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Sulle tracce del ricordo Piero Chiara 31 dicembre 1986 - 31 dicembre 2016

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  • Sulle tracce del ricordoPiero Chiara

    31 dicembre 1986 - 31 dicembre 2016

  • In copertina Piero Chiara davanti all ’albergo Due Scale a Luino(Archivio privato F. Roncoroni, Como, Fondo Piero Chiara)

  • A cura di Francesca BoldriniPresentazione di Aurelio Personeni

    Sulle tracce del ricordoPiero Chiara

    31 dicembre 1986 - 31 dicembre 2016

  • Presentazione

    Mio padre Ercole, come altri luinesi del resto, lo chiamava ‘camola’: quando veniva nella nostra macelleria per fare spese tirava sempre il prezzo. La mia famiglia conosceva bene Piero Chiara, il ‘camola’, come il personaggio del suo primo romanzo Il piatto piange. Mia madre Bianca raccontava che nel 1943, quando Chiara era arrivato a Luino per espatriare in Svizzera, era passato in negozio chiedendo una giacca: nella precipitosa fuga da Varese non aveva con sé che pochi indumenti. Piero Chiara è stato un grande scrittore, capace di una prosa �uida e coinvolgente. A Luino ha dato molto, facendola conoscere a milioni di lettori. A Luino sono stati girati alcuni �lm, come Venga a prendere il ca�è... da noi e alcune scene del Cappotto di astrakan. Anche Chiara però deve molto a Luino: la città, i luinesi, gli hanno fornito tanti spunti per i suoi romanzi. Lui ha reinventato la realtà, l’ha trasferita in prosa, partendo dalla materia prima, grezza, che i luinesi gli hanno fornito. Chiara l’ha ra�nata, con un complesso lavoro di rielaborazione e scrittura, dando vita a racconti e romanzi che hanno conquistato un vasto pubblico. Sono contento quindi che, in occasione del trentennale dalla morte, sia stata organizzata questa iniziativa per ricordarlo e per vedere alcuni luoghi di Luino citati nei suoi libri. Sarà un’occasione per ricordare Piero Chiara e visitare Luino.

    Buona passeggiata a tutti!

    P.s. A proposito, mia madre era solita ricordare che la giacca non era più stata restituita…

    Aurelio PersoneniPresidente Ascom Luino

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  • Piero Chiara (Archivio Mauro Galligani)

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  • Interno della Stazione Internazionale di Luino(Archivio Boldrini-Cattaneo)

    La Stazione Internazionale

    Nel novembre 1882 venne inaugurata la linea ferroviaria Novara-Pino, che nella stazione internazionale di Luino aveva il suo grande coronamento. La facciata troneggiava sopra la piazza appena abbozzata, i fasci dei binari luccicavano da Via Voldomino al ponte di Germi-gnaga, l’enorme tettoia, simile a quella della Gare de Lion a Parigi, accoglieva le prime fumate delle locomotive. Andare alla stazione voleva dire uscire dal paese per entrare in un ambiente favoloso, popolato di stranieri in transito, di mercanti, spedizionieri, guardie di �nanza, carabinieri, ferrovieri svizzeri e italiani in divisa, agenti di pubblica sicurezza. Nel bu�et di prima classe si potevano trovare famiglie intere che si rifocillavano durante le operazioni doganali, ladri internazionali, avventurieri, ma anche S.E il signor Boëtticher, Ministro dell’Impero Germanico diretto con la signora a Nervi, la regina Maria Pia di Portogallo con dame di compagnia e dignitari di corte, il re Umberto I e il principe di Napoli. Vi abbondava-no i negozianti di bestiame e gli importatori ed esportatori che facevano capo alle grandi case di spedizione schierate intorno alla piazza e lungo i viali di accesso. Davanti alla stazione sostavano le carrozze coi cocchieri in serpa. Negli anni tra le due guerre si era ridotta a poco. Oggi qualche nuova speranza torna a svolazzare sopra gli impianti ferroviari negletti da un secolo. Comincerà forse una nuova vita della città e della stazione, si scaveranno altre gallerie, si raddoppierà il binario e il «�oco tumulto lontane locomotive» verso la vicina frontiera sarà un ricordo di giorni lontani1.

    1 P. Chiara, Una stazione immaginaria, in I cento anni della Stazione Internazionale di Luino, Banca Popolare di Luino e di Varese, Luino 1982, pp. 17-19.7

  • in�lava un tovagliolo nel colletto e consumava il suo pasto. Restava a tavola un’ora in tutto, poi si alzava col viso rosso benché non bevesse mai vino, e se ne andava sul viale del Carmine a passeggiare sotto le piante per un’altra ora. Alle quattordici già riapriva il suo registro in U�cio e fumava la terza sigaretta della giornata. Alle diciannove usciva, tornava all’Elve-zia, mangiava sempre solo e alla �ne del pranzo accendeva la sesta sigaretta3.

    Alla mattina mi alzavo con comodo e uscivo di casa solo per andare dal mio amico d’infanzia Masoero, dal quale rimanevo �no all’una. Arrivavo dal Masoero di solito verso le dieci e mezzo e lo trovavo già dentro il suo battello, dove batteva chiodi, mazzolava o lavorava di lima intorno a qualche parte metallica della gran carcassa che aveva ricoverato vent’anni prima in un cortile della “cantina” di suo padre. Ferdinando Masoero era �glio di un grosso negoziante di vini piemontese venuto a insediarsi forse cinquant’anni prima sul lago. Mezzo meccanico, mezzo falegname e mezzo elettricista, Ferdinando dava sfogo alle sue varie capacità nell’opera di trasformazione del suo barcone, che aveva deciso di far diventare un pan�lo a vela e a motore, con tutte le comodità e le attrezza-ture di un cabinato di lusso. Vi installava una quantità di ingegnosi automatismi e di congegni segreti, in una febbre crescente di perfezione che lo spingeva a rifare continuamente quel che aveva già fatto e a inventare “manovre” e machiavelli d’ogni genere. Lavorava ormai da tre anni alla sua impresa, nei magazzini deserti della vecchia “cantina” abbandonata del padre, che da tempo aveva cessato l’attività commerciale. La barca era posata sopra una calastra e sostenuta da quattro puntelli. Contro un �anco era appoggiata la scaletta a pioli della quale Ferdinando si serviva per entrare nello scafo a lavorare. Quando Ferdinando sentiva la mia voce usciva dal ventre della barca, appariva in coperta e m’invitava a salire per mostrarmi le sue ultime trovate. Altre volte invece scendeva dalla scaletta e sedeva con me davanti alla stufetta sulla quale fumava il caldaio della colla di pesce2.

