunto dai recenti provvedimenti governativi di natura
contributiva in caso di rottamazione di autoveicoli con più di 10 anni, perché non proponiamo un
analogo programma anche per le abitazioni e genericamente per tutti gli immobili ?
Da diversi anni andiamo propugnando un progetto, oltre che a fini occupazionali per le future
generazioni, anche per dare un assetto definitivo al diritto di proprietà relativo ai beni immobili,
sempre in conflitto con l’istituto dell’esproprio generico e con le nuove disposizioni che catalogano
il diritto di proprietà in diversi modi dalla serie A alla Z, per rimanere in ambito calcistico ed allora
perché non lo limitiamo per tutti i cittadini a 50 anni, ad esempio, e graduandolo nel tempo agli
effetti della sua durata ?
Non è infatti un altro mistero che la proprietà urbana e la proprietà agricola possono appartenere ai
titolari a diverso titolo : in usufrutto, in diritto di superficie, enfiteusi, in diritto di superficie limitato
nel tempo da 60 a 99 anni, in possesso, con il diritto di riscatto, con il patto di inalienabilità per la
durata di 5, 10 o addirittura 15 anni, in proprietà indivisa...
Ed allora, pensando anche al domani per la occupazione delle future generazioni, nel presupposto
che l’attività edilizia in tempi di splendore per la nostra economia, rappresentava un fattore
trainante, insieme alla meccanica, perché non rigenerala, abbattendo il diritto di proprietà in modo
indiscriminato per tutti, consentendo a favore del titolare il recupero dei valori immobiliari
attraverso quote di ammortamento, in eccedenza a quelle di un normale uso e godimento
dell’immobile e quindi attraverso veri e propri incentivi fiscali, conservando a fini culturali nei
demani comunali soltanto gli immobili di maggior pregio e favorendo, quindi, oltre lo sviluppo
dell’intera economia e quindi dell’impresa anche il riordino di interi centri storici e periferici, da un
punto di vista strutturale, da adeguare alle nuove esigenze urbanistiche attraverso la creazione di
nuovi edifici, nuove strade di accesso e di collegamento tra rioni, nuovi impianti di smaltimento
rifiuti, nuovi parcheggi, più estese aree verdi, immensi parchi, centri sportivi e quant’altro di più
moderno nel settore urbanistico.
Resta inteso che tutti i vecchi edifici verrebbero compresi nel demanio comunale e tramite
apposite delibere comunali verrebbero destinati alla demolizione, alla conservazione a fini culturali
ed infine alla ricostruzione, per successivi 50 anni, ma certamente secondo piani di sviluppo più
razionali in armonia con le nuove tecniche e con le nuove esigenze abitative e protettive.
E’ senz’altro un progetto che merita molta attenzione e noi siamo qui per illustrarlo meglio, ove
necessario, ma forse fin troppo provocatorio e come tale destinato nel fondo di un cassetto.
Bruno Marchetti
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GIOVANNI PALLADINO
LA TRASPARENZA NEL BILANCIO
COME FATTORE COMPETITIVO
PER L’IMPRESA GLOBALIZZATA
“Il cittadino, perdendo la libertà di possedere beni stabili,
di potere trasformare i risparmi impianti produttivi ;
di essere libero di tenere la “sua” casa,
il “suo” podere, la sua “bottega”, il “suo”
impianto, e poterlo cedere o lasciarlo
ad eredi di sua propria scelta ;
egli non sarà più libero politicamente”
(Luigi Sturzo in Socializzazione e libertà,
“L’Italia”, 15 novembre 1956)
Giovanni Palladino - Presidente del Centro Internazionale Studi Don Luigi Sturzo
e Responsabile Area Finanza e Impresa della Confindustria
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IL DEVASTANTE CONFLITTO TRA CAPITALE E LAVORO
L’attuale opacità dell’Azienda Italia (opacità che non riguarda solo i bilanci delle imprese, ma
anche i bilanci dei partiti, l’attività dei sindacati e lo stesso bilancio dello Stato) nasce all’inizio
degli anni ’60, quando la nostra classe dirigente decise di guardare al passato (un passato già
ampiamente fallimentare), rafforzando lo Stato in un doppio ruolo : il ruolo di arbitro e il ruolo di
giocatore.
Tutti sanno che chi arbitra non può giocare e chi gioca non può arbitrare.
Tuttavia Marx lo riteneva possibile, in piena coerenza con la sua visione dell’economia e della
società, che dovevano essere dominati dallo Stato “tutto-fare””.
I nostri grandi strateghi del centro-sinistra, purtroppo non capirono - ad oltre un secolo dal
messaggio rivoluzionario di Marx - che il più stupido conflitto che possa esistere in una economia
moderna, è il conflitto tra capitale e lavoro.
Lo capì invece in grande anticipo Leone XIII : la “Rerum Novarum” è infatti un continuo invito
alla stretta alleanza fra capitale e lavoro.
E’ gravissimo che molti nostri uomini politici cattolici abbiano ignorato o non capito l’importanza
di quell’invito.
Si dichiaravano a parole anti-marxisti, ma poi nei fatti utilizzavano strumenti marxisti con
l’attuazione di politiche stataliste.
Vi ricordo che negli anni ’60 la politica delle nazionalizzazioni e dello Stato Imprenditore era
considerata da autorevoli uomini di governo come il primo bastone da inserire fra le ruote del
capitalismo italiano.
Anche perché l’impresa privata era vista come la “casa dei padroni”, anziché come la “casa
comune” dei lavoratori, degli imprenditori e degli azionisti.
Coerentemente con questa visione miope e distorta della realtà economica-finanziaria di un paese
moderno, la Borsa era considerato un mercato inutile per lo sviluppo delle imprese.
Per queste il supporto dei prestiti bancari sarebbe stato più che sufficiente.
Di qui anche le penalizzazioni fiscali anti-impresa con l’elevata tassazione degli utili, dei dividendi
e delle plusvalenze.
L’odierno capitalismo italiano “chiuso” e concentrato in poche mani ha pertanto le sue radici negli
errori di politica economica compiuti negli anni ’60.
E’ in quel momento che nasce il grande spazio operativo per Cuccia e Mediobanca. Uno spazio
che non è stato conquistato, ma che è stato loro regalato dalla cultura anti-capitalista della sinistra
cattolica e socialista, una sinistra del tutto fuori dal tempo.
Non deve pertanto sorprendere se l’Italia ha oggi il mercato dei capitali più piccolo e inefficiente
del mondo industrializzato, e se abbiamo la più bassa partecipazione diretta e indiretta dei lavoratori
al capitale delle imprese.
La partecipazione è soprattutto al “capitale” del Tesoro, la cui elevata crescita ha ovviamente
frenato il processo di modernizzazione del nostro capitalismo.
Inoltre, in presenza di un diffuso statalismo, la spesa pubblica improduttiva ha debordato,
trasformando i continui aumenti della pressione fiscale in fattore oppressivo e quindi
potenzialmente depressivo dell’attività economica.
Altra benzina sul fuoco dell’opacità e della sopravvivenza di un capitalismo arcaico.
A proposito di fisco oppressivo e depressivo, nel lontano 1891 Leone XIII aveva messo in guardia
dai pericoli del fiscalismo, perché questo avrebbe ostacolato la diffusione della proprietà privata.
Nella sua famosa enciclica egli mise in luce i grandi vantaggi del passaggio dallo “status” di
proletari a quello di proprietari, ma con questa precisazione : “Si avverta peraltro che tali vantaggi
dipendono da questa condizione, che la proprietà privata non venga stremata da imposte eccessive.
IL diritto della proprietà privata, derivando non da legge umana, ma dalla legge naturale, lo Stato
non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso ed armonizzarlo per il bene comune, ed è
ingiustizia ed inumanità esigere dai privati, sotto il nome d’imposte, più del dovuto”.
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A 106 anni dalla “Rerum Novarum” e dopo 30 anni di governi DC appiattiti su di una sinistra
arcaica, è amaro constatare che l ‘Italia si trova “spiazzata” di fronte alla nuova sfida della
globalizzazione dell’economia, una sfida che esige una stretta alleanza fra capitale e lavoro, nonché
- come naturale conseguenza - tanta trasparenza nella gestione dell’economia.
Quanti decenni sprecati di lotte operaie contro il grande o il piccolo capitale ! Quanti decenni di
indebolimento del vero “motore” dello sviluppo economico-sociale di un paese : l’impresa con le
sue risorse umane o, meglio, le risorse umane - ossia noi tutti - con le nostre imprese ! Ma in Italia
le imprese non sono “nostre”.
E’ per lo più nostra la fragile “carta” del debito pubblico, che purtroppo ha ormai superato di gran
lunga il valore di tutte le imprese produttive.
E’ interessante leggere due passi chiave del “manifesto” del nuovo partito laburista inglese Toy
Blair : “La nostra politica è basata sulla collaborazione, sulla partecipazione e non sulla guerra tra
padroni e lavoratori. Riconosciamo il valore della cooperazione, come quello della
competizione...La nostra sfida consiste nel cambiare terreno : non più il vecchio ambito del diritto
sindacale, ma il nuovo terreno per la modernizzazione della nostra forza lavoro. Le migliori
imprese considerano i propri impiegati come partner d’impresa, perché è indubbio che un migliore
trattamento garantisce un più alto rendimento. Molti sindacati stanno abbracciando con
entusiasmo questa nuova idea di partecipazione sociale, abbandonando la concezione del
conflitto”. Leone XIII ne sarà lieto !
PIU’ TRASPARENZA E CONCORRENZA PER CRESCERE NEL MERCATO GLOBALE
Come si spiega questo “rivoluzionario” ripensamento ? Con la semplice osservazione della realtà.
Chi la interpreta bene, deve per forza adeguarsi. Infatti con l’inizio degli anni ’90 si è verificato un
fatto molto positivo per l’economia mondiale : tanti paesi - che da 40 anni erano definiti in via di
sviluppo, ma che in realtà non si sviluppavano mai - hanno finalmente iniziato a svilupparsi.
Pertanto lo “strappo” (in senso positivo) fatto negli ultimi 150 anni sul “tessuto” dell’economia
mondiale da pochi paesi industrializzati, è ora accentuato dall’arrivo di molti paesi emergenti.
Quel “tessuto” è rimasto praticamente intatto per millenni, perché sino al secolo scorso il mondo è
vissuto in un clima da “sviluppo zero” : il 2/3% della popolazione dominava e sfruttava la grande
massa, che viveva più da oggetto che non da soggetto dello sviluppo economico-sociale.
L’inizio del grande cambiamento si è avuto con l’arrivo del capitalismo moderno, dove l’uomo
interessa al sistema non solo come lavoratore, ma anche come consumatore e risparmiatore.
Tuttavia, dopo circa 150 anni di sviluppo intensivo del capitalismo, lo “strappo” ha fatto poca
strada : il “tessuto” è ancora dominato da lavoratori “oggetto”.
Lo sviluppo acquisito dall’economia mondiale ha certamente fatto passi da gigante in pochi
decenni rispetto al passato sempre statico.
