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Portraits of Success 2009 Internazionali, creativi, innovatori: Bocconiani all’opera

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Portraits of Success 2009

Internazionali, creativi, innovatori: Bocconiani all’opera

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Indice* Daniel, la maratona e il senso della vita 3 di Fabio Todesco Livia, cinque mesi insonni ad Harvard 5 di Fabio Todesco Maddalena, la baby magistrato 7 di Davide Ripamonti Crista, una voce in tempo di crisi 9 di Tomaso Eridani Nedo Fiano, la testimonianza come necessità 11 di Fabio Todesco Don Simon, un sacerdote per la sanità indiana 13 di Fabio Todesco L’italiana che ha un ufficio al Louvre 15 di Andrea Celauro Carlo, Giulia e Barbara, il marketing del futuro 17 di Fabio Todesco Matteo Tonarelli, uno spot per il cinema 19 di Fabio Todesco ______________________________________ * Portraits of Success è una selezione di articoli precedentemente pubblicati su Bocconi Newsletter, e consultabili online su ViaSarfatti25, il quotidiano della Bocconi, all’indirizzo www.viasarfatti25.unibocconi.it.

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Paolo Alderighi, un pianista che conosce il management 21 di Andrea Celauro Simona disegna e scrive per i bambini 23 di Fabio Todesco Con Augusto il web 2.0 scende per strada 25 di Fabio Todesco Marina Puricelli, un’idea d’impresa per Venezia 27 di Fabio Todesco Laura, una campionessa d’Italia al DES 29 di Fabio Todesco Steven, dal mondo delle corse all’MBA e ritorno 31 di Andrea Celauro Federico e Federico, l'imperatore e il suo biografo 33 di Davide Ripamonti Max, romanziere del private equity 35 di Andrea Celauro

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Daniel, la maratona e il senso della vita di Fabio Todesco

Supersportivo studente polacco del BIEM, Kaluza è arrivato ottavo al campionato italiano universitario, che coincideva con la Milano city marathon. Perché non può fare a meno di competizione e sfinimento.

Daniel, concludendo la sua prima maratona in 4 ore e 11', ha vinto una sfida con se stesso, con un bonus di soddisfazione dovuto all’ottava posizione nel campionato italiano universitario, che quest’anno coincideva con la Milano city marathon di novembre. “So che il mio è un normale tempo da esordiente, ma l’ottava posizione mi fa piacere”. Unico studente della Bocconi registrato come tale ad avere portato a termine i 42 chilometri e 195 metri della gara, Daniel Kaluza è un polacco di 20 anni, iscritto al secondo anno del Bachelor of International Economics, Management and Finance (BIEM), nonché uno sportivo instancabile, con una bruciante passione per il calcio. A Trzebnica, la sua città natale, giocava nella seconda divisione dei campionati giovanili polacchi, ma non passava giorno senza un impegno competitivo di qualche genere: “Volley, basket, persino gli scacchi”, racconta. Alla Bocconi gioca nella squadra di calcio a 5, “anche se sono fermo dal giorno della maratona, perché mi si è riacutizzato un infortunio alla caviglia che avevo subito in Polonia”, puntualizza. Alla Bocconi è arrivato, dopo le scuole superiori dedicate agli studi storici, perché voleva frequentare l’università all’estero. “Ho assistito a una presentazione della Bocconi nella mia scuola, e l’idea ha cominciato a frullarmi nella testa”, dice, “e allora ho controllato, via internet, il background dell’università, il suo status internazionale, le porte che mi avrebbe aperto per il futuro. Alla fine si sono rivelati decisivi, oltre a questa ricerca, l’esistenza di borse di studio e la prospettiva di vivere in Italia, che mi affascinava, anche se ora mi sono reso conto che, se non si conosce l’italiano, nella vita di tutti i giorni si è molto limitati. Anche la fitta rete di relazioni internazionali della Bocconi ha giocato un ruolo importante, perché spero di poter andare in scambio in Giappone”. Se è giù di corda, annoiato o arrabbiato, Daniel si sfoga facendo sport. “Quando ho un pallone a disposizione sono felice”, afferma, “e ritengo che lo sport sia divertimento puro, il modo migliore di passare il proprio tempo. Anche lo sfinimento fisico che sopraggiunge dopo ore di attività è una sensazione che mi piace”.

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Da questa filosofia non poteva che seguire l’interesse per la maratona e Daniel avrebbe voluto correre quella di Milano già nel 2007, “quando da una mail interna scoprii che un professore di Finanza aziendale, Maurizio Dallocchio, stava organizzando un team dell’università insieme alla Fondazione Veronesi. Ma eravamo molto vicini all’evento e alla fine ho rinunciato”. Data per scontata la forma fisica, grazie all’intensa attività sportiva, Daniel vedeva la maratona come una sfida soprattutto mentale. “Avevo corso gare di resistenza più brevi, anche mezze maratone, ma mai una distanza simile. Vedevo la maratona come un’esplorazione delle mie possibilità, qualcosa che non puoi capire fino a quando non la fai. E sono ancora convinto che sia così”. È stato consigliato da Roberto, un compagno di squadra dei Pellicani che corre, e si è avvicinato alla sezione di atletica della polisportiva Bocconi, ma non ha svolto una preparazione specifica. “Roberto mi diceva di partire piano, magari con i pacemaker delle 4 ore e 15', volontari che corrono l’intera maratona a un ritmo prestabilito per aiutare gli altri a concluderla entro il proprio obiettivo, per poi accelerare se ne avessi avute le forze, e finire intorno alle 4 ore. Invece mi sentivo bene e sono partito troppo veloce, correndo con i pacemaker delle 3 ore e 30' per i primi chilometri, e poi con quelli delle 3 ore e 45'. Ai 35 chilometri il mio corpo ha smesso di obbedirmi; non riuscivo più ad andare avanti, e da lì a 300 metri dall’arrivo è stato un calvario. Quando ho visto la linea d’arrivo mi sono tornate le forze e ho fatto uno scatto da velocista”. A risentire della maratona è stata soprattutto la caviglia destra di Daniel, che gli consiglierebbe un lungo stop. “Ma per me lo sport è una parte importante della vita, quella che le dà un senso. Che cosa fareste se vi consigliassero di smettere di mangiare? Proteggerò la caviglia ma continuerò a correre e a giocare a calcio”.

Da Bocconi Newsletter no. 63/2009

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Livia, cinque mesi insonni ad Harvard di Fabio Todesco

Livia è uno dei tre studenti andati in scambio al Department of Economics del college americano. All’insegna dell’impegno (dorme quattro ore per notte) e del divertimento.

Nata a Tirana nel 1987, studentessa del terzo anno del Bachelor of International Economics, Management and Finance (BIEM), Livia Themelko è uno dei tre studenti Bocconi (gli altri sono Dario Manicardi e Vittorio Bassi) che, a partire dallo scorso settembre, hanno passato un semestre di scambio al Department of Economics di Harvard. “Il periodo più impegnativo, ma anche più divertente della mia vita” definisce oggi, a pochi giorni dal rientro, i cinque mesi passati negli Stati Uniti. L’accordo bilaterale di scambio Harvard-Bocconi è al secondo anno di operatività. “Per quanto riguarda l’economia”, rammenta Fulvio Ortu, prorettore all’internazionalizzazione della Bocconi, “Harvard ha accordi reciproci di scambio con soli tre atenei in Europa, e il nostro è uno di questi”. Non che Livia tema l’impegno. Abituata a dormire non più di quattro ore per notte, nei primi due anni di BIEM ha saputo raggiungere la media del 30,4 affiancando agli studi anche alcune esperienze di lavoro in Aiesec, l’associazione studentesca presente in 100 paesi del mondo, e in università, in qualità di tutor di informatica, matematica finanziaria e microeconomia (“lavorare con gli altri studenti è fantastico”, dice al proposito). Anche ad Harvard, accanto a ritmi di studio davvero impegnativi, dedicava due ore al giorno al lavoro nel negozio di una cooperativa studentesca. “Le mie motivazioni sono tutte interne, personali”, dice. “Non riesco ad andare a dormire se ho qualsiasi lavoro ancora in sospeso”. “Ero indecisa se tentare la selezione per lo scambio”, ricorda Livia, “perché l’ultimo anno di BIEM è già impegnativo, ma poi mi sono detta che se fossi riuscita ad andare ad Harvard ne sarebbe valsa la pena. Ed è stato così. Lo scambio, inoltre, asseconda la mia voglia di esplorare, di non restare ferma più di qualche anno nello stesso posto”. Che è lo stesso afflato che l’ha portata, in primo luogo, a studiare a Milano.

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Con l’aiuto dei genitori che già lo parlavano, Livia ha imparato l’italiano guardando la televisione a 5 anni, e a 7 lo leggeva e scriveva. Quando si è trattato di scegliere dove andare all’università, ha superato diverse selezioni in Europa e Stati Uniti, ma ha optato per la Bocconi per il buon bilanciamento del BIEM tra scienze economiche e manageriali e, in parte, per la minore distanza da casa. “Mi aspettavo che Milano fosse una città dall’aspetto più moderno, mentre l’impatto con le persone è stato positivo”, ricorda. Un po’ quello che è successo a Boston, la più europea delle città americane. “La gente e l’ambiente universitario, però, sono ancora più aperti che a Milano. Qui se chiedi ti aiutano tutti, là si offrono loro di aiutarti, tanto che dopo una sola settimana avevo già parecchi amici con cui condividere impegni e divertimento”. Oltre allo studio, il modello di tre dei quattro corsi affrontati ad Harvard prevedeva anche un homework di una quindicina di pagine ogni settimana. Così dal lunedì al giovedì Livia frequentava le lezioni fino alle 14,30, lavorava dalle 15 alle 17 e studiava dalle 18 alle 2 di notte con il venerdì (libero da lezioni) e il sabato quasi totalmente dedicati agli homework. “Ma il fine settimana era anche pieno di party, con una varietà di musica che a Milano non ho riscontrato”. “Mi aspettavo un ambiente di freak”, dice ancora Livia, “e invece mi sono trovata benissimo. Ho anche imparato ad angosciarmi di meno. Sono una che ha sempre programmato tutto, anche con anni di anticipo; mi sono sempre creata molte attese, che a volte si sono tramutate in delusioni. Lì l’ambiente è diverso e l’atteggiamento è... take-it-easy”. Anche l’interazione con i docenti è più informale e incoraggiata dagli stessi professori, ma in classe si vive una competitività eccessiva. “Il fatto”, spiega Livia, “è che i voti sono relativi. Il tuo dipende moltissimo da quello che fanno gli altri e i risultati eccezionali di qualcuno possono trasformare in mediocri quelli buoni di altri”. Al ritorno da Harvard Livia è sempre più convinta della scelta di privilegiare gli studi di economics (la materia che insegna sua madre all’Università di Tirana) rispetto a quelli di management e ha interessi più accademici, scientifici di prima. Ha ristretto il ventaglio di materie tra cui scegliere la tesi e si è chiarita le idee su come impostare il biennio e in quali settori lavorare. Forse non ha perso del tutto la tendenza a pianificare...

