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1 I L C E N T R O I N F O R M A Pomeriggio culturale a Judicaria “Bene, bravo 7+” A Tione la scuola fa storia, mostra e dibattito sulla storia della scuola, curata dal Centro Studi S ulla scuola molto si è scritto, e ancora di più si scriverà in futuro, essendo questo un tema che offre una quantità enorme di sfaccettature ed al- trettanti spunti per altri discorsi. Tutti possiamo di- re di conoscere o aver conosciuto la scuola, ma po- chi, che non siano storici di professione o per inte- resse personale dell’argomento, possono apprezzare il lungo percorso - non semplice – che questa istitu- zione ha dovuto affrontare nel corso degli anni e dei secoli in Italia, e specialmente nel Trentino. È quin- di su questo tema che si è incentrato l’ evento cultu- rale di inizio settembre organizzato dal Centro Stu- di Judicaria di Tione di Trento, in collaborazione con l’Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Per- retta” di Como. Con l’incipit del titolo ripreso dalla frase comica proposta dal duo Cochi-Renato “Bene, bravo 7+. Istruzione e formazione attraverso il tem- po. Appunti di storia della scuola in Italia in Trenti- no e nella Judicaria”, l’ iniziativa ha voluto offrire un percorso mediante il quale il visitatore potesse ap- prendere “come eravamo” ai tempi delle elementari, e prendere atto della non facile storia dell’istruzione elementare, ahimè troppo poco conosciuta. Questa manifestazione, che si compone di più parti, si articola in forma di due mostre distinte ma unite dal “fil rouge” della storia dell’istruzione ele- mentare, una riguardante l’istruzione elementare durante il Ventennio fascista e l’altra dedicata alla storia generale della scuola e sua evoluzione; infine l’evento si compone di una parte dedicata al dibat- ALDO GOTTARDI

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I L C E N T R O I N F O R M A

Pomeriggio culturale a Judicaria

“Bene, bravo 7+”A Tione la scuola fa storia, mostra e dibattito sulla storia della scuola, curata dal Centro Studi

Sulla scuola molto si è scritto, e ancora di più si scriverà in futuro, essendo questo un tema che offre una quantità enorme di sfaccettature ed al-

trettanti spunti per altri discorsi. Tutti possiamo di-re di conoscere o aver conosciuto la scuola, ma po-chi, che non siano storici di professione o per inte-resse personale dell’argomento, possono apprezzare il lungo percorso - non semplice – che questa istitu-zione ha dovuto affrontare nel corso degli anni e dei secoli in Italia, e specialmente nel Trentino. È quin-di su questo tema che si è incentrato l’ evento cultu-rale di inizio settembre organizzato dal Centro Stu-di Judicaria di Tione di Trento, in collaborazione con l’Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Per-retta” di Como. Con l’incipit del titolo ripreso dalla frase comica proposta dal duo Cochi-Renato “Bene, bravo 7+. Istruzione e formazione attraverso il tem-po. Appunti di storia della scuola in Italia in Trenti-no e nella Judicaria”, l’ iniziativa ha voluto offrire un percorso mediante il quale il visitatore potesse ap-prendere “come eravamo” ai tempi delle elementari, e prendere atto della non facile storia dell’istruzione elementare, ahimè troppo poco conosciuta.

Questa manifestazione, che si compone di più parti, si articola in forma di due mostre distinte ma unite dal “fil rouge” della storia dell’istruzione ele-mentare, una riguardante l’istruzione elementare durante il Ventennio fascista e l’altra dedicata alla storia generale della scuola e sua evoluzione; infine l’evento si compone di una parte dedicata al dibat-

ALDO GOTTARDI

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tito e alla conferenza tenuta da esperti del settore.LE MOSTRE: La prima parte della manifestazio-

ne sopracitata è quella della mostra tematica vera e propria, organizzata durante le prime due setti-mane di ottobre nelle sale del Centro Studi Judica-ria di Tione, dove, nell’ apposito spazio espositivo, sono stati esposti i pannelli di entrambi i percorsi.

La prima sala accoglieva i pannelli facenti parte della mostra “A scuola col Duce. L’ istruzione prima-ria nel ventennio fascista” curati dalla prof. Elena D’ Ambrosio , mostra già precedentemente presentata a Cernobbio (Como) con il patrocinio dell’ Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Perretta”. Que-sto lavoro, frutto di un lungo ed intenso lavoro di ri-cerca che nasceva nel 1999, è partito innanzitutto dal recupero e dall’analisi diretta dei testi scolastici

e dei quaderni della scuola elementare del tempo, di cui l’ Istituto di Como possiede una cospicua rac-colta. Dopo una prima limitata edizione, la mostra della prof. D’ Ambrosio è stata inaugurata nel gen-naio 2003 a Cernobbio (Como) e poi è approdata in diverse località della provincia comasca e milanese ed in altre città d’Italia. Essa si compone di 66 pan-nelli esposti per nuclei tematici, che riproducono il-lustrazioni a colori, fotografie e testi ripresi dai libri di scuola e dai quaderni degli scolari dell’epoca, at-traverso i quali vengono ripercorsi i momenti più significativi della scuola elementare fascista. E’ sta-to seguito in questo caso un percorso che noi rite-niamo essenziale per la comprensione di qualunque dittatura, non solo di quella fascista. I regimi totali-tari hanno sempre piegato e condizionato il sistema dell’istruzione alla loro esigenza di controllo capilla-re della società nonché di promozione ed alimenta-zione del loro sistema di potere. L’istituzione scola-stica diventò appunto durante il ventennio fascista un potente veicolo di propaganda del regime, il più efficace strumento per l’organizzazione del consen-so di massa. E proprio la scuola elementare è il pri-mo e più importante gradino di un lungo processo di irreggimentazione e indottrinamento il cui obietti-vo primario era quello di costruire futuri soldati, uo-mini ciecamente pronti a “credere, obbedire e com-battere”. Questo disegno era articolato in una serie di provvedimenti, riassunti in alcuni pannelli dal tito-lo “La fascistizzazione delle scuole italiane”, dai “ri-tocchi” alla riforma Gentile - varata nel 1923 e adot-tata dal fascismo, da poco al potere, senza un preci-so programma di politica scolastica - alla “Carta del-la Scuola”, progetto di riforma del sistema scolasti-co, vera espressione delle idee pedagogiche del regi-me. Le disposizioni più importanti riguardano l’isti-tuzione dell’Opera Nazionale Balilla con la legge del 3 aprile 1926, che inquadrava i giovani dagli 8 ai 18 anni (successivamente assorbita dalla Gioventù Ita-liana del Littorio in cui era inserita tutta la gioventù dai 5 ai 21 anni) e l’introduzione, a partire dall’anno scolastico 1930-1931, del Testo unico di Stato per le singole classi elementari. Con il Testo unico veniva Un pannello della Mostra curata dal Centro Studi Judicaria.

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esercitato un controllo diretto sull’insegnamento, li-mitando ulteriormente l’autonomia didattico – edu-cativa degli insegnanti. Ampio è lo spazio riservato a questi due argomenti all’interno della mostra. Un posto di primo piano è riservato all’apologia del fa-scismo. Mussolini, occupava il vertice. Il culto della sua persona raggiunse livelli davvero impensabili di fanatismo, accanto al culto della Patria e delle sue in-segne (la bandiera), l’esaltazione della Grande Guer-ra e dei suoi martiri, il mito di Roma.

La seconda sala del Centro Studi accoglieva in-vece il lavoro curato da Daniela Mosca e Aldo Got-tardi, con la collaborazione di Basilio Mosca, Doret-ta Casagranda e Gilberto Nabacino, e proponeva al pubblico una serie di 14 pannelli tematici sulla sto-ria vera e propria dell’ istruzione, dal Medioevo fino alle ultime riforme scolastiche ( i titoli dei pannel-li: Il Medioevo, 1500-1600 Rinascimento e Contro-riforma, Il Settecento, L’Ottocento, Il Novecento, Il sabato fascista, La festa degli alberi, Storia della pa-gella, 1940-1970 La costituzione italiana del 1948, Il tempo pieno, Il tempo pieno: le esperienze di Pieve di Bono e Condino, I maestri, La scuola nel tempo in Valle di Ledro, Dal 2000: le riforme). Alla mostra erano inoltre presenti a corredo dei pannelli inte-ressanti oggetti d’uso nelle scuole di primo Nove-cento, come un banco con calamai perfettamente conservato, rarissime cartine geografiche dell’ Africa italiana e molti quaderni e registri del periodo, pro-venienti dal Museo della scuola di Rango, dal Comu-

ne di Vigo Rendena e molti altri da archivi privati.IL DIBATTITO: La seconda parte dell’ happening

culturale è stato il dibattito avvenuto venerdì 8 ot-tobre presso la sala della Comunità delle Giudicarie (sede dell’ ex-Comprensorio delle Giudicarie), sem-pre a Tione, vero momento clou di tutto il proget-to, dove è intervenuta, oltre ad altre figure di scrit-tori, storici ed opinionisti, anche l’assessore pro-vinciale all’ Istruzione, prof.ssa Marta Dalmaso, che prendendo per prima la parola ha spiegato i princì-pi della nuova riforma scolastica in Italia e in Tren-tino e le scelte che l’hanno dettata, ponendo inol-tre l’accento sull’ importanza che ha in primo luo-go la famiglia, e a seguire tutta la società, nell’edu-care il bambino/ragazzo al senso civico e all’impor-tanza di un approccio all’ istruzione in modo con-sapevole (“Per educare un bambino ci vuole un vil-laggio”). Interviene poi il prof. Cesare Bertassi, in-segnante di materie letterarie che vanta collabora-zioni con diverse riviste locali, per presentare la sua opera “ La scuola popolare austriaca nella seconda metà dell’ ‘800 ” riguardante il sistema elementare austro-ungarico post-Riforme Teresiane del 1774, analizzandone i pro e i contro, e trovando anche molti paragoni con i sistemi scolastici attuali, e al-cuni particolari vale la pena di riportare: ad esem-pio, tale scuola popolare, che parte dalla Riforma Te-resiana del 1774, é rivolta ai ragazzi dai 6 ai 14 an-ni, accanto alla quale vi era anche la scuola di ripe-tizione per quelli dai 14 ai 20 anni, e ciò per scon-giurare l’analfabetismo di ritorno, dimostrando già qui un’impronta moderna. Questa scuola deve ap-poggiarsi, per l’insegnamento, ad una rete capilla-re già esistente sul territorio; per questo la scuola viene data in mano ai curatori d’anime che dal Con-cilio di Trento sono obbligati ad insegnare la dot-trina. A questi viene dato qualcosa in più come sti-pendio (per il pagamento del quale, sia per i mae-stri che per i curatori d’anime, è preposto lo Stato, unitamente alla creazione della struttura) e passa-no ad insegnare anche altre materie. E sempre a ca-rico dello Stato sono anche i programmi ed i libri di testo (da notare che questo “paternalismo scola-

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stico” è dovuto principalmente al fatto che i comu-ni non potevano provvedere loro stessi a fornire i servizi per l’istruzione, a causa della povertà nella quale versavano).

Anche i laici possono insegnare, e solo con leg-ge provinciale del 1892 vengono regolati gli stipen-di. Per l’assunzione c’era una trattativa privata tra maestro e comune e il comune assumeva il maestro che voleva meno soldi, e questo spiega il perchè i maestri facevano anche altri lavori (a fine ottocen-to se un muratore guadagnava 1 fiorino e mezzo al giorno un’insegnante ne guadagnava 1).

C’erano gli Ispettori scolastici (i Decani) per il controllo e il Capo comune che dava la multa se, ad esempio, non veniva frequentata la scuola.

Spesso (in particolare nei centri più piccoli) le strutture erano fatiscenti, e solo nella seconda metà dell’ Ottocento vengono costruiti edifici ad uso sco-

lastico. Per 100 anni i locali adibiti erano ex cantine, ecc, che dovevano accogliere le pluriclassi dell’epoca con 60-70 alunni che imparavano secondo un meto-do tabellare, e solo dove si poteva venivano divisi i maschi con le femmine: a fine 800 c’erano in Trenti-no 1300 classi e 60600 alunni (di media 47 per clas-se ma questo era a seconda dei paesi).Era possibile insegnare a classi numerose anche perché proveni-vano tutti da classi sociali simili e con scopi uguali.

I libri erano concepiti in aerea tedesca e poi tradotti in italiano, perciò erano i contenuti erano asburgocentrici: si trattavano soprattutto argomen-ti storici legati alla casa degli Asburgo, con frequen-ti esaltazioni della classe regnante e magnificazioni della nazione austriaca e delle sue gesta.

Nel 1869 vi è la laicizzazione della scuola au-striaca con le competenze dei religiosi che passa-no ai capitanati distrettuali.

La Mostra “Bene, bravo 7+. Istruzione e formazione attraverso il tempo. Appunti di storia della scuola in Italia, in Trentino e nella Judicaria”, esposta nelle sale Expo del CSJ.

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Per ovviare alla precaria situazione lavorativa del maestro, nel 1898 si attua il primo convegno dei ma-estri trentini a Rovereto, dove vengono evidenziate tutte le problematiche legate soprattutto alle sedi inadeguate (mancanza di riscaldamento, vetri rot-ti, mancanza di banchi, ecc).

La scuola popolare asburgica è stata una scuola popolare improntata al paternalismo, al conformi-smo ed all’insegna dell’obbedienza, tuttavia la per-centuale all’analfabetismo in Trentino era del 3% an-che grazie alla scuola di ripetizione, dove al confron-to, nell’ Italia di quel periodo, i dati di analfabeti-smo non erano inferiori alle due cifre...

È poi la volta della già citata prof.ssa Elena D’Am-brosio, curatrice di parte della mostra visuale non-ché storica e collaboratrice con enti e numerose ri-viste e quotidiani della provincia di Como, che pre-senta il suo lavoro “Libro e moschetto. L’istruzio-ne primaria nel ventennio fascista”, di cui sopra si è già parlato.

Dopo la sua presentazione, interviene il prof. Giancarlo Maculotti, laureato in pedagogia, inse-gnante elementare ex direttore della scuola italiana di La Louvi e di Charleroi in Belgio, autore di nume-rosi articoli e fondatore del GISAV ( Gruppo Interven-to Scuola Alternativa Valle Camonica), che espone la sua opera “ Premesse per una riforma della scuo-la”; nel suo lavoro, Maculotti propone una visione globale della scuola italiana, con i suoi pro e con-tro, e la mette a paragone con altri sistemi europei e mondiali, evidenziandone le debolezze ed indivi-duando possibili linee da seguire per riformare ed evolvere in meglio l’istruzione elementare italiana.

Ultimo ma non per importanza, il prof. Marco Cimmino, laureato in storia medievale, che alter-na l’insegnamento alla ricerca storica e all’attività giornalistica, autore del volume “Cronaca di un di-sastro annunciato. Storia della scuola italiana dalla legge Casati al decreto Gelmini”, presenta in que-sta sede la sua personale relazione dall’altisonante titolo “L’ultima spiaggia. La scuola italiana alla scel-ta tra il disastro definitivo e la rinascita”, dove trat-ta con toni più pessimisti del prof. Maculotti il pro-

blema del sistema scolastico italiano, focalizzando però l’attenzione sugli stessi princìpi che potrebbe-ro risollevare le sorti della nostra scuola. In partico-lare, Cimmino pone l’accento sul fatto che la scuo-la italiana sta attraversando un periodo tra i più ne-ri della sua storia, essendo questa utilizzata spesso e volentieri a scopi di propaganda politica (per poi finire nel dimenticatoio) e come strumento socia-le (questo è anche il motivo per il quale esiste per-sonale esuberante rispetto alle esigenze e carente in certi settori specifici). Invece manca, o perlome-no è esiguo, il fondamentale rapporto collaborati-vo tra famiglie e docenti, e questo crea una perdi-ta da parte delle scuole del loro potere educativo, con ripercussioni seriamente negative nel sociale. Inoltre uno dei difetti più gravi della scuola di og-gi, individuato da Cimmino, è quello di confondere la teoria con la prassi; e questo si esplica, ad esem-pio, nel fatto di non dare aspettative reali agli stu-denti, specialmente nel campo universitario dove si sono ormai create moltissime specializzazioni. Di conseguenza gli studenti universitari attratti da uno spettro della Cuccagna, finiscono dopo la lau-rea a sbattere contro la dura realtà del mondo del lavoro, che per certi impieghi definisce solo un tot di posti di lavoro disponibili. E da qui la disoccupa-zione. Certo, a fatti del genere la Comunità Euro-pea ha risposto con il Progetto Leonardo, ma è be-ne che i giovani d’oggi abbiano, dice Cimmino, del-le aspettative reali. I docenti devono quindi essere più onesti nei confronti degli studenti. Tuttavia, an-che dal lato dei professori si avverte un bisogno di cambiamento: spesso costretti ad insegnare in luo-ghi non idonei o non sicuri, oppure la presenza di meccanismi legislativi che creano solo ostilità fra di loro e meno affezione alla scuola, fanno nascere in loro desideri di nascita di una nuova dignità al-la scuola. Da queste sue affermazioni, non si può non notare la somiglianza con i cenni storici sulla scuola austriaca fatti dal prof. Bertassi. Historia ma-gistra vitae scriveva quasi duemila anni fa Cicerone: se non sappiamo imparare dalla nostra storia...sa-remo rimandati a settembre?

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“Per educare un bambino ci vuole un villaggio. Sono stata invitata per parlare della riforma e mi è stato chiesto di darmi un titolo. Pensan-

do all’esperienza che state vivendo e presentando in questa occasione, ho ritenuto di proporre una chia-ve di lettura un po’ particolare a questo tema. “Per educare un bambino ci vuole un villaggio”, un antico proverbio che trovo molto efficace per affermare il rapporto della scuola con il territorio.

MARTA DALMASO

Pomeriggio culturale a Judicaria“Bene, bravo 7+. Ha colto nel segno”

È proprio così: la scuola è di tutti e il compi-to educativo chiede questo sforzo comune, chie-de una nuova cultura partecipativa, una nuova ipotesi di interazione a tutti i livelli. Chiede a tut-ti un “di più”.

La convinzione della necessità che il proces-so educativo coinvolga tutta la comunità è stata espressa senza mezzi termini dalla Legge Provin-ciale 5/2006, dove si dice chiaramente che “Del si-

I relatori del Convegno, da sinistra Giancarlo Maculotti, Elena D’Ambrosio, Cesare Bertassi; il moderatore Giuliano Beltrami; il presidente del CSJ Graziano Riccadonna e l’assessore all’istruzione Marta Dalmaso.

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stema educativo fanno parte, gli insegnanti, il per-sonale tecnico, le associazioni professionali degli operatori, le famiglie degli studenti ed - infine - i soggetti rappresentativi del territorio e a tutti è riconosciuto un ruolo essenziale secondo un’im-postazione di rete che supera la tradizione archi-tettura gerarchica dell’organizzazione scolastica”. Si prevede inoltre che “Al fine di rafforzare il lega-me delle scuole tra loro e con il territorio, anche nell’ottica di una razionalizzazione dell’uso delle risorse e nell’intento di facilitare la ricerca di si-nergie operative, sono favoriti gli accordi di rete nonché la collaborazione, l’integrazione, gli accor-di di programma e le convenzioni con i soggetti istituzionali e non che operano nell’ambito di ri-ferimento.”

Oltre a questi assunti di principio che sono poi recepiti negli statuti delle Istituzioni scolastiche e quindi nella modalità con cui le singole scuole si or-ganizzano e si rapportano con il territorio, vorrei richiamare qui anche una parola chiave che sta ca-ratterizzando i Piani di Studio Provinciali e che di-ce l’importanza di una non-solitudine della scuo-la stessa.

Si tratta del concetto di competenza: la scuo-la deve accompagnare i ragazzi nel raggiungimen-to di competenze, che comprendono per così dire le conoscenze e le abilità, ma che sono anche mol-to di più, coinvolgono l’intera personalità, perché sono una solida attrezzatura che i ragazzi dovreb-bero acquisire per poter affrontare con maturità la propria vita.

Per svolgere questo compito la scuola agisce at-traverso la professionalità del dirigente e dei docen-ti, attraverso le discipline che caratterizzano i per-corsi di apprendimento, le modalità organizzative adottate, la capacità di innovazione nella didattica e le risorse che le vengono assegnate…

Rimane però il fatto che nell’acquisizione da par-te dei ragazzi delle competenze, la scuola è solo un tassello, importante, ma un tassello.

Faccio qualche esempio.Si parla oggi di una nuova generazione di “nati-

vi digitali”, cioè di bambini e ragazzi che non impa-rano a rapportarsi con le nuove tecnologie, ma che “naturalmente” le assimilano come un habitus. Sia-mo di fronte a nuove modalità di apprendimento, a nuovi apprendimenti, a nuovi strumenti che sono anche “luoghi di incontro” e “ambienti di vita” (basti pensare al dilagare dei vari social network). La scuola deve molto aggiornarsi in questo campo: non solo sull’uso della tecnologia, ma anche sulla conoscen-za di cosa è cambiato nei ragazzi “nativi digitali”, per poterli aiutare a diventare competenti e non so-lo abili “cliccatori”.

Ma è evidente che l’attenzione su questo tema per l’incidenza enorme (nel bene e nel male) che ha sui ragazzi l’utilizzo del computer deve partire dal-la famiglia e coinvolgere anche il contesto più am-pio dei rapporti con il tessuto sociale.

Parliamo di Lingue straniere: tutti siamo d’accor-do sulla necessità che i nostri giovani, destinati a di-ventare sempre più cittadini del mondo, sappiano comunicare oltre il confini del paese in cui vivono. La richiesta immediata è quella di aumentare il nu-mero di ore da dedicare a scuola per le lingue stra-niere, ma in realtà la scuola da sola non può sfonda-re, perché c’è bisogno che tutto il contesto in cui i ragazzi vivono li aiuti a convincersi che è importan-te e bello conoscere altre lingue, magari utilizzan-do canali e strumenti che facilitino in questo senso, così come è di aiuto per l’apprendimento dell’Ingle-

Marco Cimmino presenta la sua relazione.

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se il fatto che i giovani imparano i testi delle can-zoni o le parole e le frasi che sono utilizzate in am-bito tecnologico.

Il terzo esempio può riguardare la competenza dell’”essere cittadini”. Nei Piani di Studio c’è l’espli-cito riferimento dell’Educazione alla cittadinanza” come compito anche della scuola, che quindi do-vrebbe aiutare i bambini/ragazzi a diventare uomi-ni e donne consapevoli di appartenere ad una co-munità che ha delle regole da rispettare (legalità) e che si attende da loro un atteggiamento respon-sabile e la disponibilità a spendersi per il bene co-mune (pace e solidarietà). È evidente che questo tipo di educazione passa sì anche attraverso quel-lo che si può insegnare a scuola, ma attecchisce soprattutto grazie all’esempio che gli adulti pos-sono offrire non solo dentro la scuola ma anche in famiglia, nell’associazionismo, nello sport, nel-la politica…

E si potrebbe continuare con altri esempi, ma mi avvio alla conclusione.

Ho fin qui sostenuto che“per educare un fan-ciullo ci vuole un villaggio”, ma evidentemente in questo villaggio la scuola deve fare tutta la pro-pria parte.

Dobbiamo lavorare molto sulla formazione de-gli insegnanti per sostenerli nella necessità di stare al passo col mondo che cambia attorno ai ragazzi.

C’è bisogno di una forte attenzione da parte della scuola nei confronti dell’esterno, per recu-perare il più possibile la forza di un patto educa-tivo attorno a valori condivisi tra famiglia, scuo-la e società.

La scuola, dicevo, deve concorrere alla costru-zione delle competenze. Però una delle questioni più delicate e più problematiche è quella che sta a monte dell’acquisizione delle competenze, e cioè qual è il senso dell’impegno che è chiesto ad un ra-gazzo per diventare “competente”. Il senso diven-ta motivazione e la motivazione è il motore più im-portante. Credo che, come sentivo spiegare in un corso di aggiornamento, l’essere competente fine a se stesso non può avere senso né per i piccoli né per i grandi. Uno poi potrebbe essere competente in una disciplina, ma usare male questa competen-za, magari per sopraffare gli altri, per imbrogliarli, per eludere il proprio dovere…

Orientare le competenze al servizio degli altri credo sia il compito più nobile che possiamo assol-vere, più motivante e più capace di fare crescere uo-mini e donne che lavorino per una società che possa avere un futuro. E non può essere un compito solo della scuola. Ci vuole un villaggio.

Servizio fotografico a cura di Alessandro Togni.

Anno ‘50, scolaresca di Montagne.

Alunno degli anni 2000.

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Il convegno “Bene, Bravo 7+” ha avuto una sua cornice e un suo fulcro: la mostra dal titolo “Li-bro e moschetto”, rimasta aperta presso le sa-

le del Centro Studi dal 1 al 14 ottobre, per la cura della prof.ssa Elena D’Ambrosio dell’Istituto di Sto-ria contemporanea “Pier Amato Perretta di Como” (che ha tenuto una relazione centrale nel conve-gno) e la speciale ambientazione con oggetti e ar-redi prestati dal Museo della Scuola di Rango e dal Comune di Vigo Rendena.

A scuola con il Duce:immagini e note su una mostra rivelatrice

ILARIA PEDRINI

In queste pagine sono stati scelti e riprodot-ti alcuni dei pannelli esposti per aiutare i lettori a cogliere visivamente il forte impatto della mostra e tutto il suo significato storiografico rivelatore di un “clima” che ha permeato il percorso di istruzio-ne primaria nel ventennio fascista. Due note sovra-stano quel clima: il culto della persona del Duce e la preparazione all’esito bellico dello Stato fascista.

Tutto appare quanto mai chiaro a scorrere le fo-to, i simboli, le composizioni scolastiche, le indica-

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zioni didattiche. “Il Ventennio ha prodotto un pro-prio sistema pedagogico che ricalca e continua quel-lo comune a tutti i regimi totalitari. L’obiettivo era quello di controllare in ogni momento la gioventù e di prepararla al combattimento che veniva consi-derato l’obiettivo finale della vita” così ha esordito la D’Ambrosio nella sua relazione, e ancora: “Mus-solini seppe fare della scuola un mezzo a sua esclu-siva disposizione per plasmare i giovani in cui dove-vano essere coltivati gli ideali del fascismo”.

La mostra ha saputo tuttavia ben enucleare le va-rie fasi di un ventennio non omogeneo. Sono stati posti in sequenza i passaggi della svolta totalitaria del regime. Il primo approccio di Mussolini al mon-do della scuola si collocava con la riforma Gentile nel solco della tradizione educativa di stampo libe-rale, con accentuazioni autoritarie ed elitarie. La scelta del giovane ministro della Pubblica Istruzio-

ne seguiva un non secondario intento di pacificazio-ne con il mondo cattolico. Una volta raggiunto que-sto obiettivo, specie attraverso i Patti Lateranensi, la riforma Gentile poteva ben essere stravolta nella pura propaganda del secondo decennio.

Colpiscono alcuni dati forniti dai documenti che accompagnavano la mostra: il “brodo di coltura” in cui era cresciuto il Fascismo fra il 1918 e il 1921, fatto di disillusioni post belliche e di crisi economi-ca, trova anche nella scuola i suoi elementi tipici.

“Particolarmente colpita era la categoria magi-strale; in quattro anni, dal 1917 al 1921, i maestri disoccupati risultarono 32.452, senza contare i sei o settemila maestri reduci dalla guerra. Tuttavia la crisi investiva l’intera organizzazione scolastica del-lo Stato liberale quale era venuta costruendosi nel periodo postunitario.

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Dopo cinquant’anni dall’unità d’Italia l’insegna-mento primario non era riuscito ad estirpare la pia-ga dell’analfabetismo, nonostante gli sforzi e qual-che risultato (la percentuale degli analfabeti era pas-sata dal 37% del 1911 al 25% del 1921). Il problema era legato anche alla carenza di locali scolastici, la cui distribuzione, tra l’altro, penalizzava fortemen-te le regioni meridionali”.

La riforma attuata dal Duce già nel 1923 dove-va certo risultare gradita ai lavoratori della scuola.

Tra febbraio e dicembre 1923 il governo emanò 10 regi decreti che riguardavano la scuola elemen-tare così articolandola:•grado preparatorio, corrispondente all’attuale

scuola materna, per i bambini dai 3 ai 6 anni, (non obbligatorio né gratuito);

•grado inferiore, le prime tre classi;•grado superiore, IV e V classe.

Ma la riforma mutò progressivamente il suo ca-rattere liberale e fu via via modellata alle esigenze dello Stato autoritario e poi totalitario. La fascistiz-zazione della scuola è ben tratteggiata dalla mostra. Svuotata dei contenuti innovatori dei programmi sot-toscritti da Lombardo Radice, la scuola divenne stru-mento del potere del regime e veicolo di propaganda.

Nei pannelli compaiono le tappe di questa tra-sformazione, che vale la pena menzionare:- nell’ottobre del 1925 la scuola viene chiamata a

celebrare la ricorrenza della marcia su Roma (il 28 ottobre è pertanto giorno di vacanza);

- al Congresso della Corporazione della scuola, te-nutosi il 5 dicembre 1925 presso il teatro Augu-steo di Roma con la partecipazione di circa 8000 insegnanti di ogni ordine di scuole, interviene Mussolini con un discorso in cui stabilisce in modo chiaro la funzione attribuita dal regime alla scuo-la: “Il Governo esige che la scuola si ispiri alle ideali-

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tà del fascismo, esige che la scuola non sia, non dico ostile, ma nemmeno estranea, al fascismo, esige che tutta la scuola in tutti i suoi gradi e in tutti i suoi in-segnamenti educhi la gioventù italiana a comprende-re il Fascismo, a rinnovarsi nel Fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla rivoluzione fascista”.

- col 2 gennaio 1926 il saluto romano fascista diven-ta obbligatorio in tutti gli istituti e scuole di qual-siasi ordine e grado (come in tutti gli uffici statali)

- l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla (O.N.B.), con la legge del 3 aprile 1926 in cui il maestro era al contempo educatore e istruttore, specie per l’e-ducazione fisica

- l’introduzione del Testo unico di Stato (a partire dall’anno scolastico 1930 –1931).

Proprio questi ultimi provvedimenti - testo uni-co di stato e organizzazioni giovanili – diventarono

i mezzi primari dell’indottrinamento della massa di scolari e giovani in età scolare. Di forte impatto un esempio di quaderno scolastico, ossessivo nel suo rincorrere episodi della vita del Duce e l’esaltazio-ne dei caduti in guerra.

La “cappa nera” di quei vent’anni, l’incombere delle armi e dell’incitamento martellante al “credere, obbedire, combattere” ha lasciato sbigottiti quanti hanno potuto visitare le sale espositive. Non poteva non tornare alla mente l’esito della guerra mondia-le e della guerra civile seguito ai fatti del 25 luglio 1943. Che drammatica disillusione dovevano cono-scere quei ragazzi fatti grandi, fatti soldato, in Rus-sia, in Albania, in Somalia, in Tunisia!

Quanto luminosa su quello sfondo riappare la limpida scelta di pace e di libertà operata con la Co-stituzione democratica e repubblicana del 1948 … dalla mostra, in fondo, è venuto un indiretto invito a continuare ad esserne degni.

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Premesse per una riforma della scuola

GIANcARLO MAcuLOTTI

Partirei da tre dati oggettivi forniti dagli organi d’informazione nelle ultime settimane e abba-stanza noti a tutti.

1. Abbiamo un esercito di precari che rimangono fuori dalla scuola per effetto dei tagli Gelmini-Tremonti e di una politica dissennata sul reclu-tamento dei docenti, condotta dai vari governi che si sono succeduti dagli anni ottanta in avan-ti, e mancano gli insegnanti di matematica. Una docente della Normale di Pisa annunciava in un pubblico convegno di pochi giorni fa che c’è un numero limitatissimo di iscrizioni alla facoltà di Matematica. Nell’esame di fine ciclo della media inferiore solo il 51,1% degli studenti italiani ri-sponde correttamente alla prova di matematica. Le due notizie portano ad una semplice osserva-zione: gli insegnanti di matematica, dalla scuo-la media alla scuola secondaria, sono specialisti nell’iniettare odio per la materia fin dalle prime classi post scuola primaria.

2. Quest’anno c’è stato un boom di iscrizioni alle scuole private alternative. Cito da Repubblica del 27 settembre: “Scuola, la grande fuga. E’ boom di iscrizioni in quelle alternative. Montessori, Steine-riane, libertarie: 40 per cento in più. Tradotto si-gnifica che una percentuale di genitori, sia pure an-cor minima ma in forte aumento, ha capito che ciò che determina la qualità della scuola è il metodo di insegnamento. Sarà pure un dato significativo – aggiungo en passant - che la patria della Montes-sori, sia il paese con meno scuole montessoriane.

3. L’abbandono nella nostra scuola raggiunge le per-centuali più alte fra i paesi europei. Vale a dire che circa il 20% degli allievi si perde per strada e non raggiunge nessun tipo di diploma.I dati riportati dovrebbero portarci dritti ad una ri-

flessione: è la didattica il problema della nostra scuo-la, non l’ingegneria organizzativa. Senza una riforma della didattica, vale a dire del rapporto insegnante-alunno e delle modalità di insegnamento, i fallimen-ti si susseguiranno a raffica e non si uscirà da una si-tuazione grave da tanti punti di vista: economico (gli “scarti” costano e rappresentano uno spreco), sociale (la scuola crea disagio e quindi crea disadattati), peda-gogico (non si raggiungono risultati accettabili). Se il centro dell’intervento riformatore deve essere la di-dattica mi pare che l’orientamento della politica vada invece in senso contrario. Lo testimonia il fatto che a capo della commissione del ministero della Pubbli-ca Istruzione che dovrebbe fornire gli orientamenti per la riforma sia stato nominato un profeta dell’an-tididattica, il professore di Matematica Giorgio Israel.

Scrive Paolo Franco Comensoli a tal proposito: “Nel suo ultimo articolo La rivoluzione? Stop ai do-centi malati di metodologia Giorgio Israel di fatto fa una bella lezione di metodologia dell’insegnamen-to della matematica, ovviamente da ottimo cono-scitore della disciplina qual è. Poi però rifiuta il co-siddetto metodologismo che, a parere suo, sareb-be imperante nella scuola. Vi ho passato quasi tut-ta la mia vita, nella scuola media superiore intendo. Confesso che questo “impero del male” del metodo su base ideologica, indotto da chissà chi, proprio non l’ho visto. Se devo dirla tutta ho invece rileva-to con disappunto l’esatto contrario: la mancanza, spesso grave, di metodo da parte degli insegnan-ti. Bocciati in didattica, direi, più che in competen-ze disciplinari. (il sussidiario.net – 17 luglio 2010)

Va molto di moda anche la Paola Mastrocola che si scaglia nel suo libro “La scuola spiegata al mio ca-ne” contro la didattica e alla quale, con un pizzico di presunzione, “si parva licet”, ho dedicato un ca-

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pitolo della mia Lettera1 intitolato “La scuola spie-gata alla Mastrocola”.

La realtà è che senza preoccuparci della didatti-ca, che significa iniezione quotidiana di motivazio-ne, di fiducia, di stimoli (“puoi capire”, “puoi farcela”, “sei in grado di imparare anche se parti da una situa-zione disastrosa”) non si riesce a rimontare la china.

Preoccuparsi della didattica significa anche sa-persi proporre alla classe in modo positivo e auto-revole. L’esatto contrario di ciò che succede spesso, subito durante la prima lezione. Mi è capitato recen-temente di dover parlare ad una terza media. L’in-segnante mi ha introdotto in questo modo: “Volete sentire ciò che il sindaco vuole dirvi sulla storia del suo paese?”. Il coro dei ragazzi è stato: “nooooooo”.

Me ne sono andato infuriato contro la giova-ne docente. Ma poveretta, nessuno le ha mai det-to che non si chiede mai ai ragazzi che cosa voglio-no o non vogliono fare? Per carità, tutto è possibi-le, ma prepariamoci anche a pagarne le conseguen-ze e a ricevere anche sonori rifiuti.

Per dare una svolta bisogna investire per avere insegnanti preparati e motivati. Il precariato, oltre che essere una grande piaga dal punto di vista oc-cupazionale, produce un danno incalcolabile poiché distrugge ogni motivazione nell’insegnante.

I paesi che sono ai primi posti nel mondo per i risultati scolastici (DATI Pisa-Ocse), come la Finlan-dia, curano in modo particolare la formazione dei docenti. Gli insegnanti nella società sono ritenuti importanti e sono “coccolati” da tanti punti di vi-sta: preparazione iniziale, accompagnamento du-rante il periodo più delicato della loro carriera (l’in-contro con le classi), aggiornamento continuo e mi-rato. Scrive l’Espresso (n. 15 del 14.4.2010) a pro-posito del paese scandinavo: “Qual è la ricetta se-greta? “Buoni insegnanti”, dice con semplicità la di-rettrice Ulla. “Buoni insegnanti” conferma l’intero staff degli esperti universitari mandati dalla Aalto a spiegare agli stranieri il futuribile progetto Inno-school. E’ da quarant’anni che in Finlandia bisogna

1 G.M. Lettera dalla scuola tradita, Armando, Roma 2008.

prendere un master per poter insegnare dalle ele-mentari in su; i relativi corsi durano tre anni e so-no a numero chiuso; l’ammissione è molto ambita. Una volta finito il master, gli insegnanti entrano in un albo cittadino, dal quale le scuole scelgono chi chiamare… La selezione è dura, gli aspiranti tanti”.

Anche Obama per riformare una delle scuole più disastrate del mondo occidentale (in matematica e let-tura gli Usa sono agli ultimi posti dei paesi sviluppati), si occupa finalmente dei docenti. “Giustamente il pre-sidente americano identifica nella mancanza di incen-tivi per gli insegnanti uno dei mali del sistema educa-tivo americano… Un insegnante sarà considerato bra-vo solo se riesce ad elevare il punteggio dei bambi-ni che gli vengono assegnati. Tanto più un insegnan-te riesce ad aumentare la performance dei suoi stu-denti, tanto più sarà pagato” (L’Espresso, 22-4-2010).

Nella società occidentale la figura dell’insegnan-te ha perso prestigio ovunque. Intervengono diversi fattori: i diplomati ed i laureati sono molti, la cultu-ra è più accessibile a tutti, il successo economico è spesso slegato dal conseguimento di titoli scolastici. Ma è possibile ricreare il prestigio con scelte politi-che avvedute. Uno di queste ad esempio è l’offerta di un posto sicuro a chi intraprende la carriera e accet-ta di sottoporsi ad un training selettivo e più impe-gnativo di qualsiasi altro. Chi ci tiene all’educazione investe in essa e cura la selezione come avviene nel mondo dello sport. Il messaggio che viene dall’alto è invece di segno opposto: disprezzo per la catego-ria, attribuzione ad essa di responsabilità inesisten-ti (il precariato non è voluto dai docenti che ne sono solo le vittime!), diffusione continua e sistematica di falsità (tre insegnanti per classe nella scuola elemen-tare mentre si tratta eccezionalmente di tre maestri su due classi –1,5 insegnanti per classe – e molto più frequentemente di quattro docenti su tre classi – va-le a dire 1,3 docenti per classe).

Per riformare la scuola è quindi necessario ripor-tare al centro dell’attenzione la didattica intesa co-me tecnica per raggiungere il successo scolastico e di conseguenza la formazione dei docenti.

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Se è vero come è vero che “La scuola ha un unico problema: i ragazzi che perde” (o che non promuo-ve per davvero, ma solo per finta) come scriveva don Milani, è indispensabile concentrarsi sul recupero dei casi difficili. E’ possibile, è indispensabile ed è utile a tutti. Nel mio libro dedico un capitolo intero alla pro-blematica del recupero. Ma non è solo teoria. Ho mes-so in pratica come dirigente una strategia per deter-minare il successo scolastico anche dei più refratta-ri. Certo: bisogna esserne convinti e bisogna riusci-re a creare spirito di “complicità” con l’alunno. Sen-za queste premesse psicologiche è inutile provarci. A Padova c’è in atto un’esperienza di questo gene-re. Cito dall’Avvenire del 10 settembre 2010: “Nella città veneta 60 scuole e oltre 500 insegnanti in rete per risolvere le difficoltà degli studenti e prevenire l’abbandono. Il “segreto”: test e programmi specifi-ci, gruppi di lavoro ristretti e la convinzione che chi è più lento merita più attenzione. L’iniziativa è parti-ta nel 2007 da una ricerca dell’ateneo sulle difficoltà di apprendimento. Risultato? Il 25% degli studenti va male, ma solo il 5% ha disturbi. Gli altri hanno biso-gno di “spinte”. Che tipo di spinte si danno normal-

mente agli studenti? Quelle verso il baratro: “Siete impreparati”. “Non avete le basi”. “In questa classe il programma non si può svolgere”. Potremmo dire “lasciate ogni speranza voi che entrate”. E giù valu-tazioni che, nel dichiarare il fallimento di più di me-tà della classe, in realtà certificano il totale fallimen-to del metodo di insegnamento.

Ci vuole più scuola (almeno “per i cretini e gli svogliati” per citare ancora una volta Lettera a una professoressa) e non meno scuola. In ogni scuola ci vuole un dirigente che si assuma le responsabi-lità dei risultati conseguiti in termini di apprendi-mento. Di un dirigente che si occupa quasi esclusi-vamente del prodotto finale: il successo degli alun-ni. La situazione di oggi è l’esatto contrario. Sareb-be come se i manager Fiat si preoccupassero di tut-to all’infuori del fatto che l’automobile uscita dalla fabbrica funzioni e soddisfi pienamente il cliente.

Bisogna inoltre incentivare a raggiungere i ri-sultati misurando la situazione iniziale (sempre per quanto riguarda i livelli di apprendimento) e la situa-zione finale. Ho l’impressione che ci sia lavoro per i prossimi quarant’anni. Ma bisognerà pur iniziare.

Anni 56-57, una classe di Agrone.

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GRAZIANO RIccADONNA

Uu secondo pomeriggio culturale è stato or-ganizzato dal Centro Studi Judicaria saba-to 6 novembre scorso, per affrontare il te-

ma del dialetto e della sua catalogazione nell’otti-ca di un’informazione corretta, seppur divulgativa.

Con questa iniziativa, che ha visto radunato a Tione il “Gotha” degli attuali studi sui dialetti in ambito trentino, il Centro ha voluto mettere sotto la lente il fenomeno della documentazione del dia-letto attraverso la realizzazione sempre più diffu-sa nella Judicaria di vocabolari e dizionari specifici. Per questo sono stati chiamati a raccolta in nome del dialetto sodalizi a carattere provinciale, come il “Cenacolo” di Elio Fox e sodalizi a carattere locale, come il “Gruppo dialetti Judicariensi”.

Il pomeriggio era anche sollecitato dalla recen-te proposta di introdurre il dialetto come materia di insegnamento scolastico: per questo era presen-te l’assessore provinciale alla Cultura, Franco Paniz-za, che si è congratulato con il Centro per l’inizia-tiva di studio sui dialetti, loro studio e catalogazio-ne, loro significato attuale.

Nell’introdurre l’incontro davanti al numeroso e interessato pubblico, il presidente ha messo in rilie-vo come il dialetto non è solo la parlata di un luogo, in quanto i vocaboli sono specchio della nostra gen-te, abitudini, usi e costumi di una comunità rurale: in-somma, un mondo di vita. Per cui la dialettologia mo-derna non è solo una fredda catalogazione, ma la ri/costruzione di un contesto d’uso, perché mette in co-municazione vocabolario e cultura materiale del luogo.

Pomeriggio culturale a Judicaria

Dizionari dialettali oggi, perché?Il dialetto si impara, non si insegna

L’intervento del prof. Corrado Gras-si, docente emeri-to presso l’Univer-sità di Vienna, ha tematizzato il pro-blema dello studio del dialetto parten-do da un presuppo-sto: “Lingua e dia-letto sono ben di-versi tra loro, mol-to più di quanto lo sono, ad esempio, italiano e inglese…” Lo spunto di partenza, la tesi di laurea del rendenese Renzo Tomasini (1949), ha offerto al prof. Grassi l’opportunità di sottolineare la differenza metodologica essenziale che intercor-

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re fra l’impostazione dialettologia del passato, di ti-po sistematico ma repertoriale, e quella attuale che si basa sull’analisi testuale e sugli aspetti allocutivi.

Quindi si è passati alla tavola rotonda tra gli au-tori di vocabolari dialettali in ambito judicariense usciti in questi ultimi anni. La tavola rotonda era coordinata da Elio Fox, presidente del “Cenacolo” e direttore di “Ciàcere en trentin”, che ha esordito con la storia dei dizionari dialettali in Trentino, ini-ziata con il Vannetti nel 1756. (di Elio Fox riprodur-remo l’intervento la prossima volta).

Sono quindi intervenuti i vari autori. Miriam Sottovia (Vocabolario dialettale di San Lorenzo e Dor-sino) ha sottolineato come un vocabolario sia estre-mamente impegnativo, ma anche gratificante, inte-ressando l’intero modo di vivere di una comunità e in particolare il passaggio dalla civiltà contadina a quella omologata attuale, con il rischio di perdere la propria identità

Gianni Poletti (Parlar da Stor) ha ricordato la sua esperienza di autore sulle tracce dell’influenza di Scaglia e Scalfi. Partendo dalla registrazione dei termini dialettali, l’autore ha coinvolto l’università della III età di Storo impostando un corso sulle tra-dizioni e la parlata locali. La creazione di un grup-po di lavoro per la verifica dei testi ha quindi reso possibile affinare un lavoro rigoroso e trarne nu-merosi spunti, anche sulla base degli effetti illocu-tivi, gli effetti della parola in un contesto verbale.

Gian Battista Salvadori (Vocabolario di Roncone) ha relazionato sulla sua esperienza di autore del dizio-nario e della ricerca paremiologica (raccolta prover-bi, detti, intercalari, aneddoti, leggende).

Corrado Grassi (Dizionario del dialetto di Montagne di Trento) mediante l’interpretazione di Patrizia Cor-din ha fissato i termini di un’operazione fortemen-te innovativa ed esemplare per una serie di fattori: il metodo di raccolta, il dizionario non differenzia-le, il collegamento con la storia e la cultura, l’appa-rato grammaticale, la storia materiale, in definitiva un lavoro progettato e paradigmatico sul dialetto.

Maria Torbol e Eliseo Fava (Lessico altogardesano “a me digo”) infine hanno informato sul lavoro che

stanno concludendo circa il dialetto altogardesano, strutturato sulla base dei maestri Azzolini, Grossi, Ricci, Groff, nonché sui due poeti dialettali della Bu-sa, Floriani e Baroni. Prossimamente il lessico sarà messo per i doverosi e richiesti apporti dell’opinio-ne pubblica in Internet.

Numerose le questioni sollevate, e che per la prof. Patrizia Cordin, che ha concluso il riuscito pomerig-gio, dovrebbero essere trattate da futuri incontri. Intanto la questione circa il se, come, quando inse-gnare dialetto, essendo proprio il dialetto un veico-lo fondamentale per l’apprendimento anche dell’ita-liano e delle altre lingue. Sugli scenari futuri dei di-zionari un po’ tutti si sono detti d’accordo sulla ne-cessità di riprendere in mano il lavoro per prosegui-re la ricerca: anche se vale la massima per cui “og-gi sono più numerosi quelli che scrivono in dialet-to rispetto a coloro che lo parlano”, il che è diame-tralmente l’opposto di quanto accadeva in passato.

Il dibattito finale ha messo in luce l’interesse dell’argomento, a cominciare dalla ventilata pro-posta di introdurre il dialetto come materia di in-segnamento scolastico. Unanime la disapprovazio-ne, in quanto “Il dialetto si impara, non s’insegna!”

Il dibattito proseguirà, perché non può esaurir-si in una massima!

Il prof. Grassi con l’Assessore provinciale Franco Panizza.

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Vocabolari dialettali usciti nel Trentino dalla metà dell’800 in poi, in ordine cronologico

ELIO FOX

Prima di tuto ringrazio il Centro Studi Judicaria e per esso l’amico Graziano Riccadonna per la fiducia che mi ha concesso e naturalmente so-

no lieto di essere «fra cotanto senno». Dico subito, a scanso di equivoci, che io non ho alcun titolo di stu-dio da esitare in questo settore, ma la mia informa-zione su questi problemi si basa solo sulla passione.

Fatta questa necessaria premessa, entro in argo-mento con alcune riflessioni prima di dare la paro-la a coloro che partecipano a questa «Tavola roton-da». A mia conoscenza, è forse la prima che si tie-ne su questo specifico e delicato argomento e che si tiene con i diretti interessati.

Detto questo, vorrei ora inserire il problema in quello che ritengo un doveroso inquadramento sto-rico. Naturalmente parlo al pubblico e non certo agli esperti, ai quali non ho nulla da insegnare.

È certamente noto a tutti che la poesia dialet-tale trentina è nata a Rovereto alla metà del Sette-cento e che il primo vero poeta - secondo i canoni dell’epoca - sia stato l’abate Giuseppe Felice Giovan-ni, vissuto fra il 1722 ed il 1787. La poesia dialet-tale trentina ebbe come culla l’Accademia Rovere-tana degli Agiati, perché lì leggeva le sue composi-zioni il Givanni, che, fra cl’altro, fu anche tra i pro-motori dell’Accademia, perché fin dagli Anni Cin-quanta del Settecento frequentava il salotto lettera-rio che Bianca Laura Saibanti, salotto che nel 1753 diventerà la gloriosa e sempre viva Accademia che tutti conosciamo.

Quindi, dato che a Rovereto si compì quell’atto di crescita del dialetto da voce di popolo ad espres-

sione letteraria, era proprio quello l’ambiente adat-to per realizzare il primo vocabolario dialettale del-la nostra terra.

L’autore di questa impresa è stato don Giovanni Battista Azzolini, vissuto fra il 1777 ed il 1853, uo-mo di grande vigore intellettuale, insegnante pres-so il Ginnasio Superiore di Rovereto. L’Azzolini rac-colse i lemmi del suo dialetto fra il 1815 e il 1836 ed il suo vocabolario, molto ridotto da don Giovan-ni Bertanza, venne stampato a Venezia nel 1856, tre anni dopo la scomparsa del suo autore.

Don Domenico Zanolli, vissuto fra il 1810 ed il 1883, amico e discepolo dell’Azzolini, anche se non ne ha condiviso le scelte, scrisse che il suo maestro compilò questo vocabolario per portare la nostra provincia alla pari con le altre qui intorno, e perché «ciascuno potesse facilmente riscontrare quella vera voce

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italiana che corrisponde al dialetto... Frase misteriosa.Amore per il dialetto, quindi, ma la ragione vera

era quella che l’Azzolini voleva codificare una vol-ta per tutte il dialetto secondo i suoi canoni grafi-ci, croce e delizia - come si vede - di tutti i vocabo-laristi di tutti i tempi, anche di quelli presenti, ho ragione di credere.

In particolare il problema più importante, all’e-poca, era legato all’utilizzo o non utilizzo del di-gramma ch.

Esemplifico: c’era chi scriveva òccio, panòccia, piòccio (le doppie si sprecavano) come il caposti-pite Giuseppe Felice Givanni, e chi scriveva occhio, panocchia e piocchio (fra questi Giovanni Galvagni e Giacomo Antonio Turrati fra i più noti).

Ovviamente anche l’Azzolini, nelle sue poesie, scri-ve occhio, panocchia e piocchio, ma nella Osservazione VIII del suo vocabolario, fa questa puntualizzazione:

Generalmente parlando, il ch del nostro dialetto ri-suona come nella lingua toscana. ad es. pòchi, perché, ipoteche. Ma quando è seguito dai dittonghi ia, ie, io, iu ha un certo suono che per definirlo non potrei dire, se non che è un suono del tutto somigliante a quello del nostro c fra due vocali; pronunciato toscanamente si ha bacio, vece, lice, appunto il suono del nostro ch, come in zinocchio, bocchia. chiarezza.

Naturalmente, l’Azzolini non si rende conto del ridicolo e pretende che se è scritto zinocchio, bòc-chia e chiarézza, si legga zinòccio, bòccia e ciarézza. E queste assurdità ha portato nel suo vocabolario,

Nel 1856, in concomitanza con l’uscita del voca-bolario, a Rovereto vennero pubblicate alcune no-velle di don Giuseppe Felice Givanni e don Zanol-li nella prefazione stronca il vocabolario, salvando solo la grafia del Givanni. Scrisse che: incepparono sì fattamente l’ortografia, da doversi leggere le parole di-versamente dal modo in cui sono scritte... .01 1856 - Il titolo completo del libro è: Vocabolario

vernacolo-italiano pei distretti Roveretano e Trenti-no. Questa coda pei distretti Roveretano e Trenti-no, fa pensare che per l’Azzolini, nell’asta dell’A-dige vi fosse un solo dialetto, anche se di trenti-no in quel dizionario non c’è proprio nulla. Fo-

tografava, l’Azzolini, una realtà in atto, il dialet-to di Rovereto come dialetto forte che influen-zò anche poeti non roveretani. Basti pensare a Giovanni Battista Garzetti o a Michele Gottardi per rendersene conto. O anche al nòneso Pietro Tommaso Scaramuzza, sul quale Guglielmo Berta-gnolli ebbe a scrivere che: l’ibrida dizione del poeta non si deve a lui, ma ad un amico il quale, per rende-re accessibile la poesia anaune anche alle città e alle valli trentine in generale, si assunse l’impresa sacrile-ga di roveretanizzare le poesie dello Scaramuzza...

Il vocabolario dell’Azzolini nella sua completez-za anche grafica, verrà pubblicato dalla Provincia di Trento nel 1976, coordinato da Pio Chiusole e da Marco Pola con prefazione del prof. Giovanni Battista Pellegrini.

02 1865 - C’è un secondo piccolo vocabolario, ed è quello elaborato dal prof. Cristiano Schneller nel 1865 ed ha per titolo: Studio sopra i volgari del Ti-rolo italiano. Nella prima parte mette a confronto il dialetto lagarino con la lingua italiana ed il la-tino, mentre nella seconda c’è un «Vocabolario comparativo», che mette a confronto un numero limitatissimo di termini, appena 220, e li confron-ta con i dialetti veneziano, bresciano, mantovano, milanese, ladino di Fassa e Ampezzano e tedesco).

Nel residuo arco dell’Ottocento, appaiono anco-ra due studi sui dialetti, uno è quello del prof.

03 1882 - Theodor Gartner, Die Judikarische Mun-dart, pubblicato a Vienna nel 1882, del quale non sò nulla.

L’altro è molto importante, perché ci offre un primo serio tentativo, anche qualcosa di più di un tentativo, di grammatica del dialetto della città di Trento, e ce lo offre 04 1896 - Lamberto Cesarini Sforza, Il dialetto trenti-

no confrontato con il toscano e con l’italiano propria-mente detto (1896). Quest’opera, oltre alla gram-matica, di offre il primo vocabolario del dialetto di Trento, anche qui con la mania allora in uso dei confronti. Non si tratta di un vero e proprio vocabolario, perché latita nel settore delle cate-

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gorie grammaticali, ma ci offre un panorama di quasi 1900 fra termini e frasi.

Varchiamo la soglia del secolo.05 1904 - Nel 1903 esce a Trento il primo vero vo-

cabolario del dialetto cittadino, coordinato dal prof. Vittore Ricci e raccolto da alcune signorine di Trento, peraltro nemmeno citate: Vocabolario trentino-italiano (1904). Anche questo vocabolario ignora quasi del tutto le categorie grammatica-li. In compenso è molto ricco di lemmi, 17.347.

06 1906 - Cesare Battisti, Il taron o gain, il gergo dei calderai della Valle di Sole nel Trentino,.

07 1909 - Nel 1909 usciva anche il vocabolario cura-to da don Giovanni Corsini, Piccolo prontuario per i giovani insegnanti della scuola popolare, in forma di dizionarietto, delle voci più comuni del dialetto trenti-no. Anche qui non ci sono riferimenti grammaticali.

