pensieri e parole ii raccolta

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Racconti e Pensieri 2010-2011 Raccolta II in collaborazione con www.memori.it www.piazzadelgrano.org

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Mensile d'informazione politica e cultura dell'Associazione comunista "Luciana Fittaioli" con sede a Foligno (PG)

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Racconti e Pensieri2010-2011 Raccolta II

in collaborazione con www.memori.it

www.piazzadelgrano.org

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PremessaIl nostro viaggio “alla fin del mundo” (B. Chatwin, in Iolanda p.8), o meglio, alla fine dei nostri racconti, è giunto a una prima,fruttuosa, conclusione. Proprio da qui, se vorrete, potremmoiniziare insieme nuovi percorsi, confrontandoci coi protagoni-sti di vicende inedite, reali o immaginarie, siano esse in versioppure in prosa. Anche poesie e racconti brevi infatti, al paridei saggi più impegnati, hanno il dono di veicolare la veritàpersonale e sociale di chi li compone. Esistono delle istanze diverità in ogni storia, in ogni momento rapito al silenzio e al-l’anonimato: esse sono tanto forti quanto, spesso, inconsape-voli. Prendersi l’onore e l’onere di esternare tali istanze ha ilsapore di un esame di maturità ancora in svolgimento. «L’esa-me di maturità è questo: una linea di demarcazione» (Arianna,p. 17) superata la quale non veniamo semplicemente conse-gnati a una vita fatta, nella migliore delle ipotesi, di scelte dif-ficili, ma a una vera e propria dimensione di viaggio continuoda sé a sé, oltre quella debolezza, forse «debolezza filosofica»(Sandro, p. 27), che sovente ci avvolge e ci soffoca, proprio co-me fa il caldo d’agosto: «Il caldo sulla testa, sul corpo e nellamente. Ti entra dentro e ti pervade ma è più forte la voglia diandare avanti […]. Non è una sfida, è un’avventura, un’emo-zione, un senso di libertà» (Maura, p. 11). Tenendo presente che«Le parole, anche se volano, una volta pronunciate non possonopiù essere ritirate», mentre «se scrivo, le parole, anche se ri-mangono, possono essere modificate fino al momento effettivodell’invio della comunicazione» (Fausto, p. 29), quella di scrive-re può diventare davvero un’emozione simile a quel senso dilibertà tanto stringente per chiunque, eppure mai interamentesoddisfatto. «A volte basterebbe ruotare la testa, cambiare se-dia o angolo di veduta e allora tanti muri, veri o immaginari,perderebbero in un attimo la loro imponenza e lo sguardo siaprirebbe verso diversi orizzonti e soluzioni già pronte, a por-tata di vista e mano, solo a volerle e saperle vedere.» (Sandro p.27), certo, a patto, di riuscire a scriverle, per non rischiare diperderne la memoria. Non possiamo permetterci di rimanerein silenzio e, così facendo, di perpetuare lo status quo, aspet-

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tando soltanto di morire fisicamente o civilmente, «perché lagente muore/con gli occhi chiusi» (Iacopo, p. 39), comportan-doci come fossimo «un/fiume in secca», senza «lacrime/né pa-role né emozioni» (Maria Paola, p. 32). In fondo, «Diceva la ziaMelania, morta a 101 anni, “la vita è un battito di ciglia, quan-do le riapri è già finita”» (Paride, p. 37), quindi dobbiamo lot-tare per avere l’opportunità di far udire ad altri le nostre paro-le, prima che queste si asciughino. Chissà se e quanti tra di noiriusciranno, per usare le parole di Marta (p. 21), a splendere «didegno entusiasmo», beffandosi «del tempo/e delle lacrime»; masia che si tratti di rabbia, di sorpresa, d’affetto oppure d’orgo-glio, “Non spegnete questa voce” (Samantha, p. 50) potrebbecomunque essere un buon titolo per la professione d’intenti diciascuno. L’ispirazione, se vogliamo chiamarla così, arriva co-me l’amore, «all’improvviso, senza regole, senza limiti, senzaetà e non c’è più scampo» (Mariella, p. 57), arriva per chiarire,definire, per creare o distruggere confini e alla fine, sa trasfor-mare tutti i segni del tempo, «profondi solchi sul […] viso/e […] buchi nel […] cuore» (Anna Rita, p. 63), in parole, in linguag-gio libero di andare avanti o indietro attraverso le ore, i giornio gli anni, a proprio piacimento, trasformando la nostra quo-tidianità, le nostre aspirazioni e perfino i nostri errori o i nostririmpianti in «un romanzo meraviglioso, toccante e profondo,che ci porta […] a riflettere sull’immensa solitudine e incapacitàdi vivere nel mondo moderno, così […] privo di verità e amore»(Maria, p. 42). Una volta concluso l’ultimo capitolo del nostroromanzo (l’ultima riga del nostro racconto, o l’ultima strofanella nostra poesia) non ci sentiremo più come se per esistereavessimo soltanto quell’unica, «sola possibilità rispetto all’infi-nito» (M Seta, in Maria Sara, p. 45), ma faremo «come chi ma-stica e ride», e non «come chi guarda e tace» (Norma, p. 61); sa-rà come essere giunti finalmente a destinazione. Quale sia poiquesta destinazione sta a tutti noi deciderlo. Anche se i nominuovi, qui amichevolmente citati, sono ancora pochi (alcunipotrete conoscerli meglio seguendo il nostro quotidiano on-li-ne), le destinazioni da raggiungere possono essere migliaia;ora sta solo a voi descriverle.