Da Bocconi Newsletter no. 64/2009

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Maddalena, la baby magistrato di Davide Ripamonti

A soli 27 anni sul biglietto da visita della dottoressa Torelli si legge avvocato e magistrato. Ma è quest’ultima la carriera che ha scelto di seguire. A partire dal tribunale di Crotone.

A soli 27 anni Maddalena Torelli di “cause” ne ha già vinte e risolte molte. Dopo la laurea in giurisprudenza ha infatti superato sia l’esame di Stato per l’avvocatura sia, a soli 25 anni, il concorso in magistratura, divenendo così una dei cinque più giovani magistrati d’Italia. E dire che in principio Maddalena non aveva le idee tanto chiare. La scelta di frequentare giurisprudenza in Bocconi, Maddalena Torelli, di Lecce, che dal prossimo settembre sarà giudice del lavoro a Crotone, “il mio primo incarico in autonomia”, dice con orgoglio, l’aveva maturata con lo scopo di tenersi aperte più opportunità rispetto a quelle tradizionalmente offerte dalle facoltà di legge. “Il taglio economico che offriva la Bocconi, in particolare, poteva tornarmi utile qualora avessi scelto la carriera dell’avvocato d’affari”, racconta Maddalena, “ma non è andata così”. Niente City di Londra, Wall Street o anche, più semplicemente, piazza Affari a Milano. Niente uffici sfarzosi in una metropoli dai ritmi frenetici, visto che a Maddalena piace “la vita in campagna nella mia masseria fuori Lecce, con gli animali e il mio orto”. Qualche passo nella direzione del “business”in realtà Maddalena l’ha compiuto, giusto il tempo di capire che non era la sua strada. “Prima della laurea ho svolto un periodo di stage di tre mesi presso lo studio americano Freshfields-Brukaus-Deringer, specializzato in diritto internazionale, finanziario, bancario e commerciale, e ho capito che questa vita non faceva per me. Anche perché prima o poi avrei voluto tornare a vivere a Lecce e lì realtà del genere non esistono”. Scartato quindi il dorato mondo della finanza, l’idea della carriera in magistratura, “non una tradizione di famiglia, visto che i miei sono medici, ma piuttosto una sorta di ‘vocazione’ poiché sin da piccola ho sempre cercato di mediare quando si presentavano situazioni di contrasto in famiglia o tra amici”, spiega, prima vaga o solo un’ipotesi tra le tante, a questo punto prende corpo e Maddalena (che nel luglio del 2004 si laurea con 110 e lode) si iscrive alla Scuola di specializzazione. Poi, il momento del concorso, uno scoglio non da poco, vista la bassissima percentuale, statistiche alla mano, di coloro che superano lo scritto: “Ma io mi sentivo fiduciosa, anche perché in Bocconi questo tipo di prove sono la regola e non ho quindi avuto il tempo di arrugginirmi”.A febbraio del 2006, a Milano, per lo scritto

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si presentano in 12 mila: “Bisognerebbe dire ‘gli scritti’, argomenti il diritto penale, civile e amministrativo”. Prima della bella notizia bisogna attendere alcuni mesi: Maddalena infatti è tra i 342 che hanno superato l’esame e potranno, nel giugno successivo, sostenere la prova orale a Roma. Che non è una formalità, come alcuni sostengono, ma un banco di prova molto severo, “soprattutto dal punto di vista psicologico, visto che ci si trova davanti a una commissione composta da una dozzina di magistrati e professori universitari, per circa due ore, su temi che toccano ben 13 materie”. Al termine del colloquio, “la sentenza”, scherza Maddalena, “una formula solenne con la quale si viene ufficialmente proclamati magistrato ordinario della Repubblica Italiana”. Maddalena Torelli è adesso un magistrato a tutti gli effetti (nel frattempo ha anche superato l’esame di stato per la professione forense. A questo proposito, secondo gli ultimi dati, il 91% dei laureati Bocconi che svolgono questo esame ottengono l’abilitazione contro un dato nazionale inferiore al 40%), che svolge per circa un anno un tirocinio generico, “occupandomi di civile, penale, minorenni e altro”, spiega, “poi per sei mesi sarò affiancata a un giudice anziano per un tirocinio mirato come giudice del lavoro”. Ma le soddisfazioni per Maddalena Torelli non finiscono certo qua. A ottobre, presso l’Università Pontificia di Roma, “sono stata premiata dal ministro Giorgia Meloni, insieme a quattro miei colleghi, come la più giovane magistrato d’Italia con i miei 25 anni al momento della nomina”. Il premio? “Un computer di ultima generazione, a rappresentare il grande sforzo verso la modernità che sta compiendo la magistratura italiana”. Dopo Crotone c’è la possibilità che Maddalena torni a Milano: “Se dovessi decidere di dedicarmi a temi più economici e finanziari, Milano potrebbe essere una delle mie destinazioni. D’altronde quando ho superato l’esame ero l’unica con una laurea in una facoltà di economia”. Maddalena però ama il mare e i viaggi in barca a vela che ogni estate la portano in Grecia, “che è a un tiro di schioppo da Lecce. Ma, soprattutto, amo la vita semplice”. Difficile, per ora, immaginarla di nuovo a Milano

Da Bocconi Newsletter no. 65/2009

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Crista, una voce in tempo di crisi di Tomaso Eridani

Dalle crisi politiche a quelle finanziarie. Dopo un anno come portavoce del presidente del Guatemala, Crista Kepfer, diplomata al Master in Public Management (MPM) della SDA Bocconi, è oggi Public Affairs Officer alla Citibank.

Una ragazza di 28 anni che lavora, insegna e aiuta nella fondazione di famiglia per aiutare i malati di Aids. Crista Kepfer, diplomata al Master in Public Management (MPM) della SDA Bocconi, non disdegna gli impegni intensi, considerando che per un anno è anche stata portavoce del presidente del Guatemala, sempre spinta dalla convinzione di potere aiutare la collettività. Crista si laureò in biologia ma capì presto che la sua strada era un’altra. “Mi piacevano le scienze ma non le prospettive di lavoro e capii che per me era più importante coltivare le relazioni umane”. E così si iscrive a un master in relazioni internazionali e inizia anche a collaborare nella redazione del quotidiano guatemalteco Prensa Libre. “Mi piacevano la scrittura e la politica perciò era una combinazione perfetta. Per certi versi quell’esperienza è stata il mio master ‘nella realtà’ – in cui ho conosciuto tanti posti e persone e visto la povertà reale che affligge il nostro paese,” racconta Crista. Dopo il master Crista lavora per un anno a tempo pieno in redazione dove matura la scelta di dedicarsi al settore pubblico. “Ho capito che si potevano fare cose concrete per migliorare il settore pubblico e un candidato alle elezioni politiche mi raccontò del suo master in public management ad Harvard,” racconta Crista. “Io scelsi di studiare in Europa perché volevo acquisire una visione diversa da quella americana dato che il nostro paese è già molto influenzato dagli Usa. E scelsi la Bocconi perché mi piaceva l’Italia e il MPM ha un ottimo curriculum e una classe veramente internazionale.” L’anno a Milano passa in modo intenso e piacevole. “È stato uno degli anni più belli. Il programma era costruito in modo ottimo e il vero asset era una classe composta da studenti di tutto il mondo con cui scambiare idee e vedute diverse.”

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A fine corso, nel settembre 2005, tramite il MPM ottiene uno stage a Ginevra presso lo United Nations Office for Project Services. “Un’esperienza che mi convinse di volere lavorare nel settore pubblico – ma anche che fosse meglio farlo nel proprio paese, per essere più incisivi.” E così segue il rientro in Guatemala e un impiego come junior advisor presso il ministero delle Finanze, lavorando su progetti legati a prestiti della Banca mondiale e la Intra-American Development Bank, inclusa la negoziazione di un prestito di 40 milioni di dollari per la costruzione di ospedali. “L’anno dopo”, prosegue il racconto Crista, “mi arriva una chiamata interessante. Un mio ex collega di redazione era il vice nell’ufficio stampa della Presidenza e mi dice che si è liberato il posto di portavoce. Mi hanno detto che gli impiegati pubblici sono come soldati che devono obbedire e accettai.” Nei corridoi del potere Crista passa un anno intenso al fianco del Presidente Óscar Berger. Dopo solo pochi giorni tre membri del congresso di El Salvador vengono uccisi in Guatemala e scoppia una crisi diplomatica e Crista è chiamata subito a mettere in pratica le sue doti di crisis management. Seguono altri momenti difficili, dalle piogge torrenziali che colpiscono quell’anno agli scioperi. “È difficile convincere i giornali e gli opinion leader che stai dicendo la verità,” spiega Crista. “Ma l’importante è essere sempre sinceri nei rapporti. E stato comunque un anno incredibile. Partecipare alle riunioni di gabinetto mi ha fornito un affascinante dietro le quinte sui meccanismi di governo. E ci sono stati tanti momenti bellissimi, dalle riunioni internazionali ospitate in Guatemala alle visite di stato, come quella del Presidente Bush.” Nel gennaio 2008 il suo mandato scade con quello del Presidente e poco dopo Crista nella stessa giornata ha un colloquio con Citibank, nella filiale di Città del Guatemala, e uno per un altro incarico nel governo. Il destino vuole che quello viene rimandato e Citibank vuole una risposta immediata e così Crista si sposta nel settore privato, come Public Affairs Officer, seguendo l’ufficio comunicazione ma anche come responsabile dei progetti, di formazione e di sviluppo sostenibile, promossi dalla Citi Foundation. “Sembra che attragga le crisi! Entro in un nuovo mondo per me, quello finanziario, e dopo pochi mesi crolla tutto,” scherza Crista. “Comunque mi piace, anche se è molto diverso. Quando sei al governo devi raccontare tutto, nella comunicazione aziendale il meno possibile.” Ma gli impegni non finiscono qui. Dal mese scorso Crista insegna giornalismo all’università e ha anche ripreso ad aiutare, sedendosi nel board, nella fondazione creata dalla sua famiglia sedici anni fa con il lascito di un suo zio per aiutare i malati di Aids, la Fundación Fernando Iturbide. “E anche qui sono riuscita a mettere a frutto gli insegnamenti del MPM, aiutando a stilare il piano strategico della fondazione per i prossimi cinque anni.”