08 1936 - Nel 1936, Giovanni Pedrotti dava alle stam-pe un Vocabolario dialettale degli arnesi rurali del-la Valle dell’Adige e delle altre valli trentine (1936). L’autore spiega il perché di un dizionario così specialistico: ha notato come negli altri diziona-ri fin qui apparsi (l’Azzolini, il Ricci ed il Corsini), la terminologia agraria fosse o inesistente o in-completa. Un libro straordinario.

Ho voluto fermare la vostra attenzione in parti-colare sulle opere storiche dei nostri dialetti, limi-tandomi ora ad elencare le opera uscite dal secon-do dopoguerra fino ai nostri giorni, partendo dal09 1955 - Dizionario trentino-italiano dell’on. Lionel-

lo Groff, (che ha avuto tre edizioni)10 1960 - Dizionario valsuganotto di Angelico Prati11 1964 - Vocabolario anaunico e solandro di Enrico

Quaresima. 12 1970 - Vocabolario ladino moenese-italiano (e italia-

no-moenese) di Giuseppe Dell’Antonio.13 1976 - Dizionarietto comparato delle voci gergali

«tarone» di Quirino Bezzi 14 1976 - Dizionario primierotto di Livio Tissot (due

edizioni) 15 1977 - Dizionario del dialetto fiemmese parlato nei

quartieri di Tesero, Panchià e Ziano di Narciso Zorzi.16 1980 - Breve vocabolario del dialetto trentino della

parlata contemporanea di chi vi parla. È un elen-co di 1598 parole in più dialetti della provincia

17 1980 - Dialetto e mestieri a Predazzo di Arturo Bo-ninsegna.

18 1981 - Il rendenglese - dialetto trentino/anglo ame-ricano di Angelino Franchini

19 1982 - 777 parole che stanno andando nel dimentica-toio (ricerca del Centro Scolastico di Vigo di Ton)

20 1983 - Dizionario ladino fassano -italiano di don Massimiliano Mazzel.

21 1983 - Duemila parole del mio paese (che è Tione) di Ezio Scalfi.

22 1984 - Dizionario Cembrano di Aldo Aneggi.23 1984 - Taron, gergo di emigranti di Val Rendena di

Angelo Franchini.24 1985 - Parlar pinzulèr di Ugo Bonapace 25 1986 - Il vernacolo dell’altipiano di Piné Angelo Vigna.26 1990 - Il dialetto della Val Rendena Renzo Tomasi-

ni. INSERVIBILE 27 1992 - Abbicì dell’antico dialetto trentino di Aldo

Bertoluzza (due edizioni) 28 1996 - Vocabolario della parlata dell’altipiano di Piné

coordinato da chi vi parla 29 1996 - Dizionario tesino di Attilio Biasetto.30 1997 - Recordònse la parlada fiamaza Tarcisio Gilmozzi.

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31 1997 - Glossario dialettale di Bondo e Breguzzo di Fiore Bonenti.

32 1997 - Usi gergali e furbeschi nel dialetto trentino Renzo Tomasini.

33 1998 - Dizionario di parole dimenticate da ricordare in dialetto trentino di Walter Pedrotti.

34 1999 - Vocabolario del dialetto di Roncone di Gio-vanni Battista Salvadori

35 1999 - Voci nostrane: el dialèto valarsèr Remo Bus-solon.

36 2001 - Vocabolario solandro-italiano Giovanni Za-nella.

37 2003 - Prima che i ghe sònia l’agonia ala nossa cia-cerada di Graziano Valcanover (INDECENTE)

38 2005 - Vocabolario del dialetto lavaronese di Rena-to Bertoldi.

39 2007 - Parlar di Stor, di Gianni Poletti.40 2008 - , Vocabolario del dialetto di San Lorenzo e

Dorsino di Miriam Sottovia 41 2009 - Ultimo della serie, fin’ora, quello del prof.

Corrado Grassi, Dizionario del dialetto di Monta-gne di Trento. Ho messo nell’elenco, per completezza dell’in-

formazione, tutto quello che offriva il mercato, dai vocabolari ai semplici elenchi di parole. Non sò se altre province possano elencare 41 opere. Ed il lavo-ro continua, perché sono in via di elaborazione altri cinque vocabolari dei quali ho le fotocopie

01. C’è quello di Luciano Bernard, che ha raccol-to 20.000 termini per un Vocabolario naunico di Vigo di Ton, dove questo ricercatore vive;

02. C’è Giorgio Nardon, che ha ultimato il suo Vocabolario della parlata di Cembra e della destra Avi-sio e a tempo perso gli dò una mano a correggerlo. Sono oltre 15.000 termini da sistemare.

03. C’è la ricerca di Rodolfo Abram, che prima del-la sua scomparsa, avvenuta nel 1997, era già arriva-to alla lettera z, non conclusa, di un Vocabolario della parlata dell’Alta Valle di Non (zona Roncone - Cavareno). Il manoscritto giace a Bologna nelle mani dei figli.

04. Anche Danilo Bettini, è al lavoro per un Vo-cabolario lagarino del Comun Comunale (tutta la de-stra Adige, da Nomi, a Nogaredo e Isera, compresa

la zona di Castellano, patria di don Domenico Za-nolli). Il lavoro non è veloce, perché vive a Padova.

05. Infine, io ho portato a termine il rifacimento del vocabolario del Ricci, sono agli ultimi ritocchi, ma sarà pronto per la stampa entro il 2011.

Ove stampati, i primi due che ho nominato (quel-lo della Bassa Anaunia e quello della destra Avisio) riempirebbero importanti lacune, perché

a. Il Vocabolario dell’Aneggi è limitato alla zona sinistra dell’Avisio (Siror), quella che confina e si ar-rampica verso l’altipiano di Piné ed è quindi esclu-sa la zona più importante che è quella di Cembra e tutta la destra Avisio;

b. il Vocabolario anaunico e solandro del Quare-sima, è limitato all’area della destra Noce. Essen-do nativo di Tuenno, ha fatto in particolare leva sul suo comune, spingendo poi le sue ricerche alla «Ca-ter vile» cioè Portolo, Nanno, Tassulo e Rallo, ed al-le parlate simili di Preghena e Rumo. Ha trascurato più della metà della valle, cioè tutta la sinistra Noce.

C’è anche un vocabolario, che moltissimi anni fa avevo potuto vedere e consultare e riguarda la par-lata della «Zona rotaliana» (Mezzocorona e Mezzo-lombardo). Non ne ho più saputo nulla.

Se si è seguita la localizzazione dei vocabolari, ci si accorge che vi sono zone sovradotate e zone che so-no prive di vocabolari. Per esempio: le Giudicarie e la Rendena hanno ben 8 vocabolari, considerando anche i tre recenti di Gianni Poletti, della Signora Sottovia e del prof. Grassi, ma il Basso Sarca e la valle di Ledro, che fanno parte dell’antica Giudicaria, non ne hanno neppure uno. La stessa città di Rovereto è rimasta al vocabolario dell’Azzolini e quindi non ha un vocabo-lario: l’edizione del 1976 ha lasciato le cose com’era-no 150 anni prima: è un grande libro di cultura, ma come vocabolario non serve proprio a nulla. Peraltro altri vocabolari, anche molto più recenti, anche nelle Giudicarie, non servono allo scopo per il quale si fa un vocabolario, perché nessuno ha mai scritto e mai userà la grafia del prof. Tomasini ed anche la grafia dell’Azzolini era già tramontata quando uscì l’edizio-ne Bertanza nel 1856 e nessuno dopo l’ha mai usata.

SULLA GRAFIA ci sarebbe molto altro da dire.

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Alice Valentini + Aurora BeozzoLe esperienze artistiche di due giovani artiste trentinepresentate al Centro Studi Judicaria.

ALESSANDRO TOGNI

Alice Valentini nasce a Tione il 7 marzo, Au-rora Beozzo nasce a Trento il 3 novembre; entrambe nello stesso anno: il 1989.

Era il tempo ‘artificiale’ degli Anni ’80, un decen-nio sfolgorante per lo sviluppo dell’arte visiva, un periodo storico ricco di manifestazioni fra loro lon-tane e per questo completamente “straniere” ma, anche, il tempo dove si prese coscienza delle innu-merevoli possibilità di dialogo fra le parti, quando attraverso la parola “contaminazione” si diede av-vio a relazioni impensabili.

Il contemporaneo ancora pervaso di “senti-menti moderni” prese a risalire sentieri inaspet-tati per arrivare infine ad una destabilizzazione culturale capace di aprire nuovi continenti cultu-rali, tutti gravitanti sotto il concetto assai dilata-to e privo di confini che rispose al nome di “post modernismo”.

Questa sinteticissima introduzione è utile ai fi-ni della comprensione delle opere di Alice e Auro-ra, due giovanissime artiste trentine la cui ricerca formale e i relativi contenuti, sembrano attingere

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proprio da quella congettura culturale sprigionata-si sul finire degli Anni ’80.

È la multidirezionalità la facoltà più verosimile riscontrata nelle loro opere, la volontà di non ubbi-dire esclusivamente ad uno stile riconoscibile e di provenienza storica, il gusto di avvalorare le moda-lità dell’odierno, nella consapevolezza che le for-me di comunicazione, anche quelle sensibili, og-gi, debbano manifestarsi in “figura frammentaria”, o per meglio dire: tutto il nostro Essere psicologi-co ed intellettuale, essendo invariabilmente condi-zionato da infinite ricezioni e sollecitazioni restitu-ite dalla civiltà, necessariamente si ritrova a dover interagire con le stesse, nella maniera ritenuta più consona per la comunicazione.

Una comunicazione quindi dove astratto e figu-rativo trovano uguale spazio propositivo, dove tec-niche del passato e modi operativi dell’oggi riesco-no a non nuocersi o scontrarsi. La pittura è certa-mente la materia maggiormente perseguita sia da Alice che da Aurora, tuttavia mentre la prima si sof-ferma maggiormente su una dinamica spesso cala-mitata dalle esperienze dell’espressionismo astrat-to, la seconda pare riflettere maggiormente con le visibilità della fotografia.

Ed entrambe le artiste, anche per la frequenta-zione accademica presso la “Cignaroli” di Verona, marginalmente utilizzano le “incisioni” su lastre di zinco, per le conseguenti stampe monocromatiche di estrazione classica.

Anche le tematiche spesso sono vere e proprie “battaglie semantiche”, dove i contenuti sembrano di volta in volta contraddirsi e fronteggiarsi in uno spasmo espressivo sempre carico di cromie al limi-te di una accecante fluorescenza

L’arte per Alice e Aurora diviene infine “pro-tesi sensibile” per la loro ricerca di contatto con il mondo ed attraverso la traduzione di situazio-ni visive, ecco manifestarsi una intensa “voglia di linguaggio” extra verbale, a volte fortemen-te romantico.

L’occhio è dunque inteso come “il senso supe-riore”, il luogo da cui passa in entrata e in uscita la

parte più profonda dell’interiorità, l’essenza spes-so celata, per indole riservata, per timidezza o in-capacità, che nella pittura riesce a trovare varchi e comprensioni.

Ma non solo di propria specifica auto rappre-sentazione lavorano Alice e Aurora e molte icone della cultura anticlassica, la nuova ritrattistica del-le “star” (Marylin Monroe) in seno alla folgorazio-ne pop artistica degli ultimi 60 anni, diventano co-dici ai quali tutti o quasi tutti gli abitanti del pia-neta Terra devono fare i conti, prima o poi, duran-te la loro esistenza.

Ed allora ecco le “scarpe da ginnastica”, quel-le calzate da Joey Ramone in formula punk già nel 1974, oppure le indagini in stampa serigrafica de-dicate agli amici, come fossero personaggi immor-talati alla Andy Warhol.

La mostra di Alice Valentini + Aurora Beozzo indicando le tendenze dei giovani d’oggi definisce anche Il “segno dei tempi”, oltre a rendere espli-cita la disintegrazione delle regole, per una liber-tà espressiva fortemente intrisa di pensiero este-tico e di privatizzazione, nel dover affrontare il fu-turo dentro un mondo fatto di propositi non del tutto duraturi, dove l’esistenza viene definita dal-le rapide cascanti della trasformazione. Buon fu-turo nell’arte.

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ITM 2010 a Progno (Lessinia)

GIuLIANO BELTRAMI

Sono attuali, e soprattutto, sono protetti i dia-letti e le lingue delle vallate alpine? Se n’è par-lato nella ventesima edizione degli Incontri Tra-

montani nell’ultimo weekend di settembre.Com’è nella tradizione di questo importante

evento, che dall’inizio degli anni Novanta del seco-lo scorso ha segnato e segna ogni ultimo fine-setti-mana di settembre, si sono incontrati i gruppi cul-turali delle valli alpine, i quali, con venti edizioni sulle spalle, hanno stretto un’amicizia forte, fatta sì di pacche sulle spalle e di racconti reciproci di vi-ta, ma soprattutto di scambi intellettuali di storia e cultura delle proprie genti.

Sono tanti, dalla Val Camonica alla Valtellina, dal-le Giudicarie al piemontese Coumboscuro, dai friu-lani agli svizzeri, dai bergamaschi ai vercellesi, dai solandri ai veronesi della Val d’Illasi.

Ecco, proprio nella Val d’Illasi (propaggine dei Lessini), e precisamente a Selva di Progno, villag-gio ad una trentina di chilometri dalla pianura fra Verona e Vicenza, si è svolta la ventesima edizione degli Incontri partiti nel 1990 a Gardone Val Trom-pia. Tema molto sentito quello dei dialetti e delle lingue delle valli alpine. Molto sentito a Selva e a Giazza (villaggio vicino), enclaves in cui si traman-da ancora la lingua cimbra, sia pure, purtroppo, or-mai appannaggio di poche decine di persone. Ma tema sentito in tutto l’arco alpino, dove ogni comu-nità custodisce uno scrigno prezioso rappresentato dalla propria lingua (il tedesco, il ladino, il cimbro, il provenzale, il francese e lo slavo, fra Alto Adige,

Trentino, Piemonte, Val d’Aosta e Friuli), senza di-menticare la moltitudine dei dialetti, un tempo uni-co veicolo di comunicazione, poi derisi e negletti in favore di una lingua unificatrice come l’italiano, oggi in via di recupero grazie a chi ha capito (ancora po-chi, per la verità) che non si può gettare l’identità e la propria storia come fossero bagagli inutili. Non è un caso che negli ultimi anni si siano moltiplicate le pubblicazioni di vocabolari dei dialetti anche di pic-cole e piccolissime comunità sperdute fra i monti.

Finita l’edizione 2010, gli amici dei Tra-montani si sono dati appuntamento per il 2011 in Val Sesia, zona nord-orientale del Piemonte. Il tema è accat-tivante, anzi, ghiotto: i piatti tipici delle valli alpine.

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Note su alcuni aspetti della più recente indagine dialettogica.

cORRADO GRASSI(Prof. Emerito della Wirtschafts Universität di Vienna)

Inizierò citando un brano tratto da “11 sistema periodico” di Primo Levi. scrillore piemontese ben noto come l’autore di “Se questo un uomo”

che al rientro a Torino alla fine della guerra aveva ri-preso il suo lavoro come chimico e che così ci nar-ra la visita di un cliente che desiderava la perizia di un certo prodotto.

“Portava il gilè, dal cui taschino pendeva la cate-na dell’orologio. Parlava piemontese, il che mi mise immediatamente a disagio: non è educato risponde-re in italiano a chi ti parla in dialetto, ti mette subito al di là di una barriera, dalla parte degli aristò, della gente per bene. dei “luigini”, come li chiamò un mio illustre omonimo “riferimento a Carlo Levi, autore del ben noto “Cristo s’è fermato a Eboli” e pure lui piemonte-se”. Eppure il mio piemontese, corretto come forme e suoni, è così liscio e snervato, così educato e langui-do, che appare poco autentico. Piuttosto che un genu-ino atavismo sembra il frutto di un diligente studio al tavolino. a lume di candela, su grammatica e lessico”.

Primo Levi, dunque, fa notare la differenza esi-stente fra i diversi modi di comunicare nello stes-so dialetto senza però metterne in discussione la natura. Il suo imbarazzo è unicamente di carattere sociale, in quanto si era trovato di fronte a una si-tuazione per lui insolita, ma non per questo meno degna di attenzione e di rispetto. Situazioni invece normali per chi, come il sottoscritto nato e vissuto in un quartiere operaio di Torino, ha avuto la sor-te di apprendere e praticare, insieme con i coeta-nei di quegli anni, una piemontesità verbale di na-

tura tale da mettere in imbarazzo ben altri uditori culturamente raffinati come Primo Levi. Nonostan-te ciò, la mia esperienza diretta mi consente di at-testare che negli anni immediatamente precedenti l’ultima guerra, e nonostante i diversi modi di ve-nire utilizzato, il dialetto formava ancora un insie-me compatto e ben distinto rispetto all’italiano. Più precisamente, nella nostra comunità sociale esiste-va una “diglossia”, come si chiama in termini tecni-ci, composta di due varietà linguistiche delle qua-li una, la lingua italiana, veniva usata in funzione di varietà “alta” scritta o parlata; l’altra come varietà “bassa” dell’uso parlato quotidiano (nel nostro ca-so, essenzialmente il dialetto). E la consapevolezza di saper usare la varietà “alta” della diglossia ci ve-niva esclusivamente dall’obbligo di parlarlo a scuola con gli insegnanti nelle nostre letture casuali, ma il

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suo uso al di fuori della nostra norma da parte per esempio di figli di borghesi o di forestieri veniva immediatamente sanzionato o addirittura scherni-to come inaccettabile devianza.

Questa, dunque, la situazione di un tempo con-nessa con la diglossia non solo in Piemonte e non solo in riferimento all’uso comune che si è fatto del-la comunicazione in dialetto. Basta infatti procede-re a una semplice rassegna dei numerosi diziona-ri dialettali non solo italiani ma anche stranieri, e non solo dovuti a ricerche finalizzate, ma anche al-le meritorie iniziative di cultori locali che le impo-stazioni date a queste opere sono essenzialmente fondate sulle differenze che intercorrono tra i dati dialettali e le corrispondenti traduzioni in lingua.

Sembrerebbe dunque che la traduzione da un dia-letto a una lingua consista nel semplice trasferimento dalla varietà “bassa” alla varietà “alta” della diglossia. In realtà, queste “varietà” sono tutto sommato en-tità astratte che non tengono conto dei multiformi aspetti che la variabilità del linguaggio può assumere e della sua funzione determinante nel rinnovamen-to perpetuo in cui si alternano sfumatissimi processi di adesione, di adattamento, di distinzione, di repul-sione o di accettazione rispetto alle innovazioni pro-poste dall’esterno, in particolare da parte del siste-ma linguistico in quel momento dominante nell’area.

Si tratta di principi tutt’altro che nuovi e rivolu-zionari perché già esplicitati quasi un secolo fa da-gli svizzeri Karl Jaberg e Jacob Jud, autori del mo-numentale Atlante Linguistico Italo-Svizzero, quan-

do sostenevano che l’oggetto della ricerca dialettale doveva essere non “la lingua, ma il parlare”. Al ricer-catore, infatti, la parola ricavata nel corso della sua ricerca non appare in una realtà assoluta, ma nella sua realizzazione momentanea. La sua veste lingui-stica è condizionata dalla frase in cui essa è inseri-ta o, per la domanda isolata, dalla situazione mo-mentanea dell’intervistato. Non solo, ma “la rispo-sta dell’informatore può rispecchiare l’uso del dia-letto locale ma può anche essere in contrasto con esso; non per questo deve essere considerata sba-gliata” (errore gravissimo in cui incorrono non di ra-do certi incauti principianti).

In sostanza, quella che viene definita come “di-glossia” non sarebbe altro che una forma di pseu-do bilinguismo perché il tratto “ambiti e modalità d’uso” che distinguerebbe un dialetto da una lingua costituisce in realtà un contatto fra due diverse tra-dizioni testuali, ovvero il tipo di testo che i parlanti scelgono in lingua o in dialetto dovendo reagire in una identica situazione comunicativa.

Per fare un esempio, nel Dizionario del Battaglia (XII, pp. 726 - 727). la “pastoia” viene definita come la Fune con la quale si unisce la zampa anteriore di quel-la di un cavallo con la corrispondente posteriore allo sco-po di insegnargli l’ambio e anche: correggia che si lega a ciascun arto di un animale al pascolo affinché non si al-lontani. In occasione di un’inchiesta dialettale svolta nel Biellese, un contadino dialettofono del luogo ha invece così definito la “pastoia per polli” (se ne dà qui per semplificazione la traduzione in italiano): se tu avessi comprato delle galline e poi, siccome che noi le lasciamo in libertà, tu avessi paura che scappassero specialmente se le avessi comprate da un proprietario vicino a casa, al-lora avresti loro legato (lett. gli legavi) le zampe, in modo però da consentire loro un certo movimento (lett. “molli”), tra una zampa e l’altra con una corda, gli limitavi l’am-piezza del passo. Lontano non ondavano.

Il primo enunciato, chiaramente atemporale, tecnico, privo di riferimenti al parlante e all’inter-locutore, analitico, è facilmente definibile come te-sto descrittivo-espositivo. Nel secondo caso abbia-mo invece a che fare con un etnotesto costituito da

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una descrizione impressionistica che contiene una trasparente componente dialogico-argomentativa. Sul piano pragmatico, dunque, i due testi non so-no intercambiabili fra loro in quanto propri di due diverse culture che in quella situazione non posso-no esprimersi che nel modo loro più confacente.

In sostanza, il dialetto viene snaturato quando lo si vuole costringere entro una contestualità estra-nea alla sua tradizione. Si vedano, a questo propo-sito, le frequenti violazioni della tradizione testuale propria del dialetto nell’ambito della letteratura dia-lettale, segnalate recentemente in Francia dal Blan-chet per il Provenzale e da Le Du per il Brettone.

Si osservi tuttavia che la tradizione testuale in genere non è un fenomeno automatico e identico in ogni circostanza soprattutto nella società in cui oggi viviamo, caratterizzata da un bilinguismo ge-neralizzato che moltiplica le circostanze e le moda-lità della comunicazione sociale. Si veda per esem-pio il caso esemplare di Berlino.

Come sappiamo, la parlata della Berlino ansea-tica era di tipo basso-tedesco. A partire dal sedice-simo secolo, con l’introduzione dello Hochdeutsch come lingua scritta e, più tardi, con la trasforma-zione della città in capitale del Regno di Prussia e dell’lmpero tedesco, il dialetto berlinese ha grada-tamente assunto la fisionomia di una varietà parla-ta propria dell’Hochdeutsch, con un leggero, ma fa-cilmente riconoscibile sostrato basso-tedesco. Nel 1945, però, e più tardi con la costruzione del muro, i due settori della città vennero a far parte di due diversi sistemi politici, economici e amministrativi.

Le ricerche compiute dal professor Schlobinski della Libera Università di Berlino e dai suoi colla-boratori, hanno ampiamente messo in evidenza le conseguenze linguistiche di questa separazione. Tra i due vecchi quartieri operai contigui, Wedding e Prenzlauer Berg, poi separati dal muro e rispetti-vamente assegnati al settore occidentale e a quel-lo orientale della città, Schlobinski giunge alle se-guenti conclusioni (ovviamente, semplifico molto).

Pur trattandosi dello stesso dialetto, nel quar-tiere occidentale il berlinese viene associato a un si-

stema di valutazioni (=varietà volgare, propria dei proletari, dei soggetti meno istruiti, se non degli emarginati) che è la diretta conseguenza della pro-gressiva accettazione dello Hochdeutsch come uni-ca lingua legittima in una società con altro grado di mobilità verticale. A Wedding cioè, come negli altri quartieri al di qua del muro e nel resto della Germa-nia occidentale, il dialetto tende ad assumere il ca-rattere di un socioletto, ossia di una lingua esclusi-vamente parlata da un particolare gruppo sociale.

Nel quartiere orientale di Prenzlauer Berg, inve-ce, il dialetto viene coinvolto in un sistema sociale in cui la sfera ufficiale e quella privata restano net-tamente distinte. E poiché alla prima viene riserva-to un uso altrettanto ufficiale, burocratico della lin-gua, un uso inoltre fondato su formulazioni stereo-tipe e con inconfondibili tratti sàssoni (è nota l’av-versione dei Berlinesi e dei Prussiani in genere per i Sàssoni e per il loro modo di parlare tedesco) l’u-so del dialetto, per reazione, viene a simboleggia-re la solidarietà di gruppo contro le strutture ano-nime del potere, la cultura quotidiana in opposizio-ne a quella dominante burocratica, la lealtà dei la-voratori fra loro più che verso i funzionari politici; in una parola, la protesta contro il potere costitui-to. Si dirà così, con Schlobinski, che “i parlanti del-le due Berlino continuano a condividere lo stesso dialetto, ma le stesse parole hanno diverso valore sociale e la loro combinazione negli atti linguistici possono avere effetti illocutivi diversi”.

Come però si è accennato, il bilinguismo gene-ralizzato che caratterizza la situazione attuale in cui viviamo assume forme, caratteri e identità diversis-simi tra un caso e l’altro in quanto dipendono dal-le infinite circostanze in cui si realizza la comuni-cazione umana. Per limitarci a fatti concreti, quel-lo che qui sopra è stato denominato “bilinguismo generalizzato” può venire distinto in “multilingui-smo” e in “mistilinguismo”.

Gli esempi di “multilinguismo”, ben noti e stu-diati in tutto l’arco alpino, si riferiscono all’uso e, molto spesso, al reciproco influsso tra due o più dia-letti in contatto tra loro. Vedi i casi delle Valli Valde-

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si in Piemonte, dove i parlanti sono in grado di usa-re quattro diverse varietà linguistiche: il Patois pro-venzale, il Piemontese, il Francese e l’Italiano. Op-pure il caso limite della minuscola isola Walser di Issime, in Val d’Aosta, i cui parlanti possono all’oc-correnza comunicare in cinque diverse varietà, cioè in Svizzero tedesco, in Patois francoprovenzale val-dostano, in Piemontese, in Francese e in Italiano.

Per quanto invece riguarda il “mistilinguismo”. mi è recentemente capitato di assistere al dialogo tra un venditore di articoli informatici e un cliente che chie-deva informazioni sulle caratteristiche e sul funziona-mento di un certo prodotto. Non solo ambedue gli in-terlocutori, si noti, conoscevano e parlavano lo stes-so dialetto ma si intendevano senza difficoltà quan-do venivano utilizzate (a parte la più o meno corret-ta pronuncia) parole o espressioni italiane o inglesi.

Mentre dunque nel caso del multilinguismo ci troviamo in presenza di un insieme di diversi, varia-mente differenziati tipi di tradizioni testuali, ciascu-no dei quali pone problemi di interpretazione e di valutazione, l’intesa tra i due interlocutori mistilin-gui era assicurata dalla comune tradizione testua-le di riferimento.

La stessa cosa avviene di regola nell’uso frequen-tissimo della cosiddetta “alternanza di codice” (co-de-switching in inglese) quando una conversazione inizia in dialetto per poi proseguire in lingua e vice-versa. Si dica altrettanto dell’“enunciazione misti-

lingue” (code-mixing in inglese) vale a dire la fram-mistione nella stessa frase di elementi mistilingui non intenzionali.

Diremo dunque che nelle analisi dialettali non basta registrare e interpretare la parola così come si presenta nel suo immediato aspetto formale. Quello che interessa fondamentalmente il ricercatore è l’ac-certamento del valore che la parola può avere avuto per il parlante in una specifica situazione in quan-to propria di una determinata tradizione testuale.

Giunti a questo punto, posso immaginare che i presenti desiderino almeno sapere qualcosa di più a proposito del rinnovamento qui abbozzato della nostra disciplina, e in particolare delle ragioni che finiranno per sostituire l’analisi linguistica tradizio-nale. Mi limiterò, in questa sede, a far presente che la Linguistica testuale è stata concepita come mez-zo per superare le aporie di un positivismo esaspe-rato che aveva dimenticato che sono i parlanti, e non le interpretazioni teoriche formulate a tavoli-no, che creano e ricreano costantemente le lingue.

Ovviamente, i profondi mutamenti prodotti dal-la nuova linguistica non sono privi di conseguenze, per i parlanti odierni che, come abbiamo visto, so-no attualmente immersi in forme diverse di bilin-guismo generalizzato.• Anzitutto, è indubbio che la stessa, tradizionale

visione del mondo del parlante odierno muta co-stantemente e con ritmi crescenti con conseguen-ze sulle strutture argomentative e sulla tradizio-ne testuale. Inoltre, il parlante con cui abbiamo a che fare oggi è nettamente diverso da quello di un tempo perché altrettanto diverse sono le modali-tà e soprattutto le condizioni d’uso delle varietà del repertorio di cui egli si serve quotidianamente.

• Il parlante è costretto a prendere conoscenza del-la testualità propria del suo repertorio. Nel caso poi di interazione con un parlante monolingue, sarà il bilingue a dover usare la tradizione testua-le altrui con relativa coesione del testo.

• Il parlante odierno si trova sempre in nuove clas-si di situazioni, ma sarà anche il primo ad avver-tire eventuali presenze di risorgenze dialettali.

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Incontri Tra/montaniSelva di Progno 24-25-26 settembre 2010

GIANcARLO MAcuLOTTICoordinatore degli Incontri tra/Montani

Il dialetto è affare che interessa solo un parti-to che va di moda nel nord Italia? Neanche per sogno. Dialetto e lingue minoritarie sono ca-

valli di battaglia da molto tempo per tutti coloro che vogliono scavare meglio nell’antropologia dei popoli alpini (e non solo) e scoprire ciò che a vol-te i segni materiali rimasti sul territorio non dico-no o dicono molto male. Le capacità conservati-ve delle lingue (comprendendo in esse i Toponimi) sono sorprendenti.

È appunto per questo che quest’anno si è de-ciso, assieme agli amici della Lessinia, di affronta-re la tematica delle lingue e dei dialetti nelle valli interessate agli Incontri Tra/Montani. Da tempo si ragionava sulla possibilità e sull’opportunità di af-frontare un argomento così vasto ed intrigante. Noi sappiamo, per dirla con Tullio De Mauro, che “una caratteristica storica e culturale italiana è la pre-senza dei dialetti. Quel che scorse e disse già Dan-te nel suo De vulgari eloquentia è stato confermato dagli studi linguistici moderni: non c’è paese di lin-gua romanza (derivata cioè dal latino) in cui accan-to al dialetto eletto a lingua nazionale coesistano e persistano altrettanti idiomi dialettali diversi. E, possiamo aggiungere, non c’è paese del Nord del mondo in cui, a parità di area e popolazione, vi sia qualcosa di analogo.

Nella comune consapevolezza questa presen-za si è fatta sensibile soprattutto attraverso le di-scussioni e valutazioni pro o contro i dialetti. La vivacità e, spesso, l’asprezza delle contrapposi-zioni tra chi ha visto e vede i dialetti come “ma-lerba” da sradicare e buttar via e chi li vagheggia come una vergine fonte di creatività, sigillo di au-tenticità, non si comprendono senza riandare al-le ragioni dell’esistenza e persistenza dei dialet-ti e alla loro consistenza intrinseca, propriamen-te linguistica.

Cominciamo da quest’ultimo punto. I dialetti non sono varianti dell’italiano, della nostra lingua. Se si vuole ricorrere all’immagine dell’albero gene-alogico, i dialetti italiani e l’italiano sono altrettan-ti rami, altrettante filiazioni del comune tronco la-tino… Chi parla un dialetto, esattamente come chi parla castigliano o francese, non sta “storpiando” l’italiano, ma sta parlando un diverso idioma neola-tino che non solo è genericamente diverso dall’ita-liano, ma spesso lo è in modo profondo, radicale” (Tullio De Mauro in “L’identità degli italiani”, Edito-ri Laterza, 1993, p. 59).

E noi sappiamo che questa ricchezza e varietà sono soprattutto delle valli e della montagna che conservano più a lungo ciò che la città appiatti-sce ed omologa per sua natura e per sua necessità.

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È per questo che il confronto fra gruppi cultura-li che vivono nelle valli, anche su una tematica spe-cialistica come quella delle lingue e della lingua, ha una sua ragion d’essere, poiché non vi è associa-zione culturale che non se ne sia occupata ed inte-ressata nella consapevolezza che dialetti e toponi-mi aiutano a volte più dei reperti archeologici ma-teriali, a ricostruire un percorso storico, un’identi-tà, una fisionomia.

La scelta di un tema di questo genere da trattarsi nel bel mezzo dei luoghi e della tradizione dei Cim-bri è un’ulteriore stimolo ad approfondire e a con-frontarci. A Vito Massalongo e a tutti i suoi colla-boratori va un sentito grazie per avere accettato la proposta di ospitare gli Incontri Tra/Montani 2010. A tutte le valli che hanno fornito relatori, esperti, ricercatori dilettanti ma appassionati va il plauso dell’organizzazione degli Itm.

Anche quest’anno la realizzazione del nostro sogno di creare reti e comparazione fra le realtà vive della montagna scevre da campanilismi e da strumentalizzazioni di piccolo cabotaggio si è re-alizzato.

La partecipazione sia dei gruppi culturali prove-nienti dalle valli, sia del pubblico locale è stata mas-siccia e continuativa. Hanno seguito le relazioni più di cento persone e hanno partecipato alle attività

collaterali tra le 40 e le 50 persone.Le comunicazioni che erano in programma so-

no state tutte presentate rimanendo in genere en-tro i tempi previsti e apportando numerose nuo-ve conoscenze e possibilità di confronto tra le val-li partecipanti.

Sia le relazioni degli esperti, sia quelle dei ri-cercatori non specializzati hanno portato alla co-noscenza di un vasto pubblico aspetti della tradi-zione linguistica dell’arco alpino poco conosciuti e poco valorizzati.

Le mie personali considerazioni finali sono di tre ordini:• lo studio ed il recupero delle lingue minoritarie

e dei dialetti non sono una perdita di tempo e nemmeno un’operazione nostalgica e conserva-trice, ma possono essere la base per un miglio-re apprendimento delle lingue veicolari (italiano, inglese, tedesco);

• lo studio delle lingue non deve diventare mez-zo di esclusione ma può essere un potente mezzo di abbattimento delle barriere e dei pregiudizi;

• il legame con la nostra tradizione aiuta nella co-struzione di una precisa identità ma non può es-sere in alcun modo uno stimolo alla chiusura e all’erezione di barriere. Imparare le lingue dei no-stri immigrati oltre che un grande arricchimento culturale diventa il metodo migliore per costru-ire ponti che servono a loro certamente, ma di-ventano indispensabili anche a noi.

La domenica, durante l’incontro presso il Mu-seo di Bolca, abbiamo affrontato i problemi orga-nizzativi del prossimo appuntamento a Varallo in Val Valsesia che sarà dedicato alla cultura gastrono-mica nelle valli alpine.

Il rendez-vous quindi è fissato e la partecipa-zione dei gruppi culturali che hanno fondato e che danno continuità a questi incontri un po’ atipici ri-spetto ai convegni accademici ed istituzionali è as-sicurata anche per il 2011.

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Presentato il numero di Judicaria su Sartori

Presentato con buon afflusso di lettori e colla-boratori il numero di Judicaria -74- dedicato al compianto pittore giudicariese Carlo Sarto-

ri. La presentazione del numero dedicato alle Giudi-carie Esteriori e Busa di Tione è avvenuta nella sala polifunzionale di Ponte Arche, a cura della sezione SAT di Ponte Arche.

La copertina del numero, dedicata al pittore naif scomparso lo scorso 5 maggio, in effetti rappresen-tava anche la particolare attenzione dedicata dal di-rettore responsabile a una delle figure più note e ammirate delle Giudicarie. Di Sartori ci sono rima-ste le tele, appese in gran numero nel suo studio e nella sua casa di Godenzo: e appunto sulla fruibilità del pittore sono andate le maggiori attenzioni del relatore, lo stesso direttore della rivista, e di con-seguenza dell’attento pubblico.

Appurato che la famiglia concederebbe a un’isti-tuzione la custodia nonché la promozione del pit-tore in futuro, rimane il grosso problema della frui-zione di un così vasto patrimonio di pittura e dise-gno, in gran parte ancora presente nella sua caset-ta di Godenzo, ma difficilmente visitabile dal gros-so pubblico.

C’è da tener presente, come ha rilevato il diretto-re, la vicinanza della casa con la scuola-oratorio del paese, dove tra l’altro Carlo Sartori, prima di inizia-re la carriera girovagando tra gli alberghi della zo-na, compì una serie di dipinti murali che sono visi-bili ancor oggi, accanto ad alcune opere di “rinfre-scatura” come artista-artigiano del pennello. Insom-ma, in questo edificio, da tempo dimesso dall’ente pubblico, Comune e Provincia, ci sarebbe la concre-ta possibilità di esporre le opere di Sartori semplice-

mente attraversan-do la strada e valo-rizzando il ricco pa-trimonio.

L’incontro ha of-ferto quindi l’occa-sione per sentire direttamente i va-ri autori della rivi-sta e dei vari pez-zi: anzitutto Mario Antolini, autore di “Ponte Arche…fi-nalmente sede co-munale unita”, ma anche oggetto di un articolato saggio su di lui, “Antolini IL giudica-riese” di Graziano Riccadonna e Danilo Mussi. Poi Gabriella Maines con il suo saggio su “Strutture so-ciali nelle Giudicarie: comunità e pievi nel Medioe-vo”, Enrico Cavada con “(in)certe realtà archeologi-che nelle Alpi e sulle Alpi trentine”, Paola Bronzini con il “Percorso di visita a Castel Restor”, Giovanni Sicheri con “El forno del Fèr” in quel di Stenico, Lu-igi Bosetti con la sua mostra a Judicaria lo scorso in-verno. Infine Rudi Filippi e Piero Onorati hanno re-lazionato sul loro saggio inerente i gloriosi 50 anni della sezione SAT di Ponte Arche, ripescando ricor-di, intessendo motivazioni alle ascensioni, chiaren-do le proprie origini associative.

Un incontro in conclusione all’insegna del coin-volgimento della zona nonché della promozione del-la rivista Judicaria, diffusa tra gli studiosi ma non an-cora sufficientemente tra la popolazione.

JUDICARIA N. 74Agosto 2010Quadrimestrale di informazione del Centro Studi JudicariaViale Dante, 46 · 38079 Tione di Trentowww.judicaria.it · e-mail:[email protected]

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AGOSTO 2010MERCOLEDÌ 18 Sede Predisposizione mostre autunnaliVENERDÌ 20 Tiarno di Sotto Presentazione Ricordi di Luigi FerrariSABATO 21 Limarò Prima Giornata del Paesaggio con Ecomuseo della Judicaria Sede Inaugurazione mostra MenapaceGIOVEDÌ 26 Molina di Ledro Presentazione libro sugli 80 anni di Palafitte

SETTEMBRE 2010GIOVEDÌ 2 Sede Predisposizione ITM 2010 Montagne Incontro con prof. Grassi alle MontagneLUNEDÌ 6 Trento RivistaMERCOLEDÌ 8 Sede SABATO 11 San Lorenzo Banale Seconda giornata del paesaggio con EcomuseoMARTEDÌ 14 Sede Preparazione Mostre SABATO 18 Sede Mostra “Monte Analogo” 3MARTEDÌ 21 Sede Ufficio Libro fondiario e Cassa Rurale Adamello-BrentaSABATO 25 ITM Selva Progno Il valore culturale delle lingue e dei dialetti delle valli alpineDOMENICA 26 ITM Giazza, Bolca Incontro di programmazione e visita Museo dei fossiliMARTEDÌ 28 Sede Preparazione mostra sulla scuolaMERCOLEDÌ 29 Arco Incontro ass. Massimiliano FlorianiGIOVEDÌ 30 Riva del Garda Incontro programmazione ass. Flavia Brunelli

OTTOBRE 2010SABATO 2 Sede Organizzazione eventiLUNEDÌ 4 Sede Preparazione convegno sulla scuolaVENERDÌ 8 Riva del Garda Intitolazione biblioteca ai Martiri 28 Giugno Tione Convegno sulla scuola, inaugurazione mostra Bene bravo7+LUNEDÌ 11 Sede Consiglio direttivoMERCOLEDÌ 13 Trento Incontro Assessorato alla Cultura per progettiMERCOLEDÌ 20 Trento Incontro con dott.Basani per progetto Museo del MolètaGIOVEDÌ 21 Sede Incontro per progettiVENERDÌ 22 Riva del Garda Spettacolo “La moglie del duce”SABATO 23 Sede Inaugurazione Mostra “Paesaggi di guerra”LUNEDÌ 25 Sede Comitato redazione/ Consiglio direttivoGIOVEDÌ 28 Trento Incontro Patrizia Cordin (Università di Trento)SABATO 30 S.Croce di Bleggio Presentazione DVD “Dalla passione al compianto”

NOVEMBRE 2010MERCOLEDÌ 3 Trento Incontro Elio Fox (Il Cenacolo)VENERDÌ 5 S.Lorenzo in Banale Inaugurazione “Il Monte Analogo” 4SABATO 6 Sede Pomeriggio culturale “Dizionari dialettali oggi, perché?”DOMENICA 7 Arco Inaugurazione anteprima “Pagine del Garda”MERCOLEDÌ 10 Sede Incontro prof. Corrado GrassiGIOVEDÌ 11 Trento Tipografia per rivistaVENERDÌ 12 Ponte Arche Presentazione Judicaria n. 74LUNEDÌ 15 Sede Riesame bilancio preventivo 2011MERCOLEDÌ 17 Trento Incontro per Museo del molètaMARTEDÌ 23 Sede Consiglio direttivoVENERDÌ 26 Nago Commemorazione Luciano Baroni

Dall’Agenda della Presidenza

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I L C E N T R O I N F O R M A

Nuovi soci

A cuRA DEL cSJ

RENATO PAOLINato nel 1964, si è laureato in Filosofia presso

l’Università di Padova nel 1989. Docente di ruolo dal 1992 con la titolarità della cattedra di Storia e filoso-fia nei Licei presso il Liceo scientifico di Tione (poi Istituto di istruzione “L. Guetti”) a partire dal 1995.

Impegnato in attività di laboratorio di storia a par-tire dal 1999, ha pubblicato con Sandro Bertoni il ca-talogo della mostra “Fascismo e Giudicarie” edito nel 2004 dal Museo Storico di Trento. Negli anni 2003-2006 ha partecipato al gruppo di ricerca promosso dall’IPRASE, dal Museo storico di Trento e dall’Uni-versità degli Studi di Trento impegnato nel Progetto denominato “Costruire storia”, una ricerca dedica-ta all’insegnamento/apprendimento della storia nel-le scuole superiori del Trentino. Nell’ambito del Pro-getto Costruire storia ha curato la ricerca e la conse-guente pubblicazione del lavoro dedicato al Miracolo economico nelle Giudicarie (Collana “Quaderni di Co-struire storia” edito dal Museo storico di Trento in col-laborazione con l’IPRASE). Nell’anno scolastico 2009-10 ha diretto la ricerca storica in collaborazione con il Centro Studi Judicaria che si è concretizzata nella mostra dedicata ai “Giudicariesi in Russia 1914-1920”.

CORRADO GRASSINato a Torino il 20 giugno 1925. Laurea in Let-

tere e Filosofia dell’Università di Torino con una te-si sul latino volgare discussa con il Professor Ben-venuto Terracini.

Dopo il servizio militare, quattro semestri (dei quali tre come borsista del “Deutscher Akademi-scher Austauschdienst” dell’allora Repubblica Fe-derale di Germania) nell’Istituto di Indogermanisti-ca dell’Università di Tübingen (Prof. Hans Krahe).

Tra il 1954 e il 1957, raccoglitore dell’ Atlante Linguistico italiano. Oltre sessanta inchieste dialet-

tali, quasi esclusivamente nell’Italia meridionale (Ca-labria, Basilicata, Salento, Puglia).

Nel 1959, Libero Docente in Dialettologia italia-na. Nel 1964, conferma della Libera docenza.

Professore incaricato di Storia della Lingua ita-liana nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Univer-sità di Torino dal novembre 1964 e Professore inca-ricato di Dialettologia italiana dal novembre 1967, sempre nella stessa Facoltà. Professore ordinario di Dialettologia italiana dal novembre 1970.

Dal 1974 membro, come rappresentante dell’Italia, del Comitato Internazionale di redazione dell’“Atias Lin-guarum Europae”. Dal 1975 membro del “Comité scien-tifique intemational de l’Atlas des patois valdòtains”. Dal 1978 al 1981 membro del “Comité de Direction de l’Atlas Linguistique de la France par Régions”.

Dal 1980 Presidente del “Comitato Internazio-nale per l’Atlante linguistico ed etnografico delle parlate provenzali e francoprovenzali del Piemon-te occidentale”.

Nei semestri estivi 1979 e 1981 Gastprofessor nel Romanisches Institut dell’Università di Franco-forte sul Meno (Germania).

Dal 1. novembre 1982, Professore Ordinario di Scienze Romanze della Wirtschaftsuniversität di Vienna.

Dal 1. Novembre 1993, Professore Emerito del-la stessa Università.

Insignito della Croce al merito austriaca di pri-ma classe per le Scienze e le Arti.

Nel 1997 e 1998, Visiting Professor di sociolin-guistica e geolinguistica nell’Università di Trento.

Professore Onorario dell’Università di Klagenfurt.Partecipazione diretta ai frequenti dibattiti sulla

sorte die dialetti negli ultimi decenni. Chi avesse in-teresse al quadro d’insieme potrà giovarsi dei Fonda-menti di dialettologia italiana di C.Grassi. A.A.Sobrero, T.Telmon, Laterza.

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ELIO FOXNato a Salorno nel 1929, vive a Trento dal 1939.

Giornalista professionista, scrittore e saggista. Dal 1970 al 1989 è stato presidente del Club Armonia. È stato Capo dell’Ufficio Stampa della Giunta pro-vinciale dal 1975 al 1990. È vice presidente della Pro Cultura di Trento.

Nel 1989 ha fondato il «Cenacolo trentino di cul-tura dialettale», un gruppo di poeti espressione di varie zone del Trentino; con questo gruppo ha por-tato la poesia dialettale trentina in tutte le valli ed anche in altre regioni. Direttore della rivista trime-strale «Ciàcere en trentin», è socio dell’Accademia Roveretana degli Agiati e dell’Accademia Catulliana di Verona. È delegato regionale dell’ANPOSDI / As-sociazione nazionale scrittori e poeti dialettali. So-cio onorario della SOSAT. Nel 2004 la Città di Bassa-no del Grappa gli ha conferito l’«Alfiere d’Oro» per la cultura dialettale; per lo stesso motivo nel 2005 è stato nominato Ambasciatore Culturale dell’Arge Alp. Al suo attivo oltre alle commedie dialettali ha una quarantina di opere di studio e di analisi su sto-ria, tradizioni ed associazionismo popolare, tra cui:

Trento 1850-1950 (Un secolo di storia di Trento at-traverso la cronaca e le immagini); Storia delle osterie trentine; Storia e antologia della poesia dialettale tren-tina: (quattro volumi); L’esame di dialetto (Prontuario ad uso delle scuole che volessero introdurre l’inse-gnamento dei dialetti trentini); Teatro dialettale tren-tino (2 volumi); Gabriella Scalfi (Una vita per il tea-tro); Itinerari della memoria (Il Trentino come lo han-no visto i poeti dialettali, i viaggiatori e gli scrittori).

MONS. IGINIO ROGGERStorico e studioso della storia della Chiesa tren-

tina, è autore di numerose opere, tra l’altro di una monumentale “Storia della chiesa di Trento da Vi-gilio al XIX secolo”.

Nato il 20 agosto 1919 a Pergine e cresciuto a Levico, studia a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana, laureandosi in filosofia e teologia. Nel 1945 consegue il dottorato in Storia della Chiesa, iniziando quindi ad insegnare la materia al Semina-rio teologico di Trento, accanto a Litugia. Nel 1960 consegue la libera docenza.

Negli anni Cinquanta diviene direttore del Mu-seo Diocesano Tridentino, nel 1965 è il “principale ispiratore” dell’abolizione del culto del Simonino. Nel 1975 fonda l’Istituto di Scienze Religiose presso l’Istituto Trentino di Cultura. Partecipa per il Trenti-no alla tavola rotonda per l’istituzione dell’Euregio Tirolo-Alto Adige-Trentino.

Nel 1998 Trento gli conferisce l’Aquila di S,Venceslao, nel 1999 per il suo 80° l’ITC pubblica una miscellanea in suo onore. Il 12 aprile 2006 l’U-niversità di Trento gli conferisce la lautra “honoris causa”, mentre Pergine gli conferisce la cittadinan-za onoraria nel 2010.

Nel 2007 partecipa al convegno di Cimego-Con-dino “Fra Alberto da Cimego e Margherita ‘la bella’ sull’eresia dolciniana in Trentino.

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R I C E R C A

Ho combattuto la buona battaglia,ho terminato la mia corsa,sono rimasto fedeleSaulo di Tarso, Lettera seconda a Timoteo

La “Costituzione fatale” - Il crinale fra Sette e Ot-tocento fu tempo di riforme illuministe anche per il Tirolo storico. Ci provarono dapprima

un paio d’imperatori asburgici come Maria Teresa e suo figlio Giuseppe II (1748-1790), mentre poi ci si misero d’impegno Napoleone con le sue invasioni (dal 1796 al 1805), il governo dei Bavaresi (dal 1806 al 1810) ed infine quello degli Italici (1810-1814). Al tempo della seconda invasione napoleonica (genna-io-aprile 1797), il generale transalpino Joubert fece sapere alla nostra gente che tutti gli abitanti [tren-tino-tirolesi] che si uniscono alle truppe austriache sa-ranno trattati come assassini, ed in più lui, il genera-le, ne avrebbe dato i più severi esempi nei loro pode-ri. Rispose il maggiore Fedrigoni, che comandava un reparto di compagnie di Bersaglieri, i quali a quel tempo erano privi di divisa e di qualsiasi segno di-stintivo: “Il servizio dei Bersaglieri per la loro patria è il medesimo delle altre truppe ... Noi impegniamo la no-stra vita per la Patria e per l’Imperatore con uguale co-raggio come i Francesi per la loro libertà ed uguaglian-za”. E per segnalare tutto questo si provvide a for-nire il cappello degli Schützen d’una coccarda iden-tificativa d’ordinanza.

SILvANO MAccABELLI

La “buona battaglia” (1796-1809)Tiroler e Welschtiroler contro i “Lumi”(con riflessi sulla Valle dei Laghi)

“Questa è una costituzione fatale!” dicono che abbia esclamato il generale francese Ney, nel 1805, quando il sindaco di Seefeld gli fece vedere il Libello dell’Un-dici, spiegando che la nostra costituzione obbliga ogni cittadino a prendere le armi quando il Paese viene assali-to da un nemico. Ma non era voglia di menar le mani. Forse a nessun’altra imposizione si opponevano i Ti-rolesi tedeschi ed italiani come alla coscrizione obbli-gatoria, che pure era uno dei portati di maggior mo-mento delle nuove idee illuministe (tanto napoleoni-che o bavaresi quanto anche austriache). La loro chia-mata alle armi era limitata nel tempo (pochi mesi e poi c’era l’avvicendamento), nello spazio (solo sulla loro terra) e nella consistenza (fino ad un certo nu-mero di coscritti); e era definita quanto agli obiettivi bellici (solo la difesa della Heimat) e quanto alle mo-dalità di addestramento (i bersagli) e di condotta di guerra (regolamentata ma non regolare). L’altra era ro-ba da mercenari e da attaccabrighe. Quando fu intro-dotta d’imperio, durante il governo bavarese prima (1806-10) e italico poi (1810-14), per evitare frodi e renitenze, fu imposta la doppia registrazione anagra-fica civile e religiosa, con rigorosa precedenza crono-logica della prima: ne abbiamo esempi documentari di applicazione anche in Valle dei Laghi.

I nemici del Paese erano i nemici della Patria [ti-rolese], che andava ormai (a cavallo fra Sette e Otto-cento) da Kufstein ad Ala; dell’Imperatore, che a quel tempo rispondeva al nome Francesco II; e della Re-ligione, che coincideva in modo perfetto con quella

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tradizionalmente prescritta dal clero trentino-tiro-lese. Così il generale maggiore barone di Loudon, che coordinava tutte le formazioni di Bersaglieri della destra Adige, si rivolse nell’aprile del 1797 ai Trentini: “Non tardate a seguire li miei consigli e sug-gerimenti, e dimostrate a tutto il mondo che le armi di qualunque sorta, che saprete adoperare, sono terribili al pari dei fulmini del Cielo per punire i calpestatori della Religione ...[Francesi]”.

Naturalmente per i nostri Tirolesi le parole liber-tà ed uguaglianza dei Francesi non erano che vuoti flatus vocis. Loro infatti erano già liberi (cioè non più servi della gleba) da un pezzo, e lo dimostrava il fatto che, ufficialmente a partire dal 1511, erano in dirit-to e in grado di armarsi per difendere da soli il pro-prio territorio. Ed erano anche da secoli già uguali, perché tutti e quattro i Ceti (Stände) tirolesi (prela-ti. nobili, cittadini e contadini) erano rappresentati

alla Dieta di Innsbruck. Veramente, come pure i lo-ro colleghi francesi del quarto stato, i nostri cittadi-ni e i contadini avevano ragione, nella Dieta, quan-do gliela davano i prelati ed i nobili, visto che i quat-tro ceti dovevano esprimere un unico voto unanime, eventualmente da contrapporre a quelli del principe di Trento e del principe di Bressanone, in modo che molte partite finivano sul punteggio di due a uno per i vescovi. Ma loro erano contenti lo stesso, per-ché per essi le parole veramente piene erano quel-le di Patria, Imperatore e Religione. Privi di rappre-sentanza alla suddetta Dieta, anche comunque sot-toposti al patto di autodifesa territoriale del 1511, erano invece i nostri contadini della Pretura esterna (attuale Valle dei Laghi), i quali, come immediata-mente dipendenti dal principe di Trento, non com-paiono nella Tiroler Landesordnung del 1532.

La Patria - La Patria tirolese (nei suoi confini, ap-punto, che andavano da Kufstein ad Ala) s’era in ve-rità, in senso ufficiale, appena compiuta, allorché Napoleone, dopo il suo (primo) ingresso in Trento del settembre 1796, aveva intimato al rappresentan-te del vescovo principe, decano Manci, di non farsi più vedere, pena la fucilazione. E s’era consolida-ta poco dopo, nel marzo del 1801, quando il gene-rale Macdonald, in seguito a ripensamento del Bo-naparte, voleva consegnare il Principato al vesco-vo tramite il Capitolo della cattedrale, ma quest’ul-timo, sulle prime, si rifiutò, perché non poteva far-lo senza l’autorizzazione del nostro avvocato conte del Tirolo, che aveva il ‘ius armorum et presidii’ e che giustamente aveva preso lo stato in amministrazione.

Quel miscredente di Macdonald diceva, invece, di essere al corrente che l’imperatore Corrado aveva dona-to [il territorio tirolese] ai vescovi, i quali sono principi immediati dell’impero e, come se non bastasse, aggiun-geva pure che la forza dei conti del Tirolo aveva spoglia-to i vescovi principi di gran parte delle loro rendite e dirit-ti, e che i patti e le convenzioni col medesimo erano stati estorti e le cose concesse estorte. A starlo bene a sentire, sembrava quasi che l’avvocato del vescovo fosse lui. A rifinire per bene la faccenda, infine, ci pensò Napole-one in persona, il quale, nell’aprile del 1803, si pre-

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R I C E R C A

se la briga di dettare il Recessus Imperii con il quale i principati ecclesiastici di Trento e Bressanone veniva-no secolarizzati e consegnati a Francesco II d’Austria, che li accolse ben volentieri nella sua fedelissima Con-tea principesca del Tirolo. Fu così che anche il territo-rio dell’attuale Valle dei Laghi rimase articolato (con qualche variazione rispetto al tramontato Principa-to) nei suoi tradizionali Gemeinden (comuni): Cadine, Sopramonte, Baselga, Vigolo Vezzano (l’antica comu-nitas Supramontis); Terlago; Covelo, Ciago, Fraveggio con s.Massenza e Toblino, Lon (il vecchio Pedegaza); Margone; Ranzo; Vezzano, Padergnone (prima uniti in sodalizio); Calavino, Lasino (che s’erano sciolti da poco, nel 1767, dal loro patto d’unione comprenden-te anche Madruzzo) e Cavedine (l’antico comune di pie-ve con Brusino, Stravino e Vigo). Più tardi, sotto il go-verno italico (1810-14) il territorio della Valle dei La-ghi venne diviso, come vedremo, in tre soli municipi.