    La Casa Branca, ex Grand Hotel & Terminus

    L’Albergo Ristorante ElveziaEmerenziano Paronzini alloggiò a Luino in una stanza mobiliata di via Voldomino e contrattò un prezzo di pensione al Ristorante Elvezia. Ogni mattina alle nove meno cinque usciva dal portoncino di via Voldomino con la giacca a doppio petto tutta abbottonata, un cappello rigido calcato in testa e le scarpe gialle perfettamente lucide. Camminava diritto e senza distrazioni �no al portone dell’u�cio, dove entrava alle nove in punto. A mezzogiorno suonato appariva sul portone. Col suo passo corto e un po’ militaresco, o meglio da musicante che suoni camminando, e sempre senza salutare nessuno, forte del fatto che non aveva conoscenze, andava �no al Ristorante Elvezia. Nella sala da pranzo appendeva il cappello al solito posto, sedeva un po’ rigido a un tavolino d’angolo dove il cameriere non faceva sedere nessuno, si

    2 P. Chiara, Il cappotto di astrakan, Mondadori Editore, Milano 1978, pp. 158-161. L’amico d’infanzia di cui parla Piero Chiara su chiamava Giovanni Ferrario detto Nino, il Ferdinando Masoero del libro e del racconto Il Tonolini pubblicato ne Le corna del diavolo, Mondadori Editore, Milano 1977, pp. 31-42. Casa Branca fu fatta costruire da Vittore Branca nel 1884 come grande albergo, il Grand Hotel & Terminus, che ebbe tra i suoi illustri ospiti re, principi, prelati, nazionali e internazionali. Alla �ne dell’Ottocento, venuto meno il fervore turistico, Branca trasformò le cantine in laboratorio per la produzione di Fernet. Successivamente vendette la proprietà alla famiglia Ferrario per trasferirsi in Liguria.

    Casa Branca (Archivio Boldrini-Cattaneo)

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  • in�lava un tovagliolo nel colletto e consumava il suo pasto. Restava a tavola un’ora in tutto, poi si alzava col viso rosso benché non bevesse mai vino, e se ne andava sul viale del Carmine a passeggiare sotto le piante per un’altra ora. Alle quattordici già riapriva il suo registro in U�cio e fumava la terza sigaretta della giornata. Alle diciannove usciva, tornava all’Elve-zia, mangiava sempre solo e alla �ne del pranzo accendeva la sesta sigaretta3.

    Albergo Ristorante Elvezia (Archivio Boldrini-Cattaneo)

    Emerenziano Paronzini alloggiò a Luino in una stanza mobiliata di via Voldomino e contrattò un prezzo di pensione al Ristorante Elvezia. Ogni mattina alle nove meno cinque usciva dal portoncino di via Voldomino con la giacca a doppio petto tutta abbottonata, un cappello rigido calcato in testa e le scarpe gialle perfettamente lucide. Camminava diritto e senza distrazioni �no al portone dell’u�cio, dove entrava alle nove in punto. A mezzogiorno suonato appariva sul portone. Col suo passo corto e un po’ militaresco, o meglio da musicante che suoni camminando, e sempre senza salutare nessuno, forte del fatto che non aveva conoscenze, andava �no al Ristorante Elvezia. Nella sala da pranzo appendeva il cappello al solito posto, sedeva un po’ rigido a un tavolino d’angolo dove il cameriere non faceva sedere nessuno, si

    3 P. Chiara, La spartizione, Mondadori Editore, Milano 1964, pp.10-11. Negli anni Trenta l’albergo era gestito da Giuseppina Ballinari.4 P. Chiara, Storia di una tenutaria, in «Il Ca�é», a. VII, n. 9, settembre 1959, pp. 17-25. Poi in Id., Il piatto piange, Mondadori Editore, Milano 1962, pp. 43-60. La casa di tolleranza si trovava in via Verzolo. Era una casa a tre piani con le pareti esterne tinteggiate di rosso, circondata da un alto muro di cinta che nascondeva la vista di un giardino con pergolato. Fu demolita per far posto a un palazzo con la pareti rosse a ricordo di quello storico edi�cio.

    Il casino di MamarosaIn quel vagare da un luogo all’altro, in quel niente da fare, sembrò un’idea quella di andare in gruppo al Casino di Mamma Rosa, dove si era sempre andati ma alla spicciolata e di sera, e dove invece si cominciò a passare il pomeriggio in chiacchere e «�anella» sotto lo sguardo benevolo della padrona, la celebre Mamma Rosa che da una ventina d’anni eserciva quel ritrovo, quell’isola di silenzio nel silenzio del borgo.Essere benvisto da Mamarosa, esserne soltanto notato anche con una parolaccia, era un onore per la gioventù ed anche per gli uomini che frequenta-vano quella casa rossa, d’un rosso sangue di bue, protetta da un alto muraglione e rimasta con un contorno di stradine campestri benché fosse nel mezzo del paese, tra la Chiesa del Carmine e la Stazione Internazionale. Stava in mezzo alle nostre case con la sua Casa ed era ormai, come il Munici-pio, la chiesa, il Cimitero e la Stazione, un passaggio obbligato. Le donne quando dovevano transitare davanti al suo cancelletto coperto di lamiera, guardavano dall’altra parte; e se potevano, sbirciavano dentro per vedere chi andava e veniva: «Funziona – pensavano – allora tutto è regolare, il mondo è quello che è e tutto quello che deve avvenire avviene». E dire che «Mamarosa», o in genere il Casino, fu un lato della nostra vita, della vita di uomini che erano destinati a fare una decina di anni di guerra, a seminare le ossa per mezzo mondo o a tornare trasformati davanti a questa casa rossa che stava chiudendo, quasi a segno che il mondo cambiava davvero e tutto era stato sbagliato e bisognava cominciare a sbagliare in un altro modo4.

