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MATEMATICA E MUSICA, TRA PERCEZIONE E LEGGI FISICHE §1. PREMESSE GENERALI E NOZIONI ESSENZIALI DI ACUSTICA La musica, arte o come oggi si preferisce dire, linguaggio universale dei suoni, pur nella sua estrema varietà di forme ha sempre avuto alle sue radici il canto monodico presso tutti i popoli e culture, anche se l’uso di strumenti musicali più o meno elaborati (zufoli, cetre, liuti, corni ecc.) in grado di produrre veri e propri suoni e non soltanto i rumori degli strumenti a percussione è vecchio quanto l’uomo. Solo in tempi relativamente recenti, e in modo particolare nella nostra tradizione occidentale si sono poi diffuse a partire dal canto gregoriano (rigorosamente monodico) le più complesse elaborazioni del canto polifonico che sono alla base della musica strumentale successiva. Non c’è quindi da stupirsi se tale origine vocale ha fortemente condizionato la struttura stessa della musica, ad iniziare dai suoi elementi costitutivi, le note, anche se le loro semplici e fondamentali relazioni numeriche (almeno nell’ambito della nostra cultura occidentale) risentono fortemente dell’influsso della filosofia greca e del ruolo preminente che in essa ha la matematica . Va infatti osservato che l’individuazione di particolari suoni, le note appunto, ha un’indubbia base nella conformazione del nostro organo vocale e, in ogni caso, nella fisiologia dell’orecchio che compie una complessa analisi dei suoni, ma non sempre trova lo stesso riscontro in altre culture caratterizzate da una sintassi musicale diversa, che spesso non esclude toni intermedi o vere e proprie “sfumature di tono”, come accade nel blues e jazz afro-americano ma specialmente nella musica orientale e cinese in particolare (dove la stessa lingua è tonale). In conclusione, anche per la musica è difficile stabilire quanto ci sia di innato e quanto di culturalmente acquisito per quanto oggi, dopo l’avvento prima della musica dodecafonica e poi di quella seriale, elettronica ecc. l’interrogativo abbia perso molto del suo interesse originario, com’è avvenuto nel dibattito sullo spazio e tempo kantiani dopo l’avvento delle geometrie non euclidee edella Relatività. Fatta questa sbrigativa ma pur doverosa introduzione, entriamo nello specifico della premessa. I suoni, come i rumori, sono costituiti da onde elastiche , cioè dalla propagazione di vibrazioni nella materia - gassosa, liquida o solida che sia non fa differenza, cambia soltanto la velocità v con la quale esse si propagano: massima nei solidi e nei liquidi (alcuni km/s) minima nei gas (e crescente per questi con la loro temperatura, 340 m/s circa nell’aria a 20°C) – onde che per essere percepite dall’orecchio umano devono corrispondere a vibrazioni, cioè oscillazioni delle particelle del mezzo considerato, che si ripetono nell’unità di tempo con una frequenza compresa all’incirca tra 20 e 20.000 Hz (1Hz = 1 oscillazione /secondo). Al crescere di tale frequenza il nostro orecchio (o più esattamente il cervello che analizza il segnale acustico) percepisce un suono via, via più acuto: La frequenza è dunque la grandezza fisica corrispondente al dato percettivo immediato che in musica è chiamato “altezza” del suono, così come in ottica la 1

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MATEMATICA E MUSICA, TRA PERCEZIONE E LEGGI FISICHE

§1. PREMESSE GENERALI E NOZIONI ESSENZIALI DI ACUSTICA

La musica, arte o come oggi si preferisce dire, linguaggio universale dei suoni, pur nella sua estrema varietà di forme ha sempre avuto alle sue radici il canto monodico presso tutti i popoli e culture, anche se l’uso di strumenti musicali più o meno elaborati (zufoli, cetre, liuti, corni ecc.) in grado di produrre veri e propri suoni e non soltanto i rumori degli strumenti a percussione è vecchio quanto l’uomo. Solo in tempi relativamente recenti, e in modo particolare nella nostra tradizione occidentale si sono poi diffuse a partire dal canto gregoriano (rigorosamente monodico) le più complesse elaborazioni del canto polifonico che sono alla base della musica strumentale successiva. Non c’è quindi da stupirsi se tale origine vocale ha fortemente condizionato la struttura stessa della musica, ad iniziare dai suoi elementi costitutivi, le note, anche se le loro semplici e fondamentali relazioni numeriche (almeno nell’ambito della nostra cultura occidentale) risentono fortemente dell’influsso della filosofia greca e del ruolo preminente che in essa ha la matematica .Va infatti osservato che l’individuazione di particolari suoni, le note appunto, ha un’indubbia base nella conformazione del nostro organo vocale e, in ogni caso, nella fisiologia dell’orecchio che compie una complessa analisi dei suoni, ma non sempre trova lo stesso riscontro in altre culture caratterizzate da una sintassi musicale diversa, che spesso non esclude toni intermedi o vere e proprie “sfumature di tono”, come accade nel blues e jazz afro-americano ma specialmente nella musica orientale e cinese in particolare (dove la stessa lingua è tonale). In conclusione, anche per la musica è difficile stabilire quanto ci sia di innato e quanto di culturalmente acquisito per quanto oggi, dopo l’avvento prima della musica dodecafonica e poi di quella seriale, elettronica ecc. l’interrogativo abbia perso molto del suo interesse originario, com’è avvenuto nel dibattito sullo spazio e tempo kantiani dopo l’avvento delle geometrie non euclidee edella Relatività. Fatta questa sbrigativa ma pur doverosa introduzione, entriamo nello specifico della premessa.

I suoni, come i rumori, sono costituiti da onde elastiche, cioè dalla propagazione di vibrazioni nella materia - gassosa, liquida o solida che sia non fa differenza, cambia soltanto la velocità v con la quale esse si propagano: massima nei solidi e nei liquidi (alcuni km/s) minima nei gas (e crescente per questi con la loro temperatura, 340 m/s circa nell’aria a 20°C) – onde che per essere percepite dall’orecchio umano devono corrispondere a vibrazioni, cioè oscillazioni delle particelle del mezzo considerato, che si ripetono nell’unità di tempo con una frequenza compresa all’incirca tra 20 e 20.000 Hz (1Hz = 1 oscillazione /secondo). Al crescere di tale frequenza il nostro orecchio (o più esattamente il cervello che analizza il segnale acustico) percepisce un suono via, via più acuto: La frequenza è dunque la grandezza fisica corrispondente al dato percettivo immediato che in musica è chiamato “altezza” del suono, così come in ottica la stessa frequenza, ma questa volta dell’onda luminosa, corrisponde al colore della luce (bassa per il rosso, alta per l’azzurro).A titolo d’esempio l’acuto di un soprano lirico può superare 1000 Hz mentre un basso scende anche a 60 Hz.

Le onde sonore sono longitudinali: ciò significa che sia le oscillazioni delle particelle, sia le conseguenti compressioni e rarefazioni che tali onde producono in ciascuno dei successivi strati di materia che esse attraversano, avvengono nella direzione di propagazione dell’onda stessa.Il rapporto tra velocità e frequenza è chiamato lunghezza d’onda , pari alla distanza intercorrente tra due punti successivi che oscillano nelle stesse condizioni (o, come si dice, con la stessa fase). Vale cioè l’equazione v = valida per ogni tipo di onda anche non longitudinale, quindi ad es. anche luminosa , sismica, sulla superficie di un liquido, lungo una corda vibrante ecc. Non va quindi confusa la lunghezza d’onda – pari ad es. ad un metro quando si propaga nell’aria con una frequenza di 340 Hertz – con i singoli moti oscillatori (in genere piccolissimi, dell’ordine cioè di un millesimo di mm) che dipendono chiaramente anche dall’intensità dell’onda, oltre che dalla velocità v (a sua volta dipendente solo dalla natura del mezzo ed eventualmente dalla sua temperatura) e dalla frequenza (dato caratteristico dell’onda considerata).