Ma, se il compimento de iure della Patria [tirole-se] era, tutto sommato, cosa recente, ben più antico ne era stato invece il processo di gestazione de fac-to, che aveva portato alla resa per lento sfinimento i principati vescovili di Trento, Bressanone e Coira. C’era stata la concessione dell’avvocazia; c’erano sta-te le tremende incursioni dei Mainardi e del Tasca-vuota; c’erano state la sottoscrizione e le modifiche delle Compattate; c’era stata l’istituzione della impor-tantissima (e già ricordata) federazione fiscal-difensiva del 1511, la quale, pur avendo avuto immediata ese-cuzione, impiegò sino al 1548 per essere definitiva-mente approvata; c’era stato il Temporalienstreit; c’e-rano state le riforme imposte da Maria Teresa e da Giuseppe II; e c’erano state, infine, le (per giunta ri-fiutate) donazioni del Sizzo e del Thun. Alla fine, dopo tutte queste vicissitudini, la Patria [tirolese] non poté fare a meno di essere composta da Tiroler e Welschti-roler, da Tirolesi tedeschi e da Tirolesi italiani.

Tuttavia, se, per un momento, lasciamo perde-re prìncipi, conti, arciduchi ed altri personaggi del-la stessa risma con i loro atti formali, per occupar-ci invece della gente comune, bisogna pur dire che tutti i Tirolesi erano accomunati da parecchio tem-po da un’analoga frequentazione dei bersagli, do-

ve imparavano, in certi periodi dell’anno, ad usare le armi per difendersi da eventuali invasori. Era in questa reciproca difesa del territorio (Landesverteidi-gung) l’idea di Patria comune. Naturalmente i Tirole-si tedeschi, difendendo il Tirolo italiano, difende-vano anche (e qualche malalingua dice soprattutto) se stessi. Per limitarci alle vicende della Valle dei La-ghi, che fu sempre l’unica via per Trento alternativa alla Val d’Adige per operazioni belliche provenien-ti da sud, alcune volte i Tiroler si adattarono a fare operazioni di polizia, come nel 1525, quando con-trastarono gli Anauni, che, insieme con i nostri ru-stici della Valle dei Laghi, arrivarono perfino ad asse-diare il principe vescovo Bernardo Cles (Egg).

Altre volte operarono in una Valle dei Laghi po-liticamente divisa, come durante l’invasione del Vendôme del 1703, nel corso della quale non tutte le comunità sortirono i medesimi effetti bellici e le stesse ritorsioni. Tal altra volta (1848, 1866, 1914-18) operarono, se non proprio in contrasto, alme-no nell’indifferenza della nostra gente, come quan-do si opposero ad invasori che parlavano l’italiano e erano dei volontari tali e quali i Bersaglieri. In al-tri frangenti, infine, come durante le invasioni napo-leoniche e l’insurrezione del 1809, accanto ad epi-sodi di grande valore e di altrettanto grande utili-tà per la difesa del territorio, i Tiroler diedero adito a discordie (ad es. fra i comandanti Törggler, Mo-randell e Dal Ponte) e a prepotenze (più d’una vol-ta tanto l’Hofer quanto il Dal Ponte dovettero in-tervenire per far cessare grassazioni di qualche co-mandante nordtirolese sulla popolazione trentina).

A dimostrazione di come anche il sentimento della Patria abbia una storia, e cambi col mutare delle epo-che, vale forse la pena di citare un passo del Messag-gero di sabato 16 aprile 1910 scritto in occasione del sessantunesimo anno dalla fucilazione dei 21 volontari italiani nel castello di Trento, catturati nel 1848 in Valle dei Laghi. Così il quasi anonimo articolista, che si fir-ma a.b., si esprime circa i volontari tirolesi che si oppo-nevano ai Corpi Franchi: “I tirolesi ... ricordando gli allo-ri mietuti colla loro insurrezione contro i francesi, accor-revano numerosi ad ingrossare le file dei ‘gabanotti’, co-

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me allora erano chiamati, armati di stutzen e pagati con una vistosa rimunerazione da parte della provincia [Con-tea Principesca del Tirolo]. Subordinati alla truppa re-golare [aprile 1848], vennero un buon numero mandati anche nelle valli trentine a difendere i luoghi più minac-ciati [dai Corpi Franchi]. La storia ricorda come questi di-fensori della patria trattavano il nostro paese da suolo di conquista e come l’odio di razza colse la favorevole occa-sione per esplicarsi: costoro derubavano le famiglie degli anomali domestici, saccheggiavano, e, fra le altre loro san-guinose imprese, trucidarono a Vilpian, presso Terlan, una intera famiglia di coloni trentini, rei ai loro occhi di parla-re una lingua diversa dalla loro”.

Tiroler e Welschtiroler, Bürger e Bauern - Ovvia-mente nessuna Patria è del tutto omogenea al suo interno, ed il Tirolo non faceva certo eccezione. I Tirolesi tedeschi (Tiroler), infatti, non solo non capi-vano una parola di quello che dicevano i Tirolesi ita-liani (Welschtiroler: la qualificazione welsch o wälsch vale appunto italiano, di razza latina), a meno che, come Andreas Hofer, non avessero soggiornato per qualche tempo dalle nostre parti, ma avevano anche un assetto territoriale molto diverso, sotto il profilo economico-sociale, dai loro compatrioti meridionali.

I contadini del Tirolo tedesco, infatti, erano sta-ti resi liberi nella persona già nel XIII secolo, allor-ché il grande Mainardo II aveva convertito in libero allodio molti suoi beni feudali, per potere così im-piegare come soldati i proprietari contro i vescovi di cui era advocatus. Un soldato, infatti, combatte con valore, se deve difendere i propri beni, e se questi ultimi sono talmente consistenti che valga la pena di rischiare la vita per essi. I Tiroler tenevano con sè il proprio moschetto o Stutzen (e prima l’archibugio o la balestra), e ne facevano il simbolo dell’uomo li-bero. Nei momenti di crisi ciascuno aveva il proprio nascondiglio per le armi e spesso era dotato pure di fucile a canna lunga, in grado di mirare con sicu-rezza anche a bersagli lontani e difficili.

I Welschtiroler, al contrario, erano stati liberati as-sai più tardi e più lentamente. Ad esempio, i signo-ri d’Arco, dopo un timido tentativo di Riprando nel secolo XIII, lo fecero solo nel secolo XV. Essi erano

proprietari di appezzamenti molto piccoli, che non invogliavano molto a mettere a repentaglio la vita per essi e, nella maggior parte dei casi erano pure fittavoli o mezzadri, che stentavano a pagare fiti, decime e collette al principe ed ai suoi feudatari. Fra di loro il libero porto d’arma era molto meno tolle-rato: al massimo potevano circolare armati di culte-la, e non certo di moschetto. Anche se erano libe-ri, non ne avevano piena consapevolezza, ed anco-ra meno ne menavano vanto. I fucili erano custo-diti nei casìni di bersaglio, e quindi anche facilmen-te requisibili, mentre la endemica povertà (maggio-re che nel Tirol) impediva l’acquisto di nuove armi.

Tanto nel Tirol, poi, come anche nel Welschti-rol, i cittadini (Bürger) erano molto diversi dai con-tadini (Bauern). I primi erano a contatto con una vi-ta culturale assai più vivace dei secondi, i quali, al contrario, riproducevano in maniera inerte ed acri-tica antichissime tradizioni. Nel clima cittadino di Innsbruck, per esempio, venne addirittura fondata, nel giugno del 1793, una società giacobina, com-posta anche di vari componenti di lingua italiana, la quale aveva (prima di essere sgominata dalla po-lizia soltanto un anno dopo) come scopo quello di sparger l’alta dottrina che si nutriva delle idee di li-bertà, fraternità e uguaglianza. Pare che nella biblio-teca di quest’associazione figurassero pure il russo-iano Contrat Social e una versione tedesca dei Dirit-ti dell’uomo di Payne. A Bolzano (Soprabolzano) c’era pure una camera massonica con tanto di decorazioni simboliche e di sala delle riunioni segrete.

A Rovereto esistevano ancora proseliti dell’esecra-to Tartarotti, che, prima di morire nel 1763, aveva osa-to mettere in dubbio nelle sue opere perfino la santi-tà del vescovo Adelpreto ed aveva fatto professione di libero pensiero. E molti roveretani erano in contatto con gli ambienti della Lombardia austriaca agli ordini di un governatore illuminato come il trentino (origina-rio di Mezzocorona) Carlo Firmian. Senza contare che nella città della Quercia furono arrestate nel 1794 ben cinque persone che avevano avuto l’ardire di saluta-re con gioia le idee illuministe dell’armata francese.

A Trento (i cui abitanti detenevano l’esclusiva del

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nome di Trentini, mentre i valligiani si dicevano di so-lito Tirolesi) aleggiava l’eco delle opere dell’illuminista Carlantonio Pilati (originario di Tassullo) che s’era spin-to fino a dire che la vera religione cristiana poteva an-che non coincidere con quella propugnata dal clero. Mentre un altro grande trentino (originario di Revò), Carlantonio Martini, nella sua qualità di consigliere di Stato austriaco e secondo presidente della somma Corte di Giustizia di Vienna, compilatore dell’illuminato e nuo-vissimo Codice civile austriaco, si prese cura affinché le sentenza contro i giacobini di Innsbruck fossero miti. Nel 1792 il pretore di Trento, Giandomenico Roma-gnosi, scrisse un paio di opuscoli per spiegare ai cit-tadini che cosa fossero la libertà e l’uguaglianza, ed il vescovo Thun si oppose alla richiesta tirolese di en-trare nel principato a cercarvi giacobini. Scrive il Pe-rini a proposito della rivolta tirolese contro il gover-no illuminato bavarese (1809): le valli del Trentino non furono estranee a questa mossa [la rivolta], non la città [Trento] troppo illuminata per insorgere contro un gover-no, straniero bensì, ma giusto e intelligente.

Ben differente era, naturalmente, la situazione nelle campagne, dove i contadini (Bauern) aveva-no potuto fruire solo in teoria dell’istituzione del-la Scuola popolare di Maria Teresa, e l’unica forma di cultura era a loro comunicata dalle pratiche religiose e dalle omelie dei parroci e dei curati, i quali taccia-vano d’anticristo chiunque si permettesse di deviare d’una virgola rispetto a quanto, più di duecento anni prima, s’era stabilito nel concilio di Trento, per poi incrostarsi in due secoli di controriforma e popola-rità barocca. A dare man forte all’assoluto tradizio-nalismo s’erano uniti pure molti emigrati transalpi-ni che si erano rifugiati da noi a causa della loro op-posizione in patria alle idee illuministico-rivoluzio-narie. Si trattava di preti, monache, frati cappucci-ni e francescani refrattari, sostenuti da fondi raccol-ti con la patente papale, che usavano l’arma più effi-cace della propaganda d’ogni tempo: l’arte di fare di tutt’erbe un fascio. E così la gente tirolese venne puntualmente edotta circa le ineffabili atrocità dei giacobini e circa l’ esecrabile empietà dei sanculotti.

Anche in centri minori, come a Schwaz, sulle rive

dell’Inn, vennero rinvenuti dagli inquirenti dei ma-nifesti inneggianti alle idee rivoluzionarie e perfino un berretto frigio, simbolo della violenza giacobina. Nel Welschtirol, a Villa Lagarina ebbe sede un circo-lo giacobino che intendeva unire il Trentino alla na-poleonica Repubblica italiana perché essa meglio si adattava per la lingua ed il carattere degli abitanti. In una soffitta di Calavino, invece, a detta di Gorfer, si può vedere tuttora un graffito murale del 1795 raf-figurante un soldato austriaco con codino, feluca e pi-pa. A proposito del codino, il Gorfer aggiunge che si tratta del simbolo di una società invecchiata, insinuan-do nel lettore l’idea che potrebbe anche trattarsi di una caricatura. Nel qual caso saremmo di fronte ad un segnale (da noi più unico che raro) di un certo dibattito fra idee vecchie e nuove, oltre che di un certo distacco critico dalle ideologie ancien régime. A meno che, naturalmente, si tratti non di caricatura, ma semplicemente di glorificazione dell’esistente.

Comunque siano andate le cose, sta di fatto che dal luglio al settembre del 1790 si tenne ad Innsbruck la Dieta dei Ceti tirolesi (Stände), che non si era più riunita dal 1643, per impedire il più pos-sibile di riforme illuminate, oltre che per fare il verso all’incontrario alla convocazione parigina degli Stati generali dell’anno precedente. Nel corso dell’assem-blea, auspice il nuovo imperatore Leopoldo II, ven-nero accantonate molte novità che davano fastidio ai Tirolesi, ma vennero pure assunte delle decisio-ni che non facevano molto onore alla futura Patria tirolese unita. I Welschtiroler, che allora (1790) uffi-cialmente erano ancora solo quelli dei Confini d’Ita-lia (Rovereto, Quattro Vicariati, Primiero), chiede-vano l’ equiparazione delle due lingue ai fini am-ministrativi, ma si sentirono rispondere che il Tiro-lo italiano (in quanto territorio di conquista) non po-teva mai aspirare ai diritti riconosciuti al Tirolo tedesco e vero e proprio. Per la Patria tirolese bastavano i Ti-roler: gli altri, se proprio ci tenevano, potevano an-che uscire dalla confederazione, formare una nazione a sè e considerarsi come la Lombardia, cioè l’ex Ducato di Milano toccato all’Austria, come conquista, nella pace di Utrecht del 1703 (citato da Zieger).

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Fortunati Tirolesiringraziate il Gran Signoree viva pur l’Imperatoreche dal Tiran ci liberòCanzonetta contro Bonaparte, 1809

La Religione e l’ «ascia onnipotente» - Nonostan-te che i Tiroler, durante gli scontri con gli invasori giacobini, esclamassero senza posa “in nome di Dio, in nome della Santissima Trinità” (Botta, 1824) e la loro battaglia ben meritasse il nome di guerra di religio-ne (Benvenuti, 2003), essi pochissimo s’intendevano di dogmi. Quando nel novembre del 1807, al tempo del governo di Baviera (1806-10), Carlo Maria Ru-pert, Governatore generale del Tirolo delegato e con-te d’Arco, si provò a far digerire alla nostra gente il concordato bavarese che prevedeva un severo con-trollo dello stato sul clero, disse che i vostri Pastori d’anime ... sono pure Istruttori e Consultori del Popolo ... Godono i frutti dei beni parrocchiali, che dai fedeli e dallo stato stesso furono fondati per il loro sostentamen-to; e quindi al Sovrano [bavarese] non può essere indif-ferente se essi siano uomini degni ... E, per giustifica-re le nomine statali dei preti e gli esami di idoneità per parroci e curati, aggiunse, da vero illuminista, che la Chiesa in se stessa non possiede beni, che Cristo e gli apostoli giravano bisognosi tra i popoli e che il Re-dentore diceva che il mio Regno non è di questo mondo.

Erano idee (ancorché interessate) di grande rilie-vo teologico, che avevano innervato secoli di storia della teologia, ed affaticato menti sublimi di studio-si. Ma i nostri Tirolesi poco sapevano di Teologia, ed ancora di meno di Storia della Chiesa e di Esegesi bi-blica. Avevano la religione tranquilla dei semplici e quella sicura dei forti. Su di loro una ben più robusta presa avevano le parole dell’intransigente cappuccino nordtirolese Haspinger, che bene si accompagnava-no a quelle pronunciate dall’officiante nel duomo di Bressanone già in una domenica d’Avvento del 1793: “Deve essere estirpato con tutte le sue radici questo terribile albero [dei Lumi], altrimenti l’intera Europa non avrà pace né sicurezza. Questo fico selvatico ... ha alle sue dipendenze club e confraternite vicini e

lontani; alimenta le sue spie, i nostri traditori, con l’oro e con l’argento ... L’erbaccia bisogna estirparla dalle radici e calpestarla, ma non è opera di soli uo-mini. Colui che è lassù [vale a dire il buon Dio] ci da-rà il suo aiuto e alzerà la sua ascia onnipotente con-tro le odiose radici che minacciano l’intera umanità”.

Di quello che sentiva dire sul controllo stata-le bavarese del clero (dal 1806), sul fatto che anche quest’ultimo dovesse pagare le tasse come tutti e ri-nunciare alle decime, sulla soppressione del princi-pato vescovile (1802), sul fatto che si fosse cambiato perfino il catechismo, soprattutto alla gente del Wel-schtirol importava assai poco. Perfino l’abolizione del-la Dieta degli Stände (1808) con quella sua parvenza di rappresentanza contadina, poteva passare. E po-tevano passare, un po’ più a fatica, ma in compen-so della pace, anche la soppressione delle autono-mie comunali a favore dei bavaresi Giudizi distrettua-li, ed il predomino burocratico della lingua tedesca. Ma il non poter più suonare le campane come prima; la celebrazione delle messe solo all’altar maggiore; il doversi limitare all’esposizione della sola Pisside in-vece che dell’Ostensorio; l’obbligo di accontentarsi unicamente di un paio di processioni devozionali da sbrigarsi, per giunta, in un quarto d’ora; il dover ri-sparmiare sul numero delle candele, e la rinunzia alla messa natalizia di mezzanotte, alle rogazioni e all’al-lestimento del sepolcro; il dover fare a meno del qua-resimalista: tutto questo faceva inviperire i Tiroler e mugugnare i più pacati Welschtiroler.

L’attuale Valle dei Laghi, dal punto di vista religio-so, era a quel tempo ripartita nelle parrocchie pievane di Calavino, di Cavedine, di Terlago e del Sopramonte. Fino ad allora i parroci decani avevano detenuto il mo-nopolio delle prestazioni pastorali sia liturgiche, sia sacramentali, che costituivano per loro una non tra-scurabile fonte di prebende. Ma proprio alla fine del Settecento molte curazìe dei comuni dipendenti dal-le antiche pievi avevano ottenuto l’autorizzazione a tenere in proprio il libro dei nati (quindi il fonte bat-tesimale), il libro dei morti (quindi la celebrazione dei funerali, fatti salvi i diritti di stola decanali), la messa cantata, il tabernacolo con le Sacre Specie e varie ceri-

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monie come processioni ed altri atti devozionali, che prima costituivano un’esclusiva della sede pievana. Si era verificato, insomma, specialmente nel Tirolo ita-liano un certo decentramento pastorale che favori-va a tutto spiano anche una maggior partecipazione popolare. Il che indusse nel 1811, durante il governo italico (1810-14), il vescovo Emanuele Maria Thun a chiedere il ripristino dell’antico rito, più gradito ai fedeli.

L’arciprete di Arco, monsignor Eliodoro Degara, proprio in quel tempo protestò vivamente contro alcune disposizioni vessatorie ... che proibiscono [nel giorno dei Morti] le esequie basse e i De Profundis sul-le tombe dei cimiteri. E il 2 di novembre, quando di solito si partecipava ad una lunga processione al ci-mitero e si faceva suonare le campane per l’intera nottata, ora i Bavaresi confinavano la gente in chie-sa ed avevano deciso che sette minuti di campane erano più che sufficienti. E c’era di più. Da secoli i nostri Tirolesi s’erano sempre ascoltati la messa in latino, senza capirci un granché a parte il fatto che essa avrebbe dovuto essere sempre la stessa anche in futuro. E quando corsero il pericolo di sentirsela dire in tedesco o in italiano per disposisione gover-nativa bavarese, non ci capirono più niente. Passasse pure la novità della carta bollata negli atti giudiziari e notarili, ma in fatto di pratiche religiose ogni inno-vazione era frutto del demonio dei Lumi. Come an-che era demoniaca la prescritta vaccinazione antiva-iolosa, perché c’era pur sempre il pericolo che, in-sieme con il siero, venisse iniettata l’eresia luterana.

La battaglia contro i Lumi fu tenuta dai Tiroler costantemente sotto la protezione dell’ascia onnipo-tente del buon Dio. Ritenutasi miracolata dal fatto che, nel maggio 1796, Napoleone avesse invertito la minacciata marcia contro Innsbruck, mandando i suoi soldati invece contro lo stato pontificio, la De-putazione di difesa di Bolzano, sollecitata a più ripre-se dall’abate di Stams nell’alta valle dell’Inn, consa-crò l’intero Tirolo al Sacro Cuore di Gesù, così (inu-tilmente) raccomandandosi per salvarsi dall’invasio-ne. Ancora oggi è visibile nel duomo di Bolzano, il quadro al cospetto del quale, il 3 giugno 1796, ven-ne dichiarata l’unione del popolo tirolese con il Ss.Cuore

di Gesù. L’evento venne ricordato anche in seguito nella domenica dopo la novena del Corpus Domini. I Tirolesi erano ormai divenuti popolo eletto, ed il Ti-rolo sacro Tirolo. Fu per non perdere la benevolenza divina che nel giugno del 1809 Hofer andrà in pel-legrinaggio a S.Romedio, e fu per tenere lontano il castigo di Dio (oltre che per tenere a bada certi im-pulsi dei suoi bersaglieri) che, nell’agosto dello stes-so anno, quando sarà Comandante superiore in Tiro-lo, comanderà alle donne tirolesi di non dare atto a stimoli peccaminosi, coprendosi per bene sia il loro petto che i loro bracci. Gli audaci costumi dell’epoca del Direttorio avevano contagiato anche le Tirolesi.

L’ Imperatore (imperatori e imperatori) - Anche se la corona la volle maneggiare soltanto lui, pure Napo-leone, il 2 dicembre 1804, fu unto e benedetto impera-tore [dei Francesi] da papa Pio VII, convocato in tutta fretta a Notre-Dame per l’occasione. Ma per i nostri Tirolesi di imperatori ce n’era soltanto uno: quello che si chiamava sacro e romano fin dai tempi di Car-lomagno, e che dal 1792 al 1806 rispondeva al nome di Francesco II, mentre dal 1806 sino al 1833 fu co-stretto a farsi chiamare Francesco I d’Austria, perché ormai di imperi sacri e romani non ne esistevano più. Francesco II era l’imperatore ideale per i Tirolesi, per-ché amava le riforme illuministe come un bruscolo in un occhio. Ma suo padre, Leopoldo II (1790-1792) e, peggio ancora, suo nonno, Giuseppe II (1780-1790), pur essendo anch’essi imperatori sacri e romani, era-no stati dei riformisti della più bell’acqua.

Othmar Winkler, altorilievo, Palazzo Trentini.

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Quando i Tirolesi vissuti negli anni dal 1780 al 1790 erano venuti a conoscenza di tutte le riforme che il loro imperatore Giuseppe II aveva intenzione di introdurre anche nella Contea principesca, si erano sentiti rivoltati come un calzino, e si erano fatti vo-lentieri indottrinare dai nobili e dal clero sulla via più efficace per rifiutarle tutte quante. E ne avevano ben donde: era stato concesso a luterani, calvinisti, gre-co-ortodossi e perfino agli ebrei di poter praticare le loro religioni nei territori dell’impero, come se fos-sero dei cristiani; tutti potevano scrivere (quasi) tutto quello che volevano perché era stata istituita la liber-tà di stampa; tutti potevano leggere quello che gli al-tri scrivevano perché era stata istituita la scuola stata-le e per giunta obbligatoria; le libertà del clero erano state pesantemente violate: i preti dovevano essere educati in scuole che ubbidivano alle leggi dello sta-to; quando percepivano dei redditi dovevano pagare le tasse; e quando commettevano dei delitti, doveva-no essere giudicati da giudici ordinari che pretende-vano che la legge fosse uguale per tutti.

E non solo, ma siccome era stata abolita da Dieta tirolese degli Stände nella quale i vescovi avevano un voto ciascuno mentre i ceti (prelati, nobili, città, cam-pagne) ne avevano uno in quattro, i principi di Trento e Bressanone erano stati definitivamente privati della loro voce in capitolo; tutti i conventi, o monasteri o abbazie, che non dimostrassero di essere utili, oltre che al buon Dio, anche alla società, avrebbero dovuto essere soppressi; e la costituzione tirolese del 1511 che prevedeva regole locali per l’arruolamento dei Bersa-glieri pro tempore, era stata abolita per far luogo alla coscrizione obbligatoria. Dopo la morte di Giuseppe II, il figlio Leopoldo II venne sommerso da una marea di cahiers de doléances, i quali vennero tutti presenta-ti alla rediviva Dieta degli Stände, che il nuovo impe-ratore era stato costretto a riunire nel 1790. Leopol-do II aveva tolto la coscrizione e il controllo stata-le sulla formazione del clero. Parecchio del resto lo toglierà Francesco II. Ma, proprio nel bel mezzo del suo regno, ci pensarono i Bavaresi (1806-1810) pri-ma e gli Italici (1810-1814) poi a mantenere nel Tiro-lo il più rigido gioseffinismo riformista.

I soppressi Celestini, il beato Bellesini e la Men-sa delle Sarche - I Bavaresi e gli Italici misero a frut-to anche nel Welschtirol le disposizioni di Giuseppe II in materia di soppressione di conventi giudicati inutili dalla ragion di stato. Ma, per la sua soppressio-ne, il convento dei Celestini delle Sarche non dovet-te aspettare così a lungo. Non appena uscita l’ordi-nanza imperiale sulla chiusura della Casa madre ce-lestina di Mantova, il vescovo Pietro Vigilio Thun mandò in men che non si dica i suoi emissari a far fare la sigilazione anche della filiale sarchese. Face-vano gola alla Mensa vescovile i diciottomila fiori-ni di valore dei beni del convento-ospizio, i quali, tutto sommato, valevano bene una piccola riforma illuminista. Tanto più che la Mensa se la cavò ver-sando la miseria di soli mille fiorini nel 1780 trami-te il Governatore imperiale della Lombardia Carlo Giu-seppe Firmian (Gorfer). E per dar da pensare che, in fondo, si facevano le cose in famiglia, i collaborato-ri vescovili dichiararono che il complesso era stato fondato dai Madruzzo, anziché dai d’Arco (1325). Oltre all’edificio e l’orto cinto da muri e costituente un bel pezzo grande (che da solo valeva i mille fiori-ni versati), c’erano il gazo (nel quale si servivano, a detta dei conventuali, abusivamente quelli di Cala-vino), un buon maso in quel di Ceniga, un prato a Pa-dergnone, vari livelli nei presi di Arco e nelle Giudi-carie, e una pezza di terra arativa al Rimone (Gorfer).

Ben più tardi (1807) venne secolarizzato il conven-to agostiniano trentino di s.Marco, e allora il suo prio-re, Stefano Bellesini, istituì, nella casa paterna nei pres-si del duomo, una scuola popolare che andava a fare concorrenza da una parte alla scola negra, scuola della massoneria, favorita dal governo bavarese e destina-ta alle classe abbienti, e dall’altra al ginnasio, aperto a tutti, ma dedicato soprattutto all’educazione del cle-ro, pur sotto costante controllo statale bavarese pri-ma ed italico poi. Il Bellesini era discendente da una antichissima famiglia oriunda di Vezzano, dove, a det-ta del Perli, è segnalata fin dal 1280. Siccome i Belle-sini avevano la loro residenza nei pressi del santuario di s.Valentino, ad essi venne assegnato il patronato del Beneficio Tozzi per la manutenzione della chieset-

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ta, al quale lo stesso Stefano rinunziò nel 1828. Pri-ma di essere beatificato nel 1904 e di avere a lui inti-tolata l’attuale Scuola Media vezzanese, il Bellesini, a partire dal 1814 e con il ritorno dell’Austria, divenne Direttore generale delle scuole del principato ed ebbe l’in-carico di dare esecuzione, come Ispettore scolastico, an-che in Valle dei Laghi alle leggi teresiane di metà Set-tecento sull’istituzione di scuole popolari di campagna.

I beni vescovili che il governo austriaco dal 1802 al 1806 si era limitato a confiscare, i successori Bava-resi provvidero senz’altro a porre all’asta pubblica, co-me accadde anche al patrimonio del Capitolo e pure all’argenteria della cattedrale di s.Vigilio. La residenza principesca del Buonconsiglio rimase proprietà delle autorità laiche ed il vescovo fu costretto a girovagare per vari palazzi cittadini. I Bavaresi incamerarono pu-re la pensione dell’ultimo principe di Trento, Emanue-le Maria Thun, colpevole di disubbidienza sulle nomi-ne dei parroci, il quale, prima di spirare nel 1818 nel-la sua villa di S. Massenza, fu costretto a vagabondare da esule da Innsbruck a Salisburgo. Decisamente me-glio, invece, andarono le cose per il patrimonio della Mensa delle Sarche, il quale venne rigorosamente ri-sparmiato affinché fungesse da dotazione vescovile.

Prìncipi e patrioti: opportunismo ed eroismo - Come al tempo del Vendôme, anche quasi cento an-ni dopo, il Welschtirol (Tirolo trentino), per la ragion di stato, non era territorio da difendere con le ar-mate regolari, ma figurava invece come una specie di ‘campo minato’ all’interno del quale gli eserciti nemici dovevano impantanarsi per bene, non tanto per essere sconfitti, quanto piuttosto per permet-tere ad altri territori più importanti di preparare la difesa, senza minimamente badare agli enormi sa-crifici che questa tattica costava alla gente comune tirolese. Tanto più che quest’ultima era composta di sudditi fedelissimi, capace di dare la propria vita per difendere la propria terra, ed in grado di chiu-dere sempre un occhio anche dinanzi ai più chia-ri ‘tradimenti’ dei loro Prìncipi e Imperatori. I qua-li, come non seppero difendere il Tirolo in pianura con le truppe regolari, non lo seppero neppure fa-

re fra le sue montagne. Dove, nonostante la buo-na volontà di alcuni comandanti come il Loudon ed il Davidovich, i regolari furono quasi sempre spaz-zati via dai nemici, i quali si avventavano più furio-si che mai contro i Bersaglieri tedeschi ed italiani.

Sintomatico di questa riluttanza opportunistica mi-litare austriaca è l’episodio (1767) del famoso (e fa-migerato) sfondamento del fronte Cembra-Faedo-Montecorona. Nella sua avanzata verso Salorno e la Pusteria, il generale transalpino Joubert aveva a sua disposizione ben tre divisioni, mentre i nostri difen-sori disponevano di un contingente di regolari e di ventinove compagnie di Bersaglieri tedeschi ed ita-liani. Ma il feldmaresciallo austriaco Kerpen non so-lo sottovalutò la consistenza numerica del nemico, ma pure la sua capacità di adattarsi alla guerra di lo-goramento di montagna. Fu così che dispose la mes-sa in libertà di quasi tutte le compagnie tedesche senza rendersi conto del pericolo incombente (Egg). I Francesi aspettarono che si alzasse la nebbia, ed il 20 marzo 1797, fatti fuori i regolari, si trovarono di fronte i ti-rolesi italiani da soli, che dovettero affrontare l’intero pe-so dell’attacco francese... E per essi fu una grande cata-strofe. “Quello fu il giorno, scrive uno storico francese ricordato da Egg, in cui culminarono l’impeto aggressi-vo dei francesi, la debolezza dell’esercito austriaco e l’e-nergia orgogliosa ed indomita degli Schützen tirolesi”.

Lo stesso opportunismo impiegato per la difesa del territorio venne utilizzato dall’Imperatore anche nell’introduzione di alcune utili [alla ragion di stato] riforme di natura illuminista, alcune delle quali, an-corché giacobine e vessatorie, vennero estese anche al Tirolo perfino da Francesco II nell’intermezzo di go-verno asburgico cha va dal 1802 al 1806. Con il per-messo di Napoleone, nel 1803 egli prese possesso dei principati vescovili di Trento e Bressanone annet-tendoli alla fedelissima contea tirolese; poi, senza il per-messo di nessuno, ne confiscò i beni, mobili compre-si, e l’archivio. E, dopo aver sequestrato le sedi tren-tine dei Somaschi e dei Conventuali, brigò (pur sen-za riuscirci) addirittura per abolire, non solo il pote-re temporale, ma anche quello spirituale dei vescovi con l’istituzione di una sola (e più economica) dioce-

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si di Innsbruck. Distrutti i principati vescovili, Fran-cesco II si diede a distruggere pure i comuni, privan-doli di quella forma di democrazia, ormai giudicata esasperata, rappresentata dalle Regole e dalle cariche conferite drio a la roda (1805). Più tardi (1807) i Ba-varesi abolirono pure le Regolanerìe, cioè le compe-tenze basso-giurisdizionali dei Regolani o anche dei Massari, esercitate nella Valle dei Laghi meridiona-le dai Madruzzo, per attribuirle al Giudizio distrettua-le di Vezzano, che operava da Cadine a Vigo Cavedi-ne. Durante il seguente governo italico (1810-1814) la Valle dei Laghi venne poi divisa in soli tre municipi.

Anche la coscrizione obbligatoria era frutto del-le nuove idee di stato. Nonostante che, al tempo del governo bavarese (1809), il Commissario per il Circolo dell’Adige Carlo Welsperg, agisse con grande mode-razione, i Fiemmesi si rivoltarono per l’intero mese di marzo a causa dell’estensione della coscrizione su piede d’imposta, pure limitata ai giovani sino ai ven-titrè anni e con un regolamento che prevedeva molte esenzioni (P.Pedrotti, 1923). Ma la nostra gente finì per smarrirsi del tutto quando, nel momento più caldo della rivolta hoferiana, l’Austria, tramite il ba-rone d’Hormayr, comandò la leva obbligatoria per tutti gli uomini dai sedici ai sessantacinque anni.

Alle riforme illuministe (franco-bavaresi e austria-che) i vescovi principi trentino-tirolesi opposero una resistenza assai minore di quella dei loro fedeli. No-nostante che il Kögl faccia del suo meglio per dimo-strare il contrario, Pietro Vigilio Thun fece assai poco per contrastare le riforme di matrice illuminista nel Welschtirol. Era troppo colto e lungimirante per farlo. Cominciò col subire la riforma teresiana del 1777 che includeva il principato nella cerchia daziale austria-ca; continuò con l’arrabbiarsi troppo poco quando il giureconsulto clesiano Manfroni disegnò una carta geografica del principato, dove figurava come par-te meridionale del Tirolo; ubbidì a Giuseppe II quando (1783) gli fu ordinato di riformare il codice di dirit-to civile; e non batté ciglio di fronte al colpo di stato che ci sarebbe stato, se l’imperatore avesse accetta-to la sua proposta di acquisire la sovranità territoriale del principato dietro un compenso vitalizio in denaro.

La sua arrendevolezza al gioseffinismo illuminista gli venne chiaramente contestata nel 1782, quando papa Pio VI, dopo aver tentato inutilmente di essere più bravo di lui incontrando personalmente l’impe-ratore a Vienna, non volle trattenersi a Trento pres-so il vescovo durante la notte. Si limitò ad una ca-patina al Buonconsiglio, a s.Maria Maggiore e a pre-gare dinanzi al crocefisso del concilio in cattedrale. Poi andò a Rovereto, dove pernottò dal barone Piz-zini. Prima che arrivasse Napoleone, Pietro Vigilio se ne scappò a Passau da suo fratello vescovo e non volle rientrare nemmeno quando vi fu scongiurato dal decano Manci, perché ogni cosa vuole avere il suo tempo per ben maturarsi, ed anche lui doveva pur ri-servarsi il necessario respiro per prendere decisioni in quei tremendi frangenti (Menapace). Quando eb-be finalmente respirato, prese la grande decisione di andarsene direttamente in Val di Non a castel Thun.

Anche il successore Emanuele Maria Thun lasciò Trento per Gorizia e Vienna non appena, nel 1801, co-minciò a profilarsi una nuova invasione francese e non volle tornarvi nemmeno quando fu istituito il regime capitolare (1801-1803). Insieme col vescovo di Coi-ra, però, si oppose alle direttive italiche sulle nomine dei parroci e nel 1807 venne privato della pensione e deportato a Salisburgo. Si arrabbiò soltanto quando, dopo essere stato privato della sovranità territoriale, gli austriaci tentarono inutilmente di privarlo anche di quella spirituale abolendogli la diocesi (1803) per ragioni di economia e di interesse. L’oppositore più tena-ce alle riforme fu il vescovo Buol di Coira, che prima si ritirò a Merano e poi fu esiliato in Svizzera, mentre la Val Venosta ed il Meranese venivano affidati al ve-scovo Lodron di Bressanone. Il quale, fu subito il più accomodante verso le riforme e riuscì a venire a pat-ti con il governo bavarese (1806-1810).

Perfino l’imperatore, quando si profilavano i Fran-cesi nei pressi di Vienna (1805,1809), se ne scappava in Ungheria. Ma la nostra gente del Welschtirol, anche se venne confortata (1801) dall’arciduca Giovanni (che visitò le Giudicarie, Riva e Valsugana, ma non entrò in Trento, giudicata troppo filofrancese), non avendo do-ve scappare, si sentiva alquanto smarrita. Siamo arriva-

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ti, scrive il notaio Ongari, al 24 settembre [1800], e non sappiamo ancora chi sia il nostro Principe e Padrone. È ve-ro che il 2 aprile 1800 fu eletto Principe e Vescovo di Tren-to Monsignor Emmanuele de Thunn, ma non ha preso pos-sesso; anzi è partito subito per Vienna e non è più ritorna-to. Un pezzo siamo stati governati dai Francesi, un pezzo dall’Imp. Reg. Consiglio Amministrativo, ed un pezzo dal Reverendissimo Capitolo ... Forse nel Tirolo italiano, più che alla guerra, bisognava pensare all’economia e ai dazi. Per noi sarebbe assai meglio che venisse un Principe grande, assoluto e potente, e che conchiudesse un Tratta-to di Commercio con la vicina Repubblica Cisalpina di dar-gli vicendevolmente i generi necessari, cioè noi all’Italia le-gnami, pascoli e bestiami, e l’Italia a noi la biada ed il vi-no, altrimenti noi siamo rovinati affatto, perché non voglio-no darci alcuna sorta di grano, o con dazi molto gravosi.

Pro Fide, Principe et Patriafortiter pugnantiMedaglia al valore di Francesco II

La fierezza del contado (1796-1805) - In quasi tutta l’Europa, conquistata la città, era conquistato pure il contado. Nel territorio trentino-tirolese no. La peren-ne gestione feudale dei comuni cittadini di quest’area fece in modo che le nostre comunità rurali non subis-sero mai nei secoli quell’assorbimento da parte della città che si è verificato altrove. E la diatriba fra potere laico e clericale portò entrambi a disputarsi la fedel-tà dei nostri contadini a suon di affrancamento di servi della gleba. Nacque così ab immemorabili da noi la fie-rezza del contado libero. Alla fine del secolo XVIII i Fran-cesi erano i più bravi soldati del mondo. Sul Tirolo era-no informatissimi e temevano la guerra di montagna, ir-regolare, improvvisa e partigiana. Conquistare Trento, Bolzano ed anche Innsbruck era “facile”. Il bello veniva dopo, quando sulle creste delle montagne affioravano le sagome dei Bersaglieri tedeschi ed italiani insieme. La Valle dei Laghi, preceduta dalle Giudicarie, era una delle porte di Trento per le invasioni da sud.

Così nel 1796 le truppe del generale francese Vaubois, che aveva occupato Trento, Riva e Torbo-le, vennero attaccate con rapide incursioni dal Pri-

miero, dalla Val di Cembra, dalle Giudicarie e dalla Valle dei Laghi. Quest’ultima, in particolare, ospitò le operazioni dei Bersaglieri che dovevano appog-giare l’iniziativa del colonnello Döller che, con i suoi cavalleggeri, mirava ad impadronirsi di Torbole. Ar-rivato a Terlago per la Traversara, quest’ultimo oc-cupò il paese e respinse un battaglione di Francesi nei pressi di Cadine, prima di percorrere la valle fi-no a Torbole. Nel 1797 il generale Joubert (che sa-rebbe morto due anni dopo ammazzato dallo stutzen di un Bersagliere trentino) entrò in Trento via Adi-ge, mentre Murat, risalito da Riva per la Valle dei Laghi, venne attaccato con rapide operazioni lun-go le pendici della Paganella, del Gazza e dei monti giudicariesi, che portarono pure allo smantellamen-to del posto di guardia delle Sarche e all’evacuazio-ne dei Francesi per le Giudicarie. Poiché Joubert in-tendeva raggiungere Napoleone in Carinzia, dopo aver rotto i regolari a Salorno ed aver imboccata la Pusteria, venne assalito dai Tiroler a Spinges presso Rio Pusteria. Fu un macello all’arma bianca: seicen-to Francesi e centotrè Bersaglieri morti. Non ser-vì a nulla. Alla fine Joubert se ne andava comunque per la Pusteria verso l’armistizio di Leoben e la pa-ce di Campoformio, mentre (ottobre 1797) una bar-ca con sedici giornalieri di Brusino veniva affonda-ta nei pressi di Limone dalla cannonata d’una felu-ca francese. Nei due anni seguenti (1798-99) i Ber-saglieri reclutati nella compagnia dell’attuale Valle dei Laghi ammontavano a novantotto (Girardi-Toni-na) e dodici erano i graduati, ma quando si trattò di scegliere il capitano, il trentino Galvagni ebbe la me-glio sul calavinese Domenico Graziadei. Altri sette di Ranzo militavano nella compagnia Zanini di Fiavé.

Nel nevoso (gennaio) 1801 arrivarono in Tirolo (che ormai era un territorio incuneato fra stati-satellite fran-cesi come la Repubblica Elvetica, quella Cisalpina e il regno di Baviera) le truppe del Macdonald, precedute dalla Divisione italica del generale Teodoro Lechi, che era composta di fanti, di Cacciatori, di Ussari, di Zap-patori e di alcuni artiglieri con due pezzi da quattro e da sedici. Arrivati a Comano, gli Italici scesero per il monte Casale e presero il ponte sul Sarca, proseguen-

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do poi per Vezzano. La resistenza dei difensori (Bersa-glieri tedeschi ed italiani affiancati da regolari) era at-testata nel triangolo Baselga-Vigolo-Cadine, e le rela-tive operazioni militari sono un bell’esempio di guer-ra di montagna. Ogni palmo di terreno doveva essere conquistato a fatica dagli Italici e conteso ai difensori che si valevano degli appigli che la montagna gli offre do-vunque. Allora il Lechi ordinò l’accerchiamento inerpi-candosi e sormontando le montagne di destra e di sini-stra fino a ridiscendere sullo stradale di Trento. Anche per superare la terribile posizione del Buco di Vela fu ne-cessario oltrepassare le alture di destra e di sinistra che dominano i nostri difensori. I quali tuttavia furono co-stretti a ripiegare passo passo e nel massimo ordine, arre-standosi ad una casa ove il combattimento riprende più vi-vo che mai. Ma per entrare in Trento era solo questio-ne di tempo, con i difensori che coronavano le alture.

Un vero e proprio capolavoro di maldestrezza militare asburgica fu invece all’origine dell’invasio-ne del Tirolo nel 1805. Pensando di poter fare a me-no dello scomodo alleato russo, l’Austria attaccò la Baviera filofrancese. Napoleone la mise in ginocchio prima ad Ulm e poi ad Austerlitz (dicembre 1805). L’incauta mossa asburgica costò l’ennesima incursio-ne francese dalle nostre parti. Il generale Ney oc-cupò Innsbruck, penetrando a nord per Kufstein e Scharnitz (Porta Claudia) ed entrando in Trento col colonnello Colbert, mentre il Massena risaliva l’A-dige per inseguire l’arciduca Carlo che tentava inu-tilmente di correre in aiuto di Vienna.

La rivolta disuguale (1809) - L’inettitudine militar-diplomatica dell’Austria aveva permesso, dopo la pa-ce di Presburgo (dicembre 1805) che l’intero Tirolo diventasse addirittura uno stato satellite di Napoleone sotto i Bavaresi. Ma di nascosto soffiavano sul fuoco, per farsi trarre d’impaccio a costi ridotti dai Tiroler. Fin dal gennaio 1809 l’arciduca Giovanni e il barone Hormayr riunirono a Vienna un gruppo di osti (co-me il Sandwirt Hofer) e commercianti tirolesi, ritenu-ti i più adatti per guidare una futura insurrezione. La quale iniziò nell’aprile 1809, portando dritto Andreas Hofer ad Innsbruck con i suoi Schützen. Il luogo pre-scelto da Hofer per le battaglie decisive nel Tirol era

il Berg Isel, dirimpetto all’abbazia di Wilten, sobbor-go meridionale di Innsbruck. Le battaglie ivi combat-tute furono ben quattro, tutte avvenute nel 1809 do-po successive riconquiste franco-bavaresi della città: il 25 e il 29 maggio, il 15 agosto (la vittoria più gran-de) ed infine l’1 novembre (la sconfitta definitiva).

Il 23 aprile 1809, dopo la battaglia del Buco di Vella (vere termopili trentine), Hofer entrò anche in Trento con i suoi valorosi Bersaglieri della Val Passiria calati per la Traversara. Tre giorni prima la massa nonesa, ar-rivata a Ranzo per Nembia e Bael e rimpinguata da una trentina di Ranzesi, aveva dato inizio alla sollevazio-ne in Valle dei Laghi, dilagando per S.Massenza, Ca-lavino, Lasino e Cavedine. Dice il Ristretto dei Fogliet-ti universali (Dalponte) che la Compagnia Bersaglie-ri di Cles (coadiuvati dal Corpo di Volontari della Valle del Buco di Vella comandati da Giuseppe dal Cesare e comprendente in massima parte Vezzanesi e Cave-dinesi) prese di assalto Vezzano [il 21 aprile] occupata da numerosa truppa nemica. La sua avanguardia seguì poscia il nemico che si era ritirato, lo incalzò sino in Bu-co di Vela ... Nella battaglia di Vezzano, espugnato ca-sa per casa, morì il Bersagliere Marco Angelo Pozzati di Bresimo, sepolto nel camposanto di Padergnone.

E il Perini aggiunge che sul mattino del 20 aprile 1809 udironsi in Trento le prime fucilate sulle alture di Bucco di Vella, ove un corpo di soldati [francesi], presa posizione presso Cadine [località s.Michele], assalito da-gli insorti Tirolesi, calati per passo della Traversara, fu costretto a ritirasi per questa gola di monte. Fu combat-tuto con valore per tutto il giorno, restarono molti morti e feriti, specialmente dei soldati italiani [della Divisio-ne Italica] stretti nelle angustie del luogo e bersagliati sui fianchi dai sassi che gli insorti rotolavano giù per le chine dei monti. Altro esempio di guerra irregolare di montagna. Ogni volta che Hofer entrava in una cit-tà del Tirolo, spuntava sempre il barone Hormayr a riceverne l’investitura imperiale come Governatore.

Dopo la battaglia di Wagram con l’armistizio di Znaim (luglio 1809) e la rioccupazione franco-bavare-se di Trento e di Innsbruck nell’agosto, il Governatore Generale di tutto il Tirolo divenne (stavolta motu proprio) Andreas Hofer, ma ormai, a guerra finita, era trattato

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da partigiano e da brigante. Nella seconda metà d’ago-sto, dopo la terza battaglia del Berg Isel, anche Trento venne ripresa con assalto concentrico dai Bersaglie-ri, operanti ormai come ribelli. Lungo l’Adige scende-va Törggler con le compagnie dei Tiroler; da est arri-vavano le compagnie fiemmesi (attestate a Cognola) e quelle del Primiero (accampate a Vigolo Vattaro e Valsorda); da ovest s’appressavano le formazioni del-le Giudicarie, dell’Anaunia e del Basso Sarca agli ordi-ni in capo di Bernardino Dal Ponte. Ai Tiroler del Törg-gler i cittadini di Trento preferivano i Welschtiroler del Dal Ponte, che si trovava accampato a Cadine, e, lu-singato da questo fatto, dopo essere entrato in città il 21 agosto, si proclamò Comandante nel Tirolo Meri-dionale, quasi mettendo sullo stesso piano Welschtiro-ler e Tiroler. I quali, ultimi gelosi custodi dell’asimme-tria della rivolta, non appena si presentò l’occasione, lo arrestarono e lo tradussero ad Innsbruck in cate-ne (20 settembre 1809). Liberato dagli odiati francesi del generale Drouet (25 ottobre), il 12 novembre fece atto di sottomissione ai Franco-bavaresi.

Alla fine di settembre, riconquistata la città, quat-trocento soldati francesi, inoltratisi alla volta di Tione per effettuare dei rastrellamenti, raggiunsero Vezza-no ed uccisero con gli archibugi quattro volontari ti-rolesi che cercavano viveri in una casa privata. I Ber-saglieri (Tiroler e Welschtiroler, detti testardi montana-ri e feroci uomini da don Mazzonelli, parroco di Terla-go), dopo aver dato battaglia sul monte di Cadine, ri-assediarono la città ai primi d’ottobre, ma, a causa delle discordie di potere fra i comandanti tedeschi Törggler, Tönig, Schweigl ed Eisenstecken, furono sbaragliati dal generale Peyri prima (10 ottobre, il Tag der Schande) e dal generale Vial poi. L’ultimo ca-pitano dei Bersaglieri ad abbandonare la Valle dei La-ghi fu il rendenese Giuseppe Chesi, dopo che nei pri-mi giorni di novembre i Francesi ebbero setacciato Gazza e Pedegazza, obbligando i Bersaglieri (ancora in armi nonostante la pace definitiva di Schönbrunn del 14 ottobre) alla ritirata. La ribellione era al capo-linea. Così finiva questa infausta guerra [la rivolta hofe-riana], scrive il Perini, condotta con valore da un popolo mosso da entusiasmo religioso; il paese n’ebbe danni gra-

vissimi, vantaggio nessuno. Molte famiglie piansero vedo-vate, i comuni stettero a lungo sotto il peso delle passivi-tà, i capi della rivolta, rifuggitisi a Vienna, furono sotto-posti a processo. Per la pace di Schönbrunn, firmata il 14 ottobre 1809, l’Austria cedeva all’Imperatore Napoleone una seconda volta il Tirolo. Il quale veniva, per giunta, sbranato fra la Baviera, l’Illirico ed il Regno d’Italia.

L’impotenza degli innocenti - La guerra è il luo-go nel quale chiunque e comunque combatta è privo d’innocenza. Nella puntata del 1796 lo stesso Bona-parte dovette intervenire per stigmatizzare i disordi-ni e il saccheggio commessi dalla divisione Vaubois nel-le Giudicarie Inferiori, ed il saccheggio ed i disordini commessi dalla divisione del generale Massena a Trento e nei dintorni. Ma sull’altra sponda le cose non era-no tanto migliori. Nel febbraio 1797 il generale im-periale Lipthay fece addirittura bastonare i soldati di cavalleria che s’erano approfittati della gente co-mune. Secondo il Pietrapiana i Francesi erano mostri d’inferno, cani insaziabili, mandati in questo paese per nostro flagello e che non cercano che rubare, ma i Te-deschi hanno commesso ogni sorta di ruberie e di cru-deltà ... e dato danni volontari nelle campagne, taglian-do viti, mori, asportando pali e levando fino i legnami dai tetti delle case per far fuoco. Nell’aprile 1809 Hofer ebbe il suo da fare per impedire che nonesi, fiamazi e pinaiteri saccheggiassero Trento (Girardi-Tonina).

Ogni tanto i Bersaglieri tendevano agguati ai Fran-cesi che stavano requisendo. Ma d’altra parte non era nemmeno ragionevole pretendere che tanti Bersaglieri os-servassero la dovuta disciplina, come accadde nel 1797 in Vallarsa o tra Lana e Merano, dove Bersaglieri ita-liani e tedeschi si spararono addosso per gli alloggi migliori. Finiti i saccheggi e le requisizioni dei Fran-cesi, ci si doveva procurare la legna da ardere ed il foraggio per i reparti imperiali di linea, e bisognava sopperire ai trasporti sostituendo gli animali decimati dall’afta epizootica, e poi agli uomini stessi, falcidiati dal tifo petecchiale e dalle fèrsene. Per pagare le spese di guerra i comuni dovettero indebitarsi ed imporre nuove imposte per fuoco, e i padri cacciavano di casa i figli che, invece che contribuire all’economia fami-

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liare, si erano arruolati nei Bersaglieri, mentre i pa-droni facevano lo stesso con i dipendenti.

Nel maggio 1809 percorsero l’attuale Valle dei Laghi, alla volta di Trento, le compagnie nonese, quel-le giudicariesi, quelle locali [Graziadei], quelle di Riva [Meneghelli] e quella di Lomaso [Dal Ponte]. Erano tut-ti difensori della patria, e tutti avevano grande ener-gia e buon appetito. Sforzatamente volevano che fos-sero sonate le campane a storno e pretendevano che tut-ti avessero d’andare secco loro ... ma niuno volse anda-re (Girardi-Tonina). Pure dietro quietanza rimborsa-bile volevano pane e vino e riso (come fece il Dal Ce-sare primo cancellista del Regio Giudizio di Vezzano). Talvolta, però, pretendevano il tutto senza poter ave-re nemmeno la quietanza ... altrimenti sarebbero venu-ti a dare fuoco al paese [di Calavino] ... ed altamente minacciavano di far del malle (Girardi-Tonina). E men-tre gli insorti mangiavano e bevevano allegramente a Terlago, Andrea Hoffer [detto anche il general detto Barbon della Val Zaer (Passeier Tal)], nel suo passaggio dalle Sarche con i suoi vuomeni, ha preteso un carro per condurre seco lui [ed] il suo bagaglio (Girardi-Tonina).

Il barone Hormayr, Commissario imperiale al tem-po della rivolta antibavarese del 1809, si lagnava del-la passività dei Welschtiroler (gli abitanti di Trento, Ro-vereto, Ala, Condino, e Borgo, domandarono di es-sere esentati dal formare compagnie di Bersaglieri a causa dei lavori della seta) e del fatto che la loro gente, abituata ad un vivere pacifico, poco s’intendeva di armi, ed altrettanto poco amava gli strapazzi della vita mili-tare. Finora, si lamentava il notaio giudicariese Onga-ri nel 1800, siamo stati rovinati dai bersaglieri e dai te-deschi, che hanno voluto tanta legna, paglia, fieno, car-reggi, noli e danaro, che ci hanno ridotti all’ultimo stermi-nio. E quando arrivò, nel gennaio 1801, l’armata del Macdonald, preceduta dalle truppe del Lechi, anche la Valle dei Laghi fu posta sotto pressione. C’era note-vole andirivieni dal Basso Sarca per la via di Drena, e ben centosessanta ussari a cavallo alloggiarono a La-guna. Poi, altrettanti, saliti da Padergnone per la stra-da vecia [imperiale] de Calavin, se ne andarono verso Arco. Ma intanto c’erano truppe francesi dappertut-to: a Vezzano, a Padergnone, a Calavino, a Lasino e a

Cavedine, tutte mantenute dalle Comunità che dove-vano fornire vettovaglie, ma non denaro. Nella canoni-ca di Cavedine alloggiarono un capitano, quattro ser-vitori e otto cavalli.

Una vera disgrazia era costituita dai cosiddetti emi-grati, alcuni dei quali furono fucilati per ordine del ca-pitano Carrara in quel di Tione nel novembre 1809. Erano disertori di ambo le parti che guerreggiavano senza posa per sostentarsi di bottino e di rapine. An-che se, come dice il Dalponte, ormai il giornaliero di cir-ca tre troni per ogni bersagliere costituiva un onere insoste-nibile per le Comunità, talvolta anche qualche compa-gnia di Bersaglieri rimaneva in armi ad oltranza (sen-za rispettare la cessazione delle ostilità) finché non riceveva le sue [del capitano] paghe e degli uomini. Fu questo il caso della compagnia Chesi nel 1809, oppu-re dei Bersaglieri della compagnia Santoni (di Ceni-ga), ventuno dei quali subirono la sorte degli emigra-ti: tra essi c’erano Isidoro Rigotti di Ranz, paesano-vil-lico, e Cristoforo Graziadei di Calavino, paesano-villico.