Ma è ancora uno sviluppo minimo, se confrontato con la superficie che dovrà coprire per
trasformare tutta la popolazione mondiale in partecipante attivo o in soggetto dell’economia.
Lo sviluppo dei paesi emergenti (dotati non di centinaia di milioni, ma di almeno un paio di
miliardi di potenziali consumatori e risparmiatori) ha dato una scossa ai paesi industrializzati,
imponendo alle imprese :
� una politica di internazionalizzazione più “aggressiva” ;
� una maggiore attenzione al controllo dei costi ;
� un collegamento più stretto e continuo con il mercato dei capitali.
Il fatto nuovo è che la crescente globalizzazione dell’economia richiede una quantità ed una qualità
di investimenti nettamente superiori rispetto a quelli del passato.
L’obiettivo è obbligato : produrre a costi sempre più competitivi per soddisfare un mercato di
massa, desideroso di comprare prodotti buoni a prezzi convenienti.
Il che significa QUALITA’ ALTA E PREZZI BASSI, ossia due fenomeni che sino a ieri erano
incompatibili fra loro.
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Se è vero che la diffusione del mercato di massa farà aumentare molto in concorrenza, è anche
vero - come naturale conseguenza - che le capacità di autofinanziamento delle imprese saranno
messe a dura prova nei prossimi anni.
Per le imprese italiane ciò determinerà una situazione nuova : molte piccole imprese saranno
costrette a diventare medie e molte medie imprese saranno costrette a diventare grandi per
affrontare meglio la più difficile sfida competitiva imposta dall’economia globalizzata.
Ebbene, i suddetti passaggi obbligati (controllo dei costi, crescita dimensionale,
internazionalizzazione) non si potranno fare senza il varo di una politica economica orientata
positivamente all’impresa e senza avere a disposizione un mercato dei capitali dotato di una
struttura di intermediari e di investitori ben più forte dell’attuale.
Per molte imprese i tempi del “tutto si può fare con il credito bancario” sono finiti per sempre.
Il futuro è della finanza aziendale ben diversificata e più equilibrata fra mezzi propri e
indebitamento.
Tutto ciò richiede un fisco “intelligente” e bilanci trasparenti per attirare la fiducia e gli interessi
dei risparmiatori.
Molte imprese non potranno più restare “sole” con il loro proprietario - fondatore
I “FUND MANAGERS”, VERI BANCHIERI DEL DUEMILA
Nei paesi anglosassoni il rapporto fra le imprese e il mercato mobiliare è ormai molto più saldo e
produttivo, grazie al crescente sviluppo del risparmio gestito dai “Fund Managers”.
A fine ’96 la consistenza di questo risparmio aveva superato i 25 milioni di miliardi di lire nei
sei paesi più industrializzati. Gli Stati Uniti sono nettamente in testa, potendo contare su una quota
del 70 % di tale mercato. Non deve pertanto sorprendere se a fine ’96 le imprese statunitensi - nel
soddisfare le proprie esigenze finanziarie - dipendevano soltanto per il 20 % dal credito bancario
e per ben l’80 % dal mercato mobiliare ( nel 1980 queste cifre erano, rispettivamente, pari al 66 %
e al 34 %). Vi è infatti una stretta connessione tra lo sviluppo del mercato dei capitali e la crescita
degli investitori istituzionali e del risparmio gestito.
Nel mondo industrializzato sono adesso molto chiare due tendenze : i depositi bancari, in termini
reali e talvolta persino in valore nominale, non crescono più ; è invece in costante crescita la quota
di risparmio affidata agli investitori istituzionali, soprattutto per il forte sviluppo dei fondi
pensione. Ciò significa che la “materia prima” si sta spostando dal banchiere tradizionale al
banchiere innovativo, ossia al gestore professionale del risparmio “paziente” ( perché di lungo
termine, essendo in gran parte di tipo previdenziale).
E’ un fenomeno rivoluzionario per l’economia moderna, in quanto il banchiere innovativo si pone
davanti all’impresa con una mentalità nettamente diversa da quella del banchiere tradizionale :
questi esige soprattutto garanzie reali e/o di tipo finanziario per erogare il credito, mentre quello non
lo esige.
Il gestore professionale richiede essenzialmente tre requisiti di qualità all’impresa per acquistarne
i valori mobiliari :
� trasparenza dei conti
� informazione continua
� buon potenziale di sviluppo e di redditività.
Queste qualità garantiscono poi all’impresa un risultato molto importante : una sensibile riduzione
del costo del denaro, con conseguenza di un “mix” più equilibrato tra mezzi reperiti tramite le
banche e mezzi reperiti sul mercato dei capitali. Non deve pertanto sorprendere se negli Stati Uniti
le imprese sono fortemente capitalizzate e se le “commercial banks” stanno premendo sul
Congresso per ottenere anche la qualifica operativa di “investment banks” ( perché hanno capito
che il “business” del futuro sta più nel lavoro di tipo mobiliare che non in quello di tipo creditizio).
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URGE UNA SERIA POLITA DEI CAPITALI
E’ pertanto giunto anche in Italia il momento di dare avvio ad una moderna cultura d’impresa e
del mercato mobiliare.
Questo è un mercato dove banche e imprese avranno sempre più interesse ad essere presenti e,
soprattutto, a trovare un comune punto d’incontro e di proficua collaborazione.
Nel corso degli ultimi 45 anni si è avuta in Italia una forte diffusione della proprietà agraria e di
quella immobiliare.
Si è così spezzata una concentrazione che durava da sempre. Non si è invece ancora diffusa la
proprietà del capitale di rischio, essendo mancata - con il predominante influsso di una sinistra
arcaica - una politica economica che ne favorisse lo sviluppo.
Per una partecipazione più attiva dei risparmiatori al finanziamento dell’economia reale è ora
necessario il varo di una convinta politica del capitali, il cui “nocciolo duro” si può riassumere nei
seguenti provvedimenti :
���� approvazione delle riforme strutturali per frenare la forte crescita della spesa pubblica (riforma
dello Stato e soprattutto della previdenza sociale) ;
���� ripresa più decisa ed effettiva delle privatizzazioni ;
���� lancio dei fondi pensione ;
���� rilancio della Borsa e creazione del mercato mobiliare telematico per le PMI ;
���� quotazione delle obbligazioni bancarie, da collegare anche a finanziamenti in parte convertibili
nel capitale delle imprese affidate ;
���� sviluppo delle cambiali finanziarie e dei fondi comuni mobiliari “chiusi”, migliorandone il
regime fiscale ;
���� riduzione delle imposte sui profitti per ampliare la base imponibile e favorire la trasparenza dei
bilanci.
IL CAPITALISMO MODERNO E’ DI TUTTI
E’ purtroppo vero che 60 anni di separatezza tra banca e impresa, nonché 30 anni di “via
finanziaria” allo sviluppo (tappeto rosso per l’indebitamento e chiodi per il capitale di rischio)
hanno creato un diffuso scetticismo sulla possibilità che banche, imprese e risparmiatori possano
adeguarsi velocemente alla nuova realtà del capitalismo diffuso. Se non altro perché le competenze
e i comportamenti non si possono “stampare”, ossia richiedono un lungo periodo per essere create.
Tuttavia, la formazione di un moderno mercato mobiliare è ormai da considerarsi una via
obbligata per qualsiasi paese che voglia competere con successo in un mondo produttivo sempre più
“condannato” all’efficienza e alla ricerca continua di strumenti finanziari a basso costo.
Il problema è anche di tipo culturale, perché bisogna far capire ai lavoratori e alle imprese che il
capitalismo moderno o diventa di tutti (direttamente e soprattutto indirettamente tramite gli
investitori istituzionali) o non è capitalismo.
Ma il lavoro molto più importante si dovrà svolgere a livello delle imprese, che non si dovranno
più sentire “assediate” da una cultura di governo ostile, una ostilità che alla fine impoverisce tutti.
L’obiettivo è di far dialogare quanto più possibile le imprese con i principali operatori, gestori e
intermediari presenti sul mercato mobiliare.
E’ infatti giunto il momento di ridurre le distanze e di far conoscere alle imprese un nuovo mondo
finanziario, che si sta finalmente formando anche in Italia, ma che è ancora sconosciuto a molti
imprenditori.
Bisogna far capire che è finita un’epoca e che se ne sta aprendo un’altra, con nuovi servizi e con
nuove strutture che meritano di essere conosciuti e utilizzati nell’interesse di tutti.
L’ECONOMIA SENZA ETICA NON E’ VERA ECONOMIA La riforma più essenziale è quella delle nostre coscienze, delle nostre volontà, delle nostre
convinzioni : bisogna credere che il cambiamento è davvero possibile, bisogna credere nella
“funzionalità” dell’etica e dei comportamenti morali.
16
Don Luigi Sturzo sosteneva che la moralità non è altro che il convergere delle azioni umane verso
la razionalità.
Ne consegue che l’immoralità deriva da azioni e da comportamenti irrazionali. Il mondo ne è
pieno, perché molti li ritengono - erroneamente - razionali e convenienti.
Questa in definitiva, è la vera trappola da evitare per non fare del male a se stessi e agli altri.
Concludo pertanto, facendo parlare Don Sturzo (il brano è tratto dal capitolo “Della moralità” del
suo libro “Coscienza Politica”) :
“Non si può negare che dalla osservanza della legge morale derivino vantaggi sociali assai
maggiori di quelli che potrebbero derivare dalle particolari violazioni.
Il rigido mantenimento dell’ordine morale in economia, per evitare o colpire frodi, appropriazioni
indebite , falsi, imbrogli e simili servirà non solo a vantaggio dei singoli, ma anche all’equilibrio
economico della società.
I vantaggi dell’ordine morale si riversano nell’ordine economico e viceversa, in larga reciprocità.
Del resto, che cosa è la moralità in economia se non il rispetto del diritto altrui, cioè, un atto
economico preliminare , un elemento di ordine, perché l’economia possa svilupparsi ?
Il punto importante, sfuggito anche a filosofi e ad economisti, è dato dal carattere dell’economia
che è fatto sociale, rapporto degli uomini in società ; non si dà economia individuale che
prescinda da rapporti sociali.
Se l’economia sociale di propria natura, è di propria natura etica, cioè razionale ; non si darà
mai un’economia irrazionale : essa non sarebbe vera economia .
Non esiste la pretesa economica dei ricercatori d’oro, dei nuclei ex-legge, delle associazioni a
delinquere, anche se organizzati secondo proprie leggi ; il loro ordinamento non sarà mai
classificabile come razionale e tale da produrre rapporti di diritti e doveri ; e, quindi, neppure
come un ordinamento economico.
Si tratta di sfruttamento di malfattori a danno della società, e anche a danno dei fuorilegge, non
essendo ammesso l’abbandono dell’associazione delittuosa, pena la vita.
Lo stesso deve dirsi della politica come attività sociale e razionale, e in quanto tale
intrinsecamente morale.
Non si può dare politica immorale che sia veramente politica, cioè attività diretta al bene
comune ; mentre si potranno dare , e purtroppo non mancano, individui o gruppi che nel campo
politico, di proposito ovvero occasionalmente, violino le leggi morali, che sono anche leggi della
comunità cui appartengono”.