    Cancello d’ingresso del Casino di Mamarosa (Archivio Boldrini-Cattaneo)

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  • Stazione Ferroviaria Elettrica della Valganna (Archivio Boldrini-Cattaneo)

    5 P. Chiara, Un altro paesaggio, in Id., Dolore del tempo, Rebellato Editore, Padova 1959, p.162.6 P. Chiara, Non piangere Bertinotti, in Id., Le avventure di Pierino al mercato di Luino, Mondadori Editore, Milano 1980, p. 67.

    La Stazione Ferroviaria Elettrica della ValgannaQuel tram veniva dalle valli, dai paesi dal nome grazioso o ridicolo, e portava la gente del contado al capoluogo. Vedendolo passare per il corso era facile riconoscere, dietro i vetri, sempre gli stessi volti; e alle fermate in città veder scendere sempre le stesse persone: studenti, contadini, commercianti, avvocatucci di paese, segretari comunali, massaie che venivano a far acquisti tra una corsa e l’altra, o gente diretta alla stazione per trasbordare sul treno e continua-re qualche loro viaggio verso più grandi città. Quando il tram ripartiva verso le valli la sua andatura era più lenta. Colmo di viaggiatori che davano un ultimo fuggitivo sguardo al passeggio e alle vetrine, pareva all’inizio di una grande fatica destinata ad alleviarsi man mano che da ogni paese avrebbe perso il suo carico per giungere sonoro e veloce all’ultima stazione, sul terrapieno che guarda un lago silenzioso e solenne5.

    La piazza GaribaldiIl mercato di Luino si era sempre tenuto di mercoledì �n dai tempi di Carlo Còdega. Così dicevano i vecchi, confondendo Carlo V imperatore di Spagna, che aveva concesso a Luino il privilegio di un mercato settimanale �n dal Millecinquecento e rotti, con un personaggio leggendario come Carlo Còdega, che forse per i lombardi del Cinquecento era proprio l’imperatore Carlo V. Al mercato di Luino convenivano, e convengono tutt’ora, imbroglioni, ciarlatani, mercanti d’ogni sorte. I venditori di pollame, formaggio, frutta e verdura, si sistemavano coi loro banchi sotto le piante di Piazza Mercato, mentre gli altri, che mettevano in mostra borse, scampoli, scarpe, chincaglierie, ombrelli, sementi, granaglia, attrezzi agricoli, e per�no un libraio col suo banco montato sopra un carretto, si spargevano per le strade e invadevano ogni slargo �no ad occupare tutto il paese. Qua e là dove restava un po’ di vuoto, sotto il municipio e davanti al monumento di Garibaldi o nella piazza dell’imbarcadero, trovavano posto giocolieri, acrobati, mangiafuoco o imbonitori6. Il maggior tormento per Pierino e per i suoi coetanei coi quali ogni mercoledì girava il mercato, erano, d’estate, le angurie. Ce n’era un gran banco, proprio al centro della piazza, sotto le piante, dal quale i bei poponi, tagliati in mezzo e messi in �la come tante lune rosse, splendevano su tutto il mercato. Dietro al banco del cocomeraio sorgeva una piramide di angurie, alta �n quasi ai rami foltissimi dei platani che stendevano uno spesso materasso di verzura sopra tutta la piazza. Dal sommo di quella piramide il venditore, salendo su un

    palchetto, prelevava le angurie man mano che la vendita procedeva, sempre gridando per richiamar gente e certe volte buttando in aria come un pallone l’anguria che aveva preso da tagliare7. Nella piazzetta c’è il monumento a Garibaldi che qualche anno fa hanno arretrato di alcuni metri per ampliare il posteggio delle automobili, in modo che ora il Condottiero, anziché indicare con la sciabola ai suoi uomini il lungo viale dove si ritirava il nemico, insegna l’entrata del cortile di un fotografo8. Un Garibaldi di pietra, ritto sul suo piedistallo in mezzo a un giardinetto erborato, coi pantaloni molli, la camicia rimborsata e l’aria un po’ intontita e sospettosa d’uno che esca, mal rassettato, dai cespugli dentro i quali ha lasciato un ignobile segno di sé. Proprio dove sorge il monumento, nell’agosto del 1848 Garibal-di aveva impegnato un combattimento contro gli austriaci, con alcuni morti e feriti per parte9.

    Il Metropole dove giocavamo noi, allora chiamato Kursaal, non era che una dipendenza del Majestic: un bel padiglione liberty con terrazza sul lago e il giardino dai bassi cancelli che si aprivano in corrispon-denza con le porte del Majestic, al di là della strada10. Il Metropole, a chi fosse passato dopo mezzanotte, appariva quale un castello disabitato, con le tapparelle e le saracinesche abbassate, le porte e i cancelli chiusi. Nessuna luce trapelava all’esterno, anche perché lo spiraglio della nostra cantina era accecato con stracci e teli di sacco pressati nella feritoia sotto lo scalino della porta laterale11. C’era, intorno al bigliardo e ai tavolini di quel locale, la gente più avventurosa e

    spendereccia del paese, fannulloni la gran parte, ma anche esercenti, impiegati, professionisti, piccoli industriali, possidenti, fra i quali spiccavano dei veri �libustieri, tornati all’ovile dopo aver fatto denaro o riportato condanne in varie parti del mondo. Al Metropole, più che a casa mia, contavo di vivere e di passare il mio tempo, giocando, chiacchierando, prendendo in giro quelli che sgobbavano negli u�ci o nei laboratori e aspettando che la fortuna venisse a cercarmi12.