A carico della gente c’erano pure le continue zuffe fra i comandanti dei Bersaglieri. Quelli tedeschi non condividevano quasi nulla con i comandanti italiani. Quando il giudicariese Dal Ponte provò ad assume-re il comando delle operazioni trentine, Törggler e Morandell lo fecero arrestare (1809) e deportare ad Innsbruck con il suo collega malfamato Garbini. Ho-fer disse di loro: “Non parlatemi di simili mascalzo-ni: sono stati giustamente tolti di mezzo, hanno tor-mentato già troppo a lungo i Trentini. Che coman-danti sono costoro che sanno soltanto derubare la gente?”. Lo riporta il Dalponte che dà retta ai mol-ti altri che del comandante di Vigo Lomaso dissero un gran bene. Per fortuna dei nostri due arrestati, i Francesi (che li liberarono) arrivarono ad Innsbruck prima della condanna minacciata da Hofer. La stes-sa fortuna ebbe il prete Daney, condannato a morte per tradimento, dopo che, nel novembre 1809, aveva consigliato Hofer a cessare la “battaglia” (Dalponte), quando sarebbe stato meglio arrendersi tutti quanti.

Ancora prìncipi e patrioti in epilogo - Non trovia-mo da ricordare grandi esempi di fedeltà ricambiata

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R I C E R C A

dall’Austria alla sua fedelissima provincia tirolese. Al-la fine del maggio 1809, dopo la seconda battaglia hoferiana del Berg Isel, l’Imperatore Francesco fece a Wolkersdorf una solenne promessa: “... non firmerò alcun trattato di pace in cui non sia stabilito che que-sta terra [il Tirolo] rimarrà indissolubilmente legata alla mia monarchia”. Non s’era ancora spenta l’eco di queste sue parole, che firmava di suo pugno l’armi-stizio di Znaim (luglio), che riabbandonava il Tirolo ai Bavaresi. Quando Hofer si accorse che l’Hormayr, il Buol e l’arciduca Giovanni lo trattavano come una marionetta da armare e disarmare a piacimento della ragion di stato, s’infischiò degli armistizi e continuò la buona battaglia da solo. Vinse la terza volta al suo Berg Isel il giorno dell’Assunta, e fu un trionfo. Ma la quar-ta il primo giorno di novembre 1809, segnò la disfat-ta dei suoi Schützen. Alla fine il buon Dio gli concesse la grazia di non vivere tanto da vedere che la sua Hei-mat tirolese, invece che dal suo Imperatore, era sta-ta salvata dai miscredenti Inglesi, i quali il 18 giugno 1815 inchiodarono i Francesi nei campi trincerati di Waterloo, prima che i Prussiani li finissero del tutto.

Anche se l’arciduca Giovanni l’aveva sempre spalleggiato e la corte viennese gli avrebbe più tardi eretto un bel monumento nella Hofkirche di Innsbruck, l’Austria non mosse un dito per salvare Hofer dalla fucilazione (febbraio 1810) per aver ri-preso [dopo la pace di Znaim] le armi come capo ad avere nuovamente eccitati gli animi alla rivolta. Ci pro-vò il viceré d’Italia Eugenio, che lo voleva far giudi-care a Parigi, anziché a Mantova a palazzo d’Arco, ma Napoleone fu irremovibile. In giudizio lo aveva validamente e inutilmente difeso l’avvocato ebreo Basevi, dopo che i suoi correligionari tirolesi era-no stati tartassati d’imposte per sovvenzionare l’in-surrezione contro la Baviera (Zendron-Von Haurtun-gen). E come l’Austria dovette accettare nel 1805 che il Tirolo diventasse uno stato satellite di Napole-one, così nell’ottobre 1809 tollerò che il Tirolo fos-se smembrato: quello meridionale al Regno d’Italia, quello settentrionale alla Baviera, e quello orientale alle neoprovince Illiriche. Un mese dopo la battaglia di Lipsia, il 29 novembre 1813, l’Austria ritornò in

Tirolo. Il Tirolo settentrionale restò ancora alla Ba-viera per circa sei mesi. La ragion di stato imponeva di non indispettire i Bavaresi in procinto di abban-donare la barca napoleonica. E quando a Merano, a Bressanone e a Vipiteno ci saranno sentori di rivol-ta, l’arciduca Giovanni si guardò bene dal favorirla.

I Welschtiroler pagarono duramente l’insurrezione del 1809. Il Regno Italico era ben più riformista dei Ba-varesi. I comuni della Valle dei Laghi furono ridotti a tre Municipi: Terlago con Piedigazza, Cadine, Sopra-monte, Vigolo Baselga; Vezzano con Baselga, Margo-ne e Ranzo; e Calavino con Padergnone, Lasino e Ca-vedine. Il Giudizio Distrettuale di Vezzano fu abolito e si doveva rivolgersi al Mandamento Giudiziario o Can-tone di Trento. Le cariche amministrative erano tut-te nominate dall’alto, i conventi furono soppressi e vigeva la doppia registrazione anagrafica con prece-denza del civile. Ma quando ritornarono gli Austriaci (1813-14) quella giovane volpe del Metternich (nato a Coblenza nel 1773) riuscì a mettere d’accordo tutti anche in Tirolo. Il popolo trovava le imposte aumen-tate e più obbligatorie che mai, ed anche la burocra-zia condita con la illuminista coscrizione coatta, ma si consolava con le sue tradizionali pratiche religio-se tornate liberissime. Il clero non aveva più la mag-gioranza garantita negli Stände e pian piano dovette abituarsi a pagare le tasse, ma era titolare della scuo-la (fino agli anni Settanta) e soprattutto dell’anagra-fe (compreso il rilascio dei certificati di povertà o di buona condotta per il matrimonio).

Anche i pochi nobili fra i Welschtiroler furono un po’ alla volta sottoposti al regime fiscale perequato, ma lo stato garantiva pur sempre a loro la sicurezza della proprietà fondiaria e dell’importanza politica. E i gloriosi Bersaglieri? Sopravvissero con i loro Bersagli e con la prevalente denominazione di Standschützen. Ma nel 1816 nacque il Reggimento dei Cacciatori Im-periali o Kaiserjäger con la loro coscrizione regolare, prolungata ed obbligatoria. Anche se i nostri vecchi Bersaglieri pro tempore e al bisogno (ridotti ormai ai giovanissimi, agli anziani e ai ‘non idonei’) forse non lo sapevano, erano proprio questi ultimi i loro più implacabili nemici. Più dei Bavaresi e di Napoleone.

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Soldati e ufficiale dell’esercito di Vendômein un ex-voto del santuariodella Madonna della Corona di Spiazzi (Verona)

TuLLIO PASquALI

PremessaDurante la guerra di successione al trono di Spa-

gna (1701-1713) nel 1703 le operazioni militari coin-volsero gran parte del Trentino occidentale. Le trup-pe dall’esercito francese e spagnolo, al comando del duca di Vendôme raggiunsero Trento e lo bombarda-rono. Improvvisamente alla metà di settembre abban-donarono l’assedio della città per raggiungere Riva del Garda, nella ritirata moltissimi villaggi e castel-li della Valle dei Laghi furono messi a ferro e fuoco.1

A riguardo di questi fatti d’arme è rimasto nel Basso Sarca, oltre ai castelli diroccati, un grande quadro, ora al Museo Civico di Riva del Garda, che ricorda la partenza dell’esercito francospagnolo dal porto di Riva, dove sono dipinte un’infinità d’imbar-cazioni, brulicanti di militare dalle divise dai colo-ri sgargianti2.

Anche tra gli ex-voto del Santuario Madonna del-le Corona di Spiazzi di Verona vi è una piccola tela che ricordo un combattimento a fuoco che per le uni-formi dei militari è avvenuto al tempo di Vendôme.

In questa breve relazione si vuole evidenziare che nell’ex-voto di Spiazzi vi sono dei soldati fran-cesi o spagnoli con uniformi non presenti nel gran-de quadro di Riva del Garda.

1 Ancora nel 1707 i sindaci delle Comunità di Sopramonte, Cadine, Vigolo, Baselga, Terlago e Calavino chiedevano, ai deputati della Provincia Tirole-se, il risarcimento e ristoro dell’incendio Gallispanico (l’esercito comanda-to dal maresciallo Vendôme). Castelli di Castel Terlago 1932, p. 69.

2 Il quadro, di autore ignoto, misura cm 174 x 275. L’opera fino al 2003 si trovava al Museo Provinciale d’Arte del Castello del Buonconsiglio (Tren-to). Dopo le manifestazioni nel tricentenario della partenza di Vendôme da Riva (1703-2003) è esposta al Museo Civico di Riva del Garda.

L’ex voto di SpiazziCatalogazione della tela da parte di Franco Se-

gala autore del libro “Mater Dolorosa”. Le Tavolette ex – voto del santuario Madonna della Corona di Spiaz-zi (Verona). secoli XVI-XX. Repertorio.

Titolo. Truppe contro uomini asserragliati in casa.Descrizione. L’episodio narrato nel quadretto è com-plesso. Un gruppo di soldati, circa venti, assedia una casa (convento?) e avanzano su una scala per salire al piano superiore da dove, da una terrazza, degli uomini asserragliati e armati con cannoncini e ar-chibugi, tentano di difendersi (sono circa una deci-na). Alcune guardie del drappello di assalitori sono a terra morte; un ufficiale sta cadendo. Da un balco-ne una donna implora l’aiuto del cielo ed ecco che sulla destra, appare la B.V. della Corona, con S. An-tonio di Padova, ad intercedere e ottenere la grazia della liberazione. Maria SS. ma ha sul petto la Cro-ce a otto punte dei Cavalieri di Malta. La visione è aureolata e nimbata. La composizione si presenta curata nei particolari e di buona fattura. Stato di conservazione: restaurato. Olio su tela cm 37x46. Sec. XVIII. Autore ignoto. Scritta: XVIII, (sul retro).

Analogie su uniformi col quadro di Riva del Garda Nella tela che ricorda la partenza del marescial-

lo Vendôme dal porto di Riva (settembre 1703), so-no dipinte con dei colori molto accessi le uniformi rosse, azzurre e bianche dei soldati francesi.

Le casacche rosse e azzurre riguardavano unifor-

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R I C E R C A

mi di corpi speciali. Il rosso era prerogativa dei reg-gimenti svizzeri di Quercy e della gendarmeria e l’az-zurro violaceo o “blu di Francia”, apparteneva ai reg-gimenti chiamati “reali” essendo posti al comando dei membri della casa reale come il duca di Vendôme3. In-vece il bianco latteo potrebbe rappresentare il grigio chiaro della fanteria d’ordinanza. In questo modo vie-ne a mancare totalmente il colore grigio della restan-te fanteria che indossava un abito fornito dall’Inten-denza dello Stato, e la distinzione fra i diversi reggi-menti era data dal colore della fodera dei paramano, da quello delle brache e calze (Turrini 2003).

Non si può escludere che la mancanza di uniformi grigie sia stata volutamente tralasciata dal pittore per il tono troppo basso della tinta in rapporto del ros-so, azzurro violaceo e bianco colori che sono distri-buiti con perizia oltre che sulle divise su tutto il qua-dro (bandiere, vele, case, acque e cielo). Un’altra ipo-tesi potrebbe essere che il pittore, non essendo pre-sente agli avvenimenti, sia stato mal informato da chi ha visto in prima persona la partenza dei soldati di Vendôme, esagerando sugli effettivi contingenti dei reggimenti svizzeri, reali e nazionali mettendo nel di-menticatoio quelli con le uniformi meno appariscenti4.

Mentre nell’ex-voto della Madonna della Coro-

3 Il nonno del duca di Vendôme era César di Borbone (1594-1665) figlio natu-rale del re di Francia Enrico IV (1553-1610) e Gabrielle d’Esttrées, legittima-to nel 1595 e a 4 anni ricevette il ducato di Vendôme (1598). Suo padre, Lu-igi di Borbone duca di Vendôme (1612-1669), sposò nel 1651 Laura Mancini Vittoria, nipote del cardinal Mazzarino, dal matrimonio nacquero due figli, Louis Josef, il maresciallo di Francia, (1654-1714) e Filippo, detto il priore, (1655-1727). Per tanto il gran duca di Vendôme, maresciallo in capo dell’e-sercito francese, era cugino di 2° grado del re di Francia Luigi IV (1638-1715).

4 Tra la gente comune, accade di sovente che dopo pochissimo tempo, la memoria sulle uniformi diventi sempre più labile confondendo distintivi, gradi e colori dei vari corpi di appartenenza. Ad esempio ai giorni nostri per molte persone l’esercito tedesco, la Wehrmacht, era formato solo dal-le unità combattenti della SS (Schutzstaffel).

na, benché la stampa in mio possesso sia di quali-tà assai scadente, si riconoscono perfettamente le uniformi dei militari francesi di colore grigio, che non sono rappresentate nella grande opera rivana.

In questo caso la truppa indossa delle sopravesti dalle ampie tasche con falde larghe che raggiungo-no le ginocchia, la testa è coperta da tricorno gal-lonato. Si nota che i paramani di alcuni fanti sono rosa scuri, colori che determinavano il reggimento di appartenenza5. Probabilmente la squadra era for-mata da due reggimenti diversi perché le calze dei militari sono sia rosse che grigie6. L’equipaggiamen-to dei soldati, oltre ai lunghi fucili di fanteria, sono forniti di cintura a sostegno della e spada diritta te-nuta sul fianco sinistro e di cinturone ad armacollo7.

Il manipolo ha una forza di circa diciotto uomini comandati da tre ufficiali. Sono riconoscibili dalla re-stante truppa, per la mancanza di fucile, per l’unifor-me rossa bordata da galloni dorati, per la fascia an-nodata alla vita e per il tricorno piumato di bianco8.

Il fatto d’armi si svolge all’interno di un androne, costruito in parte sulla roccia, potrebbe trattarsi di una stazione daziale esistente nei primi anni del 1700 in un punto imprecisato forse della valle dell’Adige9.

I francesi con la perdita di due uomini hanno oc-cupato il cortile. Raggiunto il primo obiettivo, si sono disposti contro le pareti dell’androne. Il fuoco dall’al-to proviene da due lati, un ufficiale incurante del pe-ricolo sale le scale a balzi, non riesce neppure ad ar-rivare a metà della scalinata che cade fulminato dal

5 Il primo a sinistra e quello in centro che sta sparando.6 Tutta la fila di sinistra porta le calze rosse, mentre il caduto in primo pia-

no le ha grigie come il soldato di destra.7 Si vede molto bene nel primo fante di destra. Nel quadro di Vendôme tut-

ti i militare hanno il cinturone ad armacollo e spada. 8 Le uniformi sono le stesse degli ufficiali rappresentati più volte nella gran-

de tela di Vendôme.9 Nel XVIII secolo, stazioni daziali poste a controllo di strade si trovavano sia

nel Trentino sia nel Veneto. Nel Trentino, sul Codice Brandis, in un disegno dei primi decenni del XVII secolo, è riprodotta la Rocchetta e il suo Dazio. Il fabbricato daziale presenta un doppio portone sotto il quale transitava la stradale tra la val di Non e la valle dell’Adige, PASQUALI, CARLI 2006, pp.68-69, Fig. 30-31. Nel Veneto in provincia di Vicenza, nel Canale di Brenta, tra Cismon e Primolano, sulla sinistra idrografica del fiume, a quaranta metri d’altezza rispetto al piano stradale, vi è la fortezza, del Covelo (grotta) di Butistone. Il Covelo aveva nella sottostante strada un edificio daziale for-tificato, con doppio portone di sbarramento, Dazio che rimase in funzio-ne per moltissimi secoli, WASSERMANN, VANIN, OCCHI, 1992.

Fig. 1 Ex-voto del Santuario della Madonna della Corona di Spiazzi.

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piombo nemico. Gli assediati sono armati an-che di artiglieria leggera che probabilmente caricata a mitraglia fa desistere i francesi nel proseguire l’assalto. L’ex-voto narra un avve-nimento avvenuto forse a confine tra la ter-ra trentina e quella veronese10.

BibliografiaAA. VV. Enciclopedia Universale Rizzoli La-

rousse, Vol. IX. Milano 1966.Bressan L., L’invasione del Trentino nel 1703.

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10 La precisione, nel dettaglio delle divise dei soldati e ufficiali francesi fa pen-sare che il pittore sia un contemporaneo dei fatti d’arme del 1703.

Rocchetta, il Castello di San Pietro, Pergine Valsu-gana 2006, pp. 67-78.

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Fig. 2 – Quadro di Vendôme. In primo piano sulle paranze militari in uni-formi rosse, bianche e azzurre violaceo. Si distinguono gli ufficiali per la sciarpa alla vita.

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Sono molto affezionata al monte Casale. Rappre-senta per me un punto di riferimento non solo perché ogni mattina di bel tempo vedo sorge-

re il sole dal suo profilo lungo e sereno, ma soprat-tutto perché le sue strade, i suoi sentieri, le sue al-ture sono le mete più familiari e più agevoli delle mie passeggiate. Conosco bene la cima Casale col panorama a tutto tondo e la vista sulla valle dei La-ghi e sul Basso Sarca, le praterie delle Quadre e dei Vendesi, la cima Grinzoline da dove, nelle giornate più limpide si può dominare il lago di Garda in tut-ta la sua estensione, protetto dal monte Baldo. Ho raggiunto spesso, salendo per il sentiero dei “pini neri” ed attraversando il “pra’ dei muci”, la cima del Brento e, vicino, il “Becco dell’aquila”, trampolino naturale dal quale non ho il coraggio di sporgermi e per questo ammiro l’audacia di chi riesce a lanciar-si. Oltre, sul versante ovest, ho calpestato con cau-tela e curiosità le rovine della fortezza longobarda (o dei Goti?) riportate alla luce sul monte Blestone e sulle quali la devozione della nostra gente ha co-struito la chiesa di S. Martino.

La bellezza del monte Casale sta nella sua varie-tà, nella multiforme pluralità dei suoi luoghi: sod-disfa chi ama le passeggiate tranquille e chi cerca tracce di storia remota e meno lontana, regala pa-norami mozzafiato, ma offre anche pareti vertica-li, ferrate impegnative e la possibilità di praticare sport estremi.

Il contrasto più affascinante si rivela nella sua morfologia, nella radicale differenza di configura-zione tra il versante ovest ricco di boschi, prati, valli e quello est selvaggio, arido, a strapiombo per quasi mille metri e lungo tutto il Basso Sarca. Sem-

Una passeggiata al “Remitori” tra storia e leggenda

GABRIELLA MAINES

bra quasi che una frana colossale lo abbia spezzato in due, creando ai suoi piedi una grande conca ric-ca di laghi e di paesaggi pietrosi.

Eppure il Casale riserva un’ennesima sorpresa. Alla sua estremità nord, prima di toccare con le pareti a picco le acque del Sarca, ci mostra un pic-colo colle, il dosso di S.Giovanni, che ripresenta la doppia caratteristica di rocce verticali e di boschi ricchi di carpini, faggi e pini, questa volta però in uno spazio circoscritto ma certo non meno sugge-stivo. È anche chiamato “el Croz”, domina i tornan-ti che salgono dalle Sarche verso le Giudicarie e la sua connotazione peculiare è quella di ospitare sul-la sua sommità “ el Remitori ”.

Il luogo è allo stesso tempo familiare e miste-rioso poiché offre i paesaggi che ben conosciamo: la forra del Limarò a nord-est, la spianata delle Sar-che a sud, i monti del Dain piccolo di fronte e del

El Remitori.

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Bondone più lontano. Ma il nome stesso e le tracce rimaste ci rammentano la presenza dell’eremita, fi-gura rassicurante in quei secoli in cui la vita dei re-sidenti era povera e faticosa.

La visita ad un’area così caratteristica ci spinge a cercare qualche notizia in più sulla sua storia ed i suoi lontani abitanti.

Gli eremiti sono delle figure antiche, carismati-che, che incontriamo di frequente nel medioevo e che richiamano alla mente una vita di sofferenza e di rinuncia, in assoluta solitudine ed in luoghi par-ticolarmente impervi ed inospitali. Per molti si trat-tava di una scelta di vita, di una coraggiosa e soffer-ta ricerca di santità, ma in altri casi, e tra questi for-se c’è anche il nostro eremita del Casale, era proba-bilmente un incarico, un’opzione non del tutto vo-lontaria. Nel caso specifico il compito dell’eremita era quello di sorvegliare e curare la manutenzione della chiesetta di S.Giovanni nel periodo più mite dell’anno, mentre nei mesi freddi poteva tornare al-la pieve di Calavino, alla cui giurisdizione apparte-neva il romitorio.

La storiaAbbiamo lontane testimonianze dell’esistenza di

una chiesetta dedicata a S.Giovanni Battista e del-la presenza di uno o più eremiti. La dedica a que-

sto santo appare particolarmente intonata ai luoghi ed al paesaggio: la presenza di un fiume, l’ostilità dell’ambiente che non è un deserto, ma che può al-lo stesso modo essere ostile, sfavorevole.

La prima data certa appare nei documenti che ri-guardano le controversie tra “vicinie” confinanti. An-che il monte Casale era in gran parte una proprietà comune indivisibile, gestita ed a disposizione dei “vicini” delle rispettive ville. Ed il Croz di S.Giovanni è proprio il luogo dove, in passato, s’incontravano e si scontravano le proprietà e gli interessi dei re-sidenti del comune di Comano e delle comunità di Calavino, Lasino, Madruzzo sovente unite nella di-fesa del proprio territorio.

La storia delle vertenze e degli accordi tra le due popolazioni ha radici antiche, a conferma del fatto che la campagna, i boschi ed i pascoli erano un bene irrinunciabile per la vita degli abitanti e che il diritto

La fontanella.

Entrata al Bus del Castrin.

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su questa terra fosse rivendicato con forza e tenacia.Le notizie che seguono sono prese dall’appas-

sionato libro di Felice e Luigi Bressan “Il Romitorio del Casale” che presenta una ricerca accurata e te-stimonianze storiche circostanziate.

Il più antico documento conosciuto sulla divisio-ne del monte Casale risale al 10 ottobre 1344. Si trat-ta di un contratto di vendita, firmato a S.Massenza dalle comunità di Calavino, Lasino e Madruzzo e da quella di Comano, la quale versò duecento “lire di denari piccoli” per avere la sezione di monte che guarda verso la Valle dei Laghi, parte che, con qual-che variante, ancora oggi possiede.

Alla Pieve di Calavino rimase la decima anche sul-la parte venduta e a tutti il diritto di rifugiarsi e di condurvi il bestiame in caso di guerra e di usare il le-gname necessario per la chiesa di S.Giovanni Battista.

Se ne deduce che nel 1344 esisteva già la cap-pella di cui oggi non resta traccia o, se ancora ri-mangono dei ruderi, sono di difficile individuazione.

Lungo i secoli le questioni dei confini produs-sero ancora contrasti e vertenze. In un documen-to del 1410 che risolve una disputa tra gli abitan-ti di Comano e quelli di Godenzo, si nomina anco-ra la “chiesa di S.Giovanni sul monte”.

Di nuovo i confini tra la villa di Comano e quelle di Calavino, Lasino e Madruzzo furono i protagoni-sti di una riunione solenne che si tenne l’11 ottobre

1533 sul “dosso del monte di Casale sopra la Sarca, ap-presso la chiesa di S.Giovanni” tra le parti interessate, con la partecipazione dell’arciprete di Calavino e dei rappresentanti del Principe Vescovo. L’incontro ser-vì a precisare i confini, sui quali si decise di porre sei cippi di cui si definirono forme, dimensioni e scritte.

“Quali tutti sei termini dividano e devano dividere il detto monte di Casale intra dette parti, talmente che la parte di sopra verso Comaio sia et esser deva libera e spedita di quelli di Comaio, e la giudichiamo di quel-li di Comaio. E la parte inferiore da detti termimi sia, et esser deva libera e spedita d’essi di Calavino, Madruz-zo et Lasino.”

Dei sei cippi ne rimane ancora uno: da un lato è chiara la scritta “Commune Calavini, Lasini et Ma-druti MDXXXIII”; sul lato opposto è indicato “Co-mano” e su uno dei lati minori sono incise una cro-ce e la data 1533.

El Bus de la Vecia.

El Bus de la Vecia.

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Fu deciso inoltre che gli abitanti di Comano po-tessero usare la parte del bosco dei Calavini per il pascolo e che potessero transitarvi per accedere al proprio bosco. Alla comunità di Calavino venne con-fermato il diritto di servirsi del legname per l’even-tuale restauro della chiesetta di S.Giovanni Battista, mentre alla Pieve di Calavino fu confermato il dirit-to di decima anche sulla parte di Comano.

I secoli successivi videro altri scontri e contro-versie, la più importante delle quali fu la vertenza tra la vicinia di Comano e la Mensa vescovile negli anni 1779-1782.

La causa di queste forti divergenze trovò origi-ne nel notevole aumento della popolazione delle Sarche, favorito dalla costruzione degli argini lun-go il fiume (1763-1771) che permisero finalmen-te di lavorare la piana senza più la preoccupazione di inondazioni. Con il numero degli abitanti creb-be anche la necessità di legna per scaldarsi, per co-struire le case e per il lavoro dei campi, oltre che del fogliame e di pascoli per il bestiame. La gente si recava sempre più spesso sul Casale ed invadeva la zona di Comano.

La contesa fu lunga e non si risolse positivamen-te per la vicinia di Comano, con molta probabilità per il fatto che l’avversario non era più un’altra co-munità, ma la Mensa del Vescovo. Ed il Vescovo era anche il principe del Trentino.

Comano, infatti, dovette cedere un decimo del monte Casale in proprietà alla Mensa vescovile. E’ questa l’origine dei possedimenti vescovili sul mon-te, che si ingrandirono successivamente dopo l’ac-quisto del Limarò da Comano e del “remitori” dagli eredi Pisoni.1

Questo breve excursus storico sulle vicende di Comano e delle comunità della Valle dei Laghi ci ser-ve per focalizzare due aspetti. Innanzi tutto notia-mo la forza giuridica delle Vicinie ed il valore con-creto dei regolamenti e delle consuetudini nell’uso e nella conservazione dei beni comuni. In secon-do luogo, e questo è funzionale alla nostra ricerca, vi troviamo la testimonianza dell’esistenza della chiesa di S.Giovanni sul monte Casale fin dal 1344.

La leggendaMa non c’è solo la storia con i suoi documenti

a parlare dei contrasti tra gli abitanti di Comano e quelli di Calavino-Lasino-Madruzzo. La tradizione ci ha lasciato, infatti, anche diverse leggende che spie-gano, a modo loro, l’origine della suddivisione delle terre del monte Casale rivolte alla piana del Sarca.2

Nel XIV secolo viveva a Castelcampo un giova-ne conte di nome Graziadeo, innamorato di Gine-vra di Stenico, la quale come succede spesso ama-va invece, ricambiata, Aliprando di castel Toblino. Dopo alterne vicende, non trovando altre soluzioni che gli permettessero di conquistare l’amata, Gra-ziadeo uccise Aliprando con una pugnalata al pet-to, lungo la strada del Casale che dalle Sarche por-tava a Stenico. Da allora quel tragico luogo fu chia-mato “Passo della morte”.

Il triste fatto di sangue non causò solo l’infeli-cità di Ginevra ed il tormentato rimorso di Grazia-deo, ma anche la storica rivalità fra i Castelcampo ed i Toblino.

Poiché “i sindaci di Calavino, Lasino e Madruzzo rifiutarono di inviare i loro uomini a seppellire il cadave-

1 Felice e Luigi Bressan - Il Romitorio del Casale - Pro Loco delle Sarche 1988

2 Mauro Neri, Mille leggende del Trentino vol. II – Casa Editrice Panorama – Trento 1997

La piana del Sarca dal Remitori.

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re di Aliprando, vennero quelli di Comano e lo portaro-no giù alla chiesetta dell’eremo di S.Giovanni Battista. Reclamarono poi il possesso di quella parte del Casale; Calavino protestò dicendo che Comano doveva avere so-lo la parte verso il Bleggio. Ma un celebre giurista mo-strò una regola: un terreno apparteneva a chi era auto-rizzato a seppellirvi un morto: quindi il monte Casale, dal passo della Morte fino alla cappella di S.Giovanni spettava al comune di Comano. Calavino riuscì a salva-re per sé soltanto la cappella e il resto del monte; chie-se però ed ottenne che potesse continuare a tagliare la legna necessaria al mantenimento dell’edificio sacro.”3

La leggenda non finisce qui. Graziadeo, infatti, preparò il rapimento di Ginevra che, da parte sua, non accettò assolutamente le attenzioni del signo-rotto, rimpiangendo invece la morte dell’amato. Al conte di Castelcampo rimasero il rimorso e la follia che né la prigione, né l’intervento dell’eremita riu-scirono a mitigare.

La visitaLa visita al Remitori dura circa un paio di ore. È

una passeggiata tranquilla, ma può regalare molta soddisfazione perché ogni passo offre la scoperta di luoghi, paesaggi, spiragli nuovi.

3 Felice e Luigi Bressan, cit.

È bello raggiungerlo scendendo dal Casale lungo la strada zigzagante chiamata “strada vecia” o “strada reale”, attraversando il “passo della morte”, percorso antico ed obbligato fino alla prima metà del 1800 per chi volesse raggiungere Trento dalle Giudicarie. Oppure, se qualcuno desiderasse fare le cose un po’ più in grande, può partire dal sentiero Sat 427 che inizia dal ponte del Gobo tra le Sarche e Pietramu-rata e, dopo aver costeggiato la riva destra del Sar-ca lungo la strada vecchia sotto le pareti verticali del Casale/Dain, sale a sinistra dei tornanti e s’arram-pica sopra la prima galleria del Limarò. O ancora, più comodamente, può mettersi in cammino pren-dendo da uno dei tornanti la strada vecchia scava-ta nella roccia che, salendo verso il Limarò, abbrac-cia con il suo tracciato “el croz de S.Giovani” fino a raggiungere la cima da dietro. Chi invece non vuo-le fare troppa strada, può servirsi del veloce sentie-ro Sat 427b che parte a lato della galleria Motte ed in poco tempo, attraversando il bosco che incorni-cia il tunnel, giunge alla nostra meta.

Stavolta scegliamo di raggiungere il romitorio da “sotto el croz” , dove parcheggiano gli appassiona-ti dell’arrampicata che decidono di fare un po’ d’al-lenamento sulle pareti che costeggiano la vecchia strada del Limarò, oppure vogliono osservare i col-leghi più esperti che, al di là del Sarca, scalano le pareti strapiombanti del Dain piccolo, proprio co-me era successo nel settembre del 1958 quando Ce-sare Maestri volle conquistare il costone liscio che cade perpendicolare sul Sarca.

L’asfalto della strada vecchia è ormai pieno di er-bacce, in alcune fessure sono addirittura cresciuti degli alberi ed il muretto che protegge verso il Sar-ca è privo in gran parte delle pietre squadrate che formavano il parapetto. In ogni caso è bello spor-gersi ogni tanto verso il fiume per ammirare la go-la che si apre sotto di noi e per renderci conto che non serve andare molto lontano per poter godere di prospettive suggestive ed emozionanti.

Dopo poche centinaia di metri, sulla sinistra, in-contriamo una spaccatura verticale nella roccia, ai piedi della quale sono franati alcuni massi. Chissà,

Vista sul Sarca.

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forse ci troviamo di fronte al “ bus del Castrin”, rifu-gio di un abitante di Lasino che per sfuggire all’ar-ruolamento durante la seconda guerra mondiale, si nascondeva tra queste rocce. A dire il vero, però, la sua fama tra la gente del posto non era quella del di-sertore, ma di un provvidenziale Robin Hood che aiu-tava i poveri offrendo loro ciò che riusciva a rubare ai ricchi. Alcuni anziani raccontano ancora che il suo soccorso fu talvolta prezioso per dare temporaneo sollievo ai gravi problemi di miseria di quegli anni.

Certo, oltre che un ladro abile e generoso, do-veva essere anche un esperto montanaro poiché le spaccature di queste rocce e la loro friabilità costi-tuiscono, oggi come allora, un pericolo da non sot-tovalutare.

Il rifugio del Castrin si raggiunge salendo con un po’ di attenzione su alcuni massi probabilmente

franati. Il cunicolo è percorribile per un certo trat-to, nonostante a terra numerosi sassi e cespugli spi-nosi ostacolino il passaggio e si presenta come un ambiente abbastanza largo che si restringe progres-sivamente verso l’alto, da dove si intravede il cie-lo. Può darsi che la copertura sia crollata, oppure che il Castrin avesse costruito una tettoia con tron-chi e ramaglie. Più avanti la galleria diventa stretta fino ad incunearsi tra due pareti anguste, si fa buia mentre il suolo accidentato scende verso il basso e probabilmente porta a qualche altra caverna. Sotto ai piedi ci sono altre fenditure molto profonde: se si lasciano cadere dei sassi, infatti, il loro rumore continua per qualche secondo ed il tonfo finale arri-va dopo un lungo percorso. La mancanza di luce ed anche di coraggio, mette fine alla nostra avventura.

Il Castrin probabilmente vi accedeva dai prati so-prastanti, forse si serviva di una scala che, una vol-ta raggiunto il rifugio, nascondeva per poi riutiliz-zarla al momento dell’uscita, quando il pericolo era ormai passato.

Nell’immaginario dei bambini, ma a volte anche degli adulti, le caverne e le grotte richiamano sem-pre storie di nascondigli segreti, di fughe rocambole-sche, di streghe cattive o di eroi ingiustamente per-seguitati. Anche la figura del Castrin soddisfa que-sto desiderio di avventura e di riscatto.

Oltre “el bus del Castrin”, la strada disegna una curva a sinistra. Proprio sul gomito della svolta, a destra, si presenta un’altra spaccatura, ma stavolta verso il basso, un dirupo chiamato “el bus de la ve-cia” , forse, in questo caso, non richiamando una sto-ria vera, ma la leggenda di qualche strega o di qual-che vecchia cattiva simile a quelle che si racconta-vano ai bambini per tenerli buoni o per stupirli du-rante i filò di una volta.

Il precipizio che si intravede sporgendosi con attenzione sul ciglio della strada, dovrebbe arri-vare fino alle acque del Sarca, poiché sino agli an-ni ’70 questo comodo e capace buco era usato co-me discarica e non si riempiva mai. Chissà quali e quante immondizie stanno ancora marcendo sot-to i nostri piedi.Vista sulle Sarche dal Bus del Castrin.

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R I C E R C A

Tutte queste fratture delle rocce sono dovute probabilmente ad un unico antichissimo smotta-mento o ad un terremoto intenso che modificò ra-dicalmente l’assetto morfologico della zona. Gli stra-ti rocciosi verticali al di qua del Sarca e quelli oriz-zontali della parete al di là del fiume fanno pensare ad una forza possente cha ha compresso e poi ro-vesciato le nostre montagne.

E questo è un altro pensiero che la breve pas-seggiata ci ispira, mentre ascoltiamo il rumore del sasso lanciato nel bus de la vecia che, battendo da una parete all’altra, ci rimanda parecchi tonfi prima di fermarsi chissà dove.

Superata la curva, il paesaggio si trasforma ed appaiono gli alberi, il bosco ed il versante del Ca-sale a protezione. La strada si arricchisce di sentie-ri ed uno a sinistra, particolarmente levigato e li-scio grazie all’azione dei ghiacciai e dell’acqua (non a caso chiamato sentiero delle Laste), ci porta ver-so l’eremo.

Poco più avanti, dopo aver superato due pareti rocciose perfettamente parallele e liscie che, colle-gate tra loro con due muretti e coperte da un pic-colo tetto, avrebbero potuto servire benissimo da rifugio o da magazzino, si raggiunge finalmente il romitorio. A sinistra la vista è catturata dal pae-saggio che si apre sulla piana delle Sarche, mentre a destra quella che fu la casa dell’eremita, ora re-staurata e simile a molte case di montagna, ci of-fre solo una targa cementata sulla parete sud, so-pra alle due finestre. Su di essa sono incise le let-tere B.P.M. e sotto R 1784. Le iniziali e la data non si riferiscono certamente ad un eremita la cui filo-sofia e stile di vita non avrebbero consentito di la-sciare traccia del proprio nome e della propria sto-ria. Sono invece le iniziali del contadino che ave-va acquistato la zona per coltivarla, trasformando il remitori in casa di abitazione per la sua famiglia. Prati e boschi circondano ora la costruzione e la vegetazione copre quelli che un tempo erano gli orti ed i campi coltivati. Non troviamo ovviamen-te alcun segno della chiesetta di S.Giovanni, ma la sua presenza è nell’aria e nel paesaggio. Dietro

alla casa, percorrendo un sentiero ripido, si può scendere verso la fontanella, piccola vasca scavata nella terra e circondata su tre lati da un muretto a secco. La fonte, nascosta tra l’ombra delle piante ed illuminata dalla luce che filtra tra i rami, è mol-to romantica, anche se l’acqua è stagnante e tutto il circondario è stato ripulito e sfoltito in manie-ra troppo drastica.

Dalla fontanella, in due passi, si raggiunge il sen-tiero Sat che riporta alle gallerie oppure la strada delle Laste che ripercorre a ritroso il percorso che abbiamo fatto all’andata.

Ancora un po’ di storiaAnche se la passeggiata è finita, rimangono

però vive le domande e le curiosità che essa ci ha risvegliato. Ancora una volta il libro di Lui-gi Bressan ci viene in aiuto. Esistono, infatti, nu-merosi documenti che testimoniano la presenza della chiesa di S.Giovanni Battista e dell’eremo, a partire da quello già menzionato del 1344. Es-si ci permettono di scoprire che lungo i secoli si alternarono per queste costruzioni periodi di cu-ra e di presenza dell’eremita a periodi di deca-denza e di abbandono.

La Pieve di Calavino, a cui la chiesetta apparte-neva, si interessava e si informava spesso delle at-tività e delle proprietà dell’eremo e dava ordine di fare degli inventari dei beni posseduti, e non man-cavano le visite pastorali ordinate dal vescovo di Trento e documentate negli “atti visitali”.

Nell’ottobre del 1580, ad esempio, i delega-ti del Vescovo erano a Calavino per controllare ed informarsi di tutto ciò che accadeva nella Pie-ve. Essendo stato loro riferito dell’esistenza del-la cappella sul monte Casale, di quanto la popo-lazione ne fosse devota e dello stato di incuria in cui al momento versava, essi si recarono immedia-tamente sul posto.

“Noi dunque, eseguendo prontamente l’ordine ed il compito affidatoci, ci recammo là dove è situata e co-struita la cappella del Monte Casale su una rupe altissi-ma; e da quanto si può vedere, vi si scorgevano sopra la

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cappella vestigia e rovine di muri, che chiudevano quel-la rupe: secondo quanto si dice, esisteva lì un eremo an-tico. La cappella è dedicata a S.Giovanni Battista. La vi-sitammo e la esaminammo attentamente: risulta essere in piena rovina e decadenza, anzi il tetto era già cadu-to, la porta era rotta, l’altare, una volta consacrato, ap-pariva profanato e le reliquie postevi erano state portate via; vi è tuttavia un arco, ossia come dicono, una “trui-na” sopra l’altare; anch’esso però minaccia di cadere, se non si ripara presto. Sopra questo vi è una bella pittu-ra, quantunque inizi a sbiadirsi a causa delle pioggie e dei venti a cui è esposta. Presso la cappella vi sono inol-tre le pareti di una casetta.”4

In quel periodo dunque l’eremita non è presen-te e tutto è in totale abbandono. Però veniamo a sa-pere che la chiesetta era dotata di un arco nell’ab-side e di un affresco che appare ancora leggibile e pregevole nonostante lo stato di incuria.

Un secolo dopo (maggio 1673), tuttavia, du-rante un’altra visita pastorale, le cose appaiono molto diverse. In quel periodo l’eremita è pre-sente sul dosso, si chiama Tomaso Prati, è lì dal 1666 ed i rappresentanti del vescovo lo sotto-pongono ad un interrogatorio per verificare se il suo operato e la sua condotta siano pertinenti al ruolo che riveste.

Grazie alle risposte possiamo farci un’idea della vita e delle condizioni di sussistenza di un religioso, incaricato di sorvegliare e di mantenere efficiente una struttura sacra. Veniamo a sapere che apparte-neva all’ordine dei francescani senza però aver fat-to alcuna professione, che aveva scelto quella vita per aver salva l’anima e per ringraziare Dio di aver-lo liberato da alcune malattie.

Tomaso Prati dice di rimanere nell’eremo del Ca-sale la terza o quarta parte dell’anno e di vivere ne-gli altri mesi presso la pieve di Calavino, dove eser-cita la professione di fabbro ferraio.

Quando sta nell’eremo, di festa assiste alla Mes-sa mentre nei giorni feriali recita le orazioni sia di giorno che di notte, lavora un campicello, si occupa

4 Felice e Luigi Bressan, cit.

della riparazione della chiesa e la tiene pulita. Per il suo sostentamento ricorre alla questua nei villag-gi delle Giudicarie, ma soprattutto utilizza le risor-se del suo patrimonio.

Pare che queste risposte non lasciassero soddi-sfatti i prelati e che essi dettassero ulteriori regole cui il religioso avrebbe dovuto attenersi.

Gli eremiti si succedettero fino alla fine del 1600. Una visita pastorale successiva (1723) non parla più della chiesetta di S.Giovanni, per questo si pensa che possa essere stata distrutta nel 1703 dalle truppe del generale Vendôme, così come successe a nume-rosi villaggi del Trentino occidentale.

Nel corso del XVIII secolo la parrocchia di Cala-vino vendette l’eremo, o ciò che restava di esso, a Giancarlo Pisoni. Nel 1784 (come ci ricorda la targa murata nella parete sud) la casa fu ricostruita e la sua funzione divenne quella di abitazione con an-nessa stalla.

Ai giorni nostri non rimane più nulla della cappella di S.Giovanni Battista. Forse tra la ve-getazione o frammisti ai resti di altre costruzio-ni, possono esserci ancora dei ruderi, ma solo una ricerca approfondita e competente potrà da-re una risposta.

A noi però non dispiace questo alone di miste-ro e di incertezza, poiché assieme alla memoria do-cumentata di quello che fu, rimane forte il fascino dell’ambiente circostante.

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sa Editrice Panorama Trento 1997

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P E R S O N E

GRAZIANO RIccADONNA

L’arte di fra Silvio BottesCompie 90 anni lo scultore francescano

Compirà a breve i suoi magnifici 90 anni fra’ Silvio Bottes, il francescano della Madonna delle Grazie noto per la sua arte di scultore

nonché per la sua longeva attività, oltre 70 anni di attività artistica: il prossimo 10 marzo.

Da sempre attivo presso il convento francesca-no delle Grazie di Arco, fra’ Silvio è nato a Brusino il 10 marzo 1921. Da un quinquennio è ospite del convento di San Bernardino a Trento, ma è cono-sciutissimo per la sua vasta opera scultorea.

In occasione dei suoi 80 anni, quindi dieci anni fa, fu allestita la prima mostra monografica della sua poliedrica opera a Palazzo Trentini a Trento, con va-sto consenso di pubblico e di critica. Un giusto rico-noscimento per l’arte di fra’ Silvio, come prosegui-mento ideale della monografica fatta l’anno prima alla Casa degli Artisti di Canale, e una nuova occa-sione per valutare la poliedricità dell’autore. Infat-ti, come ammette lo stesso fra’ Silvio, la sua produ-zione scultorea è davvero sterminata: cinquecento

opere monumentali, oltre un migliaio di opere “mi-nori” come bassorilievi o busti, una diffusione delle opere a macchia di leopardo, più intensa nel Tren-tino ma allargata all’intero Nord-est, con una pun-ta in America: tutto questo in 70 anni di attività de-dicata all’ideale michelangiolesco del “trarre fuori dalla viva pietra l’idea viva...”

Da sempre residente alle Grazie di Arco, alme-no fino a un quinquennio fa, la seconda occasione d’incontro con il pubblico era di nuovo risultata un fatto unico, in quanto fra’ Silvio non aveva mai per-messo che qualcuno esponesse sue opere in mostra, ritenendolo un fatto assolutamente inutile e frivolo: solamente in occasione dei suoi sessanta anni di at-tività, che poi coincidono con gli 80 anni di vita, ha Brusino.

Fra’ Silvio con Renato Ischia.

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permesso agli amici di organizzare una mostra. Co-sa assolutamente non facile, dato che le opere sono sparse in una miriade di centri e istituzioni. Lo spar-pagliamento delle opere è poi aggravato dal fatto che l’autore quasi mai ha segnato data, committen-za e località: “Abbiamo rincorso il tempo a ritroso,

per riuscire a venire a capo della poliedrica attivi-tà di fra Silvio...”, diceva lo scultore Renato Ischia, curatore della mostra nonché allievo. Dire fra’ Sil-vio (inutile il Bottes, perché in questo caso il nome d’arte vale molto più del cognome) vuol dire scultu-ra e convento delle Grazie: per oltre mezzo secolo le sorti del santuario sono state legate a quelle di fra’ Silvio. Per citare solo le opere più note, sono il portale delle Grazie di Arco unitamente alle formel-le laterali e superiori della facciata, il monumento al “moleta” di Pinzolo e quello ai caduti di Mezzo-lombardo, opere che sicuramente varcano i confi-ni provinciali ma anche la temporalità dell’evento.

Un’arte essenziale la sua, tesa a costruire la figu-ra o l’evento con masse solide essenziali ma signifi-cative, senza fronzoli o inutili orpelli. Un’arte che si avvicina ai classici della scultura, senza lasciar per-dere la lezione dei moderni, cui fra’ Silvio si ritie-ne molto legato.

“Cosa vuole, la passione per l’arte viene prima della vocazione : naturalmente in ordine di tempo”, commenta fra’ Silvio mentre parla della sua vita. E mentre ci spiega la sua vocazione a 18 anni, paral-lela alla vocazione artistica, la prima scuola torine-se Rebaudengo, il noviziato a Campo Lomaso dove apprende i primi “rudimenti” dell’arte plastica com-ponendo le statue di S.Bernardino e S.Pasquale, e la scuola d’arte a Milano, il Beato Angelico.

Impossibile fare un bilancio della sua ormai set-tantennale attività “Sono per natura contrario ai bi-lanci. Se qualche cosa ho seminato, spero che qual-cuno raccolga i frutti!”, si schermisce fra’ Silvio, pen-sando alle innumerevoli opere mai catalogate, in quanto per lui “l’opera parla da sola, se vale. Altri-menti, meglio non citarla nemmeno...”. La storia di fra’ Silvio è una storia semplice, così come è sem-plice l’uomo che ha scelto di farsi frate in età non giovanissima, già contadino e cacciatore, ma frate “minore” alla lettera, senza studi teologali.

La produzione scultorea di fra’ Silvio è davvero sterminata. Si tratta di oltre cinquecento opere mo-numentali accanto a un migliaio di opere “minori” come bassorilievi, busti, ritratti, diffusi a macchia di

Altare al Convento di s. Bernardino (Trento).

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P E R S O N E

LA PRIMA VOLTA E LA SEMINALa vera prova del fuoco dell’arte di fra’ Silvio av-

viene alla metà degli anni Cinquanta, con il concor-so per le formelle del grande portale del Duomo di Milano, vinto dallo scultore Minguzzi.

Selezionato tra il grande numero di aderenti, fra’ Silvio partecipa alla mostra milanese insieme con i più prestigiosi nomi della scultura in Italia, tra cui Manzù e Messina.

Da allora non si contano le opere create dalla sua fantasia alla pari delle opere celebrative.

Sempre prevale in lui l’ideale di un’arte sculto-rea improntata alla robustezza e alla solidità, unite alla ricerca espressiva di un atteggiamento vigoro-so e incisivo da imprimere al soggetto, sia esso un Cristo oppure un soldato ferito, una Madonna o un San Francesco o un altro santo. C’è una tensione forte verso l’umanizzazione del sacro, interpretato come modo d’essere dell’uomo cò nelle sue debo-lezze e sentimenti. Il dolore della morte si mostra apertamente anche attraverso le forme ieratiche e quasi rattenute della statuaria.

A volte si tratta di una scultura improntata a grandiosa solennità, alla maniera michelangiolesca di opere come la Madonna di Pregasina oppure ad espressiva condivisione nei numerosi frate France-sco della sua carriera. Accanto alla forza di fra’ Sil-vio imprime alle sue opere un’idea di forte ma com-posto sentimento umano, in una ricerca incessante sempre tesa alla ricerca del bello.

leopardo, più intensa nel Trentino ma allargata all’in-tero Nord-est italiano con punte anche in America: tutto questo in settanta anni di attività dedicati all’i-deale del “trarre fuori dalla viva pietra l’idea viva…”

Si tratta dei numerosi monumenti ai caduti, i san-ti Francesco e Chiara, le vie Crucis (esemplare quel-la di Chiampo), i monumenti funebri sparsi in nu-merosi centri, i filosofi Rosmini, soprattutto le for-melle di portali di chiese, monumentio celebrativi pubblici ma anche privati, insomma tutto un mon-do culturale sia religioso che, più raramente laico, sempre improntato ad un sano realismo figurativo.

Di mostre personali però fra’ Silvio ne ha fatto proprio poche, anzi una soltanto: nel luglio 2000 la personale alla Casa degli Artisti di Canale di Ten-no. Per l’occasione era uscita anche l’unica mono-grafia di fra’ Silvio, dovuta alla penna e all’impegno del critico d’arte nonché docente presso l’Universi-tà di Trento, prof. Renato Troncon: “Fra’ Silvio Bottes: sculture 1943-2000”, edizioni Il Brennero-Der Bren-ner, Bolzano-Trento 2000.

Diana cacciatrice

La scalinata che porta alla croce di S. Croce di Bleggio, deco-rata con statue in bronzo, (1963).

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Via Crucis, Santuario Grotta di Lourdes beato Claudio Chiam-po VI, V stazione

Monumento ai Caduti, Cimitero di Trento, bronzo, h 4,50 m, metà anni ‘60

Via Crucis, Santuario Grotta di Lourdes beato Claudio Chiam-po VI, IV stazione

Monumento ai Caduti, Arco, bronzo, h 5 m, metà anni ‘70

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P E R S O N E

Durante la sua lunga carriera, fra’ Silvio ha avuto dei discepoli? Sicuramente uno, l’allievo prediletto arcense Renato Ischia, che proprio da luiha mutua-to i primi insegnamenti negli anni sessanta, prima di emigrare all’Accademia fiorentina e quindi all’in-tensa esperienza parigina.VERSO IL NOVANTESIMO

Per la sua multiforme produzione fra’ Silvio me-terebbe un’opera complessiva che documentasse la sua attività, alla stregua dell’unico catalogo di una sua mostra compilato a suo tempo dal critico d’arte prof. Renato Troncon (Università di Trento).

Un artista così poliedrico e fertile di iniziative, lon-gevo e lungimirante, sicuramente merita un’attenzione

San Francesco, nel Convento francescano di Trento. Fra’ Silvio al lavoro alle Grazie (2000).

MadonnaRegina Mundi,Pregasina, pietra, h 4,5 m,metà anni ‘50

particolare tanto più che finora un’antologica completa non è ancora stata fatta. Questo nonostante il succes-so che ha sempre arriso al francescano e l’attenzione che l’opinione pubblica ha sempre riservato alle opere.

Per questo concludendo facciamo un augurio. A tutti noi che abbiamo a cuore le sorti dell’arte trentina piacerebbe vedere un catalogo completo di fra’ Silvio, un’opera omnia capace di documen-tare questo effervescente e per certi aspetti poli-centrico artista.

S.Francesco e S.Chiara, refettorio S.Bernardino Trento.

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DI PAOLA LuchETTA E SILvIA cOMAI

Don Evaristo Bolognani:ricordo a 20 anni dalla morte

Don Evaristo Bolognani, don Varisto per i suoi paesani, nacque a Vigo Cavedine l’undici aprile 1903 da Enrico e Teresa, secondo di

sette figli. Era una famiglia profonde radici cristia-ne, ricca di una fede profonda fatta soprattutto di valori ed esempi. Dai suoi genitori ha sicuramente imparato ad essere partecipe alla vita della comuni-tà, alle difficoltà, alle sofferenze delle persone che gli stavano attorno.

Una maestra del paese aveva perduto un figlio che avrebbe voluto avviare agli studi, cosa piuttosto rara in quel tempo, vedendo in Evaristo una grande e vivace intelligenza si offrì di mantenerlo al Colle-gio Arcivescovile di Trento.

La famiglia ne fu ben lieta e il giovane intrapre-se gli studi con profitto ma dovette interromperli a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Concluse comunque i suoi studi e nel 1921, com-pletata l’Ottava e fatta la maturità, passò al Semina-rio Maggiore per gli studi teologici ma dovette inter-romperli per compiere il servizio militare. Conclusa anche questa esperienza completò il suo percorso ed il 26 giugno 1926 fu sacerdote con un anticipo di ben due anni rispetto al percorso normale: a 23 anni aveva già celebrato la sua prima Santa Messa.

Fu mandato cappellano ad Arco per due anni dove venne apprezzato soprattutto per la sua di-sponibilità a dar conforto ai malati e sofferenti. Nel 1928 venne chiamato dal Vescovo quale Vicediret-tore all’Arcivescovile di Trento con l’incarico di cu-rare l’assistenza dei convittori.

Fu in quegli anni che iniziò la sua attività di so-stegno presso l’Opera Bonomelli (la S. Vincenzo), avviando fra i suoi liceali una sezione di Carità che s’impegnava a portare aiuto alle famiglie più pove-re della città. Fu questa una scelta di vita che prati-

Con il fratello p. Bonifacio.

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P E R S O N E

te nei due anni seguenti. Ma venne a mancare un professore di matematica ed il rettore dell’Istituto, che aveva notato le sue grandi capacità, lo convinse ad andare a Pavia per laurearsi in Matematica. Co-sa che avvenne a pieni voti nel 1936.

Da allora insegnò matematica e fisica al Ginna-sio-Liceo fino all’anno scolastico 1977/78 quando an-dò in pensione. Ma la sua scienza era per tutti: in-segnava, anzi educava, aiutava studenti in difficol-tà, parlava di scienza, astronomia in particolare, ai nipoti e pronipoti. Quando parlava di atomi, citava i nomi di stelle e pianeti nel cielo.... lo si ascoltava a bocca aperta. “Quande se devènta vèci se se arvezìna al Sioredio!” diceva ammirando l’immensità ed i mi-steri del cielo.

Era un insegnante molto scrupoloso e compren-sivo: “Prima de dar en voto a ‘n me studente ghe penso sora do’ volte: magari mi no ho spiegà ben!”

Amava molto la sua valle, il suo paese, i suoi com-paesani e nei ritagli di tempo si dedicò allo studio della storia di Vigo. Scriveva numerosi appunti che diceva sempre di voler mettere in ordine ma di fatto rimasero così, frammenti di avvenimenti, date, os-servazioni, schizzi e disegni, considerazioni… tan-ti atti d’amore per la sua terra.

cò fino all’ultimo dei suoi giorni: c’era sempre qual-cuno che aveva bisogno e a lui non serviva nulla…

La nipote Maria Teresa, ricorda che lo zio raccon-tava che quando la madre Teresa era a letto ormai moribonda, chiamò a sé tutti i figli e a lui disse: “A ti, Varisto, no te laso gnènt perché no te devi méter via gnènt. Varda che quande son morta te vedo giò, e se te vedo meter via roba vegno e te cavo i cavéi!” Poi con-cludeva: “ E mi ho obedì! No g’ho gnent! Anzi, no, di-go ‘na bosìa: g’ho la scrivania che i m’ha regalà!” Co-sì fu per tutta la vita: non possedette null’altro che quella scrivania! Nemmeno l’abito talare che porta-va era suo, apparteneva a qualche altro sacerdote che era morto. Tutto ciò che aveva lo dava ai pove-ri e tutti ricordano i suoi vestiti lisi e rattoppati, le scarpe vecchie e scalcagnate.