Questa si chiama semplicemente “buona cultura”.
Finchè prevarrà la cattiva cultura o l’incultura - come spesso è avvenuto in Italia - è vano sperare
nel buon governo.
In definitiva, la trasparenza nella politica e nell’economia può essere assicurata solo con il
prevalere nella società di una buona cultura.
E’ faticoso ma conviene.
Giovanni Palladino
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MARCO VITALE
PROFITTO E BENE COMUNE :
COME RENDERLI COMPATIBILI
“En un mot, le bien commun voudrait que l’Eglise emploie sa
force spirituelle non contre le capitalisme democratique, ce qui
est souvent le cas, mais contre l’erreur, l’abus, le péchè, à
l’intèrieur du seul système capable de produire du dèveloppement”
(“In una parola, il bene comune vorrebbe che la Chiesa impiegasse
la sua forza spirituale con contro il capitalismo democratico, ma
contro l’errore, l’abuso, il peccato, all’interno del solo sistema
capace di produrre profitto”)
(Jacques Paternot, Gabriel Veraldi,“
Dio è contro l’economia”)
Marco Vitale - Economista d’Impresa e presidente dell’A.I.F.I : Associazione Italiana degli
Investitori Istituzionali nel Capitale di Rischio.
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Profitto e bene comune, come renderli compatibili. Non è la prima volta che vengo invitato a
parlare su questo argomento. Stranamente, invece, nessuno mi ha mai invitato a parlare di : perdite e bene comune, come
renderli compatibili. Quasi che per le perdite il problema non si ponesse.
Quasi che le perdite fossero naturalmente compatibili con il bene comune. Ed, in effetti, così è per
quella parte della Chiesa che ha confuso l’opzione per i poveri con l’opzione per la povertà.
Lo stesso vale per quella parte della Chiesa che ha tradotto l’opzione per i poveri in un acritico
appiattimento sulla filosofia e l’etica socialista.
E vale, infine, per quella altrettanto grande parte della Chiesa, anzi delle Chiese, che hanno, su
questo abbrivo, cavalcato il terzomondismo ideologico di matrice leninista (“L’imperialismo stadio
supremo del capitalismo”), contribuendo con la propria autorità a dar vita a quel grande movimento
trasversale ed internazionale, che è stato chiamato “christianisme - lèninisme”, che ha causato
enormi danni ai poveri della terra, ritardando di decenni le possibilità di sviluppo in molti paesi e
sostenendo le criminali oligarchie cleptocratiche.
Non posso certo documentare, in questa sede, queste affermazioni ma, ormai, le cortine fumogene
si sono allentate sotto la pressione dei fatti e la documentazione critica che c’era anche in passato
ma restava inascoltata, è diventata schiacciante, sicché non si può far finta di non ascoltarle.
Le ragioni di tutto ciò sono molto profonde. Le lontane radici della Chiesa sono calate in
un’economia agro-pastorale ed artigianale (non dimentichiamo, peraltro, che il padre terreno di
Gesù è un falegname, un piccolo imprenditore che svolge un’attività che rappresenta una delle
punte avanzate della tecnologia del tempo), un’economia caratterizzata dall’assenza di sviluppo,
un’economia che viene chiamata a somma zero, per indicare che l’aumento di reddito di una
persona coincide con l’impoverimento di un’altra dove, dunque, il fattore distributivo è dominante
rispetto al fattore produttivo.
Questa economia a somma zero è durata per millenni ed era la base della politica di rapina, delle
lotte terribili per i territori, della schiavitù, che hanno dominato, insieme alla fame ed alle epidemie,
la terra dei secoli che una fantasiosa tradizione ci ha tramandato come idilliaci.
L’economia a somma zero è stata contrastata, sul piano del pensiero, dalla rivoluzione scientifica.
Gl’ideologi della rivoluzione scientifica, i baconiani, nel loro primo manifesto si prefiggono
esplicitamente per la prima volta nella storia dell’uomo, tra gli obiettivi della rivoluzione
scientifica, quello dell’eliminazione della povertà, mentre nella prima “History of Royal Society of
England”, pubblicata a Londra, nel 1667 appare, per la prima volta, l’espressione - obiettivo :
“plenty”, abbondanza.
Ma per i paesi più evoluti d’Europa, l’economia a somma zero incomincia ad essere scalfitta
concretamente solo sullo scorcio del XIX secolo, quando la rivoluzione industriale incomincia a
dare i suoi primi frutti,
Sino a tutto il 1700 non vi è molta differenza fra i contadini francesi o italiani, quelli egiziani del
tempo dei Faraoni e quelli loro contemporanei delle Indie, con le ricorrenti carestie ed epidemie.
Calata, da 1800 anni, nell’etica dell’economia a somma zero la Chiesa resta impegnata nel
prezioso compito di alleviarne, sul piano spirituale e materiale, le conseguenze.
Ma essa non coglie la natura profondamente innovativa dell’industrializzazione, dell’economia
dello sviluppo, della logica e della potenzialità dell’economia creatrice imprenditoriale : si può
creare crescita economica e sviluppo per tutti, senza togliere niente a nessuno, ma semplicemente
producendo di più e meglio.
Nonostante la corretta impostazione della Rerum Novarum, il grosso delle Chiese continuerà a
lungo a non cogliere i tratti di fondo della nuova economia, se è vero che, ancora nel 1961, un
famoso cardinale olandese (Alfrink) dichiara : “i marxisti sono stati i più fedeli alle Scritture,
perché hanno donato del pane a chi aveva fame”.
Eppure il 1961 è proprio l’anno in cui persino la Pravda deve ammettere che la politica agricola di
Kruschov è stata un totale fallimento e che in numerose regioni dell’URSS rivolte armate da fame
hanno dovuto essere sedate dalle truppe speciali del KGB.
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Se è vero che tutti gli anni ’60 sono gli anni in cui il grosso del mondo cattolico, per quanto
riguarda i temi dello sviluppo, si appiattisce dietro le rovinose posizioni del cattolico argentino
Raoul Prebisch, l’influente segretario generale della Conferenza permanente delle Nazioni Unite sul
Commercio e lo Sviluppo, che sostiene tesi pauperiste, nazionaliste, stataliste, che rileveranno un
autentico disastro per il Terzo Mondo, mentre nulla si fa per limitare i rovinosi regimi neo-feudali
che dominano e soffocano quei paesi.
E’ del 1972 il testo della Commissione episcopale francese che afferma :”Tout en refusant de
canoniser l’option socialiste, et en reconnaissant les dèviations des certains rèalisations, bien de
militant chrétiens pense qu’il y a une cohèrence profonde entre la vision de l’homme selon la
béatitude évangélique et celle qui inspire leur projet politique : Dieu, disent-ils, a crée tous les
hommes égaux ; nous devons répondre au dessein de Dieu. Ils disent aussi : des proiets socialistes
chechent à promouvoir dans le fait une vie fraternelle. Un telle démarche peut nous déconcentrer.
Elle rrejoint, en fait, un grand courant de La Tradition”.
Alla fine la Conférence episcopale rifiuta l’opzione marxista ma in termini confusi, passando,
attraverso una negazione di fondo dell’economia imprenditoriale e mostrando una grande simpatia
per i sistemi socialisti, nei quali “la pauvreté est répartie entre tous”.
Dello stesso tono è la Lettera pastorale dei vescovi americani del 1986. E’ qui mi fermo perché se
allargassimo l’esame a cosa è stato detto nell’ambito del filone Terzomondista da molti uomini di
Chiesa e pensatori cattolici negli anni ’70 e ’80, noi troveremmo non solo affermazioni scandalose,
sul piano dei fatti, della verità, dell’onestà intellettuale, ma anche in palese deviazione dai
fondamentali della dottrina sociale della Chiesa (anche se la Popolorum Progressio - 1967 - è
chiaramente a favore di quello che si chiama “Mondial-Socialisme”).
Ed è di un anno dopo (1968) la dichiarazione di Medellin, dei 150 vescovi sud-americani che
adottano, ufficialmente, le teorie di Roul Prebisch, ed aprono la via all’esplodere della teologia della
liberazione il cui motto è “io sono masrxista perché sono cristiano”.
In queste teorie non vi è spazio per l’impresa, per il profitto, per il riscatto basato sulla dignità
della persona, sulla liberazione delle energie, sull’iniziativa individuale, sulla responsabilità
personale : “Queste omelie economiche appaiono forzatamente, agli occhi dei professionisti che
producono e non si accontentano di questuare (elemosinare), come delle speculazioni di
intellettuali irresponsabili. Molto semplicemente non sono credibili. Ne risulta per i nostri preti e
pastori una perdita di prestigio e di fiducia al tempo stesso nociva. Tanto più che danno sempre più
l’impressione di non interessarsi che all’economia e allo sviluppo. Si può assistere per delle
settimane alle orazioni senza sentire una predicazione (predica) spirituale. Di che stupirsi che le
chiese si vuotino, che i grandi seminari deserti siano affittati all’amministrazione civile e i
confessionali venduti agli antiquari - non ci si confessa più : non ci sono più peccati capitali, ma
solamente il peccato del capitale.”(Paternot,Veraldi).
La Chiesa dopo aver perso l’appuntamento con la rivoluzione scientifica, quello con la rivoluzione
industriale, perde anche, offuscata dal socialistume melenso e trascinata dall’improprio processo di
santificazione del terzomondismo, l’appuntamento con lo sviluppo, che pure aveva saputo definire
con la magnifica espressione di Paolo VI “lo sviluppo è il nuovo nome della Pace” :
Perché poi lo sviluppo, nonostante tutti gli sforzi contrari degli organismi internazionali, viene,
come di tutte le cose umane, faticoso, contraddittorio, difficile, pieno di cadute ma viene davvero,
quasi inaspettato, nel corso degli anni ’80 e ’90, quando ormai nessun esperto ci credeva più.
Tutto l’estremo oriente è su questa via. Tutto il Sudamerica, liberatosi non solo dai generali ma
anche dalle demenziali teorie del cattolico Prebisch, è sulla buona strada.
Anche fette importanti dell’Africa si sono staccate dalla maledizione che sembra avvolgere questo
continente.
Certo nulla è pacifico, nulla è definito, nulla è facile, tutto è da riconquistare giorno per giorno,
dagli uomini di buona volontà e, tra questi, dagli uomini d’impresa, attori principali, anche se non
soli, dell’economia dello sviluppo.
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Ma, adesso, sappiamo come si fa : Al di là di ogni possibile dubbio. Sappiamo che non è con le
perdite che si fa il bene comune. Sappiamo che non è con il finto lavoro che si crea il lavoro,
sappiamo che non è con l’assistenza che si crea la solidarietà vera, sappiamo che non è con la
condiscendenza che si creano le persone necessarie per lo sviluppo, uomini e donne vere, che
conoscono la durezza della competizione, ma anche l’appagamento interiore di chi sa operare, di
chi, per dirla con il bellissimo verso di Omero :”sa dire parole e fare fatti”, di chi vede i frutti del
proprio operato e chiede di essere giudicato dai propri frutti.
