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1 Martino Enrico Boccignone L’UOMO TRA NATURA E STORIA NEL PENSIERO DI HELMUTH PLESSNER E LA FILOSOFIA INTERCULTURALE XVI Convegno Nazionale dei Dottorati di Ricerca in Filosofia 2005 1. [Il problema: la definizione dell’uomo] Come afferma Kant nella sua Logica, le questioni fondamentali dell’intera filosofia possono essere ricondotte all’apparente semplicità dell’unica domanda intorno all’ uomo: “Che cos’è l’uomo?”. In effetti, il problema della comprensione della natura dell’uomo è intimamente legato alla filosofia nel suo insieme, in quanto l’uomo, essendo colui che domanda, colui che ricerca la verità, non può fare a meno di essere problema a se stesso, anche laddove ciò avviene solo implicitamente. L’uomo, preso nella sua interezza, prima di ogni riduzi one astrattiva o scomposizione analitica, rappresenta una singolare e problematica unità di dimensioni discordanti e contraddittorie; in esso, in particolare, vengono a condensarsi tipicamente i nodi problematici e le antinomie che percorrono la storia della filosofia (occidentale e non), che, appunto, vi convergono e confliggono: così ad esempio la contrapposizione di spirito e materia, o di mente e corpo, di libertà e necessità, di natura e storia o di natura e cultura, e così via. L’uomo, soggetto e oggetto insieme, autonomo e condizionato, sembra riassumere nella sua figura ambigua e duplice aspetti contrastanti e reciprocamente irriducibili, che ne rendono difficili la definizione e la comprensione. Dunque lo studio dell’uomo nella sua complessità conduce a prendere in considerazione sia la dimensione naturale, corporea, biologica, quanto quella culturale, spirituale, storica, della realtà umana. La difficoltà di un pensiero volto alla conoscenza dell’uomo consiste soprattutto nella gestione del difficile equilibrio tra tesi unilaterali, tra posizioni che dimenticano le varie dimensioni proprie dell’umano. L’umano, nella ricchezza delle sue determinazioni reali e dei suoi sviluppi potenziali, risulta sfuggente proprio nella misura in cui si sottrae a definizioni semplici risolutive ed esaustive.

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L’UOMO TRA NATURA E STORIA NEL PENSIERO DI HELMUTH PLESSNER E LAFILOSOFIA INTERCULTURALEXVI Convegno Nazionale dei Dottorati di Ricerca in Filosofia 2005

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Page 1: Presentazione Reggio Emilia

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Martino Enrico Boccignone

L’UOMO TRA NATURA E STORIA NEL PENSIERO DI HELMUTH PLESSNER E LA

FILOSOFIA INTERCULTURALE

XVI Convegno Nazionale dei Dottorati di Ricerca in Filosofia 2005

1. [Il problema: la definizione dell’uomo]

Come afferma Kant nella sua Logica, le questioni fondamentali dell’intera filosofia possono

essere ricondotte all’apparente semplicità dell’unica domanda intorno all’uomo: “Che cos’è

l’uomo?”. In effetti, il problema della comprensione della natura dell’uomo è intimamente

legato alla filosofia nel suo insieme, in quanto l’uomo, essendo colui che domanda, colui

che ricerca la verità, non può fare a meno di essere problema a se stesso, anche laddove ciò

avviene solo implicitamente.

L’uomo, preso nella sua interezza, prima di ogni riduzione astrattiva o scomposizione

analitica, rappresenta una singolare e problematica unità di dimensioni discordanti e

contraddittorie; in esso, in particolare, vengono a condensarsi tipicamente i nodi

problematici e le antinomie che percorrono la storia della filosofia (occidentale e non), che,

appunto, vi convergono e confliggono: così ad esempio la contrapposizione di spirito e

materia, o di mente e corpo, di libertà e necessità, di natura e storia o di natura e cultura, e

così via. L’uomo, soggetto e oggetto insieme, autonomo e condizionato, sembra riassumere

nella sua figura ambigua e duplice aspetti contrastanti e reciprocamente irriducibili, che ne

rendono difficili la definizione e la comprensione.

