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44 - Avventure nel mondo 1 | 2020 INCREDIBILI MERAVIGLIE DEL CAMINO REAL Testo e foto della coordinatrice Valeria Zecchinato E allora -mi ha chiesto qualcuno- com’è questo Camino Real?” Mi prendo un attimo. Respiro. Ci penso, prima di rispondere. Perché Camino Real è un viaggio tosto, che mette alla prova il fisico e la volontà. Camino Real è soroche, mal di montagna, con la testa che ti scoppia e lo stomaco in subbuglio.. È freddo, quando nel Salar la temperatura scende a 20 gradi sotto lo zero e le stanze non sono riscaldate.. È sonno, quando la sveglia suona alle 2.30 del mattino perché devi correre a prendere quel pullmino prima che mille altre persone lo facciano al posto tuo.. Ed è indicibile stanchezza, perché tutte le cose più pazzesche stanno in alto, sopra i 3000, i 4000..e qualcuna anche oltre i 5000 metri sul livello del mare, là dove 10 passi valgono come 100.. Camino Real è tutto questo. “È il viaggio più bello che io abbia mai fatto”, rispondo alla fine con un sorriso. Perché nulla, nulla di quanto letto, visto, o sentito raccontare, mi aveva preparato alle incredibili meraviglie con cui mi sarei riempita gli occhi e il cuore. Non sono più una giovincella quando decido, con un’amica, di fare questo viaggio. Siamo ispirate, come Hiram Bingham, dalla ricerca del nostro El Dorado, la mitica, misteriosa, affascinante Machu Picchu, un sogno che entrambe inseguiamo da tempo. Decidiamo di provarci in una sera di pioggia, davanti ad una pizza ormai fredda.. dai che si va, ora o mai più. E ci iscriviamo al viaggio che parte il 3 agosto, senza nemmeno chiamare il coordinatore. Ci parliamo solo qualche giorno più tardi, e la chiacchierata è utilissima per capire come organizzarci per ridurre al minimo i disagi. La prima cosa a finire in valigia è il Diamox, farmaco fondamentale contro il mal d’altura. Poi pensiamo al freddo, e Decathlon diventa la nostra seconda casa.. una bella giacca antivento imbottita in pile, sacco a pelo adatto alle basse temperature, calze pesanti ed un buon paio di guanti. Ed infine ordiniamo su Amazon maglia e mutandoni in lana merinos e fasce scaldacorpo che ci salveranno dal congelamento in più di un’occasione… I berretti li acquistiamo in Perù. Sono bellissimi, colorati, caldi e costano poco. 3 Agosto: partiamo di pomeriggio. Abbiamo prenotato un parcheggio low cost vicino a Malpensa e ce la prendiamo comoda, concedendoci anche una sosta per il pranzo. A Milano siamo in 8, gli altri 9 li incontreremo a Madrid. Il gruppo mi piace. L’età spazia dai 25 agli over 50, ma non sembra un problema. Paiono tutti piuttosto cialtroni e ho l’impressione che ci divertiremo. La nostra coordinatrice è una macchina da guerra. Controlla, dirige, bacchetta chi sgarra e si rivelerà un vero mastino con i corrispondenti. PER U B OLIVIA Da un Camino Real Gruppo Zecchinato www.avventu.re/5760 RACCONTI DI VIAGGIO | Peru Bolivia

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INCREDIBILI MERAVIGLIE DEL CAMINO REAL

Testo e foto della coordinatrice Valeria Zecchinato

“E allora -mi ha chiesto qualcuno- com’è questo Camino Real?”Mi prendo un attimo. Respiro. Ci

penso, prima di rispondere.Perché Camino Real è un viaggio tosto, che mette alla prova il fisico e la volontà.Camino Real è soroche, mal di montagna, con la testa che ti scoppia e lo stomaco in subbuglio..È freddo, quando nel Salar la temperatura scende a 20 gradi sotto lo zero e le stanze non sono riscaldate..È sonno, quando la sveglia suona alle 2.30 del mattino perché devi correre a prendere quel pullmino prima che mille altre persone lo facciano al posto tuo..Ed è indicibile stanchezza, perché tutte le cose più pazzesche stanno in alto, sopra i 3000, i 4000..e qualcuna anche oltre i 5000 metri sul livello del mare, là dove 10 passi valgono come 100..Camino Real è tutto questo. “È il viaggio più bello che io abbia mai fatto”, rispondo alla fine con un sorriso.Perché nulla, nulla di quanto letto, visto, o sentito raccontare, mi aveva preparato alle incredibili meraviglie con cui mi sarei riempita gli occhi e il cuore.

Non sono più una giovincella quando decido, con un’amica, di fare questo viaggio.Siamo ispirate, come Hiram Bingham, dalla ricerca del nostro El Dorado, la mitica, misteriosa, affascinante Machu Picchu, un sogno che entrambe inseguiamo da tempo.

Decidiamo di provarci in una sera di pioggia, davanti ad una pizza ormai fredda.. dai che si va, ora o mai più. E ci iscriviamo al viaggio che parte il 3 agosto, senza nemmeno chiamare il coordinatore.Ci parliamo solo qualche giorno più tardi, e la chiacchierata è utilissima per capire come organizzarci per ridurre al minimo i disagi.La prima cosa a finire in valigia è il Diamox, farmaco fondamentale contro il mal d’altura. Poi pensiamo al freddo, e Decathlon diventa la nostra seconda casa.. una bella giacca antivento imbottita in pile, sacco a pelo adatto alle basse temperature, calze pesanti ed un buon paio di guanti.Ed infine ordiniamo su Amazon maglia e mutandoni in lana merinos e fasce scaldacorpo che ci salveranno dal congelamento in più di un’occasione…I berretti li acquistiamo in Perù. Sono bellissimi, colorati, caldi e costano poco.

3 Agosto: partiamo di pomeriggio. Abbiamo prenotato un parcheggio low cost vicino a Malpensa e ce la prendiamo comoda, concedendoci anche una sosta per il pranzo.A Milano siamo in 8, gli altri 9 li incontreremo a Madrid. Il gruppo mi piace. L’età spazia dai 25 agli over 50, ma non sembra un problema. Paiono tutti piuttosto cialtroni e ho l’impressione che ci divertiremo. La nostra coordinatrice è una macchina da guerra. Controlla, dirige, bacchetta chi sgarra e si rivelerà un vero mastino con i corrispondenti.

PERU BOLIVIADa un Camino Real Gruppo Zecchinato

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INCREDIBILI MERAVIGLIE DEL CAMINO REAL

Testo e foto della coordinatrice Valeria Zecchinato

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4 Agosto: i voli sono in orario e le 4 ore di scalo a Madrid passano veloci.Arriviamo a Lima alle 5 di mattina. Il nostro referente non ha sentito la sveglia e arriva un’ora dopo. Ridacchia. Si scusa. Ridiamo anche noi. Che l’avventura abbia inizio.È l’alba. Lima, la “città triste”, è avvolta da una cappa di foschia.Lasciamo i bagagli in una stanza dell’hotel Bombini. Ci servono una colazione veloce e confusa in una stanza che accoglie 50 persone dove ce ne starebbero a malapena la metà. Ma fa niente. Siamo stanchi ed affamati. E poi c’è il Wi-Fi..Non appena ci siamo rifocillati, cambiamo qualche dollaro ed usciamo alla scoperta della città. Pioviggina un po’, perciò facciamo i bravi turisti e ci infiliamo a visitare la Cattedrale. Qui si trova la tomba di Francisco Pizarro il cui corpo, per secoli sepolto nella cripta, ora riposa in una cappella all’ingresso della chiesa, decorata con magnifici mosaici dorati.Poco prima di mezzogiorno ci troviamo in Plaza de Armas, proprio quando inizia il cambio della guardia, e al termine dello spettacolo facciamo una breve puntata al Museo Antropologico in Plaza Bolivar.Al termine della visita abbiamo ancora qualche ora prima di lasciare la città, e ci dirigiamo verso il quartiere di Miraflores, moderno sobborgo modaiolo con vista sull’oceano. Pranziamo con un’eccellente empanada comprata al semaforo, che ci gustiamo passeggiando al Parque del Amor, sorvegliati dalla gigantesca statua de El Beso.Proseguiamo poi verso Barranco. Ci resta solo il tempo di addentrarci tra le viuzze decorate da splendidi murales, ed arriva l’ora di rientrare in hotel. La prima giornata ci è scivolata tra le mani ed è già ora di partire.Il pullmino ci attende, direzione Pisco.

5 Agosto: oggi partiamo presto e ci dirigiamo verso il molo di El Chaco, nella penisola di Paracas, da cui salperemo per le isole Ballestas.Qualcuno di noi ha letto storie raccapriccianti su questo posto… si vocifera che il guano scenda a fiumi, imbrattando i malcapitati visitatori. Ma noi, viaggiatori scaltri e preparati, abbiamo la geniale idea di portare dall’Italia il Sacco Nero dell’Immondizia e lo indossiamo prima di salpare, suscitando l’ilarità del Capitano e degli altri passeggeri.