Da Bocconi Newsletter no. 66/2009

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Nedo Fiano, la testimonianza come necessità di Fabio Todesco

Sopravvissuto ad Auschwitz, nei primi anni ’90 ha cominciato a raccontare la sua esperienza fino a meritare l’Ambrogino d’oro. Si è laureato alla Bocconi a 43 anni.

Quando è venuto alla Bocconi, mercoledì 25 marzo, per testimoniare la sua esperienza di sopravvissuto ad Auschwitz, per Nedo Fiano si è trattatodi un ritorno. Classe 1925, Fiano, nato in una famiglia ebraica fiorentina, si è laureato in lingue alla Bocconi nel 1968. Espulso da scuola a 13 anni all’emanazione delle leggi razziali, Fiano fu arrestato nel febbraio del 1944 e deportato ad Auschwitz, dove giunse a maggio. Subito selezionato per il campo di sterminio, e non per quello di lavoro, si salvò grazie alla conoscenza del tedesco, che gli aveva insegnato il nonno, morto nel 1936. Quando un sergente maggiore delle SS chiese agli ebrei schierati chi parlasse il tedesco, racconta Fiano in “A5405. Il coraggio di vivere”, il libro del 2003 in cui racconta la sua vita ad Auschwitz, si sentì come spinto alle spalle dal nonno e rispose di parlarlo. Fu assegnato a un kommando che accoglieva al campo i deportati di tutta Europa e vide arrivare al campo anche sua nonna. Liberato nell’aprile 1945 dagli americani a Buchenwald, dove era stato trasferito dai tedeschi in fuga, Fiano pesava 37 chili e aveva perso tutta la famiglia. Gli studi alla Bocconi, dal 1963 al 1968, sono stati intrapresi per adempiere a una promessa fatta alla madre. “Ho studiato mentre lavoravo, frequentando perciò molto poco”, afferma oggi, “e quando comparivo in università gli altri studenti, di 20 anni più giovani di me, facevano spazio per farmi passare, credendomi un professore”. In quegli anni Fiano non aveva un’immagine pubblica. Si è assunto l’incarico di raccontare la Shoah e i campi di sterminio solo all’inizio degli anni ’90, quando ha cominciato un’attività di testimonianza in giro per l’Italia che l’ha portato, da allora a oggi, a partecipare a 842 incontri. “All’inizio degli anni ’90 non è accaduto nulla, nella vita pubblica o nella mia vita privata, che associ all’avvio di questa attività”, racconta Fiano.“È che la vita non ha un andamento lineare. C’è un barometro naturale che suggerisce a ciascuno, da un giorno all’altro, di scrivere poesie, o mettersi a cantare. Io mi sono convinto che si debba parlare della Shoah,

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nella speranza di suscitare nelle giovani generazioni una reazione che impedisca la sua ripetizione. E poi mi sono sentito come un viaggiatore che sente di avere l’ultima possibilità di prendere un treno che, altrimenti, non passerà più”. Tale, assidua attività di divulgazione gli è valsa, nel 2008, l’Ambrogino d’oro, mentre una decina di anni prima era stato consulente di Roberto Benigni per il film “La vita è bella”. Fiano attribuisce al razzismo di stato – la dottrina prima nazista e poi fascista della razza – la gran parte della responsabilità della persecuzione degli ebrei. “Quando furono emanate le leggi razziali”, ragiona, “il regime fascista aveva già inculcato nella popolazione un modo di pensare e di obbedire che, all’inizio, convinse anche parecchi ebrei. Mio padre aderì al Partito fascista, nessuno prevedeva come sarebbe andata a finire. Non posso stupirmi più di tanto, perciò, dell’atteggiamento dei miei compagni di classe, che non esitarono a emarginarmi, per la paura dei genitori e delle autorità. Mi rattrista, invece, il fatto che nessuno di loro sia venuto a cercarmi in seguito”. Fiano, d’altra parte, preferisce raccontare che spiegare l’orrore che ha vissuto. “Non cerco di capire i comportamenti degli aguzzini, perché temo che ne risulterebbe una parziale giustificazione. Mi rendo solo conto che movimenti come quello nazista, quello sovietico o quello fascista, sorgono in momenti di grande crisi, quando la gente sente il bisogno del miracolo in terra, e temo che i nostri tempi condividano questa caratteristica con la Germania di Weimar o l’Italia degli anni ’20”. Dopo una decina d’anni di testimonianza solo orale e il primo libro autobiografico, Fiano torna sulla realtà della Shoah con un romanzo, “Il passato ritorna” (Editrice Monti, 2009, 192 pagine, 16 euro), che riflette i modi asciutti della sua esposizione orale. Costruito per giustapposizione di quadri che lasciano poco spazio all’emotività pur nella narrazione di una vicenda drammatica, racconta della scelta di una coppia di ebrei torinesi, allo scoppio della guerra, di affidare il proprio bambino in fasce a un amico che vive in Svizzera e della agnizione che ne segue, 55 anni più tardi.

Da Bocconi Newsletter no. 67/2009

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Don Simon, un sacerdote per la sanità indiana di Fabio Todesco

Don Simon, un sacerdote per la sanità indiana Inviato in Italia dal suo arcivescovo per completare la formazione, don Pallupetta ha frequentato il MIHMEP e tornerà nel Kerala per gestire un ospedale e programmi di telemedicina nei villaggi.

Quando, il 7 febbraio, ha ricevuto il diploma del Master in Healthcare Management, Economics and Policy (MIHMEP) della Bocconi, la toga di Simon Pallupetta poteva sembrare un abito talare, indossata com’era sopra il colletto ecclesiastico. Sacerdote cattolico di 40 anni, don Simon è originario del Kerala, nel Sud dell’India, un’area in cui i cattolici sono il 20% della popolazione e convivono pacificamente con la maggioranza indù. Quando i portoghesi intrapresero l’evangelizzazione della regione, dalla fine del XV secolo, furono sorpresi dalla presenza di comunità cristiane risalenti alla predicazione dell’apostolo Tommaso, nel I secolo. Patria dell’ayurveda e sede di efficienti strutture di riabilitazione, il Kerala sta diventando meta del turismo sanitario americano, per via di costi nettamente più bassi. “L’afflusso di clienti ricchi, però”, spiega don Simon, “fa aumentare i prezzi e i più poveri rischiano di essere esclusi da un sistema sanitario quasi totalmente privato. Tra le poche realtà che cercano di evitare queste distorsioni c’è la Chiesa”. L’arcivescovado di Ernakulam-Angamaly, da cui don Simon proviene, gestisce due ospedali da circa 900 posti letto l’uno, in cui operano una decina di sacerdoti e 150 suore. “Qui viene accettato qualunque paziente e il pagamento è commisurato alle possibilità individuali”, afferma Pallupetta. Dopo alcune esperienze di gestione di programmi sociali e sanitari a livello locale, l’arcivescovo ha selezionato don Simon per un lavoro manageriale negli ospedali e, nel 2005, lo ha mandato in Italia per completare la sua formazione nel settore. L’Italia si è dimostrata diversa dalle sue attese. “L’immagine, in quanto sede del Vaticano, è quella di un paese spirituale e religioso, un vero punto di riferimento per i cattolici”, dice don Simon, “e invece nel Kerala c’è molta più religiosità tra i seguaci di tutte le dottrine. Tra i cattolici, il 94% è effettivamente praticante. L’Europa, inoltre, viene idealizzata e così non ci si attende di trovare tanti problemi sociali, povertà, disoccupazione. E, accanto al benessere materiale, non ci si aspetta tanto malessere spirituale”.

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Don Simon, che ha cominciato la sua attività pastorale italiana a Pofi (Frosinone), ha scoperto il MIHMEP nel corso di una visita a Paderno Dugnano (Milano), dove un assistente parroco, don Giuseppe Cotugno, è un laureato Bocconi a conoscenza dell’esistenza del master. “A farmi optare per questo, rispetto ad opzioni alternative a Roma”, spiega don Simon, “è stato il fatto che sia impartito in inglese”. La classe di Pallupetta era composta da 28 persone di 18 nazionalità diverse. “Ho potuto partecipare al master grazie a una borsa di studio”, spiega don Simon, “e, anche alla fine del programma, a giugno 2008, sono rimasto in contatto con Elio Borgonovi e il CERGAS, che mi consentono di condurre una ricerca sulla patient satisfaction e qualità. Cerco di fare molta esperienza sul campo e ho fatto stage, nel corso del master, all’ospedale S. Raffaele di Segrate, per vedere come le cose dovrebbero funzionare, e all’ospedale Little Flower di Angamali-India, uno dei due ospedali del mio arcivescovado, per cominciare a trasferire alcune conoscenze, mentre ho già programmato due ulteriori periodi in Irlanda e al Niguarda di Milano”. Intanto prosegue la sua attività pastorale per le comunità di Dugnano e Incirano, due delle frazioni di Paderno Dugnano. Don Simon rimarrà in Italia fino alla fine del 2010, prima di tornare nel Kerala come assistente del direttore di uno dei due ospedali dell’arcivescovado. “All’attività in ospedale voglio affiancare, nei fine settimana, degli healthcare camp nei villaggi per fare prevenzione, diffondere consapevolezza e intervenire con l’aiuto della telemedicina. Già oggi la nostra struttura fa 100 operazioni gratuite di cataratta la settimana grazie anche al contributo di una fondazione canadese. La mia grande speranza, però, è quella di riuscire a realizzare un centro di riabilitazione per bambini leucemici”.