Il suo desiderio era quello di seguire le orme pa-terne e diventare maestro e, nel 1929, s’impegnò per ottenere l’abilitazione magistrale per poter gui-dare i ragazzi delle elementari nella scuola prepa-ratoria al Ginnasio, in cui egli operò effettivamen-

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Durante gli anni della seconda guerra mondia-le divenne Preside della nuova scuola media conti-nuando ad insegnare nelle sezioni sparse per la cit-tà di Trento lontane dai posti a rischio di bombar-damento, recandosi settimanalmente, spesso a pie-di, a Mezzolombardo e Cles; insegnò anche all’Isti-tuto magistrale del S. Cuore.

Nel 1963, per i suoi meriti, fu nominato Monsi-gnore. Da persona semplice ed umile, che disdegnava qualsiasi forma di complimento e celebrazione, non ha mai voluto portare né il titolo né i segni dell’ono-rificenza avuta: “Ho girà tute le botteghe de Trent ma no ho gatà i botoni rosi!” rispondeva a chi gli chiedeva co-me mai non indossasse l’abito talare da monsignore.

Per molti anni si occupò della curazia di Margo-ne dove si recava sabato e domenica per la celebra-re la messa. Saliva a piedi dalla strada che da Castel Toblino arriva a Ranzo e quindi seguiva il sentiero fino a Margone. Più tardi arrivava fino a Vezzano in corriera e poi saliva fin lassù a piedi. Nel silenzio del piccolo paese, sempre disponibile ai bisogni della

gente, occupò molto del suo tempo a scrivere. Ri-empì tre robusti quaderni di studi e riflessioni uno per ciascuno dei tre canti

della Divina commedia che intitolò “Le similitu-dini della Divina Commedia”.

Morì, in modo inatteso, il mattino del 6 luglio 1987. Ora riposa nel cimitero di Vigo Cavedine.

Maria Teresa, la nipote che lui aveva nominato sua esecutrice testamentaria, raccolse le poche co-se rimaste e stava per buttarle via quando sopra l’ar-madio vide i vecchi scarponi ormai secchi con den-tro un biglietto arrotolato: “per i poveri”. Portò tut-to a don Dante che, accettando, disse : “Questi sono i vestiti di un santo.”

Per don Evaristo, dunque, poca importanza ave-vano le cose materiali, per lui aveva valore solo tut-to ciò che serviva ad avvicinarsi a Dio:• il valore dell’essenzialità che ci libera dai continui

condizionamenti a cui siamo sottoposti; • il valore della pace “… costi quel che costi …” diceva;• il valore del silenzio, inteso anche come eroica ri-

nuncia ad affermare i propri diritti o ragioni, per farlo diventare veicolo di pace;

• il valore dell’ascolto umile e partecipato, segno di una condivisione caritatevole e generosa;

• il valore del prossimo, fratello chiunque esso fosse;• il valore della croce, che lui amava più di tutto, in-

teso come collaborazione al mistero di salvezza;• il valore immenso della preghiera, umile, sempli-

ce, devota e per tutti.Tutti valori che convergono in una grande virtù

di cui lui era un esempio vivente, la carità.

Don Evaristo ha lasciato un testamento spirituale che aveva scritto circa tre anni prima della sua morte:

Dichiaro di morire in seno alla Chiesa Cattolica, in perfetta unione col mio Vescovo, coi Superiori Ecclesiasti-ci e coi Superiori del mio Collegio, con il Parroco di Vigo.

Voglio morire nella fede insegnatami dai curato-ri d’anime di Vigo Cavedine, dai Superiori del Semina-rio e dai miei genitori, e dall’esempio dei sacerdoti e re-ligiosi di Vigo.

Vivo nella beata speranza dell’incontro col mio Salva-

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P E R S O N E

tore Gesù Cristo. Egli mi dia la grazia di amarlo intima-mente e di amare il mio prossimo fino all’ultimo respiro.

Saluto i sacerdoti che han lavorato con me in Collegio, che ho conosciuto in Diocesi e che hanno lavorato a Vigo.

Saluto di cuore i miei cari studenti, sparsi per ogni dove. Cari miei alunni, non vi ho dato molto, stante i miei limiti; però ho sempre cercato di presentarvi un’idea del-la vita cristiana semplice, umile, schietta. Quante volte vi ho detto che lo scopo delle vostre fatiche e del vostro stu-dio era quello di rendervi capaci del massimo servizio ai fratelli! Spargetevi pur per il mondo per il vostro lavoro: ma siate sempre «luce del mondo» e sostegno dei fratelli.

Saluto anche voi, miei confratelli della S. Vincenzo; dai quali ho avuto tanti esempi d’amore cristiano; con-tinuate a cercare i miseri, siate aperti a ogni iniziativa che cerchi di rintracciare e sollevare chi soffre.

Saluto quel gruppo di persone, abitanti a Margone di Vezzano: sono venuto per anni da voi a portarvi un soffio di cristianesimo. Mantenete la fede che ho cercato di istillarvi.

Con quanto affetto penso a voi, miei compaesani di Vigo. Ho vissuto le vostre ore dolorose e anche quelle po-che gioconde. Continuate a partecipare alle sofferenze degli altri: piangete con coloro che piangono e godete senza invidia con coloro che godono. Vi benedico tutti, specialmente coloro di Vigo che, quali sacerdoti, religio-si e religiose, hanno scelto di servire Nostro Signore Ge-sù Cristo per la salvezza dei fratelli.

Benedico e saluto i miei parenti vicini e lontani, ai qua-li naturalmente debbo doppiamente riconoscenza. Mi rac-comando alla preghiera di tutti, a quella dei nostri S. Pro-tettori, all’intercessione di Maria SS., affinché possa otte-nere misericordia e perdono per le tante mie mancanze.

Mi raccomando alla preghiera di coloro che ho assistito negli ultimi momenti della vita e ai quali sommessamente dissi «Arrivederci lassù». Essi che ormai sono nel luogo del-la luce e della pace aiutino me che sto ora per presentarmi al nostro Salvatore Gesù Cristo, a cui sia gloria e onore nei secoli. Chiedo perdono a tutti; a tutti offro il mio perdono.

Trento, 27 febbraio 1984don Evaristo Bolognani

Domenica 15 giugno 2008, l’Associazione cul-turale Retrospettive della Valle dei Laghi, ha orga-

nizzato un’occasione di incontro per ricordare don Evaristo Bolognani a vent’anni dalla morte.

A seguito della S. Messa in sua memoria, si è volu-to presentare un libricino dal semplice titolo Don Va-rìsto: il racconto della sua vita, il suo testamento spi-rituale, una raccolta di ricordi di chi lo ha conosciuto.

“Don Evaristo - dice Attilio Comai Presidente dell’Associazione Retrospettive - è un esempio di vita dedicata agli altri che è importante non venga dimenticato. Egli era sacerdote di grande e profon-dissima fede, ma era soprattutto un uomo in mez-zo agli altri uomini. Veniva dal popolo, da gente po-vera che viveva in un paese povero e non ha mai vo-luto dimenticarlo. Don Evaristo è una figura di uo-mo da indicare ad esempio, ai giovani di oggi che non lo hanno conosciuto ma anche a quelli che, pur avendo vissuto il suo tempo, non avevano la perce-zione della sua grandezza. A tutti coloro che inve-ce hanno avuto la gioia di condividere, anche solo qualche momento della sua vita, farà grande piace-re ricordarlo. La gente di Vigo ha voluto ricordarlo con un monumento posto sul sagrato della parroc-chiale. Il ricordo però, di tanto in tanto, deve essere ravvivato perché quel monumento non sia soltanto una statua ma un simbolo vivo, una luce a cui guar-dare. Abbiamo scelto di mettere in copertina una poesia, d’origine ignota, trovata fra gli appunti di don Evaristo e che è significativa anche dello spiri-to con cui don Evaristo viveva: Vagivi dianzi nella cullaed eccoti curvo e biancogiri intorno l’occhio stanco…non vedi che tutto è nulla?Nulla, dunque, ti tocchi più!Già suonata è l’ora sestainsieme a quella di Gesùpreparati a chinar la testa.”

Il libretto si chiude con la frase, di un uomo che l’ha conosciuto: “ Quando penso a ‘n sant penso a don Bolognani!”. Vogliamo ricordare questa frase poiché racchiude il senso più profondo della vita di don Evaristo, anche se lui, nella sua grande umiltà, non avrebbe mai voluto essere ricordato così.

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PAOLO FLOR

In ricordo dello scultore Mauro De Carli

Un morbo impietoso ha rapito la vita di Mau-ro De Carli il 12 settembre 2008, quando il nuovo giorno rincorreva l’alba. Vasto il

compianto tra gli amici e gli estimatori che accan-to alla moglie ed ai figli hanno percepito il vuoto incolmabile lasciato.

Irriducibile nemico di ogni compromesso, tan-to era premuroso, disponibile ed ilare con gli ami-ci, quanto nemico inflessibile del “sistema”, che su-bordina la libertà inviolabile degli artisti a giochi di potere ed a logiche commerciali, in aperto contra-sto con una nozione primigenia di arte.

Aveva talmente a cuore questi temi da scrivere in modo schietto e incisivo le sue convinzioni intor-no al compito irrinunciabile degli artisti ed alla fun-zione educatrice dell’arte, senza la quale “il mondo sarebbe privo di anima”.

Parole forti, come il carattere del loro autore, per esprimere un ideale, ma anche una chiave di lettu-ra dell’universo lirico delle sue creature, una folla di gessi, crete e bronzi, che scrutano l’osservatore con i suoi occhi.

L’ultima sua scultura, una figura maschile rima-sta senza nome, protende le mani presso il cancel-lo della sua casa a Terlago, quasi per trattenere con cortese fermezza chi, per presunzione o superficia-lità, intenda entrare nel “giardino delle anime so-spese” (definizione di Fabrizio Contino Gravantes) senza dedicare loro un po’ di attenzione.

Proseguendo sul vialetto si incrocia lo sguardo disteso delle bagnanti del gruppo “Spiagge nostra-ne”, incuranti del loro compagno imbelle, quindi si scorgono le sagome di alcuni personaggi dalla pel-le scabra e grumosa far capolino tra gli abeti del parco, che da vicino rivelano la propria identità, co-

Mauro De Carli al lavoro (Foto F.C. Gravantes)

me lo spettrale uomo con la scimmia, gli uomini “sottosopra”, apertamente allegorici con le gambe in aria e la testa al suolo, “Icaro” che mira il cielo, “l’adolescente”, metafora dell’uomo in formazione.

Il pensiero profondo celato dentro la fisicità de-gli “abitanti” del parco, immobili e tuttavia capaci di rivelare pulsioni e tormenti, ma anche compiaci-menti, esige un’analisi approfondita, per afferrarne i sentimenti, la lingua allusiva dei corpi e dei volti con i lineamenti spesso accentuati, spinti talora ai confini della maschera deforme.

Si coglie immediatamente invece la condizione di serenità e sicurezza assegnata alle figure femmi-nili, che hanno contorni più definiti ed epidermide più levigata, in contrasto con l’ansietà o il travaglio

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P E R S O N E

interiore, frequenti nelle figure maschili. “L’america-na” seduta e la “ballerina” all’esterno, così come la “dama dei girasoli”, la “donna seduta”con un gatto, la “Venere delle Laste” e la “pattinatrice” collocate all’interno della casa, manifestano infatti uno stato di benessere fisico e spirituale in sintonia con la vi-sione della donna di Marino Marini, che il maestro di Pistoia espresse plasticamente con “Pomona”, la dea etrusca della fertilità.

Alcune teste di bronzo allineate nei pressi della casa ed altre come il “Satiro” , mostrano grande ver-satilità nell’impiego di diverse ed efficaci soluzio-ni stilistiche e tecniche per la definizione dei volti.

Nello studio di Trento alle Laste, le impressio-ni registrate nel parco e nella casa di Terlago trova-no conferma, ma la ricchezza tematica e la varietà di moduli espressivi aprono un orizzonte più vasto, che dà la misura della perizia tecnica e della raffi-nata creatività di Mauro De Carli. Qui la concentra-zione inattesa di centinaia di opere in uno spazio contenuto, moltiplica le emozioni, mentre l’occhio

si sofferma appagato su volumi plastici e particola-ri ricercati. E’ un’esperienza entusiasmante, parago-nabile solo alla visita di un museo dotato di una ric-ca collezione di sculture del novecento.

Per le dimensioni imponenti cattura l’attenzione il portale “Amazzonika”, ispirato alla “Porta dell’in-ferno” di Rodin, che mostra subito la sua singolari-tà, per l’intonazione barocca della struttura e le fi-gure pertinenti alla cultura sudamericana. Poi, ap-pena lo sguardo percorre lo spazio interno o esplo-ra le pareti laterali, incontra una sequenza di scultu-re dal ritmo serrato, in cui si susseguono un super-bo “Sottosopra” a gambe unite, una elegante ed au-stera “deposizione”, il “San Michele” con la chiave, il “Sapere acrobatico”, la donna giocoliere “Equili-brio”, “il Generale” e la sua compagna, per citar-ne solo alcune, tralasciandone decine di altre me-morabili. Come il contestato “Crocifisso”di Villaz-zano, opera arricchita dalle pie donne, una Vergine e una Maddalena, e da un cielo stellato, per vince-re, come scrisse lo scultore, “la solitudine di quel-la statua appesa [che] si mescolava incredibilmente sempre più all’inquietante solitudine del messaggio del sacrificio di Cristo”. Un capitolo non meno rile-vante è rappresentato dai quadri e dai disegni, ope-re certo in stretta connessione con le sculture e il-luminanti per l’interpretazione autentica dei valori plastici , ma non prive di tratti artistici autonomi.

Lo studio alle Laste è l’apoteosi del corpo umano in una dotta varietà di declinazioni sacre e profane, dove le figure si distinguono per le anatomie, ora attenuate ed ora enfatizzate, e per il grado di defi-nizione dei dettagli, mentre una abile modulazio-ne delle superfici obbedisce agli intenti dell’artista per raggiungere il pathos e penetrare nelle pieghe esistenziali dei personaggi rappresentati.

Anche nello studio sono numerose le teste, talo-ra inserite in una cornice, più spesso libere di abita-re uno spazio illimitato, tutte con caratteri fisiono-mici diversi, in cui si può percepire anche una con-sonanza con Giacometti, che proprio su questa par-te del corpo e sullo sguardo, sede del pensiero, si era concentrato per alcuni anni. Terlago, Gruppo “Spiagge nostrane”

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Il ricordo dei maestri del passato è una costan-te in De Carli e un prolungato studio delle singole opere consentirebbe forse di ricostruire il percor-so della sua formazione artistica e di rilevare inse-gnamenti attinti da maestri antichi e moderni, da Michelangelo a Picasso per fare almeno due nomi.

Lo studio dei volumi dei torsi, lo ha portato an-che ad avvicinarsi alle suggestive sintesi plastiche di Moore e ad esaltare il concetto del dettaglio ana-tomico come opera artistica autonoma.

Illuminanti le sue parole circa la poesia del corpo:

“Una figura bisogna vederla nello spazio suo secondo una disposizione complessa di volumi e proporzioni; la testa, il tronco, gli arti, potranno rivelare quel se-greto equilibrio che è la poesia del corpo umano.”

La ricerca di elementi formali essenziali per de-scrivere i tratti nascosti della natura umana, lo ha portato tuttavia ad allontanarsi da una trascrizio-ne oggettiva dei corpi, per sviluppare una origina-le creatività attraverso una sintesi sapiente di mol-teplici apporti culturali. La morte prematura ha in-terrotto questa ricerca, privandoci verosimilmente di ulteriori variazioni di un linguaggio plastico ma-turo, ma ancora suscettibile di evolversi verso vo-lumi puri e sublimazioni figurative.

Biografia sintetica di Mauro De Carli: integrata con note autobiografiche

Mauro De Carli nasce a Trento nel 1944.Dopo aver frequentato l’Istituto statale d’arte

della sua città, che contestò apertamente, studia con soddisfazione scultura all’Accademia di Brera di Milano con Marino Marini. Per un biennio frequenta anche i corsi di incisione con il maestro Luciano De Vita. Per mantenersi agli studi lavora presso molti artisti e come ritoccatore di cere.

“La spinta alla contraddizione o meglio al contrad-dittorio si manifestò in me molto precocemente certo con-sapevole che il principio del confronto fosse la base indi-spensabile al rispetto delle diversità e uno stimolo serio all’approfondimento. I primi scontri ci furono assai pre-sto, adolescente, ai tempi dell’istituto d’arte dove ci si doveva confrontare con una dirigenza e una classe do-cente mediocre e bottegaia che ben presto ci spinse alla contestazione e alle prime riflessioni su quello che real-mente ci interessava e su quello invece che ci veniva im-posto. Devo dire che per quel poco che ci insegnarono ci rimase solo la fatica di dimenticarlo in fretta!

L’accademia di belle arti fu una bella conquista: ritro-varsi a Milano senza risorse finanziarie e con il bagaglio di una formazione intellettuale da dimenticare, vi assicu-ro fu una fatica non da poco. La convinzione di restare lì e di tener duro era comunque fuori discussione perché molti e forti erano gli stimoli.”Terlago, Venere della “Laste” e “Bicicletta”

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P E R S O N E

Alcune opere nello studio alle Laste, Trento.

Lo studio alle Laste, Trento

Nel 1965 partecipa alla “Mostra internazionale di pittura e scultura” di Angera (Va).

Dopo aver conseguito il diploma accademico (1966), assume l’incarico di assistente alla cattedra di figura e ornato modellato del liceo artistico di Milano, che mantiene fino al 1977. Nel 1967 partecipa alle col-lettive “pittura scultura” alla galleria Duomo di Voge-ra e alla “Mostra premio 8 marzo” al Palazzo Perma-nente di Milano ed espone in una personale al Palaz-zo Permanente - Spazio Giovani di Milano, cui segue la mostra alla Galleria Il Castello di Trento nel 1968.

“Gli studi all’accademia scivolarono in fretta e subi-to si presentarono le prime occasioni per delle scelte im-portanti. Se da una parte ebbi la fortuna di trovare aiu-to in Alik Cavaliere (assistente di Marino Marini e succes-sivamente docente di una cattedra di scultura) dall’altra mi fu subito chiaro qual’era il percorso destinatomi in que-gli anni difficili.”

Collabora per due anni (1968-1969) con Marino Marini per la realizzazione di alcune acqueforti e in-sieme ad Alik Cavaliere partecipa a Forte dei Marmi alla produzione di sculture del maestro di Pistoia. Su commissione di privati realizza nel 1968 il “ri-tratto di Tonello” in cemento. In quegli anni rifiuta molte occasioni di lavoro che gli propone con ge-nerosità l’artista Alik Cavaliere.

“Il fatto era che tutto l’apparato intellettuale delle arti visive e dell’ambiente culturale di Milano malgra-do le apparenze era sostanzialmente prodotto dei sa-

lotti buoni della città: dietro ogni atteggiamento di ap-parente rottura si avvertiva che quella cultura “di sini-stra” era appesantita dalla presenza di una certa matrice “snob” che si concretizzava in una pratica molto borghe-se. … Mi trovai così costretto a declinare occasioni dav-vero vantaggiose per seguire una strada molo diversa”.

Di grande importanza si rivela l’incontro con Gi-no Meloni, con il quale collabora a lungo per l’in-cisione di numerose opere grafiche, stringendo un rapporto di profonda amicizia che lo induce a tra-sferirsi in Brianza, dove nel 1971 inizia ad insegna-re incisione alla scuola di pittura di Lissone.

“… in quegli anni avevo cominciato a frequentare la Galleria delle Ore in via Fiori chiari di Giovanni Fu-magalli, avevo stabilito un intenso legame con il pit-tore Gino Meloni, il figlio Ermes (bravissimo scultore) e una ristretta cerchia di artisti assai diversi portatori di “condizioni di grande interesse, testimoni di un mo-do di essere di grande valore e sovente di una sconcer-tante semplicità. Le strade si divisero inevitabilmente. Lì di divertente (parola molto usata dagli artisti in

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quel tempo) non c’era niente, in compenso si parla-va di pittura, di scultura, di uomini, persone e cose de-scritti con parole e sentimenti che da sempre avevo in-consciamente cercato. Fu un periodo molto importan-te e di scelte decisive: ci trasferimmo in campagna con tutta la famiglia per poter essere più vicini ai Meloni e alla famiglia artistica di Lissone… Furono anni fecon-di e complessi al contempo.”

Negli anni Settanta Milano è costante teatro di scontri di piazza e nel liceo artistico le lezioni si svol-gono a singhiozzo a causa dell’occupazione. Mau-ro avverte un profondo cambiamento nella Milano bella e attraente conosciuta al suo arrivo, mentre i giovani protagonisti del ’68 e gli artisti emergenti occupano i posti rimasti vuoti a seguito della con-testazione. Tra il 1970 ed il 1974 esegue tre monu-menti funebri privati al cimitero di Lissone.

“…lentamente la mia vocazione agli “insuccessi” tor-nò ad avere il suo corso: alcuni diverbi con Fumagalli (per altro molto civili) ormai molto vecchio e quasi cieco, mi allontanarono dalla galleria delle Ore; Lissone durò anco-ra qualche anno e fu per me un sostentamento importan-te, l’amicizia con Ermes Meloni mi ripagava abbondante-mente di tutte le difficoltà. Tuttavia la strada era anche qui già segnata…”

Dovendo abbandonare la casa e lo studio di Lis-sone, decide nel 1977 di tornare a Trento carico di speranze e fonda “La finestra”, una libera scuola di pittura, scultura e incisione. La scelta però gli pro-cura poco dopo disagi e sofferenze. Trento gli ap-pare culturalmente atrofizzata e chiusa nei suoi in-teressi. La scuola dovrà essere trasformata prima in circolo culturale e poi chiusa nel 1988.

Nel 1981 realizza la testa del guerriero in bron-zo, cui seguirono due versioni in gesso sempre più schematiche.

Nel 1982 viene allestita la personale “Uomini e donne”, al Palazzo Pretorio di Trento. Nel 1983 re-alizza “L’adolescente” in bronzo per i giardini del palazzo comunale di Cembra.

Nel 1984, suo malgrado, è costretto a riprende-re l’insegnamento all’Istituto d’arte di Trento, do-ve non gli è consentito di trasmettere i valori in cui

crede. Inizia la monumentale porta “Amazzonika”, che terminerà ben quattordici anni dopo, nel 1998 e realizza in gesso “la bicicletta”.

Nel 1990 esegue la fontana presso la Casa di Ri-poso di Lavis e la statua “Equilibrio” e nel 1992 la scultura “senza titolo” nella piazza della scuola ele-mentare di Ravina.

Nel 1994 viene invitato ad esporre al Museo d’Ar-te Moderna di Gazoldo degli Ippoliti (MN) ed ese-gue una delle figure della serie “Sottosopra”, sog-getto raffigurato anche in quadri ad olio.

Lasciato l’insegnamento per dedicarsi intera-mente alla scultura nel 1996, realizza “Il segreto” in bronzo per un committente privato, un “Busto con cravatta rossa”, e “Maternità”. L’anno successi-vo espone a Trento alcune sculture nelle sale della Banca San Paolo.

Nel 1998 viene allestita al Mart di Rovereto la personale dal titolo “Archivio del ‘900”. A partire dal 1999 esegue una serie di teste in cornice.

Nel 2000 trasferisce la residenza a Terlago e re-alizza la Venere delle “Laste” e poco dopo la “Patti-natrice” e la “Donna seduta” con il gatto.

Nel 2003 realizza su commissione “La crocifis-sione” in gesso policromo, che non viene accettata e che completa successivamente con una Vergine e una Maddalena con lo sfondo di un cielo stellato. Partecipa inoltre alla mostra collettiva “L’attualità del Caravaggio nelle opere di trenta artisti” a Milano e modella i capitelli raffiguranti i “Quattro Evangeli-sti” in cemento bianco e oro per la chiesa di Villaz-zano. In questo stesso anno esegue la “Dama dei girasoli”, gesso policromo e il “Satiro” in bronzo.

Nel 2004 viene inaugurato il monumento ai Ca-duti sul lavoro in bronzo e pietra, collocato nei giar-dini di Largo Pigarelli a Trento ed esegue “Uomo die-tro la siepe” in bronzo. Negli anni seguenti si de-dica alle seguenti opere appartenenti a collezioni private: “Io sospeso, notte” pannello dipinto, due “nature morte” in bronzo, “Quattro teste bifronte”, in cemento dipinto e i “Girasoli”, bronzo patinato .

Mauro De Carli muore a Terlago dopo breve ma-lattia il 12 agosto 2008.

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P E R S O N E

MARcO ZuLBERTI

Un ricordo di Tavo Burat

È passato un anno dall’improvvisa scomparsa di Tavo Burat, lo storico piemontese fonda-tore della Ca de Studi Dossiniani e della “La

rivista dolciniana”. Era nato a Stezzano nel 1932 in provincia di Bergamo. Dopo la laurea di Legge si era trasferito a Biella dove era entrato nella vita politica come esponente del partito socialista. Pa-store Valdese e uomo di vasta cultura, aveva mes-so al centro dei suoi interessi la vita di montagna in tutti i suoi aspetti antichi e moderni compreso quello dell’autonomia spirituale come le eresie. E proprio il suo amore per Dolcino lo aveva con-dotto molti anni fa a Cimego come scrive nell’ul-timo saggio pubblicato nel numero speciale di Ju-dicaria dedicato al convegno nel 2008: «all’incirca vent’anni fa, forse un po di più, la prima volta che venni a Cimego per conto mio cercando nell’aria un ricordo di frate Alberto e di Dolcino e, il parro-co qui presente mi vorrà perdonare, feci una tra-sgressione perché lasciai una scritta sull’albo de-gli annunci sacri della Chiesa, a matita ho scritto W Frate Alberto. Non dimenticatelo».

Da quel momento cominciò una collaborazione negli studi dedicati all’eresia dei dolciniani tren-tini del 1300 con il circolo culturale “Quatar So-rele” di Cimego, l’Associazione il Chiese di Storo e il Centro Studi Judicaria. Smisurata la sua produ-zione saggistica che ha al centro sempre la civil-tà montana con le sue figure eroiche. L’ultimo in-contro avvenne nell’ottobre del 2008 a Pisogne durante il convegno dedicato alle streghe dall’As-sociazione Intramontani dove premiò il prof. Ric-cadonna e il dott. Marco Zulberti per il convegno organizzato nel giugno 2007, nel settecentesimo

dal rogo di Margherita e Dolcino e nel novembre 2009 a Cimego all’inaugurazione della statua de-dicata a Fabbro Alberto. Eravamo in procinto di organizzare la presentazione degli atti del conve-gno quando è improvvisamente mancato lascian-doci tutti sgomenti.

Era anche uno strenuo difensore del dialetto al punto che divenne amico di Pier Paolo Pasolini, dal quale ottenne amicizia e un’alleanza nella lotta per gli idiomi del territorio, proprio pochi giorni prima della tragica scomparsa nel 1975.

Era anche un fine poeta dialettale e amava la or-mai dimenticata lingua d’oc: »A l’ha peui scrivù vài-re artìcoj dë storia e dzora ij problema lenghìstich ëd le minoranse». A noi non resta altro che seguire il suo esempio di coerenza e rigore, con l’urgenza di continuare il suo lavoro.

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PREGHIERA DOLCINIANA (Tavo Buratt)

Sogno una chiesa che marcia verso il suo Maestro.

Sogno una chiesa che perda il suo tetto, ed al suo posto non abbia che il cielo, le nuvole del sole ed il mite chiarore delle stelle.

Sogno una chiesa senza porta né serratura, dove si possa entrare ed uscire liberamente, perché il dentro ed il fuori sono un tutt’uno.

Sogno una chiesa che non lasci alcuno fuori dalla porta,che non cerchi sicurezza e che non abbia chiave.

Sogno una chiesa i cui muri si dissolvano e si perdano,così che la luce penetri da ogni lato; una chiesa nel-la libertà,che non dia importanza a ciò che è, né ai suoi limiti né alle sue frontiere; una chiesa che offra in sacrificio a Dio i suoi muri ed il suo campanile, nella chiarezza luminosa dei cieli.

Sogno una chiesa trasparente come il vetro, ed anche di più, una chiesa che sia libera ed aperta quanto il mon-do intero, nella quale ognuno percorre gioioso e pieno di fidu-cia il proprio sentiero, in cammino incontro alla gente.

Bibliografia Diritto pubblico nel Cantone dei Grigioni (1957)

La situazione giuridica delle minoranze linguistiche in Italia, an I diritti delle minoranze etnico-linguistiche (1974)

In difesa degli altri, U. Bernardi, Le mille culture, Comu-nità locali e partecipazione politica (1976)

Decolonizzare le Alpi, Prospettive dell’arco alpino (1981)

Carlo Antonio Gastaldi. Un operaio biellese brigante dei Borboni (1989)

Tavo Burat-Rossano Munaretto. Melodie popolari del biel-lese. Comune di Muzzano (1996)

Federalismo e autonomie. Comunità e bioregioni (1997)

Fra Dolcino e gli Apostolici tra eresia, rivolta e roghi (2000)

L’anarchia cristiana di Fra Dolcino e Margherita (2002)

Eretici dimenticati. Dal Medioevo alla modernità (2004)

Banditi e ribelli dimenticati. Storie di irriducibili al futu-ro che viene (2006)

An piemontèis

Prusse mulinere (1959)

Finagi (Ca dë studi piemontèis, 1979)

Lassomse nen tajé la lenga, (ALP, 2005)

Ciri vacior (2007)

Poesìe, (Ca dë studi piemontèis, 2008)

Tavo Burat (a sinistra) premia Graziano Riccadonna e Marco Zulberti a Pisogne nel 2008

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A S S O C I A Z I O N I

Gli esordi del coro ed i primi successiVerso la fine degli anni sessanta fu ufficialmente

assegnato il nome di Valle dei Laghi a quella parte del Trentino che si estende da Terlago al basso cor-so del Sarca, abbracciando l’intera Valle di Cavedi-ne. Nell’ampio scenario modellato dal grande ghiac-ciaio atesino sono incastonati infatti ben nove la-ghi, molto diversi per estensione, lungo un percor-so digradante verso il Garda.

In questo contesto geografico, dopo le rilevan-ti esperienze di cooperativismo agricolo, che ave-vano dato vita ai Vivai di Padergnone ed alla Canti-na di Toblino, nacque nel 1965 il Comitato Valle dei Laghi per la valorizzazione turistica del territorio. Emanazione del Comitato fu il “Festival Folcloristi-co”, organizzato a partire dal 1969 e per vent’anni di seguito al Parco Due Laghi di Padergnone, istitu-ito con finalità socio-culturali, ma anche per la pro-mozione dei prodotti agricoli locali. Proprio con il Festival Folcloristico e nello spirito di quella inizia-tiva, pervaso da un fiero senso di appartenenza alla “nuova” valle, che cominciava ad essere conosciu-ta almeno in ambito trentino, sorse l’idea di costi-tuire un coro che ne fosse testimone e portavoce.

Il progetto prese forma a Padergnone nel 1972, grazie all’impegno di Gino Faes di Padergnone, Lino Bressan di Fraveggio, Giovanni Tonelli di Vezzano e Sandro Bressan di Terlago, animati tutti dalla pas-sione per la musica e per il canto corale.

Da alcuni anni in realtà operavano già in questo territorio due cori, ormai affermati anche fuori Re-gione, il Coro “Lagolo” di Calavino, espressione del-

A cuRA DI ROBERTO cORRADINI E PAOLO FLOR

Il Coro Valle dei Laghi compie 38 annie regala nuove “Emozioni”

la Valle di Cavedine ed il Coro “Paganella” di Terlago, formato prevalentemente da coristi di Trento. I pro-motori del nuovo coro invece erano mossi dal desi-derio di riunire almeno nel canto tutti i paesi della Valle ed interpellarono pertanto oralmente tutti co-loro che erano interessati, abbandonando ogni chiu-sura campanilistica e paesana. Dell’operazione ca-pillare di “reclutamento” diede notizia il quotidiano “L’Adige” il 6 gennaio del 1972, informando i letto-ri che la domenica seguente nel primo pomeriggio ci sarebbe stato a Padergnone un incontro di coristi provenienti da ogni centro dell’Alto e Basso Vezza-nese (definizione corrente del territorio) per getta-re le basi di una nuova corale della “Valle dei Laghi”.

Superando ogni ottimistica previsione risposero all’invito oltre quaranta aspiranti coristi, che a sten-to poterono entrare nell’aula dell’edificio delle scuole elementari di Padergnone, messa a disposizione per

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l’avvenimento. La volontà concorde dei convenuti di far rivivere le canzoni della “vecchia” guerra, consentì di avviare l’attività con le prime prove e di nominare la prima direzione, guidata da Giovanni Tonelli. Per la direzione musicale era già stato designato Sandro Bressan, grazie alla sua preparazione tecnica ed alla precedente esperienza musicale nel coro “Paganel-la” di Terlago, di cui era stato uno dei fondatori e per un certo periodo anche maestro. La scuola elemen-tare divenne la prima sede stabile del coro, perché qui venne istituita anche una scuola di allievi coristi.

La prima regola fissata furono le prove due vol-te alla settimana, il martedì ed il sabato, per con-sentire di superare gli impedimenti di lavoro e per lasciare libero il sabato ai più giovani.

Dopo qualche mese venne il giorno di uscire dal-la sede per fare una prova all’aperto e fu davanti al-la casa di un amico del maestro, di notte alla fioca luce di un lampione. Il gruppo corale neocostitui-to cantò con grande trepidazione, ma la soddisfa-zione per l’esito positivo di questa prima esperien-za esterna fece dimenticare subito i timori e lasciò il posto alla ferma decisione di continuare. Così il coro, in camicia bianca e pantaloni scuri, affrontava poco dopo a Padergnone il pubblico, in occasione di una festa organizzata dal Gruppo Alpini.

La notizia del varo ufficiale del nuovo comples-so corale, costituito da ventisei voci, venne data dal quotidiano “Alto Adige” il 2 gennaio 1973, che rife-

riva della sua prima comparsa in pubblico nello sta-bilimento della Michelin di via Sanseverino a Tren-to, avvenuta a fine dicembre. Sul giornale appari-va anche la prima foto pubblica del gruppo corale raccolto attorno al maestro Bressan, con la prima divisa, pantaloni marrone e camicia rossa, ripreso, secondo la didascalia, in una delle sue tante prove. La fotografia era stata scattata al Festival Folclori-stico del Parco Due Laghi di Padergnone, cui il coro aveva partecipato qualche mese prima con le can-zoni del repertorio iniziale, tra cui “Son dai monti” e “Era sera”. Fu quella la prima di una serie di esi-bizioni su questo importante palco “di casa”, dove era nata l’idea stessa della sua fondazione.

Nel settembre del 1973, dopo aver partecipato alle rassegne di canti popolari di Lavis e di Ronce-gno, forte dell’esperienza acquisita, il coro organiz-zava anche la sua prima rassegna di canto popolare nel teatro parrocchiale di Sarche.

Un altro momento memorabile per la nuova compagine canora fu la prima trasferta in Svizzera a Bülach nell’aprile del 1974, grazie all’interessamen-to di un emigrato di Fraveggio residente in quella città, cui doveva seguire una seconda trasferta nel 1977, per riallacciare e consolidare i legami di ami-cizia con la comunità trentina del luogo.

Come la maggior parte dei cori trentini di ispi-razione popolare, nel suo repertorio iniziale il coro attingeva a piene mani dalla grande tradizione del

1973, Lavis, Rassegna di canti della montagna1972, Padergnone, Festa folcloristica

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A S S O C I A Z I O N I

1973, Teatro di Sarche, prima rassegna

Coro della Sat di Trento, una scelta quasi obbligata non solo per la possibilità di reperire un’ampia di-scografia e per l’esistenza di una ricca editoria mu-sicale, ma anche per la popolarità del prestigioso coro dei fratelli Pedrotti e la bellezza delle sue can-zoni. Solo più tardi, con il crescere dell’esperien-za e delle relazioni con il mondo corale, scoprì le composizioni di nuovi autori, che fedeli alla tradi-zione del canto popolare trentino, ne ampliano pe-rò i confini e le potenzialità espressive. Acquisì co-sì pezzi armonizzati o composti da Bepi DeMarzi, Camillo Moser, Bepi Grosselli, ma anche i canti pro-posti dai più affermati cori dell’epoca, quali il Coro della Sosat ed il Coro Monte Cauriol.

A partire dal 1974 la rassegna dei cori di Pader-gnone venne allestita nella sede dei Vivai Coopera-tivi con cadenza biennale e proseguì fino al 1998. Tale manifestazione canora, per molti anni l’unica del genere nell’intera Valle dei Laghi, rimarrà me-morabile per lo straordinario successo che ha carat-terizzato tutte le sue edizioni.

Il numero degli spettatori era infatti di solito pari o addirittura maggiore a quello degli abitanti dell’intero paese di Padergnone, con una presenza media di 600 persone, un risultato notevolissimo per il coro di un così piccolo paese, a riprova che il desiderio di aggregazione di un’intera valle, che i fondatori avevano inteso favorire, aveva fatto cen-tro nei cuori di tante persone.

La sola preparazione della sala della rassegna era

di per sé una piccola avventura e per alcuni coristi un piccolo, ma ben accettato “calvario”. La mancan-za in valle di luoghi adatti, costringeva infatti a con-vertire in sala concerti un capannone dei Vivai Co-operativi, noti per la produzione di barbatelle, i fa-mosi “calmi” di Padergnone. I lavori di pulizia, tra-sporto dei materiali occorrenti, montaggio del pal-co, predisposizione delle luci e allestimento della platea duravano non meno di venti giorni, durante i quali dovevano continuare regolarmente le prove e la rifinitura delle canzoni da presentare nella se-rata del concerto. La rassegna divenne subito la più importante manifestazione musicale della valle ed una delle maggiori del Trentino e vide la sua ultima edizione biennale nell’anno 1998, perché le severe norme sulla sicurezza delle sale pubbliche non con-sentivano più l’utilizzo di quegli spazi.

Il maestro Paolo Chiusole e gli anni della svoltaI primi anni trascorsero scanditi dalle prove e dai

concerti in alcune località del Trentino o per allieta-re gli anziani delle case di riposo di Dro e di Cave-dine e i degenti dell’Ospedale S. Chiara. Con il pas-sare del tempo però subentravano gli effetti della routine e l’entusiasmo tendeva a diminuire. Verso il decimo anno di vita il coro visse un momento di crisi, soprattutto per un clima di tensione dovuta a contrasti generazionali tra i coristi anziani e giova-ni leve. Fu deciso in quel frangente di assumere due provvedimenti importanti per la vita del sodalizio.

1974, Bülach, Svizzera

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Anzitutto si stabilì che la direzione del coro fosse affidata ad uno dei coristi e quindi fosse “interna”. Quindi si pose una limitazione alle assenze alle pro-ve, con l’espulsione senza appello dopo due assen-ze non giustificate. In virtù di questa regola, rispet-tata senza screzi o discussioni, il numero dei cori-sti si ridusse temporaneamente a soli 15 elementi.

Fin qui le vicende del coro non sembravano di-scostarsi da quelle di uno dei tanti cori iscritti uf-ficialmente alla Federazione dei Cori del Trentino, ma il Valle dei Laghi doveva incontrare un destino diverso, di cui per i limiti intrinseci del nostro scrit-to cercheremo di ripercorrerne solo i tratti salienti.

Il primo fatto di grande rilievo avvenne dopo un decennio di attività. Nel 1983 Il maestro San-dro Bressan lasciava la direzione artistica del co-ro per impegni familiari e gli subentrava il giovane corista Paolo Chiusole, dotato di una rara sensibi-lità musicale, che aveva una precedente esperien-za di sassofonista.

Il nuovo maestro dimostrò subito fermezza nel-le decisioni e persuase i coristi a proseguire con co-stanza le prove ed a sospendere quasi del tutto le esibizioni in pubblico per molti mesi, fino a che non si fosse raggiunto un livello di preparazione ade-guato. Per l’ulteriore crescita del coro apparve an-che necessario allargarne i confini culturali ed af-francarsi in modo graduale dal repertorio della Sat e delle altre formazioni canore più affermate. For-te dei suoi ventisei anni e confidando nella giovane età di gran parte dei coristi, Paolo Chiusole decise di orientare le esecuzioni verso un modalità inter-pretativa in cui si privilegiavano i toni romantici ed appassionati, a scapito di quelli più ritmati e meno raffinati. Questa tendenza appariva già nello spet-tacolo del marzo 1984 nella sala Pizzini di Calavino, che riservava un ruolo di spicco alla poesia dialet-tale di Fabrizio da Trieste e Gastone Pancheri, men-tre la felice interpretazione di alcuni canti faceva da cornice alle liriche.

Nel lungo cammino di perfezionamento grande importanza assunse l’incontro nel 1984 con il prof. Riccardo Giavina, in occasione di una manifestazio-

ne canora organizzata a Cavedine con la collabora-zione del Comitato per la valorizzazione turistica della Valle dei Laghi.

La rassegna intendeva offrire al pubblico un’im-magine esauriente della coralità del territorio della Valle dei Laghi in cui dominava per anzianità e pre-stigio il Coro Castel Arco, fondato nel 1944, cui si affiancavano il “Lagolo” e il “Paganella”, non meno noti. Il coro del maestro Chiusole, dopo il lungo ri-tiro dalle scene, alla vigilia era considerato un po’ la Cenerentola del gruppo, ma la sua esibizione risul-tò invece assai convincente ed i coristi più anziani ricordano nitidamente e con orgoglio le parole in-coraggianti pronunciate da Giavina : “Ragazzi siete sulla buona strada”.

1988, Berlino Ovest

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A S S O C I A Z I O N I

1992, Padergnone, festeggiamenti per il 20° anno di attività

giare in modo impegnativo ma divertente 15 anni di attività, si svolse nel 1988 alla fine di novembre, nell’ambito del gemellaggio tra la città di Trento ed il Bezirk Charlottenburg, il circondario più grande di Berlino, con affollati concerti sul palco all’aperto del vasto “Mercato di Natale”, presso la centralissi-ma e famosa Kurfurstendamm Strasse, nel Munici-pio, nel gigantesco centro commerciale Ka De We, nella casa per anziani Karl Streeb, al Consolato Ge-nerale italiano e in due scuole.

Fu per i coristi un’esperienza profonda ed incan-cellabile per il numero delle esibizioni, ben venti, il clima natalizio, le suggestioni di una città viva e profondamente segnata dagli eventi bellici, l’inte-resse e l’apprezzamento degli spettatori occasionali.

Le accresciute capacità tecniche ed interpretati-ve, consentirono anche di confrontarsi con altri re-pertori e di interpretare canzoni di Marco Zuccan-te, Lamberto Pietropoli, Cecilia Vettorazzi, Flaminio Gervasi, Roberto Gianotti e Angelo Mazza.

I risultati del cammino di perfezionamento in-trapreso dal maestro Chiusole percepibili nei con-certi in quegli anni si possono cogliere, almeno in parte, nell’articolo del quotidiano Alto Adige del 31 gennaio 1989, riguardante la sesta rassegna di co-ri popolari “Filò cantando” di Lizzana, organizzata nel 1989 dal coro “Monte Zugna”:

« Repertorio decisamente impegnato, scelto con autentica consapevolezza culturale e musicale e al-lo stesso tempo particolarmente intenso e sugge-stivo quello del coro “Valle dei Laghi” di Padergno-

A questo meritato riconoscimento del lavoro svolto in sordina lontano dalle luci della ribalta, se-guì una proficua collaborazione con questo valen-te musicista, tanto che al prof. Giavina, allora diret-tore del Conservatorio di Riva del Garda, si devono molte armonizzazioni esclusive per il coro.

La fase che si può chiamare di “rifondazione”, dopo la svolta determinata dalla nuova direzione artistica, era ormai alle spalle e il complesso cano-ro, sempre più famoso e apprezzato in Trentino, co-minciava ad essere definito sulla stampa come “coro giovane”, grazie all’età media dei coristi, più bassa rispetto a tutti gli altri cori. Superati inoltre i con-flitti generazionali, nasceva un forte amalgama tra i coristi e il maestro, esigente sul piano artistico, ma personalmente impegnato a perfezionare la prepa-razione musicale e la tecnica corale, fatto determi-nante per l’autorevolezza della sua direzione sem-pre più professionale e la volontà comune di affron-tare un percorso di affinamento vocale.

Il momento era favorevole anche per cimentarsi con un disco e ciò avvenne nel 1986 con la incisione su un 45 giri della canzone “Festa Nostrana”, pezzo composto da Luciano Caldonazzi e Gino Creazzi per il “Festival Folcloristico” di Padergnone, ormai assai noto, armonizzato da Riccardo Giavina. Sulla fac-ciata B di quel disco veniva registrata la stessa can-zone nella versione cantata da Lorenza Vivori, ac-compagnata dall’oboe di Roberto Moser.

Uno strumento importante per la progressione qualitativa, offerto dalla Federazione dei cori del Trentino, era rappresentato dalle audizioni, cui il maestro sottopose il coro per consentire ai compo-nenti del Comitato Tecnico della Federazione stes-sa di formulare una valutazione articolata e ricca di indicazioni per orientare l’esecuzione dei brani e la scelta delle nuove canzoni da inserire nel repertorio.

In quegli anni, in cui il coro si esibì con succes-so nelle rassegne corali di Roncegno (1984), di Pre-dazzo (1985), di Cavedine (1985) e di Mori (1987), assunse un rilievo particolare la storica trasferta a Berlino Ovest, che viveva ancora il dramma del mu-ro. La fortunata tournée, che consentiva di festeg-

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ne, nei confronti del quale può valere un’unica re-criminazione riferita all’esiguo numero di compo-nenti. Ma la proposta di autentiche perle come le nuovissime e praticamente sconosciute “Quell’usi-gnol sul campo” e “Dove andremo stasera a dormi-re” armonizzate da Riccardo Giavina, dell’impegna-tiva “Quando me son sposà”, elaborata da Lamber-to Pietropoli per il concorso della Federazione co-ri del Trentino, unitamente alla splendida, attenta, musicalissima direzione del Maestro Chiusole hanno qualificato in maniera superba il “Filò” di Lizzana.».

Verso il 2000 attraverso concorsi, trasferte memo-rabili e l’incisione di un LP e di un CD

Il primo LP del coro dal titolo “Ma senti o Ro-sina” fu presentato nella primavera del 1990 nel-la splendida cornice di Castel Toblino. L’album era composto di 10 brani, di cui il lato A comprende-va cinque canzoni, frutto di un’operazione cultura-le molto interessante. Infatti i canti “Dove andremo stasera a dormire?”, “Oi cara mama mi voi maritar”, “O luna mite e chiara”, “Quell’usignol sul campo” e “Ma senti o Rosina” erano inediti e furono ricostru-

iti sulla base della memoria di alcuni anziani abitan-ti di Fraveggio con un meticoloso lavoro di ricerca e trascrizione e quindi armonizzati per coro virile da Riccardo Giavina, con un sapiente ed equilibrato in-tervento tra tradizione e nuove sonorità. Sul lato B furono incisi quattro brani tratti dal ricco reperto-rio messo a disposizione della Federazione dei co-ri di Trento (“E dove vastu bela Giulieta”, “Dammi la man biondina”, “Vegnerà sta primavera” e “Quan-do me son sposà”) , e “Le Dolomiti”, in omaggio al compianto maestro Camillo Moser. Il prof. Gravi-na svolse anche l’impegnativo compito di assistere il coro durante l’incisione ed il lavoro di post-pro-duzione del disco.

Il 1990 vide anche la seconda trasferta a Berlino e l’organizzazione della decima rassegna ai Vivai di Padergnone, applaudita da 500 spettatori entusia-sti e suggellata dalla consegna delle targhe ricordo per il decennale della manifestazione canora ai co-ri partecipanti, “Biache Zime” di Rovereto, “Monte Zugna” di Lizzana e “Lagolo” di Calavino.

Nel 1992 il coro festeggiò il ventesimo anno di attività con una serie di concerti nei maggiori cen-tri della vallata e in settembre con la dodicesima edizione della sua rassegna ai Vivai di Padergnone. Per l’occasione venne stampato un libretto, per ri-cordare con giustificato orgoglio il lungo percorso compiuto con entusiasmo e crescente successo, dal faticoso inizio per la selezione delle voci idonee, fi-no alla conquista del terzo posto al Concorso na-zionale per coro di Appiano Gentile, a pari merito

Copertina del LP “Coro Valle dei Laghi”LP (1990) 1992 – Appiano Gentile, Concorso nazionale cori

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A S S O C I A Z I O N I

1996, Bitti, Sardegna

con il coro “Monte Alben” di Lodi e senza assegna-zione del primo premio.

La volontà di progredire musicalmente portò infatti il coro Valle dei Laghi a confrontarsi con al-tri gruppi corali in vari concorsi nazionali e inter-nazionali di canto popolare, in cui il maestro Chiu-sole vedeva un altro fattore importante per la ma-turazione artistica. I brillanti risultati ottenuti con regolarità sorprendente nei concorsi nazionali per cori maschili successivi al 1992, sembrano effetti-vamente dare ragione al maestro, come si può rile-vare in questo sintetico elenco:- 1994, Concorso internazionale di Riva, nastro

d’argento;- 1995, Concorso nazionale di Vittorio Veneto,

terzo posto;- 1996 Concorso nazionale Adria, terzo posto;- 1998 Concorso nazionale di Appiano Gentile, se-

condo posto.

A riprova del desiderio costante di crescere e sperimentare, va ricordata anche la partecipazione al decimo Concorso internazionale di composizio-ne ed elaborazione corale indetta dalla Federazio-ne trentina dei cori nel 1999, dove fu assegnato il secondo premio per coro maschile alla canzone “Sti

dì di Carnevale” nella versione di Orlando di Piazza interpretata dal Valle dei Laghi e non fu assegnato né il primo, né il terzo premio.

Il 1992, anno del ventennale, si chiuse in dicem-bre con l’organizzazione nella chiesa di Padergnone della prima rassegna di canti natalizi, cui partecipa-rono come ospiti i cori “Croz della stria” di Spiazzo e “Pratum Musicum” di Trento. I concerti di canzo-ni ispirate al Natale e l’organizzazione e la parteci-pazione a rassegne dedicate a questo tema nel pe-riodo tra la metà di dicembre e la prima settimana di gennaio, divennero una consuetudine a partire da quegli anni.

Un capitolo veramente memorabile della storia del coro fu la trasferta in Sardegna nella primave-ra del 1993, in occasione del gemellaggio cultura-le con il coro “Oches de S’Annossata” di Bitti (NU), anzitutto per il convegno-concerto “Valle dei Laghi-Barbagia di Bitti culture a confronto”, che offrì un importante momento di aggregazione e di scambio culturale fra due realtà corali, con chiare affinità cul-turali nella ricerca e nella valorizzazione della tradi-zione poetica e corale della propria terra. Non me-no esaltante si rivelò il viaggio in Trentino del coro di Bitti con concerti a Vezzano nel Teatro Tenda, a Castel Toblino, a Trento in Piazza Garzetti, nell’am-

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bito della settimana sarda, ed esibizione finale nel-la chiesa di Padergnone con “Sa missa in sardu” .

Un rapporto di amicizia, questa volta con un co-ro tedesco, nasceva invece nel giugno del 1996 dopo una trasferta a Adelebsen in Germania nel Land Nie-dersachsen. Il Mitteilungsblatt, giornale della bor-gata di Adelebsen, descrivendo con accenti di no-stalgia l’evento del concerto nel cortile del castel-lo, davanti a 300 persone “trascinate nella meravi-glia e nell’allegria” dal coro trentino, esprimeva un lusinghiero commento: “La delizia musicale che ci è stata offerta, dal nostro punto di vista, rappresen-ta l’apice della stagione canora”. L’articolo ricono-scendo l’eccellente competenza musicale del coro, rivelava la commozione dei presenti alla partenza del pullman per il ritorno in Italia, dopo l’interpreta-zione indimenticabile della “Montanara”, sottoline-ando il fatto che i trentini erano giunti come ospiti e erano ripartiti come amici. Il Mannergesagverain di Adelebsen, promotore della trasferta, restituiva la visita in Valle dei Laghi nell’ottobre di quell’an-no, sia per conoscere le bellezze del territorio, sia

per tenere alcuni concerti con il coro di Padergnone.Nel 1997, per festeggiare i suoi 25 anni attività

nel modo migliore, il Coro scelse di presentare in di-cembre a Maso Toresela di Sarche un nuovo CD, dal semplice titolo di “Coro Valle dei Laghi”, che met-teva in risalto la maturazione vocale e l’approfondi-mento interpretativo alla ricerca di un proprio stile. Il CD, registrato in studio con la collaborazione del maestro Luigi Azzolini, presentava la struttura ormai abituale dei concerti, con l’accostamento di canti del-la più consolidata tradizione, a pezzi dei più interes-santi autori contemporanei, dal contenuto variegato e molto pregevole. Tra le quindici tracce si trovava-no tre canzoni premiate in distinte edizioni del con-corso della Federazione dei cori (“Vien qua, vien qua Bepina”, “La testa malcontenta”, “L’altra sera al chiar di luna”), tre brani brillanti per ritmo e contrappun-to ( “O Carlota”, “La sgarzottina”, “Quel mat de To-ni Rondola,” ) e ancora brani della tradizione popo-lare e canti in dialetto sardo, piemontese, pugliese e friulano (“Serenada a Castel Toblin”, ”Non potho ri-posare”, “Io vorrei”, “Senti le rane che cantano”, “Ci jè belle ‘u primm’ammore”, “Fiabe”, “Daûr San Pieri”, “La montanara”, “Oggi è nato in una stalla”).

Il nuovo disco in parte era anche frutto della collaborazione, iniziata a partire dalla seconda me-tà degli anni Novanta, con il maestro friulano Mar-co Maiero, direttore del Coro Vos de Mont, uno dei più originali e creativi autori italiani per coro, le cui composizioni, grazie al coro di Padergnone, sono state conosciute e apprezzate in Trentino, tanto che alcune sono entrate ormai stabilmente nei reperto-ri di numerosi gruppi corali trentini.

A luglio di quell’anno il coro aveva anche dato prova della propria versatilità partecipando con al-tri cinque cori alla serata verdiana di “Musica Riva” nell’Auditorium di S. Giuseppe con l’orchestra Phi-larmonia di Roma, diretta da Marco Boemi, che ri-usciva ad amalgamare le sonorità orchestarli con le voci di sei cori polifonici trentini, 83 elementi complessivamente, che cantavano pezzi tratti da “I Lombardi alla prima crociata”, “Macbeth”, “Va pensiero”e “Nabucco”.

I dischi Prodotti dal coro : foto d’insieme tratta dal “Calen-dario 2007”

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La collaborazione con il Coro S.Ilario ed il proget-to “Messa delle Montagne”

Dopo ripetuti incontri in occasione di manifesta-zioni canore, nel 2001 il Coro Valle dei Laghi dava vita con il coro il S. Ilario di Rovereto e con il coro Croz Corona di Denno ad una efficace e inconsue-ta forma di cooperazione per realizzare il CD “Alpi-ni Italiani, Alpini nel mondo”.

All’incisione discografica infatti si giunse svolgen-do insieme tutto il lavoro di produzione nelle sue va-rie fasi, partendo dalla ideazione, visionando ed esa-minando i pezzi proposti, assegnandoli quindi ai sin-goli cori, a seconda della corrispondenza delle canzo-ni alle caratteristiche interpretative di ciascun grup-po. Si trattava di una raccolta di 10 brani originali, in cui i canti degli alpini, abbandonati i temi della guerra, erano rivisitati in chiave moderna per rendere omag-gio all’alpino di oggi, generoso, solidale e pioniere di pace, che accorre dove c’è bisogno. I tre cori, uni-ti da rapporti di amicizia, si erano messi in gioco al-la pari, ignorando i consueti antagonismi, accomu-nati dal desiderio di raccontare le penne nere con le parole di Fausto Fulgoni e le armonizzazioni, ancora una volta, del prof. Riccardo Gravina.