Pisco in quechua significa uccello, e non c’è bisogno di chiedere perché gli abbiano attribuito questo nome… le isole a cui ci avviciniamo sono popolate da milioni di volatili di ogni genere.Cormorani bianchi e neri, sule peruviane che si tuffano tra i banchi di pesci, enormi pellicani che fanno la guardia sugli scogli, e poi sterne, qualche fenicottero e persino i pinguini. Avvistiamo pure un bel gruppo di leoni marini che pare si mettano in posa per farsi fotografare..Gli uccelli e le loro “produzioni” sono un’importante fonte di guadagno per le popolazioni locali, che ne ricavano un ottimo fertilizzante naturale. Ogni 3-4 anni, il guano viene raccolto con paletta e

secchiello da manodopera locale, che si trasferisce a vivere sulle isole fino al termine della raccolta, quando rimarrà un solo uomo, il guardiano, a sorvegliare questo improbabile tesoro.Un paio d’ore dopo rientriamo verso il porticciolo ed alla nostra destra e vediamo una piccola anticipazione di quello che ammireremo a Nazca domani. Là, a graffiare una collina rossastra, spicca sagoma di un enorme candelabro, i bracci rivolti verso il cielo come a dirci “Vola e guarda giù, che da lassù sono ancora più bello”.

A sud di Pisco la panamericana si inoltra verso il capoluogo Ica. Ci fermiamo nell’oasi di Huacachina, una laguna tra le palme incastonata tra enormi dune di sabbia.Ci sono 2 jeep ad attenderci. Il tempo di pagare l’ingresso, salire in auto ed allacciarci le cinture di sicurezza e ci troviamo già in cima alla prima duna. Veniamo sballottati come pupazzi. La macchina si inerpica sulla sabbia per poi lanciarsi a capofitto oltre la cima e scendere a tutta velocità, tra curve e testacoda. Ci divertiamo come bambini!!Ci fermiamo dove non si vedono altre auto, e mi siedo nel punto più alto. Non sono mai stata nel deserto e mi lascio catturare dalla bellezza che mi circonda tutto attorno. Mi sento in cima al mondo, assolutamente in pace.

Dopo circa 40 minuti, sconnessi ma felici, mangiamo un panino e ci dirigiamo verso Nazca.Dopo lo strapazzamento per acqua e per terra, il programma prevede anche uno stravolgimento aereo, cioè il sorvolo delle misteriose linee di Nazca. Purtroppo la mattina i voli sono iniziati in ritardo a causa della nebbia, e la nostra prenotazione slitta al giorno successivo.Facciamo quindi una visita fuori programma alla necropoli di Chauchilla dove, in un percorso di circa un paio di km e, ammiriamo tombe a cielo aperto contenenti mummie risalenti a 1000 anni fa. Avvolti in sudari riccamente decorati, i corpi sono sepolti in posizione fetale ed orientati verso est, a simboleggiare una rinascita dopo la morte.Al termine della visita ci godiamo il tramonto seduti su dei vecchi tronchi, gustandoci un aperitivo a base di Pisco e patatine.

6 Agosto: la mattina arriviamo in aeroporto prestissimo e verso le 10, quando la nebbia si dirada, possiamo decollare. So che non dovrei farlo, ma la tentazione è troppo forte, e così ci salgo su quel Cessna a 6 posti.. Io, che sto male anche sugli autoscontri, supplico il mio stomaco di comportarsi con decenza e mi appello con fervore a San Travelgum. Ma il piccolo aereo non guarda in faccia nessuno, e appena in quota parte con una serie infinita di profonde virate a destra, e poi subito a sinistra, e poi di nuovo a destra... I miei organi interni si scambiano allegramente di posto e purtroppo c’è un solo modo per rimetterli in ordine.Per fortuna, prima di rendere omaggio al sacchettino della Movilair con il mio personalissimo souvenir a base di torta al cioccolato, riesco a vedere la balena, il condor, il ragno, la scimmia e l’astronauta! E sono

davvero, davvero strepitosi!

Non appena tornano tutti con i piedi per terra, saliamo sul pullmino che ci attende per condurci ad Arequipa, la città bianca.Il tragitto è molto lungo, quasi 600 km lungo la Panamericana Sud. Qualcuno sonnecchia, altri giocano con il cellulare o guardano le foto. Il mio

stomaco è ancora sottosopra e non riesco a riposare. Ascolto un po’ di musica con le cuffiette e guardo fuori.Il paesaggio ci offre scarne montagne sabbiose, roccia friabile, sassi e polvere. Ogni tanto attraversiamo qualche piccola città. Le pareti degli edifici sono costellate di scritte dipinte a mano in colori vivaci. Siamo in campagna elettorale, e nomi di candidati e slogan campeggiano enormi ovunque. Dopo qualche ora di viaggio, inizia la salita in quota, tra montagne che restringono la carreggiata su entrambi i lati.Arriviamo ad Arequipa con il buio. Sono sveglia. La vedo comparire attraverso una vallata che si schiude piano piano. Mille luci punteggiano l’orizzonte. È uno spettacolo da togliere il fiato.

7 Agosto: la giornata è tutta dedicata alla visita della città.Una leggenda narra che, quando il quarto Inca, Mayta Capac, giunse in questa regione, i suoi soldati si innamorarono della terra fertile e del clima mite, e chiesero se potevano rimanere. E lui rispose in quechua “Ari, quepay”, “Si, rimanete”.Situata a 2400 metri sul livello del mare, in una valle delle Ande occidentali, Arequipa è circondata da vulcani maestosi.Poiché molti degli edifici storici sono costruiti con il sillar, una roccia vulcanica chiara che risplende al sole, Arequipa è chiamata la ciudad blanca.Passeggiamo per Plaza de Armas, bellissima piazza in stile coloniale, con un’enorme fontana centrale e giardini fioriti. Sul lato nord svetta la splendida

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Cattedrale e, sul lato opposto, la Chiesa gesuita della Compañia, piccolo gioiello in stile churrigueresco, il barocco sudamericano.Ci inoltriamo nelle stradine attorno alla piazza e all’interno dei negozi di souvenir. A metà mattina ci dirigiamo verso il Monastero di Santa Catalina, una sorta di città dentro la città. Costruita nel 1580 da Maria de Guzman, per secoli la struttura ha ospitato fino a 200 donne di varia estrazione sociale, in regime di clausura totale.Diviso in 3 settori, il primo destinato alle novizie, il secondo alle suore, ed il terzo alla madre superiora, il monastero è un luogo molto suggestivo. Cocci con cactus e piante grasse sono posizionati ad arte a fianco di massicci portoni in legno, illuminati la sera da lanterne in ferro battuto. I balconi sono decorati da vasi di gerani e tutto è pulito ed ordinato. Ci perdiamo lungo l’intrico di vicoli colorati con tinte forti. Arancione carico e azzurro intenso si mescolano attraverso gli archi, le porte, le scale, creando un gioco di colori che poco pare accordarsi con la severità del luogo.Tuttavia, nonostante la presenza di molti turisti, il monastero mantiene l’atmosfera austera e pacata che si addice ad un luogo religioso.Al termine della visita ognuno è libero di girare a piacimento la città. Ci diamo appuntamento all’ora di pranzo in un delizioso ristorantino, lo Zig Zag, e nell’attesa, decido di far visita a Juanita, la fanciulla dei ghiacci.L’ingresso al Museo Santuarios Andino, in Calle La Merced, è abbastanza costoso. Le poche stanze che lo costituiscono sono piuttosto scarne, e contengono abiti e manufatti ritrovati nel 1995 sulla cima del vulcano Ampato.Un breve documentario del National Geographic descrive il “Capac Cocha”, la cerimonia dell’acqua, celebrata sulla cima delle montagne con l’offerta di oggetti, ceramiche, birra, cibo e fanciulli. La cerimonia aveva inizio a Cuzco, dove una delegazione di sacerdoti aveva il compito di selezionare alcuni

bambini e di condurli, dopo mesi di cammino, sulla cima della Montagna Sacra. Lì, le piccole vittime ricevevano chicha (birra di mais) ed erbe allucinogene e, una volta addormentate, venivano sacrificate come offerta agli dei.È l’ultima delle 5 sale a valere da sola tutto il costo del biglietto, perché è lì che al buio, in una teca refrigerata, riposa il corpo congelato di Juanita. Pur uccisa da bimba, in modo brutale, la piccola Juanita trasmette un grande senso di pace e dignità, come se al momento della sua morte fosse consapevole di far parte di un disegno superiore. È talmente espressiva e ben conservata, che quando lascio la stanza mi sembra quasi di abbandonarla al buio, da sola. Esco portandomi addosso una sensazione di tristezza…

Dopo pranzo noleggiamo un taxi che ci porta nell’immediata periferia. In questa zona è nata una sorta di favela in cui molti abitanti di Arequipa vivono senza elettricità né acqua corrente, sommersi dalle immondizie raccolte in centro e scaricate lì a due passi, dove nessuno le vede.. Il soroche mi aggredisce qui, quasi all’improvviso.Ad un tratto la testa sembra voler esplodere e mi assale una nausea terribile. Il rientro in hotel è un’odissea, perché ci sono dei maledetti rallentatori ogni 10 metri, ed ogni volta che l’auto ci passa sopra il mio stomaco si ribella.. Dopo un tempo che mi sembra interminabile arrivo finalmente nella mia stanza.Un’anima pia mi porta un tè caldo. Lo bevo tutto d’un fiato e chiudo gli occhi.Mi sveglio nella stessa posizione 12 ore più tardi.Mi sento meglio, infilo le scarpe e scendo a fare colazione.