Da Bocconi Newsletter no. 68/2009

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L’italiana che ha un ufficio al Louvre di Andrea Celauro

Manuela si è laureata al CLEACC: una preparazione manageriale per l’arte che le ha permesso di essere assunta al controllo di gestione del famoso museo.

Quanti, tra gli amanti dell’arte, vorrebbero avere la possibilità di rimirare a lungo la Gioconda senza doversi fare largo tra la calca di turisti che ogni giorno affollano il Louvre? Tanti, sicuramente. Manuela Noel-Meunier, se vuole, può farlo ogni martedì, il giorno di chiusura al pubblico del Musée. La giovane 25enne bocconiana, infatti, nel sancta sanctorum dell’arte parigina ci lavora: laureata poco più di anno fa al CLEACC, il corso di laurea della Bocconi in Economia e management per l’arte, la cultura e la comunicazione, dal luglio 2008 è stata assunta nel controllo di gestione del museo. “Lavorare per il Louvre è l’avverarsi di un sogno”, racconta Manuela, genitori francesi, ma un’infanzia passata in Italia. “La cosa più impressionante è la sensazione che qui tutto sia possibile, grazie sia alle competenze delle persone che ai mezzi finanziari dei quali il museo dispone”. Nel 2007, infatti, sono stati 120 i milioni di euro che il Louvre, che ha 2.200 dipendenti, ha ricevuto in sovvenzioni dal ministero dei beni culturali francese, senza contare i finanziamenti privati. Grosse cifre per una grande struttura, chiaro quindi che il lavoro di controllo della gestione sia un aspetto tutt’altro che secondario. Manuela, in particolare si occupa di seguire gli indicatori di performance che riguardano due dei quattro obiettivi principali del piano strategico che il museo ha messo a punto insieme al ministero: il pubblico e le risorse finanziarie e umane. Un lavoro che l’appassiona e nel quale sta già ottenendo risultati, se è vero che è stata coinvolta anche “nel miglioramento, insieme ad altri controllori di gestione, degli indicatori a livello di ministero da utilizzare per i maggiori musei francesi”. “Ho sempre desiderato lavorare in un’istituzione di questo tipo e ho scelto il CLEACC proprio perché mi sembrava il giusto equilibrio tra la passione per l’arte e una preparazione di tipo manageriale. Dopo la laurea, ho pensato di restare all’università per continuare a lavorare sull’ambito culturale, poi ho scoperto un sito francese specializzato nella ricerca del primo impiego nella cultura e ho visto gli annunci del Louvre. Ho mandato curricula per diverse posizioni e finalmente a maggio mi hanno convocato. Nel giro di due mesi

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mi hanno fatto un contratto”. Un bel risultato, tenendo presente che, come racconta Manuela, il Louvre “assume soltanto personale che proviene dalle migliori Grandes Ecoles francesi o dalla stessa scuola del Museo”. Evidentemente, “li ha colpiti il mio curriculum molto incentrato sulle attività museali e la mia fortissima motivazione”. E oggi Manuela può anche togliersi il lusso di essere invidiata dagli amici, tanto quelli francesi che quelli italiani: “I francesi in particolare, che sono molto orgogliosi delle loro istituzioni nazionali, mi guardano con ammirazione. Dire che lavoro al Louvre fa sempre scena”. Ammirazione che si guadagna sul campo, però, anche perché i progetti che il museo ha in cantiere sono tantissimi, “come la prossima apertura a Lens nel 2011 e la realizzazione della struttura di Abu Dhabi”.

Da Bocconi Newsletter no. 69/2009

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Carlo, Giulia e Barbara, il marketing del futuro di Fabio Todesco

Un team di studenti di Marketing Management si è aggiudicato l’Henkel innovation challenge immaginando il lavaggio dei piatti senz’acqua nel 2050.

Il creativo, la realista e la mediatrice. Alla base di un team di successo c’è quasi sempre una forte complementarità e Carlo Alberto Dall’Amico, Giulia Cacciatore e Barbara Colombo non fanno eccezione. I tre studenti del primo anno della laurea specialistica in Marketing Management hanno vinto la selezione italiana dell’Henkel innovation challenge e si sono classificati al terzo posto nelle finali internazionali di Bruxelles, a fine aprile, grazie alla produzione continua di idee di Carlo, alla razionalità di Giulia e alla capacità di Barbara di trovare soluzioni condivise. La sfida consisteva nell’individuazione di una soluzione adatta alle esigenze che potrebbero presentarsi nel 2050 nei settori presidiati da Henkel. “Abbiamo immaginato che il fattore critico, tra quarant’anni, possa essere la scarsità d’acqua”, spiegano i tre studenti, “e abbiamo inviato un filmato in cui Giulia impersonava la casalinga sprecona di oggi alle prese con il lavaggio dei piatti e Barbara quella di domani, che potrà fare a meno dell’acqua grazie al nuovo prodotto che, spruzzato sui piatti, trasforma lo sporco in sabbia”. Il filmato, giocato su emozioni e immagini suggestive, ha permesso al team di qualificarsi per la finale italiana, alla quale hanno avuto accesso 10 gruppi sui 70 partecipanti. Nella sede della Henkel a Milano, il 31 marzo, di fronte ai manager della multinazionale, i tre studenti hanno riproposto il filmato e una presentazione in Power Point incentrata sul futuro immaginato, il product concept e il marketing mix. Hanno battezzato il prodotto Dixsand, ad echeggiare il nome del detersivo della Henkel e suggerire la trasformazione dello sporco in sabbia (sand, in inglese) e hanno incentrato la campagna di comunicazione sulle tecniche innovative apprese soprattutto nell’insegnamento di consumer behaviour di David Mazursky. “I creativity template in advertising sono tecniche che richiedono uno sforzo del fruitore e ne stimolano, perciò, il coinvolgimento”, spiegano Giulia, Barbara e Carlo. “Nel replacement template una lettera del nome

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del prodotto viene eliminata e riutilizzata in una seconda parola, in qualche modo suggestiva. Nel nostro caso la ‘s’ di Dixsand entra anche in Dixsave, a suggerire il risparmio d’acqua ottenuto con il prodotto. Con l’activation template si richiede una vera e propria attivazione. Nel nostro caso la ‘x’ viene sostituita da un elemento della fotografia con la medesima forma e che richiama, inoltre, una clessidra e lo scorrere del tempo di cui parla il testo”. I tre studenti sono rimasti persino meravigliati dal rispetto e dall’interesse dimostrato dai manager Henkel per il loro lavoro. “Da studente immagini i manager in un mondo a parte, e invece c’è stata vera interazione, coinvolgimento. È stato piacevole e speriamo possa esserci un seguito almeno a livello di stage curriculare, il prossimo anno”. La laurea specialistica in Marketing Management è impartita interamente in inglese e anche la qualità dell’esposizione in lingua ha giocato un ruolo nel loro risultato. “Henkel”, dice Jens-Martin Schwärzler, direttore generale Divisione cosmetica al consumo di Henkel Italia, “crede profondamente che il proprio successo debba essere ricondotto alle qualità e alle potenzialità delle proprie risorse umane ed è pertanto alla continua ricerca di talenti dotati di capacità innovativa”. Le finali internazionali, a Bruxelles dal 23 al 25 aprile, sono state uno stimolante tour de force, con i ragazzi chiamati a svolgere compiti impegnativi (come la stesura di un marketing plan per il loro prodotto per il Belgio) entro vincoli di tempo stringenti. “Non abbiamo praticamente dormito”, raccontano, “ma ne valeva la pena”. La squadra italiana ha superato un primo taglio da 12 a 6 team e ha finito per guadagnare la terza posizione. “È un risultato che ci rende davvero orgogliosi”, chiosa Antonella Carù, direttrice del corso di laurea specialistica in Marketing Management, “perché conferma la validità del nostro corso e della metodologia di insegnamento basata sull’active learning. Già prima di aver concluso il primo anno, questi studenti hanno dimostrato non solo di avere le conoscenze adeguate, ma di saperle applicare assumendo decisioni competenti”.

Da Bocconi Newsletter no. 70/2009

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Matteo Tonarelli, uno spot per il cinema di Fabio Todesco

Studia alla Bocconi uno dei protagonisti degli spot Pubblicità progresso contro la vivisezione. Fa il regista, l’attore e la comparsa ma non trascura l’università.

Un ragazzo dall’aspetto sconvolto esce da una porta, seguito da un uomo che trasporta una gabbia vuota; da un’altra porta ne esce uno molto più rilassato, che spiega di essere riuscito a smettere grazie alla legge 413/93. La legge è quella che regola l’obiezione di coscienza di ricercatori e studenti rispetto alla vivisezione e la scena è quella di uno spot di Pubblicità progresso, commissionato dalla Fondazione Hans Reusch, in programmazione sui canali Rai in questo periodo. Il ricercatore rilassato è Matteo Tonarelli, studente del primo anno della laurea magistrale in Economia e management delle amministrazioni pubbliche e delle istituzioni internazionali. Tonarelli ha fondato una compagnia teatrale, Kronoteatro, ad Albenga, quando studiava al liceo scientifico, ha girato un lungometraggio che lo ha tenuto impegnato quasi quattro anni, ha realizzato un cortometraggio e tre documentari e ha fatto la comparsa in due produzioni cinematografiche internazionali. Eppure si distingue anche negli studi, tanto da essere ammesso al prestigioso Collegio di Milano, e tiene aperte entrambe le strade per il suo futuro. “Ho avuto una passione per il cinema e la recitazione da sempre”, racconta, “ma è stata decisiva la compagnia teatrale. È nata tra compagni di scuola ma con la supervisione di Maurizio Sguotti, direttore artistico del Teatro di Voltri, che ha creduto in noi e ci ha coinvolto nelle sue attività. Per il resto della compagnia è diventato un impegno quasi a tempo pieno, mentre io comincio ad avere qualche problema a conciliarla con gli impegni di studio a Milano”. Se deve indicare un film che lo ha ispirato a provare la via del cinema, Tonarelli sceglie Forrest Gump, “che racconta di un viaggio pieno di avventure e io ho sempre pensato che un lavoro da attore o da regista potesse, in qualche modo, farmene vivere di altrettanto interessanti”.