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  • La ex piazza Mercato (Archivio Boldrini-Cattaneo)

    Monumento a Garibaldi (Archivio Boldrini-Cattaneo)

    7 P. Chiara, L’evaporazione delle angurie, in Id., Le avventure di Pierino al mercato di Luino, cit., pp. 8-79.8 P. Chiara, Il piatto piange, cit., p. 38.9 P. Chiara, Una spina nel cuore, Mondadori Editore, Milano 1979, pp. 23-24. A ricordo della battaglia di Luino del5 agosto 1848 fu eretto un monumento, prima opera commemorativa italiana, al vivente generale Giuseppe Garibaldi, inaugurato il 28 ottobre 1867. La statua in pietra di Brenno fu opera dello scultore Alessandro Puttinati, mentre il medaglione bronzeo apposto sul piedistallo il 5 agosto 1885, di Enrico Bazzaro.10 P. Chiara, Il piatto piange, cit., p. 37.11 P. Chiara, Il piatto piange, cit., p. 15.

    Il mercato di Luino si era sempre tenuto di mercoledì �n dai tempi di Carlo Còdega. Così dicevano i vecchi, confondendo Carlo V imperatore di Spagna, che aveva concesso a Luino il privilegio di un mercato settimanale �n dal Millecinquecento e rotti, con un personaggio leggendario come Carlo Còdega, che forse per i lombardi del Cinquecento era proprio l’imperatore Carlo V. Al mercato di Luino convenivano, e convengono tutt’ora, imbroglioni, ciarlatani, mercanti d’ogni sorte. I venditori di pollame, formaggio, frutta e verdura, si sistemavano coi loro banchi sotto le piante di Piazza Mercato, mentre gli altri, che mettevano in mostra borse, scampoli, scarpe, chincaglierie, ombrelli, sementi, granaglia, attrezzi agricoli, e per�no un libraio col suo banco montato sopra un carretto, si spargevano per le strade e invadevano ogni slargo �no ad occupare tutto il paese. Qua e là dove restava un po’ di vuoto, sotto il municipio e davanti al monumento di Garibaldi o nella piazza dell’imbarcadero, trovavano posto giocolieri, acrobati, mangiafuoco o imbonitori6. Il maggior tormento per Pierino e per i suoi coetanei coi quali ogni mercoledì girava il mercato, erano, d’estate, le angurie. Ce n’era un gran banco, proprio al centro della piazza, sotto le piante, dal quale i bei poponi, tagliati in mezzo e messi in �la come tante lune rosse, splendevano su tutto il mercato. Dietro al banco del cocomeraio sorgeva una piramide di angurie, alta �n quasi ai rami foltissimi dei platani che stendevano uno spesso materasso di verzura sopra tutta la piazza. Dal sommo di quella piramide il venditore, salendo su un

    palchetto, prelevava le angurie man mano che la vendita procedeva, sempre gridando per richiamar gente e certe volte buttando in aria come un pallone l’anguria che aveva preso da tagliare7. Nella piazzetta c’è il monumento a Garibaldi che qualche anno fa hanno arretrato di alcuni metri per ampliare il posteggio delle automobili, in modo che ora il Condottiero, anziché indicare con la sciabola ai suoi uomini il lungo viale dove si ritirava il nemico, insegna l’entrata del cortile di un fotografo8. Un Garibaldi di pietra, ritto sul suo piedistallo in mezzo a un giardinetto erborato, coi pantaloni molli, la camicia rimborsata e l’aria un po’ intontita e sospettosa d’uno che esca, mal rassettato, dai cespugli dentro i quali ha lasciato un ignobile segno di sé. Proprio dove sorge il monumento, nell’agosto del 1848 Garibal-di aveva impegnato un combattimento contro gli austriaci, con alcuni morti e feriti per parte9.

    L’Albergo Ristorante VerbaniaIl Metropole dove giocavamo noi, allora chiamato Kursaal, non era che una dipendenza del Majestic: un bel padiglione liberty con terrazza sul lago e il giardino dai bassi cancelli che si aprivano in corrispon-denza con le porte del Majestic, al di là della strada10. Il Metropole, a chi fosse passato dopo mezzanotte, appariva quale un castello disabitato, con le tapparelle e le saracinesche abbassate, le porte e i cancelli chiusi. Nessuna luce trapelava all’esterno, anche perché lo spiraglio della nostra cantina era accecato con stracci e teli di sacco pressati nella feritoia sotto lo scalino della porta laterale11. C’era, intorno al bigliardo e ai tavolini di quel locale, la gente più avventurosa e

    Ca�è Ristorante Eden (Archivio Boldrini-Cattaneo)

    spendereccia del paese, fannulloni la gran parte, ma anche esercenti, impiegati, professionisti, piccoli industriali, possidenti, fra i quali spiccavano dei veri �libustieri, tornati all’ovile dopo aver fatto denaro o riportato condanne in varie parti del mondo. Al Metropole, più che a casa mia, contavo di vivere e di passare il mio tempo, giocando, chiacchierando, prendendo in giro quelli che sgobbavano negli u�ci o nei laboratori e aspettando che la fortuna venisse a cercarmi12.