Passiamo ora a considerare molto schematicamente come si producono i diversi suoni della musica. A differenza dei rumori, oscillazioni irregolari e in genere dovute ad urti o attriti casuali, i suoni – e in particolare quelli prodotti dalla voce umana e dagli strumenti musicali, siano essi quelli tradizionali a corda o a fiato (quelli a percussione di membrane vibranti i come i tamburi o i timpani non generano propriamente suoni) oppure i sintetizzatori elettronici - sono dovuti ad oscillazioni periodiche che diventano moti armonici quando l’onda è sinusoidale. Salvo però poche eccezioni, come ad es. il diapason, le onde sonore dei diversi suoni non sono sinusoidali. Non lo sono in genere nella sorgente sonora iniziale, sia essa una corda vibrante o un soffio d’aria, né meno che mai lo sono nella cassa di risonanza che sempre accresce e/o amplifica (almeno negli strumenti tradizionali, compresa la voce umana) le vibrazioni della sorgente, mettendo in oscillazione la massa d’aria che racchiude, prima che esse giungano all’ascoltatore.L’onda finale in genere risulta infatti, in entrambe le sorgenti, la sovrapposizione di più onde sinusoidali e comunque sia - come insegna un fondamentale teorema di analisi matematica, il teorema di Fourier - ogni

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onda può sempre scomporsi nella somma di più onde sinusoidali aventi tutte frequenza multipla di quella di un’onda detto (suono) armonico fondamentale che, come vedremo, è facilmente individuabile, almeno nel caso di una corda vibrante o di una canna d’organo. Come infatti si dimostra entrambe diventano sede di onde stazionarie – onde che nel caso ad es. della corda non la percorrono, come quando le si dà uno scrollone, ma vibrano sulla corda o lungo la canna – la cui lunghezza d’onda è al massimo pari al doppio della sua lunghezza (essendo i suoi estremi due punti fissi e quindi “nodi” dell’onda stazionaria, vedi figura 1) nel caso della corda vibrante mentre diventa il quadruplo nel caso della canna d’organo (alla sua base ci deve essere ancora un nodo mentre alla sua estremità c’è invece un “ventre”, vedi fig. 2).

Nel caso della canna d’organo, dove l’onda stazionaria già vibra nell’aria, 0 = . . . . quale sarà pertanto la frequenza fondamentale 0 se L = 2m ?

Per rispondere alla stessa domanda per una corda vibrante va tenuto conto che, come si dimostra, le onde che la percorrono (quindi anche quella stazionaria, sovrapposizione di due onde che la percorrono in senso opposto riflettendosi ai suoi estremi) viaggiano lungo essa a una velocità che non è di 340 m/s ma è data dalla seguente formula: ______ v = V F L /m essendo L la sua lunghezza (in metri m), m la sua massa (in kg)ed F la forza di trazione, misura in Newton (N), alla quale è sottoposta. Per chi ancora non ha studiato fisica ricordiamo che la forza esercitata da un peso di 1kg vale 9,8 N.Quanto vale allora la frequenza fondamentale ’0 emessa da una corda vibrante ’0 = . . . .avente L = 1m se la sua massa vale m = 10 gr ed è tesa da un peso P = 10 kg ?

Calcolate le due suddette frequenze fondamentali è poi facile determinare tutte le successive armoniche sapendo che la soglia di udibilità non supera 20000 Hz. Quante e quali saranno le successive armoniche ?1 = . . . 2 = . . . . ’1 = . . . . ’2 = . . . . Concludiamo questa premessa con un’osservazione che ci sarà utile per capire il seguito.Nella formula della velocità delle onde sulla corda vibrante m/L è la massa per unità di lunghezza della corda vibrante che possiamo anche chiamare densità lineare (misurandola in kg/m) e indicarla con d. ____La suddetta formula diventa allora: v = V F/ d . Essa ci dice che la velocità delle onde sulla corda dipende solo dalla tensione applicata e dal suo spessore. Di conseguenza la frequenza 0 = v / L dipende solo (a parità di spessore e tensione della corda) da L e risulta inversamente proporzionale a tale lunghezza.Pertanto sul monocordo le note emesse dipendono solo dalla lunghezza della parte vibrante della corda.Ovviamente poi la loro intensità (in quanto suono) dipende dall’ampiezza delle onde (ma anche da ) mentre il timbro – che ci fa distinguere se la stessa nota è emessa ad es. da violini o da flauti – dipende dalla forma dell’onda, che l’orecchio individua scomponendola nelle sue armoniche successive (spettro sonoro). § 2. QUALCHE NOTA STORICO-CRITICA SULLE . . . NOTE MUSICALI (ovvero: l’importanza dei “buoni rapporti”, anche in musica)

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Tutto ebbe inizio, almeno così si dice, il giorno in cui Pitagora di Samo – arcinoto filosofo e matematico della Magna Grecia – entrando nella fucina di un fabbro, notò che quando due martelli picchiavano insieme (o in rapida successione) sull’incudine non solo producevano suoni di diversa altezza a seconda dei loro peso ma davano all’orecchio sensazioni più o meno gradevoli, a seconda dei rapporti più o meno semplici dei pesi utilizzati che pare fossero proprio ½ , ⅔ e ¾, quelli che nella teoria musicale corrispondono rispettivamente ai fondamentali rapporti di ottava, quinta e quarta della scala naturale, detta per l’appunto pitagorica.Pitagora, da grande scienziato e ricercatore “ante litteram”, non si limitò ad ascoltare ma subito decise di sperimentare in prima persona, quasi certamente usando - almeno all’inizio - le corde di qualche strumento musicale dell’epoca: la lira dei musici e poeti (da cui l’aggettivo “lirico”), la cetra (quella del dio Apollo) ecc.

L’idea immediata ma efficace per verificare quanto osservato – e come già sappiamo, proprio quella giusta, alla luce delle formule fisiche che oggi conosciamo, ottenute a partire da quelle ed altre sperimentazioni - fu quella di accorciare progressivamente la lunghezza della corda: se la nota emessa dai martelli dipende dal loro peso, c’era motivo di credere che altrettanto accada per il peso, sia pur piccolo, delle corde vibranti(a parità di tensione), visto che queste emettono suoni non meno melodiosi.Inutile dire che la verifica ebbe pieno successo e convinse sempre di più Pitagora che i numeri interi e i loro rapporti (ed essi soltanto) fossero alla base del mondo. Purtroppo non è tutto così semplice e nella realtà c’è sempre qualche guastafeste che prima o poi scombussola i nostri modelli e schemi teorici: se in geometria era in agguato la diagonale del quadrato, nella musica ci sono – come vedremo - i semitoni che impediscono di mettere d’accordo i diversi intervalli musicali e le conseguenti tonalità. In entrambi i casi la soluzione viene ottenuta – come vedremo con la scala temperata equabile, volendo procedere nel modo più semplice – con nuovi e più complessi tipi numerici: i numeri irrazionali e più in generale i numeri reali.