Farebbero meglio al bene comune del Mezzogiorno, 10 banche locali severamente gestite, che
facciano profitti adeguati al proprio compito (come voleva Don Sturzo fondatore e rigoroso gestore
di casse rurali), o un Banco di Napoli e quasi tutte le altre principali banche del Sud, allo sbando,
gravate da migliaia di miliardi di perdite, frutto della criminalità sociale e della benevolenza fra
amici degli amici, con la quale sono state gestite, facilitate dall’incredibile cecità della Banca
d’Italia, che dovrebbe impedire che queste degenerazioni avvengano su così larga scala.
A che cosa sono serviti i 14.000 miliardi di perdite con le quali si è chiusa la liquidazione
dell’Efim, creature del cattolico Piccoli e supremo monumento all’irresponsabilità del management
di partito, di netta estrazione democristiana ? Quale solidarietà hanno, queste perdite, creato, quali
competenze hanno diffuso, quali sviluppi futuri hanno innestato, quali stabili posti di lavoro hanno
costruito ? E quante di queste risorse sono state semplicemente sperperate e, più precisamente,
rubate dai servi infedeli che non vogliono far fruttare i talenti e che non vogliono rendere conto dei
frutti prodotti ? E dove sono andate a finire queste risorse rubate ? sono andate, in gran parte, in
ville lussuose, in investimenti esotici, in panfili.
L’Italia è il secondo paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, come numero di clienti di barche da
biporto oltre i 40 metri.
E questo non tanto perché ha molti imprenditori di successo, ma soprattutto perché ha la più
poderosa classe di ladri di denaro pubblico e privato del mondo, se si eccentuano pochi paesi
africani, asiatici e sudamericani.
Ma questo non c’entra con il capitalismo, non c’entra con il mercato. Questo è contro l’impresa, è
contro il profitto d’impresa, è contro il mercato.
Queste degenerazioni, anzi, sono favorite dall’assenza del vincolo del profitto, del dovere del
profitto, come ci ha insegnato una volta per tutte la parabola dei talenti, perché è attraverso questa
assenza che s’infiltrano irresponsabilità di gestione, selezioni non per professionalità ma per
appartenenza, assenza di creazione di produttività (vero obiettivo di ogni impresa), lievitazione dei
costi, irresponsabilità, privilegi, nepotismi, nomenklatura, saccheggi di denaro pubblico e,
attraverso la compiacenza delle banche, esproprio del denaro dei risparmiatori.
Oggi, sappiamo come si fa, come si crea sviluppo e come si crea desviluppo. Sappiamo, ad
esempio, che la Sicilia non avrà mai più lo sviluppo (pur avendo tutte le risorse naturali, culturali,
umane, per svilupparsi) e che resterà indietro non rispetto all’Inghilterra, ma a Malta, alla Grecia,
alla Libia, a Creta, a Cipro e, credo, anche rispetto alla Tunisia, sino a quando non si libererà della
sua classe dirigente, in gran parte, corrotta ed infame e dalla cultura e dalla violenza mafiosa.
In questo sforzo essa deve certo avere la nostra solidarietà intellettuale e morale, ma tocca innanzi
tutto a lei liberarsi da questi mali che lei stessa ha creato e che affondano le radici non nel
capitalismo del quale sono anzi la negazione, ma nell’economia di rapina propria dei secoli passati,
nel latinfondismo, nel neo-feudalesimo, nella sterminata capacità corruttrice del denaro pubblico
distribuito a mo’ di elemosina, grazie ad un malinteso senso di solidarietà (che è, poi, solo o
prevalentemente assistenzialismo e mercato dei voti).
Dunque sappiamo come si fa. Non sono più possibili imbrogli. Sotto questo profilo gli anni ’90
sono stati rivelatori e liberatori in tutto il mondo. Paternot e Veraldi sono riusciti a sintetizzare tutto
ciò in poche leggi dello sviluppo, molto efficaci e che trovano un grande riscontro nei fatti:
Prima legge dello sviluppo :
“Le progrès social naìt du progrès économique, qui résult lui-méme des gains de productivitè
obtenus gràce au progrès technique et à la coopération des hommes dans des entreprises visant à
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créer de la richesse”. (“Il progresso sociale nasce dal progresso economico, che a sua volta risulta
dai guadagni di produttività ottenuti grazie al progresso tecnico e alla cooperazione degli uomini
in imprese che mirano a creare ricchezza”.
Seconda legge dello sviluppo :
“Le progrès économique et les gains de productivité n’ont été rendus possibles que par
l’instauration du système capitaliste”. (“Il progresso economico e i guadagni di produttività non
sono stati resi possibili se non attraverso l’instaurarsi del sistema capitalistico”).
Terza legge dello sviluppo :
“Le capitalisme générateur de progrès ècpnomique, combiné avec la démocratie a permis le
progrès social”. (“Il capitalismo, generatore di progresso economico, combinato con la democrazia
ha permesso il progresso sociale”).
Quarta legge dello sviluppo :
“Le capitalisme, qui engendre le progrès économique, et la dèmocratie, qui détermine le progrès
social, sont en corrélation ed procèdent des mèmes motivations psychosociales, ou du mème
“esprit”. Le dèveloppement est en fin de compte un corollair d’un certain état d’esprit”. (“Il
capitalismo che genera il progresso economico, e la democrazia, che determina il progresso
sociale, sono in correlazione e procedono dalle stesse motivazioni psicosociali, o dallo stesso
“spirito”. Lo sviluppo è in fin dei conti un corollario di un certo stato di spirito.”)
Teorema breve :
“L’aptitude d’un peuple à se développer est directement proportionelle à sa capacité de créer des
entreprises, agricoles, artisanales, industrielles, de services, ed de les gérer sainement dans la durée.
Cette capacité est fonction du systéme éthique et culturel du peuple considéré. Le développement
intégral - technique - économique, politique - social, culturel-spirituel-n’est bien assuré que par le
développement spécifique ed coordonné des trois dimensions du système, que l’on peut appeler «
(“L’attitudine di un popolo a svilupparsi è direttamente proporzionale alla sua capacità a creare
delle imprese agricole, artigianali, industriali, di servizio, e di gestire in maniera sana nel tempo.
Questa capacità è funzione del sistema etico e culturale del popolo considerato. Lo sviluppo
integrale-tecnico-economico, politico-sociale,culturale-spirituale- non è ben assicurato se non
dallo sviluppo specifico e coordinato dalle tre dimensioni del sistema, che si può chiamare”)
CAPITALISMO DEMOCRATICO ED ETICO”.
Il profitto è una semplice misura contabile-finanziaria e, di per sé, non dice nulla, né in negativo né
in positivo.
Ciò che conta è da dove viene e dove va, come è stato ottenuto e per quale scopo, per quale
utilizzo. Noi non mettiamo nel concetto di profitto i guadagni criminale della mafia, come non
mettiamo quelli dei pirati che ancora oggi operano al largo dell’isola di Socotra, né le tangenti dei
funzionari pubblici e dei giudici corrotti, né i profitti delle imprese sovvenzionate.
Noi parliamo di profitto d’impresa, società di lavoro, realizzato grazie al proprio buon lavoro,
come sancito dai clienti sul libero mercato.
L’impresa è uno dei più importanti soggetti intermedi della società umana, il luogo dove si
realizza, in via principale, il processo di accumulazione del sapere pratico dell’uomo. Il tipo di
profitto, che discende dal processo di accumulazione del sapere pratico e che viene utilizzato e
distribuito rispettando l’obiettivo, il dovere, la responsabilità morale, di gestire le imprese (bene
sociale a proprietà privata), “sainement dans la durée”, è un profitto fertile e per questo è,
naturalmente ed armoniosamente, non solo compatibile ma anche convergente con il bene comune.
Ma l’impresa,e, quindi, anche il profitto non vive nel vuoto ; è soggetto intermedio di una data
società e collettività.
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Essa ha, come tutti i soggetti umani, bisogno di un sistema generale nel quale inserirsi, un sistema
di valori comuni, delle buone leggi che ne temperino gli eccessi, che ne sanzionino i peccati, degli
indirizzi generali che ne guidino i passi e ne illuminino le strategie, dei principi che la difendano
dalla “nuova classe”.
E qui permettetemi una lunga citazione del bellissimo libro di Michael Novack : “Questo emisfero
di libertà (1992)”. So che le lunghe citazioni non sono mai apprezzate, ma io sento il bisogno di
condividere con voi queste lucidissime parole :
“Quest’ultimo punto richiede un’elaborazione. Un economista italiano una volta mi spiegò, nel
corso di un dibattito televisivo in Italia :”Voi capitalisti non riuscite a segnare un punto importante
in vostro favore. In Italia l’effetto del capitalismo è stato di far sì che i lavoratori diventassero
classe media, privandoci del proletariato. Di conseguenza, ora, la gente che il nostro partito riesce
ad organizzare meglio sono gli studenti, il clero e i professori.”. Si tratta di una variante
dell’argomento trattato dal filosofo iugoslavo Milovan Djilas in The New Class. Quando le società
moderne educano grandi quantità di cittadini e quando i governi moderni impiegano la maggior
parte dei lavoratori, creano una “nuova classe” composta da lavoratori della “industria del
sapere”, della “industria delle comunicazioni” e del governo. Questa nuova classe ha in genere un
acceso interesse materiale e ideologico per un governo forte e per la gestione statale degli altri
cittadini. I suoi interessi si rivolgono meno alla classe lavoratrice classica, meno alla piccola
impresa, meno alle grandi corporazioni e più alla burocrazia, alle società e alle banche statali.
Questa nuova classe è potente. Forma una nuova élite i cui membri principali sono non solo
altamente istruiti ed abili nell’esporre idee e politica, ma anche molto potenti nell’indirizzare
l’opinione pubblica. In altre parole, questa nuova classe è diventata, per molti versi, la classe più
potente delle società moderne.
Inoltre questa nuova classe parla spesso dei poveri, usandoli come strumento retorico del proprio
potere. Tipicamente, tuttavia, le sue raccomandazioni offrono ben poco che possa effettivamente
aiutare i poveri a non esserlo più o a diventare più attivi ed efficaci nel conseguimento della
liberazione economica. In pratica la nuova classe è spesso a favore di un povero “controllato”,
piuttosto che di un povero indipendente ed autosufficiente.
Sono in primo luogo le idee che spingono e interessano questa nuova classe. Sebbene attratti
storicamente dallo statalismo, molti dei suoi membri, negli ultimi anni, sono giunti a vederlo come
un errore. Rifiutano l’idea che “progresso” significhi maggior potere allo Stato. Invece, per loro,
la nuova idea di progresso si basa sulla creatività di ogni singola persona - sull’iniziativa
economica, sulla democrazia politica, e su un pluralismo di discussione aperta più attivo, energico
e civile.
Così, anche nell’Unione Sovietica, “liberale” è diventato un termine positivo, e
“liberalizzazione”, “apertura”, “privatizzazione”, “iniziativa”, “intraprendenza” significano
forze di progresso nuove e potenti, che hanno radici nell’ingegno e nell’immaginazione individuale.