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Gli orgasmi eno-gastronomici di Pepe CarvalhoSi assiste ormai da tempo ad un proliferare di romanzi, piùo meno interessanti, che raccontano le avventure dei più di-versi tipi di investigatori (commissari, avvocati, giudici ecc.).Fra questi quello che più mi ha incuriosito ed affascinato èPepe Carvalho, investigatore privato nato dall’estro e dallacreatività dello scrittore spagnolo Manuel Vázquez Montal-bán. Le caratteristiche che contraddistinguono il personag-gio di Pepe Carvalho sono molteplici e astruse (è un ex agen-te della Cia, vive nella Barcellona post regime franchista -contro cui si è opposto partecipando alle lotte clandestine,ama le belle donne, usa i libri della sua amata/odiata biblio-teca per accendere il camino («… come giusto castigo a tanteverità inutili e incomplete che conteneva» - Assassinio al Co-mitato Centrale). Ma ciò che nella lettura delle varie avven-ture di Carvalho ha sempre particolarmente attratto la miaattenzione rendendo ai miei occhi il personaggio oltremodointrigante, è la passione smisurata che l’investigatore provaper la buona cucina e il buon vino. Nonostante il cinismoche spesso lo caratterizza e nonostante una vita segnatadalla delusione per ciò che non è stato, Carvalho è un “go-durioso”. Anche nei momenti più difficili e cupi riesce adestraniarsi dalla realtà, facendosi trascinare in veri e propriorgasmi eno-gastronomici, gustando una pietanza prelibata- che spesso cucina personalmente - o una pregiata bottigliadi vino. Il cibo per lui non è mai nutrizione: può accostarela pietanza più squisita e raffinata al peggior vino da tavolao una pregiata bottiglia di vino ad un piatto semplice. Quel-lo con il cibo e il vino è, per il personaggio creato da Váz-quez Montalbán, un rapporto sui generis («Ho uno spiritosenza fondo. Quando mi si sazia il corpo, mangio con lo spi-rito» - Quintetto di Buenos Aires). Spesso è un rapporto inti-mo, personale, da non dividere con altri che con se stessi(«… i piaceri solitari gli erano sempre sembrati incomunica-bili» - Tatuaggio); in altre circostante, diversamente, è unmomento da dividere con un amico «per ascoltarsi» (Il Labi-rinto greco); o, ancora, può rappresentare “l’antipasto” di un

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luculliano banchetto di piaceri («Charo ingollava il cibo co-me un’adolescente in via di sviluppo. Era una delle cose cheCarvalho approvava di lei. In realtà nessun essere umano in-differente al cibo è degno di fiducia. Charo seppe trovare ilmomento giusto per smettere di mangiare e dare inizio al-l’amore…» - Tatuaggio). Chi ama il buon cibo e il buon vinoe sa gustarli e goderli non può non amare il personaggio diPepe Carvalho per questo suo rapporto con i piaceri dellatavola. Condivide con lui la consapevolezza che il piacere vi-sivo, olfattivo e gustativo che può suscitare una pietanza oun vino in alcuni casi è sufficiente ad appagare ogni propul-sione fisico/emotiva; in altri, invece, costituisce “l’afrodisia-co” che predispone lo spirito e il corpo ad assaporare altripiaceri. D’altra parte, non poteva che essere “un godurioso”che ama le donne, il buon vino e la buona cucina il perso-naggio creato dalla fantasia di colui che ha scritto: «Tutti ipiaceri sono goduriosamente immorali … E la questione di-venta tanto più immorale quando bisogna sommare o com-binare due piaceri così definitivi come il mangiar bene e farebene l’amore … Mangiar bene, e bere ancor meglio, rilassagli sfinteri dell'anima, sconvolge i punti cardinali della cultu-ra repressiva e prepara alla comparsa di una comunicabilitàche non va sprecata» - Ricette Immorali). Purché, aggiungo,i commensali abbiano la stessa capacità di perdersi nel pia-cere.