Prima però di addentrarci nello specifico della scala pitagorica, vale la pena di fare qualche considerazione preliminare di natura puramente aritmetica, a partire dalla ovvia osservazione che i tre rapporti fondamentali½ , ⅔ e ¾ sono tutte frazioni del tipo n / (n+1) – frazioni regolarmente crescenti al crescere di n (e sempre più prossime a 1) che per brevità chiameremo pitagoriche – e che inoltre dividendo la prima per la seconda si trova proprio la terza. Non si tratta di una pura coincidenza, nel senso che posto pn = n/(n+1) vale sempre:

pn pn n n + 2 n (n+2) n (n + 2) ----- = pn(n+2) . Infatti ----- = --------- --------- = ------------------- = --------------------- = pn(n+2) pn+1 pn+1 n +1 n + 1 n2 + 2n + 1 n (n +2) + 1

Risulta quindi in particolare non solo: p2 /p3 = p8 = 8/9 ma pure: p3/p4 = p15 = 15/16, rapporti i cui inversi corrispondono proprio a quelli di tono e semitono – che come vedremo nei prossimi paragrafi sono i due valori più bassi dell’intervallo di seconda della scala musicale, quello tra due note consecutive - così come, più in generale non solo 2=2/1; 3/2; 4/3; ma anche 5/4 = 80/64 81/64 individuano nell’ordine gli intervalli rispettivamente di ottava, quinta, quarta e terza della scala naturale. § 3 . PITAGORA E LE SETTE NOTE: LA SCALA NATURALE (ovvero: le note danno il meglio se ascoltate nella Scala) Ma perché le note sono proprio sette? Come i giorni della settimana, i vizi capitali, le virtù, i sette nani, i sette colori dell’iride. Si può rispondere in modo sbrigativo e un po’ infastidito che non sono solo sette ma – a parte le diverse ottave – scegliendo le frequenze fondamentali, tante quanto le sfumature dei vari colori che sembrano appunto soltanto sette. La domanda è comunque meno futile di quanto possa apparire a prima vista. Certamente questo numero non è puramente simbolico e rituale, legato cioè alle nostre tradizioni occidentali, anche se sappiamo bene che presso altre culture (come è stato prima accennato) le note della scala musicale sono in numero diverso, variando in genere quello dei semitoni, o addirittura manca o comunque ha importanza trascurabile la nozione stessa di scala musicale. Neppure si può tagliar corto dicendo che è tutto puramente convenzionale e quindi il problema non si pone, in quanto contano solamente le due grandezze fisiche di frequenza e lunghezza d’onda. Vale casomai il contrario, visto l’arbitrarietà delle loro unità di misura, che per noi sono ora il secondo e il metro. C’è quindi motivo di credere che, almeno in parte, ci sia un effettivo fondamento naturale non tanto auditivo o fonatorio ma piuttosto dipendente da come il nostro cervello percepisce ed elabora i segnali sonori che l’orecchio gli trasmette. Probabilmente in questo campo molto deve ancora essere scoperto ed approfondito e non è certo questa la sede e il momento, anche se più avanti riprenderemo almeno in parte l’argomento.

Sta di fatto che Pitagora verifica subito quanto prima osservato con i martelli e scopre quanto segue:

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1) Se la corda viene esattamente dimezzata – quindi, come oggi noi sappiamo dalla fisica, dimezza anche la lunghezza d’onda fondamentale e pertanto la frequenza raddoppia (r = 2) – quale che sia la nota emessa dalla nota intera, essa si replica in una forma più acuta, nella scala cioè della prima ottava superiore o, detto in modo equivalente, con un intervallo di una ottava. Per chi non ha dimestichezza con solfeggi e spartiti ricordiamo che nei testi di teoria musicale l’intervallo tra due note è sempre contato estremi compresi. Nel nostro caso se ad es. la nota iniziale è un Do la nuova ottenuta è ancora un Do (che ora provvisoriamente indicheremo con Do’, per distinguerlo dall’altro), 8° appunto dopo tutte le sei comprese tra il Re e il Si.Si ha dunque: Do -> Do’ Re -> Re’ ecc. (Nota: se si numerano le scale si scriverà: Don -> Don+1 ecc.).

Ogni ottava – ascendente o discendente, sino alle soglie di udibilità per le frequenze - ripropone quindi dal punto di vista musicale tutte le stesse caratteristiche strutturali della scala iniziale ed è indistinguibile da quella se non per l’altezza delle note che la compongono.

2) Se si pizzicano invece i due terzi della corda iniziale (r = 3/2), ogni nota viene invece innalzata di un intervallo di quinta. Questo nuovo intervallo è musicalmente il più semplice in quanto ogni nota viene trasformata ancora in un’altra di quelle iniziali salvo il Si che si trasforma in una nuova nota intermedia tra il Fa’ e il Sol’, il Fa’# (Fa diesis). Il Si va cioè innalzato di un semitono. Valgono pertanto le trasformazioni: Do -> Sol Re -> La Mi -> Si Fa -> Do Sol -> Re La -> Mi Si -> Fa’# Do’ -> Sol’ (Intervalli di 5°) 3) Se si pizzicano infine i tre quarti della corda iniziale (r = 4/3), ogni nota viene invece innalzata di un intervallo di quarta. Il Do si trasforma quindi nel Fa e così via, ma anche in questo caso c’è una particolarità che riguarda ancora il Fa ma questa volta non come nota d’arrivo ma di partenza: esso non si trasforma nel Si (e tanto meno nel Si# che non esiste, dopo il Si c’è subito il Do’, così come dopo il Mi c’è subito il Fa) ma nella nota abbassata di un semitono, il Sib (Si bemolle). Valgono quindi le trasformazioni: Do -> Fa Re -> ? Mi -> ? Fa -> Sib Sol -> ? La -> ? Si -> Fa Do’ -> ? (Intervalli di 4°)

E’ possibile, partendo solo da quanto sinora esposto, determinare gli intervalli di 2°, quelli che più semplicemente verranno chiamati toni e semitoni, procedendo a scelta, oltre al fondamentale intervallo di 8°, o con i soli intervalli di 5° oppure unicamente con quelli di 4° o anche, più comodamente, con entrambi.

Con i primi calcoliamo il rapporto rDo -Re di frequenza tra il Re il Do che risulta pure in questo caso uguale al primo intervallo di 2° i Do-Re della scala musicale. Essendo infatti r Do - Sol = r Sol – Re’= 3/2 (come risulta dalla sequenza di trasformazioni del punto 2) si avrà pertanto: r Do – Re’ =3/2 x 3/2 =9/4 e quindi, essendo inoltrer Re – Re’ = 2, segue subito: r Do – Re = 9/4 : 2 = 9/8. In modo del tutto analogo, essendo poi r Do – La’ =27/8, risulta pure: r Do – La = 27/16 e quindi i Sol - La = 27/16 : 3/2 = 9/8, uguale pertanto al precedente i Do - Re .

Passando poi al Mi si ottiene: r Do – Mi ‘’ = 81/16 e quindi (essendo ora 2 le ottave comprese): r Do – Mi = 81/64 e dividendo poi per i Do – Re = 9/8 si ritrova ancora i Re – Mi = 81/64 : 9/8 = 9/8.

Lo stesso discorso vale per il Si successivo al Mi: r Do – Si ‘’ = 243/32 da cui r Do – Si = 243/128 ed essendor Do – La = 27/16 anche in questo caso vale i La – Si = 243/128 : 27/16 = 9/8.

Resta da calcolare - prima di passare ai due semitoni tra Mi e Fa e tra Si e Do’ – l’intervallo i Fa – Sol e qui conviene usare entrambe le trasformazioni. Sappiamo infatti che r Do – Fa = 4/3 oltre che r Do – Sol = 3/2. Segue allora subito i Fa – Sol =3/2 : 4/3 = 9/8. L’intervallo di 2° T = 9/8 (tono) è quindi sempre lo stesso fra tutte le coppie di note successive della scala, esclusi i due semitoni che ora affronteremo in modo analogo:

i Mi – Fa = r Do – Fa : r Do – Mi = 4/3 : 81/64 = 256/243 i Si – Do’ = r Do – Do’ : r Do – Si ‘’ = 2 : 243/128 = 256/243 Anche i due semitoni, valendo entrambi s = 256/243 sono pertanto uguali tra loro.