La collaborazione con il coro di Rovereto era de-stinata però a prolungarsi e a dare frutti tanto lusin-ghieri, quanto inattesi. Infatti nel 2002, anno inter-nazionale della montagna, il maestro Giovanni Ve-neri, compositore parmense di fama internazionale, propose al Coro S. Ilario di eseguire la sua Messa per

coro virile ed orchestra. La necessità di disporre di un organico adeguato a sostenere la sonorità dell’or-chestra, imponeva però la ricerca di una seconda for-mazione che per sensibilità interpretativa e caratte-ristiche vocali, potesse amalgamarsi e fondersi per-fettamente in un unico complesso corale. Si giunge-va così, grazie alla reciproca conoscenza, ad indivi-duare nel Valle dei Laghi, il coro rispondente a que-sti requisiti. La “Messa delle Montagne”, interamen-te in latino, ripercorre lo schema classico delle com-posizioni liturgiche, comprendenti il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus e l’Agnus Dei. La prima del Con-certo si tenne al Teatro Zandonai di Rovereto il 25 maggio 2002 con l’Orchestra dell’Accademia Filar-monica di Bologna. A questa prima esecuzione ne seguirono altre a Bolzano, a Trento, nella Cattedrale di Arte Sella, a Bologna e a Parma. Particolare valore assunse questo ultimo concerto eseguito unitamen-te all’orchestra del Regio di Parma nel Duomo, in oc-casione della conclusione dei suoi pluriennali lavo-ri di restauro. L’esecuzione della “Messa” poneva fi-ne alle polemiche relative al repertorio ed alle limita-te potenzialità interpretative dei cori popolari tren-tini per una impersonale e sterile ripetizione di sti-lemi antiquati, dimostrando la loro grande duttilità.

Sul quotidiano “L’Adige”Anna Maria Eccli com-mentava l’evento straordinario della prima, sottoli-neando l’ovazione finale “per il maestro Veneri, au-tore d’una Messa indimenticabile e per l’Orchestra Accademica Filarmonica di Bologna, che ne ha sa-puto esprimere intensità e finezza portando il pub-blico a respirare su vette altissime, e per i due cori, che ne hanno esaltatati forza e purezza.”

Giuseppe Calliari, noto critico musicale così scriveva invece, sempre sullo stesso giornale, dopo l’esecuzione della Messa presso l’Abbazia di S. Lo-renzo a Trento: “La Messa delle Dolomiti … si è di-mostrata una partitura coinvolgente, comunicativa nei suoi riferimenti debussiani e perosiani. … Nel mettere insieme queste ormai “secolari” fonti – con quella francese quella del più autorevole esponente della “reformatio” cattolica – la Messa dedicata alle montagne sa tenere quel difficile equilibrio tra com-2002, Trento, Abbazia di S. Lorenzo

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2005, Malga Fratte, Monti Lessini, Concerto “Echi di Infinito” (foto Badocchi)

piutezza costruttiva ed immediatezza di comunica-zione che l’idea, nata dai cori che ne sono interpre-ti, chiede. … Giovanni Veneri, prolifico autore ed attivo direttore, ha trascinato in una bene articola-ta conduzione le voci virili e l’orchestra dell’Accade-mia Filarmonica di Bologna in un insieme che sulla carta è sempre problematico: come far sì che le vo-ci umane e strumentali non si elidano? Come con-durre un’ampia partitura avvalendosi sempre dell’in-sieme corale? … I cori, in scena nella prima parte della serata con alcuni motivi classici della monta-gna, a mettere in luce una felice musicale gentilez-za oppure un’incisiva definizione armonica, hanno vissuto in quest’esperienza d’impegno una non pic-cola crescita di consapevolezza: affrontare partiture nuove, cimentarsi nel sacro, porsi in rapporto con un’orchestra ed un direttore concertatore, affronta-re i tempi di una tournèe, sono aspetti che sposta-

no la mentalità del corista popolare verso forme di impegno prima sconosciute. Tra i momenti di pro-positività recenti che il mondo corale vive, proprio rapportandosi a dimensioni colte ed al mondo stru-mentale, il progetto della Messa delle Dolomiti si inserisce con una propria precisa identità e forza.”

La “Messa delle Montagne” ha avuto un seguito discografico con l’incisione dell’omonimo CD, che contiene la registrazione del concerto tenuto dal Co-ro Valle dei Laghi e dal Coro S. Ilario con l’orchestra del Teatro Regio di Parma nel Duomo di quella città.

La collaborazione con Antonella Ruggiero ed il Fe-stival di Sanremo

Dal 2005 la storia del Coro Valle dei Laghi si in-treccia con l’attività professionale della nota can-tante Antonella Ruggiero, una delle voci femminili più note e carismatiche della musica leggera italia-

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na. Questa straordinaria interprete, invitata ad esi-birsi nell’ambito del Festival “I Suoni delle Dolomi-ti”, aveva proposto uno spettacolo costruito me-diante la riproposizione di canti popolari con l’uni-co accompagnamento di un coro maschile, nel ri-spetto del più genuino filone del canto tradiziona-le trentino. Nel progetto “Echi di Infinito: la mon-tagna canta” era stata coinvolta la Federazione Co-ri del Trentino che, per la sua funzione di coordina-mento, era l’organismo più competente ad indivi-duare tra le formazioni corali provinciali quelle che potevano corrispondere maggiormente ai requisi-ti richiesti dal progetto della Ruggiero. Fra i poten-ziali gruppi, grazie alla partecipazione a concorsi ed iniziative programmate dalla Federazione Cori del Trentino, veniva quindi individuato il sodalizio di Padergnone che coinvolgeva nella proposta il Co-ro S. Ilario, suo partner d’elezione.

Dopo i primi incontri con la cantante e dopo aver definito i particolari del progetto, si passava alla selezione dei canti che dovevano far parte del-la scaletta del concerto. Fin dall’inizio fu deciso che lo spettacolo doveva articolarsi in due fasi distinte, la prima con l’esibizione dei due cori singolarmen-te assieme alla Ruggiero e la seconda con i due co-ri riuniti in un unico complesso per accompagna-re la protagonista dello spettacolo nell’esecuzione dei più celebri canti della tradizione e di due brani tratti dal suo repertorio. Fu fissata per il concerto

la domenica del 6 agosto 2005 presso Malga Frat-te sui Monti Lessini.

L’aspetto forse più interessante del progetto sta-va nell’accostamento di due formazioni, composte da puri dilettanti, con il mondo musicale professio-nale, formato da consulenti musicali, fonici, compo-sitori ed un’interprete riconosciuta ed acclamata a livello internazionale. Una piacevole sorpresa per tutti i corsiti fu sicuramente l’atteggiamento della Ruggiero, che nonostante la grande fama e l’espe-rienza si è sempre dimostrata disponibile e lonta-na da qualsiasi comportamento divistico, pronta al 2005, Milano Teatro Strehler (foto Badocchi)

Sopra: 2007, Sanremo, i due cori davanti al Teatro AristonSotto: i due cori e Antonella Ruggiero cantano “Canzone Tra le guerre” sul palco dell’Ariston (foto Badocchi)

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contatto umano e perfino attenta ai suggerimenti tecnici che venivano dai maestri dei due cori Pao-lo Chiusole e Antonio Pileggi. Il concerto sui monti Lessini, furori da ogni retorica facile ad enfatizza-re, fu un autentico successo. Il pubblico, stimato in circa quattromila persone, riempiva la verde vallet-ta di Malga Fratte, trasformata per un pomeriggio in luogo magico senza tempo grazie all’incanto del-le armonie dei cori e di Antonella Ruggiero. A ripro-va del successo dell’iniziativa e del livello esecutivo raggiunto dal Coro Valle dei Laghi e dal Coro S. Ila-rio, il concerto è stato riproposto in forma amplia-ta, non solo all’Auditorium del MART a Rovereto e all’Auditorium di S. Chiara a Trento, ma anche nelle prestigiose sale del Teatro Strehler di Milano e del Vittoriano di Roma.

La lunga serie di concerti eseguiti assieme al-la Ruggiero aveva dimostrato in modo indubitabile la validità della proposta artistica e l’affidabilità dei due cori trentini, tanto che nel 2006, ricevuta con-ferma della presenza della cantante al 57° Festival di Sanremo, venne al suo staff l’idea di proporre il brano in concorso, “Canzone fra le guerre”, nel-la versione a cappella con l’accompagnamento del-le due formazioni corali

Si deve riconoscere che era un’idea assolutamen-te coraggiosa ed originale, una novità che esulava da-gli abituali schemi delle proposte festivaliere. Avuta la disponibilità entusiastica dei due cori, il team del-la Ruggiero inviò la proposta ufficiale alla direzione artistica del Festival. Infatti occorreva prima di tutto convincere Pippo Baudo della concretezza della pro-posta e della piena professionalità e affidabilità dei cori, quindi verificare se fosse possibile schierare e far esibire sul palco del Teatro Ariston in tempi rapi-dissimi un unico gruppo di oltre 60 persone. Giunto a fine dicembre 2006 il tanto atteso nulla osta, par-tiva a pieno regime il lavoro di preparazione del bra-no e dei suoi interpreti. Il maestro Barzan provvede-va sollecitamente ad armonizzare la canzone di Car-rara-Ruggiero per voce solista e coro e cominciava un mese frenetico di preparativi, di prove e di definizio-ne dei particolari dell’esecuzione.

Era da poco iniziato il 35° anno di attività del co-ro, festeggiato con la stampa di un calendario illustra-to con foto rievocative di sette lustri e con un solen-ne concerto tenuto nella chiesa di Padergnone il 20 gennaio e questo invito a Sanremo costituiva un ri-conoscimento più che meritato. Giorno per giorno inoltre cresceva sempre di più l’interesse e la curiosi-tà per il brano in preparazione da parte degli organi di informazione e degli appassionati del canto corale e si susseguivano le interviste per le televisioni ed i quotidiani nazionali e locali. Il lavoro di raccordo fra le due formazioni e quello di integrazione con la vo-ce solista della Ruggiero, procedeva grazie alle prove che si tenevano presso il Centro Musica del Comune di Trento. Da questo impegno e dai risultati delle ve-rifiche, nasceva la consapevolezza dell’ottimo livel-lo interpretativo raggiunto e della possibilità di con-frontarsi senza timore e senza complessi di inferio-rità con il mondo del Festival sanremese. Percorse tutte le fasi del complesso iter organizzativo, com-prese le modalità della trasferta in terra di Liguria, giungeva la tanto attesa e temuta data del 1 marzo.

Ecco come ricordano questa esperienza singola-re i protagonisti del coro Valle del Laghi.

“L’arrivo a Sanremo è lo sbarco su di un mondo so-lo immaginato o visto alla televisione. Il solo avvicinar-si muniti degli appositi pass all’entrata del Teatro Ari-ston riservata agli artisti, è qualcosa allo stesso tem-po esaltante e scioccante, con la folla che circonda gli artisti, vuole farsi fotografare assieme a loro e chie-de autografi. I coristi si scoprono protagonisti assie-me ai cantanti in gara, che sono accompagnati dai lo-ro manager e spesso perfino dai loro consulenti legali.

Dopo le rituali interviste ai microfoni alla RAI ed i consigli degli addetti ai lavori, arriva il grande momento delle prove ufficiali ed i cori salgono per la prima volta sul palcoscenico più famoso d’Italia.

È una girandola di tecnici, di fonici e di musicisti. Il palco è molto grande, ma bisogna sistemare nella maniera ottimale oltre 60 persone che devono po-sizionarsi nei ristretti tempi della diretta televisiva e senza intralciare il movimento delle telecamere.

Il pubblico presente alle prove è particolarmente

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numeroso e rimane piacevolmente sorpreso quando i cori provano la canzone con Antonella Ruggiero. Alla fine un grande applauso libera tutti dalla ten-sione, ed in particolar modo giungono graditi gli apprezzamenti degli orchestrali, che per una volta possono essere solo semplici spettatori.

Rimane ancora il tempo per un servizio fotogra-fico al vecchio teatro del Casinò e quindi il Valle dei Laghi ed il S. Ilario si immergono nuovamente nella frenetica e delirante atmosfera delle vie di S. Remo e del Teatro Ariston. Intanto le ore passano rapidis-sime e giunge quindi l’ora dell’esibizione.

L’emozione lascia il posto alla concentrazione ed alla voglia di dimostrare cosa sia la coralità.

I due cori trentini sono infatti diventati testimo-ni e simboli del canto corale e le numerosissime te-lefonate ed e-mail che giungono da tutta Italia lo stanno a dimostrare.

Si vede in loro i campioni di un mondo musica-le amatoriale che si riscatta da lunghi anni di anoni-mato e che dimostra finalmente la propria moder-nità e la capacità di restare al passo con i tempi.”

Il quotidiano La Repubblica così ha raccontato e commentato quell’evento unico:

“Visto così, in penombra, con i sessanta elemen-ti del coro di montagne e lei, Antonella Ruggiero, in primo piano di nero vestita, il palco dell’Ariston non sembrava neanche più quello di Sanremo. L’or-chestra tace, pare di stare dentro una magica sera-ta di musica sotto la volta immensa del Radio City Music Hall, dove non c’è ombra di gara, contano so-

lo le voci, l’atmosfera, la religiosità di parole tenere e terribili che tuonano contro la guerra e piangono vittime innocenti. Una piccola idea, ma suscita un’e-mozione enorme: incanta la voce dell’artista, com-muove la poesia dedicata a questi tempi in cui “è notte intorno a noi”, avvolge il background del Co-ro Valle dei Laghi e del Coro S. Ilario, fusi assieme”.

Anche “Il Trentino” poneva l’accento sulle emo-zioni di quella serata, ricordando l’amore che il gran-de pianista Arturo Benedetti Michelangeli aveva per il Coro della SAT, nel quale aveva riconosciuto la va-lidità artistica del canto popolare.

Antonella Ruggiero da parte sua volle esprime-re la sua soddisfazione all’indomani del Festival di Sanremo con queste parole inviate al quotidiano “Il Trentino”:

“Cari amici, ciò che è successo giovedì sera a S. Remo, per me non ha a che fare soltanto con un’ot-tima esecuzione di “Canzone tra le guerre”, ma con qualcosa di veramente straordinario. Sono riuscita, grazie alla vostra presenza, a comunicare al vastissi-mo pubblico che segue il Festival di Sanremo qualco-sa di assolutamente unico ed infinitamente prezioso. Siamo riusciti a portare un pezzetto di cielo in un luo-go “molto terreno” ed a far sognare moltissima gen-te. Questo è il vero senso di ciò che per me è la mu-sica, l’arte e il mio lavoro. Con voi alle spalle mi sono sentita fiera e protetta. Abbraccio tutti uno ad uno, con infinito affetto, saluto voi e le vostre famiglie”.

Passati alcuni mesi, anche al pubblico della Val-le dei Laghi, veniva concesso il piacere di assiste-re ad un concerto live dei due cori con la Ruggiero a settembre, nel grande prato al Gaggio di Cavedi-ne circondato dal bosco, un anfiteatro naturale al-le spalle dell’abitato.

L’occasione era data dalla festa per la ricor-renza dei 110 anni della Cassa Rurale di Cavedi-ne, cui erano presenti nel pomeriggio per l’attesa esibizione circa tre mila persone, cariche d’entu-siasmo e gratificate dall’esecuzione della “Canzo-ne tra le guerre “, insieme a molti altri brani, com-presi canti classici come la “Montanara” e “Quel Mazzolin di Fiori”.

2008, Fondo Palanaunia, il coro con Antonella Ruggero

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Gli ultimi concerti ed il nuovo CD “Emozioni”La storia qui rievocata del coro Valle dei Laghi,

costellata di eventi straordinari, ha raggiunto i gior-ni nostri. Antonella, come ormai da tempo è chiama-ta affettuosamente la cantante Ruggiero dai coristi e dagli abitanti della Valle, dopo tanti concerti accol-ti con grande entusiasmo e commozione dal pubbli-

Sempre nel 2007 il coro, tra i numerosi impegni, aveva inciso la canzone “Serenada a Castel Toblin” di Luigi Pigarelli, che faceva parte di un CD conte-nente 18 brani interpretati da altrettanti cori tren-tini, edito dalla Federazione Cori del Trentino per far conoscere lo stato dell’arte delle migliori e più significative compagini provinciali, selezionate se-condo la qualità delle voci, la fusione timbrica ed il controllo dell’intonazione. Questo anno magico e straordinariamente ricco di soddisfazioni per i nu-merosi concerti in Italia e anche in Germania, du-rante la breve trasferta a Garmisch-Partenkirchen e a Seehausen, vedeva infine l’assegnazione il 30 giu-gno a Caravaggio (BG) del premio Careàs al coro Val-le dei Laghi unitamente al Coro S. Ilario e alla Rug-giero con la seguente motivazione: “Per il prezio-so contributo al mantenimento della cultura musi-cale corale della storia e della tradizione popolare italiana” e “per l’impegno sociale e la diffusione del valore della solidarietà.”

2010, Padergnone, una prova nella sede del Coro. (foto CSJ)

2010, il Coro presenta l’ultimo CD a Castel Toblino (foto F. Bressan)

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co, ha mantenuto un rapporto di collaborazione e di vera amicizia con il coro di Padergnone, con il quale si è esibita a Fondo al Palanaunia (dicembre 2008), a Sauze d’Oulx ( Capodanno e Ferragosto 2010) e a Bondo in località Malga Campantic (luglio 2010).

Di interesse straordinario è stata la collaborazio-ne avviata negli ultimi anni con la musicista di fama internazionale Marica Lombardi, insegnante di oboe al Conservatorio di Parigi ed organizzatrice del Fe-stival internazionale “Risonanze Armoniche”, che si tiene da nove anni a Lasino e nei paesi limitrofi nel mese di luglio, grazie alla quale i coristi hanno po-tuto esplorare con successo le potenzialità espres-sive del canto corale popolare accostato al suono raffinato ed evocativo dell’oboe.

L’attività del coro, che ha raggiunto una gran-de popolarità dopo l’esibizione a Sanremo, prose-gue sempre con rigoroso impegno, necessario per mantenere un livello interpretativo elevatissimo, così come continua la ricerca di nuovi brani di qua-lità da inserire nel proprio repertorio. Dopo esser-si confrontato con brani pop e con le più celebrate canzoni dei Beatles (“Michelle”, “Yesterday” ed “Ehi Juide), oggi propone anche pezzi dei King’s Singer e, naturalmente, di Antonella Ruggiero.

Le apparizioni in pubblico si sono intensificate e con esse anche gli interventi per rallegrare gli anzia-ni delle case di riposo ed alle manifestazioni di soli-darietà a sostegno di iniziative umanitarie e benefi-che di varia natura, tra le quali per ricordare solo le più recenti, i concerti di Fraveggio per la missione di Padre Celestino Miori in Mozambico, di Dro a favore dell’Associazione Mato Grosso e di Vezzano, a soste-gno dell’attività della Croce Rossa Italiana per Haiti.

Nel marzo del 2009, il Coro è stato scelto dal Coro “Canossa” a rappresentare la coralità trenti-na nell’ambito della Rassegna “Cantando la Prima-vera” svoltasi al Teatro “Matilde di Canossa” di Cia-no d’Enza (RE).

Frequenti sono poi le sue esibizioni a Tirolo, presso Merano e nel teatro nuovo di Vezzano, do-ve da ultimo ha organizzato con la Delegazione Lo-cale della LILT (Lega italiana lotta ai tumori), la sua

sedicesima e singolare rassegna di canto popolare con la partecipazione del quartetto vocale femmi-nile “De Cater”, della Val Gardena e il gruppo stru-mentale di folk-revival “Abies Alba”.

Nel 2009 il coro ha avviato le operazioni di regi-strazione di un nuovo CD nella tranquillità e nel si-lenzio della chiesetta di Lon, piccola frazione di Vez-zano, con il noto esperto Luigi Frank e con la super-visione artistica del prof. Giorgio Larcher.

Il lavoro si è protratto per circa sette mesi e final-mente il 21 maggio del 2010 il Coro ha presentato al pubblico nella seducente cornice di Castel Toblino, il CD dal titolo “Emozioni”, in un elegante involucro in forma di libretto, che riporta i testi delle quindici canzoni con commento in tre lingue ed una presen-tazione accurata del Prof. Giuseppe Calliari. Il disco è lo specchio fedele della abilità esecutiva raggiunta dal coro di Padergnone in 38 anni di studio e di affi-namento vocale che ha portato alla perfetta conso-nanza dei componenti del gruppo. I brani accurata-mente selezionati sono in gran parte canti d’auto-re, che presentano caratteri di spiccata originalità ri-spetto alla tradizione popolare; qui le parole, spes-so in dialetto trentino, offrono momenti di vero liri-smo, alternando l’incanto dei paesaggi alpini e della natura in fiore, al rimpianto dei tempi andati e degli amori giovanili, la soave tenerezza delle ninne nan-ne, allo struggimento degli emigranti in terre lonta-ne. Se le parole sono state scritte da poetesse e poeti come Antonia Dalpiaz, Lina Faes, Marco Pola e Marco Maiero, le melodie appartengono ad alcuni dei mu-sicisti più noti nel canto popolare da Bepi De Marzi a Mario Zuccante ed a Luigi Pigarelli. Tra le quindi tracce si distinguono il “Tango trentino”, molto ese-guito in numerose versioni e amaramente ironico di Roberto Di Marino, “Kumbaya”, canto degli schiavi neri d’America, elaborato per coro da Flaminio Ger-vasi e “Corale Cantico”, pezzo del repertorio di An-tonella Ruggiero teso alla ricerca della pace interio-re, eseguito dal vivo con la cantante al Palanaunia di Fondo nel dicembre del 2008.

Non stupisce la scelta di testi, dove la poesia dei sentimenti attraversa e domina molteplici temi, se si

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Sul prossimo numero: Museo del Vetro - Fondazione “Maria Pernici”, Carisolo

considera che il coro aveva più volte accompagnato con le sue interpretazioni la recita di liriche dialet-tali e non, come era avvenuto ad esempio al Centro di ecologia alpina delle Viote del Bondone nel 2002, per l’inizio della celebrazione delle “Giornate mon-diali della poesia” promosse dall’Unesco, quando si era esibito nell’ambito di un “reading” organizzato in quota dal gruppo trentino di “Poeti per la pace”.

L’approdo artistico cui è giunto il coro con que-sto CD “Emozioni” si può scorgere agevolmente nel-le parole autorevoli scritte dal Prof. Giuseppe Cal-liari, con la consueta competenza ed eleganza, nel-la presentazione della raccolta:

“Il Coro Valle dei Laghi diretto da Paolo Chiusole manifesta da tempo la vocazione ad una musicalità cameristica, raffinata, melodica, lontana dai canoni tramandati dalla maggiore tradizione alpina . Lascia-ta da parte la scansione ritmica imperiosa in favore di un eloquio espressivo sensibile alla dimensione colta il coro virile diventa uno strumento duttile, in-

teressato a interpretare con proprietà momenti mu-sicali di diversa caratterizzazione. Nella sua storia il Valle dei Laghi ha avvicinato compositori nei qua-li trovare la creatività intonata alla qualità del coro, costruendo così via via un percorso espressivo del tutto personale, ben riconoscibile, e un repertorio alternativo rispetto a quello dominate. Il CD, usci-to a distanza dalla prima incisione discografica, il-lustra i contenuti di questa ricca avventura musica-le disponendo i canti lungo un traccia tematica la cui natura è tanto reale quanto simbolica: si tratta del movimento verso l’ignoto e della tensione ver-so l’origine, dimensioni costitutive del viaggio, re-ale e metaforico, fisico e spirituale, il cui senso è al fondo trovare se stessi. “

SCHEDA STORICA DEL CORO VALLE DEI LAGHIPresidentiGiovanni Tonelli nel 1972Renato Salvetta dal 1973 al 1974Fabio Bassetti dal 1975 al 1981Roberto Bottoni dal 1981 al 1983Bruno Cozzini dal 1983 al 1987Giorgio Bressan dal 1987 al 1997Paolo Chemotti dal 1998 al 2002Mario Bressan dal 2002 al 2010.

Direttori:Sandro Bressan dal 972 al 1982Paolo Chiusole dal 1983 ad oggi.

Componenti del Coro nell’anno 2010Tenori primi: Dario Patton, Giorgio Giovanazzi, Lo-

renzo Pontati, Mario Bressan, Orlando Gianor-doli, Pierluigi Daldoss, Valentino Fava.

Tenori secondi: Daniele Poli, Roberto Corradini, En-rico Daldoss, Enrico Recarli.

Baritoni: Bruno Cozzini, Franco Benigni, Giorgio Bressan, Luigi Miori, Paolo Chemotti.

Bassi: Adriano Tamanini, Claudio Aldrighetti, Marco Luchesa , Sandro Graziadei.2010, CD “Emozioni”

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O S S E R V A T O R I O

Cenni all’esperienza comprensorialeRispetto alla quasi totalità dei Comprensori, per

i quali il passaggio alla Comunità – pur con le modi-fiche introdotte con la L.P. 3/2006 e la L.P. 2009 - si pone in un’ottica di continuità (con particolare rife-rimento al territorio e alla sede), per il C5 invece si tratta di un percorso nuovo, nel senso che dalla co-stola del vecchio Ente (che comunque continuerà a sopravvivere pur con una gestione commissariata an-cora per qualche anno) sono scaturite ben 5 anime: • la Comunità della Rotaliana• la Comunità della valle di Cembra• la Comunità della valle dei Laghi• la Comunità della Paganella• il Comune di Trento che assorbirà, mediante con-

venzione, anche i Comuni dell’interland (Aldeno – Cimone e Garniga) e che comunque esercitava già prima una sorta di autonomia per le compe-tenze dirette in materia di servizi sociali, urba-nistica ed edilizia pubblica e agevolata;

È indubbio che una simile aggregazione com-prensoriale fosse carente sotto il profilo della omo-geneizzazione territoriale e di conseguenza poco ri-spondente alle esigenze delle diverse realtà. Aspetto non secondario, poi, le difficoltà gestionali dell’En-te a partire da un’assemblea di oltre 130 consiglie-ri, che, mortificando la presenza dei partecipanti al-le sedute, rendeva poco stimolante la partecipazio-ne. Al fine di valorizzare le varie entità valligiane e cercare di recuperare credibilità nelle zone perife-

La Comunità della Valle dei Laghi

MARIANO BOSETTI

Il solco della valle dei Laghi.

LA  COMUNITA’  della  VALLE  dei  LAGHI  

di    Mariano  Bosetti  

 

Cenni  all’  esperienza  comprensoriale  

Rispetto  alla  quasi  totalità  dei  Comprensori,  per  i  quali  il  passaggio  alla  Comunità  –  pur  con  le  modi-­‐fiche  introdotte  con  la  L.P.  3/2006  e  la  L.P.  2009  -­‐  si  pone  in  un’  ottica  di  continuità  (con  particolare  rife-­‐rimento  al  territorio  e  alla  sede),  per   il  C5  invece  si  tratta  di  un  percorso  nuovo,  nel  senso  che  dalla  co-­‐stola  del  vecchio  Ente  (che  comunque  continuerà  a  sopravvivere   pur   con   una   gestione   commissariata  ancora  per  qualche  anno)  sono  scaturite  ben  5  ani-­‐me:    

• la  Comunità  della  Rotaliana  • la  Comunità  della  valle  di  Cembra  • la  Comunità  della  valle  dei  Laghi  • la  Comunità  della  Paganella  • il  Comune  di  Trento  che  assorbirà,  mediante  convenzione,  anche   i  Comuni  dell’   interland  (Al-­‐

deno  –  Cimone  e  Garniga)  e  che  comunque  esercitava  già  prima  una  sorta  di  autonomia  per  le  competenze  dirette  in  materia  di  servizi  sociali,  urbanistica  ed  edilizia  pubblica  e  agevolata;  

 E’  indubbio  che  una  simile  aggregazione  comprensoriale  fosse  carente  sotto  il  profilo  della  omoge-­‐

neizzazione  territoriale  e  di  conseguenza  poco  rispondente  alle  esigenze  delle  diverse  realtà.  Aspetto  non  secondario,  poi,  le  difficoltà  gestionali  dell’  Ente  a  partire  da  un’  assemblea  di  oltre  130  consiglieri,  che,  mortificando  la  presenza  dei  partecipanti  alle  sedute,  rendeva  poco  stimolante  la  partecipazione.  Al  fine  di  valorizzare  le  varie  entità  valligiane  e  cercare  di  recuperare  credibilità  nelle  zone  periferiche,  si  era  introdotto  un  meccanismo  con  la  suddivisione  del  C5  in  4  zone  [Trento  e  Comuni  vicini  -­‐  Rotalia-­‐na   e   Altopiano   Paganella   –   valle  di  Cembra  e  valle  dei   Laghi],   la   cui   individuazione   non  aveva  soltanto  lo  scopo  di  un   maggior  coinvolgimento   e   partecipazione   all’  attività   comprensoriale   [ogni   seduta   dell’   as-­‐semblea   generale   doveva   essere   precedute  dalle   4   assemblee   di   zona],   ma   anche   delle  precise   indicazioni   per   la   formazione   della  giunta:   infatti,   oltre   al   presidente,   gli   8  assessori   dovevano   essere   espressione   di   tutte   e  4   le   zone   (ossia   2   per   zona).   La   crisi   dei   partiti  tradizionali,   che   si   è   accompagnata   nell’  arco  di  un  decennio  dagli  inizi   degli   anni   ’90,   ha  favorito   una   maggior   radicalizzazione   delle  tematiche   comprensoriali   al   territorio  al  punto  che  –  rispetto  alle  forti  critiche  all’  istituzione  comprensoriale,  sintetizzata  nella  frase  “carrozzone  mangia-­‐soldi”  –  si  è  via,  via  attenuato,  sia  per  numero  che  per  carica  polemica,  lo  stuolo  dei  detrattori  al  punto  che  col  passare  del  tempo  non  si  avvertiva  in  maniera  così  pressante,  come  nel  passato,  l’  esigenza  di  quella  riforma,  che  portato  in  questi  ultimi  anni  al  varo  delle  Comunità  di  valle,  la  cui  credibilità  –  a  par-­‐

Comunità  della  valle  dei  Laghi    

formata  da  6  comuni  (ab.  10619)    

   Calavino                                                                            Vezzano    (ab.  1487)                                                                    (ab.  2189)      Cavedine                                         Terlago                                  (ab.  2949)                                                                        (ab.  1878)                                  Lasino                              Padergnone                            (ab.  1397)                              (ab.  719)  

 

I l  solco  del la  val le  dei  Laghi  

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riche, si era introdotto un meccanismo con la sud-divisione del C5 in 4 zone [Trento e Comuni vicini - Rotaliana e Altopiano Paganella – valle di Cembra e valle dei Laghi], la cui individuazione non aveva sol-tanto lo scopo di un maggior coinvolgimento e par-tecipazione all’attività comprensoriale [ogni sedu-ta dell’assemblea generale doveva essere preceduta dalle 4 assemblee di zona], ma anche delle precise indicazioni per la formazione della giunta: infatti, oltre al presidente, gli 8 assessori dovevano essere espressione di tutte e 4 le zone (ossia 2 per zona). La crisi dei partiti tradizionali, che si è accompa-gnata nell’arco di un decennio dagli inizi degli anni ’90, ha favorito una maggior radicalizzazione delle tematiche comprensoriali al territorio al punto che – rispetto alle forti critiche all’istituzione compren-soriale, sintetizzata nella frase “carrozzone mangia-soldi” – si è via, via attenuato, sia per numero che per carica polemica, lo stuolo dei detrattori al pun-to che col passare del tempo non si avvertiva in ma-niera così pressante, come nel passato, l’esigenza di quella riforma, che portato in questi ultimi anni al varo delle Comunità di valle, la cui credibilità – a parte la cassa di risonanza dei partiti sostenitori – con riferimento alle percentuali di adesioni al voto (44% a livello provinciale) è di là da venire.

La nuova aggregazione comunitaria

Lo statuto“L’ entità territoriale della Valle dei Laghi, che rag-

gruppa i Comuni di Calavino, Cavedine, Lasino, Pader-gnone, Terlago, Vezzano, ha portato a termine un pro-cesso di sintesi politico-amministrativa, che si sostanzia nella costituzione della nuova Comunità. Nel corso del tempo la storia millenaria della valle, pur strutturando-si in aggregazioni comunitarie autonome, si è intessu-ta di rapporti collaborativi, basati sull’adozione di nor-me consuetudinarie condivise per la gestione del territo-rio, e di forme di solidarietà socio-economiche, attivate con iniziative nei confronti dei poteri forti del passato; infatti per molti secoli (dalla seconda metà del ’300 fi-no alla fine del ’700) ha costituito l’aggregazione terri-

toriale della Pretura esterna del Distretto di Trento, de-nominata “le 91 Comunità al di qua dell’Adige”. In pe-riodi più vicini a noi, con l’istituzione comprensoriale, si è iniziato un nuovo percorso di collaborazione sovra co-munale, che per tale realtà, nell’articolata strutturazio-ne del Comprensorio C5 della valle dell’Adige, ha trova-to riconoscimento con l’individuazione della “zona del-la Valle dei Laghi”, dando quindi una connotazione po-litico-territoriale a quel neotoponimo, coniato negli an-ni ‘602 per recuperare e ricostruire uno spirito di valle. La consapevolezza di un’unità d’intenti nell’organizza-zione e gestione di alcuni servizi comunali (l’attività cul-turale e sociale, la polizia urbana…) ha avviato, in que-sti ultimi anni, una positiva esperienza fra le 6 Ammini-strazioni comunali, che potrà meglio consolidarsi e svi-lupparsi con il varo della nuova Comunità.”

Questo il preambolo o meglio l’introduzione sto-rica allo Statuto della Comunità della Valle dei La-ghi, la cui bozza – predisposta a termini di legge dai sindaci dell’appena conclusa consiliatura 2005/2010 dopo un’ampia concertazione, che vide coinvolte sia le maggioranze che le minoranze dei 6 consigli co-munali – venne discussa e condivisa da un’apposita commissione intercomunale3 e nel marzo 2009 ap-provata ad unanimità da tutti i consigli comunali.

1 Già fin dalle fonti del XVI° secolo vengono citate – ai fini della coscrizione militare- le Comunità della Pretura esterna: “Cadeno, Sopramonte, Vigol Basel-ga, Terlago, Pe de Gaza, Vezan e Padergnon, Calavin e Consorti, Cavedine”. Fra le Comunità citate ci sono anche 4 “ville” [Cadine, Sopramonte, Vigolo Basel-ga e Baselga], allora autonome, che pur facendo parte geograficamente del bacino valligiano, amministrativamente sono frazioni del Comune di Trento.

2 Da A. Gorfer [La valle dei Laghi, 1982] – pg. 219: “… Ne sono indici genera-li (riferimento alle attività produttive d’inizio anni ’60 ed alle prime forme di collaborazione socio/economica intercomunale, come la Cantina Socia-le Toblino di Sarche e il Magazzino Frutta di Pietramurata) l’aspirazione, an-cora occulta, a un “comune di valle”, che abbatta le attuali divisioni del fondoval-le governato da sei comuni diversi, e l’istituzione del “Comitato della valle dei La-ghi”. Il Comitato fu costituito nell’agosto del 1965 quale sede di dibattito intercomunale sui problemi della collettività, a iniziare da quelli turistici e ambientali, e che diede vita, poi, qualche anno più tardi alla famosa “Setti-mana Folkloristica della valle dei Laghi”, la manifestazione popolare di re-spiro provinciale, che si teneva annualmente fra fine agosto ed inizio set-tembre a partire dalla fine degli anni ’60 fino agli anni ’90. La prima dire-zione del Comitato era formata da: Remo Dallapè (presidente), Natale Ri-gotti (vicepresidente), Giuseppe Morelli (la vera anima dell’ iniziativa) se-gretario e dai consiglieri: Rino Poli, Renato Salvetta e Carlo Ronchetti; dai revisori dei conti: Federico Faitelli, Dario Bressan e Luciano Bagatoli.

3 Vi facevano parte 2 rappresentanti (1 di maggioranza e 1 di minoranza) di ogni consiglio comunale con il Sindaco di Padergnone Luca Maccabelli (no-minato poi a dicembre dall’assemblea di valle 1° presidente) nel ruolo di Coordinatore dell’ assemblea dei Sindaci.

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O S S E R V A T O R I O

Tale metodologia della concertazione -scaturita dalle amministrazioni comunali in un rapporto di pari dignità e peso politico fra soggetti responsa-bili [“inter pares”], che rappresentava quella sinte-si operativa -già in atto per alcune interessanti atti-vità intercomunali nel momento di definire giuridi-camente la “nuova legge comunitaria”- venne a co-stituire quella linfa vitale per far decollare col pie-de giusto l’Ente intermedio e superare quei primi atteggiamenti campanilistici, che solitamente osta-colano i processi di aggregazione per il raggiungi-mento di un obiettivo comune, nella consapevolez-za che l’acquisizione di una sensibilità di valle non si può inventare da un giorno all’altro, né tanto meno essere calata dall’alto, ma rappresenta un percorso a medio/lungo termine da costruirsi gradualmente con la politica dei piccoli passi, partendo dalle col-laborazioni già in atto.

I punti qualificanti dello statuto4:1. Il trasferimento di competenze dalla PAT ai Co-

muni, che in applicazione del principio di sus-sidiarietà ne diventano titolari a tutti gli effetti;

2. L’affidamento alla Comunità di valle delle com-petenze con obbligo di esercizio associato (ossia in linea di massima le deleghe, esercitate prima dai Comprensori), trasferite dalla PAT; nello spe-cifico l’Urbanistica, il Servizio socio / assistenzia-le, l’Edilizia abitativa pubblica e sovvenzionata, la Programmazione economica locale, il Diritto allo studio, le Infrastrutture d’ interesse locale a carattere sovra comunale, ….;

3. L’opportunità per libera scelta di ciascun Comune di affidare o meno alla Comunità la “gestione as-sociata” di altri servizi comunali [tributi, polizia municipale, servizio tecnico, …) e in particolare la cultura, come vedremo più avanti;

4. L’individuazione della sede giuridico-amministra-tiva nel territorio comunale di Vezzano [conti-nuità fra l’altro con la sede per le assemblee di

4 A seguito delle modifiche alla L.P. 3/2006 (ossia la legge costitutiva delle comunità di valle) con la L.P. 15/2009 dovrà per forza di cose essere modi-ficato lo statuto, approvato lo scorso anno.

zona del C5] e la possibilità di dislocare, in base ad accordi fra le Amministrazioni comunali, gli uffici comunitari negli altri Comuni, in modo da stimolare il senso di appartenenza alla Comuni-tà e favorire l’accesso dei cittadini;

5. La giunta della comunità, formata da 5 assesso-ri + il presidente in modo da garantire nell’ ese-cutivo la rappresentanza di tutte e sei le ammi-nistrazioni comunali5.

La “Cultura” motore trainante della ComunitàIn circa dieci mesi di mandato, l’attività della

Giunta è stata impegnata prevalentemente per ri-solvere i primi problemi di natura organizzativa, te-nuto presente che devono essere ancora completa-ti da parte della Giunta provinciale diversi adem-pimenti a partire dal trasferimento delle deleghe.

L’unico settore in cui si è cercato di lavorare so-do in una prospettiva di continuità col passato – nonostante l’intermezzo delle elezioni comunali del maggio scorso e quelle da poco concluse della Comunità- ha riguardato le attività culturali. Infatti si è fatto in modo che si effettuasse il passaggio di questa competenza non obbligatoria (ossia la Cul-tura) dai Comuni alla nascente Comunità. Per capi-re nella sua portata questo passaggio è necessario fare un passo indietro.

5 La prima giunta della Comunità della valle dei Laghi, approvata dall’assem-blea il 2 dicembre 2009, era formata da:Luca Maccabelli – presidente – [sindaco del Comune di Padergnone] - com-petenze: Affari generali e rapporti istituzionali, bilancio e programmazio-ne economica, politiche sanitarie, personale ed organizzazione degli uffi-ci, funzioni non delegate; Agostino Depaoli – vicepresidente – [Sindaco del Comune di Terlago] – competenze: Urbanistica, turismo e commercio, attività sportive, trasporti;Mariano Bosetti – assessore – [Sindaco del Comune di Calavino] - compe-tenze: Attività, manifestazioni e piani culturali, diritto allo studio, Istru-zione, Biblioteche;Paola Aldrighetti – assessore – [Consigliere comunale di Vezzano] - com-petenze: Assistenza sociale e beneficenza, politiche e progetti sovra co-munali per giovani, anziani, diversamente abili, ambiente e territorio, va-lorizzazione delle risorse lacustri;Alessandro Bassetti – assessore – [Vicesindaco del Comune di Lasino] – competenze: Edilizia abitativa pubblicata e privata, fonti energetiche, ser-vizi pubblici;Antonio Barbetta – assessore – [Commissario straordinario Comune di Ca-vedine] – competenze: Attività di supporto e coordinamento all’attività isti-tuzionale e procedurale – attuazione della L.P. 3/2006.

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La cultura in valle dei Laghi Da circa una decina d’anni le 6 Amministrazioni

comunali stanno collaborando attivamente per la re-alizzazione di progetti culturali condivisi di ampio respiro, supportati da quella forza vitale dell’asso-ciazionismo volontaristico, senza il quale si arene-rebbe qualsiasi iniziativa propositiva. Anima di que-sta progettualità valligiana è la Commissione Cul-turale Intercomunale, formata da 2 rappresentanti di ciascun Comune. La positiva esperienza di que-sta collaborazione intercomunale ha spinto i Co-muni, a partire dal 2007 – mediante sottoscrizio-ne di apposita convenzione con Calavino capofila- ad istituzionalizzare l’operatività della Commissio-ne, dando vita alla “Gestione Associata per il Ser-vizio Culturale”, che fra l’altro ha goduto di incen-tivi finanziari della PAT. Con la nuova impostazio-ne, oltre ai 2 rappresentanti per Comune, si è fatto spazio all’interno della Commissione anche alle ti-tolari delle 2 biblioteche: una fondamentale ed in-sostituibile sinergia tra biblioteca ed associazioni-smo, quanto mai necessaria per una crescita com-plessiva del livello culturale della valle. Un altro ele-mento qualificante è il soggetto gestore del Teatro Valle dei Laghi di Vezzano [struttura realizzata dal

C5 ed ora appartenente ai Comuni], che attraverso la Fondazione “AIDA” di Verona (vincitrice dell’ ap-palto triennale) sta collaborando intensamente con la Commissione per iniziative di grosso spessore.

Il varo degli organi comunitari (assemblea e giunta) nel dicembre scorso ha determinato nel-la primavera successiva – su iniziativa del Comu-ne capofila Calavino – l’altro determinante passag-gio di coordinamento della gestione associata per la cultura dall’amministrazione comunale di Cala-vino alla stessa Comunità della valle dei Laghi. Ed eccone sintetizzate nello schema a fondo pagi-na le motivazioni

La Gestione associata per la cultura con la ComunitàL’operatività da maggio ad ottobre 2010: si è cer-

cato di armonizzare la fase di transizione dal Comu-ne capofila Calavino alla Comunità della valle dei Laghi in modo da non ostacolare l’attività culturale programmata. Infatti in questi 5 mesi sono avvenu-ti i seguenti cambiamenti:• Passaggio Gestione associata dai Comuni alla

Comunità• Rinnovo delle Amministrazioni comunali - ele-

zioni maggio 2010

 La  “Cultura”  motore  trainante  della  Comunità  

 In  circa  dieci  mesi  di  mandato,  l’attività  della  Giunta  è  stata  impegnata  prevalentemente  per  ri-­‐

solvere  i  primi  problemi  di  natura  organizzativa,  tenuto  presente  che  devono  essere  ancora  completati  da  parte  della  Giunta  provinciale  diversi  adempimenti  a  partire  dal  trasferimento  delle  deleghe.  L’  unico  settore  in  cui  si  è  cercato  di  lavorare  sodo  in  una  prospettiva  di  continuità  col  passato  –  nono-­‐stante  l’intermezzo  delle  elezioni  comunali  del  maggio  scorso  e  quelle  da  poco  concluse  della  Comuni-­‐tà-­‐  ha  riguardato  le  att iv ità  cultural i .  Infatti  si  è  fatto  in  modo  che  si  effettuasse  il  passaggio  di  que-­‐sta  competenza  non  obbligatoria  (ossia  la  Cultura)  dai  Comuni  alla  nascente  Comunità.  Per  capire  nella  sua  portata  questo  passaggio  è  necessario  fare  un  passo  indietro.    La  cultura  in  valle  dei  Laghi  Da  circa  una  decina  d’anni  fa  le  6  Amministrazioni  comunali  stanno  colla-­‐borando  attivamente  per  la  realizzazione  di  progetti  culturali  condivisi  di  ampio  respiro,  supportati  da  quella  forza  vitale  dell’  associazionismo  volontaristico,  senza  il  quale  si  arenerebbe  qualsiasi   iniziativa  propositiva.  Anima  di   questa  progettualità   valligiana  è   la  Commissione  Culturale   Intercomunale,   for-­‐mata  da  2  rappresentanti  di  ciascun  Comune.  La  positiva  esperienza  di  questa  collaborazione  interco-­‐munale  ha  spinto  i  Comuni,  a  partire  dal  2007  –mediante  sottoscrizione  di  apposita  convenzione  con    Calavino  capofila-­‐  ad  istituzionalizzare  l’  operatività  della  Commissione,  dando  vita  alla  “Gestione  Asso-­‐ciata  per   il  Servizio  Culturale”,  che  fra   l’altro  ha  goduto  di   incentivi  finanziari  della  PAT.  Con  la  nuova  impostazione,  oltre  ai  2  rappresentanti  per  Comune,  si  è  fatto  spazio  all’interno  della  Commissione  an-­‐che  alle  titolari  delle  2  biblioteche:  una  fondamentale  ed  insostituibile  sinergia  tra  biblioteca  ed  asso-­‐ciazionismo  quanto  mai  necessaria  per  una  crescita  complessiva  del  livello  culturale  della  valle.  Un  al-­‐tro  elemento  qualificante  è  il  soggetto  gestore  del  Teatro  Valle  dei  Laghi  di  Vezzano  [struttura  realizza-­‐ta  dal  C5  ed  ora  appartenente  ai  Comuni],   che  attraverso   la  Fondazione  “AIDA”  di  Verona   (vincitrice  dell’   appalto   triennale)   sta   collaborando   intensamente   con   la   Commissione   per   iniziative   di   grosso  spessore.  Il  varo  degli  organi  comunitari  (assemblea  e  giunta)  nel  dicembre  scorso  ha  determinato  nella  primave-­‐ra  successiva  –  su  iniziativa  del  Comune  capofila  Calavino  –  l’  altro  determinante  passaggio  di  coordi-­‐namento  della  gestione  associata  per  la  cultura  dall’  amministrazione  comunale  di  Calavino  alla  stessa  Comunità  della  valle  dei  Laghi.  Ed  eccone  sintetizzate  in  questo  schema  le    

 motivazioni  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Innanzitutto  perché  il  ruolo  di  En-­‐te   gestore   di   servizi   in   un   deter-­‐minato  ambito  è  connaturato  alla  stessa   funzione   istituzionale  della  Comunità;    quindi  quale  migliore  opportunità  di  affidare  la  gestione  culturale  di  valle  alla  neonata  Comunità?  

Vanto  

La  prima  Comunità  in  provincia  a  gesti-­‐re  la  competenza  della  cultura;    anzi  la  nuova  convenzione  ha  fornito  al  Servizio  Autonomie  Locali  suggerimenti  per   l’   applicazione   delle   modalità   alle  gestioni  associate  con  le    Comunità  

Ulteriore   incentivo   contributivo   PAT  di   €   30.000,00   (una   tantum)   per   la  nuova  gestione  con  la  Comunità    

Durata  quinquennale  2010/2015  

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O S S E R V A T O R I O

• Rinnovo organi Comunità elezioni di ottobre 2010Nonostante ciò la Commissione Culturale Inter-

comunale – rinnovata nei suoi membri a seguito del-le elezioni comunali di primavera – si è riunita a Cala-vino 2 volte per programmare l’attività dell’autunno:

Le manifestazioni

nazionale, indetto dall’ANCI in collaborazione con il Dipartimento Gioventù della Presidenza del Con-siglio. Va sottolineato che l’adesione è stata presen-tata come “Comunità di valle” (intesa, sulla base di un apposito quesito con esito positivo, come “Ag-gregazione di Comuni”).

Progetto “MEMO”Fra gli argomenti suggeriti si è scelto il tema

MEMORIA STORICA della zona della valle dei Laghi, coinvolgendo le persone anziane del luogo (depo-sitarie del patrimonio di conoscenze che rischiano di andare perdute), trasformando ricordi, immagi-ni, suoni e racconti, utilizzando il teatro, la musi-ca e l’arte video.

OBIETTIVI• Favorire il dialogo e il confronto tra vecchie e

nuove generazioni per una memoria condivisa• Realizzare un’azione culturale di ricerca sulla

funzione del valore della memoria.• Valorizzare e tramandare la memoria dei luoghi

e delle persone della valle dei Laghi attraverso la ricerca e la rielaborazione di:

• Racconti di vita, ricordi, cronache legate alle per-sone e ai luoghi;- Immagini e fotografie;- Musiche e canzoni;- Toponomastica del luogo e testimonianze, le-

gate a questo aspetto.Il progetto, pur essendo stato considerato vali-

do ed ottenere l’ammissione a finanziamento, non è stato per il momento finanziato per insufficienza di fondi messi a disposizione. Ma, al di là di que-sto, il progetto potrebbe comunque partecipare ad altre forme di finanziamento a livello provinciale.

Conclusioni: non v’è dubbio che questo impor-tante lavoro di concertazione nel settore culturale, che sta cercando di valorizzare tutte le forze pro-positive della valle, viene a costituire un consolida-to punto di forza e un fondamentale punto di par-tenza per quel processo d’integrazione valligiana, quale presupposto per il varo della Comunità a 360°.

Nonostante  ciò   la  Commissione  Culturale   Intercomunale  –   rinnovata  nei   suoi  membri  a  seguito  delle  ele-­‐zioni  comunali  di  primavera  –  si  è  riunita  a  Calavino  2  volte  per  programmare  l’  attività  dell’  autunno:    

                                                                                                                             Le    manifestazioni                                                                                

PROGETTUALITA’  

  Nel  mese  di  gennaio,  l’  assessore  della  Comunità  con  delega  alla  cultura,  ha  fatto  predisporre  con  la  consulenza  tecnica  della  Fondazione  “AIDA”  il  “Progetto  MEMO”  per  la  partecipazione  ad  un  concorso  na-­‐zionale,  indetto  dall’  ANCI    in  collaborazione  con  il  Dipartimento  Gioventù  della  Presidenza  del  Consiglio.  Va  sottolineato  che  l’adesione  è  stata  presentata  come  “Comunità  di  valle”  (intesa,  sulla  base  di  un  apposito  quesito  con  esito  positivo,  come  “Aggregazione  di  Comuni”).    

Progetto  “MEMO”  

fra  gli  argomenti  suggeriti  si  è  scelto  

i l   tema:  MEMORIA  STORICA  della  zona  della  valle  dei  Laghi,  coinvolgendo  le  persone  anziane  del  luogo   (depositarie  del  patrimonio  di  conoscenze  che  rischiano  di  andare  perdute),   trasformando  ricordi,  immagini,  suoni  e  racconti,  utilizzando  il  teatro,  la  musica  e  l’arte  video.  

 

OBIETTIVI  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Favorire   il   dialogo   e   il   confronto  

tra   vecchie     e   nuove   generazioni  

per  una  memoria  condivisa  

Realizzare     un’   azione   culturale   di  

ricerca   sulla   funzione   del   valore  

della  memoria  

Valorizzare  e  tramandare  la  memoria  dei  luo-­‐

ghi  e  delle  persone  della  valle  dei  Laghi  attra-­‐

verso  la  ricerca  e  la  rielaborazione  di:  

• Racconti   di   vita,   ricordi,   cronache   le-­‐gate  alle  persone  e  ai  luoghi;  

• Immagini  e  fotografie;  • Musiche  e  canzoni;  • Toponomastica   del   luogo   e   testimo-­‐

nianze,  legate  a  questo  aspetto  

 

Altre   iniziative  d’  autunno      

1°  Concorso  di  poesia                                                    Reli-­‐gion  todey      organizzato  biblioteca  Valle  Laghi                  Commissione  Culturale  Int.                  serata  premiazione  18  settembre                                  12  ottobre  2010  110  partecipanti  con  circa  300  composizioni  poetiche                                                  mattinata                    -­‐                    serata                                                                                                                                                                                  scuole  Ist..  Com.  V.  L.                adulti  

 Teatro  Valle  dei  Laghi  -­‐  Vezzano  

 La  val le  dei  Laghi   incontra  Rodari  

   

manifestazioni  16-­‐25  settembre      

10  sul  territorio    

6  letture  guidate                  4  spettacoli  teatrali      

 teatro  valle  dei  Laghi      (Vezzano)  

 mostra  sull’  Autore  

   

 

Spesa  €  2.880,00  

 

Nonostante  ciò   la  Commissione  Culturale   Intercomunale  –   rinnovata  nei   suoi  membri  a  seguito  delle  ele-­‐zioni  comunali  di  primavera  –  si  è  riunita  a  Calavino  2  volte  per  programmare  l’  attività  dell’  autunno:    

                                                                                                                             Le    manifestazioni                                                                                

PROGETTUALITA’  

  Nel  mese  di  gennaio,  l’  assessore  della  Comunità  con  delega  alla  cultura,  ha  fatto  predisporre  con  la  consulenza  tecnica  della  Fondazione  “AIDA”  il  “Progetto  MEMO”  per  la  partecipazione  ad  un  concorso  na-­‐zionale,  indetto  dall’  ANCI    in  collaborazione  con  il  Dipartimento  Gioventù  della  Presidenza  del  Consiglio.  Va  sottolineato  che  l’adesione  è  stata  presentata  come  “Comunità  di  valle”  (intesa,  sulla  base  di  un  apposito  quesito  con  esito  positivo,  come  “Aggregazione  di  Comuni”).    

Progetto  “MEMO”  

fra  gli  argomenti  suggeriti  si  è  scelto  

i l   tema:  MEMORIA  STORICA  della  zona  della  valle  dei  Laghi,  coinvolgendo  le  persone  anziane  del  luogo   (depositarie  del  patrimonio  di  conoscenze  che  rischiano  di  andare  perdute),   trasformando  ricordi,  immagini,  suoni  e  racconti,  utilizzando  il  teatro,  la  musica  e  l’arte  video.  

 

OBIETTIVI  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Favorire   il   dialogo   e   il   confronto  

tra   vecchie     e   nuove   generazioni  

per  una  memoria  condivisa  

Realizzare     un’   azione   culturale   di  

ricerca   sulla   funzione   del   valore  

della  memoria  

Valorizzare  e  tramandare  la  memoria  dei  luo-­‐

ghi  e  delle  persone  della  valle  dei  Laghi  attra-­‐

verso  la  ricerca  e  la  rielaborazione  di:  

• Racconti   di   vita,   ricordi,   cronache   le-­‐gate  alle  persone  e  ai  luoghi;  

• Immagini  e  fotografie;  • Musiche  e  canzoni;  • Toponomastica   del   luogo   e   testimo-­‐

nianze,  legate  a  questo  aspetto  

 

Altre   iniziative  d’  autunno      

1°  Concorso  di  poesia                                                    Reli-­‐gion  todey      organizzato  biblioteca  Valle  Laghi                  Commissione  Culturale  Int.                  serata  premiazione  18  settembre                                  12  ottobre  2010  110  partecipanti  con  circa  300  composizioni  poetiche                                                  mattinata                    -­‐                    serata                                                                                                                                                                                  scuole  Ist..  Com.  V.  L.                adulti  

 Teatro  Valle  dei  Laghi  -­‐  Vezzano  

 La  val le  dei  Laghi   incontra  Rodari  

   

manifestazioni  16-­‐25  settembre      

10  sul  territorio    

6  letture  guidate                  4  spettacoli  teatrali      

 teatro  valle  dei  Laghi      (Vezzano)  

 mostra  sull’  Autore  

   

 

Spesa  €  2.880,00  

 

ProgettualitàNel mese di gennaio, l’assessore della Comunità

con delega alla cultura, ha fatto predisporre con la consulenza tecnica della Fondazione “AIDA” il “Pro-getto MEMO” per la partecipazione ad un concorso

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GIuSEPPE MORELLI

La valle dei LaghiE il trentennale del comitato

Il territorio che da Cima Paganella (2.124 m) ar-riva al lago di Garda (86 m), chiuso ad Est dal Monte Bondone (Cima Cornetto 2.180 m), e ad

ovest dalla catena del Gazza (Canfedin 2.034 m) e quindi del Casale (1.631 m, Brento 1.545 m), giù fino a S.Giovanni di Tenno (850 m), ed il Monte Oro, per una superfice complessiva di circa 18.000 ettari, sud-diviso in otto Comuni, costituisce la Valle dei Laghi.