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  • La Banca Popolare di Luino e di Varese

    Il Metropole dove giocavamo noi, allora chiamato Kursaal, non era che una dipendenza del Majestic: un bel padiglione liberty con terrazza sul lago e il giardino dai bassi cancelli che si aprivano in corrispon-denza con le porte del Majestic, al di là della strada10. Il Metropole, a chi fosse passato dopo mezzanotte, appariva quale un castello disabitato, con le tapparelle e le saracinesche abbassate, le porte e i cancelli chiusi. Nessuna luce trapelava all’esterno, anche perché lo spiraglio della nostra cantina era accecato con stracci e teli di sacco pressati nella feritoia sotto lo scalino della porta laterale11. C’era, intorno al bigliardo e ai tavolini di quel locale, la gente più avventurosa e

    Casa Zanella, veniva chiamato dai vecchi quel palazzotto del Sei o Settecento, con l’ingresso davanti al porto e al sommo di una doppia scalea di granito rosa. Una nobile dimora di signori milanesi, ereditata da una serva-aman-te dell’ultimo proprietario e �nita in locazione ai miei, al sarto Giuseppe Primi che vi aveva sistemato il suo laboratorio, all’oste delle “Due Scale” Virginio Ravasi e al salumiere Zaina16.Non sono sul balcone di casa mia, ma su quello di un vicino: il sarto Giuseppe Primi, nella cui casa sono ammesso non avendovi �no ad ora rubato mai nulla. Vado e vengo per la sua casa, attraverso il laboratorio, la cucina e la camera da letto per andare sul balcone che dà in piazza. È il mio regno, il posto dove giocherò �no all’estate senza i compagni dell’anno scorso che ora sono

    Fondata nell’anno 1885, la Banca erigeva poi il suo palazzo di �anco a quello che fu degli ultimi feudatari del luinese ed è ora la sede del Comune, apriva anche per il vecchio borgo di Luino l’epoca detta del progresso, che segnò il passaggio dalle paci�che conquiste dell’Otto-cento borghese alla cruda realtà del nostro secolo, bollato in fronte dalla prima grande guerra mondiale. Dove sorgeva un vecchio edi�cio scolastico, tra il giardino che �ancheg-giava il Palazzo Crivelli e l’aero pronao della chiesa di San Giuseppe, la Banca impostò la sua impettita sede, pari per solidità, solennità e imponenza, solo alla grande Stazione inaugurata tre anni prima a Luino come caposaldo della linea ferroviaria Genova-Got-tardo13.Sicuri della mia acquiescenza, e paghi intanto della mia indi�erenza, mio padre, mia madre e mio zio che vivevano insieme, decisero di farmi intraprendere gli studi commerciali per poi occuparmi nella Banca del paese. Era l’unica soluzione che avrebbe loro consentito di seguirmi nella vita e nella carriera, dal giorno in cui avrei preso posto a un tavolo di fondo nel salone della Banca, �no a quando sarei comparso allo sportello dei Conti Correnti, e poi, di sportello in sportello, dietro quello della Cassa che aveva per sfondo un forziere aperto ed era tutta una promessa di �ducia, di serietà e di sicurezza. In quella Banca, vicino ai loro risparmi, mi sentivano al sicuro, depositato e redditizio come un buono del Tesoro14.

    12 P. Chiara, Una spina nel cuore, cit., p.11. Il Kursaal fu costruito nel 1905 in stile liberty dall’ ing. Giuseppe Petrolo, come dipendenza del Grand Hotel Simplon et Terminus (ex Albergo Beccaccia), come palazzina per concerti, feste da ballo, conferenze, ca�è, ristorante. Fu poi Ristorante Birraria Corti, Ristorante Eden-Excelsior e, nel 1927, divenne Albergo Ristorante Verbania.13 P. Chiara, Luino un secolo 1885-1985, Banca Popolare di Luino e di Varese, Luino 1985, p. nn. [8].14 P. Chiara, Linea della vita, in Id., Dolore del tempo, cit., p. 13. Fondata nel 1885, la Banca Popolare di Luino e di Varese, per iniziativa popolare e secondo i canoni cooperativi, ebbe inizialmente sede in Casa Rossi per trasferirsi poi, nel 1911,in Palazzo Crivelli.

    tutti a scuola. Il Primi, o qualcuno dei suoi lavoranti, mi fermano quando passo e qualche volta mi fanno parlare per ridere un po’ alle mie ingenuità, mentre lavorano seduti sul tavolo. Ho cominciato quest’inverno a frequentare il laboratorio, per stare vicino alla stufetta ottagonale contro la quale si scaldano i ferri da stiro. Mi piace l’odore umido delle sto�e che fumano sotto il ferro, e nella cianfrusaglia delle pezze, dei bottoni e dei rocchetti vuoti, trovo sempre qualche cosa per i miei giochi17.

    spendereccia del paese, fannulloni la gran parte, ma anche esercenti, impiegati, professionisti, piccoli industriali, possidenti, fra i quali spiccavano dei veri �libustieri, tornati all’ovile dopo aver fatto denaro o riportato condanne in varie parti del mondo. Al Metropole, più che a casa mia, contavo di vivere e di passare il mio tempo, giocando, chiacchierando, prendendo in giro quelli che sgobbavano negli u�ci o nei laboratori e aspettando che la fortuna venisse a cercarmi12.

    Copertina di un quaderno a quadretti(Archivio Boldrini-Cattaneo)

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  • L’Albergo Vittoria (Archivio Boldrini-Cattaneo)

    Casa Zanella, Sartoria Primi(Archivio Boldrini-Cattaneo)

    Il Metropole dove giocavamo noi, allora chiamato Kursaal, non era che una dipendenza del Majestic: un bel padiglione liberty con terrazza sul lago e il giardino dai bassi cancelli che si aprivano in corrispon-denza con le porte del Majestic, al di là della strada10. Il Metropole, a chi fosse passato dopo mezzanotte, appariva quale un castello disabitato, con le tapparelle e le saracinesche abbassate, le porte e i cancelli chiusi. Nessuna luce trapelava all’esterno, anche perché lo spiraglio della nostra cantina era accecato con stracci e teli di sacco pressati nella feritoia sotto lo scalino della porta laterale11. C’era, intorno al bigliardo e ai tavolini di quel locale, la gente più avventurosa e