Dunque lo studio dell’uomo nella sua complessità conduce a prendere in considerazione sia

la dimensione naturale, corporea, biologica, quanto quella culturale, spirituale, storica, della

realtà umana. La difficoltà di un pensiero volto alla conoscenza dell’uomo consiste

soprattutto nella gestione del difficile equilibrio tra tesi unilaterali, tra posizioni che

dimenticano le varie dimensioni proprie dell’umano. L’umano, nella ricchezza delle sue

determinazioni reali e dei suoi sviluppi potenziali, risulta sfuggente proprio nella misura in

cui si sottrae a definizioni semplici risolutive ed esaustive.

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2. [L’antropologia filosofica]

Nonostante le difficoltà connesse al problema della sua autocomprensione e

autointerpretazione, l’uomo non può fare a meno di cogliersi, o meglio cercarsi, nello

“specchio del suo pensiero” (come recita il sottotitolo del libro di Landmann: De Homine.

Der Mensch im Spiegel seines Gedankens, del 1962). La ricerca di sé da parte dell’uomo è il

compito dell’antropologia filosofica in senso generale, che è “antropologia” in quanto studio

o discorso dell’uomo e “filosofica” in quanto distinta da una qualsiasi antropologia

specifica, relativa ad un aspetto isolato dell’umano (come lo possono essere l’antropologia

fisica e quella culturale). L’espressione “antropologia filosofica” indica poi, più in

particolare, un orientamento filosofico specifico, che, pur senza essersi mai costituito a

scuola o movimento, ha rappresentato, soprattutto nell’area tedesca, una componente

importante e influente del panorama intellettuale, operando in uno spazio che congiungeva e

interessava biologia e sociologia, psicologia e teoria politica, la teoria dell’espressione e del

comportamento. Di fronte alla difficile unità delle indagini scientifiche specifiche, che

tendevano a scomporre l’uomo in parti eterogenee e difficilmente ricomponibili (come, in

modo paradigmatico, in corpo e spirito), l’antropologia filosofica ha affermato con forza la

necessità di tematizzare l’uomo nella sua completezza e unità, pur senza per questo

cancellarne la molteplicità di aspetti e dimensioni.

3. [Rilevanza del pensiero di Plessner]

Tra i padri fondatori di questo orientamento filosofico deve essere annoverato Helmuth

Plessner, che tuttavia, anche a causa dell’asperità delle sue opere, ha cominciato a godere di

una certa attenzione da parte della critica solo a partire dagli ultimi decenni del Novecento,

benché abbia pubblicato opere filosofiche di un certo rilievo sin dal terzo decennio di quel

secolo. Tra gli elementi di spicco che giustificano l’attualità di un’analisi interpretativa

dell’opera di Plessner possono essere indicate, oltre alla tesi fondamentale della

“posizionalità eccentrica” dell’uomo, anche la concezione essenzialmente duplice, ambigua,

“fratta” dell’uomo e la visione “aperta” della sua natura, che è alla base della sua

“antropologia negativa”.

Esigenza centrale dell’antropologia plessneriana è quella di cogliere l’uomo nella sua

interezza, evitando il rigido schema del dualismo di stampo cartesiano ed eludendo, d’altra

parte, ogni risoluzione semplicistica e riduzionistica del problema antropologico. Pur

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conducendo analisi approfondite sull’uomo nelle sue varie dimensioni (biologica, storica,

politica, etc.), Plessner tende sempre a muoversi su un terreno cautamente scettico; questo

atteggiamento scettico, per quanto non gli impedisca di elaborare e difendere tesi

contenutisticamente determinate, lo conduce spesso, soprattutto nell’opera matura, a

relativizzarne la portata e a intendere la sua stessa antropologia filosofica essenzialmente

come una possibile, ma non esclusiva, interpretazione della condizione umana.

4. [Breve riassunto del percorso teorico e delle tesi antropologiche di Plessner]

Partendo dai suoi iniziali studi zoologici, Plessner si avvicina ben presto alla filosofia,

pubblicando, dopo una prima fase giovanile, l’opera fondamentale della sua antropologia

filosofica, I gradi dell’organico e l’uomo, che esce contemporaneamente a La posizione

dell’uomo nel cosmo di Max Scheler, nel 1928, anno a cui si fa risalire la nascita

dell’antropologia filosofica tedesca.