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Ignaro dell’esistenza di un circuito di concorsi per cortometraggi, ma non per lungometraggi non professionali, Tonarelli si è imbarcato a 14 anni nell’avventura di un noir psicologico, Itinere, recitato dai suoi amici. “Ho studiato da autodidatta come scrivere una sceneggiatura e fare un montaggio, seguendo i consigli di un parente che ha frequentato la Scuola di cinema di Boston. Per affinare le mie capacità ho lavorato anche in uno studio di produzioni televisive. Quando pensavo di avere concluso il tutto, quattro anni dopo, ho dovuto rigirare le scene iniziali perché eravamo tutti talmente cresciuti da sembrare altre persone”. Pur senza essere distribuito, il film è stato proiettato nella sua scuola e il preside lo ha incaricato di realizzare un documentario per la Giornata internazionale della tolleranza 2004, organizzata dall’Unesco. Sono seguiti un altro paio di documentari e un cortometraggio, Ad occhi chiusi, presentato a un festival. Quando si è trasferito a Milano per studiare (dapprima relazioni internazionali alla Cattolica, poi il biennio alla Bocconi) Tonarelli non ha rinunciato alla sua passione e si è iscritto alla Scuola civica di cinema, che frequentava di sera. Attraverso questa è riuscito a lavorare come comparsa a Londra in una produzione di qualità come Brick lane di Sarah Gavron e, in Italia, in Inkheart, un kolossal internazionale non molto fortunato, girato in Liguria. “Sono esperienze davvero interessanti, fai la comparsa in moltissime scene diverse e hai modo di osservare come si gira davvero un film”, sostiene. È stato co-protagonista di due episodi di TransEurope, una docufiction di All Music che mette a confronto studenti di varie nazionalità e ha superato i tre step del casting per lo spot di Pubblicità progresso. Nel frattempo, in università, è stato ammesso a un programma di double degree e il prossimo anno frequenterà l’MBA in International organizations della Hec di Ginevra. Le strade aperte restano ancora parecchie.

Da Bocconi Newsletter no. 71/2009

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Paolo Alderighi, un pianista che conosce il management di Andrea Celauro

Considerato una promessa del jazz, il 28enne bocconiano è tornato nelle aule dell’ateneo, ma questa volta da docente.

In un certo senso, Paolo Alderighi, 28enne pianista jazz considerato tra gli emergenti più interessanti a livello internazionale, si fa beffe della geometria. Nella sua vita, le due rette parallele della passione per la musica e dello studio del management si sono incontrate, eccome. Oggi Paolo, oltre a suonare in tutto il mondo con i migliori musicisti di genere, insegna storia dello spettacolo, ovviamene occupandosi di musica, nel corso di laurea in Economia e management per arte, cultura e comunicazione alla Bocconi. “Ritengo che uno dei compiti dei musicisti”, spiega Alderighi, “sia quello di diffondere il proprio linguaggio. Il corso che tengo in Bocconi cerca proprio di dare agli studenti quegli elementi teorici sui quali si basa la musica, in modo da poterne cogliere le sfumature. Un po’ come un corso di degustazione, che insegna a cogliere i diversi sapori che compongono un vino”. Il doppio binario di Paolo Alderighi inizia dopo il diploma in pianoforte classico al Conservatorio di Milano, a 19 anni. Iscritto alla Bocconi, si laurea nel 2005 proprio al CLEACC con una tesi sul mercato discografico della musica jazz in Italia. È questo, infatti, il genere che sente più suo. “Amo la classica, che ho studiato anche più a lungo”, racconta. “Però, sarà perché quando ero piccolo in famiglia si ascoltava jazz, questo è il genere che sento più familiare”. Anche se dire genericamente che Paolo suona jazz è, come dice lui stesso, “poco significativo”. “La musica è un universo gigantesco e le categorie finiscono per essere troppo stringenti. È l’approccio che si ha con la musica che fa la differenza”. Il suo imprinting è quello dello swing e del periodo classico, oltre al bebop, stili che però ama rivisitare. “Cerco di fare un mix con ciò che ho appreso in ambito classico, ma, soprattutto, cerco di trovare la mia dimensione nel repertorio della tradizione. La grande caratteristica del jazz è che puoi prendere qualsiasi melodia e arrangiarla in base alle tue caratteristiche o al tuo modo di essere”. Un processo di elaborazione che Paolo porta sul palco, ma che, “è questa la cosa

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interessante”, grazie alla docenza riesce a trasmettere non solo con la musica. “Quando sei al pianoforte non puoi permetterti di spiegare cosa stai facendo, mentre seduto alla cattedra metti da parte l’aspetto emotivo e puoi raccontare ciò che sta dietro quello che suoni”. Ripercorrere le tante tappe che hanno caratterizzato la sua carriera di musicista, sebbene sia giovanissimo, è un esercizio di memoria mica da poco. È stato premiato quale miglior giovane talento in Olanda al Breda Jazz Festival nel 2004, a seguito del quale è stato invitato 5 volte in Giappone. Ha ricevuto una menzione speciale della giuria al Premio nazionale delle arti 2007, sezione Jazz, indetto dal Ministero dell’Università. Si è esibito in varie formazioni e come solista in diversi paesi europei e in giro per il mondo, Australia compresa. Ha inciso parte della colonna sonora del documentario di Ermanno Olmi dedicato all’artista Jannis Kounellis. Si è classificato secondo nel referendum Top jazz 2007 della rivista Musica Jazz, nella categoria miglior nuovo talento, e al primo posto nel concorso Italian Jazz Awards 2008 nella categoria brand new jazz act. In più, ha recentemente registrato A touch of Swing, il suo terzo lavoro discografico. Ma ricordare i suoi risultati è un esercizio che fa capire come, in Italia, chi suona un certo genere di musica non abbia spesso la visibilità che merita, se non all’interno di una ristretta cerchia di connaisseurs. “L’educazione musicale, nel nostro paese, è un capitolo drammatico. La musica è vista quasi sempre più come intrattenimento che come cultura. Basta vedere il successo che hanno le trasmissioni televisive musicali”. Certo, la canzonetta, o comunque la si voglia chiamare, non richiede una preparazione particolare per essere capita e apprezzata, tuttavia, “mi dà fastidio che si investa tanto sul cantante di X-factor e così poco, invece, nella diffusione e nell’ascolto della musica classica o del jazz”, o che “il quartetto d’archi, formato tutto da professionisti, che accompagna cantanti come Morandi, sia pagato magari 50 euro a testa. Mi piacerebbe che ci fosse un po’ più di rispetto per chi investe la propria vita in questo genere di musica”. Paolo Alderighi conduce dunque la sua personalissima battaglia a favore dell’educazione musicale tanto sul palco che in cattedra alla Bocconi. Dove per altro, smessi gli abiti da docente, veste nuovamente quelli di pianista con la Bocconi Jazz Business Unit, sestetto formato anche da suoi colleghi. Le due rette delle vita di Paolo, in barba alla geometria, non fanno che incontrarsi.

Da Bocconi Newsletter no. 72/2009

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Simona disegna e scrive per i bambini di Fabio Todesco

Dopo dieci anni di finanza Simona Zampa si è riscoperta disegnatrice, fino a pubblicare tre libri illustrati. Per spiegare ai piccoli il mondo dei grandi e mandarli a letto ogni sera con un’idea in più.

Come Simona Garelli, nel 1993, si è laureata in economia aziendale alla Bocconi, con una tesi sul multiaffidamento bancario; come Simona Zampa, tra settembre 2008 e aprile 2009, ha disegnato, scritto e pubblicato tre libri illustrati per bambini, incentrati intorno ai Krapiz, una famiglia che assomiglia tanto alla sua. L’ultimo, Il signor Krapiz e i suoi alberi, le ha dato una certa notorietà soprattutto nel Canton Ticino, dove vive ora, con un’intervista alla tv svizzera e alcune recensioni di qualità, richiamando anche l’attenzione degli ecologisti di For planet. Simona, figura filiforme come quelle dei suoi personaggi e pazienza da madre di quattro figli (da uno a sette anni), ha condotto una doppia vita fin da studentessa. Negli anni della Bocconi passava molte serate all’Istituto Cimabue, dove frequentava corsi di disegno libero, coltivando una passione sviluppatasi naturalmente, fin da quando era bambina, e nutrita dal clima artistico che si respirava in casa (una nonna poetessa e disegnatrice, uno zio fotografo). Dopo la laurea, posizioni lavorative in Bank of America e nel private banking di Merrill Lynch, con l’intermezzo di una borsa di studio e un corso per coadiutore in Banca d’Italia e il rifiuto, alla fine, di un posto nella vigilanza degli intermediari finanziari. La sua attitudine per la finanza era indubbia, ma nelle sere passate davanti a un terminale ad aspettare la chiusura della borsa di New York Simona trovava il modo di scrivere quello che definisce “una specie di romanzo” inedito. Nel 1998 si trasferisce a Londra per seguire quello che diventerà suo marito e decide di imprimere una prima virata alla sua vita, seguendo un corso di modern art da Sotheby’s. Non comincia a lavorare per la casa d’aste perché si trasferisce a Lugano, dove il marito costituisce un hedge fund, per il quale lavora anche lei fino al 2002, prima di dichiarare l’incompatibilità dei figli con la finanza. I figli non si sono rivelati incompatibili con attività imprenditoriali incentrate intorno ai loro bisogni, tanto che, insieme ad altre tre mamme e riallacciando i contatti con la maestra dalla quale aveva imparato a suonare