La scala naturale è quindi composta da due soli tipi di intervallo tra note successive (intervalli di 2°), il tono T e il semitono s ma, a scanso di equivoci, osserviamo subito che due semitoni messi insieme non danno un tono. Risulta infatti (256/243)2 = (28/35) 2 = 216/310 ≠ 9/8 =32/23 . Se per assurdo fossero uguali si avrebbe: 219 = 312 ma questo è impossibile essendo unica la scomposizione in fattori di ciascun numero naturale. Vale invece: 9/8 > (256/243)2 e risulta c = 9/8 : (256/243)2 = 312/219 = 1,0136. Di questo fondamentale rapporto c, detto comma, ritorneremo a parlare in seguito.Aggiungiamo ancora – osservazioni non essenziali ma di certo significative – che approssimando il valore di

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256/243 = 1,05349 con 256/240 = 1,0666 (errore minimo dell’ 1,2%) e poi semplificando si trova 16/15 cosi come i rapporto (nonché intervallo di 3°) i Do – Mi = 81/64 può essere sostituito da 80/64 = 5/4, frazioni i cui reciproci sono del tipo n / n+ 1 già considerato in precedenza (§ 2) proprio perché così stranamente ricorrenti nella teoria musicale. A titolo riassuntivo e per maggiore chiarezza riproponiamo quanto sinora esposto in forma grafica e mediante una tabella che il lettore potrà completare come utile esercizio:

Do Re Mi Fa Sol La Si Do’

Do 1 9/8 5/4 4/3 3/2 27/16 15/8 2

Re 8/9 1

Mi 1

Fa 1

Sol 1

La 1

Si 1

Do’ 1/2 1

Nota: al solito 15/8 è un più semplice valore approssimato di 243/128 240/128

Osserviamo ancora che dei tre intervalli fondamentali di ottava, quinta e quarta, uno qualsiasi di essi risulta a rigore superfluo, potendo calcolarsi a partire dai rimanenti (vedi fig. a fianco).Valgono inoltre le seguenti considerazioni riassuntive:La scala naturale (ma il discorso vale per ogni tipo di scala musicale) è quindi caratterizzata non dalle frequenze assolute dei suoi gradi, cioè delle note che la compongono ma da quelle relative alla nota iniziale, detta tonica. Le successive sono dette in teoria musicale, nell’ordine: sopratonica, mediante, sottomediante, dominante, sopradominante, sensibile.

Vediamo ora come i diversi intervalli si possono ricondurre a quelli di 2° ossia al tono T e al semitono s. Un intervallo di 3° può valere – come subito si verifica osservando sulla scala le tre note successive che lo compongono - due toni oppure un semitono e un tono . L’intervallo di 5° invece, quali che siano le cinque note consecutive che lo compongono, risulta sempre pari a tre toni e un semitono ed ha il valore fisso 3/2 salvo un unico caso, quello che va dal Si al Fa, dove vale due toni e due semitoni; è allora necessario introdurre i diesis # , sostituendo il Fa con il Fa# per non cambiarlo.Del tutto analoghe sono le considerazioni per l’intervallo di 4° che risulta sempre pari a due toni e un semitono ed ha il valore fisso 4/3 salvo di nuovo un unico caso, quello che va dal Fa al Si, dove risulta invece più ampio, pari cioè a tre toni e questa volta serve il bemolle Sib per riottenere il valore precedente.

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Nuovamente variabili come quelli di 2°, 3° e 4°, risultano essere quelli di 6° e 7° mentre quello di 8°, avente valore 2 e pari all’intera scala, presenta sempre ovviamente due semitoni e cinque toni sulla scala prolungata. Tutte le ottave presentano pertanto la stessa struttura e non c’è quindi modo di distinguerle l’una dall’altra se non ricorrendo all’orecchio o a nozioni extramusicali (fisiche), quali ad es. la frequenza.

Ben si comprende allora come i nomi tradizionali delle sette note (che nei paesi anglosassoni sono sostituiti da lettere: A =La, B = Si, C = Do, D = Re, E = Mi, F = Fa, G = Sol) diventino quasi del tutto irrilevanti se non si fissa una nota assoluta di riferimento (potendo infatti partire da una qualunque di esse per generare un’ottava, almeno per la voce e per gli strumenti musicali privi di note fisse ). Ciò è stato fatto, stabilendo di assumere – con una convenzione internazionale – come nota fondamentale il La3 (La della 3° ottava), nota corrispondente alla frequenza di 440 Hz ossia 440 oscillazioni al secondo..

Tutto sembrerebbe a questo punto chiaro e concluso per quanto riguarda (almeno per noi occidentali) le caratteristiche della scala naturale, salvo un restante problema di cui lo stesso Pitagora si rese ben presto conto. All’inizio non fu che una lieve stonatura, un’incompletezza formale nella teoria matematica che di certo ne offuscava la bellezza ma senza conseguenze irrimediabili nella musica eseguita ai suoi tempi da semplici strumenti a corda o fiato, privi cioè di tastiere fisse. Poi, con l’avvento di queste ultime, divenne subito il problema principale che affronteremo nel prossimo paragrafo.

§ 4 . PITAGORA ENTRA … IN COMMA (ovvero: ogni legge, anche la più chiara, ha sempre qualche comma che ti frega)

Come abbiamo detto, ciascun intervallo della scala può calcolarsi a partire da due soli di essi e noi sceglieremo i più semplici: l’intervallo di 8° e l’intervallo di 5° .Del primo sappiamo già tutto: esso riproduce immediatamente la scala elementare dal Do al Si in versioni via via più acute, raddoppiando infatti ogni passaggio di 8° la frequenza di ciascuna nota . Vediamo quello di 5°.

Procedendo per quinte ascendenti a partire dal Do si ottiene: Do e Sol (nella 1° ottava), Re+1 e La+1 (nell’ottava successiva) e poi Mi+2

e Si+2 nella terza.

A questo punto però, come già si è visto, dopo il Si+2 non c’è il Fa+3 ma il Fa# +3 e poi, procedendo ancora, Do# +4 e quindi di seguito (basta aggiungere il # alla serie precedente) Sol#+4, Re#+5, La#+5, Mi# +6 =Fa +6 Si# +6 = Do +7 (essendoci tra il Mi e il Fa, così come tra il Si e il Do successivo, solo un semitono), ne deriva che i 12 intervalli di 5° ( Do - Sol; Sol – Re +1; …; Mi# +6 [= Fa +6

] - Si# +6 [= Do +7 ])

dovrebbero coincidere con le 7 ottave (Do – Do +1; … Do +5 – Do +7):

Dovrebbe cioè valere: (3/2) 12 / 27 = 1 3 12 / 219 = 1 mentre, come già sappiamo, 3 12 / 219 = c = 1,0136. Come si spiega?Ricordiamo, come già osservato in precedenza, che due semitoni messi insieme non danno un tono.Detto in altro modo ciò significa che se due note sono separate da un tono – ad es. il Fa e il Sol, proprio le due note che ora ci servono - il Fa # che, per definizione di diesis, si ottiene alzando di un semitono il Fa, non coincide con il Solb che invece si ottiene abbassando di un semitono (per definizione di benolle) il Sol.Il Solb è infatti più alto del Fa# proprio di un comma c = 1,0136 e quindi l’errore che si commette quando queste due note alterate vengono identificate è pari all’ 1,36% , valore piccolo ma non sempre trascurabile.

Ecco allora trovata la spiegazione del rompicapo precedente: quando si ascende dal Si+2 al Fa#+3 - e si notisolo in questo caso, prima ma anche dopo (l’intervallo tra due # consecutivi è un tono) ogni quinta vale 3/2 – si sale di un semitono sino al Do3, poi dal Do3 al Fa3 si sale di una quarta e poi nuovamente tra Fa3 e Fa#3 diun secondo semitono. Se i due semitoni facessero insieme un tono che vale 9/8, si avrebbe 9/8 · 4/3 = 3/2 ma così non è, manca il famigerato comma, quello stesso che manca alla fine del ciclo delle 12 quinte.