Come esito di una lunga e complessa analisi che riunisce diversi elementi del dibattito

filosofico del tempo, tra cui criticismo, fenomenologia, storicismo e filosofia della vita,

Plessner giunge a porre la tesi della “posizionalità eccentrica dell’uomo”. Il vivente si

contraddistingue rispetto al non vivente in virtù della “posizionalità”, cioè di una particolare

relazione tra l’ente e il medium circostante per cui si dà una divergenza assoluta tra interno

ed esterno, tale che il limite dell’essere vivente appartiene essenzialmente ad esso come

proprietà reale, anziché essere semplicemente una zona intermedia neutra e virtuale. Il

vivente assume una posizione nell’ambiente, non si trova semplicemente collocato nello

spazio circostante, bensì, come dice Plessner, “afferma” uno spazio, si pone nei confronti

dell’ambiente circostante e lo “pone”. Tra le differenti forme che questa posizionalità può

assumere nel regno del vivente, si dà un caso che definisce l’uomo nella sua peculiarità: si

tratta della posizionalità eccentrica, per cui l’uomo, oltre ad avere la posizionalità centrica

propria dell’animale (e in particolare degli animali superiori), possiede anche la facoltà della

riflessione su se stesso, potendo assumere un punto di vista decentrato rispetto alla propria

collocazione corporea nello spazio: il centro della posizionalità ha nell’uomo una certa

distanza rispetto a se stesso.

L’eccentricità della posizionalità umana è espressione di un’ambiguità di fondo che inerisce

costitutivamente all’uomo, in quanto esso, in virtù del suo peculiare rapporto con il proprio

corpo, “è” corpo (Leib), organismo vivente posto al centro di una sfera assoluta, e al tempo

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stesso “ha” il proprio corpo (Körper) come oggetto fisico posto nel continuo

spaziotemporale; in altre parole, l’uomo è oggetto corporeo e al tempo stesso è un soggetto,

è un centro decentrato posto ad una certa distanza riflessiva nei confronti della propria

stessa fisicità, che possiede come uno strumento da controllare.

Nonostante tutto ciò, esso è uno, non è scisso dualisticamente in due dimensioni o sostanze

reciprocamente estranee, non è un “composto” eterogeneo di soggetto e oggetto, di spirito e

corpo, etc.: piuttosto, dice Plessner, l’uomo ha una struttura fratta, ambigua, nella sua unità

indissolubile esso riunisce caratteristiche contrastanti e complementari. Da questo punto di

vista, nella comprensione dell’uomo gioca un ruolo particolare la sfera del comportamento

(comprendente azione ed espressione), la quale è psicofisicamente indifferente e si pone

dunque al di qua o al di là della scissione dell’uomo in corpo e spirito.

L’approccio di Plessner al problema dell’uomo tenta dunque, nella sua indecisa duplicità e

ambiguità di dimensioni, di rendere ragione sia della costituzione naturale dell’uomo sia

delle sue caratteristiche culturali o “spirituali”. Analogamente, Plessner si muove in un

difficile equilibrio tra la invarianza dell’uomo e la sua indeterminatezza e mutevolezza: in

effetti, se la posizionalità eccentrica sembra assumere il valore di una categoria astorica che

determina, benché anche solo formalmente, la “natura” dell’uomo, al tempo stesso essa

implica il superamento stesso della mera naturalità dell’uomo nella direzione di una sua

apertura e mutevolezza storica.

Negli anni successivi Plessner approfondisce e ridefinisce le proprie tesi antropologiche,

smussando i caratteri troppo sistematici del suo pensiero; egli continua a confrontarsi col

problema antropologico affrontandolo da diversi angoli visuali, ponendo al centro

dell’interesse soprattutto la dimensione sociale e politica dell’uomo e i problemi

dell’espressività e del comportamento. In particolare, la formulazione, nel 1931, del

principio della “insondabilità” dell’uomo (Unergründlichkeit), apre la strada a posizioni che

accentuano il sapore scettico della antropologia plessneriana, conducendo al discorso dello

homo absconditus dell’opera matura, volta anche a mettere l’uomo al riparo da ogni

tentativo di una sua completa riduzione biologistica o storicistica o di altro genere, per

preservarne la dignità. Il rapporto tra il principio dell’eccentricità dell’uomo e il principio

dell’insondabilità, peraltro, non risulta del tutto chiaro e in proposito si possono osservare

opinioni molto discordanti tra i critici.