    L’Albergo Vittoria

    La Casa Zanella

    Il palazzo dei Bernabò, che in antico era stato forse il più importante del paese e la sede d’un podestà, o d’un signorotto, era diventato nell’Ottocento un albergo, �nché il padre Bernabò, divenuto ricco col commercio dei bovini tra l’Italia e la Svizzera, lo comperò per allogarvi i suoi tre �gli con tre botteghe: una di sto�e, l’altra di chincaglieria e la terza di ore�ceria. Ore�ceria di paese, cioè orologi, sveglie, anelli di poco prezzo, catenelle d’oro e anche occhiali, penne stilogra�che e sonagli d’argento per neonati. Fra il negozio di ore�ceria e quello delle sto�e si apriva l’androne con la volta a botte, lungo una decina di metri e largo tre o quattro, che metteva a un cortile in fondo al quale partiva la scala per i piani superiori, dove abitavano, oltre ai fratelli Bernabò e alle loro famiglie, la stiratrice Carlotta, il ciabattino Gambucci e le tre sorelle Barbitta, che occupavano metà del primo piano. Le sorelle Barbitta, Savina, Amalia e Del�na, già proprietarie di tutto il palazzo quando era albergo, andate in miseria dopo la guerra 1915-1918, avevano venduto per pochi soldi l’immobile al vecchio Bernabò, stabilendo nel contratto che avrebbero potuto abitare l’appartamento del primo piano per tutta la durata della loro vita, cioè �no alla morte dell’ultima delle tre15.

    Casa Zanella, veniva chiamato dai vecchi quel palazzotto del Sei o Settecento, con l’ingresso davanti al porto e al sommo di una doppia scalea di granito rosa. Una nobile dimora di signori milanesi, ereditata da una serva-aman-te dell’ultimo proprietario e �nita in locazione ai miei, al sarto Giuseppe Primi che vi aveva sistemato il suo laboratorio, all’oste delle “Due Scale” Virginio Ravasi e al salumiere Zaina16.Non sono sul balcone di casa mia, ma su quello di un vicino: il sarto Giuseppe Primi, nella cui casa sono ammesso non avendovi �no ad ora rubato mai nulla. Vado e vengo per la sua casa, attraverso il laboratorio, la cucina e la camera da letto per andare sul balcone che dà in piazza. È il mio regno, il posto dove giocherò �no all’estate senza i compagni dell’anno scorso che ora sono

    15 P. Chiara, Le Barbitta volano verso Bellinzona, in Id., Le avventure di Pierino al mercato di Luino, cit., p. 93. L’Albergo Vittoria, oggi conosciuto come Casa Mutti, fu aperto dai fratelli Giovanni e Antonio Barbitta nel 1858 in un caseggiato di loro proprietà che si a�acciava sulla piazza del mercato. L’attività alberghiera cessò nel 1907 quando le eredi di Antonio Barbitta -Maria, Emma, Ester, Ida ed Elvira- vendettero la proprietà a Domenico Primi. 16 P. Chiara, Di casa in casa, la vita, in «La Rotonda. Almanacco Luinese 1984», 6, 1983, p. 17. Casa Zanella fu proprietà della famiglia Zanella dal 1773 al 1923. Nel 1780 fu realizzata la facciata con la doppia scalinata e furono a�rescati alcuni ambienti interni, contemporaneamente all’accorpamento di alcuni edi�ci a�acciati su via Cavallotti. Nel 1923 l’intero immobile fu frazionato in quattro unità vendute rispettivamente dagli eredi Zanella ai signori Colla, Corti, Zaina e Lucchini.

    tutti a scuola. Il Primi, o qualcuno dei suoi lavoranti, mi fermano quando passo e qualche volta mi fanno parlare per ridere un po’ alle mie ingenuità, mentre lavorano seduti sul tavolo. Ho cominciato quest’inverno a frequentare il laboratorio, per stare vicino alla stufetta ottagonale contro la quale si scaldano i ferri da stiro. Mi piace l’odore umido delle sto�e che fumano sotto il ferro, e nella cianfrusaglia delle pezze, dei bottoni e dei rocchetti vuoti, trovo sempre qualche cosa per i miei giochi17.

    (Archivio Boldrini-Cattaneo)

    Casa Zanella, Sartoria Primi

    spendereccia del paese, fannulloni la gran parte, ma anche esercenti, impiegati, professionisti, piccoli industriali, possidenti, fra i quali spiccavano dei veri �libustieri, tornati all’ovile dopo aver fatto denaro o riportato condanne in varie parti del mondo. Al Metropole, più che a casa mia, contavo di vivere e di passare il mio tempo, giocando, chiacchierando, prendendo in giro quelli che sgobbavano negli u�ci o nei laboratori e aspettando che la fortuna venisse a cercarmi12.

    13

  • La via Felice Cavallotti

    VIA DEI MERCANTI

    Ora che inclina il febbraio,so che il sole discendeda sopra i solai di casa mia e rinnova l’annoin fondo alla tortuosa ruga, dentro i fondachi oscuri.

    Un velo d’erba tenerarispunta tra il selciatoappena il sole torna sulle soglie e innumeri �nestres’aprono all’aria acerba.

    Presto si staccherannole rondini stridentiancora dai bianchi nidinel fresco cortile dell’infanzia.

    Ai balconi ri�orirà tutta la viae il vento vi giungeràche qui mi s�ora di dolcezzarapita ai verdi viali d’occidente18.