La guerra dei cavalli«A ogni incontro, due o tre cavalieri ci restavano, ora dei no-stri, ora dei loro. E i loro cavalli liberati, staffe impazzite e so-nanti, galoppavano a vuoto e si precipitavano giù verso dinoi da molto lontano con le loro selle dagli arcioni bizzarri,e il cuoio fresco come quello dei portafogli a Capodanno. Era-no i nostri cavalli che andavano a raggiungere, subito amici.Una bella fortuna! Non siamo certo noi che avremmo potutofare altrettanto! ... I cavalli hanno una bella fortuna, loro,perché se subiscono la guerra, come noi, gli si chiede mica disottoscriverla, d'aver l'aria di crederci. Sventurati ma liberi

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cavalli! L'entusiasmo ahimé, ce l'abbiamo solo noi, 'sta troia!»(L. F. Céline, Viaggio al termine della notte).Il corpo di un altro giovane militare ritorna in Italia dall’Af-ghanistan. Non ritorna da una guerra, almeno così si dice,ma sicuramente è morto per mano di un altro uomo che for-se, invece, ha ucciso solo in nome di una guerra. Chi ha spa-rato non sapeva chi stava uccidendo, ha colpito una divisa.Non si sarà chiesto, ne forse mai si chiederà, chi fosse lapersona destinataria della morte che stava per infliggere.Non si sarà certamente soffermato a valutare quali sarebbe-ro state le conseguenze provocate da un gesto, qual è quellodi premere un grilletto di un’arma da fuoco puntata controun altro essere vivente. Non avrà pensato - prima, duranteo dopo - che quel suo gesto stava privando di un futuro unuomo a lui sconosciuto, verso il quale non poteva provare,personalmente e direttamente, alcun sentimento, se nonl’odio dettato da circostanze. Non avrà certamente provatoad immaginare cosa sarebbe successo se l’incontro con l’uo-mo che stava uccidendo fosse avvenuto in altre situazioni ecircostanze, ad esempio in un bar, su un treno, su unaspiaggia, sui banchi di scuola, in un ristornate, ecc.. Magariavrebbe potuto scoprire di avere in comune con l’altro tantecose da dividere in quella vita che lui stesso gli stava negan-do. Magari sarebbero potuti essere amici se l’incontro nonfosse stato così avverso. Non si sarà reso conto che lui - car-nefice - e l’altro - vittima - forse erano, in quei momenti, ac-comunati da uno stesso identico sentimento, la medesimapaura di morire. Di quanto entrambi fossero uguali di fron-te alla morte. Non avrà realizzato che in quell’istante stavadecidendo non solo della vita di chi stava puntato nel miri-no ma, insieme, di tutti coloro che intorno a e con quella vi-ta avevano costruito o soltanto ideato altre vite. Che quelsuo gesto avrebbe cambiato irreversibilmente l’umanità pri-vandola di una sua componente unica ed irripetibile. L’inca-pacità di percepire l’altro in quanto uomo, l’“ignoranza” del-l’altra vita, viene da pensare a chi una guerra non ha maicombattuto, devono necessariamente albergare nella mente

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e nell’animo di colui che uccide chi è ritenuto ostile perprincipio, che è nemico solo perché indossa una divisa di-versa. Ma, invero, a nessuno è dato sapere quali pensieri equali sentimenti avrà elaborato e provato chi contro quelmilitare ha sparato. Né se quel gesto sia stato effettivamen-te dettato da una ostilità di principio - magari del tutto privadi un substrato di odio reale - o, semplicemente dall’inco-scienza o, addirittura, dall’arroganza e dalla presunzioneche sia giusto decidere della vita di chiunque non condividai propri medesimi principi culturali e/o religiosi. Certamen-te chi ha sparato il colpo e chi quel colpo ha incontrato nonhanno avuto la fortuna dei cavalli. Forse anche loro, come icavalli, non hanno mai sottoscritto la “non guerra” che si stacombattendo in Afghanistan, forse non ci hanno mai credu-to. Eppure i ruoli, i principi, le circostanze hanno privato en-trambi della possibilità di corrersi incontro, di scoprire chifosse l’uomo che indossava quella divisa. Magari, se avesse-ro potuto raggiungersi spogliati da quella divisa, “liberati”dall’ostilità di principio, anche loro sarebbero diventati “su-bito amici”.