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il pianoforte a 25 anni suonati, Simona ha fondato, e gestito in prima persona per tre anni, la sede luganese della scuola La nuova musica. “Intanto”, racconta, “mi divertivo a inventare e disegnare storie per i bambini, fare piccole caricature del papà, realizzare biglietti di auguri natalizi”. Nel 2008 tutto subisce un’accelerazione: un amico ha la possibilità di fare una mostra a Zurigo, ma lo spazio è troppo ampio e chiede a Simona di dividerlo, mentre uno dei suoi biglietti di auguri, tramite amici comuni, finisce nelle mani di un editore milanese, che lo apprezza e la contatta. I disegni in mostra a Zurigo e i testi di accompagnamento, messi in rima da Valentina Fioruzzi, finiranno per trasformarsi nel primo libro, Il signor Krapiz e il silenzio, che cerca di spiegare ai bambini, in modo leggero, il mondo dei grandi, la loro voglia di movimentare la vita attraverso i bambini e la loro necessità di staccare ogni tanto. Lo firmerà con il cognome del marito, Zampa, un po’ perché, dopo anni di matrimonio, è abituata a sentirsi chiamare così e un po’ perché lo trova un cognome perfetto per comunicare con i più piccoli. Quando disegna e scrive (anche i testi di accompagnamento in rima, negli ultimi due libri, sono suoi) Simona pensa a un bambino che legga con i suoi genitori e, anche se non esplicito come ormai in gran parte dei moderni film a cartoni animati, c’è sempre un secondo piano di lettura per i più grandi, in grado di apprezzare meglio alcuni piccoli particolari. L’editoria per bambini è un’industria molto competitiva, ma non in crisi, perché negli ultimi anni è aumentata l’attenzione all’educazione dei figli e il grande affollamento spinge molti autori ed editori a cercare virtuosismi ed effetti speciali che non fanno parte dello stile di Simona, che cerca la semplicità e la chiarezza. “Vorrei solo che ai bambini, addormentandosi dopo avere letto un’avventura del signor Krapiz, rimanesse un’idea: il funzionamento del mondo dei grandi per il primo libro, l’anticonsumismo per Il signor Krapiz e il Natale, l’ecologismo per l’ultimo”. Il quarto libro della serie vedrà la luce con ogni probabilità a Natale, dopodiché Simona vorrebbe rallentare il ritmo per non venire a compromessi sulla qualità. E poi, non le mancano i progetti: frequentare una vera e propria accademia d’arte e trasformarsi, con il tempo, in autrice di graphic novel. Non solo per bambini.

Da Bocconi Newsletter no. 73/2009

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Con Augusto il web 2.0 scende per strada di Fabio Todesco

È un laureato CLEACC il fondatore di CriticalCity, gioco online di missioni sul territorio per una trasformazione urbana ludica e partecipata. Con affinità con il Sacro Graal del marketing esperienziale.

Quando, il 20 maggio 2008, un tram della linea 7 si è schiantato contro l’edificio in cui lavora a Milano, Augusto Pirovano ha capito che la sua creazione, CriticalCity, il gioco che assegna missioni da svolgere in città nell’ottica di una trasformazione urbana ludica e partecipata, stava funzionando. Una delle missioni aperte al sito www.criticalcity.org invitava a realizzare un segnale stradale creativo e qualcuno ne ha subito preparato, e piantato all’incrocio, uno di “attenzione, schianto tram contro i palazzi”. Il segnale è rimasto lì per mesi, fino a quando è stato sostituito da un cartello ufficiale di precedenza, che i residenti invocavano da tempo. Augusto, laureato CLEACC nel 2005, è il fondatore di CriticalCity, una start-up che, attraverso un gioco, fa scendere in strada il web 2.0 in un’ottica di agopuntura urbana. I partecipanti si iscrivono al sito, scelgono le missioni da realizzare sul territorio da soli o in compagnia, le documentano filmandole o fotografandole e postano il materiale insieme a un loro commento. I giocatori acquisiscono punti per il solo fatto di completare una missione e attraverso i commenti positivi degli altri, nella logica web 2.0. “Tra una visita al sito e l’altra, però”, afferma Augusto, “scendono in strada, si incontrano e, in molti casi, realizzano prototipi di cambiamento urbano che possono funzionare da microstimolo significativo, un po’ come gli aghi della medicina cinese”. Ad Augusto piace ricordare di un giovane giocatore impegnato in un’azione di guerrilla gardening che, dopo avere messo una pianta in un’aiuola, ci è tornato il giorno dopo per annaffiarla, scoprendo che se ne era già preso cura un pensionato. “Ha scoperto che il pensionato lo faceva per molte piante che il suo comune non cura, e i due hanno fatto conoscenza, superando anche la barriera generazionale”. All’innovazione creativa in ambito urbano Pirovano ha dedicato la tesi di laurea (relatore Lanfranco Senn, correlatori Alex Turrini e Gianfranco Franz, che insegna architettura a Ferrara), frutto di quattro mesi di lavoro sul campo a Curitiba, capitale dello stato brasiliano del Paranà, un vero caso di studio per chi pensa che

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per le città sia possibile uno sviluppo sostenibile e creativo. Il concetto di agopuntura urbana lo deve a Jaime Lerner, il sindaco che ha cambiato il volto di Curitiba. Già dal secondo anno di università Pirovano aveva avviato un’attività imprenditoriale in partita Iva, sviluppando applicativi gestionali, siti internet dinamici e strumenti di pubblicazione per il web. Grazie al passaparola in campo scout, in cui è tuttora attivo, nel 2005 ha organizzato una caccia al tesoro urbana per il Comune di Milano, mentre nel 2006 ha curato la realizzazione di un percorso di edutainment basato su palmari e tecnologie wireless in un parco naturale delle Marche. È nell’estate del 2006, nel corso di una traversata in traghetto per raggiungere la Sardegna, che Augusto e Matteo Battaglia, un giornalista finanziario suo amico, cominciano a fantasticare di un gioco “così grande da influenzare la vita reale e da avere un’intera città come campo da gioco”. Avevano in mente antecedenti della cultura popolare come il romanzo Il mago di John Fowles, i film The Game di David Fincher ed EXistenZ di David Cronenberg o il fenomeno nascente degli alternate reality games. Ma è solo a fine 2007 che i due amici decidono di fare sul serio, facendo una piccola ricerca di mercato per vedere se esistesse qualcosa di simile e partendo con un prototipo, grazie alla collaborazione dei giovani professionisti con i quali Augusto condivide un ampio spazio di lavoro in un seminterrato della periferia milanese. Ne è seguito il contatto con un gioiello misconosciuto del settore pubblico italiano, il Progetto Kublai del ministero per lo sviluppo economico, uno spazio virtuale che, grazie alla collaborazione di professionisti qualificati, si presenta come una community per creativi orientati allo sviluppo locale e li aiuta a mettere meglio a fuoco e a sviluppare le loro idee. Grazie a Kublai Augusto ha potuto passare un breve periodo a San Francisco, negli uffici di SF0, un’iniziativa analoga a CriticalCity, e ha condotto un roadshow di presentazione a Milano presso la Camera di commercio, alcune fondazioni e una società di venture capital, DPixel, che ha spinto CriticalCity a partecipare a maggio 2009 a Roma a Techgarage, un concorso per start-up tecnologiche, che ha vinto a mani basse, aggiudicandosi tutti e tre i premi messi in palio. “In un’atmosfera per noi davvero incredibile, accanto ai premi sono arrivati l’invito di Saeed Amidi a trasferirci nel suo acceleratore in Silicon Valley e l’impegno di Marco Magnocavallo di Blogo.it e alcuni venture capitalist di finanziarci con 100.000 euro”, racconta Augusto. “Tanto interesse è dovuto al fatto che le modalità di gioco potenzialmente intersecano la traiettoria di quel Sacro Graal che sta diventando il marketing esperienziale. Un grande salto per noi, che siamo nati come iniziativa non-profit e con un sito che non contiene neppure pubblicità...”

Da Bocconi Newsletter no. 74/2009

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Marina Puricelli, un’idea d’impresa per Venezia di Fabio Todesco

Che cos’hanno a che fare una docente esperta di imprese familiari e un film di passioni, amore e sentimenti? Marina Puricelli è stata consulente di “Io sono l’amore”, storia di tre generazioni di una famiglia di imprenditori lombardi presentata al Festival di Venezia.

Se pensiamo a Tilda Swinton non la immaginiamo assorta in una conversazione sul family business. Eppure di questo parlava a primavera del 2008 nell’hotel di corso Como a Milano, in cui si svolgeva il casting di Io sono l’amore, il film di Luca Guadagnino presentato negli scorsi giorni alla sezione Orizzonti del Festival di Venezia. Complice la presenza di Marina Puricelli, specialista di imprese familiari alla Bocconi e alla SDA, in veste di consulente del film. “Il contatto con il regista risale al 2007”, spiega la docente. Il film ruota intorno alle tre generazioni di una famiglia di imprenditori lombardi, i Recchi, alle prese, tra le altre cose, con la successione. “Il regista mi ha fatto avere la sceneggiatura ed è venuto a trovarmi in Università per discuterne alcuni aspetti. Sia chiaro: il film è una storia di passioni, di amore, di sentimenti e sulla trama non sono stata coinvolta. Guadagnino mi ha chiesto, invece, di rendere realistici gli aspetti che riguardano l’impresa, il business, la successione. All’inizio abbiamo faticato un po’ a sintonizzare due esperienze diverse come le nostre, ma poi è scattato qualcosa con l’idea della contrapposizione tra la concezione d’impresa del nonno, Edoardo senior, spalleggiato dal nipote Edoardo junior, e del padre, Tancredi, in accordo con l’altro nipote, Gianluca”. Edoardo senior, imprenditore di prima generazione, ha una visione manifatturiera, basata sul fare e la specializzazione, con un forte radicamento territoriale e legami profondi, anche un po’ paternalistici, con i dipendenti. Tancredi pensa, invece, a un’impresa finanziarizzata, da quotare in borsa, con una visione speculativa e di breve periodo che prevede la delocalizzazione spinta, la diversificazione nel settore immobiliare dell’Est Europa, l’indifferenza nei riguardi dei dipendenti. “Quando ne abbiamo discusso la crisi non era ancora scoppiata”, chiarisce Puricelli, “ma l’idea era comunque quella di far capire che il secondo modello non porta da nessuna parte. E infatti i migliori eredi con i quali ho avuto a che fare negli ultimi 17 anni per il corso Di padre in figlio della SDA stanno tornando alla concezione della prima generazione. La crisi non ha fatto che confermare questa diagnosi”.