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5. [Valore euristico del binomio natura-storia]

Come ho già osservato, nella definizione dell’uomo ci si trova di fronte al problema

fondamentale di mantenere intatto l’oggetto dell’indagine nella sua complessità, senza

ridurlo unilateralmente ad una sola delle dimensioni che lo caratterizzano. Per affrontare

questa difficoltà fondamentale possono essere assunti diversi punti di vista, diversi binomi o

antinomie possono essere esaminati per penetrare l’uomo nella sua fondamentale ambiguità.

Un binomio che ritengo particolarmente fecondo sul piano euristico per affrontare la

tematica antropologica, anche in relazione al pensiero di Helmuth Plessner, è l’antinomia tra

natura e storia, in quanto in essa si condensano e si incrociano diverse dimensioni e diversi

aspetti della poliedricità dell’uomo. Il binomio natura-storia richiama le contrapposizioni tra

necessità e libertà, tra materia e spirito, tra corpo biologico e mente razionale. Non si può

stabilire in alcun modo una sovrapposizione univoca tra questi gruppi di due termini, in

quanto i termini “natura” e “storia” sono esposti ad un ampio gioco interpretativo, tale che,

ad esempio, la necessità può legarsi tanto alla natura quanto alla storia; o anche, per fare un

altro esempio: la ragione può essere intesa tanto come forza operante nella natura quanto

come motore intrinseco della storia proprio nella misura in cui essa si solleva dalla

dimensione meramente naturale. Dunque nel binomio natura-storia si coagula un insieme di

contrapposizioni che si intrecciano e che nell’uomo trovano una unione complicata ed

ambigua; ciò permette di affrontare nella sua complessità il plesso di relazioni che emerge

nel difficile compito della definizione dell’uomo.

In particolare, nella tensione di natura e storia, e nella molteplicità di valenze che questa

tensione può assumere, si apre lo spazio per tematizzare il rapporto tra ciò che l’uomo “già”

è (per la sua costituzione naturale o per la sua collocazione storica, ovvero culturale, sociale,

economica etc.) e ciò che esso può e deve fare di sé; questo rapporto, come si può notare,

riprende il rapporto posto da Kant alla base della sua distinzione tra l’antropologia da un

punto di vista “fisiologico” e l’antropologia da un punto di vista “pragmatico”.

Circa l’ampiezza dello spazio di libertà che è data all’uomo nella tensione tra la sua realtà

attuale e le sue potenzialità, Plessner, pur mettendo in luce l’apertura storica dell’uomo e la

sua insondabilità, non può fare a meno di sottolineare determinate costanti psicologiche e

comportamentali dell’uomo, che pongono dei limiti alle sue possibilità di autoprogettazione

nella dimensione storica (come fa notare, ad esempio, nei confronti dei progetti politici

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improntati all’idea di “comunità”, sottolineando la necessità antropologica di strutture di

mediazione interpersonale di tipo “sociale”, come ad esempio i ruoli sociali).

6. [Dimensione etico-normativa della collocazione dell’uomo tra natura e storia]

Questa collocazione ambigua e problematica dell’uomo, che lo condanna a gestire una

irriducibile contraddizione tra il condizionamento della situazione (naturale, sociale, storica,

etc.) e la spontanea libertà di scelta e di azione, tra il centramento nel corpo e il

decentramento riflessivo del comportamento, pone all’uomo una responsabilità etica e

dunque il problema normativo, e condiziona allo stesso modo l’orizzonte dell’agire politico.

La difficile determinazione della “natura” o “essenza” dell’uomo tra caratteristiche

invarianti (siano esse di carattere biologico-naturale o anche storico, socio-culturale) ed

elementi di apertura e di libera trasformazione, tra universalizzabilità degli schemi

comportamentali e libera spontaneità individuale è una tematica antropologica di portata

cardinale. Più in generale, l’autointerpretazione dell’uomo, la ricerca antropologica assume

una portata etica nella misura in cui l’uomo, secondo l’espressione di Arnold Gehlen,

riconosce di essere compito a se stesso: la ricerca autointerpretativa per la comprensione

della propria condizione si lega all’impegno per l’autoprogettazione pratica.