8 Agosto: anche questa mattina la sveglia suona molto presto.Lasciamo Arequipa per dirigerci verso Chivay. Lungo il tragitto ci fermiamo per una breve sosta

nella Riserva Nacional de Aguada Blanca, dove ci imbattiamo in un simpatico gruppo di lama e vigogne che brucano pigre al di là della strada. Per smaltire gli effetti deleteri del soroche oggi sono seduta in prima fila.Il nostro autista, un po’ burbero e di poche parole, ha un pupazzetto a forma di condor che ondeggia attaccato allo specchietto retrovisore. Sopra il cruscotto ha steso uno spesso tappetino di pelo verde. Ogni tanto ci infila sotto una mano ed estrae qualche foglia di coca che mastica senza interruzione. Così non sente la fame, né la stanchezza, mi spiega.Offre qualche foglia anche a me. La coca non mi piace per cui, gentilmente, rifiuto. Non mi parla più per tutto il viaggio.

Arriviamo al Colca verso le nove. Scopro con sorpresa che la profondità di questo canyon è di quasi 3200 metri, vale a dire il doppio di quella del Grand Canyon. Dal punto in cui ci fermiamo, la Cruz del Condor, riusciamo presto ad avvistare i primi bellissimi esemplari di condor delle Ande, con un’apertura alare che può superare i 3 metri.È incredibile vedere questi enormi uccelli librarsi tra le rocce, trasportati dalle correnti calde che salgono dal fondo del canyon.Restiamo incantati, a bocca aperta e con il naso all’insù, ad ammirare il loro volo, e riusciamo a scorgerne 4 contemporaneamente. Vederli volteggiare liberi, nel loro ambiente naturale, è uno spettacolo che non ha prezzo.

Verso l’ora di pranzo capitiamo nel piccolo villaggio di Yanque. C’è una bella chiesa del 1700 che si affaccia sulla piazza, ma non molto altro da vedere.Prendiamo al Cocafè, un giardinetto semi nascosto, in una strada laterale vicino alla piazza, che offre un menù ricchissimo e a buon mercato. È tutto ottimo, dal sandwich di pollo all’omelette, dalla ricca selezione di zuppe alla trota ai ferri.

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Ce la prendiamo comoda. Chiacchieriamo e ci scambiamo commenti sul cibo da un tavolo all’altro, e dopo circa un’ora, deliziati e soddisfatti, ci rimettiamo in marcia ed arriviamo a Chivay nel primo pomeriggio.La guida dice che Chivay è una cittadina anonima, ma noi abbiamo la fortuna di imbatterci nel mercato locale, e passiamo il pomeriggio tra bancarelle di frutta, semi, scarpe spaiate e vestiti di terza mano. Il mercato è frequentato quasi esclusivamente da gente del luogo e mi cattura con la sua semplicità. Due coloratissime signore stanno chiacchierando sotto un murales che raffigura due coloratissime signore che stanno chiacchierando.. Hanno un’età indefinibile dai 40 ai 75 anni.Chiedo loro se le posso fotografare. Si mettono in posa. Se ne aggiunge una terza. Sorridono. Sono bellissime.

Al rientro in hotel cerchiamo un ristorante per la sera.Ci affidiamo alle varie guide, che ci suggeriscono “La Casa Andina”, con cena a buffet ed intrattenimento musicale. Il cibo non è male, ma l’atmosfera è asettica e ce ne scappiamo via appena possibile.

9 Agosto: anche oggi si parte presto. Lungo il tragitto è d’obbligo una tappa al Mirador de Volcanes, sul passo Patapampa, il punto più alto della regione. Arrivarci è un po’ come ricevere una medaglia al valore da appuntare su Facebook, quindi scendiamo dal pullmino infagottati nei nostri giubbotti pesanti, con guanti, sciarpa ed il cappello ben calcato sulla testa.Il freddo è intenso, ed il vento infido che ci soffia intorno lo rende ancora più pungente. Ma la foto a fianco della lastra che riporta, ben in evidenza, che siamo a 4.910 metri, val bene un principio di congelamento!Chi è già stato immortalato dà uno sguardo veloce al panorama mozzafiato e poi corre a rifugiarsi nel caldo abbraccio del pullmino.Gli altri, in fila, saltellano sul posto per non perdere le dita dei piedi già ai primi giorni di viaggio.Quando dal naso colano ghiaccioli, decidiamo che può bastare e ci apprestiamo a visitare la prossima meraviglia.

Lungo il percorso facciamo una breve sosta per ammirare la suggestiva Laguna Lagunillas, un lago a 4400 metri di altitudine, circondato da montagne che si tuffano dentro la Laguna e popolato di fenicotteri.Come in tutti i Mirador, non manca la classica bancarella di prodotti artigianali. Solo che qui, tra berretti colorati e coperte in lana di alpaca, c’è anche un articolo speciale.Si tratta del piccolo Miguel, di nemmeno due anni, che seduto per terra sotto la bancarella della mamma, gioca con un cerchietto di plastica rossa trovato in mezzo alla polvere.Il moccio gli cola dal naso, ma non sembra essere un problema. Come non lo sono le manine sporche che mette in bocca, o la terra fredda su cui è seduto, o la mancanza di bambini con cui giocare.Eppure Miguel è felice. Da sotto il tavolo mi spia, si nasconde per metà dietro un lembo di coperta che sporge e scherza con me, mi fa le boccacce e mi

manda i baci.Poi esce, mi abbraccia una gamba e infine torna al suo pezzo di plastica.Prima di avviarmi verso il pullmino mi volto per un ultimo saluto. In bocca al lupo Miguel- penso – ti auguro di avere sempre un cerchietto rosso a renderti felice.Lui mi fa ciao con la manina. E’ ora di andare.

Sulla strada per Puno ci fermiamo a visitare Sillustani. Situato sulle rive del lago Umayo, conserva delle splendide tombe chiamate chullpas. Alte fino a 12 metri, sono torri funerarie costruite con enormi pietre tagliate a mano e perfettamente incastrate.È un luogo bellissimo, collocato in un contesto naturale quasi irreale. Il lago è popolato da varie specie di uccelli acquatici, e le grasse mucche che pascolano nei prati vicini, si specchiano nelle acque basse del lago dove si vanno ad abbeverare.Non ho voglia di camminare. Il soroche dei giorni scorsi mi ha lasciato un pesante strascico di stanchezza, e rinuncio a visitare tutto il sito.Mi siedo sulla collina che sovrasta il panorama e mi gusto il paesaggio fino a che non arriva l’ora di ripartire. Puno ci attende per cena, e non è educato farsi aspettare…

Puno sorge su una baia, nel lato più occidentale del lago Titicaca, ed offre scorci meravigliosi sull’immensa distesa d’acqua del lago navigabile più alto al mondo.Alloggiamo all’hotel Casona, dove ci consigliano di cenare dell’omonimo ristorante in Calle Lima. Il ristorante è carino, la scelta dei piatti è molto varia e ceniamo divinamente.

10 Agosto: oggi lasciamo i bagagli in una stanza. Portiamo con noi solo uno zaino con il minimo indispensabile per i due giorni che trascorreremo sulle isole del lago Titicaca. Al porto ci attende Juan Carlos, la nostra guida. Compriamo qualche pacco di pasta, sale e zucchero da portare alle famiglie che ci ospiteranno e ci imbarchiamo.La nostra barca ha degli standard di lusso e sicurezza ben lontani da quelli a cui siamo abituati.Gli unici due vetri che si possono aprire sono pieni di crepe e tenuti assieme da pezzi ormai secchi di nastro adesivo. Buona parte del rivestimento interno è staccato e la fodera dei sedili ha visto tempi migliori… Juan Carlos ha una cartina del lago plastificata e, per spiegarci dove andremo e cosa faremo, ci scrive sopra con un pennarello rosso che subito dopo cancella con un fazzoletto che continua a togliere e mettere in tasca. Per tre o quattro volte, durante la spiegazione, abbandona in fretta e furia la sua postazione e si precipita al comando, mentre il capitano si infila fuori dal finestrino e corre verso il fondo della barca a sbloccare il timone.Grazie al cielo, dopo una mezz’ora di capricci, la

barca riprende a fare il suo dovere. Navighiamo per circa tre ore baciati dal sole. Passiamo attraverso canali stretti immersi tra bassi canneti. Ci sono moltissimi uccelli di palude e, nei tratti di terra, qualche grasso maiale scuro legato con una corda.Il lago è azzurrissimo e cattura i raggi del sole creando uno spettacolare gioco di luci.Attracchiamo a Taquile verso mezzogiorno e facciamo una passeggiata fino alla sommità dell’isola. La salita è faticosa, non siamo ancora abituati ai 4000, ma dopo mezz’ora ci ritroviamo tutti nella piazza centrale.Juan Carlos ci porta in un piccolo ristorante vista lago, dove mangiamo all’aperto. La zuppa è ottima, ma la trota appena pescata cotta alla piastra è insuperabile. Durante il pranzo la guida ci illumina su usi e costumi locali.Tra le curiosità, spiccano le modalità del