Viaggio alla fine del mondo“Raggiunsi la città più a sud del mondo. Ushuaia era sortanel 1869, quando il reverendo W.H. Stirling aveva fatto co-struire, vicino alle capanne degli indios Yaghan, l'edificioprefabbricato della Missione. Per sedici anni anglicanesimo,orti e indios avevano prosperato. Poi arrivò la Marina milita-re argentina e gli indios morirono di morbillo e di polmonite.Col tempo il posto si trasformò da base navale in colonia pe-nale. Il sovrintendente alle carceri progettò un capolavoro dipietra e cemento più sicuro delle prigioni siberiane. I suoisquallidi muri grigi, forati da strettissime feritoie, sorgononella parte orientale della città. Oggi l'edificio è usato comecaserma. Le mattine, a Ushuaia, cominciavano nella calmapiù piatta. Al di là del Canale Beagle si vedeva di fronte ilprofilo frastagliato dell'Isola Hoste e lo Stretto di Murray, checonduceva all'Arcipelago Horn. A mezzogiorno l'acqua ribol-

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liva e spumeggiava e la riva lontana spariva dietro un murodi vapore. I malinconici abitanti di questa città in apparenzasenza bambini, guardavano gli stranieri senza cortesia. Gliuomini lavoravano in una fabbrica di granchi in scatola onell'arsenale, dove il lavoro non mancava a causa di unapuntigliosa guerra fredda col Cile. L'ultima casa prima dellacaserma era il bordello. Nel giardino crescevano cavoli bian-chi come teschi. Mentre passavo, una donna con la faccia im-bellettata stava vuotando la spazzatura. Portava uno sciallecinese nero, ricamato con peonie rosa-anilina. Disse «Quital?» e sorrise: fu l'unico sincero e allegro sorriso che vidi aUshuaia. Evidentemente era contenta del suo stato. La guar-dia non mi permise di entrare nella caserma. Volevo vedereil cortile della vecchia prigione. Avevo letto del più famosorecluso della Colonia penale di Ushuaia” (B. Chatwin, In Pa-tagonia)Un detto popolare recita che “Partire è un po’ morire”. Mapartire per viaggiare forse è un po’ come rinascere. Decideredi lasciare il quotidiano per vivere una, sia pur piccolissima,parte della propria esistenza in luoghi sconosciuti, a contat-to con gente che è e rimarrà quasi certamente estranea, co-noscendo culture, abitudini e lingue diverse dalle proprie,presuppone un desiderio/bisogno di “nuovo”. Ci sono deiviaggi, poi, che più di altri ti lasciano dentro un qualcosache prima non ti apparteneva. Giungere a Ushuaia, «la findel mundo», per esempio, non è solo un viaggio. E’ un’espe-rienza emozionale. Ushuaia è una città come tante, con lesue case, le sue auto, i negozi, i ristoranti, i neon e i souve-nir. Una città nata intorno ad una prigione, non bella anzi, atratti, anche un po’ piatta e squallida. Eppure, giungendovi,si percepisce in quel posto qualcosa di unico. Ciò che rendespeciale quel luogo non è solo il panorama che si apre senzafine oltre il Canal Beagle; non sono solo i colori del mare edel cielo che si fondono e si confondono in un grigio/azzur-ro quasi innaturale; non è solo l’aria rarefatta che si respira;non è solo la serenità che ti trasmettono le persone che viincontri. E’ una sensazione. Quella che deriva dal trovarsi al-

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la fine del mondo. In qualunque altro posto della terra ci sitrovi si ha la sensazione che la strada, il mare, il fiume chestai percorrendo ti porterà in un altro luogo, in una realtàche conosci o che assomiglierà in qualche modo alle altrerealtà a te note. Ad Ushuaia no. Oltre quella città non ce neè un’altra. Non c’è l’uomo con le sue colonizzazioni e le suecontraddizioni. C’è una realtà irreale rispetto al conosciutoquotidiano. Una realtà che i più possono solo provare ad im-maginare, magari richiamando qualche fotogramma che lamente ha registrato carpendolo da un documentario, nellasperanza di poterla un giorno conoscere. Ed è forse propriola consapevolezza di aver raggiunto nel tuo viaggio il luogoin cui finisce l’assoggettamento della natura ai bisognidell’uomo ed inizia un mondo in cui la natura è ancora pa-drona e sovrana di se stessa, che rende Ushuaia unica e spe-ciale. Forse è per questo che Ushuaia e il mondo noto edignoto che la circondano ti entrano dentro e li rimangonoanche quando ormai migliaia di chilometri ti separano da«la fin del mundo».

Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate«In mezzo alla piazza si ergeva uno strano monumento, altoquasi quanto le case, e, nell’angustia del luogo, solenne edenorme. Era un pisciatoio: il più moderno, sontuoso, monu-mentale pisciatoio che si potesse immaginare; […] Quale biz-zarra circostanza, o quale incantatore o quale fata potevaaver portato per l’aria, dai lontani paesi del nord, quel me-raviglioso oggetto, e averlo lasciato cadere, come un meteo-rite, nel bel mezzo della piazza di questo villaggio, in una ter-ra dove non c’è ne acqua né impianti igienici di nessuna spe-cie, per centinaia di chilometri tutto attorno?» (C. Levi, Cristosi è fermato ad Eboli)Da tempo immemore quella che, con grande fantasia, vienechiamata “Autostrada A3” è l’incubo di coloro che si prefig-gono di raggiungere l’estremo Sud dell’Italia. I cosiddetti la-vori di “ammodernamento”, che da anni interessano l’A3,hanno reso, se possibile, ancora più pericoloso e disagevole

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percorrerla. La presenza dei cantieri, i chilometri a una solacorsia, le interruzioni e gli svincoli improvvisi, l’assenza dicorsie di emergenza e di aree di sosta, trasformano il per-corso della A3 in una vera avventura ai limiti della soprav-vivenza. Chi imbocca l’A3 non sempre è consapevole chetutto può succedere in quelle interminabili ore che lo sepa-rano dalla destinazione. Sarebbe opportuno, per precauzio-ne, consigliare una vera e propria profilassi contro i males-seri da A3. Si dovrebbe redigere il “Manuale del viaggiatoresull’A3”. Idonei pannelli segnaletici dovrebbero invitare iviaggiatori a: dotarsi di certosina pazienza; approvvigionar-si di viveri e bevande; fare carburante; fare sosta alla toilet-te; rifornirsi di giornali e passatempi vari per combattere lanoia delle lunghe soste in coda; fare scorta di CD, perché an-che sintonizzarsi su una frequenza radio può essere impre-sa ardua; dotarsi di ventilatore in assenza di aria condizio-nata. Sarebbe, inoltre, consigliabile la presenza di un copi-lota che coadiuvi il guidatore nell’avvistamento tempestivodelle deviazioni che all’improvviso articolano il percorso. Eattenzione alle mucche! In uno dei tratti già “modernizzati”della A3, infatti, è installato un cartello che segnala la pre-senza di mucche. Si potrebbe pensare che il cartello sia sta-to posto lì per scherzo o per errore. Vi sbagliate! Nel 2008una mucca che pascolava sulla A3 causò un grave incidenteautomobilistico. Eppure, come si legge nel sito dell’ANAS,“L'autostrada A3 Salerno - Reggio Calabria rappresenta laprincipale arteria di scorrimento che collega la Sicilia e leestreme regioni meridionali tirreniche alla grande rete au-tostradale europea allacciandosi al Corridoio 1 che collegaPalermo a Berlino”. Arteria di scorrimento? Si, ma solo delsangue di chi rimane coinvolto nei numerosi incidenti cheavvengono su quella strada. Perché sulla A3 le vetture spes-so si schiantano. La A3 non collega la Sicilia e le regioni me-ridionali alla grande rete autostradale europea; è, invece, ilsimbolo per eccellenza dello “scollegamento” dell’estremoSud dal resto dell’Italia. Allora, come risolvere il problema?Semplice, si realizza un bel ponte sullo stretto di Messina.

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Il ponte, infatti, ridurrebbe drasticamente i tempi di colle-gamento fra la Calabria e la Sicilia. Poco importa, poi, se per-corso il ponte continueranno a non esistere le strade perproseguire il viaggio verso sud o verso nord. Il Sud d’Italia,finalmente, avrebbe il più moderno, sontuoso, monumenta-le ponte che si potesse immaginare. Come il pisciatoio inmezzo alla piazza di Gagliano, il ponte, seppure inutile, sa-rebbe comunque un “meraviglioso oggetto” lasciato cadere,come un meteorite, da un incantatore o una fata in mezzoallo stretto di Messina.