D’altra parte, la negazione di una essenza umana universale e il riconoscimento della

molteplicità dei sistemi valoriali sembrano limitare fortemente la possibilità della

determinazione di una dimensione normativa cogente universalmente valida: a questo

problema cercano di dare una risposta soprattutto le teorie che si sforzano di abbozzare le

linee di un’etica postconvenzionale e che promuovono il dialogo e l’incontro interculturale.

7. [Antropologia filosofica plessneriana, etica postconvenzionale e filosofia interculturale]

Nella mia tesi di dottorato cerco anzitutto di ricostruire il percorso teoretico di Plessner nel

contesto dell’antropologia filosofica nel suo insieme, affrontandolo dall’angolo visuale della

difficile collocazione dell’uomo tra dimensione storica e dimensione naturale, per poi

abbozzare un discorso orientato all’idea di una antropologia interculturale, ovvero di un

dialogo filosofico interculturale concernente la ricerca antropologica. In questa sede non è

possibile, né tantomeno utile, ripercorrere nei dettagli lo sviluppo del pensiero plessneriano:

mi sembra più interessante presentare nelle sue linee generali l’esito, provvisorio, della

ricerca e indicare gli aspetti dell’antropologia plessneriana che si ricollegano ai temi della

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molteplicità culturale e alle sue implicazioni per la determinazione teoretica e pratica

dell’uomo.

Il principio fondamentale dell’antropologia di Plessner è la posizionalità eccentrica

dell’uomo: l’uomo è collocato nel suo corpo, partecipa dell’ordine naturale, possiede una

natura biologica, ed è pertanto “centrato” in una collocazione spazio-temporale ben

determinata; d’altra parte, tuttavia, esso ha la possibilità di riflettere su di sé, di vedersi da

una prospettiva esterna rispetto al centro della sua corporeità, e dunque trascende la

semplice dimensione biologica, pur senza con questo negarla. Questi due aspetti dell’uomo

non devono essere concepiti dualisticamente come due elementi reciprocamente estranei di

cui l’uomo risulti composto, bensì come due aspetti di un’unità inscindibile. Non è possibile

ricondurre, o meglio ridurre, un aspetto all’altro, essi piuttosto coesistono necessariamente

nella struttura ambigua della condizione umana. La riflessività umana, se intesa unicamente

come epifenomeno della conformazione biologica dell’uomo, perde la propria specificità; la

dimensione biologica dell’uomo, se intesa come appendice inessenziale di un essere la cui

natura consiste anzitutto nella razionalità o nella spiritualità, diventa un elemento

trascurabile, secondario, e ne viene misconosciuta la necessarietà. In virtù di questa

eccentricità, l’uomo è, al tempo stesso, un essere naturale e un essere artificiale, produttore

di cultura; esso ha un rapporto mediato dalla riflessività e al tempo stesso è immediatamente

inserito nel suo contesto reale; esso è collocato in un medium spazio-temporale ben definito

e al tempo stesso non è ad esso totalmente riducibile (così si possono riassumere le tre

“leggi antropologiche fondamentali” con le quali Plessner si propone di esplicitare la

struttura fratta, la costitutiva ambiguità dell’uomo: la legge della artificialità naturale, quella

dell’immediatezza mediata, e quella del luogo utopico). Questo significa però che l’uomo

non può essere definito in modo compiuto, esauriente, definitivo: esso è nascosto a se stesso

nella sua più autentica essenza, è “homo absconditus”; anzi: l’eccentricità esclude

l’assunzione di una “essenza autentica” precostituita ed immutabile. In quanto produttore di

cultura, l’uomo, benché saldamente radicato nella realtà naturale biologica, è anche capace

di mutare se stesso attraverso la propria prassi, sia essa cosciente oppure sia essa consegnata

ad uno sviluppo storico e naturale dotato di dinamiche proprie, sottratte all’intervento libero

e responsabile di soggetti individuali e collettivi.