Il numero c, noto sin dall’antichità come “ il comma di Pitagora “ fu per secoli nella storia della musica fonte di difficoltà apparentemente insormontabili: lungi dal semplificare non solo la teoria ma anche la pratica musicale, il forzato “circolo delle quinte” - cioè l’impossibile tentativo di suddividere 7 ottave in 12 intervalli di 5° pari a 3/2 ciascuno o, il che è lo stesso come abbiamo visto, la non equivalenza tra un tono e due semitoni – suonando come vedremo nelle diverse tonalità, portava ad avvertibili stonature che, se potevano ovviarsi ad orecchio nel canto polifonico o nell’uso dei principali strumenti a corda (violino, viola, violoncello e contrabbasso sono , come si sa, privi di tasti, ma già non vale lo stesso ad es. per la chitarra), rimanevano

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tali quando si usavano strumenti a tastiera, ad es. il cembalo e la maggior parte degli strumenti a fiato, dove gli intervalli tra le note sono fissati dal costruttore (per il quale diesis e bemolle inevitabilmente coincidono).

Diverse furono le soluzioni proposte, quasi tutte tendenti a distribuire il comma che si accumula nel ciclo delle dodici quinte più o meno uniformemente, “temperandone” cioè alcune o tutte in modo opportuno.

Così ad es. nel temperamento mesotonico il comma veniva suddiviso in quattro parti (nelle 5° Re-La, Do-Sol, Fa-Do e Sol-Re) mentre nella scala proposta dal veneziano Zarlino (che scaricava tutto il comma sulla quinta Re-La) addirittura venivano introdotti due tipi diversi di tono, uno maggiore e uno minore, oltre al semitono, con conseguenti sdoppiamento di diesis e bemolle che portava la scala a ben 21 note.

La soluzione definitiva prese l’avvio nel 1691 dal “buon temperamento” proposto da un oscuro organista tedesco, un certo Andreas Werckmeister: egli semplicemente propose di lasciare otto quinte inalterate, suddividendo il comma nelle quattro rimanenti. Era ormai la premessa della scala temperata equabile, dove tutte le dodici quinte risultano uguali avendo suddiviso equamente il comma tra di esse. Era questa quindi l’uovo di Colombo, ma si pensava che quell’uovo fosse difficile da digerire da parte del nostro orecchio, organo raffinatissimo ed esigente.

Nella scala temperata equabile vale quindi l’equivalenza tra tono e due semitoni , quali che essi siano. Dodici sono quindi pure le note della scala cromatica: Do, Do#, Re, Re#…Si, che sempre nella scala temperata equabile suddividono in dodici semitoni uguali l’intervallo di ottava.In altre parole, usando la terminologia musicale, questo significa identificare il diesis # di una nota (es. Fa #, nota alzata di un semitono, come s’è detto) con il bemolle della successiva (nota diminuita di un semitono, quindi il Sol b). Tale assunzione richiede però una lieve modifica del semitono e quindi del tono affinché l’intervallo di 8° resti esattamente a 2, mentre l’intervallo di 5° in pratica non varia (da 1,5 a 2 7/12 =1,498).

Si riconosce facilmente che il problema matematico consiste nell’inserire n = 11 medi tra il Do della prima ottava e quello della successiva in una progressione geometrica, essendo 6 le note comprese tra i due do estremi e soltanto 5 i semitoni (in quanto intercorre solo un semitono tra il Mi e il Fa e tra il Si e il Do dell’ottava successiva o, detto in modo equivalente, Mi # = Fa e Si # = Do).

Detta S la ragione della progressione (rapporto tra la frequenza maggiore e quella inferiore di ogni semitono) e valendo la formula b = a S n+1, essendo poi b/a =2 (rapporto tra le frequenze dei due do), si avrà: __ b/a = 2 = S 12 => S = 12 V 2 1,059 16/15 1,067 da cui il nuovo intervallo T di tono:

T = S2 1,122 9/8 = 1,125. L’errore è quindi dello 0,27%, cinque volte circa più piccolo del comma.

La soluzione proposta da Werckmeister e poi quella definitiva della scala equabile suscitarono come già accennato lunghe discussioni, nonostante a ragione si sottolineasse che le lievi modifiche così introdotte nella scala naturale non sarebbero avvertite da un orecchio “medio” (vedi diagrammi sotto) in quanto uniformemente distribuite.

Alla fine essa fortunatamente si impose concludendo così definitivamente l’annoso dilemma, grazie anche

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e soprattutto alla composizione da parte di J.S. Bach di uno dei suoi soliti capolavori : “Il clavicembalo ben temperato”, opera comprendente ben 24 preludi e 24 fughe, scritta appunto adottando la nuova scala.

Dal punto di vista strettamente teorico invece, come già si è accennato, essa ribadisce l’inadeguatezza dei soli numeri razionali come fondamento non solo della matematica ma dell’intera realtà, come notoriamente riteneva Pitagora: S non soltanto è un numero irrazionale ma è pure non costruibile con riga e compasso. Dal punto di vista pratico, fissata come s’è detto a 440 Hz la frequenza del La3 , basta poi dividere e moltiplicare ripetutamente tale valore per 1,122 per ottenere le diverse frequenze di tutte le note udibili (teoricamente tra 20 Hz e 20000 Hz) distribuite in quelle che risultano essere le otto ottave della musica più altre tre ancora, incomplete e/o non direttamente utilizzate ma che possono presentarsi (almeno per quelle più alte) come armoniche successive di valori loro sottomultipli.

Riportiamo sotto, per comodità, tutte le frequenze in Hz :

Ottave | Do Do# Re Re# Mi Fa Fa# Sol Sol# La La# Si------------ |---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- | - - - (19,4) 20,6 21,8 23,1 24,5 25,9 27,5 29,1 30,9 | 0 | 32,7 34,7 36,7 38,9 41,2 43,6 46,2 48,9 51,9 55 58,3 61,7 | 1 | 65,4 69,3 73,4 77,8 82,4 87,3 92,5 97,9 103,8 110 116,5 123,4 | 2 | 130,8 138,6 146,8 155,6 164,8 174,6 184,9 195,9 207,6 220 233,1 246,9 | 3 | 261,6 277,2 293,6 311,1 329,6 349,2 369,9 391,9 415,3 440 466,2 493,8 | 4 | 523,2 554,4 587,3 622,2 659,2 698,5 739,9 783,9 830,6 880 932,4 987,6 | 5 | 1046,5 1108,7 1174,6 1244,5 1318,5 1396,9 1567,9 1567,9 1661,2 1760 1864,8 1975,2 | 6 | 2093 2217,5 2349,3 2489 2637 2793,8 3135,9 3135,9 3322,4 3520 3729,6 3951,4 | 7 | 4186 4434,9 4698,6 4978 5274 5587,6 6271,9 6271,9 6644,9 7040 7459,2 7902,8 | 8 | 8372 8869,8 9956,1 9956,1 10548,1 11175,3 12543,8 12543,8 13289,7 14 080 14917,4 15804,6 | / | 16744 17739,7 19912,1 19912,1 (21096,2) - - -

Si osservi che in ogni colonna, a parte eventuali arrotondamenti, i valori raddoppiano sempre, come atteso.

Aggiungiamo ancora che le frequenze musicali fondamentali possono variare dal Do0 finanche al Re8 mentre la voce umana varia in genere per gli uomini dal Fa1 al Fa3 per il basso, dal La1 al Re4 per il tenore; per le donne varia dal Fa2 al Fa4 nei contralti mentre un soprano partendo dal Do3 può arrivare anche al Fa5.