fidanzamento. Qui le persone che scelgono di stare insieme possono rimanere fidanzate per due anni. Non un giorno di più. Allo scadere del termine ognuno dei due deve decidere se sposarsi o tornare sui suoi passi. Niente proroghe, nessun tentennamento. E se ci si sposa, quello sarà il compagno per la vita. Triangoli, tradimenti o famiglie allargate non sono contemplati a Taquile.Ci raccontano poi che gli isolani sono molto gelosi del loro territorio e non si vogliono mescolare con persone esterne. Di conseguenza molto spesso si sposano tra consanguinei, aumentando l’insorgenza di gravi malattie genetiche.Qui non portano la fede al dito, e le persone già impegnate sentimentalmente si riconoscono dell’abbigliamento. Gonne dai colori vivaci per le donzelle in cerca di marito e abbigliamento scuro per le donne sposate. I mariti invece indossano in vita fasce colorate che contengono nell’intreccio i capelli che la moglie ha conservato prima del matrimonio.È gente orgogliosa e fiera delle proprie tradizioni, e sono onorata di aver trascorso del tempo insieme a loro. Nel primo pomeriggio ci dirigiamo verso Amantaní, “capital mundial del turismo mistico”, dove trascorreremo la notte ospiti da una famiglia locale. Ma siamo in Perù, ed il riposo ce lo dobbiamo

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guadagnare… per cui, appena scesi sull’isola e posati i bagagli, ripartiamo subito per un’altra escursione verso il Santuario Pachamama, la Madre Terra. Sono circa 350 metri di dislivello, che però qui pesano tre volte tanto. Il fiato si fa sempre più corto, ma qualcuno mi svela un trucco.. strofino tra le mani un rametto di muña, una sorta di menta locale, e annuso, e poco dopo torno a respirare quasi normalmente. Arrivo in vetta giusto in tempo per godere di un tramonto spettacolare. Al calar del sole la temperatura scende rapidamente. Ci avviamo lungo il sentiero e dopo poco il buio si fa totale. Fa improvvisamente molto freddo, ma con l’incredibile spettacolo di stelle sopra le nostre teste quasi non ce ne accorgiamo. Non ne ho mai viste così tante in vita mia.Arriviamo a piccoli gruppi, in tempo per assistere al culmine di una festa che si svolge una volta l’anno. La gente del posto ha costruito enormi animali fatti di canne essiccate. Li trasportano attorno alla piazza ed infine li danno alle fiamme, illuminando l’area circostante con un enorme falò.Quando anche le ultime scintille si sono spente, incontriamo Vittoriano, il nostro padrone di casa, che è venuto a prenderci. È ora di andare, dice, è pronta la cena.Epifania, la moglie, ci aspetta in cucina. È una donna minuta e riservata. Lui chiacchera, ci racconta che è un contadino ma anche un pittore, e che la moglie è un’abile tessitrice. Lei annuisce, la testa bassa e un sorriso leggero.Ci ha preparato una zuppa di quinoa che ci riscalda le ossa e per secondo, certa di farci piacere, un piatto di spaghetti in bianco con sopra le patate fritte. Mangiamo e passiamo il tempo a raccontarci di noi, in un misto di quechua, gesti e spagnolo approssimativo. Trascorriamo una bellissima serata.Dopo un paio d’ore, stanchi per la giornata così ricca di fatica e di emozioni, ci riempiamo nuovamente gli occhi di stelle e prendiamo finalmente possesso della nostra cameretta senza bagno né riscaldamento.

11 Agosto: salutiamo Epifania e Vittoriano con un abbraccio. Risaliamo in barca e ci dirigiamo verso le Uros, un piccolo arcipelago di isole artificiali costruite con sottili canne intrecciate e ancorate al fondo del lago. Sono vere e proprie zattere, che si possono spostare all’occorrenza.Capanne, arredi, torri di guardia e giochi per bambini. Imbarcazioni coloratissime con teste di puma … qui tutto è costruito con la totora, un sottile giunco di palude che cresce sul lago Titicaca, e di cui gli abitanti si cibano succhiandone il tenero midollo.Attracchiamo su un’isoletta a caso, facciamo qualche acquisto di prodotti artigianali e visitiamo una capanna. È costituita da un unico stanzone in

cui vivono 6 persone.Ci sono un letto e qualche stuoia stesa a terra e coperta da tessuti colorati. Nient’altro.La cucina è all’esterno, in una sorta di area comune dove si prepara il cibo tutti assieme.Dove sia il bagno lo intuiamo da soli.. Un po’di tecnologia la troviamo anche qui, visto che ogni isola dispone di qualche pannello solare che accende poche lampadine. Ma l’elenco dei comfort finisce qui..Salutiamo la piccola comunità che ci ha ospitato, ci facciamo apporre il timbro dell’isola sul passaporto ci apprestiamo a rientrare a Puno.Mentre la nostra barca scivola lenta verso il porto, getto un ultimo sguardo a questo luogo incredibile. Contro il giallo della totora spiccano i colori vivaci

degli abiti degli isolani. Mi imprimo quest’immagine nella mente. Sarà un’altra cartolina da riporre nel cassetto dei ricordi speciali.

Al rientro in hotel il pullmino ci attende per portarci al confine con la Bolivia, ma ci sono scioperi e strade occupate e dobbiamo rivedere il programma per evitare di rimanere bloccati tra Puno e La Paz.Optiamo per un percorso alternativo, e la sorte ci premia perché il viaggio fila liscio ed arriviamo prima del previsto. Prima

della partenza avevamo, a malincuore, escluso il sito di Tiwanaku per problemi logistici, ma al nostro arrivo realizziamo che un’oretta di tempo ci avanza, e ci precipitiamo a fare i biglietti.Arrivando a ridosso dell’orario di chiusura non troviamo quasi nessuno, e ci gustiamo il sito senza troppi intrusi. Ci accompagna Teresa, che sarà la nostra guida anche domani a La Paz.Ci spiega che l’origine di Tiwanaku, detta anche La Città di Pietra, è incerta. Gli studiosi non sono ancora riusciti a stabilire il periodo in cui la città fu fondata, ma è certo che Tiwanaku fu il primo, vero Impero andino, paragonabile per estensione e potere a quello degli Inca, e la sua fine resta ancora un mistero.Del maestoso Kalasasaya, o Tempio dei Pilastri, oggi rimangono intatti pochi frammenti, tra cui uno dei più celebri monumenti in pietra della cultura precolombiana: la Puerta del Sol,decorata con volti umani e teste d’aquila.Sull’architrave spicca un piccolo corpo dalla grande testa che, sotto gli occhi, presenta dei fori nella pietra che sembrano lacrime. Viene chiamato “dios lloron”, il dio che piange, e proprio sotto di lui, da migliaia di anni, all’alba del primo giorno di primavera, penetrano i raggi del sole ad accompagnare l’inizio di una nuova stagione.Anche questo sito, come purtroppo accadde in tutto il Sudamerica, venne razziato dagli spagnoli che, quando giunsero nel Nuovo Mondo, distrussero migliaia di edifici per ricavarne materia prima per la costruzione di chiese e cattedrali cristiane.Alla furia della conquista sopravvisse il Templete, un tempio scavato sottoterra, sulle cui pareti sono

incastrate decine di volti in pietra tra cui, si dice, anche il viso di un extraterrestre, e 2 splendidi monoliti: El Fraile, decorato con i motivi del serpente, del puma e del condor, che simboleggiano rispettivamente l’inframondo, la terra ed il cielo, ed il cosiddetto Ponce, una figura umana ricoperta di incisioni e con un’elaborata corona sul capo, che sembra sorvegliare l’ingresso alla città.

12 Agosto: questa mattina troviamo Teresa ad attenderci. Nei 20 minuti che impieghiamo per avvicinarci al centro ci racconta un po’ La Paz.La città, fondata nel 1548, è una delle più alte al mondo. Sovrastata dal Monte Illampu e dall’Illimani, si affaccia sull’enorme vallata che la separa dalla Cordillera Oriental offrendo, dai vari mirador, un colpo d’occhio che lascia senza fiato.Dal punto più basso (3100 metri) a quello più alto della città (circa 4000), ci sono oltre 900 metri di dislivello, che dal 2014 si possono percorrere in pochi minuti, grazie all’intricata rete di linee del teleférico. Le cabine della funicolare sono spaziose, pulite e completamente trasparenti. Scendiamo alla stazione Buenos Aires.La salita è impressionante. Sotto di noi scivolano centinaia di tetti rossi. Le case sono accatastate l’una sull’altra, si incastrano confusamente senza quasi lasciare spazio alla strade. Intravedo solo una specie di “Spaccanapoli” che taglia, dritta come una lama, questa parte di città. È un’interminabile scalinata, accessibile solo a piedi, e penso che se avessimo tempo mi piacerebbe percorrerla tutta. Dalla cabina vediamo la gente che si muove, stende i panni, sfaccenda in cortile. Passiamo talmente vicini alle case, che riusciamo anche a spiare dentro qualche finestra aperta… eppure il teleférico non è “invadente” e non disturba il colpo d’occhio sulla città.Facciamo una breve sosta per ammirare il panorama dal punto più alto e riprendiamo poi la funicolare per scendere a Sopocachi. Qui Teresa ci accompagna al mirador Killi Killi, che si snoda attraverso un piccolo parco ben curato e circondato da un lungo parapetto, che ci consente di ammirare un panorama mozzafiato.Ci gustiamo una salteña a dir poco spaziale, e Teresa ci scatta una foto bellissima, seduti tutti di spalle sulla balconata del mirador, uniti da un lunghissimo abbraccio.Al termine della visita ci attende la Valle della Luna.