I Comuni sono quelli di Terlago con le frazioni di Covelo e Monte Terlago, di Vezzano con le fra-zioni di Fraveggio, Ciago, Lon, Ranzo, Margone, S.Massenza, di Padergnone, con le frazioni di Due Laghi e Barbazan, di Calavino con le frazioni di Ro-ma Casale, Lagolo, Ponte Oliveti e Sarche, di Lasi-no con le frazioni di Lagolo,Castel Madruzzo e Per-golese, di Cavedine con le frazioni di Brusino, Vi-go Cavedine, Stravino e Masi Cavedine, di Drena e

di Dro con le frazioni di Pietramurata e Ceniga, e Gaggiolo, con una popolazione complessiva di circa 12.000 abitanti, sparpagliata in ben 31 centri abitati.

È questa delimitazione naturale quanto mai circo-scritta, che nel tempo, in particolari momenti di diffi-coltà, ha spinto le varie municipalità ad unirsi per di-fendersi dagli invasori, od ottenere da Imperatori, Prin-cipi o Conti, Cardinali o Generali il rispetto della liber-tà, o il riconoscimento di determinati diritti o privilegi.

Il territorio viene definito, come quello “oltre il Buco di Vela” nel 1208, quando il Giudice Enri-co del vescovo Federico Vanga emette la senten-za salomonica che quelli di Baselga e Vigolo, pote-vano restare in possesso della zona di Arano (Nara-no), perché pagavano l’affitto da 60 anni, ma anche quelli di Vezzano, Padergnone e Calavino potevano proseguire nell’utilizzo del posto. Secondo Cesari-ni Sforza la lite si protrasse per due secoli, e si con-La Valle dei Laghi, il Castello e il Lago di Toblino.

Pesca nel lago di Toblino (foto Valentini, Trento).

99

O S S E R V A T O R I O

cluse con il riconoscimento che parte spettava al-la Pieve di S.Maria di Sopramonte (Baselga) e par-te alla gente di Madruzzo e Calavino, ed oviamen-te Vezzano e Padergnone.

Nel 1290 viene chiamato “Comunità oltre il Bu-co di Vela”il territorio che Vezzano e Calavino rap-presentano nella richiesta al Conte Mainardo di Ti-rolo, nza di sgravare 15 famiglie dai tributi.

Nel 1442 i Sindaci Antonio Tusata da Madruzzo, Antonio Zambarda da Lasino, Oldrigheto Bentivegna di Calavino chiedono al Principe Vescovo Alessandro di Mazovia, (Cardinale dell’antipapa) tramite il vica-rio Giuliano de Cocapanis de Carpo, di poter utiliz-zare come facevano da oltre 200 anni, il porto di Sar-che, sul fiume Sarca, per il trasporto di merci verso Arco ed il lago di Garda, ottenendone la riconferma.

Nel 1527 i Sindaci di Cavedine,Lasino,Calavino,Padergnone, Vezzano, Sopramonte, Vigolo,Baselga, Pedegaza vanno a protestare a Trento dal Vescovo contro l’aumento del dazio previsto per che acce-dere a Trento, dalla Porta sull’Adige di Torre Vanga.1

Per la peste del 1630, di manzoniana memoria, quelli “al di là del Buco di Vela” chiusero la strade di accesso a Trento per impedire l’arrivo del conta-gio, avendone pesanti ammonimenti dal Magistra-to consolare.

La Valle si trova unita, da Cavedine a Sopramon-te, anche nel 1788, quando, tutti i Sindaci, esclu-so quello di Padergnone, impeditovi perché troppo anziano, pernottando a Mezzolombardo, salgono a Castel Thun, in Valle di Non per chiedere al Vesco-vo Pietro Vigilio Conte Thun, di modificare il nuovo codice giudiziario, mentre nello stesso anno, tutti i Sindaci, da Cavedine a Sopramonte firmano la ri-chiesta di riduzione delle steore, pena il dover emi-grare per trovare altrove il pane da vivere, ed invia-ta all’Imperatore Giuseppe II.

Non è il caso di soffermarsi sulle diatribe interne fra i vari gruppi di Comuni, per interessi locali con-trastanti. Vezzano faceva gruppo a sé, spesso aven-do a fianco Padergnone, mentre facevano gruppo i

1 Cfr. A.Zieger, F.Vogt, A-Gorfer, N.C.Garbari.

Comuni del Pedegazza, quelli di Calavino che aveva con sé Madruzzo e Lasino, mentre Cavedine, con le frazioni, rappresnetava un altro gruppo di interessi, cosi’’come oltre Gaidoss Sopramonte con Baselga e Vigolo, aveva a questionare a volte con Terlago che aveva con se il Monte ed a volte Covelo.

È Calavino, con la Pieve di S.Maria Assunta (1236, ma secondo il Vogt, sarebbe esistita ancora nel VI sec.) che detiene il primato religioso sulla Valle, an-che in virtù degli oneri e privilegi derivanti dalla vi-cinanza della Famiglia Madruzzo, tanto potente. Importante era poi la Pieve di S.Maria di Baselga.

Si sa che il tempo modifica le cose, e così ecco Vezzano che tollera sempre più a fatica, il ruolo re-ligioso di Calavino, ed altrettanto fa Cavedine e Ter-lago, con Baselga.

Nel XII sec. con Mainardo il territorio fa capo a Vezzano ed è chiamato Distretto. Nel XVI sec. Vezza-no è elevato a Borgo dal Cardinale Bernardo de Cles.

Il 23.4.1895, l’Imperatore Francesco Giuseppe, per la “fedeltà ed attaccamento alla augusta Casa degli Asburgo”, con sovrana risoluzione ribadisce il titolo di borgata a Vezzano. (Via del Borgo).

Nel 1836 il colera miete 337 vittime nel Distret-to di Vezzano, sulle 7.289 vittime registrate dal-la Diocesi.

Ecco un dato importante che viene dall’Archi-vio Parrocchiale di Calavino. Nell’anno 1864 a Vez-zano furono batezzati 69 bambini; a Calavino, 44; a

Le mitiche “aréle” del Vino Santo (foto Miori).

100

Padergnone,38; a Lasino, 34; a Madruzzo 16; a Fra-veggio,11: a Lon 6; a S.Massenza,5; a Ciago,4; a To-blino, 2; a Sarche,1.

I tempi in evoluzione accelerata, dopo la gran-de guerra 1939/1945, comportano lo stravolgimen-to dell’economia, e con l’avvento della civiltà indu-striale la stessa civiltà contadina deve sempre piu’ fare i conti ed adeguarsi, perfino con la nuova epo-ca dell’informatica, elettronica, digitale.

Se nel 1950, la popolazione attiva, era dedita per circa il 70 per cento all’Agricoltura, nel 2010, solo l’8 per cento lavora ancora a tempo pieno in essa, l’altra mano d’opera risultando occupata nell’indu-stria, turismo, servizi.

L’avvento della meccanizzazione, lo sviluppo dei trasporti con il crescente uso di auto e camion, sovverte il lavoro ed il commercio, comportando grandi modifi-cazioni al modo di vivere tradizionale, accelerato dall’ arrivo di internet e lo. Sviluppo delle comunicazioni.

Verso il 1960, ad esempio, va in crisi il commer-cio dell’uva e del vino. Si registra l’invasione di ca-mionate di damigiane, fiaschi e bottiglioni di Valpo-licella e Bardolino provenienti dal Veronese, che a prezzi stracciati, mettono in crisi la organizzazio-ne commerciale locale. Ci sono pagamenti ritardati o ridotti da parte di commercianti che vengono da fuori, le Aziende locali sono in crisi.

Tocca ai contadini darsi da fare ed auto-organiz-zarsi, dando vita alla Cantina Sociale Scarl. di Tobli-

no, che vede unificarsi in essa rappresentanze con-sistenti dei viticoltori di ciascun paese della Valle. Per 4 anni portano da 4 fino a 12.000 q.li di uva al-la Cantina Sociale di Lavis, per utilizzare nel 1964 il nuvo fabbricato costruito a Sarche della capacità di 24.000 hl. che si rivelerà subito insufficiente. Nel 1954 i vini rossi coprono il 79 per cento della produ-zione ed i bianchi appena il 21 per cento. Nel 2008 i vini bianchi sfiorano il 65 pr cento e quelli rossi il 35.

NASCE IL “COMITATO VALLE DEI LAGHI”È su questo richiamo all’ entità di Valle ed alla if-

fusa voglia di molti di impegnarsi a fare qualcosa per la comunità in cui operano, che negli anni seguenti, verso il 1963, comincia ad operare il “Comitato per la valorizzazione turistica della Valle dei Laghi”, con se-de a Padergnone, che nel 1965 adotta lo Statuto che vede fra i componenti a pieno titolo i Sindaci, i Presi-denti delle Pro Loco, i Presidenti dei Corpi volontari dei Vigili del Fuoco, i Presidenti delle Società Sportive e Culturali, dei Produttori Vinicoli, delle Cooperative e Consorzi, e di tutti i volonterosi che ne fanno richiesta.

È il Comitato che con accesi dibattiti, suscita una tensione ideologica straordinaria, scatenando-la alla ricerca del senso di appartenenza di una val-le che esisteva in natura, ma che non aveva anco-ra un nome unificante e chiamata Valle di Cavdine, Basso Sarca, Giudicarie, ecc….

Nel settembre 1964, eravamo in 70, ci siamo riu-niti nel salone dell’Albergo di Berto Bortolotti a Dre-na. Si trattava di dare il nome alla Valle, sceglien-do fra “Valle dei Castelli”, “Valle dei Laghi”, “Valle dell’òra”, “Valle del vino”, “Valle dele Grape” ed al-tri nomi ancora. Erano stati consultati il dott.Gino Tomasi, il giornalista Aldo Gorfer, il prof. Luigi Me-napace, il prof. Franco Pedrotti.

Si scartarono tutti i nomi e restarono in discus-sione “Valle dei Castelli” e “Valle dei Laghi”, per cui si rimandò la scelta definitiva.

Era il 20 di ottobre 1964, quando il “Comitato Valle dei Laghi” viene convocato nel Salone “Da Fran-co” ai Due Laghi di Padergnone. È presidente della Assemblea il Rag. Remo Dallapè, Vicepresidente Lu-Vigneti di Calavino.

101

O S S E R V A T O R I O

ciano Bagattoli, De Vilos, con Giuseppe Morelli di-namico Segretario. Viene aperta la discussione sul nome da dare alla Valle e dopo ampia valutazione, con numerosi interventi, ecco la votazione unani-me per alzata di mano, che sceglie per la valle il no-me di “Valle dei Laghi”.

Un brindsi con lo spumante Pisoni Brut festeg-gia il battesimo.

In seguito, venne eletto primo presidente del “Comitato per la promozione turistica della Valle dei Laghi” Luciano Bagattoli di Pietramurata. Lo seguì il rag. Remo Dallapè, seguito nell’ordine da Gianni Ni-colussi, Giuseppe Morelli, Aldo Ricci, Giorgio Baldes-sari di Terlago, Enrico Niccolini di Ciago, Diego Bea-trici di Ranzo, e dal 2009 Verena Depaoli di Terlago.

Mille sono le iniziative che intraprende il Comita-to Valle dei Laghi, per rendere consapevole la popo-lazione del nome della Valle, e dell’orgoglio con cui poteva andar fiera, per la storia, la ricchezza ambien-tale, produttiva, artigianale di cui poteva fregiarsi.

Se Giuseppe Morelli aveva caldeggiato con al-tri, la costituzione del “Comitato Valle dei Laghi”, l’i-dea della “Settimana folkloristica” era venuta da Re-mo Dallapè.

Sono state 21 le edizioni della indimenticabilea “Settimana Folkloristica” e “Mostra mercato dell’a-griturismo La Valle dei Laghi produce”; una manife-stazione che durava 10 giorni, proponendo spettaco-li ed attrazioni di avanguardia, imponendosi per no-

vità a livello regionale, fungendo da occasione di in-contro della gente locale con le decine di migliaia di partecipanti che venivano da fuori per assaggiare i vini, le grappe, ammirare gli spettacoli e l’ ambiente che li ospitava. Le aziende viti-enologiche, le distil-lerie, i frutticoltori erano di anno in anno stimolati a caratterizzarsi nella qualità. 20 le edizioni della “Fe-sta dell’uva della Valle dei Laghi”, 16 le edizioni per la Mostra della Nosiola, Vino Santo Grappa, Rebo, 47 edizioni la Regata velica di Toblino-S.Massenza.

Nel 1970 il “Comitato”si impegna contro i fumi del Cementificio e la regolazione della cava, ed in tanti al-tri problemi, sia della viabilità, dello sviluppo econo-mico, dei trasporti, nella cultura con numerosi dibat-titi, nelle mostre di pittura, concorsi di poesia,ecc…

La socializzazione che le iniziative del Comita-to realizzano vanno a consolidare nelle cartine ge-ografiche, negli scritti, nella mente della comunità trentina La Valle dei Laghi, come entità geografica sempre più consolidata.

Nel 1974 /75 viene dato vita al “Consorzio delle Pro Loco della Valle dei Laghi” del quale è primo pre-sidente Luciano Bagattoli e segretario Giuseppe Mo-relli. Nel 1977 tale Consorzio assume come dipen-dente la Contessa Anna Elisabetta Wolkenstein, con uno stipendio lordo di 282.004 lire mensili e rego-lare iscrizione all’INPS e INAIL. Nel contratto la Con-tessa mette a disposizione 60 mq. del suo apparta-mento al secondo piano di Castel Toblino, quale Uf-ficio Turistico, che si impegna a tenere aperto per 5 ore al giorno, operando a favore dei turisti di passag-gio od in prenotazione.. Il contratto ha la durata di tre mesi, tacitamente rinnovabile per uguale tempo.

LE CARATTERISTICHELa posizione della Valle dei Laghi la dota di un

clima micromediterraneo che la rende singolare nel contesto dei versanti meridionali delle Alpi.

Con la vite, il fico, il mandorlo, vi si coltivano gli olivi, piu’ a Nord d’Italia, mentre la dolcezza del clima consente la vita all’ alloro, rosmarino, fillirea, scotano, darne l’aureola, terebinto, leccio, orniello, roverella, ginestra, corbezzolo, ecc…

46a Regata di Toblino-S.Massenza (foto Miori).

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Nel 1880 il Conte Leopoldo Wolkenstein realiz-zò nel parco del Castello un Giardino botanico con il Pino marittimo, il corbezzolo, diverse specie di bos-so, il Lauroceraso, leccio, cipressi, ecc… Rilevante per il portamento la presenza di 11 Taxodium disti-cum o Cipresso di Palude di origine nord americana.

Il clima favorisce l’orticoltura, purtroppo semi abbandonata, ma appena qualche diecina di anni fa a Fraveggio=S.Massenza e dintorni, in taluni in-verni non gela nemmeno, intensa era la coltivazio-ne dei broccoli, del prezzemolo, porri, carote gialle, sedano, insalate precoci, ed altri ortaggi, che ogni giorno venivano portati al mercato di Trento. Oggi, purtroppo solo un po’ di broccoli vengono coltivati.

Fra le attività scomparse va ricordato l’allevamento del baco da seta, spentosi nel dopo guerra per l’arrivo sui mercati delle fibre sintetiche. Nel 1905=1907, nel distretto di Vezzano si producevano fino a 165.880 kg. di bozzoli da seta. L’allevam mento si protrasse fi-no al 1950, quando è scomparso del tutto.

Da ricordare come la coltivazione della patata sia ar-rivata in Valle di Cavedine nel 1816 e come nel 1883 si spesero 6oo corone per distruggere 14.200 kg. di mag-giolini che infestavano, danneggiandole le produzioni.

Dal 1890 al 1970 a Fraveggio, guidata dalla fa-miglia Bressan, era attiva la frangitura delle noci del Bleggio, ma anche provenienti dal Napoletano, ed i semi, opportunamente confezionati, erano spediti in Svizzera e Stati Uniti. Ampio sviluppo ottiene la

viticoltura, che per la tradizionale perizia dei viticol-tori locali, al 2004, è arrivata all’avanguardia delle coltivazioni, introducendo nuove varietà più fini, e nuove tecniche di coltivazione in sostituzione della tradizionale pergola. Essa viene riservata alle colline e zone vocate, mentre gli altri terreni vengono in-vestiti dal frutteto: è una preziosa differenziazione.

Il 25.10.1955 viene costituito la Cooperativa Scarl. “Vivai Cooperativi” di Padergnone. Dalla fine del 1800, primi anni del 1900, con il Consorzio Agrario, guida-to da Lodovico Pedrini di Calavino, vengono costrui-te due serre sperimentali, e prende piede la vivaisti-ca. Nel 1909 prende piede quella specializzata vitico-la per l’utilizzo del legno americano, immune da filos-sera e marze delle varietà nostrane. Primo presidente fu Illuminato Beatrici e vi aderirono 45 vivaisti di Pa-dergnone e Calavino, per una produzione di 1,5 mi-lioni di barbatelle, suddivise in 30 varietà di viti.. Nel 1977, dopo che è stato realizzato un grande vivaio di legno americano, viene costruita la sede del Consorzio per la conservazione, vendita e confezione delle bar-batelle.Nel 2004 i Soci sono 25 con una produzione di tre milioni di brbatelle, suddivise in oltre 200 varietà.

Nel 1975 viene costituito il Consorzio ortofrut-ticolo Pergolese, dopo 2=3 anni chiamato “Coope-rativa ortofrutticola“Valle dei Laghi” con l’adesione di quasi tutti i frutticoltori della Valle. È sorto dove prima era un grande essicatoio di tabacco. Da ricor-dare i tendoni bianchi per la coltivazione del Burley).

La scelta del posto ove costruire il Magazzino frutta, aveva suscitato un ampio dibattito nell’am-bito della Cantina di Toblino, poiché molti frutticol-tori erano anche viticoltori e si discuteva se non era meglio costruire accanto alla sede dell Cantina di To-blino il Magazzino frutta, in considerazione che la maggior parte dei viticoltori erano anche frutticol-tori, ed in vista dei risparmi sull’utilizzo di strutture e servizi. Ma prevalse la scelta del Ponte del Gobbo.

LE ATTRAZIONIL’ aspetto paesaggistico della Valle dei Laghi è

straordinario. I 10 laghi la addolciscono, mentre i Castelli di Terlago, Toblino, Madruzzo, Drena, Tor-

La spremitura con la confraternita (2006) (foto Miori).

103

O S S E R V A T O R I O

re di Guaita, con diecine e diecine di abitazioni che mostrano i segni nobiliari abbelliscono i vari centri abitati. Le colline che movimentano la Valle, dando luogo alla Valle di Cavedine e portando numeosi ri-chiami morfologici, geologici , archeologici e reper-ti preistorici, tracciati stradali, capitelli e chieset-te. Posti di interesse morfologico: Bus de Vela, lo-re ai laghi di Terlago, abisso al lago di Lamar, Grot-ta C.Battisti in Paganella, Strengidor, sopra Lagolo, Forra del Limarò, falesie di S.Siro, parete zebrata, becco dell’aquila, pareti rocciose invitanti...

BIOTOPI: lago di Toblino con aironi, cormorani, folaghe, tuffetto, ecc…Prada a

Monte Terlago: una specie di laghetto=palude; la Riserva integrale delle Tre Cime in Bondone, le MAROCCHE. (300 ha. di superficie e 197 milioni di metri cubi di materiale franoso.La frana più impor-tante il “disastro di Kaas” quando dal Brento si stac-cò una frana di 45 milioni di metri cubi di roccia ed un’altra di 18 milioni di mc.

E da 1.000 m di altezza e 700 la piu piccola preci-pitarono (Trener) sulle precedenti frane a quota 200 m. Secondo Perna precipitarono nella parte meridio-nale del lago di Sarche che da S.Massenza arrivava a Dro, sepellendo Kas e stravolgendo il paesaggio con la enorme ondata. Anche oggi a Massampiano si fanno ammirare le incavature lisce lasciate dalle frane con una ancora in movimento.

PARCO GEOLOGICO STOPPANI: marmitte dei gi-ganti (bus de la Maria mata, pozzo S.Valentino, dei poieti, ed una diecina di altri pozzi nati a conclusio-

ne dell’era glaciale. Organizzati con percorso e cartel-li dal Museo Tridentino di Scienze Naturali nel 1971.

PARCO PREISTORICO. Dalle Codecce di Calavino fino a Cavedine con la “carega del diaol”, la fontana romana,; numerose le tombe e necropoli dell’età ro-mana, come del neolitico, del bronzo, età preistori-ca, trovate in una cinquntina di posti.

Da ricordare le numerose cave di rosso ammoniti-co sparse un po’ nella Valle, ed il cementificio Tomasi e Zucchelli, operante dalla fine del 1800 fino al 1932, a Padergnone, chiuso per la grande crisi mondiale

GIACIMENTI ENOGASTRONOMICI: Vino Santo Pu-ro Trentino Doc., Nosiola D.O.C., Rebo Trentino D.O.c., Gold Traminer, Chardonnay da spumante, Grappe arti-gianali della tradizione e tutti i vini classici trentini. Van-no aggiunte le susine di Drò, i broccoli di S.Massenza, l’olio extra vergine degli olivi più a nord d’ Italia.

NASCE IL SENSO DI COMUNITA’IL PIANO SARCA

Già nel dopo guerra (1948) un “Comitato” con Cristiano Bolognani ed altri tentò di dar vita al Co-mune del Piano Sarca, ma non trovò i consensi bu-rocratici necessari.

Vrso il 1970 si pose analogo traguardo un altro Comitato, presidente Pierluigi Angeli e vice, facto-tum Luciano Bagattoli, ma Cavedine, Calavino, La-sino non ne furono entusiasti, mentre Padergnone aveva assicurato che se tali Comuni avessero accet-tato la proposta, avrebbe aderito al nuovo Comune.

Per iniziativa di Luciano Bagattoli, nel 1973 vie-ne costituita la Pro Loco Piano Sarca con l’ adesione di Pietramurata, Pergolese, Masi al lago di Cavedine.

Nel 1970/1971 anche S.Massenza voleva unirsi a Padergnone, e fatte le votazioni di rito, raccolte le firme autenticate, completata la pratica per gli Uffici regionali, questi la trattengono ancora in esme…..

Nel 1968 Andò bene al Comune di Trento, che Nilo Piccoli Sindaco, aveva bisogno di poter disporre dell’intera conca delle Viote, ed i Comuni di Vigolo e di Baselga divennero rioni del Comune di Trento, rifuggendo dall’unirsi a Terlago, ove avrebbero po-tuto avere una voce in capitolo più visibile.

Il prof. Attilio Scienza alla presentazione del Gold Traminer (foto Miori).

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Da dove e dove si verificarono i primi insediamen-ti umani nel Trentino ? Il passo dal Garda, alla Val di Cavedine, o sui costoni delle colline che dal piano portano alla Valle di Cavedine passava l’“autostra-da” percorribile a cavallo per proseguire verso Nord. Furono gli Etruschi venuti da sud, od i Liguri, prove-nienti dalla Pianura Padana: se ne discute, fatto stà che la “civiltà retica” cioè centro alpina. si conserva fino al 1.000 a.C. dominante, ed assorbendo quanti vengono da fuori, man mano venendo a contatto e sottomessa, piu tardi, sia dai Romani che dalla Rezia si riforniscono di vino, di botti in legno, di larici, ma poi arrivano altri popoli provenienti da Nord e da Est.

Sono i Romani che lasciano ricordi indelebi-li e che consentono la costituzione stabile dei pri-mi centri abitati. Il legionario Lucio Cassio della 7° Legione di Augusto, si ferma in Valle di Cavedine. Altri Romani costituiscono la loro sede e secondo don Vogt nasce cosi’ il Fundus Maiani dove nasce S.Massenza, Fundus Paternio ove si forma Pader-gnone, Fundus Acciagus per Ciago, Fundus Vettiani per Vezzano, della Tribu’ Fabia, mentre quelli del-la Tribù Papiria si fermano in Val d’Adige; ed ancora Fundus Lonnius per Lon,, Fundus Asinius per Lasi-no. Nel 300 d.C. una delegazione di Tublinates ac-compagna a Roma Enrico VI, figlio del Barbarossa. .

L’ assetto romano del territorio subisce un sov-vertimento con il superamento, verso il 476 d.C.

dell’impero romano e l’arrivo dei Longobardi che verso il 700=1000 istituiscono le “arimanie” o ter-ritori amministrativi da loro controllati, mentre se-guono altri popoli, per cui i cemtri abitati esistenti, sono costretti a costruirsi delle Fortificazioni: nasco-no forti, castelli, palazzi e torri atti a resistere e di-fendersi, in gran parte oggi andati perduti.Forte, pri-ma Comvento di Buffalora o Bastia sul Doss Castin.

Si arriva al medio evo e sono i casati nobiliari ad erigere i castelli per avere dominio sui luoghi sotto-messi. Rinascono i villaggi incentrati sulla chiesa, il cimitero, il comune, che fanno di tutto per liberar-si dai Nobili, comperando castelli

E loro proprietà per dividerli o farne beni di uso ci-vico. È il tempo delle carte di regola e di un severo con-trollo sul territorio e di quanto su esso vive o vegeta.

Il Principe Vescovo si allea o cmbatte contro questi o quelli. Arriva l’ impero austro-ungarico che il ptere ve-scovile fino alla secolarizzazione del 1803 del Principa-to. L’ Austria va via nel 1918. Arriva l’ Italia e nel 1968 arriva l’ autonomia regionale che delega alle due pro-vince autonome di Trento e Bolzano il potere effetti-vo, e con la Regione che svolge il ruolo di contenitore.

IL SENSO DI COMUNITÀ Nasce il senso di comunità, incentrato sui valori

della solidarietà, della democrazia, dell’ autonomia, del senso del dovere e di appartenenza, dell’ orgo-glio di tenere viva quella tradizione che parte da quel-la retica e romana, dell’ordinato sviluppo. La socie-tà rurale conserva il patrimonio di tutti per il futuro.

A differenza della società industriale che assalta e distrugge l’ambiente, inquina, nega la storia, mal sopporta la cultura, impone ritmi sociali inumani, sacrificando sul dio mercato ogni esigenza dell’uo-mo. Si forma la convinzione, sempre più sentita che è necessario difendere il locale, accettando quan-to di buono o necessario porta la globalizzazione.

Ai Conti d’Arco, si contrappongono i Castel campo, che devono fare i conti con il Principe Vescovo di Tren-to, il Conte del Tirolo, l’Imperatore del mondo tedesco, gli Spagnoli, i Francesi, i Bavaresi, e le guerre che fra lo-ro scatenano, coinvolgendo anche il nostro territorio.

Assaggi in distilleria con la Confraternita della vite e del vi-no (2000) (foto Miori).

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Memorabili ed ingenti i danni causati dal gene-rale Vendome nel 170201703, nella Valle dei Laghi, cosi’ come quelli provocati dalle grandi distruzioni ed incendi dai Napoleonici nel 1803.

Nel 1848 i Corpi Franchi, dalle Giudicarie pun-tano su Trento, guidati dai generali Longhena e Ar-cioni. Il 15 aprile per una soffiata di Vigilio Bassetti di S.Massenza i Kaiserjagher del Capitano Tomaso Zobel, che da Vezzano, organizza la Resistenza au-striaca, fa prigionieri a Maso Sottovi di Padergnone 17 volontari, che al mattino seguente, vengono fu-cilati, assieme all’Ufficiale Blondel ed altri 4 volon-tari arrestati a Vezzano, nella fossa del Buon Consi-glio e sepolti in una fossa comune.

Del fatto c’è testimone il monumento sulla pe-nisola di Maso Sottovi.

Si arriva cosi’ alla guerra 1915=1918, con mi-gliaia di Trentini portati a Katzenau, mentre i gio-vani vanno a combattere per l’Austria in Russia. Po-chi fuggono in Italia.

Don Giuseppe Tamanini, Curato a Pregasina ha la canonica in Austria e la Chiesa in Italia. Accusato di spionaggio viene bendato dagli Italiani per sette giorni e portato per la fucilazione nel Napoletano. Quando si stava effettuando la sentenza venne so-spesa perè l’ accusa della condanna era dovuta ad una spiata falsa.

ARRIVA IL FASCISMOArriva il fascismo che dal 1922 prende in mano

il potere. Vengono raggruppati di forza i Comuni, i balilla, i figli della lupa, gli avanguardisti, le camice nere. sono intruppati in una mobilitazione sporti-va e ideologica che canta facetta nera, e saluta con la mano destra alzata esclamando Viva il Duce. Arri-vano le sanzioni e l’autrachia e con il 1939 la guerra che dura fino al 1945, provocando milioni di morti, sia per le battaglie cruente, che per i massicci bom-bardamenti effettuati dagli americani sulle città.

Nel 1924 Trento costruisce la centrale idroelet-trica di Fies. Nel 1937 viene costruita la pescicoltu-ra Cozzini di Padergnone, e nel 1962 quella al 46° parallelo dell’Azienda Mandelli. Verso il 1970 si svi-

luppa la pesca sportiva nei laghi e torrenti, ricchi di pesce autoctono come le trote fario, lacustri, i co-regoni, il persico.

Dal 1942 al 1958 si protrassero i lavori di costru-zione della centrale idroelettrica di S.Massenza che utilizza il salto dell’acqua che proviene dal lago di Molveno e dalla diga di Ponte Pià. Verso il 1970 entrò in funzione la centrale idroelettrica di Torbole, che utilizza l’acqua che in 15 km. arriva dal lago di Cave-dine su Torbole. Forte è l’ impatto ambientale con i laghi di Toblino e S.Massenza ridotti a fiumi, il Rimo-ne ed il Sarca con l’ acqua che scorre a singhiozzo.

Nel 1890 Don Guetti, fonda a La Quadra di Bleg-gio la prima Cassa Rurale

E nel 1895 la prima famiglia cooperativa. Nel 1899 ecco le prime famiglie cooperative a Ranzo e Calavino. Nel 1894 nasce la Cassa Rurale di Lasi-no, che poi fallisce. Quella di Cavedine viene fon-data nel 1897, nel 1899 quella di Terlago, nel 1910 quella di Calavino, nel 1912 quella di S.Massenza, nel 1920 quella di Vezzano.

Verso il 1988 le Casse Rurali di Terlago e Vezzano si uniscono fondando la Cassa Rurale della Valle dei Laghi. Il 29 maggio 1999, a Calavino, con una gran-de Assemblea le 4 Casse Rurali di Cavedine, Calavi-no, S.Massenza si fondono nella Cassa Rurale del-la Valle dei Laghi.

LA BONIFICA DELLA PIANADa sempre il Sarca, uscendo dal canyon del Li-

marò scorazzava per la piana, fatta di acquitrini, pa-ludi, boscaglie.

Nel 1544 il Cardinale Gian Gaudenzio Madruzzo fa costruire gli argini del Sarca ed il canale di sgrondo Ri-mone viene reso scorrevole quasi bonificando la piana compresa fra il Sarca, il Rimone, il muro del Ponte del Gobbo, area che aveva acquistato dai Comuni di Cala-vino, Lasino, Madruzzo e Cavedine.Nel 1770 gli Argini vengono definitivamente consolidati dal Principe Ve-scovo Cristoforo Sizzo de Norris. Nel 1658 Carlo Ema-nuele Madruzzo muore ed i beni passano alla Mensa

Principesco=arcivescovile, per restarvi finoal 1989, quando per l’entrata in funzione della revisio-

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ne concordataria fatta daL capo del Governo italia-no On. Bettino Craxy con il Vaticano, (1984) passa-no all’Istituto per il sostentamento del Clero.

Va ricordato che nel 1665 passano allaMensa i 6 masi, con boschi annessi, venduti da Carlo e France-sco di Castelbarco, ed altro terreno arriva dalla ven-dita fatta alla Mensa dal generale dei Frati Celesti-ni, Bonafede dei beni del Convento.

Mel 1696 vengono nominati i Masi di Rauten, Giardino, Ponte, Via longa, Via media.

Le terre vengono condotte a colonia con una qua-rantina di famiglie, alloggiate nei casoni, aventi al se-minterrato il betiame, al piano rialzato le cucine e di-spense, ed al piano superiore le stanze. Somigliava-no a dei casermoni. Furono costruiti verso il 1770 dal Principe Vescovo Sizzo de Norris. (cason nof, inendia-to nel 1974, cason ross, negro, brolon, abbattuto nel 1974). Negli anni del 1970 si inasprisce il rapporto fra i coloni e la Mensa. Essi vogliono passare all’ affitto come propone una legge nazionale, o comunque un rapporto più moderno. Negli stessi anni, per l’ avvento in curia del Vescovo Mon Alessandro Maria Gottardi, grande osservante del Concilio Vaticano II, la Mensa lotizza alcuni appezzamenti, consentendo a mezza-dri e privati residenti di costruirsi una casa moderna.

LA TORRE DI GUAITAA Pietramurata c’è la Torre di Guaita, ascritta al

xvi sec. quale posto di osservazione sul confine con le terre dei Madruzzo da parte dei Conti d’ Arco, e quindi dei terreni coltivati. Attorno al grande maci-gno, sul quale la Torre di Guaita è costruita sorse-ro la prime case. Forse ancora verso il 1291 (Vogt).

Costruiti gli argini al fiume Sarca e reso scorre-vole il Rimone, anche con deviazione di parte del Sarca, il piano Sarca cominciò ad asciugarsi e con-sentire la coltivazione dei terreni.

FAMIGLIE CONTADINE DALLA VALLE DI CAVEDINEF al PIANO SARCA

Le famiglie contadine della Valle di Cavedine, co-minciarono ad acquisire i terreni in proprietà, co-struendovi dei ripari per quando venivano a lavora-

re, ma portando le derrate ed abitando ancora in-valle die Cavedine. I tre Comuni di Calavino, Lasino, Calavino costruirono ciascuno una strada per age-volare l’accesso alla piana.

Nel 1977 a Sarche ci fu il referendum per chie-dere chi voleva stare con Lasino o con Calavino ai censiti abitanti in sponda destra del Sarca. Lesito fe-ce si’ che la Frazione in sponda destra venisse ag-gregata a Calavino

Ma dalla fine 1700 inizio 1800, qualche famiglia cominciò a stabilirsi definitivamente nella piana. Si scelse il doss delle scuole, del Guà, dei Piangini, del Maset. Cosi’ i Bolognani, i Pisoni, i Pedrotti, i Caldini, i Bassetti, i Travaglia, ecc.. diedero vita ai primi Ma-si di Cavedine, di Lasino di Calavino o Ponte Oliveti.

Ad essi, anche per la ulteriore sistemazione del-le rive del Sarca, e per l’allargamento del Rimone ef-fettuato e dalla Sit e poi dalle grandi Società Idroe-lettriche, seguirono numerose altre famiglie, stan-te la sicurezza della situazione.

Masi Lasino effettuò la massima attrazione, sia per la strada che veniva da Lasino, assai comoda, che per la grande disponibilità di fertile terreno.

COME È NATO PERGOLESENel 1891 venne ai Masi di Lasino, in pensione, il

sacerdote don Gioacchino Bassetti di Lasino. Si sta-

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bili’ in una casa di sua proprietà, di fronte alla Casa di Domenico Bassetti, ricavandovi un locale per ce-lebrare la S.Messa e la sacrestia.

Don Gioacchino mori’ nel 1899 ed allora venne in ferie il prof. Francesco Pisoni, che vi celebrava la S.Messa nei locali lasiati da don Gioacchino. Ma le case crescevano e la voglia di Chiesa altrettanto.

Il 22 luglio 1901 viene costituito un Comitato con Emanuele Caldini, padre del Capitano Oreste Caldi-ni, presidente e Francesco Bolognani, Stefano Piso-ni, Domenico Pisoni, Bortolo Pedrini componenti, al-lo scopo di arrivare alla costruzione della Chiesa. Il terreno fu donato da Andrea Poli di Riva del Garda.

Il 2 aprile 1906, era tutto in regola ed i lavori (per un preventivo di 4.739, 39 corone) vennero ap-paltati alla impresa Fratelli Gobber di Sarche, che nel 1912 completarono l ’opera, che venne solen-nemente inaugurata l’8 settembre, portando in pro-cessione, partendo di Lasino, la statua dell’Imma-colata donata dalla Chiesa di Lasino. A dire Messa veniva il Curato di Lasino. Nel 1944 venne costru-ito il cimitero su terreno donato dall’Avv.Russolo.

Alla Canonica pensò Don Zio, e cioè don Vit-torio Pisoni, aggiudicandosi, in occasione del fal-limento della Cassa Rurale di Lasino il fabbricato per la Canonica.

Nel 1943 la Chiesa di Masi Lasino venne eretta Curazia, e primo Vicario fu L’ indimenticabile Don Vittorio Pisoni. Nel 1946 l’Arcivescovo Mons.Carlo de Ferrari consacrò la Chiesa, che fu completata nel 1953 con l’aggiunta dei due campaniletti.

Una comunità di 300 persone, nel 2004, sono di più ambiva ad avere un nome per il luogo che abita-va. Dopo ampio tergiversare, incontri, riunioni, ven-ne fatta una votazione e fù scelto il nome di Pergole-se, in onore dei generosi pergolati, che la fertile cam-pagna nutriva, portatori di vino di elevata qualità.

Il provvedimento fu deliberato dal Comune di Lasino il 24.06.1968, e la Giunta Provinciale emise l’apposito Decreto che riconosceva alla località il no-me Ufficiale di Pergolese. Da alcuni anni prima, so-lerti censiti avevano istallato i cartelli stradali sulle vie di accesso al paese.

LA VALLE DEI LAGHI NEL 2010Domenica 24 ottobre si sono svolte le elezioni

per eleggere il direttivo della Comunità della Valle dei Laghi. Quasi il 50 per cento degli elettori è anda-to a votare eleggendo Presidente Luca Sommadossi di Fraveggio. Ora saranno formati gli organi direttivi con la costituzione della Giunta, delle Commissioni, ecc…A fine 2010 le 16 Comunità su cui si articola il Trentino sono in fase di formazione degli organi sta-tutari, di approfondire le competenze loro demanda-te dalle leggi istitutive, e quindi mettere assieme un programma compatibile con le deleghe che la Pro-vincia concederà e le aspettative della popolazione.

Il “Comitato per la promozione culturale, socia-le ed economica della Valle dei Laghi”, può guarda-re con orgoglio alla Comunità della Valle dei Laghi, avendo cominciato a seminare, ancora dal 1965 l’ esigenza di unificare i problemi di valle per risolver-lo assieme. Ha pure, attraverso convegni, dibattiti, confronti ribadito che c’è l’ esigenza che la Valle dei Laghi si dia un progetto di sviluppo basato su turismo, artigianato ed agricoltura, per difendere l’ autenticità delle sue aspettative. E questo anche per difendersi da sovrapposizioni o forme di colo-nialismo che potrebbero venire dalla vicina capi-tale regionale Trento, ma pensando alle esigenze di svago, occupazione del tempo libero, prodot-ti artigianali ed agricoli di cui avrà certamente bi-sogno. Se c’è il piano di sviluppo realizzato con l’ apporto di tutti i Comuni, la Valle dei Laghi sarà padrona del proprio territorio e sue capacità pro-duttive, per questo è auspicabile che la nuova As-semblea della Comunità della Valle dei Laghi dia forza e garanzie di tutela a quello spirito di val-le, nel quale, tutti, chi più chi meno si sente par-te e soggetto impegnato a sostenere ogni iniziati-va atta a dare lustro e risposte concrete alle atte-se della nostra gente, valorizzando le sue capaci-tà creative, e difendendo la ricchezza ambientale di cui la Valle è dotata, con un’ azione dinamica, decisa e quanto mai rispettosa della sua storia a caratteristiche anche moderne, di cui a buona ra-gione può essere fiera.

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PAOLO FLOR

L’Officina dei sensi a Villa Ciani Bassetti

Villa Ciani Basetti a Lasino è da qualche tempo al centro di proposte culturali che intendo-no attribuire nuovo significato ai vasti spa-

zi della dimora nobiliare non più abitata.Qui sono già stati ambientati due film, il primo

di Liliana Cavani sullo statista De Gasperi, il secon-do, “Vincere”, di Belloccio sulla travagliata vita di Benito Albino Dalser, figlio naturale di Mussolini.

Quest’anno la villa è stata cornice raffinata di tre mostre di arte contemporanea, che si sono sus-seguite da luglio ad ottobre, con il patrocinio del-la Regione ed il sostegno della Provincia e del Co-mune di Lasino.

La prima “Piacere di vederti - volitiva e trasognata pittura”, curata da Riccarda Turina, presentava i pit-tori Mauro Cappelletti, Michele Parisi, Gianni Pelle-

grini e Rolando Tessadri. Quattro artisti accomunati da modalità espressive affini, che tracciano immagini puramente evocative di un vissuto interiore, con un linguaggio essenziale, lontano dalle forme del reale.

“6 in estate – quando l’arte non va in vacanza” la seconda mostra, ospitava opere di Marco Adami, Andrea Bertolini, Federico Lanaro, Franco Mattuzzi. Andrea Pregl e Roberta Segata, sei proposte molto diverse per temi e stili, fatte di pittura, fotografia e video, per scuotere, tra il serio ed il faceto, dal so-pore afoso delle vacanze.

“Superficievolume cartoni d-artista”, la terza mostra in ordine di tempo, presentata da Fiorenzo Degasperi, è parte di un progetto ideato da Nico-la Loizzo, che l’Enoteca Grado 12 e l’Associazione Dodecaedro hanno intrapreso dal 2004 per la crea-

Villa Ciani Bassetti, foto del “Quaderno 1- Estate 2010”

Villa Ciani Bassetti, una sala della mostra “Piacere di Veder-ti”, foto pubblicata nel “Quaderno 1- Estate 2010”

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zione di opere su cartone da vino da parte di pittori affermati, che pur esprimendosi con il proprio abi-tuale linguaggio, adattano tuttavia le tecniche ese-cutive alle caratteristiche particolari del supporto ed alle sue dimensioni rigide.

Alla nutrita pattuglia di artisti che si sono cimen-tati a Villa Ciani Bassetti in questo esercizio di stile, tutti di grande notorietà ed esperienza, apparten-gono Vasco Bendini, Marcello Bizzarri, Italo Bres-san, Mauro Cappelletti. Ennio Finzi, Riccardo Guar-neri, Silvio Lacasella, Carlo Nangeroni, Paolo Patel-li, Gianni Pellegrini, Sergio Sermidi, Guido Strazza, Rolando Tessadri e Claudio Verna.

L’officina dei sensi intesa come palestra strut-turata in una sede privilegiata per affinare il vede-re e stimolare il fruire di opere d’arte, ha intreccia-to le mostre di pittura con incontri musicali e visi-te guidate alla villa ed ha trovato il suo epilogo in una giornata dedicata alla storia, con la presenta-zione del “Quaderno – Estate 2010”, in cui accanto ai cataloghi delle tre mostre sono offerti due pre-gevoli saggi storici, il primo di Maria Garbari su Ti-to Bassetti ed il secondo sulla villa e sulla famiglia Ciani Bassetti di William Belli.

“Per amore della patria, l’impegno civile e po-litico di Tito Bassetti” il titolo eloquente del sag-gio della professoressa Garbari, che descrive am-piamente questa figura di patriota, letterato e poe-ta d’occasione, esperto e sperimentatore nel cam-po dell’agricoltura.

Tito Bassetti appartiene al gruppo di illustri per-sonalità che ressero le sorti di Trento e del Trentino negli anni della Restaurazione e del Risorgimento. Egli fece parte del Consiglio comunale di Trento per un decennio a partire dal 1851 e quindi anche del Consiglio municipale (Giunta) nel 1860.

Sostenne con entusiasmo la prima Esposizione agricolo-industriale di Trento del 1857 e pubblicò un saggio per presentare ai visitatori la storia ed il ruolo della città di Trento nel campo dell’arte, del-la letteratura e dell’economia. Il gusto per le tradi-zioni ed il folclore lo spinse a pubblicare l’anno suc-cessivo una memoria “Sulla antica mascherata tren-

tina detta la polenta dei ciusj-gobi”, per dimostrare che questa tradizione non era di origine tedesca e si ricollegava a feste analoghe di altre città italiane.

Una deliberazione unanime del Consiglio comu-nale, in cui si chiedeva l’aggregazione della parte italiana della provincia del Tirolo alle province ve-nete, portò al suo arresto ed al confino nel 1960 a Jungbunzlau in Boemia dove, nonostante la durezza dell’esilio, si dedicò all’agricoltura e alla botanica.

In quell’anno scrisse anche il poemetto “Agli ita-liani fratelli, versi di un relegato: Dal fondo della Bo-emia il 24 ottobre 1860”, in cui espresse la strazian-te nostalgia per la sua terra e la speranza nel riscat-to da parte di Garibaldi.

Liberato dal confino nel maggio del 1861, si de-dicò a problemi agricoli ed in particolare alla sosti-tuzione dei gelsi colpiti dalla malattia del marciu-me con la maclura aurantiaca, pianta su cui scrisse un breve saggio nel 1863. Nel 1864 scrisse alcune riflessioni per contestare il progetto di regolarizza-zione dei laghi di Toblino, Santa Massenza e Cavedi-ne per evitare le esondazioni ed i ristagni nella val-le del Sarca, progetto redatto a suo giudizio senza averne una diretta esperienza.

In occasione del matrimonio del principe Um-berto di Savoia con Margherita nel 1868, stese una “Memoria” sotto le vesti di un accademico della Val-darno, per proclamare l’italianità del Trentino, in tut-to diverso dalla provincia tirolese .

Tito Bassetti morì a Lasino nel 1969, pochi me-si dopo aver ricevuto da Vittorio Emanuele il titolo di conte, come riconoscimento per le sue beneme-renze patriottiche.

Un quadro di Gianni Pellegrini (particolare).

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wILLIAM BELLI

La villa Ciani Bassetti a Lasino

La residenza Ciani-Bassetti, ora Fronza, a La-sino, consta di una serie di costruzioni spar-se nel vasto parco che risale le pendici del

monte Bondone nella Valle dei Laghi.L’ingresso è costituito da una grande cancellata

in ferro battuto che immette in una corte selciata.La casa padronale, sobrio edificio del 1836 pre-

senta bei pavimenti in seminato veneziano, ampi sa-loni con affreschi floreali e piccola cappella privata con altarolo in legno. Le profonde cantine costitui-scono un vero e proprio labirinto e sono coperte da volte sostenute da bei pilastri di pietra.

Dall’altro lato della corte il vasto edificio della filanda, con portali in pietra, la serie caratteristica delle piccole finestre e l’orologio dipinto a scandi-re il tempo del lavoro

Case contadine con i tipici poggioli lignei a ra-strelliera sono ai margini del parco.

Vanto della villa è la fontana cinquecentesca in pietra rossa trentina, con vasca quadrata scomparti-ta da cornici in cui sono inseriti dischi di pietra ne-ra, sui quali Giovanni Battista Bassetti, nel 1836, fe-ce incidere una frase latina augurale. Al centro della vasca un alto fusto a colonna è scolpito con teste di cherubino. La fontana fu acquistata dai bassetti da Castel Madruzzo, lo splendido maniero che fu già della famiglia omonima ed è una delle pochissime fontane del Cinquecento in Trentino.

Altro edificio singolare del complesso è il torchio per l’olio, che i Bassetti ricavavano dai loro oliveti del Basso Sarca. La costruzione, neogotica, conser-va i torchi, provvisti di macine in pietra, raro esem-pio di archeologia industriale ed è caratterizzata da una serie di finestre esagonali e da un grande arco

che raccorda i due corpi dell’edificio, chiamato dai paesani l’arco di Tito, dal nome del barone Tito Bas-setti che lo fece costruire.

Infine, nascosta in fondo al parco, il fabbricato più singolare, una ghiacciaia in forma di finta rovi-na, composta di enormi massi, alta tre piani, con sa-le voltate rivestite di pietre a vista, che evocano le Carceri di Piranesi e percorsa da due rampe elicoi-dali, esterna e interna, che raggiungono il belvede-re, donde la vista spazia fino ai confini dell’Archese.

La suggestione di villa Ciani Bassetti l’ha fat-ta scegliere come set del film su Alcide Degasperi, regia di Lialiana Cavani e del film Vincere di Marco Bellocchio, sulla tragica storia d’amore fra la trenti-na Ida Dalser e Mussolini. Segreta, scolpita nel va-no di una finestra, la silhouette di Napoleone, rive-la le simpatie di Tito Bassetti per l’epoca napoleo-nica, che portò all’effimera annessione del Trenti-no al Regno d’Italia.

La famiglia Bassetti, imparentatasi presto con i Ciani, del Trevigiano, si era arricchita alla fine del Settecento con operazioni bancarie. Proprietari di un palazzo a Trento, essi fecero erigere la villa di Lasino come sede di ozi estivi e come fattoria agri-cola (erano proprietari delle migliori vigne della zo-na, quelle che davano, fra l’altro, il celebrato Vino Santo). Colti -uno dei Bassetti fu amico del grande illuminista trentino Carlo Antonio Pilati - i Bassetti si legarono di amicizia con i Larcher Fogazzaro, di-venuti proprietari di Castel Madruzzo, dove ospita-rono a più riprese lo scrittore Antonio Fogazzaro.

Il personaggio più in vista della famiglia Basset-ti fu Tito, che alla fine dell’Ottocento, raccolse nel-

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la villa di Lasino una notevole collezione di quadri, in buona parte dispersa, con opere di Moroni, Ci-gnani, Lampi e una delle più belle biblioteche priva-te del Trentino, ricca di oltre cento cinquecentine, ora trasferita, assieme all’archivio di famiglia – im-portantissimo per la storia trentina – nelle residen-ze dei Ciani Bassetti a Caorle e a Roncade.

Straordinario contenitore di eventi, la villa Ciani Bassetti dovrebbe diventare, almeno in parte, nelle intenzioni del comune e coll’adesione dei proprie-tari, sede di esposizioni e di manifestazioni cultu-rali, caratteristica della villa già dagli anni Settan-ta, quando i Ciani Bassetti vi ospitavano i concerti dei Nomadi e di Gino Paoli. I nuovi proprietari, che acquistarono il complesso dai Ciani bassetti cinque anni orsono, hanno continuato la tradizione orga-nizzando nella villa mercatini di antiquariato, la fe-sta del primo maggio e mostre d’arte.

Nel 2011, per il centocinquantesimo anno dell’U-

nità d’Italia, la villa Ciani Bassetti potrebbe diven-tare sede di una mostra su Tito Bassetti e sulla sua famiglia, che ebbero un ruolo assai attivo nella lot-ta per l’autonomia del Trentino e per la sua annes-sione al regno d’Italia.

Il Comune di Lasino è depositario della più con-sistente raccolta di ceramiche dell’artista di Lasino, Francesco Trentini, in buona parte esposta alla mo-stra su Francesco Trentini allestita dalla Galleria Ci-vica di Arco fino al 27 febbraio 2011. Altre opere dello scultore sono a Lasino: il grande monumento ai caduti, la lapide Rosa nel cimitero, il busto bron-zeo di Roberto Bassetti, la fontana, i rilievo che or-nano la casa-atelier dello scultore. Presso il comu-ne ci sono infine grandi fotografie che riproduco-no le opere di scultura, in pietra e in gesso, di Fran-cesco Trentini.

Tutto ciò ha indotto il Comune di Lasino ad av-viare una serie di iniziative che portino alla costitu-zione di un museo dedicato allo scultore di Lasino.

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Verbale della GiuriaIl 18 settembre, presso l’Auditorium di Vezzano

gremito di spettatori, ha avuto luogo la cerimonia di premiazione della prima edizione del concorso di po-esia dialettale e in lingua dal titolo «Sulle ali del ven-to, la poesia prende la penna». Il Concorso era orga-nizzato dalla Commissione culturale intercomunale della Valle dei Laghi e la Giuria era presieduta da Elio Fox e formata da Rosanna Bolognani, Mariano Bosetti, Lia Cinà Bezzi, Antonia Dalpiaz, Luisa Gretter Adamo-li e Lilia Slomp Ferrari. La Bibliotecaria, dott.sa Sonia Spallino aveva funzioni di segretaria senza diritto di voto. Il concorso era diviso in Sezioni: Sezione A, po-esia dialettale a tema libero; Sezione B, poesia in lingua a tema libero Sezione C, poesia dedicata alla Valle dei Laghi. La partecipazione era suddivisa in categorie di età: adulti dai 25 anni in su; giovani dal 15 ai 24 anni e ragazzi dalla IV elementare alla III Media. Entro i ter-mini di scadenza previsti dal bando erano pervenute all’esame della Giuria, 230 poesie: 31 nella Sezione A, 170 nella Sezione B (compresi giovani e ragazzi) e 29 nella Sezione C. Premi erano previsti sia per i vincito-ri di sezione, che per le cvategorie giovani e ragazzi.

ELIO FOX

Concorso «Valle dei Laghi» I Edizione 2010

Gianni Pisoni La vincitrice Nadia Maria Sartori Clara Kaisermann

CATEGORIA RAGAZZI:Ha vinto la categoria ragazzi «Mi nascondo» di

Marta Tomasi di Dro, classe 1996; seconda «A mio pa-pà» di Giacomo Morelli di Padergnone, classe 1997; terza «Ci si riunisce a cena» di Roberta Gambino di Pa-lermo, classe 1997. Sono state segnalate a pari merito le poesie: «Poesia di carta» presentata dalla classe IV elementare di Sarche; «Il mio pensiero» di Massimilia-no Cristofolini di Castel Madruzzo, classe 1997; «Mio fratello» di Amanda Tecchiolli di Vezzano, classe 1997 e “Ripensaci” di Natasha Zuccatti di Ciago, classe 1996

SEZIONE B LINGUA - GIOVANISolo segnalazioni a pari merito: «Se potessi rac-

contarmi» di Marta Tomasi di Trento; «Elena» di Ales-sandro Baldessari di Pergine Valsugana; «Requiesco in pacem» di Marina Chemotti di Lasino.

SEZIONE B LINGUA - ADULTII premio «Novembre di pianura» di Pier Giorgio

Zambolin di Padova; II premio «Signorina Felicita» di Matteo Sartorelli di Riva del Garda; III premio «Ol-tre il confine» di Michela Rigotti di S. Michele a/A. Segnalate a pari merito le poesie: «Estate antica» di

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O S S E R V A T O R I O

La Giuria al lavoro, si vedono: Lilia Slomp Ferrari, Lia Cinà Bezzi, Luisa Gretter Adamoli, Sonia Spallino, Rosanna Bolognani, Mariano Bosetti ed Antonia Dalpiaz.

Carla Mannarini di Trento; «Nick» di Francesca No-ceti di Vezzano; «I tuoi sogni» di Nico Bertoncello di Bassano del Grappa e «Rondine di primavera» di Enrico Faes di Calavino .

SEZIONE C VALLE DEI LAGHILa Giuria ha assegnato due premi anziché uno,

un premio ragazzi ed un premio adulti: premio ra-gazzi alla poesia «Castel Toblino» di Danilo Cozzi-ni, di Padergnone, classe 2000; premio adulti alla poesia «Valle del vento» di Raffaela Zanoni, di Pa-dergnone

SEZIONE A DIALETTO - ADULTII premio «’Ntramezo a col strozo» di Nadia Ma-

ria Sartori di Rovereto; II premio «Ol sàles» (Il salice) di Gianni Pisoni di Bergamo; III premio «Anca ancòi è vegnù nòt» di Clara Kaisermann di Mezzolombar-

do. Segnalate a pari merito: «Anca senza paròli» di Grazia Binelli di Pinzolo / Rovereto; «Vègno mama» di Giorgio Bridi di Lasino; «Brase» di Corrado Zanol di Capriana (Valle di Fiemme).