A conclusione di questo paragrafo sembra quasi ovvio concludere che la scala temperata abbia soppiantato del tutto quella naturale, proprio come è avvenuto con la riforma del calendario gregoriano rispetto a quello giuliano (dove pure c’è un comma da risolvere al meglio, lo scarto tra anno solare e 365 giorni).Non è esattamente così e finché è possibile farlo – cioè quando non ci sono strumenti a corda con tastiera(pianoforte, clavicembalo, celesta ecc. ma anche chitarra, mandolino, liuto, banjo ecc.) o comunque ad intonazione fissa (arpa, cetra, lira ecc.) che suonano nella scala temperata – si preferisce la scala naturale fondata sulla successione degli armonici, la cui frequenza è, come sappiamo, sempre multipla di quella fondamentale (in questo Pitagora aveva ragione!) per ogni suono non puramente sinusoidale.

Per gli ottoni (trombe, tromboni, basso tuba ecc. ma anche ovviamente l’organo) vale invece il contrario: proprio per i motivi appena esposti (e per quanto accennato all’inizio sulle onde stazionarie in una canna d’organo, prototipo di tutti gli altri ottoni) possono suonare solo nella scala naturale.

Per i rimanenti strumenti a corda e cioè gli archi (violino, viola, violoncello, contrabbasso ecc.) o a fiato (detti legni: flauto diritto, oboe, fagotto ecc.) e ovviamente per la voce umana c’è invece la possibilità di scelta tra le due scale.

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§ 5 . L’UNICITA’ DELLA SCALA NATURALE E SUE POSSIBILI INTERPRETAZIONI (ovvero: considerazioni forse degne di nota)

Prima però di passare ad altre questioni sulle scale musicali cerchiamo di chiarire ulteriormente perché la scala naturale rappresenti sempre la soluzione migliore ogniqualvolta essa risulti praticabile.Il motivo principale sta proprio nei rapporti particolarmente semplici e soprattutto esprimibili con frazioni aventi al numeratore e denominatore interi molto piccoli e vicini tra loro - ecco il perché della predominanza delle frazioni del tipo (n +1) / n (reciproche di quelle da noi chiamate pitagoriche) – che la caratterizzano.

Supponiamo ad es. per maggiore chiarezza e semplicità che il Do iniziale abbia frequenza fondamentale0 =120 Hz. I suoi armonici successivi avranno allora frequenze pari ai multipli di tale numero e quindi: 1 = 240 Hz; 2 = 360 Hz; 3 = 480 Hz; 4 = 600 Hz; 5 = 720 Hz; 6 = 840 Hz; 7 = 960 Hz; 8 = 1080 Hz …

Vediamo ora le frequenze fondamentali del Fa e del Sol successivi. Esse risultano, come sappiamo, pari rispettivamente a 0 ‘ = 160 Hz e 0 ‘’ = 180 Hz. I loro armonici successivi saranno pertanto:

1‘ = 320 Hz; 2‘ = 480 Hz; 3‘ = 640 Hz; 4 ‘ = 800 Hz; 5‘ = 960 Hz; 6 ‘= 1120 Hz; 7 ‘ = 1280 Hz. …

1‘’ = 360 Hz; 2‘’ = 540 Hz; 3‘’ = 720 Hz; 4 ‘’ = 900 Hz; 5‘ = 1080 Hz; 6 ‘‘= 1260 Hz; 7 ‘‘ = 1440 Hz …

Come subito si nota sia per il Fa che per il Sol esistono diverse frequenze successive comuni con il Do, date evidentemente dai multipli dei due comuni multipli 480 = mcm(120,160) e 360 = mcm(120,180) e tanto più numerose quanto più piccoli questi risultano. Basta però passare al Re, avente 0’’’ =135 Hz, per vedere già salire tale valore a 1080 Hz. Ben si comprende quindi come i due intervalli di 5° e di 4°, subito dopo quello di 8°- dove tutti gli armonici di Do1 sono pure armonici di Do, essendo la frequenza fondamentale raddoppiata -risultino basilari nella scala naturale (e lo stesso sarà per gli accordi): scelto il Do e con esso il Do1 -ma più in generale ogni nota iniziale assunta come tonica- subito restano individuate la 4° e la 5° nota successiva, il Fa e il Sol e con esse il loro intervallo di 2°, il tono. A partire dal tono replicato più volte si ottengono poi le note rimanenti: il Re e il Mi prima del Fa e - quasi una loro riproposizione dopo l’intervallo Fa-Sol, vero “giro di boa” nel passaggio di 8° tra i due Do successivi - il La e il Si prima del Do1 e dopo il Sol, nota che ora svolge nella seconda metà dell’ottava (che presenta lo stesso intervallo della prima) la funzione iniziale del primo Do. A questo punto mancano solamente i due semitoni, ma ormai non ci sono più problemi: in ciascuno dei due intervalli di 4° separati dal tono centrale Fa Sol in cui abbiamo suddiviso l’ottava, resta ancora un piccolo intervallo da completare, di poco inferiore al mezzo tono. E’ questo ciò che chiamiamo semitono.

Va però osservato che, per quanto facile e convincente possa apparire, questa genesi della scala naturale resta pur sempre una semplice interpretazione . Ciò che infatti si conosce con certezza è solo l’elaborazione dei suoni nell’orecchio interno, precisamente nella coclea, dove le circa 25000 cellule ciliate dell’organo di Corti – l’apparato recettore,equivalente acustico della retina – entrano selettivamente in risonanza con i diversi armonici del segnale sonoro e li trasformano in impulsi nervosi da inviare al cervello. E’ proprio grazie a questa straordinaria capacità di analisi del nostro orecchio, incomparabilmente più raffinata ed estesa di quella dell’occhio – che avendo nella retina solo 3 tipi di coni diversi sensibili ai colori (i bastoncelli vedono solo in bianco e nero, anche se con luce scarsa) non distingue ad es. il giallo puro dello spettro da una mescolanza (additiva!) di rosso e di verde – che noi sappiamo distinguere timbri di voce anche solo appena diversi tra loro e avvertire le lievi stonature derivanti dal comma nella scala naturale. La capacità quindi di apprezzare i tanti armonici successivi comuni a un Do e un Fa (o a un Do e un Sol) rispetto ai pochi tra un Do e un Re è quindi tutta quanta dell’udito e non richiede pertanto particolari elaborazioni da parte del cervello che forse procede secondo le regole prima indicate (ancora non si sa con certezza, la neurofisiologia è appena agli inizi) e casomai è portato a semplificare e ad arrotondare i molteplici dati sensoriali che riceve, come meglio si vedrà più avanti parlando di accordi (dove il cervello è stranamente di manica larga). Di certo, comunque sia, esistono regole di selezione – innate o acquisite dall’esperienza, ancora non sappiamo bene – mediante le quali il cervello procede con le diverse frequenze sonore sino ad approdare in un modo ancora incerto alla scala naturale, pur accettando di farsi ingannare poi da quella equabile (ma sempre molto meno di quanto accetti con gli altri sensi, a cominciare dalla vista).