Dato che la nuova classe è aperta a nuove idee, può benissimo preferire la libertà allo statalismo,
“cercare la verità per mezzo dei fatti” (Deng Xiaoping) e imparare dalla realtà che la liberazione
dei poveri si raggiunge meglio dando loro il potere di usare la propria grande creatività
economica. La maggioranza dei poveri, in effetti, non è composta di proletari ma di micro-
imprenditori che hanno bisogno di un sistema favorevole alla piccola impresa. Sono sempre di più
gli intellettuali che, nel mondo, iniziano ad accorgersene, spesso in seguito al fallimento di altri
metodi.
La nascita della nuova classe crea una situazione inedita per coloro che sono a capo delle
imprese commerciali. Ciò perché l’arma della nuova classe sono le idee, idee che possono o dare
forza al potere dello Stato tradizionale o, al contrario, dare nuova portata alla libertà economica.
La maggioranza di coloro che si occupano di affari è ben poco preparata a dar battaglia nel
mondo delle idee. Persone prevalentemente pratiche, spesso sono incapaci di esprimersi in un
contesto non familiare. A volte non sono molto istruite e non conoscono neanche gli argomenti di
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base. Si difendono male, non riescono neanche a riconoscere l’importanza del proprio lavoro per
la liberazione dei poveri dalla schiavitù della miseria tradizionale.
In America Latina, ad esempio, milioni e milioni di adulti sani sono o disoccupati o sottoccupati.
Chi creerà nuovi posti di lavoro per questa gente ? Chi aiuterà a stimolare e a sostenere i milioni
di nuove imprese necessarie a raggiungere la piena occupazione ? Al contempo, c’è una quantità
immensa di lavoro ancora da fare. C’è bisogno di costruire e arredare meglio milioni di case.
Bisogna lastricare vie e strade. Milioni di cittadini non hanno le comodità domestiche comuni -
elettricità, frigorifero, una buona cucina, etc. Chi unirà queste due risorse - il lavoro creativo da
fare e i lavoratori disoccupati - se non gli uomini e le donne che hanno iniziative, immaginazione e
abilità pratica ? La liberazione dei poveri in America Latina dipende, più che da ogni altro fattore,
dalla creatività degli uomini d’affari nel settore privato. La loro responsabilità per il destino dei
poveri in America Latina è immensa. La loro vocazione è nobile, perché i poveri dipendono molto
più da loro che dal governo, o dalla nuova classe o da chiunque altro. Ma gli uomini e le donne
d’affari devono arrivare ad aiutare i poveri sia nel mondo reale sia nel mondo delle idee. Devono
unire queste due cose : il lavoro da fare e i lavoratori per farlo.
E’ soprattutto per tale ragione che una delle loro maggiori responsabilità risiede oggi nel mondo
delle idee, un ambito per loro nuovo. Devono essere gli architetti della liberazione, offrendo una
visione di come i poveri saranno liberati dalla tradizionale miseria per divenire economicamente
creativi. Devono inventare istituzioni per il credito, per un’economica e semplice costituzione
legale di impresa, per l’istruzione concernente abilità e metodi, così che i poveri possano iniziare
ad esercitare il fondamentale diritto all’iniziativa economica personale data loro da Dio. Se non lo
faranno gli uomini d’affari, chi lo farà ? Il governo non può. La nuova classe dà pochi segni,
finora, di pensarci anche minimamente. La responsabilità maggiore ricade su coloro che operano
nel settore privato”.
Questa impostazione non vuol,e essere una acritica apologia dell’impresa, ma solo un contributo
alla sua conoscenza.
Certamente un contributo appassionato, dove la passione è direttamente proporzionale alla
deplorevole ignoranza che dell’impresa ha sempre fatto sfoggio la grande maggioranza del mondo
cattolico.
Ed è anche proporzionale alla speranza che il mondo cattolico, abbandonando l’accattonaggio di
idee statalistiche e socialistoidi, ritrovi nei suoi stessi fondamenti etici la forza e la lucidità per
essere presente alle difficili sfide che l’impresa deve affrontare.
Fondamenti che sono, in misura maggiore che in ogni altra religione, radicati nella libertà, nel
ruolo centrale della persona, nel principio di responsabilità individuale, valori questi tutti essenziali
per quel sistema dell’economia imprenditoriale e della responsabilità che si intravede come
sviluppo logico, possibile, auspicabile.
E questa speranza, invero, non è priva di segnali. Basti pensare alla Centesimus Annus, un
documento che segna una svolta storica nel pensiero economico della Chiesa ma che è stato quasi
subito abbandonato dalla struttura della Chiesa invece di essere inteso come punto di partenza per
l’opera di approfondimento e divulgazione che esso meritava.
Ma molto interessante è anche rimarcare la grande differenza fra la citata posizione
dell’Episcopato francese del 1972 e quella del 1988 : “Face au défi du chòmage : Crèer et
partager” : “On ne peut aujourd’hui se satisfair de rechercher plus de justice au oyen du partage,
méme s’il demeure nécessaire. Il faut de plus combattre l’inertie e le découragement qui
compromettent la créativité et l’esprit d’entreprise”. En marge, les pères jésuites du CERAS notent
judicieusement :”Le discours sur l’esprit d’entreprise comme valeur n’est pas si commun dans
l’Eglise ; il vaut la pein d’étre souligné”. (Paternot - Veraldi).
Troppo a lungo la Chiesa cattolica ed il pensiero cattolico ci hanno lasciato soli in questa dura
fatica di costruire un’economia decente, l’economia dell’imprenditorialità e della responsabilità.
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Io ho sempre insegnato ai miei allievi che la responsabilità dello sviluppo, che è qualcosa di più e
di diverso della crescita economica, ma che la presuppone, è un peso troppo grande ed improprio
per la sola impresa.
A questo disegno tutti devono contribuire rispondendo al proprio specifico mandato. Siamo tutti
viandanti che camminano verso un crocicchio.
Nella bisaccia ognuno porta i suoi specifici doni. Al crocicchio tutti, uomini d’impresa, filosofi,
sacerdoti, poeti, amministratori pubblici, tecnici, operai, contadini, ci ritroviamo e ci scambiamo i
reciproci doni.
Se ognuno porterà dei doni sani e se lo scambio avverrà con rispetto reciproco e con spirito di
verità, la formula di sviluppo che ne uscirà sarà positiva.
Gli uomini di impresa devono avviarsi verso il crocicchio , senza complessi o timori, ma con una
serena consapevolezza della fertilità e dell’importanza della propria opera.
Creare imprese e gestirle sanamente nel tempo è un compito difficilissimo, importantissimo,
nobilissimo.
Fare impresa seriamente è grande fatica fisica, intellettuale, morale, soprattutto in un paese dove lo
statalismo è sempre dominante, legittimato com’è, continuamente, dalla cultura socialistoide e
cattolica, e dove è stata sempre alimentata una cultura anti impresa costruita sulla e nella falsità,
piegando regolarmente i fatti agli ideologismi.
Per questo io mi sento di rivolgere ai veri uomini di impresa le bellissime parole che Coluccio
Salutati indirizzo ai mercanti fiorentini, pionieri dello sviluppo, del commercio internazionale, della
società aperta : “Agli uomini fortissimi, perché hanno vinto le mostruose fatiche della terra, siano
date debitamente le stelle”.
Marco Vitale
Scritto in volo fra le Isole Shychelles e Gedda (Arabia Saudita) il 6 aprile 1997
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DON ALFIO SPAMPINATO
L’ETICA NELL’ECONOMIA
UNA SIDA PER
IL NUOVO MILLENNIO
“La vita soprannaturale influisce su quella naturale e viceversa; vi
è uno scambio importante fra l’una e l’altra; non solo nelle attività
dell’intelletto e della volontà, ma anche nella realtà sensibile del
nostro corpo. Le esperienze soprannaturali si compiono nel nostro
essere naturale e le funzionalità delle due vite s’intramano l’una
con l’altra in un’efficacia reciproca e continua” (in “La Vera Vita -
sociologia del soprannaturale” di Luigi Sturzo)
Don Alfio Spampinato - nato a Catania nel 1953, viene ordinato sacerdote nel 1990 ; consegue
Baccalaureato in Teologia e quindi la licenza in Scienze Sociali, specializzandosi nella Dottrina
Sociale della Chiesa ed etica dell’economia. Attualmente è docente presso lo Studio Teologico
S.Paolo e l’Istituto Superiore di Scienze religiose S. Luca di Catania. E’ Inoltre cappellano del
carcere di massima sicurezza di Catania-Bicocca e parroco a Librino, uno dei quartieri-ghetto della
periferia di Catania
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Ringrazio chi mi ha lasciato la parola e mi ricollego alla sua citazione dell’onorevole Rosy Bindi.
Lo conosciuta a Roma e proprio per questo non vorrei rischiare di mancare di carità ; però, la
migliore definizione politica su di lei l’ha data Vittorio Sgarbi, ed io ve la ripeto : “E’ molto più
bella di quanto non sia intelligente”.
Il guaio, per l’Italia, è che “intelligenti” politicamente quanto lei (ed anche meno) ce ne sono
tantissimi altri, anche troppi.
Ci sono, cioè, moltissime persone impegnate a dirigere la cosa pubblica, incapaci di “Intus-
Legere” nei fatti, nei processi politici ed economici, tanto sono presi da una pseudo realtà
ideologica impossibile a realizzarsi.
E questo vale anche per tantissimi uomini di Chiesa, chierici e laici, i quali, benchè sedicenti
cristiani e cattolici, sconoscendo ciò che veramente il Vangelo dice, non riescono a leggere dentro
la realtà, mancando di proprio la luce della Parola di Dio, la conoscenza delle Sacre Scritture.
Questo si riflette nella prassi, anche in quella economica ed etica. Come ha affermato
magistralmente Marco Vitale, molti hanno creduto e credono di applicare il Vangelo rendendo tutti
più poveri e non, invece, più ricchi o, se si vuole, meno poveri.
Molti conoscono tutte le pie devozioni ma ignorano, per esempio, la parabola dei talenti, dove il
senso - non solo spirituale - è quello che le ricchezze devono essere messe a frutto.
Volendo ben considerare, il servo infingardo, è l’esemplare dello statalista, che restituisce quanto
ha ricevuto svalutato.
In questa mia relazione - conversazione vorrei puntualizzare alcune cose sotto i diversi aspetti,
parlando sia come presbitero sia come studioso di economia, affermando, anzitutto, che essa va
male perché non si è inteso il vero senso dell’agire da cristiano nelle realtà temporali.
Questa constatazione la feci quando ebbi la mia prima ed ultima crisi vocazionale, in seminario.
Non per colpa di una donna o di chissà che cosa, ma in seguito alla mia gestione del servizio di
fotocopiatura dello Studio Teologico.
I miei compagni di studi mi prendevano benevolmente in giro dicendo che mentre loro si
occupavano della “Economia della Salvezza”, io mi occupavo della “Salvezza della Economia”. In
parte ciò era vero, visto che cercavo di mettere a frutto, anche se su scala ridotta, la mia esperienza
precedente di agente di commercio e le cognizioni acquisite che mi avevano aiutato a vincere un
concorso per essere assunto in banca.