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Quel giorno d’agosto in Valle d’Aosta.Breve racconto di un’indimenticabile escursioneQuattro lunghe e intense ore di camminata per arrivaresul punto più alto della montagna e scorgere l’immensodavanti ai nostri occhi sbalorditi e illuminati dal sole inuna giornata calda e luminosa d’agosto. E’ accaduto qual-che anno fa, ero in vacanza in Valle d’Aosta in compagniadi amici, siamo partiti per un’escursione ma in leggero ri-tardo rispetto alle tempistiche che si rispettano in mon-tagna per evitare il caldo soffocante che arriva puntualedurante le ore centrali delle giornate assolate dell’estate.La frescura del bosco e la festa dell’acqua che zampillafra le rocce del torrente ci hanno fatto compagnia nel pri-mo tratto lasciandoci poi a camminare sulle pietre arro-ventate dal sole d’agosto su una salita che si fa semprepiù dura passo dopo passo. Il caldo sulla testa, sul corpoe nella mente. Ti entra dentro e ti pervade ma è più fortela voglia di andare avanti, di superare anche l’ultimo osta-colo e raggiungere con gli occhi, con le mani e con il cuorequell’obiettivo che ti sei posto prima di partire. Non è unasfida, è un’avventura, un’emozione, un senso di libertà.La salita è stata lunga, intensa, massacrante. Dopodiché,giunti a 2 mila e 500 metri dopo 3 ore e mezzo di cammi-nata, la natura si è dimostrata come sempre generosa re-galandoci all’improvviso il primo scorcio di meraviglia:inaspettatamente, dopo un ultimo gradino naturale dellamontagna, si è aperta una conca di terra verde dove ècomparsa la superficie del lago di Liconi, uno dei piùgrandi laghi naturali della piccola regione. Un enormediamante incastonato in un solitario angolo della terra.Uno spettacolo indimenticabile, un premio incommensu-rabile dopo tanta fatica fisica. L’acqua era cangiante tra ilverde e il blu scuro, si muoveva leggermente creando del-le piccolissime onde che, colpite dal sole, si dipingevanod’argento e sembravano ipnotizzarci regalandoci unasensazione di meraviglia, di serenità interiore e di incan-to. Saremmo rimasti a osservarle per ore ma, chi frequen-

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ta la montagna, sa bene che questo non è possibile perchégià ad agosto il sole tramonta abbastanza presto dietro leenormi montagne della Valle d’Aosta. Se si è arrivati in ci-ma a una vetta bisogna anche avere il tempo utile di tor-nare indietro con il sole che illumina il cammino, altri-menti il rischio di perdersi o farsi male è molto alto. Se,poi, come nel nostro caso, si vuole raggiungere ancheun’ulteriore meta, l’incanto delle onde va lasciato soltan-to alla memoria della mente e della macchina fotografica:amica indiscussa di chi ama la natura. Cosi, abbiamo ini-ziato a percorrere in salita l’anfiteatro verde che abbrac-cia il lago, proseguendo lungo un comodo sentiero chepassa attraverso un alpeggio dove pascolavano tranquil-lamente e beatamente delle mucche incuriosite della no-stra presenza. Una di queste ci ha seguiti e si è messa an-che in posa per delle foto scenografiche con il lago vistodall’alto sullo sfondo. Noi, intanto, abbiamo proseguitosapendo che ci aspettava il momento più bello e così èstato. Immaginate, dopo circa mezz’ora di camminata,dietro di noi lasciavamo una discesa d’erba che conclude-va con l’enorme e maestoso lago di Liconi e il fondovalledi Morgex vicino Courmayeur; davanti a noi si apriva in-vece l’infinito: nell’ultimo tratto di salita muovevamoogni passo con la velocità di un bradipo tanta era l’emo-zione del panorama che si stava aprendo davanti ai nostriocchi. Incredibile ma vero: davanti a noi uno dei più beipanorami dell'intero massiccio del Monte Bianco, dellaVal Ferret e della sottostante città di Courmayeur. Erava-mo a 2 mila e 700 metri e un passo in più non potevamofarlo perché a un metro da noi la montagna era comple-tamente tagliata lasciando spazio a un precipizio vertigi-noso ma allungando un braccio avevamo la sensazione ditoccare la punta più alta del monte più alto d’Europa, ilmonte Bianco, innevato e coperto dai suoi ghiacci perennibrillanti e argentei sotto il sole d’agosto. In compagniadella mucca che si era fermata a una distanza di sicurez-za di una decina di metri da noi, siamo rimasti per qual-