    Casa Zanella, veniva chiamato dai vecchi quel palazzotto del Sei o Settecento, con l’ingresso davanti al porto e al sommo di una doppia scalea di granito rosa. Una nobile dimora di signori milanesi, ereditata da una serva-aman-te dell’ultimo proprietario e �nita in locazione ai miei, al sarto Giuseppe Primi che vi aveva sistemato il suo laboratorio, all’oste delle “Due Scale” Virginio Ravasi e al salumiere Zaina16.Non sono sul balcone di casa mia, ma su quello di un vicino: il sarto Giuseppe Primi, nella cui casa sono ammesso non avendovi �no ad ora rubato mai nulla. Vado e vengo per la sua casa, attraverso il laboratorio, la cucina e la camera da letto per andare sul balcone che dà in piazza. È il mio regno, il posto dove giocherò �no all’estate senza i compagni dell’anno scorso che ora sono

    18 P. Chiara, Via dei Mercanti, in Id., Incantavi, L’ora d’oro, Edizioni di Poschiavo, 1945, p.54. La poesia fu scritta da Chiara a Ginevra il 28 gennaio 1945. La via ebbe come denominazione originale Contrada dei Mercanti, per assumere poi in ordine, le denominazioni di: via Felice Cavallotti, via Michele Bianchi, e poi, di nuovo, via Felice Cavallotti.

    tutti a scuola. Il Primi, o qualcuno dei suoi lavoranti, mi fermano quando passo e qualche volta mi fanno parlare per ridere un po’ alle mie ingenuità, mentre lavorano seduti sul tavolo. Ho cominciato quest’inverno a frequentare il laboratorio, per stare vicino alla stufetta ottagonale contro la quale si scaldano i ferri da stiro. Mi piace l’odore umido delle sto�e che fumano sotto il ferro, e nella cianfrusaglia delle pezze, dei bottoni e dei rocchetti vuoti, trovo sempre qualche cosa per i miei giochi17.

    Piero Chiara in via F. Cavallotti(Archivio privato F. Roncoroni, Como, Fondo Chiara)

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  • Nel lontano 23 marzo del 1913 sono venuto al mondo, in via Felice Cavallotti, vedendo la luce da una �nestra dalla quale s’inquadra di sbieco, ma con un taglio di luce meraviglioso, il vecchio porto di Luino19. La stanza, guardandola dalla strada, non si capisce a quale casa appartenga. Con le sue due alte �nestre non in linea con le altre e un po’ adombrate dalla gronda del tetto, sembra un’aggiunta, un piccolo sopralzo posato sopra un’ala dell’antica casa Zanella. La camera si a�acciava, e si a�accia, alla via sottostante; ma da sopra i tetti che ha di fronte vede la chioma d’un antico parco oltre le case del borgo, poi i colli boscosi e i monti lontani, dove si appoggia la cupola del cielo. Dentro aveva, al tempo della nascita, un grande lettone, qualche sedia e un canterano. Ai piedi del letto, nella parete si apriva un camino. A quella camera si accede ora da altra scala, in seguito a divisioni e a permute che hanno sconvolto i vari corpi della casa Zanella, della quale è rimasta intatta solo l’ala verso la piazza, dove continua a prosperare, da almeno cent’anni, un ristorante20.

    La casa di Piero Chiara

    Volle sapere qualche cosa di più su Ca�è Clerici, che le parve un’istituzione degna d’interesse. Glielo descrissi, vicino al porto, sul quale si a�acciava da un portichetto, coi tavolini di ferro e i miei amici seduti intorno �n dalla mattina. Le barche che andavano e venivano, la gente che passava, il biliardo dentro al ca�è, in attività tutto il giorno, e il giardinetto inghiaiato sempre in ombra dietro, con le piante concimate coi fondi di ca�è nelle mezzi botti dipinte di verde21.

    Il Ca�è Clerici

    Casa Zanella, veniva chiamato dai vecchi quel palazzotto del Sei o Settecento, con l’ingresso davanti al porto e al sommo di una doppia scalea di granito rosa. Una nobile dimora di signori milanesi, ereditata da una serva-aman-te dell’ultimo proprietario e �nita in locazione ai miei, al sarto Giuseppe Primi che vi aveva sistemato il suo laboratorio, all’oste delle “Due Scale” Virginio Ravasi e al salumiere Zaina16.Non sono sul balcone di casa mia, ma su quello di un vicino: il sarto Giuseppe Primi, nella cui casa sono ammesso non avendovi �no ad ora rubato mai nulla. Vado e vengo per la sua casa, attraverso il laboratorio, la cucina e la camera da letto per andare sul balcone che dà in piazza. È il mio regno, il posto dove giocherò �no all’estate senza i compagni dell’anno scorso che ora sono

    19 Lettera di Piero Chiara a un Amico datata Varese, 30 giugno 1980, conservata nel Fondo Piero Chiara del Comune di Varese, faldone Corrispondenza 1980.20 P. Chiara, Un viaggio lungo settant’anni, in Id., Il Nobil Uomo Batosti e altri racconti, Oscar Mondadori, Milano 2013, pp. 165-166.21 P. Chiara, Il cappotto di astrakan, cit., p. 115. Il Ca�è Clerici fu aperto, a �ne Ottocento, al piano terra della palazzina con portico costruita nel 1886 ove un tempo esistevano casupole fatiscenti.

    tutti a scuola. Il Primi, o qualcuno dei suoi lavoranti, mi fermano quando passo e qualche volta mi fanno parlare per ridere un po’ alle mie ingenuità, mentre lavorano seduti sul tavolo. Ho cominciato quest’inverno a frequentare il laboratorio, per stare vicino alla stufetta ottagonale contro la quale si scaldano i ferri da stiro. Mi piace l’odore umido delle sto�e che fumano sotto il ferro, e nella cianfrusaglia delle pezze, dei bottoni e dei rocchetti vuoti, trovo sempre qualche cosa per i miei giochi17.

    Il porto vecchio e il Ca�è Clerici(Archivio Boldrini-Cattaneo)

    La casa natale di Piero Chiara in via Cavallotti(Archivio Boldrini-Cattaneo)

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  • I “Chiarissimi Pierini”, nel decennale della loro costituzione, in collaborazione con l’Associazione Commercianti di Luino - ConfCommercio e il settimanale «L’eco del varesotto» ricordano, il 31 dicembre 2016, Piero Chiara con una camminata a Luino, lungo l’itinerario proposto in questa pubblicazione.