Sulla base delle mie esperienze cominciai a gestire il servizio delle fotocopie in modo diverso da
come l’aveva gestito una piissima signorina, cosi buona da non far pagare quasi nessuno, da fare
credito a tutti e non esigere, e da accumulare un passivo di mezzo milione, arrivando a non poter più
acquistare ne la carta, ne gli altri materiali necessari a mandare avanti il servizio stesso.
Decisi, subentrando, di ripianare il passivo recuperando i crediti e riducendo le spese inutili e
quindi generare profitto.
Chiesi un abbonamento per duecento fotocopie anticipate e con gl’incassi degli abbonamenti potei
cominciare ad acquistare grosse partite di carta usufruendo di vari sconti ed agevolazioni,
calcolando un ricarico su ogni fotocopia che ottenesse il risultato di ridurre il prezzo pur
guadagnandoci.
Appena sentito parlare di “guadagno” e di “profitto” si riunì il “sinedrio” : il comitato degli
studenti andò a lamentarsi col Preside dicendo che era “immorale” che io guadagnassi.
Fui difeso dal Preside - docente di teologia morale - il quale argomentò che sarebbe stato immorale
se io, in quella sede, avessi guadagnato per mettermi in tasca l’utile, non se io lo avessi reinvestito a
pro della istituzione e del servizio, cosa che regolarmente facevo e di cui gli davo il rendiconto.
Lasciato il mio posto, evitai di lasciare il seminario, e quando lasciai il servizio perché ordinato
diacono e mandato a studiare a Roma, ho consegnato al mio successore una piccola tipografia, con
scorte di materiali e un fondo cassa di alcuni milioni
In che cosa consiste la mia crisi ? Non nell’essere stato attaccato, piuttosto nel vedere che una
struttura che parlava di Carità non sapeva come si fa la Carità.
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E’ dire che una parte dei profitti era “investita” nel dare sussidi agli studenti non possidenti !
Ancora oggi vedo come si parla di Carità pensando alla elemosina e non alla formazione ed
organizzazione di strutture economiche capaci di generare un profitto che permetta chi ne ha
bisogno di mettere su un’impresa e guadagnare il proprio pane con le proprie mani, senza essere più
“caritatevoli - dipendente”, andando in giro da dietro una porta di Chiesa all’altra.
Stesse problematiche le affrontai in Diocesi quando venni incaricato della amministrazione del
patrimonio dell’Ente Arcidiocesi ; avevo pensato di vendere tutte quelle proprietà inutili per tenere
solo quella parte del patrimonio che fosse realmente produttiva, investendo il ricavato in operazioni
finanziarie tese a costituire imprese produttrici di profitto e quindi di redditi.
Purtroppo, la maggior parte delle persone di Chiesa, pur non essendo malvagie, impediscono a chi
può di fare il bene, perché ignorano certi meccanismi economici e gestiscono il patrimonio
ecclesiale col criterio dei conti della serva.
Non sono tutti i Vescovi o i preti che fanno così, però quelli che fanno il contrario sono ancora
troppo pochi.
Non si riesce a comprendere dai più che investire le offerte, le donazioni, le elemosine per
produrre ricchezza serve a sollevare tanti fratelli poveri, dando loro la possibilità che la Bibbia così
esprime nel Salmo 126 : “Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai di ogni bene”.
Vivrai e godrai del lavoro, non dell’assistenzialismo parassitario, del sussidio elargito una tantum !
Questo avviene perché si dimentica la lezione di Luigi Sturzo o, qualche secolo prima di lui, di
Sant’Antonino di Firenze, che ha teorizzato il frutto del capitale preoccupandosi del giusto
guadagno contro la piaga dell’usura.
Fare fruttare ciò che si riceve, investendolo onestamente, in fondo contribuisce a perseguire il bene
comune che la Dottrina sociale della Chiesa afferma essere “uno dei principi e dei valori essenziali
che costituiscono il motore della vita sociale e che nell’accezione più immediata significa il bene di
tutti in contrapposizione al bene di uno solo. Nel termine bene essendo compreso non solo il
risolvimento di un beneficio materiale ed economico, ma anche spirituale, morale e culturale ;
nell’aggettivo comune si specifica, invece, che questo è riferito ad un insieme di persone senza
esclusione di alcuno, ovvero ad un gruppo, ad una comunità, ad una società, ad una nazione, alla
famiglia umana nella sua universalità e totalità”.
Se andiamo a rileggere l’Enciclica Mater et Mgistra (79/80) vi troviamo una articolazione dei
contenuti del bene comune, nazionale e mondiale, con una accentuazione economica : “dare
occupazione al maggior numero di lavoratori ; evitare che si costituiscano categorie privilegiate e
mantenere una equa proporzione fra salari e prezzi ; rendere accessibili i beni ed i servizi al
maggior numero dei cittadini ; eliminare e contenere gli squilibri nel settore dell’agricoltura e
dell’industria dei servizi ; realizzare l’equilibrio tra espansione economica e sviluppo dei servizi
pubblici essenziali ; adeguare le strutture produttive ai progressi della scienza e della tecnica ;
contemperare i miglioramenti del tenore di vita della generazione presente con l’obiettivo di
preparare un mondo migliore alle generazioni future ; evitare ogni forma di sleale concorrenza tra
le economie dei diversi paesi ; favorire la collaborazione tra le economie nazionali con intese
feconde ; cooperare allo sviluppo economico delle comunità politiche economicamente non
progredite”.
Altre definizioni si possono dare con maggiori specificazioni ; sta di fatto che non è certo lo
statalismo o il pauperismo che permette di raggiungere simili mete auspicate.
Se si parla di equa distribuzione si sottintende che deve esserci qualche cosa da distribuire e questo
non è la miseria.
Quelli che dicono “mal comune, mezzo gaudio” costoro ignorano che il gaudio la Scrittura lo
associa sia la benessere spirituale che a quello materiale : “c’è gioia nel mio cuore come quando
abbonda vino e frumento”.
E’ vero che il digiuno fa parte delle pratiche della nostra religione, ma in quaresima, di venerdì, in
una parte dell’anno, non tutto l’anno. Il Signore non vuole che si stia sempre a pancia vuota, anzi, ci
comanda di dare da mangiare agli affamati.
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La Chiesa ha visto in ogni pauperismo una eresia. Nel medio evo i Papi proibirono ai francescani
di non possedere nulla per evitare, lo dice Sturzo in un’opera che cito nel mio libro, che fossero dei
parassiti. Poveri si, accattoni no !
Il fatto è che spesso ci si appoggia a certezze umane ; in un periodo a noi vcino queste certezze
sembrarono coincidere con il marxismo, vedendo in esso una sorta di “politicizzazione” del
cristianesimo, legato com’è alla figura di Marx, israelita, figlio di rabbino. Vi si volle vedere una
sorta di profetismo laico.
Il guaio che tale visione, fatta propria da un La Pira, da un Dossetti - santi uomini che, però,
politicamente hanno fatto tantissimi danni - ha impedito di vedere la ragione dove si trovava : nelle
idee di Sturzo, ovvero nella sua elaborazione politica della ortodossia della Chiesa, la Rerum
Novarum di Leone XIII.
Queste persone, bravissime a pregare e un po’ meno ad operare concretamente, non hanno capito
che certe utopie pauperiste hanno cercato di danneggiare la Chiesa e la società civile, in quanto ci
hanno spinto, fra l’altro, in un sociologismo religioso ed in un ateismo pratico. Non è, infatti,
l’assenza di competizione, che fa la fratellanza ; non è l’avere un profitto che è anticristiano,
semmai è il non dividerlo o il non produrlo.
Ho voluto puntualizzare tutte queste cose perché sono importanti per il tema in questione :
“L’etica nella economia, una sfida per il nuovo millennio”.
E’ necessario comprendere che cosa è questo nuovo millennio, perché quando il Papa ha
cominciato a parlarne le persone si sono spaventate, per una sorta di millenarismo catastrofico
inconscio, sul tipo di quello propagandato terroristicamente dai Testimoni di Geova ; con
conseguenze del genere: “siamo alla fine del mondo quindi possiamo fare a meno di lavorare”.
A dire il vero, molti di quelli che non vogliono lavorare più non hanno mai lavorato e la fine del
mondo è un alibi comodo per i nullafacenti di ogni epoca.
In realtà nostro Signore ha detto che quando finirà questo mondo “due saranno alla macina a
lavorare, uno sarà preso ed uno sarà lasciato”, e quindi bisognerà lavorare sino all’ultimo.
Paolo, già ai suoi tempi scriveva : “alcuni di voi vivono disordinatamente e senza far nulla, in
continua agitazione ; a costoro ordino di lavorare e di guadagnarsi il pane con il sudore della
fronte, con le proprie mani”. Nostro Signore, incarnandosi, ha fatto veramente il falegname, e non a
caso.
Nell’antico Israele chi si occupava della Sacra Scrittura, considerava sacro il lavoro, nessuno
viveva a sbafo o parassitariamente, contrariamente a quanti credono che l’essere religiosi sia una
dispensa dalla fatica quotidiana.
A tal proposito cito spesso un esempio. Il mio professore di Etica e Morale, Padre salvatore
Consoli, preside dello Studio Teologico S. Paolo di Catania, rimproverò un nostro confratello che
seraficamente, in tutta buona fede ed incoscienza, gli diceva : “Sai quell’impiegato del Comune ? E’
una bravissima persona, un santo ! Pensa che la mattina lascia per un’ora l’ufficio per venirmi a
servire la Messa. Che brava persona !” La risposta fu “Lui è un ladro e tu gli reggi il sacco. Questo
perché tu eviti di pagare il sacrista e lui, dalla sua parte, con i soldi che gli paga il Municipio per
stare dietro uno sportello a servire il pubblico evita di lavorare e venendo in chiesa, si crede santo
pur abusando, insieme a te dei soldi pubblici. Siete ladri tutte e due !”.
In quest’ottica, il terzo millennio che sta per arrivare lo si deve leggere secondo quanto afferma il
Santo Padre, che inizia il documento affermando : “...il pensiero va spontaneamente alla parola
dell’apostolo Paolo quando afferma che nella pienezza del tempo Dio mandò suo Figlio nato da
Donna...” ; la pienezza del tempo si identifica con il Mistero della Incarnazione del Verbo, Figlio
consustanziale al Padre, e con il Mistero della Redenzione.
Incarnazione significa che Gesù Cristo ha preso tutto da noi uomini fuorché il peccato ; Tutto,
compreso l’obbligo di lavorare.
E, infatti, nostro Signore, fabbricava insieme a Giuseppe quegli arnesi e quelle cose che rivendeva
calcolando un giusto ricarico, producendo un valore aggiunto, necessario a vivere ed ad acquistare i
materiali per continuare a produrre.
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Il Papa continua poi affermando :”...il fatto che il Verbo abbia assunto nella pienezza del tempo la
condizione di creatura conferisce all’evento di duemila anni fa un singolare valore cosmico...”.
Vale a dire che un valore universale, per tutte le creature, per tutti i tempi, visto che il Cosmo è la
unità di tempo e di spazio della Creazione.