Situata a circa 10 km dal centro, non si tratta in realtà di una valle ma di un canyon eroso dall’acqua. La paziente cesellatura del tempo ha scavato l’argilla, creando centinaia di pinnacoli che cambiano continuamente forma. Nessuno sfugge a Teresa, che ci immortala in pose più o meno plastiche sul bordo di una profonda scarpata, e dopo venti minuti di shooting fotografico in cui tentiamo senza successo di scrivere Bolivia con i nostri corpi, salutiamo anche la Valle della Luna e ci dirigiamo verso il centro. Ci restano un paio d’ore di tempo e lo dedichiamo al Mercado de Hechiceria.

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Il Mercato delle Streghe, meta di ogni turista che si rispetti, si svolge tutti i giorni nei pressi di Calle Sagarnaga, a due passi dalla Chiesa di San Francesco.Ci addentriamo in un intricato dedalo di stradine costellate da minuscoli negozi che vendono ogni genere di talismano. Famoso in tutto il mondo, questo mercato è un calderone di tradizioni e credenze animiste. Teresa ci accompagna da una bruja, una strega buona, che ci spiega il significato dei vari amuleti. Il rospo porta ricchezza, il condor favorisce i viaggi. La statuina degli amanti aiuta a trovare l’anima gemella, e ci sono rimedi per qualsiasi disturbo, dall’impotenza sessuale ai calcoli renali.La statua della Pachamama poi, raccoglie in sé tutti i talismani, a dimostrazione dell’enorme rispetto che questi popoli portano alla Madre Terra e ai suoi doni preziosi.Sopra tutte le stranezze, spiccano i feti di lama essiccati. Piccoli e biancastri, si trovano appesi in bella vista dentro ogni negozio. Rappresentano uno degli amuleti più forti, e i boliviani sono soliti seppellirli nelle fondamenta delle case come offerta alla Pachamama, che darà loro in cambio salute e ricchezza.Sono inebriata da questo incredibile mix di colori, profumi, sensazioni, tradizione e sperpero allegramente gli ultimi bolivianos tra i negozi del Mercato delle Streghe, tornando in albergo carica di borsette piene di cianfrusaglie portafortuna.

Stasera abbiamo il bus notturno per Uyuni e raggiungiamo la stazione in taxi. Sfidare il traffico cittadino di La Paz è un’esperienza indimenticabile.Ci sono milioni di auto furgoni pullmini corriere carretti bici moto autobus risciò passeggini monopattini, TUTTI in strada nello stesso momento e nello stesso punto. Il tuo.Qui si paga la singola corsa e non il tempo che ci si impiega, e per fare in fretta i tassisti si lanciano in mezzo alle auto come se non ci fosse un domani.Nonostante qui tutti guidino come pazzi, tuttavia, non vediamo incidenti né auto danneggiate. È il regno del caos e del clacson, che tutti suonano per avvisare che stanno arrivando, come se in questo marasma la cosa facesse una qualche differenza..Dopo un tempo da formula uno arriviamo alla stazione degli autobus. Per i quattro giorni che trascorreremo ad Uyuni portiamo un bagaglio ridotto all’osso: sacco a pelo, gli scarponi che abbiamo ai piedi, un pigiama, due maglie, un pantalone che dopo 4 giorni camminerà da solo, e qualche mutanda. Scarichiamo i nostri zaini e ci accampiamo in sala d’attesa.Finalmente tocca a noi. Ci sistemano al secondo piano di un autobus con i sedili quasi completamente reclinabili e, tutto sommato, abbastanza comodi.L’arrivo a destinazione è previsto per le 6 del mattino.Verso le 3 e mezza non riesco più a dormire e frugo per mezz’ora nello zaino alla ricerca delle cuffiette. Appena riesco a recuperare, l’autobus frena e, con un piccolo sobbalzo, si ferma. SCHSSSSSS… si aprono le porte. Siamo arrivati.

La gente intorno a me si sveglia, assonnata e sorpresa. Guardo i miei compagni. Abbiamo tutti i capelli arruffati, e in faccia i segni di cuscini improvvisati. Scendiamo dall’autobus come degli zombie. Zaino in spalla e sguardo perso. Siamo a 3700 metri, sono le 4 del mattino, siamo in anticipo di 2 ore e fa un freddo cane.

13 Agosto: l’autista ci abbandona all’angolo tra due strade deserte. Uyuni sembra una città fantasma. Il vento soffia gelido e solleva da terra polvere e cartacce. Un semaforo arancione in fondo alla strada lampeggia, ondeggiando, appeso ad un cavo d’acciaio, e l’atmosfera è incredibilmente surreale.. Un cane randagio si avvicina, ci annusa e poi fa pipi su un cartellone esposto fuori da un locale. Questa è zona mia, ci dice. E io penso che gliela lascio volentieri...Il bar è l’unica cosa viva che riusciamo a scorgere intorno a noi. È un posto un po’ squallido, quasi di frontiera, ma c’è del the caldo, ottimi pancake con fragole e cioccolato e persino il Wi-Fi. Il nostro corrispondente ci raggiunge qui. Verso le 8 la carovana è al completo ed iniziamo la nostra avventura sul Salar de Uyuni.

Il Salar, che si trova nel dipartimento di Potosí, è la più grande distesa di sale al mondo. Si estende per circa 11.000 mq e contiene circa 10 miliardi di tonnellate di sale ed un terzo del litio del nostro pianeta.Il nostro giro inizia dal Cimitero dei Treni.

Alla fine dell’800, in quest’area, venne costruito uno snodo ferroviario per il trasporto dei minerali verso l’Oceano e, quando il sito venne dismesso, vagoni e locomotive furono abbandonati nel deserto, dove l’azione del tempo e del vento salato hanno corroso il metallo creando una distesa di carcasse.C’è un sole accecante ed il cielo è incredibilmente limpido.La ruggine arancione, il cielo azzurro intenso ed il bianco lucente del sale creano un set fotografico perfetto. Il fascino di questo luogo è innegabile, e nonostante il freddo pungente, ci addentriamo tra i vagoni abbandonati e ci sembra di essere scaraventati indietro nel tempo.Davanti a noi, una vecchia rotaia fugge verso un orizzonte infinito, e ripartiamo seguendo anche noi la stessa direzione.

Lungo il percorso ci fermiamo per una sosta a San Cristobal. È la classica cittadina di minatori, con un unico luogo di interesse: una chiesetta in pietra costruita dai Gesuiti vicino ad una miniera di argento e poi spostata, pietra su pietra, nell’attuale posizione. L’edificio ha un’architettura particolare, con un ingresso principale affiancato da archetti e due torri campanarie laterali che mi ricordano delle pagode orientali.La chiesa purtroppo viene aperta al pubblico solo in occasioni ufficiali, e non ci è quindi possibile visitarla.

La tappa successiva è la Valle de Rocas, un’ampia vallata costellata di formazioni rossastre di origine vulcanica. L’erosione del vento ha modellato le rocce

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nelle forme più svariate, e vediamo un cammello accovacciato, la coppa del mondo, un condor senza testa ed anche un bel dito medio che non lascia spazio a libere interpretazioni.Il nostro driver si chiama Jesus. È poco più che un ragazzino, ma guida bene ed è simpatico e chiacchierone. Lo chiamiamo Ciop, perché mastica continuamente una gran quantità di foglie di coca che poi appallottola e tiene incastrate sotto la guancia. Ci porta a visitare un piccolo sito che chiamano Italia Perdida. “In questa zona qualche anno fa si sono persi due italiani” ci spiega. “Purtroppo uno di loro non ha ritrovato la strada del ritorno ed è morto qui.”La storia mi colpisce, e visto che il mio senso dell’orientamento è inesistente, passeggio per la vallata senza mai perdere d’occhio Jesus e i miei compagni di cordata. Arriviamo al nostro alloggio con il buio. Il cielo ci regala lo spettacolo di una via lattea splendente. Prepariamo i sacchi a pelo per la notte e raggiungiamo il gruppo nella sala comune.Quando arrivo sono tutti raggruppati, stretti stretti intorno ad una stufa in cui ardono gli ultimi rametti trovati nella scatola della legna. Siamo ben imbottiti in pesanti pile, con i calzettoni di lana sopra i pantaloni e la sciarpa al collo. In mano una bella tazza di the fumante che scalda il fisico e ristora la mente.Diamo una mano ad Ada, la cocinera che viaggerà con noi in questi 4 giorni, a sistemare la tavola e portare stoviglie e cibo dalla cucina.La zuppa bollente che ci ha preparato è tutto ciò che potevo desiderare in una serata gelida come questa.Mangiamo, ridiamo, ci prendiamo in giro e ci passiamo il pane. Guardo i miei compagni. Qualcuno porta un dolcevita infilato dentro pantaloni ascellari. Gli uomini hanno la barba lunga e le donne sono senza trucco. Siamo stanchi e disordinati, ma anche felici e bellissimi così.