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§ 4 . SCALE DI VARIO TIPO (ovvero: a spasso sulle scale mobili ma attenzione agli … accidenti)

Le scale sinora considerate, siano esse la naturale o la temperata, sono scale di modo maggiore in quanto sempre i semitoni si trovano tra il 3° e il 4° e tra il 7° e l’8°, sono cioè del tipo TTSTTTS. Oltre ad esse in musica si introducono le corrispondenti scale di modo minore, ciascuna del tipo TSTTSTT, aventi cioè i semitoni abbassati tra il 2° e il 3° e tra il 5° e il 6°. Per comprendere il motivo di tale modifica e associazione (non essendo infatti questa la scala emessa “spontaneamente” dalla voce umana quando ascende verso l’ottava superiore) basta pensare ad uno strumento a tastiera dove sono in genere presenti, allineate una di seguito all’altra, due o più scale. L’esempio tipico è il pianoforte, che comprende tutte le sette ottave fondamentali ( la prima nota a sinistra è infatti un La0 mentre l’ultima a destra è un Do8); in esso la sequenza è quindi :

TSTTSTT TSTTSTT TSTTSTT TSTTSTT TSTTSTT TSTTSTT TSTTSTTTS (sequenza addirittura leggibile sulla tastiera, identificando i T con i tasti neri e gli S con gli spazi bianchi, i tasti neri che mancano, insomma). Suonandola dall’inizio, sempre per il momento sui soli tasti bianchi, essa risulta proprio una successione di ottave in modo minore, che iniziando con il La formano la scala di La minore; partendo invece due tasti dopo esse diventano: TTSTTTS TTSTTTS…cioè una successione di ottave in modo maggiore, che ora formano la scala di Do maggiore.

La stessa sequenza di toni e semitoni può quindi interpretarsi nell'uno o nell'altro modo, a seconda del tono T da cui si parte. Osserviamo infine che i testi di teoria musicale riportano altri tre tipi di scala minore (armonica, melodica e mista), ma si tratta solo di modifiche secondarie della prima.

La scala maggiore appena considerata - quella che sul pianoforte si ottiene suonando solo i tasti bianchi a partire dal terzo (n=3) oppure dai tasti corrispondenti di qualche ottava successiva n =3+ 7k, con k =1.. 8 (si osservi che in tutto ci sono 2+ 7x7+1 = 52 tasti bianchi mentre quelli neri sono 1+ 7x (2+3) = 36) è detta di Do maggiore in quanto ogni tasto di numero 3+7k considerato (sempre che , s’intende, il pianoforte sia correttamente accordato) emette un suono di frequenza pari ad una di quelle della prima colonna della tabella, ma se tutte le corde del pianoforte venissero allentate oppure tirate ulteriormente allo stesso modo (o più semplicemente ancora accorciate della stessa lunghezza, come avviene con la chitarra quando si applica un “barré” ) la scala chiaramente diventerebbe di Si, La# ecc. quando si allenta, oppure di Do#, Re ecc. quando si accorcia.

E’ possibile però cambiare la tonalità delle due scale (anche quella di modo minore viene anch’essa alterata in maniera analoga) semplicemente partendo da un’altra delle sette note (un altro tasto bianco) ma allora, per rispettare la sequenza … TTSTTTS TTSTTTS… occorre opportunamente alterare con dei diesis # (oppure bemolli, fa lo stesso) una o più note della scala. In particolare si può partire dalla 5° nota, il Sol, prendendo in tal modo come coppia di toni che dà avvio alla scala maggiore gli ultimi due della terna: …TTST TTSTT…a patto però che dopo l’ultimo T appena scritto segua un altro T (necessario per avere la terna) e poi un S; ciò si ottiene facilmente, osservato che si può scrivere:

… TTS(T)TTS TTS(T)TTS …= …TTS(SS)TTS TTS(SS)TTS … = … TTT(S)TTS TTT(S)TTS …innalzando cioè di un semitono soltanto il Fa (nota successiva al primo semitono) mediante un diesis; si avrà pertanto:

T T S T T S T T T S T T S … Re Mi Fa# Sol La Si Do Re Mi Fa# Sol La Si Do … (Do) (Re) (Mi)(Fa) (Sol) (La) (Si)(Do) (note corrispondenti in Do maggiore)

E’ questa pertanto la tonalità di Sol maggiore, associata a quella di Mi minore (essendo Mi la 5° del La); sugli spartiti musicali per indicare tale tonalità si scrive un # vicino alla “chiave “

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all’inizio del pentagramma (in genere è di violino) e ciò significa: ogni qualvolta che si presenta un Fa dello spartito esso va innalzato di un diesis. In altri termini, suonandola al pianoforte, occorre utilizzare anche i tasti neri, per ora uno solo. Per avere poi due # in chiave basterà iterare il procedimento a partire dalle due ultime tonalità ottenute, procedendo sempre per intervalli di 5°: poiché le quinte del Sol e del Mi sono il Re e il Si si otterranno le tonalità del Re maggiore e del Si minore, con un nuovo # nella quinta del Fa#, che è il Do#.

Come si vede, nonostante l’impossibilità del “circolo delle quinte” l’intervallo di 5° ha comunque un ruolo preminente nella teoria musicale, anche perché vale 3/2, il rapporto più semplice dopo quello d’ottava (2).

Diamo ora il quadro riassuntivo di tutte le tonalità, sempre procedendo per intervalli di 5°. Si osservi come nelle successioni si intersecano due scale ascendenti, ma sempre di un tono completo per volta. Limitandoci a considerare quella delle maggiori esse sono infatti: Do, Re, Mi, Fa#, Sol#,La#, Do la prima mentre la seconda risulta essere: Sol, La, Si, Do#, Re#, Fa. Osserviamo infine che nelle scale delle tonalità in diesis è sempre presente assieme alla nota alterata che individua la scala anche quella originaria in quanto l’ultimo intervallo della scala maggiore è sempre un semitono (formato proprio da quelle due note, ad es. Fa e Fa#).

T. maggiore T. minore Note alterate Scala maggiore ascendente (ottava) Do La Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Do Sol Mi Fa# Sol, La, Si, Do, Re, Mi, Fa#, Sol Re Si Fa#, Do# Re, Mi, Fa#, Sol, La, Si, Do#, Re La Fa# Fa#, Do#, Sol# La, Si, Do#, Re, Mi, Fa#, Sol#, La Mi Do# Fa#, Do#, Sol#, Re# Mi, Fa#, Sol#, La, Si, Do#, Re#, Mi Si Sol# Fa#, Do#, Sol#, Re#, La# Si, Do#, Re#, Mi, Fa#, Sol#, La#, Si Fa# Re# Fa#, Do#, Sol#, Re#, La# Fa#, Sol#, La#, Si, Do#, Re#, Fa, Fa# Do# La# Fa#, Do#, Sol#, Re#, La# Do#, Re#, Fa, Fa#, Sol#, La#, Do, Do# Sol# Fa Do#, Sol#, Re#, La# Sol#, La#, Do, Do#, Re#, Fa, Sol, Sol# Re# Do Sol#, Re#, La# Re#, Fa, Sol, Sol#, La#, Do, Re, Re# La# Sol Re#, La# La#, Do, Re, Re#, Fa, Sol, La, La# Fa Re La# Fa, Sol, La, La#, Do, Re, Mi, Fa Do La Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Do

§ 4 . DALLE SCALE AGLI ACCORDI - TEMPI E RITMI (ovvero: anche in musica è tempo di mettersi d’accordo)

Dopo aver parlato di scale e tonalità è facile parlare di accordo, in genere definito come una consonanza di due o più note (gradevole all'orecchio), l’opposto di dissonanza. Proprio per l’analisi armonica dei suoni che l’orecchio compie, la consonanza è tanto più armonica quanto più semplici sono i rapporti - esatti o anche solo approssimati, in particolare il semitono viene assunto 16/15 - tra le frequenze delle note componenti.

Nel caso di due note, dopo l’unisono [1:1] (tipico del canto gregoriano) e l’accordo di 8° [1:2] (spesso usato nei canti corali) abbiamo quelli di 5° [2:3], di 4° [3:4] e di 3° [4:5](9/8x9/8 80/64) nella scala (naturale) maggiore, mentre nella minore l’intervallo di 3° ,sceso di un semitono, diventa [5:6] (= 8/9x15/16). Negli accordi di tre note, limitandoci a quelli di Do (tutti gli altri si ottengono infatti da questo innalzando di uno stesso intervallo le note componenti) il migliore è quello di Do maggiore Do = (Do, Mi, Sol) [4: 5: 6] perciò del tipo (1°, 3°M, 5°); Re M sarà quindi: Re, Fa#, La e così via.