L’ordine cosmico non è un ordine solo fisico, o solo temporale o solo religioso, ma che riguarda
tutti gli aspetti della vita dell’uomo e di tutte le creature, comprese quelle appartenenti al mondo
animale e vegetale.
Alla luce di Cristo, ordinatore dell’universo secondo il disegno del Padre di ricapitolare in Lui
tutte le cose, si può comprendere la vocazione e la missione dell’uomo, fatto ad “immagine e
somiglianza” di Dio, cioè di Cristo “immagine del Dio invisibile”.
L’uomo è l’ordinatore dell’universo come vicario di Dio per esercitare la signoria di Dio sulle cose
create, non spadroneggiando su di esse ma ordinandole, cioè dirigendole al loro fine naturale :
rendere Gloria al Creatore.
Il fatto della Incarnazione non è allora un concetto filosofico ma un dato sacramentale, una azione
di Cristo e della Chiesa cioè della umanità adunata da Dio.
La sacramentalità è azione efficace ed è unione di Dio e dell’uomo in Cristo : Egli ha lavorato con
mani d’uomo, ha agito con volontà di uomo, ha amato con cuore di uomo ; con la sua nascita si è
fatto veramente uno di noi, come noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato (che, detto per inciso,
non appartiene originariamente alla natura umana).
Allora, il meccanismo del profitto, rettamente inteso, è lecito se non diventa peccato. Il frutto del
lavoro è santo se compiuto ed ottenuto santamente, cioè eticamente.
Non è santo ovvero etico il frutto di rapine, malversazioni, tangenti, imbrogli, reati vari ; ma quello
non è profitto è esproprio.
Vi chiederete cosa centra tutto questo con l’economia ; ma, senza fare riferimento alla economia
della Salvezza è impossibile attuare la salvezza dell’economia.
Non intendiamo, qui, salvare l’economia solo facendo quadrare i conti in maniera contabile, come
cercano di fare certi governi a costo di compiere dei falsi in bilancio.
L’economia si salva perché se non è etica diviene diseconomia e quindi va a finire male, prima o
poi. Se, per esempio, non avessimo avuto cinquant’anni di truffe, tangenti, ruberie, arricchimenti
illeciti di ogni tipo, assistenzialismo endemico ed epidemico, camorre, mafie,ndranghete di ogni
tipo, sprechi e sperperi innumerevoli, certamente non avremmo il deficit pubblico che oggi
abbiamo !
Questo è il risultato di peccati di azione disonesta largamente condivisa politicamente ed
amministrativamente e di omissione a livello di burocrazia, di organismi pubblici e di incuria
privata.
Quando un qualsiasi impiegato pubblico si permette di tenere bloccate pratiche concludendosi in
breve tempo darebbero lavoro e quindi produrrebbero profitto, ovvero benessere diffuso, abbiamo
immoralità, abbiamo diseconomia.
Qui sta il nodo cruciale di tutto : l’uomo si è fatto sviare da Satana che lo ha ingannato e continua
ad, ingannarlo convincendolo che egli è Dio e può decidere da sé cosa è bene cosa e male, in
qualunque campo, compreso quello politico ed economico.
I Comandamenti non sono un limite all’uomo, ma sono i binari entro cui l’uomo stesso persegue il
suo fine, la sua propria autorealizzazione ; deviare da essi significa perdere se stessi e coloro che, in
conseguenza del nostro deragliare vengono coinvolti nel disastro della nostra vita.
Nella Bibbia il termine per indicare il peccato è, infatti, shub cioè deviare, andare fuori pista.
Il disagio sociale, economico, politico, spirituale, deriva dalla continua violazione di questi
insegnamenti fondamentali datici per avere la vita ed essere felici.
C’è un delirio di onnipotenza diabolico che poi si manifesta in tutti i fenomeni patologici che
conosciamo : “Io ho il potere, io sono il potere, io faccio la legge, io sono la legge”, quindi posso
fare degli altri tutto ciò che voglio.
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Da questo derivano quelle che la Dottrina Sociale della Chiesa definisce strutture di peccato,
ovvero il peccato dei singoli che si organizza, si struttura, perpetua se stesso, si istituzionalizza.
A queste strutture bisogna allora contrapporre altre strutture, di solidarietà, altrettanto concrete,
operanti, pratiche, storiche.
Cristo, d’altra parte, non è venuto a salvare gli angeli, ma gli uomini, i figli di Abramo, e questa
salvezza, passa attraverso il nostro corpo : “Ero malato e siete venuti a visitarmi, nudo e mi avete
vestito, affamato e mi avete sfamato, etc....”
Le liturgie, le pratiche di pietà, la teologia, se non porta ad un impegno concreto a favore delle
realtà terrene, incarnate, può essere sterile angelismo. Il tempo di Dio, il kairòs deve
necessariamente irrompere nel tempo dell’uomo, il kronos per redimerlo.
La sfida del terzo millennio passa attraverso il vivere seriamente e pienamente la Incarnazione :
“Dio si è fatto veramente uomo ed ha salvato veramente tutto l’uomo”- dicono i Padri - ”perché
quello che ha assunto, in Cristo, quello ha salvato”.
Questa salvezza è per tutte le realtà umane, quindi anche per l’economia, che non è qualche cosa
di esistente per sé, ma è al servizio dell’uomo.
La sfida del terzo millennio è, allora, anche in questo campo, restituire all’uomo al sua umanità.
Tantissime cose si potrebbero dire, vorrei concludere citando un documento della Conferenza
Episcopale Italiana, Evangelizzare il sociale : “Le grandi sfide alle quali lo sviluppo economico e
sociale deve far fronte, richiedono un salto di qualità nella produzione e nella distribuzione della
ricchezza(...). Questo ha bisogno per attuarsi di una seria riflessione, ma finché questa “non resti
estranea al suo nuovo contesto storico e culturale le norme etiche devono incarnarsi nella prassi,
nei comportamenti, tanto a livello teorico - responsabilità dell’economista e dell’ intelettuale in
genere - quanto a livello dell’azione socio-economica - responsabilità degli operatori :
imprenditori, managers, politici, sindacalisti. Non esiste barriera alla costruzione di una economia
che deve porsi al servizio dell’uomo, purché si decida di uscire finalmente dai condizionamenti di
individualismo, consumismo, egoismo. L’agire economico attuale sta dimostrando una crescente
incompatibilità con l’etica utilitaristica e reclama l’ancoraggio ad un codice morale più ricco ed
esigente per essere sotto il profilo economico efficiente ed efficace...in modo da garantire un
circuito tra le esigenze morali e progressi intellettuali e da ridare alla teoria economica la sua
valenza umana e comunitaria. Per gli imprenditori ed i managers in generale e sicuramente per
quelli che sono cristiani l’economia deve essere, anzitutto, un servizio reso alla comunità”.
Mi fermo qui, pensando di poter concludere che la sfida del terzo millennio è capire che una
società più giusta è necessariamente una società cristiana, e una società che si occupa del benessere
di tutti, mettendo in comune le ricchezze non solo materiali ma intellettuali, la voglia intraprendere,
di sviluppare, di agire, di rischiare, pervenendo alla distribuzione equa di una ricchezza lecita e
giusta perché frutto di onesto lavoro.
Questa sfida i cristiani devono cogliere e devono vincere, con l’aiuto di Dio, senza dubbio, ma
anche con la propria fattiva ed attiva partecipazione, perché in un certo senso consoci (anche se di
minoranza) e quindi corresponsabili della edificazione del Regno.
Don Alfio Spampinato
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SERGIO PARO
NON SOLO OCCUPAZIONE
DIPENDENTE MA ANCHE
E SOPRATTUTTO IMPRESA
“Il compito dell’imprenditoria e della dirigenza dovrà essere anche quello
di studiare per illuminare, spiegare, inventare le strategie di azione che salvino l’uomo,
orientino le scelte, trovino rimedi alle negatività possibili, per far sì che l’essere umano
sia sempre l’utente privilegiato dello sviluppo ed il suo consapevole artefice”.
(Giovanni Paolo II - il 14 dicembre 1985 - agli imprenditori ed i
dirigenti cristiani dell’UCID in occasione della XIX Giornata Mondiale della Pace)
Sergio Paro - Direttore Associazione Artigiani di Asti
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Demassifiicazione, decentramento, individualità, personalizzazione, conoscenza, informazione :
sono i connotati della “TERZA ONDATA” di cambiamento del mondo, quella che caratterizzerà la
società e l’economia del futuro.
Questo sostiene Alvin Tofler - consulente del Presidente degli Stati Uniti - in un recente libro.
Secondo il Prof. Tofler, sono tre le fasi che hanno segnato il cammino dell’umanità : la rivoluzione
agraria, quella industriale e, oggi, la “TERZA ONDATA” in cui sono decisive le risorse della
conoscenza, dell’informazione, della tecnologia.
“La conoscenza è il nuovo fattore primario di produzione che, se usato al posto e al momento
giusto, può sostituire i vecchi fattori di produzione : terra, lavoro, capitale.
Il nuovo capitale della “Terza Ondata” - ha detto Toffler - “è costituito dall’intelligenza della
gente...La vecchia società di massa è destinata a scomporsi in piccole unità sociali ed economiche.
La produzione finirà per spostarsi dalla grande industria alle piccole imprese”. “L’economia
sarà” riprende Toffler “costituita da gruppi sempre più piccoli e delocalizzati. Cambierà anche il
modo di lavorare : i muscoli, la ripetitività, la docilità finiranno per lasciare il posto al cervello,
alle idee, all’intelligenza, all’innovazione, alla creatività : cioè i nuovi fattori di competitività”.
In questa sorta di “Terza Rivoluzione”, il Professor Tofler, ritaglia uno spazio importante alla
piccola impresa, all’impresa familiare. Egli Afferma : “Il mondo si avvia ad un mutamento
strutturale che inciderà sulla vita di ciascuno di noi e che contiene in sé sorprendenti analogie con
i valori del modello culturale e produttivo dell’artigianato e delle piccole imprese...Nel mondo
stanno venendo meno le dimensioni di scala, e si afferma il fenomeno delle piccole imprese a
conduzione familiare...la maggioranza dei 3,5 milioni di posti di lavoro creati nel ’94 negli Stati
Uniti, appartengono ad imprese con meno di 4 addetti, guidate da giovani. Nelle imprese con meno
di 20 addetti, l’occupazione è aumentata dell’80%...”.
Ho preso a prestito questi concetti, per introdurre in questo dibattito, il ruolo che può giocare
“essere imprenditore” nel futuro occupazionale dei nostri giovani.
Il sistema produttivo italiano è composto, per il 96%, da piccole imprese che occupano meno di 20
dipendenti.
Le imprese artigiane sono 1.314.700 (al 31 marzo 1996), con più di tre milioni di addetti ;
rappresentano il 30,8% del totale delle aziende italiane, assorbono il 14% dell’occupazione del
Paese.
Il fatturato globale dell’artigianato è pari a circa 170.000 miliardi e la percentuale del PIL è
dell’11% del totale. In provincia di Asti le imprese artigiane sono 6.200 con 14.000 addetti.