14 Agosto: carichiamo le jeep e partiamo per la nostra seconda giornata sul Salar. Lungo il tragitto, le poche tracce della presenza dell’uomo sono le strade (e chiamarle così, in qualche caso, è un eufemismo..) ed un piccolo edificio vicino a due vasche di acqua termale.Qui è la natura a regnare incontrastata, in tutte le sue forme.Anche oggi siamo graziati da una giornata di sole. Attraversiamo lande deserte, popolate da lama, vigogne ed alpaca. Qualche esemplare porta fili di lana colorata legati alle orecchie, segno che si tratta di un animale domestico. Corriamo a fianco di una splendida catena montuosa. Non ci sono alberi su queste montagne. Le cime sono levigate e coloratissime. Lungo il percorso, le meraviglie che la natura ci offre

sono così tante da perdere il conto.La Laguna Hedionda, piccola gemma a 4100 metri sul livello del mare; il Salar de Chalviri; le acque termali in mezzo al nulla, in cui 4 pazzi faranno il bagno nel pomeriggio. E poi il Deserto del Dalí, che ti porta dritto dentro un dipinto surrealista; la Laguna Verde, una lastra di giada in cui si specchia il vulcano Licancabur; e la Laguna Blanca, proprio lì a due passi, che a causa dei sali in sospensione sembra un enorme lago di latte. Ed infine i geyser, colonne di vapore sparato fuori dal ventre della terra, puzza di zolfo infernale ed i miei primi 5000.

A metà pomeriggio lasciamo lasciamo i bagagli e, finché Ada si occupa della cena, i driver ci accompagnano alla Laguna Colorada.La laguna, color rosso sangue, è fiancheggiata da un sentiero che porta ad un mirador da cui assistiamo ad un tramonto favoloso. Alla nostra destra, la riva del lago è un tripudio di rosa. Ci sono centinaia di

fenicotteri appollaiati sui lunghi trampoli, il collo sinuoso che si infila nell’acqua bassa alla ricerca di alghe e minuscoli crostacei.Qualcuno prende il volo e si sposta un po’ più in là, spiegando ali enormi che sotto sono nere come la notte. Atterrano lenti, abbassando le zampe fino a sfiorare la superficie e creando piccole increspature, come farebbe un sasso piatto lanciato di taglio sull’acqua.Il cielo sembra la tavolozza di un pittore. Un lama è seduto vicinissimo alla riva. Lo fotografo di spalle, mentre il suo sguardo è rivolto verso un vulcano che si staglia all’orizzonte, tra lunghe pennellate di giallo rosa ed azzurro. Alla nostra sinistra c’è una piccola collina dove altri esemplari se ne stanno accovacciati a godersi il tramonto, in attesa che cali il buio.Ringrazio in cuor mio la Pachamama per le emozioni che ci sta regalando in questo viaggio.Mi siedo accanto ad una coppia di lama e aspetto con loro che scenda la sera.

15 Agosto: questa mattina gli autisti ci portano verso un altro punto della laguna, chiamata Aguas Calientes.Ci sono posti in cui la natura da il meglio di sé. Lo spettacolo che ci riserva qui ci lascia senza parole. Da una piccola sorgente sotterranea un rivolo fumante si butta nel lago. A pochi passi dalla riva alcuni lama brucano tranquilli, riflessi nell’acqua bassa di un incredibile colore blu cobalto. Uno stormo di uccelli bianchi e grigi punteggia la superficie del lago, ed il loro pigolio è l’unico suono che sentiamo. Nessuno di noi emette un fiato. Siamo rapiti da quest’oasi di pace che sembra un paradiso terrestre. Mi siedo a terra. Non parlo, non scatto foto. Mi riempio gli occhi e basta.

Il nostro terzo giorno sul Salar prevede il riavvicinamento ad Uyuni per una strada diversa da quella dell’andata.Strada è un termine inappropriato in realtà, perché quelli che percorriamo sono enormi spazi su terra, sassi, sabbia e fanghiglia di neve sciolta. Per pranzo ci fermiamo in una specie di rifugio lungo la strada ma lo troviamo chiuso. Oggi è ferragosto e anche qui è festa. La nostra cocinera ed i driver non si perdono d’animo. Abbassano i pianali delle jeep, ci stendono sopra qualche coperta colorata et voilà.. la tavola è apparecchiata. Ada si inventa dei piatti freddi con quello che ha a disposizione ed eccoci a consumare uno dei pranzi più originali che io ricordi. C’è una bellissima laguna alle nostre spalle. Ci sediamo sulle rocce a piccoli gruppi, con i piatti appoggiati sulle ginocchia, e contempliamo lo splendido scenario che abbiamo di fronte.

Riprendiamo il nostro viaggio immersi nella natura ed arriviamo nel Salar a metà pomeriggio. Questa notte dormiremo in un hotel di sale. Una doccia c’è, ma non esce acqua. Condividiamo un solo bagno in 17. Fuori ci sono 13 gradi sottozero e non c’è riscaldamento. Ma ormai questi sono dettagli a cui non badiamo più …Prendiamo possesso delle nostre stanze e lasciamo i bagagli. Ci imbottiamo per bene ed usciamo. Stasera si va a vedere il tramonto. Fin qui è stato tutto bellissimo, ma la ciliegina deve ancora arrivare..

L’enorme distesa del Salar dista pochi chilometri dal

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nostro alloggio. Ci arriviamo poco prima del tramonto e cerchiamo un luogo da cui potercelo godere in tranquillità. Quello che succede al calar del sole è uno spettacolo difficile da descrivere.Il riverbero della luce sui cristalli di sale accende l’orizzonte. Fasce rosse e gialle riempiono un cielo che sembra improvvisamente andare a fuoco. Qui i fotografi si scatenano e, fino a che un filo di luce ancora rimane, catturano immagini quasi irreali.Poi il sole scompare, ed il buio diventa totale. Sotto i nostri piedi ci sono pozze d’acqua profonde pochi centimetri che sembrano enormi specchi posati sul terreno, in cui tutto si riflette con una precisione assoluta.E a quel punto vedo stelle dappertutto, sopra, intorno ed anche sotto di noi, dove la volta celeste si specchia ed un altro cielo punteggia di piccoli diamanti il sottile strato d’acqua su cui poggiano i nostri piedi.Rimaniamo li, increduli, immersi in questo spettacolo pazzesco fino a che il freddo non ci costringe a cercare un riparo.Prima di lasciare questo luogo incredibile, qualcuno accende il telefono e fa partire una canzone.Ci avviciniamo e ci abbracciamo a piccoli gruppi. 17 voci cantano piano il ritornello di “Heal the World”. Mi viene la pelle d’oca, ma questa volta il freddo non c’entra.

16 Agosto: Il mattino seguente, alle 4, siamo già pronti per partire. Non possiamo andarcene senza prima aver visto un’alba sul Salar ed i nostri driver guidano per circa un’ora, al buio e in mezzo al niente, alla ricerca di un buon punto di osservazione.Dopo circa 50 km di sale infinito, ci fermiamo e scendiamo dalle jeep.Ieri sera, al tramonto, il cielo era in fiamme. Ora il sorgere del sole illumina il paesaggio di tinte pastello. Giallo tenue, azzurro pallido, rosa chiaro sono tutto intorno a noi, a colorare un orizzonte che si estende piatto quasi a 360 gradi.Resistiamo fino a che il freddo non ci costringe a rientrare in auto, dove Jesus accende il riscaldamento al massimo e ci spara, per la ventesima volta, Despacito a tutto volume.

Il sole è ormai alto quando raggiungiamo Incahuasi.

L’Isola è una bassa collina nel mare bianco del Salar, ricoperta di enormi cactus millenari che superano anche i 10 metri d’altezza.Il biglietto d’ingresso ci permette di salire fino alla cima, e da lì possiamo ammirare il deserto immacolato che si stende tutto intorno.Poco prima di rimetterci in marcia verso Uyuni, arriva il tanto atteso momento “foto della minkia” a cui nessun turista si può sottrarre. Qui, dove non ci sono punti di riferimento, la prospettiva è ingannevole ed i nostri driver si scatenano. Alla fine dello shooting fotografico, ci ritroviamo immortalati dentro un cestino del pane, sul palmo della mano di Cecilia che ci soffia via, sotto la scarpa di Luisa che invece ci vuole schiacciare, piccoli piccoli a spingere una jeep enorme o tutti in fila sopra una bottiglia d’acqua.Il sole splende, la temperatura è gradevole, e un po’ di sano cazzeggio è proprio quello che ci vuole per chiudere in bellezza questo incredibile viaggio nell’oceano di sale più grande del mondo.Il pomeriggio è ormai tardo quando raggiungiamo Uyuni. Stasera si riparte. Si torna alla realtà.