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che minuto ad ammirare il panorama che si apriva tuttointorno. In questi momenti accade qualcosa di unico: lamente si svuota completamente dei problemi e dellostress accumulato a lavoro e nella vita di tutti i giorni, maal contempo si riempie di immagini, ricordi, sensazioniche per svariati motivi fanno parte della tua vita e torna-no davanti ai tuoi occhi con un’energia nuova, più forte,vivace e positiva. L’unicità di questi momenti non sta soloo soltanto nella strepitosa bellezza del contesto naturali-stico che ti circonda, ma anche nel fatto che lì insieme ate ci sono soltanto persone che, come te, si sono fattequattro ore di dura salita con lo zaino sulle spalle e, comete, apprezzano incondizionatamente quello che hannoraggiunto e lo rispettano come difficilmente accade nellasocietà di oggi durante il nostro vivere quotidiano, che siain città, al mare o in campagna. Lassù, tra il vallone sco-sceso e roccioso che conduce al lago di Liconi e la conclu-sione della salita che si apre come un palcoscenico sul-l’intero massiccio del monte Bianco, ci si arriva soltantoa piedi, con le proprie forze, con l’energia positiva di chiama e rispetta la natura, con l’equilibrio interiore di chisa compiere uno sforzo fisico e mentale nella convinzio-ne che la meta da raggiungere merita un tale impegnoperché è prima di tutto un regalo e un insegnamento perla vita. Nelle sue infinite sfaccettature, la montagna ti in-segna a osservare la tempistica della natura riportandoticon i piedi per terra ad affrontare ostacoli, pericoli e sa-lite con saggezza, lucidità e determinazione. Quando seiin montagna e vivi la natura a pieno, apprezzi come nonmai quei “vecchi” e comodi scarponi che ti accompagna-no fedeli da anni, quel semplice panino fatto prima dipartire per l’escursione e che al momento di mangiarlo sitrasforma in prelibatezza, quell’acqua della borraccia o,ancora meglio, del torrente che casualmente incontri lun-go il percorso ed è sempre una gioia. Tutto, anche le cosepiù semplici, come per magia, si trasformano in meravi-glia e la vita si riappropria del valore che merita. Quella

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mattina di qualche anno fa siamo partiti per caso perquesta escursione perché eravamo indecisi su come tra-scorrere la giornata. Qualcuno di noi era stanco e preferi-va rimanere in albergo o andare con la macchina a visita-re qualche città, qualcun altro, tra cui io, si è lasciatoprendere dall’idea di una nuova ed emozionante avventu-ra. Così è iniziata l’escursione: scarponi ben allacciati,zaino in spalla, un panino, l’acqua e la voglia di cammina-re in mezzo alla natura. Parcheggiata la macchina a Pla-naval che si raggiunge dopo una serie di tornanti in salitasubito dopo La Salle poco prima di Courmayeur (la prin-cipale porta valdostana per la Francia attraversando iltraforo del monte Bianco), abbiamo iniziato un percorsofacile e intuibile lungo una strada interpoderale che si im-mette in un lungo traverso per poi arrivare a un punto incui si strozza e impenna improvvisamente. Tra salite e di-scese, stradine più comode e sicure nel sottobosco e per-corsi larghi mezzo metro che tagliano la montagna e siaffacciano sul nulla, abbiamo camminato per quasi dueore. Tra cambi di pendenze, attraversamenti di torrenti,restringimenti di sentiero e improvvisi tornanti, abbiamosuperato ben due valloni, poi il sentiero si riaggancia auna seconda strada interpoderale che, finalmente, per-mette di raggiungere la località Liconi a oltre 1.800 metri,la base del vallone che conduce al lago e, per la cronaca,il vero inizio dell’escursione. Fino a questo punto abbia-mo assaggiato solo l’antipasto, da questo momento in poiabbiamo fatto sul serio. Durante questa prima parte diescursione avevamo avuto l’energia e la forza per cammi-nare e chiacchierare, dopodiché, siamo entrati in perfettasinergia e concentrazione con la natura e abbiamo inizia-to la salita, quella vera, dura, impegnativa che ci ha por-tato fino a scoprire lo spettacolo mozzafiato del lago diLiconi che si apre come un terrazzo panoramico sulla ca-tena del monte Bianco. Un’emozione indescrivibile che ri-paga oltremodo dello sforzo e dell’impegno fisico e men-tale necessari al raggiungimento della meta. Tale emozio-