L’artigianato è una realtà “giovane” : infatti il 33,5% degli imprenditori artigiani attivi ha un’età
inferiore ai 40 anni e circa il 19% ha un’età inferiore ai 35 anni.
Ho elencato queste cifre le quali, se unite alle imprese coltivatrici dirette, alle imprese
commerciali, arrivano a circa 7 milioni, per dire ai nostri giovani che il lavoro
SI PUO’ ANCHE CREARE, NON SOLTANTO ATTENDERE.
Oltre a ciò, vorrei introdurre altre considerazioni per convincere che uno sbocco occupazionale, si
può verificare anche essendo imprenditori di se stessi.
La prima : per una lunga stagione, fino a pochi anni fa, la figura dell’artigiano ha subito una specie
di deformazione ottica, nel senso che era percepita un’immagine ridotta e riduttiva, distorta e
distorsiva.
Tutta l’area delle attività artigianali appariva non solo marginale, periferica, ma soprattutto come
residuo storico.
Un residuo dell’economia pre-industriale, che poteva trovare uno spazio di sopravvivenza, dato
che l’industria lasciava ancora scoperti certi bisogni, ma era ontologicamente estraneo alla
modernità, non apparteneva alla sua morfologia, anzi contraddiceva la sua logica di fondo, la sua
filosofia.
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Ma c’è stato un cambiamento di stagione : e adesso è quella filosofia che appare un residuo
storico. Si è esaurito il ciclo in cui alla base della modernità c’era l’equazione
sviluppo=industrialismo di massa.
Oggi il processo di modernizzazione si riscopre per quello che è stato fin dalle origini, cioè un
processo di valorizzazione dell’individuo.
E si riscopre, in parallelo, che il paradigma del lavoro artigianale è quello più confacente allo
spirito del tempo, quello più moderno.
Si riscopre il modello dell’artigianato come quello che permette di valorizzare
contemporaneamente, contestualmente, sia le doti e le qualità individuali dei lavoratori, sia le scelte
e le preferenze individuali dei consumatori.
La seconda considerazione riguarda, con un termine molto in voga, al globalizzazione
dell’economia, per cui siamo tutti quanti coinvolti in un unico mercato di dimensioni planetarie.
Questa “rivoluzione” è destinata a sconvolgere rapporti, equilibri, gerarchie che sembravano
intangibili.
E per l’Italia c’è il rischio di venire a trovarsi schiacciata in una morsa micidiale. Da una parte i
paesi emergenti, favoriti da un costo del lavoro incomparabilmente più basso ; dall’altra i paesi
forti, favoriti da una capacità di innovazione tecnologica fuori della nostra portata.
L’artigianato, ovviamente, non è un rimedio miracoloso : ma non è neppure un rifugio, una scelta
di ripiego. E’ invece una delle principali risorse sulle quali può fare affidamento l’economia italiana
allo scopo di fronteggiare tale rischio e non finire declassata. Per almeno tre ordini di motivi.
Perché nelle imprese artigiane la creatività individuale può sopperire al gap di tecnologia, almeno
in certi casi, e anche rilevarsi essa stessa una fonte di innovazioni tecnologiche.
Perché le imprese artigiane possono più facilmente e più rapidamente innovarsi, trasformarsi e in
generale reagire agli imput del mercato.
Perché, con i necessari supporti, le imprese artigiane sono le più adatte a valorizare quei beni
ambientali e culturali di cui l’Italia ancora sovrabbonda, per fortuna, e di cui avremo un gran
bisogno come fonte di ricchezza.
Terza considerazione : chi decide di lavorare nell’artigianato sceglie uno stile di vita : e deve
esserne consapevole.
E’ infatti una scelta che si addice soprattutto a coloro i quali considerano prioritari, nella scala dei
valori cui si ispirano, gli obiettivi dell’autonomia e dell’autorealizzazione personale, cioè seguire la
propria vocazione, mettere alla prova le proprie forze e così realizzare la propria personalità.
L’artigianato si addice a chi crede che la cosa più preziosa - nella vita di un uomo - sia la libertà di
essere se stesso.
Per quasi tutto il secolo ora al tramonto, col trionfo dell’industrialismo di massa e l’egemonia della
relativa cultura, è prevalsa l’idea che ci fosse un contrasto inevitabile, irriducibile, tra la libertà della
vita politica e sociale, da una parte, e dall’altra le costrizioni della vita produttiva.
L’artigianato, che non era (e non è) attraversato da questa contraddizione, appariva non tanto come
un’isola felice quanto piuttosto come un atollo, uno scoglio, che anch’esso sarebbe ben presto
inghiottito dalla logica della società di massa.
A prevalere, invece, è stato proprio il modello produttivo dell’artigianato : ed è prevalso, in
quest’ultimo scorcio di anni, proprio perché esso consente uno stile di vita più armonico, senza
troppe cesure né lacerazioni tra i valori della vita individuale e le regole di una vita produttiva in cui
non predomina, come nell’industrialismo di massa, il principio dell’uniformità collettiva.
Sergio Paro
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I DIECI ANNI DEL
CENTRO INTERNAZIONALE STUDI LUIGI STURZ
DI ASTI E PROVINCIA
7 dicembre 1996 Economia senza etica è diseconomia
2 maggio 1998 L’attualità della Rerum Novarum di Leone XIII
11 aprile 1997 Il profitto e ruolo sociale dell’impresa
2 maggio 1998 S. Giovanni Bosco e Don Luigi Sturzo – Il Valore della solidarietà
17 aprile 1999 Quale liberismo, quale mercato
22 ottobre 1999 Liberi e forti per amministrare con efficienza una città
9 febbraio 2001 Corso di formazione per Amministratori, dirigenti e segretari comunali
Ente locale e sussidiarietà - Il Bilancio Comunale: la sua struttura
16 febbrai0 2001 Corso di formazione per Amministratori, dirigenti e segretari comunali
Ente locale e sussidiarietà - Organo di Governo e Dirigenza di un Ente
Locale: Distinzione di ruoli e competenze
23 febbraio 2001 Corso di formazione per Amministratori, dirigenti e segretari comunali
Ente locale e sussidiarietà - Sportello Unico e Marketing territoriale
19 ottobre 2001 La dottrina sociale della Chiesa in un mondo che cambia
Natura, finalità e principi essenziali della Dottrina Sociale della Chiesa
9 novembre 2001 La dottrina sociale della Chiesa in un mondo che cambia
I grandi momenti dell’insegnamento sociale della Chiesa
23 novembre 2001 La dottrina sociale della Chiesa in un mondo che cambia
La via del cattolicesimo sociale: Rerum Novarum e Quadragesimo Anno
7 dicembre 2001 La dottrina sociale della Chiesa in un mondo che cambia
Tema del lavoro come fonte di dignità umana della solidarietà tra uomo e
uomo e tra gruppi sociali: Laborem Exercens e Sollecitudo rei Socialis
30 ottobre 2003 Volontariato e cooperazione sociale
27 marzo 2004 Gaudium et Spes – Dignità umana e famiglia
18 giugno 2005 Luigi Sturzo, le autonomie locali e l’A.N.C.I.
19 giugno al 16 luglio 2005 Programma in Val Rilate di 7 Concerti di musica classica
Colline e classica
13 novembre 2007 L’autonomia locale tra decentramento e sussiduiarietà attraverso la
328/2000 e la L.R. 1/2004
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I ringraziamenti
In questi 10 anni di attività del Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo di Asti e della provincia si
sono avvicendati molti relatori illustri che, per la loro competenza e professionalità, hanno dato un
contributo molto prezioso per far comprendere quelli che sono stati i principi etico-politici,
filosofici, sociologici ed economici elaborati da Don Luigi Sturzo nel solco del Vangelo, della
Dottrina Sociale della Chiesa e del popolarismo. A loro va un mio particolare ringraziamento.
E’ stato un cammino non facile, ma entusiasmante; certamente è stato un onore avere avuto
l’opportunità di presiedere in tutti questi anni il Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo che ha
avuto una influenza importante per la mia crescita umana, politica, culturale e professionale.
Vorrei sottolineare che in fondo Sturzo fece tutto, come affermò lui stesso, per amore di Gesù
Cristo, egli ebbe un solo fine, il bene comune: tutte le sue azioni erano improntate verso la crescita
dell’uomo e lo sviluppo della dignità umana.
Una particolare riconoscenza porgo al Dott. Giovanni Palladino, presidente nazionale del Centro
Sturzo, che, sempre in ogni momento, mi ha incoraggiato e supportato a perseverare in questo mio
cammino di tutta l’attività del CISS artigiano.
Non vi è dubbio che quanto è stato fatto si è reso possibile con l’appoggio determinate, a volte
anche finanziario, di tutti gli enti istituzionali: dalla Regione Piemonte, all’ANCI, al comune di Asti
e alla provincia di Asti.
Non posso fare a meno di ricordare altre associazioni che sono state sicuramente preziose per il
successo di questa attività: dai giovani Imprenditori dell’Unione industriale di Asti, alla Coldiretti
della provincia di Asti, al CIDAS di Torino, ai salesiani del Colle Don Bosco, al Comune di
Castelnuovo don Bosco, fino ad arrivare alla Comunità Collinare Val Rilate.
Mi corre l’obbligo, infine, di porre un sentito e profondo grazie alla FONDAZIONE CRASTI che
sempre è stata sensibile allo sforzo culturale profuso dal CISS astigiano con il suo contributo
finanziario a tutte le manifestazioni, incontri, conferenze e convegni organizzati.
Dott. Marcello FIGUCCIO
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.
Il C.I.S.S. è un’associazione culturale indipendente, senza alcun legame con partiti
politici, che si propone di approfondire e divulgare la conoscenza organica della
dottrina sociale cristiana,
obbligato punto di riferimento per una buona gestione della società civile.
Questa attività viene integrata dall’approfondimento e dalla diffusione
dei principi etico-politici, filosofici, sociologici
ed economici elaborati da Don Luigi Sturzo
Dottrina sociale della Chiesa e popolarismo sturziano rappresentano pertanto
il prezioso patrimonio culturale intorno a cui ruota tutta l’attività del C.I.S.S. nella
convinzione
che l’Italia potrà riprendere la strada dello sviluppo morale, sociale ed economico,
solo se questo patrimonio
verrà fatto conoscere e messo finalmente a frutto.
Il C.I.S.S. promuove e gestisce tutte le iniziative che ritiene necessarie per il
conseguimento
dei suoi obiettivi: l’organizzazione di conferenze, dibattutiti, seminari, gruppi di
studio e di ricerca,
con particolare riferimento a temi economici e sociologici connessi a problemi della
società moderna.
Inoltre cura, in proprio o in collaborazione con altri,
l’edizione di pubblicazioni,
occasionali o periodiche, su temi sturziani.
Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo
Sede di Asti e provincia – Presidente: Dott. Marcello Figuccio
Via Regione Bricco, 4 – 14026 Montiglio Monferrato (AT) – Tel. 0141/906251 – 3298217670
Sede Nazionale: Circonvallazione Trionfale, 34 – 00195 Roma