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ALEXANDRA KOch

Il Monte Analogo 2010Progetto d’arte ai piedi del Brenta | quarta edizione

Raggiunge quest’anno la IV edizione la manife-stazione di Disegno, Fotografia, Video, deno-minata “Il Monte Analogo”, confronti tra arte

italiana e arte tedesca. Gli artisti presenti a San Loren-zo in Banale, presso “La casa di Wilma” sono: Gian-carlo Lamonaca [Varna], Ula Markuszewska [Warsza-wa], Marco Massante [Milano], Falk Messerschmidt [Leipzig], Valeria Radaelli [Como], Eva Walker [Berlin].

Con il titolo Il Monte analogo, tratto dall’omoni-mo romanzo di René Daumal, sarà esposta una mo-stra collettiva presso la Casa di Wilma a San Loren-zo in Banale, a cura di Alexandra Koch e con la col-laborazione di Manja Finnberg. Le opere contem-poranee presentate sono di giovani artisti europei e sono ispirate e realizzate durante un progetto d’ar-te che giunge alla quarta edizione, realizzato con il contributo della Provincia Autonoma di Trento.

Quest’autunno sono stati invitati sei artisti, tra i quali due tedeschi, tre italiani e un’artista da Varsa-via in Polonia per creare in pochi giorni opere ad hoc ed in loco e dunque al di fuori dei normali e scontati circuiti. Si tratta di una sorta di richiamo all’interazio-ne con l’ambiente, le Dolomiti del Brenta, una espe-rienza di lavoro capace di correlarsi con lo spazio cir-costante. Il presupposto è di promuovere una ricerca creativa contemporanea nell’ambito delle arti visive.

Giancarlo Lamonaca vive e lavora a Varna in Al-to Adige, si specializza in post-produzioni fotografi-che e cura progetti di fotografia e design. Ula Marku-szwewska ha studiato all’Accademia d’arte di Varsavia in Polonia, dove vive e lavora. Dipinge e esperimenta con disegno e carta. Marco Masante di Milano realiz-za cortometraggi. Falk Messerschmidt vive e lavora a Lipsia ed è diplomato all’Academia d’arte in fotografia.

Valeria Radaelli, diplomata come maestra d’ar-te a Como, dipinge con colori fortemente contra-stanti. Eva Walker vive e lavora a Berlino e ha stu-diato incisione presso l’Accademia d’arte di Halle. Realizza disegni in bianco e nero in grandi formati.

Gli artisti, durante il progetto d’arte, sono posti nella condizione di lavorare insieme, quasi in equi-pe, partendo però dalla propria singola identità. Qui la comunicazione tra culture diverse e formazioni artistiche di tipo differente porta l’artista a metter-si in gioco nel momento in cui si espone attraver-so la propria opera, poichè in questo caso sono so-prattutto il fararte, l’elaborazione e la fase di costru-zione del lavoro durante il laboratorio ad essere fin da principio “sotto gli occhi di tutti“.

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O S S E R V A T O R I O

DONATO RIccADONNA

Il Limarò, la sua strada e… LimaròarLa strada del Limarò: un po’ di storia

La strada che da Trento raggiunge le Giudicarie è stata messa in cantiere il 2 giugno 1830 dai dele-gati nominati dai distretti giudiziari e amministrati-vi di Tione, Stenico e Vezzano: lo “stradone imperia-le” doveva raggiungere Sarche e da lì biforcarsi per Tione, percorrendo a ritroso il corso del fiume Sarca superando le ripide forre del Limarò e della Scaletta, e per Riva del Garda. Il tracciato di massima del Sar-ca era già stato rilevato nel 1767 dai due ingegneri vescovili Baroni e Ferrari di Rovereto, per studiare la possibilità di fluitazione del legname, cosa per altro rivelatasi non possibile. Il 4 ottobre 1833 si diede il via alla costituzione del consorzio pubblico “Concor-renza stradale”, e nel 1834 iniziano i lavori sotto la direzione dell’ingegnere Giovanni Piva (lo stesso del-la celebre Ponale costruita tra il 1848 ed il 1851) ma per l’inizio dei cantieri a partire dal ponte di San Lo-renzo a Trento, bisogna aspettare il 1843.

Contemporaneamente iniziano i lavori per la costruzione della strada da Sarche a Tione, comu-ne che spingeva in particolar modo arrivando ad

anticipare la spesa per cinque anni senza interes-si a favore della Concorrenza stradale: in questo modo il paese di Sarche incomincia ad assumere un ruolo importante di snodo dei traffici tra Tren-to, il Basso Sarca e le Giudicarie. I lavori iniziano a Sarche con la costruzione nel 1841 del ponte di legno che attraversa il Sarca e che davanti alla ca-sa delle guardie daziarie fatta erigere da Bernar-do Clesio. Questo ponte di legno ha resistito fino al 1961, quando è stato sostituito con un ponte in muratura: a sua volta la spalla sinistra del ponte è franata durante la disastrosa alluvione del Sarca del 2 ottobre 1973, causando la morte di due fratel-li di Bocenago che lo stavano percorrendo. Fu so-stituito da un ponte Bailey e nel 1978 da un nuo-vo ponte in muratura.

Da tale ponte delle Sarche fino a Ponte Arche, il progetto era stato stilato da Giuseppe Dal Bosco, vi-ce ingegnare del Circolo di Trento, che per supera-re il dislivello di 200 metri fino al romitorio del dos-so delle Motte aveva proposto due soluzioni: quella non realizzata prevedeva più tornanti che salivano

Limaròar Limaròar

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più a monte del tracciato poi realizzato e che dal passo della Morte scendeva poi al ponte Balandino. Il tracciato prescelto, che passava sotto il dosso del-le Motte, raggiungeva anche il maso del Limarò di proprietà della Mensa vescovile di Trento, superan-do la roccia strapiombante nel greto del fiume Sarca con una secca curva a gomito, poi divenuta famosa per gli incidenti che si sono verificati, come “curva della morte”. La scelta del tracciato basso fu deter-minata dal minor dislivello, anche se era maggior-mente in ombra e se lo sbancamento roccioso era

maggiore: per ridurre l’onere dello scavo in alcuni punti più difficili ed esposti, lo stradone era stato ridottola 6,25 metri a 5,25.

Il preventivo di spesa, poi rivelatosi assai ottimi-stico, era di 140.000 fiorini da Piedicastello al pon-te Balandino e da lì al ponte del Lisano sul torrente Algone di altri 96.000 fiorini, mentre per le rimanti

La forra del Limarò

Rocce calcaree, calcareo-marnose e selcifere giuras-sico-cretacee, costituiscono le pareti della gola incisa po-co più a valle del complesso d elle Terme di Comano, che diventa più ad est la “Forra del Limarò”. Limarò deri-va dal latino limen, limes e dal dialetto maroc (masso).

I truogoli e le vasche (fondrioni) trapanati e levi-gati dall’erosione delle acque, si possono osservare dal comodo balcone del Ponte dei Servi, oppure dall’antico Ponte Balandino detto anche ponte romano.

La gola del Limarò è contornata da ripide e spet-tacolari forme rocciose calcaree, variamente scolpite sul fondo dall’erosione millenaria dell’acqua. Le spon-de sono prossime alla verticalità ed ospitano la vege-tazione dove è appena possibile, come negli anfratti, nelle fessure e sui ripiani secondari oltre che sulle ri-pide cenge trasversali. Sulle rocce esposte al sole, do-minano le cenosi a roverella ed orniello con il carpino nero, lo scotano e numerosi pini silvestri nani e con-torti mentre, in esposizione nord, sono più frequenti essenze mesofite come il faggio, l’acero, il tasso e il ti-glio, molto spesso associati in fitte formazioni boschi-ve che scendono lungo i conoidi detritici fino all’alveo.

Il piede delle pareti di sponda è sovente ricoperto da epatiche e muschi e, nelle zone più calde, dall’ede-ra che vi si arrampica con incredibile tenacia.

Per tutte queste motivazioni naturalistiche, la Forra del Limarò è stata inserita nell’elenco provin-ciale dei beni ambientali da tutelare.

Limaròar

Limaròar: Aldo Riccadonna.

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O S S E R V A T O R I O

sistemazioni stradali per Tione e Condino di 36.800 fiorini. La grande opera vide la luce nel 1849, tra il disappunto della comunità di Stenico e Banale, che era stata tagliata fuori dal collegamento, tanto che successivamente realizzò a proprie spese un allac-ciamento pedonale di fortuna allo stradone con in-nesto al maso del Limarò, con una passerella sul Sar-ca e con la sistemazione del sentiero lungo il torren-te Bondai: questa scorciatoia ben presto fu preferita al famoso sentiero di San Vili, che da Moline porta a Ranzo, per poi dirigersi verso Trento.

La costruzione della strada del Limarò fu ultimata in appena due anni e fu inaugurata il 29 settembre 1842 dall’arciduca Stefano d’Asburgo, che fu omag-giato dai sindaci presenti con la titolazione della salita sotto il romitorio con il nome di “stefanea”.

I lavori proseguivano alacremente anche da Pon-te Arche a Tione, tanto che nel 1852 si aprì lo stra-done della Scaletta (verrà spostata sul versante op-posto nel 1956, quando si crea l’invaso artificiale di Ponte Pià), superando anche qui la forra sul fiume Sarca. Tanto per renderci conto delle difficoltà rea-

Limaròar: Aldo Riccadonna.

L’itinerario vigiliano e la strada del Passo della Morte

La memoria di una strada di congiunzione tra Trento e la parte più interna delle Giudicarie, cioè la Val Rendena, toccando il Vezzanese e il Banale, è contenuta nella “Passio Sancti Vigili”, che, seppur scritta vari secoli dopo la morte del vescovo missionario tridentino, raccoglie fatti e tradizioni prece-denti. Narra la Passio che Vigilio, uscito da Trento per la «Porta Bresciana» e varcato il ponte sull’Adige (S. Lorenzo) s’incamminò per la Rendena. Altrettanto dicasi per quella, processionale, del ritorno con il corpo del vescovo ucciso, pare, a Spiazzo Rendena il 26 giugno del 400 (o del 405) d.C.

L’itinerario seguito da Vigilio e dai Cristiani trentini che ne riportarono il corpo in città, corrispon-de al vecchio passaggio del Bus de Vela, il Vezzanese, Ranzo, Banale, Stenico, Ragoli. Lo scandiscono le cappelle al vescovo di Trento dedicate che su di esso, o nei paraggi, si trovano.

Le leggende dell’ “apriti o cròzo che i Banali i m’è adosso”, della impronta sulla roccia della “mano di S. Vigilio”, sembrano essere relativamente recenti. Più vecchia è, invece, la leggenda del discreto ritiro a Magna-no, sul lago omonimo nel Vezzanese, di S. Massenza, ritenuta dalla tradizione popolare madre di S. Vigilio.

Stessa sorte di quasi abbandono toccò alla mulattiera che da Comano porta al passo della Morte, detto così per l’assassinio del giovane Aliprando da Castel Toblino da parte di Graziadeo da Campo Lo-maso per rivalità d’amore della contesa Ginevra da Stenico, che poi sembra fu tumulato nei pressi del romitorio. Questo fatto tragico sta a testimoniare la pericolosità del transito di questa mulattiera, vi-sti i molti infortuni e le rapine subite dai passanti che sono testimoniate nei secoli.

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lizzative che si sono dovute superare, il costo finale della strada tra Sarche a Tione fu di 400.000 fiorini.

La manutenzione di tutti questi nuovi tratti di strada fu a carico della Concorrenza stradale giudi-cariese e dopo circa una trentina di anni, tra il 1884 ed il 1897, passò all’erario imperiale austriaco che istituì il ruolo degli “stradini”. Con l’annessione al Regno d’Italia, la manutenzione viene assunta dall’A-NAS e dalla Provincia di Trento.

Per accontentare le legittime critiche delle co-munità del Banale bisogna arrivare al 1923, quan-do fu costruito il ponte dei Servi sul Sarca: era un manufatto in ferro, lungo 65 metri, largo 4,50 a 80 metri circa di altezza sull’alveo del Sarca. Fu demo-lito nel 1956 e sostituito da un ponte più largo di cemento armato, eseguito dall’impresa degli inge-gneri Alessandro e Fabio Conci di Trento.

La circolazione automobilistica di servizio pub-blico sullo stradone delle Giudicarie per Trento e per Riva del Garda inizia regolarmente nel 1908, quan-do la ditta Leonardi e Zontini di Riva sostituisce il servizio di posta con i cavalli. E’ del 1916 invece la costruzione di una teleferica militare austriaca che passava per le forre del Limarò e della Scaletta e che

Il Romitorio del Casale

Sorge sopra l’abitato di Sarche su un dos-so detto El Croz, fra il monte Daino ed il Casa-le (attualmente nel comune catastale di Calavi-no): qui fu edificata una chiesetta dedicata a San Giovanni Battista, dove la gente andava a pre-gare, soprattutto il 24 giugno per la ricorrenza, ed anche, per probabili confusioni con San Gio-vanni Apostolo, anche il 27 dicembre. Accanto alla chiesetta, della cui esistenza si ha notizia la prima volta nel 1344 (ma chissà da quando era stata costruita), sorse un eremo fin verso la fine del 1500, mentre nel XVIII secolo fu edificata una piccola casa, i cui resti si vedono ancor oggi. Gli eremiti come istituzione furono da noi soppres-si nel 1782 dall’imperatore d’Austria Giuseppe II, ma, per quanto si sa sul monte Casale non vi era più un eremita da molti decenni.

Limaròar: raro Galletto sidecar.

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O S S E R V A T O R I O

collegava Trento con Breguzzo per il rifornimento del fronte in Giudicarie.

La dismissione di una parte della strada del Lima-rò e la possibilità di un recupero ciclo-pedonale

Tra il 1970 ed il 1972 la ditta Gelfi di Brescia che utilizzò i mezzi della ditta Carboni di Colico (Son-drio) realizzò le tre gallerie più a monte del vec-chio tracciato, dismettendo così il tratto più espo-sto del vecchio stradone, quello che comprendeva la famigerata “curva della morte” e che dall’attuale quinto tornante sopra le Sarche per chi viaggia ver-so Ponte Arche arriva fino al maso del Limarò, dove attualmente c’è un’area di sosta (in linea d’aria sot-to il passo della Morte).

È invece degli anni ’90 la dismissione del secon-do tratto, superato con la galleria Balandin, meno pericoloso ed esposto del primo: complessivamen-te i due tratti misurano circa 3,6 chilometri e si tro-vano per circa 1 chilometro nel comune catastale di Lomaso e per 2,6 circa in quello di Calavino.

Il risultato finale è la dismissione e l’abbandono totale di un tratto di strada altamente spettacola-re che offre dei panorami mozzafiato sul greto del fiume Sarca: tale abbandono ha voluto anche dire la vera e propria sparizione di quasi tutti i lastroni in pietra rossa ammonitici posti sopra ai parapet-ti, cha testimoniavano una ricerca estetica inusuale per una strada ad alta percorrenza.

L’associazione Pro ecomuseo della Judicaria dal-le Dolomiti al Garda da alcuni anni ha promosso ini-ziative per sensibilizzare l’opinione pubblica ed i responsabili della Provincia Autonoma di Trento al recupero ciclopedonabile di questo tratto di stra-da, intendendo con questo il primo tratto di cicla-bile tra il paese delle Sarche e Tione, essendo que-sto un collegamento fondamentale per unire i vari tracciati ciclabili trentini che comunque non passa-no dalle Giudicarie Esteriori.

Un secondo, ma non meno importante, motivo di interesse da parte dell’associazione è che uno dei progetti qualificanti dell’ecomuseo è proprio la realizzazione del Parco fluviale della Sarca, e quin-

di il recupero ciclo-pedonale di questo tratto è una parte del progetto generale.

Quest’anno finalmente inizieranno i lavori di recupero ciclopedonabile dei tratti dismessi del-la vecchia Limarò e quindi questo sogno a breve verrà coronato.

Infatti sembra che questa sia la volta buona. Le Giudicarie Esteriori finalmente verranno collega-te con la rete trentina delle piste ciclabili che fino-ra hanno toccato quasi tutte le valli con quasi 400 chilometri di piste realizzate, ma non le Giudicarie appunto. Colpa non di scarsa volontà da parte della provincia, ma della difficoltà che si riscontrano sul terreno, dato che la plaga giudicariese è collegata a fondo valle da strette forre sul Sarca. Una delle solu-zioni, da sempre caldeggiata dal consigliere provin-ciale Roberto Bombarda e dall’ecomuseo era quel-la di utilizzare il tracciato abbandonato della stra-da del Limarò da una parte e di quella della Scalet-ta a lato dell’invaso di Ponte Pià. È da tempo che la scelta progettuale era caduta sulla Limarò ed in queste settimane si passerà ai fatti: il 20 settembre scorso è stata definitivamente assegnata la realiz-zazione di circa 4,5 chilometri di ciclabile che par-tirà dal quinto tornante a salire dalle Sarche ver-so Ponte Arche sul comune di Calavino, fino ad ar-rivare a subito dopo la galleria Balandin sul comu-ne di Comano Terme. La spesa prevista, tra disgag-gi della parete e opere stradali, è di 2.826.477 eu-

Limaròar: Guido Donati mostra con orgoglio il suo Galletto.

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ro, sulla quale è stato applicato il ribasso che ver-rà ufficializzato tra una trentina di giorni, così co-me il nome della ditta aggiudicatrice dell’appalto. Una volta perfezionato l’iter burocratico, presumi-bilmente per l’inizio dell’inverno, partiranno i veri e propri lavori che dovrebbero consegnare la cicla-bile in 6 mesi. Insomma se tutto va bene la ciclabi-le sarà percorribile per la tarda estate 2011. Conte-stualmente partirà un secondo appalto di circa 300 metri dalla galleria Balandin fino ad una piazzola a metà retta, per mettere maggiormente al sicuro i ciclisti che si immettono sulla ciclabile: in questo caso subirà un allargamento la stessa sede strada-le e quindi si prevede una spesa di altri 2,5 milioni. Ci si augura che la fine lavori sia per l’estate 2012; poi bisognerà capire come arrivare a Ponte Arche contestualmente con la realizzazione della varian-te presentata dall’assessore provinciale Pacher. Ma questo è il capitolo successivo.

Limaròar, tra mito della velocità e filosofiaLa meta dell’uomo è l’origine…insomma non c’è

alcuna meta da raggiungere. La citazione di Pier-paolo Pasolini, riportata da Aldo Riccadonna e trat-ta dal suo libro “Briciole scettiche del XX secolo”, è una di quelle affermazioni forti che ha suggellato il successo di Storia leggenda, la manifestazione che annualmente il Gruppo culturale di Fiavè-Lomaso-Bleggio e l’Ecomuseo organizzano in ambienti par-ticolari ed evocativi. Quest’anno era la volta della vecchia strada del Limarò, per ricordare che tra po-co la si potrà percorrere in bicicletta, ma i contenuti sono andati molto al di là ed il centinaio di persone che hanno assistito sono state coinvolte in un viag-gio quasi onirico tra storia della strada, vecchie bi-ciclette e rombi di motociclette d’epoca, riflessioni filosofiche, musica da viaggio, evocazione di perso-naggi circondati da mistero, la forra inquietante del Limarò e il mito futurista della velocità. Detta co-sì sembrerebbe un guazzabuglio inestricabile e for-se lo è davvero, ma se si prende una cosa per vol-ta si capisce qualcosa di più. Ad esempio la strada del Limarò, che fu inaugurata nel 1842 e dismessa

nel 1972 e negli anni ’90, vide sicuramente passare le biciclette e le motociclette che sono state espo-ste dai collezionisti Gigi Farè e Roberto Modena. E poi l’evocazione di Franco Farina del Castrin, al se-colo Abramo Zeni (1912-1986) di Cavedine, il ban-dito che “el toleva dove ‘n ghe n’era el meteva do-ve ‘n mancava” che utilizzava un anfratto del Lima-rò per nascondersi e che utilizzava le biciclette per spostarsi. E ancora, la musica del cantautore ex ca-mionista Giampiero Marini con il finale scoppiettan-te di Farina che ha recitato una poesia di Marinet-ti sul mito della velocità. Come a dire: la “lentezza” del pensiero filosofico è o non è compatibile con la velocità del progresso? E così si chiude il cerchio.

Limaròar: Franco Farina recita.

Logo di Giuliano Lunelli.

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O S S E R V A T O R I O

Era la metà degli anni ’80 e chi si occupava di cultura navigava a vista non avendo grossi punti di riferimento. Il decennio precedente

accanto ad una grande creatività aveva lasciato mol-te macerie nelle speranze di cambiamento e molti erano tornati a casa.

Il Gruppo Culturale Fiavè-Lomaso-Bleggio, che allo-ra si chiamava anche Giovanile si occupava oramai da qualche anno (è stato fondato nel 1974) di promuovere svariate iniziative nel campo cinematografico, cultura-le, sociale, ambientale, ma mancava una cornice, una visione complessiva della valle, una chiave di lettu-ra d’insieme. Insomma un progetto ad ampio respiro che non corresse dietro alle emergenze del momento.

La fantasia corse subito alla notevole presenza di castelli, anche se nell’ambito dell’allora Commissione cultura del Comune di Fiavè, qualcuno era molto scet-tico sull’operazione liquidando il tutto con “l’è sol qua-tro archècc”!!, paventando così il fallimento di pubblico.

Ma l’intuizione si concretizzò nel 1986 sotto il no-me evocativo “Storia leggenda”, che sta anche per sto-ria da leggere. Bisognava far rivivere dei luoghi per una notte ribaltando l’approccio: prima si sceglie il posto e poi si studia il modo migliore per valorizzar-lo con uno spettacolo, dove anche l’emozione è im-portante. E non è stato un caso la scelta della data di ferragosto delle prime edizioni, quasi a voler signifi-

care che la nostra val-le nella data principa-le del turismo estivo non è solo festa cam-pestre e tutti i luoghi comuni che ne conse-guono. Poteva essere anche qualcos’altro.

Volevamo dimo-strarlo con grandi am-

Il progetto “STORIA LEGGENDA”bizioni, pochi mezzi economi-ci e grandi difficoltà organizza-tive, perché un conto è orga-nizzare un concerto in una sa-la al coperto, un altro è tener-lo all’aperto in strutture spes-so prive di elettricità, di posti a sedere e di qualsiasi struttu-ra e/o elemento ricettivo.

Le prime quattro edizio-ni, che hanno avuto un vero e proprio bagno di folla, han-no riguardato i castelli delle Giudicarie Esteriori, anche se nel 1987 l’APT provinciale ha varato la sua manifestazione “Se in Trentino d’estate un castel-lo”, facendo un po’ tabula rasa di quel poco che ave-vamo fatto, avendo grandi budget a disposizione e una possente macchina pubblicitaria.

Ma la necessità aguzza l’ingegno, e di edizione in edizione abbiamo migliorato l’aspetto grafico (allo-ra prima della rivoluzione informatica la grafica dei manifesti lasciava molto a desiderare) grazie all’ap-porto geniale di idee di Giuliano Lunelli e al filo ros-so costituito dalla presenza assidua dell’intellettua-le, commediografo, latinista, eccetera Franco Fari-na. Il tutto avvalendosi spesso delle ricerche stori-che di Graziano Riccadonna, concretizzatesi anche nella pubblicazione di articoli e studi.

Far rivivere Nicolò d’Arco nel suo castel Spine è stata una grande emozione; ma anche i provenzali

a castel Restor o il mistero dei villaggi scomparsi vicino a castel Campo e la magia della prima volta a castel Mani.

E poi i Baschenis

DONATO RIccADONNA

1993

1996

1995

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che aleggiavano sulla piazza di Dorsino con la loro Dan-za macabra o a Bono, dove il confronto della musica popolare medievale e quella ufficiale gregoriana è sta-to reso magnificamente dal disegno di Lunelli. Il po-polo si divertiva ma sullo sfondo incombeva il potere.

Difficili da dimenticare il concerto di musica prei-storica nel 1991 presso le palafitte di Fiavè o il pezzo teatrale di G. B. Sicheri che per la prima volta è torna-to a Stenico dopo un secolo di oblio, messo in scena in una bella piazzetta dove incombeva come monito la mole del castello. E poi nel 1994 a Lundo l’edizio-ne forse più sperimentale per ricordare il recinto di San Martino con un incredibile concerto con strumen-ti costruiti da eventuali sopravvissuti ad un’esplosio-ne atomica…una specie di preistoria post atomica.

Nel 1995 è toccato a Rango nella cui piazza per la prima volta si teneva una manifestazione (anticipando di qualche anno il fatto che Rango sia diventato uno dei più bei borghi d’Italia): la penna di Lunelli ancora una volta ha colto nel segno, quando la fontana si spec-chiava nella propria acqua (storia) e si sorprendeva.

E cosa dire della “leggerezza” con cui abbia-mo ricordato anche la presenza di Andreas Hofer a Ballino, a differenza di quanto è successo recen-temente? In un momento non sospetto abbiamo messo assieme studi ed un concerto rock con uno dei migliori gruppi alto atesini, perché questa mu-sica è una lingua universale e vedere Hofer con la chitarra elettrica è stato un vero e proprio sballo.

La prima serie si concluse alla prima edizione di un progetto che voleva essere biennale per ricor-dare la presenza forse più leggendaria della nostra valle, l’orso bruno. Anche qui anticipando i tempi. Nel 1998 si voleva fare una specie di gemellaggio

in val d’Algone con la cultura indiana dei Lakota Sioux, ma le incomprensioni con le am-ministrazioni comunali della valle, che hanno “declassato” la nostra manifestazione ad iniziativa comunale e non di valle, bloccando di fatto il fi-nanziamento che la Bibliote-

ca Intercomunale di Ponte Arche ci assi-curava ogni anno, ci ha messo in crisi.

E dopo il giro di tutta la valle con 12 edizioni ci siamo pre-si una pausa di rifles-

sione. Ma non è stata inutile, anzi! Infatti nel 1999 è nata l’associazione Pro Ecomuseo ed è stato redat-to il Progetto di fattibilità dell’Ecomuseo, che ha at-tinto a piene mani all’esperienza di Storia leggenda.

Nel 2007 l’associazione Pro Ecomuseo è entra-ta direttamente nell’organizzazione della manife-stazione, affiancando il Gruppo Culturale, ed ab-binandola alle Giornate nazionali del paesaggio con un percorso guidato. E così nel 2008 si è co-ronato un vecchio sogno, quello di proporre uno spettacolo alla caverna Camerona di Ballino do-ve, con l’aiuto di figuranti del Museo delle palafit-te di Ledro, si è rivissuta una giornata preistorica. In questa edizione si è coinvolto per la prima vol-ta anche il comune di Tenno, completando così il territorio ecomuseale.

E poi il 2009 riservato alla riflessione delle 6 del mattino, valorizzando la parola “campagna” e mettendola in relazione con filosofia e antiche tra-dizioni degli ambarvali e delle rogazioni: una mat-tinata indimenticabile con una specie di testamen-to morale lasciatoci da un Adriano Maronese parti-colarmente ispirato. La giornata poi si era conclusa nella splendida cornice di castel Campo dove han-no fatto capolino anche i sapori della nostra terra.

Ed infine l’edizione “rumoristica” del 2010 nel-lo splendido scenario della vecchia statale del Lima-rò abbandonata, tra musica da viaggio, vecchie mo-tociclette e biciclette, rievocazioni della figura del Castrin, riflessioni filosofiche e citazioni futuristiche.

Forse le ultime edizioni sono più introspetti-ve, vogliono parlare maggiormente ai “paesaggi in-teriori”. O forse è solo il tempo che passa e che fa cambiare visuale.

Ma la forza dell’intuizione del 1986 rimane tutta.1997

1994

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O S S E R V A T O R I O

MARcO ZuLBERTI Presidente Circolo Culturale “Quatar Sorele”.

Cimego Bombardata - I danni di guerra (1915-1918)

Il gruppo Culturale Quatar Sorele in occasione della Sagra di San Martino ha organizzato, sa-bato 13 Novembre presso la casa Sociale di Ci-

mego una serata sui danni della Grande Guerra (1914-1918).

È stata tenuta una relazione dal Gianni Polet-ti dell’Associazione “il Chiese” accompagnata dalla presentazione di Marco Zulberti dell’Associazione Culturale “Le quatar Sorele”.

Per l’occasione sono state mostrate alcune im-magini mai viste dei bombardamenti subìti dal pa-ese di Cimego a partire dal ponte sul fiume Chie-se, fatto saltare con la dinamite la stessa sera dello scoppio della guerra, il 24 maggio 1915.

Si sono poi ricordati lo sfollamento della po-polazione verso la Val Rendena nel giugno del 1915, il sequestro degli attrezzi dei fabbri e dei materiali ferrosi da parte e del bronzo della cam-pane gettate dal campanile nel luglio 1915, il sac-cheggio delle case dopo la battaglia del monte Melino nel ottobre 1915, l’incendio del 17 gen-naio 1916.

Infine il difficile rientro della popolazione, le ca-se distrutte, la ricostruzione da parte del Genio Mi-litare italiano negli anni 1920-1922 dell’edilizia pub-blica, e il lungo paziente recupero degli arredi sacri della Chiesa di Sant’Antonio a Quartinago, nonché della chiesa di San Martino, fino alla ricollocazione delle campane nel 1926. Un periodo quasi scono-

sciuto della nostra storia che grazie a paziente stu-dio dei ricercatori è emerso con dovizia di mezzi e di documentazione.

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GRAZIANO RIccADONNA

Vivere altroveStorie di migranti nel Basso Sarca

Dotata di un significato profondo e autenti-co la mostra allestita dalla Mnemoteca del Basso Sarca in occasione della 18^ edizio-

ne delle Pagine del Garda al Casinò di Arco.Già il titolo, “Vivere altrove” indica l’idea di stra-

niamento che caratterizza l’emigrante, inteso nel-le due diverse direzioni: il secolo scorso eravamo noi alla ricerca di una vita migliore in terre stranie-re, ora sono gli “altri” a cercare in Italia e da noi una loro collocazione dignitosa. Da qui l’interesse per il tema della convivenza e della coesistenza multi-culturale, nella consapevolezza della inarrestabili-tà dei processi di trasformazione intercontinentali, ben centrato dalla Mnemoteca Basso Sarca.

Il progetto multimediale di Tiziana Calzà in col-laborazione con Laura Robustelli è approdato al-la mostra arcense, coordinata da Beatrice Carmel-lini, grazie alle testimonianze proposte: Francesca Miorelli (Francia), Dina Bortolotti e Arturo Boninse-

gna (Belgio), Elsa Benuzzi (Svizzera e Belgio), Ancil-la Leoni, Bruno Lunelli e Maria Bergamo (Svizzera), Genuino Parisi e Giorgio Ulivieri (Argentina), Giu-seppe e Adele Montagni (Canada), Carmel Riccet-ti (Lombardia) per il “Quando ad emigrare erava-mo noi”; Giuliano Righi, Gabriel Brida, Alvaro Bas-so (Uruguay), sorelle Podetti (Cile), Cristian Andre-atta e Leonardso Guazzetti (Argentina) per “Ameri-ca latina andata e ritorno”; .Stefanie Ermler, Monika Bachmaier, Liane Hock, Anita Buchem (Germania), Hélène Paric (Francia), Carola Ratering e Anna Been (Olanda) per gli “Intrecci”; infine la nuova immigra-zione, Vera Bostan e Ludmila Jalba (Moldavia), Tetya-na Statnik (Ucraina), Georgeta Cion e Alina Raurea-nu (Romania), Sandra Ogbeide (Nigeria), Victorine Ndeki (Congo), Kibra Samuel (Eritrea), Yvette Tede-schi (Egitto), Ulla Güdel )Austria), Tiina Arrankoski (Finlandia), Raquel Garcia (Filippine), Carme Gean (Brasile), Teresa Venzant (Cuba) e suor Maria Cam-postrini per i “Cammei”.

La raccolta delle testimonianze, raccolte secon-do il metodo autobiografico dell’intervista narrativa, è opera dello staff della Mnemoteca, Tiziana Calzà, Laura Robustelli, Mariarosa Rizzonelli, Gabriella Le-chiner, Ivana Franceschi, Erminia Ricci, Ferruccio Bo-lognani, Tiziana Andreotti, Luisella Miorelli e Rosita Mancabelli. L’interessante materiale si trova ora nei libri e DVD della stessa Mnemoteca.

La bella mostra della Mnemoteca Basso Sarca, un “vivere altrove” ieri e oggi per ritrovare se stes-si, originale proposta di testimonianze dei nostri emigranti e di coloro che hanno trovato il loro ubi consistam da noi.

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O S S E R V A T O R I O

GRAZIANO RIccADONNA

Diviene maggiorenne la mostra del libroPagine del Garda 18^ edizione

Diviene maggiorenne con la 18^ edizione la mostra del libro “Pagine del Garda” or-ganizzata dal Sommolago di Arco insieme

con “Altogarda cultura”, il servizio intercomunale di Arco e Riva del Garda.

Diviene maggiorenne e ambisce a proporsi come vetrina dell’editoria non solo del Garda ma dell’in-tero Trentino dopo una lunga serie di anni che la hanno dotata di esperienza e di diffuso consenso tra editori, centri studi, fondazioni, associazioni, musei, biblioteche, Provincia, Regione.

I numeri stanno dalla sua parte: 110 case editrici, 1780 titoli, 8.170 volumi in mo-stra, una presenza capillare sul territorio che va da Bellu-no alla Val Camonica, il Friuli, le province di Verona e Bre-scia oltre al Trentino rappre-sentato dalle massime case editrici.

Tantissimi i visitatori quest’anno, mediamente un terzo in più degli anni scorsi: hanno non solo visitato i libri, ma anche frequentato le pre-sentazioni o allestimenti mul-timediali, nelle due settima-ne ben 18.

Da l la Grande guerra nell’Alto Garda a cura di Fa-va, Grazioli, Ligasacchi e Mar-

tinelli al “diradarsi delle tenebre” del Laboratorio di Storia di Rovereto, edito da Egon, e alle pro-poste di valorizzazione del Castello di Arco a cu-ra di Romano Turrini: questa la parabola di pre-sentazioni ed eventi programmati per le “Pagine del Garda”.

In effetti le “Pagine del Garda” rappresentano uno degli appuntamenti più attesi, se non più im-portanti, in regione per conoscere nuovi titoli e le novità editoriali nell’area trentino-gardesana.

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PAOLO FLOR

Il “Winter Rock Festival” a Calavino

L’Associazione Forzaband & Friends organizze-rà dal 6 al 9 gennaio 2011 a Calavino presso il Parco Nadac, la prima edizione del Festival

musicale invernale “Winter Rock Festival “ e “Winter Tribute Festival”, una rassegna musicale dedicata alle “tribute band” cioè alle band che si presentano con un repertorio musicale i cui i brani appartengono ad un solo gruppo o autore. La tre giorni vedrà sul pal-co interpreti provenienti dal panorama musicale na-zionale, che offrirà al pubblico esecuzioni live vici-ne alle sonorità originarie di brani musicali che han-no fatto la storia della musica in ambito internazio-nale negli ultimi 40 anni. In contemporanea si terrà lo Young Tribute Festival, al quale potranno accede-re, ognuna con massimo tre brani di un medesimo autore o gruppo, le band giovanili fino a 29 anni. Le iscrizioni sono ammesse fino al termine del mese di novembre. Una commissione valuterà ogni esibizio-ne al fine di formare una classifica e proclamare il gruppo vincitore che deterrà il trofeo di “YoungTri-bute” fino alla edizione successiva. Sono inoltre pre-visti altri spettacoli di contorno, clinics, seminari in-formativi, punti di intrattenimento ricreativo, spor-tivo e punti ristoro. Durante i tre giorni del festival, sarà garantita la diretta TV su Trentino TV e Trentino TV sat, mentre la diretta dell’intera manifestazione sarà della Webradio di Forzaband & Friends (Fb&F).

Nel pomeriggio delle tre giornate si svolgeran-no le esibizioni dei giovani gruppi musicali parteci-panti allo Young Tribute Festival, mentre alla sera si potrà assistere ai concerti delle tribute-band a livel-lo nazionale, ospiti della manifestazione. Young Tri-bute Festival sarà non solo un concorso con premi per i gruppi giovanili locali di un certo rilievo, ma so-prattutto un’occasione per i giovani musicisti di con-

frontarsi con altri gruppi e di migliorare le proprie perfor-mances, anche per la presen-za nei tre giorni di apposite “clinics”, tenute da valenti musicisti di fama nazionale, con i quali si potrà dia-logare ed ascoltare consigli e suggerimenti.

Il programma completo di tutti gli eventi, sporti-vi, cabaret ed intrattenimento è ancora in via di de-finizione, prevista invece la partecipazione dei se-guenti gruppi: Tributo Queens Toys Placet, Tributo AC/DC Riff/Raff, Tribito Pooh Plasport, Tributo U2 Ac-thung Babies, Tributo Peter Gabriel Wallflover, Tri-buto Genesis Real Dream Tributo Iron Maiden Clai-rvoyants, Tributo Blues Brothers Brothers in black.

L’Associazione Forzaband & Friends è nata nel maggio 2009 da un importante progetto di forma-zione musicale al quale hanno dato vita i sei comuni dalla Valle dei Laghi una decina di anni fa. Il proget-to di Forza Band, consolidato e rinnovato, nell’Asso-cazione Forzaband & Friends, conta oggi più di 26 gruppi regolarmente iscritti ai corsi di formazione, promuove concerti in tutto il Trentino e possiede nel suo organico un affiatato gruppo di genitori e giovani che si occupano della promozione e orga-nizzazione delle diverse iniziative. Il banco di pro-va più impegnativo è stata sicuramente “Abruzzo LiveAid”, una maratona musicale a scopo umanita-rio di quattro giorni, che ha visto la partecipazio-ne di più di cento realtà musicali diverse (rock, co-ri, bande, ospiti a livello nazionale, musical, ecc.) in uno spettacolo musicale variegato che ha visto più di 13.000 presenze di pubblico e la partecipazione di numerose associazioni ed enti pubblici, coinvol-ti in varia misura nell’organizzazione.

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I N V E T R I N A

Recensioni e segnalazioni Le recensioni sono a cura di Danilo Mussi e Graziano Riccadonna

PONTE ARCHE. NASCITA DI UN PAESEPonte Arche. Nascita di un paese/ Severino Riccadonna, Gruppo Ricerca e Studi Giudicariese (Editrice Saturnia, ottobre 2010). Cm. 17 x24, 352 pagg.

Una storia breve ma intensa, quella di Ponte Arche, attuale ca-poluogo dal 1° gennaio 2010 del neonato Comune di Comano Ter-me, nato grazie alla strada e alla viabilità di fondovalle nonché ai primi artigiani concentratisi sul fondovalle. La strada significa so-prattutto ponti, e il ponte delle tre Arche è davvero storico, risa-lendo al Medioevo: la prima traccia è del 1248, allorquando il pun-to della consegna del canone in natura della gente del Bleggio a quella del Banale è stabilito presso il ponte della piazza del Sarca, mentre per l’esistenza incontrovertibile dell’esistenza di tale pon-te bisogna attendere il 1403, quando il Vicario Vescovile sancisce che le spese di riparazione del ponte di Sarca siano ripartite tra le Pievi di Bleggio, Lomaso e Banale, e il 1437, la conferma del ve-scovo Mazovia dei criteri di ripartizione delle spese per il ponte.

Severino Riccadonna ha raccolto una messe di documentazio-ne sul ponte e sulle origini di Ponte Arche, confezionando un in-teressante volume di 350 pagine dedicato appunto alla nascita del centro medio-giudicariese. Dopo il capitolo dedicato alla viabilità e al ponte delle tre Arche, Riccadonna affronta i punti nodali del nuovo centro, anzitutto la localizzazione al posto di un antico lago scomparso, poi la nascita del mercato e delle industrie dell’acqua e del fuoco grazie ai mulini, fucine, tintorie, copère e ràssiche, quin-di la nuova vocazione turistica, la Grande guerra a Ponte Arche, la nuova chiesa a dimostrazione della nascita di una nuova comuni-tà, la casa sociale Don Bosco, infine le limitrofe Terme di Comano.

Una corposa appendice è riservata al compianto studioso di Ponte Arche, Luigi Bailo, che ha raccolto una messe di ricordi a partire dalla primavera 1914.

“En giro ‘n de’l paés de le Arche co le so faméie e i so mistéri” è un’interessante antologia di vita vissuta a contatto con i primi abitanti di Ponte Arche, i primi alberghi, le prime stazioni delle Messaggerie Postali, oltre ai dati demoscopici rilevati nel 1957 e la provenienza dei ceppi familiari dall’intera vallata.

g.r.

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LA COOPERAZIONE RURALELa cooperazione rurale. Casse rurali e Famiglie cooperative, loro statuti e re-golamenti/ Don Lorenzo Guetti.- Ristampa anastatica (stab. Tip. G.B.Monauni, Trento, 1895) in occasione del 120°, Federazione Trentina della Cooperazione. 2010, 60 p.;17 cm.

In occasione del 120° anniversario di fondazione della prima Famiglia cooperativa trentina (1890-2010), la Federazione della Cooperazione edita un lavoro di Don Lorenzo Guetti finora inedi-to o poco conosciuto, relativo ai “dialoghi di un curato di campa-gna coi suoi curaziani”.

Si tratta di una serie di “lezioni” davvero istruttive tenute dal “curato di campagna” non nelle aule accademiche, ma nei fre-quenti incontri con la popolazione, nell’ottica della formazione della classe popolare, quindi del riscatto delle plebi contadine.

Più che di un testo scientifico, si tratta di uno scritto a forma di dialogo immaginario tenuto dal curato con i suoi curaziani, alcuni favorevoli ma altri timorosi dell’esperimento cooperativo, ai tem-pi di don Guetti un esperimento rivoluzionario se non avventato.

L’opera finora non era registrata tra quelle di don Lorenzo Guetti perché era apparsa nella forma anonima, di semplice “dia-loghi” tra il curato di campagna e i curaziani: ma in realtà con-tiene una serie di insegnamenti esemplari per i cooperatori, da raccomandare ancora oggi; il tutto in forma di sapido dialogo. In appendice i fac-simili dell’iscrizione alle cooperative e di tutti gli atti necessari alla fondazione di cooperative, nonché gli statuti-tipo della Cassa Rurale e della Famiglia cooperativa.

g.r.

PAESAGGI DI GUERRAPaesaggi di guerra. Il Trentino alla fine della prima guerra mondiale/A cura di Fabrizio Rasera, Anna Pisetti, Mauro Grazioli, Camillo Zadra, Museo Storico Ita-liano della Guerra (ediz. Osiride-Rovereto, giugno 2010). 29 cm. x 24, 326 p.

L’evento della Grande guerra in Trentino ha da sempre attira-to l’attenzione degli storici. Ma l’operazione realizzata dal Mu-seo Storico Italiano della Guerra di Rovereto mediante la rete del-le associazioni (tra cui il Centro Studi Judicaria, Il Chiese, Il Som-molago, il MAG dell’Alto Garda, l’Ecomuseo Valle del Chiese, il comitato “Ludwig Riccabona”) è davvero unica.

La fine della Grande guerra lascia dietro di sé un paesaggio di rovine, distruzioni, trincee, e naturalmente cimiteri. Dallo Stel-vio al Tonale, dalle Giudicarie a Ledro e Alto Garda, fino agli alti-piani del Pasubio, lo scenario che si presenta ai profughi e a chi

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I N V E T R I N A

ritorna dal fronte è apocalittico. Il “paesaggio di guerra” viene quindi gradualmente riassorbito dalla ripresa della vita civile: og-gi se ne possono cogliere le tracce soprattutto in alta montagna. Tuttavia anche nell’attuale tessuto urbano permangono le tracce della distruzione, nascoste naturalmente dall’odierno “progres-so”: per questo l’operazione del Museo Storico della Guerra di fare riemergere tali tracce, in collaborazione con numerose as-sociazioni, è un’operazione necessaria: un’analisi capillare del-le tracce del “paesaggio di guerra” del Trentino, terra martoria-ta dall’evento bellico.

Grazie alla Rete TrentinoGrandeGuerra l’immagine del Tren-tino martoriato viene riproposta in un “mosaico” di dodici mo-stre fotografiche zonali come tasselli di un’unica grande mostra trentina. Interessante e poliedrico il catalogo che accompagna tali mostre (per la Judicaria sono tre, Valle del Chiese, Alto Garda e Valle di Ledro), edito dal Museo Storico Italiano della Guerra.

Ognuna delle zone in cui è suddiviso il territorio trentino è rappresentata con una scelta di foto emblematiche del proprio territorio e in grado di ridarci il “clima” dell’ansia di ricostruzio-ne tipica del diciannove.

In premessa tre saggi ricostruiscono l’ambiente storico del periodo postbellico.Mauro Grazioli traccia le linee di un’eredi-tà controversa attraverso le immagini del Trentino còlto tra ro-vine e ricostruzione. Andrea Di Michele affronta il tema storico del Governatorato militare di Trento in rapporto con la ricostru-zione. Infine, Fabrizio Rasera tratta un argomento ornamentale: la possibilità di descrivere la devastazione postbellica attraverso le inchieste dell’epoca. Ciò vuol essere la premessa a un’antolo-gia di testi relativi alla ricostruzione, desunti da Ottone Brenta-ri, Oreste Ferrari, Enrico Marcabruni, Alcide Degasperi.

I CASTELLIERI PREISTORICI DEL TRENTINOI castellieri preistorici del Trentino/ Tullio Pasquali, pubblicazione dell’associa-zione Castelli del Trentino

I castellieri sono insediamenti preistorici o protostorici si-tuati su un’altura e circondati solitamente da una robusta cinta di mura. Se ne erano interessati a suo tempo due storici trenti-ni di prima grandezza, quali Desiderio Reich e Carl Ausserer, ma poi più nulla.

Ora affronta l’argomento scientificamente e in modo aggior-nato l’associazione Castelli del Trentino, presieduta da Tullio Pa-squali, grazie a un’opera organica a più mani, “I castellieri prei-

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storici del Trentino”, sottotitolo “Attraverso le ricerche di Deside-rio Reich e Carl Ausserer”, presentata i giorni scorsi a Caldonazzo e uscita per i tipi di “Publistampa edizioni”, Pergine Valsugana.

Il volume, curato da Tullio Pasquali e a più mani, esattamente 25, tratta dei castellieri preistorici dell’Alta Valsugana individua-ti da Desiderio Reich e Carl Ausserer, ma a questi, per vicinanza geografica, sono affiancati anche i castellieri di S.Orsola, Bosen-tino e Centa S.Nicolò.

Il volume inizia con la biografia dei due studiosi, i primi ad affrontare lo studio dei castellieri, quindi le informazioni relati-ve soprattutto ai castellieri “valsuganotti”. Per quanto concerne le ricerche di Reich e Ausserer, esse a dispetto del tempo risulta-no ancora valide, solamente non tutti i castellieri immaginati dai due studiosi sono poi venuti effettivamente alla luce: ma questo non invalida affatto la bontà dei loro studi, che ora sono riediti e ristudiati dall’associazione.

Un esempio egregio di castelliere è il Doss Trento, le cui notevoli sedimentazioni umane risalenti alle fasi preistoriche sono giustifica-te soprattutto con le caratteristiche di altura isolata nel fondovalle alesino, in grado di garantire un terreno stabile e lontano dalle pie-ne dell’Adige. Sul Doss Trento vi sono naturalmente altre frequen-tazioni umane, romane, medioevali, bassomedioevali e moderne, ma ciò non toglie l’importanza di quelle sicuramente preistoriche.

E’ vero peraltro che è da sfatare la leggenda secondo cui tutti gli abitati collinari (o castellieri) fossero muniti di sistemi di dife-sa, così come l’altra leggenda, che tali castellieri fossero esclusi-vi della nostra regione: l’usanza è assai diffusa in tutte le regioni montuose e collinari del bacino mediterraneo, dalle rive dell’A-sia Minore e della Siria fino allo stretto di Gibilterra!

L’appendice, relativa all’investitura dell’urbario di Castel Per-gine, è curata dalla studiosa Franca Barbacovi.

g.r.

CENTRO STUDI JUDICARIACOLLANA “JUDICARIA SUMMA LAGANENSIS”

1. Antonio DI SECLÌ, Giuseppe Papaleoni (1863-1943). Storico delle Giudicarie. Contributo biografico e biblio-grafico con un’aggiunta di lettere inedite. Presentazione di Vincenzo Calì. - 1985.

2. Mauro GRAZIOLI, Gianni POLETTI, Graziano RICCADONNA, Cesare BERTASSI, Christoph VON HARTUNGEN, Garibaldiner. Realtà e immagini della campagna garibaldina del 1866. Presentazione di Paolo Prodi - 1987.

3. Silvia MARCHIORI SCALFI, Saone e le Giudicarie. Scritti inediti e rari. - 1991.4. Angelo FRANCHINI, Trentini Tirolesi negli Usa 1947-1951. Contributi all’anagrafe dei Trentini Tirolesi in

America da “Risveglio” di Giovanni Amistadi. In appendice “Verso il sogno americano”. - 1995.5. Pasquale PIZZINI, La verità de Simon Sega. Modi di dire a Roncone e in Giudicarie. Disegni di Adriano Maffei. - 1996.6. Guido BONI, Tione e le Giudicarie. Scritti editi ed inediti. – 2000.7. Lorenzo MALPAGA, Danilo MUSSI, La difesa dalle alluvioni nella Judicaria. Viaggio alla riscoperta delle opere di si-

stemazione idraulica e forestale nelle valli del Sarca e del Chiese. - 2004.8. Gian Grisostomo TOVAZZI OFM, L’archivista lomasino. A cura di Ennio Lappi e p. Remo Stenico. - 2004.9. Basilio MOSCA, Quasi un romanzo. Storie di emigranti.- 2005.10. Danilo MUSSI (a cura di), La “Trisa”: 50 anni protagonisti dell’Emigrazione, - 2005.11. Autori Vari, Recupero dell’artigianato delle valli alpine. Atti del Convegno “Tra/Montani” di Condino, set-

tembre-ottobre 2005. - 2006.12. Autori Vari, Donne in guerra 1915-1918. La Grande guerra attraverso l’analisi e le testimonianze di una ter-

ra di confine, Atti del Convegno di Tione di Trento, 5 novembre 2005 - BIM del Chiese, Ecomuseo del-la Valle del Chiese-Museo Storico Italiano della Guerra - 2006.

13. Dario COLOMBO, Boemia. L’esodo della Val di Ledro 1915-1919. - Unione dei Comuni della Valle di Ledro - 2008.14. Italo FRANCESCHINI, L’alpeggio in Val Rendena tra Medioevo e prima età moderna. Presentazione di Gian

Maria Varanini, a cura di Graziano Riccadonna, Comune di Pinzolo - 2008.15. Ludovico Lodron. Un personaggio del Cinquecento tra mito e storia. Atti del Seminario tenuto a Trento, Pa-

lazzo Lodron di via Calepina, 17 novembre 2007 - 2008.16. Cent’anni di merletti a Javrè. 1907-2007. Atti del Convegno “L’arte del merletto dal Trentino alla Dalma-

zia” - Comune di Villa Rendena - 2008.17. Fra Alberto da Cimego e Margherita la bella. Settecentesimo anno dal rogo di Fra Dolcino. Atti del Convegno

23 giugno 2007, a cura di Graziano RICCADONNA e Marco ZULBERTI - Ecomuseo della Valle del Chie-se - Circolo Culturale “Quatar sorele” - 2009.

18. Archeologia lungo il Chiese. Nuove indagini e prospettive della ricerca preistorica e protostorica in un territorio condiviso fra Trentino e Lombardia. Atti del 1° convegno interregionale, Storo 24-25 ottobre 2003, a cu-ra di Elisabetta MOTTES, Franco NICOLIS, Gianni ZONTINI - Provincia autonoma di Trento - 2009.

19. Dario COLOMBO, Meraviglioso lago. L’affascinante storia del lago di Ledro dalla palafitte ai giorni nostri. - Unione dei Comuni della Valle di Ledro - 2009.

20. Giovanni Segantini nella cultura di fine Ottocento, Atti del Convegno di Studi di Arco, 26 settembre 2008, a cura di Giovanna NICOLETTI - Comune di Arco - 2009.

21. Ennio LAPPI, El pont de l’èra - Ecomuseo della Judicaria, Istituto Comprensivo Giudicarie Esteriori - 2009.22. Ricordi di Luigi Ferrari – Vita dei primi anni del Novecento, la Grande guerra e la Boemia, a cura di Umber-

to Giacometti - Comune di Ledro / Cassa Rurale di Ledro - 2010.

BIBLIOTECA JUDICARIENSE

1. Bibliografia Judicariense 1992, a cura di Danilo MUSSI, supplemento a Judicaria n.23 (maggio-agosto 1993).2. Bibliografia Judicariense 1993, a cura di Danilo MUSSI, suppl. a Judicaria n. 24-25 (settembre ’93-aprile ’94).3. Indici decennali della rivista Judicaria n.1-25, a cura di Danilo MUSSI e Daniela MOSCA, suppl. a Judicaria

n.26 (agosto 1994).4. Bibliografia Judicariense 1994, a cura di Danilo MUSSI, suppl. a Judicaria n. 28 (aprile 1995).5. Stampa periodica judicariense, 1ª parte: Giudicarie, Alta Valle Sabbia, Altopiano della Paganella, a cura

di Danilo MUSSI, suppl. a Judicaria n. 30 (dicembre 1995).6. Stampa periodica judicariense, 2ª parte: Alto Garda, Valle di Ledro e Valle dei Laghi, Garda bresciano

e veronese, a cura di Danilo MUSSI, suppl. a Judicaria n. 31 (aprile 1996).7. Bibliografia Judicariense 1995-96, a cura di Danilo MUSSI, suppl. a Judicaria n. 33 (dicembre 1996).8. Bibliografia della Val di Ledro I, a cura di Danilo MUSSI, suppl. a Judicaria n. 36 (dicembre 1997).9. Bibliografia della Val di Ledro II, a cura di Danilo MUSSI, suppl. a Judicaria n. 38 (aprile 1998).10. Bibliografia della Val del Chiese, parte 1a Indice per autori, a cura di Danilo MUSSI, suppl. a Judicaria

n. 39 (dicembre 1998).11. Bibliografia della Val del Chiese, parte 2a Indice per soggetti, a cura di Danilo MUSSI, suppl. a Judicaria

n. 40 (aprile 1999).12. Il gruppo Adamello-Presanella, saggio bibliografico, parte 1a Indice per autori, a cura di Danilo MUSSI,

suppl. a Judicaria n. 42 (dicembre 1999).13. Il gruppo Adamello-Presanella, saggio bibliografico, parte 2a Indice per soggetti, a cura di Danilo MUSSI,

suppl. a Judicaria n. 44 (Agosto 2000).14. La “Busa di Tione”, saggio bibliografico, parte 1a Indice per autori, a cura di Danilo MUSSI, suppl. a Judi-

caria n. 46 (aprile 2001).15. Indici dei numeri 0-50 della rivista Judicaria, Indice per soggetti e autori. - a cura di Daniela Mosca,

suppl. a Judicaria n. 51 (dicembre 2002).16. La Busa di Tione - Saggio bibliografico 2a parte: Indice per soggetti. - Danilo Mussi suppl. a Judicaria

n. 52 (aprile 2003).17. Bibliografia Judicariense, Le Giudicarie dell’Ottocento-1, a cura di Danilo Mussi e Gilberto Nabacino, suppl. a

Judicaria n. 57 (dicembre 2004).18. Bibliografia Judicariense, Le Giudicarie dell’Ottocento-2, a cura di Danilo Mussi e Gilberto Nabacino, suppl. a

Judicaria n. 66 (dic. 2007).19. Bibliografia Judicariense, Le Giudicarie dell’Ottocento-3, La piscicoltura nella Judicaria dalle origini alla metà del ‘900 a

cura di Ennio Lappi, suppl. a Judicaria n. 69 (dic. 2009).