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Rispetto al testo che le era stato presentato, Puricelli ha suggerito di modificare l’età di uno dei protagonisti (in origine si ipotizzava un amministratore delegato poco più che ventenne) e, soprattutto, il linguaggio. “Il copione usava il linguaggio un po’ stereotipato della public company americana, che è diverso da quello usato ogni giorno dagli imprenditori italiani, che si alzano la mattina e vanno ‘in ditta’ o ‘in fabbrica’, non ‘alla società’ o ‘alla compagnia’ e non parlano di ‘holding’, per esempio. Si immaginavano anche delle limousine in giro per Milano, ma le abbiamo sostituite con più realistiche station wagon di grossa cilindrata”. La docente ha aiutato, inoltre, a individuare ambientazioni coerenti. “Loro avevano già scelto Villa Necchi Campiglio a Milano, che è perfetta, ma poi mi chiedevano dove potessero andare al ristorante, in città, i loro personaggi, o dove i più giovani potessero fare attività sportiva o comprare i vestiti. Gli attori, per calarsi nella parte, hanno visitato tutti questi luoghi. Ho suggerito di scegliere, per la fabbrica, un bellissimo opificio di Varano Borghi, in provincia di Varese, e di girare anche a Mandello Lario, uno dei luoghi in cui molte famiglie della borghesia milanese hanno ancora residenze di villeggiatura. Con Pippo Delbono, che interpreta Tancredi, abbiamo discusso anche di linguaggio del corpo”. Oltre che al casting di corso Como, Puricelli è stata invitata anche a una giornata di riprese a Villa Necchi (“un’atmosfera bellissima”, commenta) e poi, per un anno, ha avuto solo notizie sporadiche del film. “Non l’ho ancora visto”, dice, “la prima a Milano sarà agli inizi di ottobre. Sono davvero curiosa di vedere come è stato reso l’aspetto imprenditoriale. Le recensioni di Venezia, da questo punto di vista, parlano di coerenza nello stile, e questo mi fa piacere. Nell’incontro tra i nostri due mondi io mi sono ricreduta rispetto ad alcuni stereotipi sul cinema e spero che loro abbiano fatto lo stesso con l’economia e l’Università”.

Da Bocconi Newsletter no. 75/2009

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Laura, una campionessa d’Italia al DES di Fabio Todesco

Come consegnare la tesi di laurea triennale e diventare, quattro giorni dopo, campionessa italiana di canottaggio: la storia di Laura D’Amato, classe 1988, ora iscritta al biennio in Discipline economiche e sociali (DES).

Mercoledì 9 settembre Laura D’Amato ha consegnato la tesi del corso di laurea triennale in Economia e scienze sociali, nel pomeriggio è tornata nella sua città, Piacenza, per rifinire la preparazione atletica e domenica 13 a Ravenna si è laureata campionessa italiana di canottaggio nella categoria Due senza pesi leggeri (atlete sotto i 59 chili). Classe 1988, ora iscritta al biennio in Discipline economiche e sociali (DES), Laura ha cominciato a remare a 11 anni sulle acque del Po con la maglia della Vittorino da Feltre. “Ci sono andata con una compagna di classe, il cui fratello faceva già canottaggio”, ricorda, “e da allora non ho più smesso”. Per lei, e per Benedetta Bisotti, la sua compagna di barca, quello del 13 settembre è il secondo titolo italiano: nel 2005, con altre due atlete, avevano vinto il Quattro di coppia pesi leggeri, mentre l’anno successivo si erano viste sfuggire la vittoria per un solo decimo di secondo. Il titolo italiano è arrivato, per certi versi, inaspettato, un po’ perché al Due senza (in cui ogni atleta utilizza un solo remo) le due campionesse piacentine avevano sempre preferito e privilegiato il Due di coppia (due remi ciascuno), un po’ perché entrambe studiano fuori Piacenza e hanno dovuto diradare la preparazione. “Negli anni del liceo, quelli che ci hanno portate al primo titolo italiano”, spiega Laura, “ci allenavamo tutti i giorni”. Oltre che dal titolo, quel periodo è stato coronato per entrambe dalla convocazione per uno stage della Nazionale a Piediluco. Al di fuori delle squadre militari, quello del canottaggio è un mondo prettamente dilettantistico e in settimana ci si allena la sera soprattutto in palestra, mentre il sabato e la domenica sono passati in acqua per perfezionare l’intesa con i compagni di barca. Gli impegni universitari hanno imposto a Laura di limitare l’attività in palestra a due o tre sedute la settimana, mentre il week end, con grande costanza, è sempre dedicato all’attività sul Po.

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D’altra parte, per lei, quella degli studi è stata una scelta senza esitazioni. “Già dal liceo”, racconta, “mi affascinava l’economia e il corso in Economia e scienze sociali mi è sembrato il più vicino alle mie attitudini. Un’impressione che si è confermata, visto che per il biennio mi sono iscritta al DES, che è il suo proseguimento più naturale. In questi due anni dovrò decidere se il mio futuro sarà nel mondo della ricerca, come ho sempre pensato, o altrove”. La parola chiave per capire l’esperienza sportiva di Laura è “squadra”. “Se ancora adesso dedico agli allenamenti due o tre sere la settimana e accetto di non avere quasi mai un weekend libero lo faccio soprattutto per la squadra: le compagne e l’allenatore, con i quali si instaura un rapporto di fiducia reciproca davvero difficile da raccontare. Superi i momenti di sconforto e ti presenti in acqua anche quando sei stanca perché sai che la tua compagna farà lo stesso per te”. E, in più, a sorreggere gli sforzi di tanti praticanti che, anche al livello di Laura, non solo non guadagnano denaro, ma si finanziano le trasferte e la tessera sociale, c’è tantissima passione. “Nel nostro caso, ha pesato anche la voglia di rivincita dopo il campionato italiano del 2006 perso per un soffio e l’incendio che, a giugno di quest’anno, ha colpito il deposito della Vittorino da Feltre, distruggendo 200.000 euro di attrezzatura. Abbiamo potuto riprendere subito l’attività solo grazie ai contributi e al sostegno della Federazione e delle altre società, che si sono dimostrate davvero solidali”. Laura considera lo sport un’esperienza formativa, che l’ha aiutata anche negli studi. “L’appuntamento serale con l’allenamento mi ha sempre costretta a essere estremamente produttiva nelle ore pomeridiane, a concentrarmi. L’agonismo, poi, ti insegna a non mollare, a perseverare anche negli altri campi”. Per questo, sostiene, la scuola e l’università italiana dovrebbero avere maggiore considerazione per lo sport.

Da Bocconi Newsletter no. 76/2009

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Steven, dal mondo delle corse all’MBA e ritorno di Andrea Celauro

‘Stevo’ Goldstein, 28enne colombiano, fa il pilota e corre in un campionato italiano per la Ferrari. Ma tra una gara e l’altra, nella sua vita, si è diplomato al master in business administration della SDA Bocconi.

‘Pedal to the metal’ è un’espressione che Steven Goldstein, 28enne di Bogotà, conosce molto bene: da quando nel 2004 è diventato campione della Formula 2000 negli Stati Uniti a quando, a fine 2008, ha firmato con la Ferrari per guidare una F430 Scuderia nel campionato Csai Gt Cup, tenere ‘il pedale a fondo corsa’ è stato il leit motiv della sua vita da pilota. Però, tra una parentesi e l’altra della sua vita, ‘Stevo’ ha capito che andare forte in pista non è l’unica cosa che conta nel mondo delle corse. E così, tra il 2007 e il 2008 ha deciso di arricchire il suo bagaglio di esperienze con un MBA alla SDA Bocconi. “Essere veloce è fondamentale in pista, ma una volta scesi dall’auto ci sono altre cose importanti nella carriera di un pilota: una di queste è il business”, spiega Steven. “Ho scelto di fare un MBA proprio per comprendere a fondo le dinamiche del management e per capire meglio come gestire la mia carriera”. Peraltro, Steven non è nuovo all’ambiente economico. Prima di cominciare la sua carriera da pilota nel 2002 alla scuola di formazione ufficiale della Bmw, in Germania, il giovane colombiano già studiava alla American University di Washington, dove si è laureato nel 2003 ‘magna cum laude’ in marketing, imparando quindi fin da subito l’importanza del promuovere e del gestire la propria immagine. Ma al lavoro con gli sponsor (Café de Colombia, Pirelli) ha affiancato anche l’impegno nel non-profit: Stevo oggi è ambasciatore di “Mas arte, menos minas”, una organizzazione colombiana che si occupa delle vittime delle mine antiuomo e collabora con Arts Relief, associazione di Barcellona che promuove l’arte come ponte tra le diverse culture. Nel 2002, dopo la scuola di guida in Germania, per Stevo si aprono i cancelli per le pit lane. Dopo alcune gare in Germania, va a correre negli States, in F2000, dove nel 2004 viene incoronato campione, “uno dei due momenti più emozionanti della mia carriera”, confessa. Grazie a quella vittoria viene notato dall’Audi,

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che lo richiama in Europa, dove partecipa, dal 2006, all’Euro Superstars Championship ottenendo il titolo di miglior esordiente della stagione e vincendo, nel 2007, il campionato costruttori. Sceso dalla sua vettura da corsa, entra in aula alla SDA Bocconi: “L’MBA è stato impegnativo, in particolare per quanto riguarda gli aspetti di analisi quantitativa, ma sono molto soddisfatto e lo studio è stato estremamente utile. La finanza, per esempio, era un elemento che mancava alla mia preparazione precedente”. Da persona focalizzata sul risultato come solo un pilota può essere, “mentre studiavo non facevo che pensare a come mettere in pratica ciò che imparavo a lezione”, racconta. E mentre si diploma alla SDA, arriva anche quello che è il suo secondo ricordo più bello: “La firma del contratto con la Ferrari, che credo sia la massima aspirazione un po’ di tutti i piloti”. Sotto l’egida del cavallino rampante, Stevo ha preso parte al campionato 2009 Csai Gt Cup, a bordo di una F430 Scuderia preparata dal team Kessel Racing. “Attualmente sono sesto in classifica. Ho fatto tre pole position e in due gare, al Mugello e a Imola, sono salito sul podio”. In questi anni, dunque, alternando risultati in pista e in aula, Steven Goldstein si è costruito un’immagine forse un po’ atipica rispetto a quella del pilota tutto pane e motori, che preferisce i box alle aule scolastiche. Ma alternare il tocco e la toga alla tuta ignifuga gli è servito per avere una marcia in più per approcciare le aziende e quindi gli sponsor. E per essere più veloce anche fuori dalla pista.