    La tomba di Piero Chiara al cimitero di Luino(Foto C. Cattaneo)

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  • Notizie bio-bibliogra�che

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    Pierino Angelo Carmelo Chiara, di Eugenio e di Regina Virginia Ma�ei, nacque a Luino il23 marzo 1913. Nel paese natale trascorse l’infanzia e la giovinezza con spensieratezza e insaziabile curiosità di esperienze e conoscenze che saprà, poi, magistralmente riprodurre nelle sue narrazioni. Conseguita da privatista, nel 1929, la licenza complementare, partecipò ad un concorso statale per «aiutante volontario di cancelleria» che gli consentì di entrare a far parte, nella primavera del 1932 dell’Amministrazione Giudiziaria. Dopo una breve esperienza presso la Pretura di Luino, fu assegnato nell’ottobre 1932 alla Pretura di Pontebba per passare, il mese successivo ad Aidussina e, nel 1933, a Cividale del Friuli. Il 15 novembre 1934 ottenne il trasferimento alla Pretura di Varese. Negli anni a seguire seppe concilia re l’impegno lavorativo con un’intensa attività di lettura e di studio di opere letterarie italiane, francesi, spagnole, inglesi, russe e americane e con contributi a giornali locali. Nel 1936 contrasse il matrimonio con la zurighese Jula Scherb che lo rese padre di Marco nel 1937, iniziando così a frequentare la Svizzera presso cui si rifugerà nel gennaio del 1944 per sfuggire ad un mandato di cattura emesso dal Tribunale Speciale Fascista di Varese. Nel periodo dell’internamento instaurò stimolanti e costruttivi rapporti con il mondo letterario svizzero che gli permisero di esprimere al meglio le sue potenzialità di scrittura, soprattutto attraverso collaborazioni a giornali e riviste della Confederazione che manterrà nel tempo, e di esordire come poeta, nell’aprile del 1945, presso le Edizioni di Poschiavo, con la pubblicazione della raccolta di liriche Incantavi. A questa terra ospitale, che considerava una seconda patria, dedicò nel 1950 le prose di Itinerario svizzero. Rientrato in Italia nell’estate del 1945, fu reintegrato, poco tempo dopo, nell’ Amministra-zione Giudiziaria e di nuovo assegnato a Varese. Tra la �ne degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta intensi�cò l’attività giornalistica anche come corrispondente da luoghi che erano meta dei suoi viaggi culturali in Spagna, in Francia e, nel 1955, in Inghilterra con la nuova compagna Mimma Buzzetti che Chiara sposerà a Luino il 26 ottobre 1974. Sono anche gli anni in cui ha modo di manifestare il suo amore per l’arte, le sue competenze di critico e di collezionista, curando rassegne e mostre di pittura e scultura e di a�ermarsi come apprezzato conferenziere sia in Italia, sia all’estero. Il 18 dicembre 1957, raggiunta l’età minima pensionabile, lasciò il suo lavoro per «dedicarsi liberamente e compiutamente alla letteratura». Fu con le prose di memoria di Dolore del tempo, edite da Bino Rebellato nel 1959, che Chiara si fece conoscere dai lettori, riscuotendo poi il loro grande consenso nel 1962, con il romanzo Il piatto piange. Da allora la sua produzione letteraria non conobbe soste: non solo romanzi e raccolte di racconti ma anche biogra�e, saggi, traduzioni, introduzioni, scritture cinematogra�che, cura di libri d’arte, in un crescendo di successi e di riconoscimenti. La sua opera letteraria è stata raccolta da Mondadori in due volumi nella collanaI Meridiani (2006 e 2007).Piero Chiara si è spento a Varese il 31 dicembre 1986.

    Romanzi Il piatto piange (Mondadori, 1962), La spartizione (Mondadori, 1964), Il balordo (Mondadori, 1967), I giovedì della signora Giulia (Mondadori, 1970), Il pretore di Cuvio (Mondadori, 1973), La stanza del vescovo (Mondadori, 1976), Il cappotto di astrakan (Mondadori, 1978), Una spina nel cuore (Mondadori, 1979), Vedrò Singapore? (Mondadori, 1981), Saluti notturni dal Passo della Cisa (Mondadori, 1987).

    Racconti Con la faccia per terra (Vallecchi, 1965), L’uovo al cianuro e altre storie (Mondadori, 1969), Sotto la sua mano (Mondadori, 1974), Le corna del diavolo e altri racconti (Mondadori, 1977), Viva Migliavacca! e altri 12 racconti (Mondadori, 1982), 40 storie di Piero Chiara negli elzeviri del “Corriere” (Mondadori, 1983), Il capostazione di Casalino e altri racconti (Mondadori, 1986).

    Racconti per ragazziLa macchina volante (Lisciani e Zampetti, 1978,) Ora ti conto un fatto (Mondadori, 1980), Le avventure di Pierino al mercato di Luino (Mondadori, 1980), Il banco degli asini (SEI, 1983), Il“Decameron” raccontato in dieci novelle (Mondadori, 1984).

  • NEL RICORDO DI PIERO CHIARA

    A TRENT’ANNI DALLA SCOMPARSA

    L’ASSOCIAZIONE COMMERCIANTI

    DI LUINO – CONFCOMMERCIO

    E L’ECO DEL VARESOTTO

    PUBBLICANO IL 31 DICEMBRE 2016

    PER GENTILE CONCESSIONE

    DEGLI EREDI DELLO SCRITTORE

    BRANI TRATTI DALLE SUE OPERE

  • Progetto gra�co e impaginazione: Lago nel pagliaio Srl - Luino [email protected]

    Tirato in soli 150 esemplari fuori commercio

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