17 Agosto: da La Paz oggi prendiamo l’autobus che ci porterà a Cuzco.Sappiamo che non è possibile portare alcun seme o frutto dalla Bolivia al Perù, e superiamo il confine senza intoppi. Ad attenderci in hotel c’è un professore di archeologia che ci farà da guida. Acquistiamo un boleto turistico che dà accesso a diversi luoghi di interesse culturale, ed iniziamo il nostro tour da Saqsaywaman.Il sito, risalente al XV secolo, è immenso. Anche qui, purtroppo, i conquistadores spagnoli lasciarono il segno, razziando gli edifici Inca, ma non riuscirono a rimuovere gli enormi blocchi di pietra che costituivano i bastioni della cinta muraria, ancora visibili agli angoli delle mura costruite a zig zag. Come gli uomini del tempo, che non utilizzavano

carrucole né ferro né ruote, siano riusciti a trasportare, scolpire ed incastrare massi che pesano anche 200 tonnellate, rimane tuttora un mistero e ancora oggi, dopo 600 anni, le mura di questa città-fortezza ci fanno intuire quale dovesse essere la potenza dell’impero.

Nel corso della mattinata, visitiamo altri 3 siti minori.Il primo è Q’enqo, un budello scavato nella roccia, che ci conduce ad una grotta sotterranea con un enorme altare in pietra destinato a sacrifici e mummificazioni.Poi Pukapukara, “la fortezza rossa”, costruita per scopi militari sotto il regno di Pachacutec. Il sito non mi colpisce

particolarmente, ma offre una vista magnifica sulla vallata che circonda Cuzco, ed il colpo d’occhio sulla città è uno spettacolo da non perdere.E per finire, una breve sosta a Tambomachay, che i locali chiamano “el baño del Inca”. L’uso di materiali pregiati lascia pensare che in origine si trattasse di un luogo di di ritiro spirituale per la famiglia reale.La struttura, sviluppata su 3 livelli, raccoglie l’acqua da una sorgente sconosciuta e la fa riemergere in superficie sempre pulita e ad una temperatura costante. Anche nei periodi più secchi, la fonte non smette mai di rifornire d’acqua il Bagno del Re, ed il mistero della sua origine resta uno dei tanti segreti non ancora svelati.

Nel pomeriggio rientriamo in città. Ci rilassiamo passeggiando tra le stradine di San Blas e visitiamo l’imponente cattedrale rinascimentale di Plaza de Armas. È una bella giornata di sole, e la piazza è viva, allegra e piena di colore.La sera prenotiamo in un localino in centro. Qui si mangia bene ovunque e non abbiamo che l’imbarazzo della scelta.

18 Agosto: sulla strada per Macchu Picchu, sono previste alcune soste lungo el Valle Sagrado, che affianca il fiume Urubamba da Pisac fino ad Ollantaytambo.Iniziamo il nostro percorso proprio da Pisac. A 300 metri di altezza, piccoli gruppi di edifici in pietra sono abbarbicati sul fianco della collina, perfettamente conservati, e dalla cima del sito si gode di una bellissima vista sulla vallata sottostante, abbracciata tutto intorno dalla cordigliera andina. Al termine dell’escursione scendiamo verso il centro del villaggio. Pisac è famosa anche per l’immenso mercato di prodotti artigianali che si dirama lungo strette stradine affollate, arrivando fino alla piazza centrale, dove la funzione domenicale delle 10 viene celebrata in quechua, ed è seguita da una processione di capi villaggio in abiti tradizionali.

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Il mercato è molto turistico e un po’ deludente e cerchiamo di arrivare alla Chiesa. Purtroppo, dato il poco tempo a disposizione, non riusciamo ad assistere alla messa, né alla processione.Prendiamo la strada del ritorno perdendoci in un dedalo di viuzze dai mille colori, ed entriamo in un cortile attirati da un invitante profumino di carne arrosto.Alcune donne portano cappelli di feltro dalla foggia maschile. Altre invece indossano grandi copricapi bianchi e gialli, di forma tonda e piatta, che mi ricordano enormi tappi di bottiglia rovesciati.Ci sono dei tavoli sotto una pergola e, appesi al soffitto, decine di acchiappasogni colorati. Sulla sinistra, alcune gabbiette di bambù dove un gruppo di porcellini d’India belli grassocci mangia paglia come se non ci fosse un domani.Trovo tutto molto suggestivo.. almeno finché il cuoco non estrae il suo carico di carne arrosto dal forno. A quel punto realizzo che quei cosi informi infilzati nello spiedo somigliano tanto, troppo, ai porcellini d’India che vedo nelle gabbiette, e capisco con sgomento che mi trovo di fronte al cuy, famigerato piatto tipico peruviano che, grazie al cielo, nessuno di noi avrà il coraggio di assaggiare per tutto il viaggio.

Al termine della visita a Pisac, ci dirigiamo verso Ollantaytambo, sede della più importante battaglia vinta dagli Inca contro gli spagnoli.Sulla cima troneggia una porta imponente fiancheggiata da un muro con svariate nicchie, e sopra il muro sono ancora presenti 6 enormi monoliti di roccia estratti da una cava sull’altra sponda del Rio Urubamba, e trasportati, con l’aiuto di rulli e slitte, attraverso il fiume e poi lungo una rampa ancora oggi visibile.La moderna Ollantaytambo si srotola ai nostri piedi.Siamo appena al primo pomeriggio, ma non possiamo purtroppo trattenerci oltre.Alla stazione c’è un treno ad attenderci. Destinazione Aguas Calientes, l’ultima frontiera prima di arrivare a Macchu Picchu.

La stazione di Ollantaytambo è piccola e un po’ retrò. Ci sono solo 2 binari, percorsi da locomotive blu a fasce gialle. C’è anche un treno extra lusso, intitolato ad Hiram Bingham, che per la modica cifra di 600 euro offre il biglietto di andata e ritorno, ingresso e visita guidata al sito, e naturalmente thè e cocktail durante il viaggio.Noi ci accontentiamo di una soluzione più modesta, ma il tragitto fino ad Aguas Calientes è ugualmente mozzafiato.Il nostro vagone mi ricorda un po’ un treno anni ‘50, con morbidi sedili in pelle color nocciola ed enormi finestre.Mi è stato assegnato il posto vicino al finestrino, e trascorro un’ora e mezza con il naso incollato al vetro. Sotto di noi urla impetuoso il Rio Urubamba.Ci scorrono davanti alberi fioriti, montagne, cascate, ma il fiume che ci serpeggia accanto ha un fascino

quasi magnetico. Attraversiamo punti talmente stretti che le rotaie arrivano a pochi centimetri dal vuoto, e più di una volta penso che se il terreno dovesse cedere, anche solo un po’, il nostro viaggio finirebbe qui… Un’inserviente ci porta biscottini e frutta secca, e ci serve il thè in raffinati bicchieri di carta che ci informano che stiamo vivendo “a mystic esperience”. E io non posso che essere d’accordo.

Arriviamo ad Aguas Calientes nel tardo pomeriggio. È già buio ma le strade della cittadina brulicano di gente. Ci accontentiamo di una cena frugale e veloce, per poter rientrare il prima possibile. Domattina la sveglia suonerà prestissimo, all’ora in cui, in genere, sono solita rientrare a casa il sabato sera…

Sono esattamente le due e mezza del mattino quando “Perfect” di Ed Sheeran mi sveglia nel mezzo di una fase REM da manuale. La sera prima sono stata previdente ed ho preparato tutto accanto al letto. Brancolo fino alla reception, dove ci

attende un cestino della colazione. Lo cacciamo nello zaino e usciamo. Gli autobus per Macchu Picchu partiranno dalle 5 della mattina e vogliamo essere tra i primi a salirci.Arriviamo alla fermata verso le 3. Dopo circa un’ora, la fila di gente in attesa è impressionante e si snoda per centinaia di metri lungo il centro del paese. Quando il primo autobus parte, sono assonnata ed infreddolita ma l’emozione è tanta, e tutto il resto passa in secondo piano.

Arriviamo all’ingresso poco prima dell’apertura dei cancelli. Il cielo è livido e pioviggina un po’. Imbacuccata nella mia bella giacca a vento, guardo con ammirazione il gruppetto di temerari arrivati fin qui percorrendo l’impervia salita dell’Inca Trail. Sono stravolti, paonazzi, e talmente sudati da rimanere in maniche corte nell’alba fredda di Macchu Picchu.E poi, finalmente, arriva l’ora di varcare la soglia e mi sento come una bambina al suo primo giorno di scuola.

Cerco di immaginare cosa deve aver provato Hiram Bingham quel giorno del 1911, quando giunse qui, quasi per sbaglio, guidato dai campesiños della Valle dell’Urubamba.Mentre era alla ricerca di Vilcabamba, ultimo rifugio di Manco Inca dopo la battaglia di Ollantaytambo, Bingham aveva sentito strani racconti su una “vecchia montagna”, e si fece condurre in questo luogo, mai individuato dagli spagnoli, dove vivevano poche famiglie di contadini. Era diventata la loro città, ma Bingham capì di essersi imbattuto in una grande scoperta e ritornò l’anno successivo per portare avanti le sue ricerche.