All’accordo di Do si legano, avendo una nota comune, quelli di Sol(Sol, Si, Re) e Fa (Fa, La, Do) o anche una variante del Sol, il Sol 7, come si vedrà tra poco, ma si lega inoltre in modo particolare l’accordo di La minore: La m =(La, Do, Mi) che addirittura presenta due note comuni essendo la scala del La minore associata, come s’è visto, a quella di Do . Ogni accordo in minore simile al La m risulta pertanto del tipo (1°, 3°m, 5°), quindi con rapporti uguali a La m =(La, Do, Mi) [10: 12:15].

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E’ interessante confrontare ogni tono maggiore con il corrispondente minore: se ad es. si considera l’accordo di La maggiore esso risulta (La, Do#, Mi), come subito si ricava dallo schema precedente sulle tonalità; il La m differisce quindi dal La solo nella nota centrale dell’accordo, che risulta più bassa di un semitono (la nota è cioè “bemollizzata”. Al solito poi questa regola ha carattere generale, ad es. Do m = (Do, Mi b, Sol).

Aggiungiamo ancora – anche se ciò esula ovviamente da considerazioni di carattere teorico - che il passaggio dall’accordo minore a quello maggiore corrispondente o, come in genere si dice, dalla tonalità minore alla maggiore comunica a chi ascolta un senso di distesa serenità e liberazione che spesso diventa vera e propria gioia, allegria, l’esatto contrario della riflessiva attesa e a volte di malinconia evocate dagli accordi in minore; non a caso gli allegri in musica sono caratterizzati da tonalità in maggiore mentre gli adagi e gli andanti ricorrono quasi sempre a tonalità minori, così come la canzone tipo dopo un’introduzione in minore passa in genere al maggiore nel ritornello. A prescindere comunque da questi aspetti emotivi i quattro accordi (o cinque, contando il Sol 7) ora presentati formano il cosiddetto “giro di Do”, usato spesso per accompagnamento di brani musicali e canzoni; al solito poi, a partire da esso si potranno ricavare altri giri analoghi, innalzando ogni nota di uno stesso intervallo (ad es. in Re : Re M, La M, (La 7), Sol M, Si m).

Un altro valido accordo di tre note è quello di quarta: Do4 =(Do, Fa, Sol), quindi del tipo (1°, 4°, 5°) [6: 8: 9] ma oggi soprattutto si utilizzano accordi di quattro note. Il più usato, come s’è detto, è quello di settima, così chiamato perché si ottiene aggiungendo agli accordi , maggiori o minori che siano, la nota che individua con la fondamentale un intervallo di settima minore o, detto più semplicemente, aggiungendo la nota che sta un tono al di sotto di quella fondamentale: così ad es. per il Do 7 occorre inserire il La#, un tono al di sotto del Do per cui si avrà: Do 7 = (Do, Mi, Sol, La#) e Do m7 = (Do, Mib, Sol, La#); se la nota aggiunta fosse invece il Si si parlerebbe invece di “settima eccedente” (o aumentata) ottenendo Do 7+ e Do m7+ ma si tenga conto che esistono anche accordi di quattro note con intervalli diminuiti (-). Notiamo poi che anche per il Do 4 è possibile aggiungere la 7° (sempre il La#) ottenendo il La 4/7.

Così pure si può aggiungere non la settima (o la sua eccedente) ma la sesta, ottenendo in tal modo Do 6 e Do m6 o creare persino accordi di cinque note aggiungendo la nona a quelli di settima (Do 9 e Do m9).

Va detto che molti di questi accordi moderni suonerebbero come dissonanze per ascoltatori di altri tempi, per quanto vada riconosciuto che ad es. in epoca medioevale, al sorgere della polifonia, anche le varie forme di dissonanza furono diligentemente codificate, intendendo come dissonanza ogni aggregato di due o più suoni che non sia riconducibile ad un accordo di tre note, maggiore oppure minore.Riassumendo e completando cose già dette diamo ora una tabella dei vari tipi di intervallo (non degli accordi, sarebbero troppi) classificandoli secondo le regole - non sempre chiare e sistematiche, questo va riconosciuto - tuttora accolte dalla moderna teoria musicale. Ricordiamo ancora a tale proposito che un intervallo è detto di seconda, terza ecc. se le note che intercorrono tra le due specificate, contando le due note stesse, sono due, tre ecc.; così ad es. l’intervallo tra Do e Re (pari a un tono T) ma anche tra Mi e Fa (pari a un semitono s) è sempre di seconda mentre quello tra Do e Fa è di quarta, essendo due le note comprese (quattro in tutto).

Intervallo perfetto (o giusto) maggiore minore eccedente (o aumentato) diminuito

2° 1T 1s 1T + 1 s 3° 2 T 1T + 1s 2 T + 1s 2s 4° 2T + 1s 3T 2T 5° 3T + 1s 4T 3T 6° 4T + 1s 4T 5T 3T + 1s 7° 5T + 1s 5T 6T 4T + 1s 8° 6T 6T + 1s 5T + 1s 9° 8T 7T + 1s 8T + 1s 6T

Concludiamo queste brevi e schematiche considerazioni sui fondamenti acustici del linguaggio musicale prendendo in esame gli altri elementi caratteristici delle note oltre alla loro altezza, codificata com’è ben noto mediante il semplice sistema del pentagramma (con eventuali tagli addizionali) e delle chiavi musicali.

Per quanto riguarda la durata di una nota (o di un accordo o anche di una pausa) va detto innanzitutto che essa è sempre relativa, riguarda cioè solo i rapporti tra i diversi tipi di note e non permette quindi di stabilire la velocità di esecuzione di un brano musicale che resta sempre libera, come ben sanno tutti gli studenti di musica sin dalle prime lezioni preliminari di solfeggio, con o senza metronomo.

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Page 13: PREMESSE ESSENZIALI DI ACUSTICA · Web viewe soprattutto alla composizione da parte di J.S. Bach di uno dei suoi soliti capolavori : “Il clavicembalo ben temperato”, opera comprendente

Per quanto riguarda invece il tempo musicale, o meglio il ritmo – quello che ci fa distinguere ad es. tra un valzer e una marcia o riconoscere un tempo sincopato, ma qui ci limitiamo solo ad un cenno fugace, l’argomento è vastissimo – le distinzioni nascono soprattutto dalle diverse accentuazioni che diamo alle note successive di una melodia, del tutto analoghe a quelle che si presentano nei vari tipi di metrica usati in poesia dove il brano è suddiviso in versi. In musica è regolato invece dalla “battuta” che proprio come il verso, ad es. l’endecasillabo, racchiude sempre in uno stesso brano durate uguali e similmente accentate.(non basta la durata: ad es. il tempo ordinario (4/4) e quello tagliato (2/2) sono diversi; idem per 3/4 e 6/8).Il sistema è comunque fondamentalmente quello binario: posta infatti pari ad uno la durata della semibreve, per tutte le altre (minima, semiminima, croma, semicroma, biscroma e semibiscroma) la durata è, nell’ordine indicato, la metà di quella che precede (va però osservato che nelle “terzine” ogni nota vale 1/3). Per la semibiscroma, la più breve, è quindi 1/ 64.

Per quanto riguarda invece l’intensità sonora ci si limita a vaghe espressioni (ad es f: forte, pp: pianissimo) o segni di crescendo e diminuendo mentre il timbro è indicato solo specificando lo strumento.Altre indicazioni, ad es.:adagio, allegro, andante (sempre in italiano) riguardano poi solo l’interpretazione.

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