Da Bocconi Newsletter no. 77/2009

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Federico e Federico, l’imperatore e il suo biografo di Davide Ripamonti

Un Bocconiano con la vena di scrittore: Federico Rossi di Marignano, laurea in economia in Bocconi nel 1971, è l’autore del libro Mondadori da cui è stato tratto il controverso film Barbarossa. Un percorso molto vario, passato anche per un lavoro in banca e la lettura di Plutarco e Svetonio.

Una laurea in economia in Bocconi, conseguita “con calma, quando avevo già tre figli”, e una vita che, dopo un iniziale impiego in banca, l’ha condotto lungo altre strade. Federico Rossi di Marignano, 71 anni, milanese, è l’autore di Federico Barbarossa e Beatrice di Borgogna (Oscar Mondadori), il libro da cui è stato tratto il controverso film Barbarossa, al centro di vivaci polemiche politiche. L’editoria era nelle corde del giovane Federico Rossi già agli inizi del suo percorso universitario: “Nel 1957, nel mio anno da matricola, fondai e diressi Milano Studenti, il primo e unico giornale studentesco che usciva regolarmente, e veniva venduto in 52 scuole di Milano, 10 anni prima del Sessantotto. Avevo collaboratori destinati poi a importanti carriere, come Franco Bassanini e Fabrizio Onida”. Quando ancora era studente, Federico Rossi cominciò a lavorare alla Banca commerciale italiana, poi passò a una rete di scuole di lingue, l’International school of Milan, quindi all’Oxford institute. Ma non era il suo mondo. “Tornai nel settore editoriale come consulente nel campo politico-sociale, per la Fim-Cisl di Pierre Carniti, per il presidente del Senato Vittorino Colombo, per il ministro Marcora e per Roberto Mazzotta. Alle biografie storiche arrivai più tardi, dopo aver conseguito il magistero in scienze religiose presso l’Issr di Milano, e per approfondire i miei studi di storia religiosa ambrosiana, in particolare a proposito di Carlo Borromeo”. Ma come scatta la scintilla che porta a raccontare la vita di un personaggio storico del quale esistono già svariate biografie e, soprattutto, che cosa si può scrivere che non sia già stato raccontato da qualcun altro? “Avendo letto da giovane Plutarco e Svetonio, non ho mai apprezzato il modo moderno di fare storia per temi. Io amo raccontare la vita dei personaggi secondo l’ordine cronologico, perché le cose della vita hanno

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tutte un prima e un dopo, una causa e un effetto”. ‘Storico’ è però una definizione che Federico Rossi non gradisce fino in fondo, preferisce essere chiamato ‘storiografo’: “Da più di 10 anni scrivo e pubblico solo libri di storia”, dice, “ma della storia non so tutto, solo i singoli temi che ho approfondito. A muovermi è piuttosto l’ignoranza, da cui può nascere la vera curiosità, non la competenza. Per questo scrivo in genere biografie di personaggi dei quali, inizialmente, non so quasi nulla”. Un metodo rigoroso, quindi, retaggio degli anni di università: “In Bocconi non ero esattamente uno studente-modello, ma l’Università mi ha insegnato a superare quegli ostacoli della vita che a un primo impatto appaiono invalicabili. È stata una vera esperienza di vita”. Dopo San Paolo, Martin Lutero, Carlo Borromeo, Giangiacomo Medici, Pio IV (pubblicati con il nome abbreviato di Federico Rossi), è stata la volta di Federico Barbarossa. Dopo il libro, anche in veste di consulente storico per la produzione del film. “Ho letto sette sceneggiature diverse del film, facendo presenti critiche e suggerimenti, a volte accolti e altre ignorati. So che il film sta suscitando polemiche, ma film e libro hanno finalità differenti. Io non racconterei mai cose non vere o perlomeno non verosimili. Ma, come riportano opportunamente i titoli di coda, il film si è ispirato liberamente al mio libro”. Neanche il tempo di godersi il successo della sua ultima fatica, per Federico Rossi di Marignano è già tempo di pensare al prossimo, ambizioso, progetto: “Ho appena consegnato una riedizione ampliata della mia biografia di Carlo Borromeo e ho iniziato quella del grancancelliere sforzesco Girolamo Morone. Concluso questo lavoro, scriverò un libro su Sant’Ambrogio e le sue opere per completare la triade sui tre secoli più prestigiosi per Milano, al centro della geografia e della storia del mondo occidentale, il IV, il XII e il XIV”.

Da Bocconi Newsletter no. 78/2009

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Max, romanziere del private equity di Andrea Celauro

Secondo Massimiliano Naglia, MBA nel 1994 alla SDA Bocconi, se ci si occupa di finanza avere una forte anima creativa non solo arricchisce, ma permette di entrare meglio in sintonia con le persone che si incontrano e con le quali si fanno affari: ecco come è nato il suo romanzo.

Questa è la storia di Max, ma anche di Clementina e Marco. Max è Massimiliano Naglia, 46enne di Ravenna. Marco e Clementina sono i personaggi del primo romanzo di Max, creato in nuce venti anni fa e rimaneggiato, ritoccato, limato, fino alla pubblicazione avvenuta quest’anno per i tipi di Pendragon. A dispetto del titolo, Gli occhi della solitudine è un atto d’amore, il prodotto dell’estrema devozione di Max alla letteratura e alla poesia. Niente di strano, se non fosse che l’attività primaria di Max è il private equity, e che la finanza, almeno nell’immaginario collettivo, poco si sposa con la scrittura creativa. “Scrivere è un modo per esprimere ciò che si è”, racconta Massimiliano. “È un momento di riflessione, di crescita, di apertura mentale”. E il fatto di avere un’anima creativa così forte è tutt’altro che in antitesi con il suo lavoro, “perché non solo ti arricchisce, ma ti permette di entrare meglio in sintonia con le persone che incontri e con le quali fai affari. Che sono persone, appunto, e che come tutti hanno bisogno di condividere e di essere ascoltate”. Venti anni fa Massimiliano comincia la sua carriera e, parallelamente, dà vita a Clementina e Marco. Una storia tormentata, la loro, non più di altre quella di Max. Massimiliano si laurea in ingegneria civile nell’88 a Bologna, dopodiché lavora per quattro anni per l’Eni. Poi, quasi di punto in bianco, si appassiona all’economia e decide di fare un Master in Business Administration. Sceglie quello della SDA Bocconi, che segue tra il ’93 e il ’94. “È nato in me un interesse molto forte per i settori finanziari, che da allora, professionalmente parlando, sono diventati la mia vita”. Max, dopo l’MBA, lavora prima per quello che diventerà il Gruppo Unicredit, dove si occupa di finanza straordinaria, fusioni e acquisizioni e private equity, e poi per il Gruppo Intesa Sanpaolo, sempre nel private equity. Attività della quale, peraltro, si occupa tuttora grazie a un ruolo direttivo nel Gruppo Ugf (Unipol).

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 Della sua creatura, ormai maggiorenne, Max parla con trasporto: “Gli occhi della solitudine è una storia di complicità e affinità di sensi che avrebbe potuto essere un grande amore. La storia di un uomo e una donna il cui rapporto, pur fisicamente confinato dentro brevi parentesi, si diffonde e si distende nel tempo”. Marco e Clementina si incontrano all’università, si frequentano, si allontanano, si rincontrano. E scoprono che ciò che li lega, nonostante due caratteri apparentemente distanti (“Clementina è una creatura complessa, malinconica, per la quale gli strappi sono fonte di violento e profondo dolore e la vita è un mare cupo, solcato da rare vele colorate; Marco è più solare, aperto”), è una spiccata sensibilità, fatta di riflessioni sulla musica, l’arte, la letteratura, il tempo, la vita. Una grande attrazione intellettuale. Viene naturale chiedersi, a questo punto, quanto ci sia di autobiografico nel libro, quanto Marco sia simile a Max (non è un caso che l’iniziale del nome sia la stessa): “Molti suoi lati mi appartengono”, confessa l’autore, “ma ho anche ricevuto tanto creandolo, un processo questo, che capita spesso nella scrittura e che permette di confrontarsi con se stessi, oltre che con i lettori”. E qui si torna al suo lavoro di operatore della finanza, che ha tratto giovamento tanto dalla preparazione tecnica in aula che da quella emotiva alla scrivania di casa. “L’esperienza della scrittura, così come quella della musica (sono anche diplomato in pianoforte), mi ha permesso di instaurare rapporti più intensi e forti anche nella mia attività, proprio grazie alla sintonia che si crea quando si condivide molto di più di un semplice rapporto di lavoro”. Un libro, dunque, che “è stato faticoso portare a compimento e che ha richiesto passione, impegno, coinvolgimento e parecchie di notti insonni”, ma che oggi, nel riscontro dei suoi lettori, restituisce a Max “attraverso Clementina e Marco, ancora più emozioni di quante ne abbia profuse per crearli”. “Giorno dopo giorno”, conclude l’autore, “mi rendo conto di avere intrapreso un grande viaggio dell’anima”.

Da Bocconi Newsletter no. 79/2009

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