Le implicazioni di una simile posizione filosofico-antropologica sono molteplici ed

estremamente complesse; in particolare mi sembra interessante soffermarsi sull’apertura che

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un simile pensiero rende possibile verso la tematica dell’interculturalismo e verso un

confronto aperto delle diverse forme concrete dell’umano. Problema connesso alla

coesistenza di tale molteplicità è quello della ricerca di assetti normativi che posseggano

idealmente una validità universale; questo è il compito di un’etica post-convenzionale

(anche minimale) che non cancelli come tale gli assetti valoriali convenzionali, ma che ne

limiti la validità in funzione della loro stessa sopravvivenza e pacifica coesistenza (come si

propone di fare ad esempio l’etica del discorso di Karl-Otto Apel). Tralasciando tuttavia la

problematica etica, e ritornando al problema antropologico-filosofico della ricerca di una

risposta alla domanda “Che cos’è l’uomo?”, mi sembra interessante tentare di aprire un

canale di comunicazione tra l’antropologia filosofica e l’approccio comparativo della

filosofia interculturale esemplificato da Franz Wimmer, Heinz Kimmerle e Ram Adhar

Mall.

Infatti, l’apertura resa possibile dall’antropologia filosofica plessneriana in virtù del suo

sforzo antiriduzionistico permette di valorizzare l’approccio della filosofia interculturale in

ambito antropologico. La ricerca sull’uomo, dunque, acquisirà una maggiore ricchezza e

una maggiore quantità di stimoli nel momento in cui si aprirà al confronto tra le diverse

concezioni o autointerpretazioni dell’uomo, quali sono rappresentate dalle diverse tradizioni

filosofiche. (Queste, naturalmente, non devono essere assunte come monoliti impenetrabili e

privi di fratture interne, bensì piuttosto come “paesaggi di pensiero” che talvolta sfumano

l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, talvolta si contrappongono fronteggiandosi

nell’irrigidimento delle rispettive unilateralità, ma che presentano tuttavia pur sempre punti

di contatto.)

Naturalmente, si potrà obiettare, tutto questo presuppone già un’idea dell’uomo, e

precisamente l’idea dell’apertura, dell’autonomia, della libertà (benché relativa) rispetto a

determinazioni eterogenee. Questo è vero solo in parte, in quanto il dato empirico stesso

della molteplicità dell’umano parla in favore dell’apertura e dell’autonomia autoprogettante,

benché queste poi possano trovare una loro “spiegazione” (per lo meno parziale) all’interno

di un sistema di necessità causale di tipo genetico o ambientale; d’altro canto, l’unità o

l’identità dell’uomo è bensì presupposta, ma solo come sostrato insondabile ed inattingibile

che rende possibile il confronto delle differenze stesse.

L’antropologia plessneriana fornisce a questo proposito alcuni strumenti per operare

l’apertura dell’orizzonte della condizione umana, pur nei limiti tracciati dalla costituzione

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naturale umana (sul piano fisiologico e etologico) e dai condizionamenti culturali delle

tradizioni storiche; questo significa anche diversificazione della ricerca filosofico-

antropologica e dunque apertura al confronto interculturale sul piano della ricerca

antropologica stessa. Lo sviluppo sul piano antropologico dell’approccio metodologico

comparativo della filosofia interculturale, promovendo lo studio e il confronto di diverse

autointerpretazioni dell’uomo stesso, apre un vastissimo ambito di ricerca e può porre i

presupposti per una migliore comprensione interculturale e per una più estesa prassi della

tolleranza.

Infatti, l’apertura, l’insondabilità dell’uomo nell’antropologia negativa di Plessner deve

permettere di porre criticamente a confronto le più svariate concezioni sull’uomo, da quelle

più strettamente argomentative a quelle della suggestione poetica e mitologica, da quelle

narrative delle tradizioni orali a quelle assertive e rivelative di alcune tradizioni religiose. In

tutto ciò, lo scetticismo di partenza che rende possibile il confronto non deve

necessariamente risolversi in un relativismo illimitato, ma deve per lo meno promuovere il

dialogo tra le diverse posizioni, che solitamente tendono a rinchiudersi autisticamente in se

stesse. L’umanità, pur all’interno di limiti a loro volta di difficile determinazione, emerge da

questo punto di vista come un cantiere aperto, estremamente complesso e composito, nel

quale la molteplicità delle autointerpretazioni apre l’orizzonte anche ad una molteplicità di

autoprogettazioni e autotrasformazioni, prevedendo incroci fecondi e sempre nuove

ibridazioni.