Vennero appiccati incendi per disboscare l’area e riportare alla luce “un grande volo di terrazze in pietra splendidamente costruite”, come egli stesso le definì. E dopo anni di pulizie e restauri, il mondo ricevette in dono Macchu Picchu, la più incredibile delle città perdute.

Siamo tra i primi visitatori e, prima di iniziare la nostra esplorazione, ne approfittiamo per fare una foto al sito in tutta la sua magnificenza. C’è ancora foschia, ma il cielo sembra premiare il nostro sacrificio mattutino e per qualche minuto si apre, regalandoci un meraviglioso picco senza nuvole.Ci addentriamo poi, in una salita infinita, tra le varie terrazze, ed abbiamo un primo colpo d’occhio sulla piazza principale, le carceri, l’area agricola e quella residenziale.A nord-est, svetta il picco dello Huayna Picchu, che non riusciamo purtroppo a visitare perché i biglietti per accedervi sono terminati già mesi e mesi fa..Saliamo una lunga scalinata che si inerpica a zig zag fino alla Capanna del Custode e ci soffermiamo qualche istante ad assaporare il panorama che si stende davanti ai nostri occhi.Attraversiamo un’enorme porta che ci conduce verso il centro del sito, e dall’alto possiamo ammirare il Tempio del Sole, un edificio a pianta circolare con un altare al centro su cui, attraverso una finestra, si proiettano i primi raggi del sole il giorno del solstizio d’inverno.Sotto il Tempio del Sole, alcuni gradini ci conducono ad una grotta, che probabilmente ospitava la Tomba Reale.Ci perdiamo tra strade di pietra perfettamente conservate e raggiungiamo infine la Piazza Sacra, soffermandoci prima a guardarla dal Tempio delle Tre Finestre. Accanto alla piazza principale sorgono edifici reali, templi e uno splendido osservatorio astronomico, in cui è ancora presente l’ intihuatana, il palo che gli antichi utilizzavano per “agganciare il sole” nel giorno più corto dell’anno.Sono ancora visibili i terrazzamenti utilizzati dagli Inca per coltivare il terreno senza deturpare il paesaggio, seguendo le curve sinuose della terra, e lo sguardo d’insieme mi trasmette armonia, pace e un senso di simbiosi ancestrale con la natura.

Nel pomeriggio la pioggia si fa insistente e troviamo rifugio sotto una tettoia di legno e, aspettando che spiova un po’, ne approfittiamo per pranzare. Abbiamo dei panini umidi e qualche mandarino schiacciato, ma siamo svegli da oltre 12 ore, e non disdegniamo il nostro pranzo di fortuna.Abbiamo girato il sito in lungo e in largo, e sonno e stanchezza iniziano a farsi sentire quindi,non appena la pioggia diminuisce un po’, io ed un’amica prendiamo la strada del ritorno, percorrendo a piedi gli oltre 10 km che ci separano da Aguas Calientes Quando finalmente arrivo in hotel sono talmente stanca che svengo sul letto, senza nemmeno togliermi i pantaloni e gli scarponcini imbrattati di fango.Chiudo gli occhi all’istante e, in sogno, ritorno a Macchu Picchu.

RACCONTI DI VIAGGIO | Peru Bolivia

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Page 10: PERU BOLIVIA · 2019. 12. 18. · quechua “Ari, quepay”, “Si, rimanete”. Situata a 2400 metri sul livello del mare, in una valle delle Ande occidentali, Arequipa è circondata

Avventure nel mondo 1 | 2020 - 53

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19 Agosto: oggi riprendiamo il treno per Ollantaytambo e da lì ci dirigiamo verso Maras.Il sito è spettacolare. Davanti a noi c’è un intricato mosaico di saline che si stagliano bianchissime sul fianco della montagna. I bacini, alti pochi centimetri, sono alimentati da una sorgente calda e ricca di sali minerali, che sgorga dal sottosuolo e viene incanalata nelle diverse vasche con un sistema di piccole chiuse. Quando la quantità d’acqua è sufficiente, la vasca viene isolata e l’acqua evapora al sole, lasciando in dono i suoi cristalli preziosi.Una donna, china su una delle vasche, raccoglie il sale con una spatola di legno ed un cesto di vimini. La guida ci dice che il sale rosa di Maras è particolarmente apprezzato dai grandi chef, mentre io ho letto che le famiglie locali lo estraggono per dar!o al bestiame. Dalle stelle alle stalle, come si suoi dire...nel dubbio, scelgo di fidarmi della guida e un po’ di Sal de Maras viene in Italia con me.

Con le nostre immancabili borsette, piene di sale e semi essiccati, risaliamo sul pullmino e ci dirigiamo verso Moray.Moray è un luogo davvero particolare, composto da un singolare sistema di terrazzamenti a cerchi concentrici profondo circa 100 metri, che mi ricorda un immenso anfiteatro naturale. Mano a mano che scendiamo verso il centro del sito la temperatura aumenta leggermente ed ho la sensazione di trovarmi in un luogo speciale e carico di energia.Mi piacerebbe rimanere più a lungo, ma il tempo vola ed abbiamo in programma una visita a Chincero prima di rientrare a Cuzco.

La città coloniale di Chincero si trova a quasi 3800 metri di altitudine ed è famosa per i tessuti tradizionali. Con la nostra guida visitiamo i resti della

civiltà Inca, impariamo come essiccare le patate e poi ci fermiamo all’interno di un cortile dove alcune signore, nei loro abiti tradizionali rossi e neri, ci svelano i segreti della tessitura.

Abbiamo voglia di tornare in albergo e ricaricarci un po’ dopo le fatiche dei giorni scorsi. Ormai il viaggio volge al termine, e pur sentendo il peso delle settimane passate, siamo tutti in fermento per quella che sarà l’ultima tappa di questo Camino Real: le Montagne Arcobaleno.

Prima della partenza ho acquistato una guida aggiornata al 2015. La leggo quasi tutta prima di partire per essere certa di non perdermi nessuna delle cose assolutamente da vedere. Ma Vinicunca, mai sentita prima, sulla guida non c’è.Mi informo meglio e scopro che queste incredibili montagne, che ormai compaiono su Facebook quasi quotidianamente, sono in realtà state individuate solo un paio d’anni fa dopo che, a seguito del riscaldamento globale, si sono sciolti i ghiacci che per secoli le avevano conservate e nascoste ai nostri occhi.So che sarà un trekking piuttosto impegnativo, ma non vedo l’ora di vederle di persona…

Anche per questa escursione la sveglia suona molto presto. Ci fermiamo a fare colazione a casa di una famiglia e poi trascorro l’ultima ora del tragitto guardando fuori dal finestrino.Stiamo percorrendo strade talmente rubate alla montagna, che in alcuni punti mi vedo già dentro al fiume che scorre 10 metri più giù.Buche, sassi, guadi. Un ponte di assi di legno largo 2 metri, che attraverso a mani giunte pregando che ci sostenga..Arriviamo finalmente a 4600 metri, dove c’è l’attacco del sentiero. Una sosta veloce al bagno che si trova

4 metri più in basso e solo per risalire mi trovo con i polmoni in fiamme.Cominciamo bene.. e ora chi se li fa quei 500 metri di dislivello? Intanto parto, poi si vedrà.Un pezzettino lo reggo, ma ho il cuore a mille, il fiato corto e le gambe di gomma.Mi faccio dare un passaggio a cavallo, così guadagno un paio di km di strada e riprendo fiato.Alla fine arriva lei: LA SALITA, e devo contare solo su di me. Venti passi. Pausa. Dieci gradini. Pausa. Vicino a me, alcuni escursionisti riprendono fiato attaccandosi a piccole bombole di ossigeno portatili.Mi guardo attorno. Già da qui la vista è impressionante. Alla mia destra si snoda una lunga serie di vette appuntite di un incredibile colore rosso, dentro cui si incastrano lingue di roccia bianca, ocra, gialla. Il cielo azzurrissimo, punteggiato di nuvoloni bianchi, esalta le sfumature della montagna. Il giorno prima c’era la neve, ora sciolta dal sole, ed il terreno è infido e scivoloso.Procedo con cautela e finalmente arrivo alla meta. Proprio sulla cima. Proprio nel punto più alto, dove vengo ricompensata da uno dei panorami più belli che io abbia mai avuto la fortuna di ammirare. Ecco Vinicunca, la montagna arcobaleno. Un’esplosione di colori a 5100 metri sul livello del mare. Lo splendido epilogo di un viaggio memorabile.

Al rientro da Vinicunca non ci resta che una mattinata libera per ciondolare per Cuzco e sperperare gli ultimi soles al mercato locale.Nel pomeriggio inizia il nostro rientro. Trascorriamo la notte a Lima, preparando la valigia per l’ultima volta, prima di lasciare questo paese meraviglioso che, con la sua storia millenaria, le sue bellezze naturali e la semplicità della sua gente, mi ha regalato un sogno.

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