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ne e le sensazioni provate a questo punto dell’escursionele ho volute descrivere in apertura di questo raccontoquasi a voler proporre fin da subito al lettore la pietanzapiù appetitosa, gustosa e inebriante. A questo punto ri-mane soltanto la conclusione di questa giornata avventu-rosa, il ritorno alla macchina, avvenuto non appena il soleiniziava la sua progressiva discesa dietro le alte guglie einiziava a segnare il vallone di grandi aree ombreggiateche richiamano all’attenzione e al rispetto perché in pocotempo oscurano completamente il cammino verso casa el’unico bagliore di luce, se si è fortunati e il cielo è sereno,rimane la luna. Un ultimo sguardo indietro verso il monteBianco e il luccichio del lago, giusto il tempo di imprimer-ne nella mente le immagini e le forti sensazioni trasmes-se, poi abbiamo iniziato la discesa lungo lo stesso percor-so dell’andata. Sulle spalle lo stesso zaino, alleggeritodell’acqua e del panino che avevamo già mangiato mastracolmo di ricordi, immagini e suggestioni. Una discesarapida, silenziosa e rasserenante ci ha permesso di con-solidare per sempre le sensazioni e le esperienze appenavissute.Dedico questo breve ma piacevole racconto di fine estateai miei genitori che, per primi mi hanno fatto scoprire que-sto splendido luogo rafforzando in me l’amore per la mon-tagna e la natura. Estendo questa dedica al mio compagnodi vita Gianni che ha voluto vivere insieme a me que-st’esperienza pur inconsapevole della difficoltà del percor-so ma sempre fiducioso in me.

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Largo a noi. L’esame di maturità e la nuova vita ancora tuttada costruireL’esame di maturità è il primo vero traguardo, esperienza co-mune per la quale tutti passano, i nostri genitori prima di noie molti altri dopo, ma in fondo che cosa significano quei giornidi maturità, prima gli scritti e il fatidico orale così trepidamen-te atteso? I giorni precedenti sono massacranti, un tour de for-ce estenuante, giornate chiusi a casa a studiare con l’estate cheintanto avanza, imperterrita, indifferente agli infelici maturan-di che la vedono arrivare da dentro casa, sovrastati da libri, vo-cabolari e appunti. La maturità è il primo punto fermo, la finedelle scuole superiori e l’inizio di qualcos’altro. Ma cosa? Espe-rienze nuove, università che aspettano con i loro test d’ingres-so? O la prima esperienza di lavoro? O la vita di sempre? Al-l’ultimo anno di superiori si sogna, come non mai, ci si imma-gina come sarà la nostra vita fuori da lì, si pensa a cosa si vor-rebbe essere, si sogna di partire, andarsene lontano, in altrecittà e stare a vedere cosa la vita ci riserva. In questo grovigliodi emozioni, ce ne è una che a volte si fa sentire di più, ovverola paura, il senso di vertigine che si prova prima di saltare nel-l’ignoto, la paura di scoprire che forse era meglio prima, quan-do si era piccoli alle prese con vocabolari troppo pesanti. Ri-cordo con tenerezza una frase della mia amata professoressadi latino e greco, che un giorno, vedendoci alle prese con scel-te universitarie vacillanti, ci disse : «Mi fate tenerezza, ormaisiete consegnati alla vita»; in quel momento non era chiaro co-sa volesse dire, pensavamo che in fondo non sarebbe cambia-to nulla, ma quelle parole le scrissi ugualmente sul diario, con-vinta che mi sarebbero tornate utili in futuro, un po’ come tut-te le sue perle di saggezza sanno fare, con la loro potente ca-rica chiarificatrice nei momenti più confusi. Ora mi rendoconto di quanto siano vere quelle parole. Se è vero che “Homofaber fortunae suae”, che si è artefici del proprio destino, si de-ve iniziare a costruire da soli la propria vita, accumulandoesperienze su esperienze e cogliere al volo le occasioni che sipresentano. Ora tocca a noi affrontare la vita. Sta a noi distri-carci nelle quotidiane difficoltà, affrontare esperienze univer-

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sitarie o scontrarsi con gli scogli del mondo del lavoro senzarassicuranti professori che ci sostengano, catapultati in unanuova dimensione spazio-temporale a volte troppo stretta ospesso troppo larga per andare bene, con la vaga impressionedi essere cresciuti e di non essere ancora pronti per essere giàgrandi. L’esame di maturità è questo, una linea di demarcazio-ne. La vita ci sta solo aspettando.

Passione o razionalità?Scelte universitarie e possibilità occupazionaliLa domanda che affligge da anni coloro che dopo la scuola su-periore vogliono continuare con gli studi universitari è semprela solita: in che facoltà iscriversi?! Assecondare le proprie pas-sioni e inclinazioni o perseguire la razionale logica delle mag-giori possibilità occupazionali? Lasciarsi guidare dal cuore odalla mente? Non credo che la risposta sia semplice, anzi, direiche la soluzione all’amletico dubbio non esiste; la risposta ar-riverà negli anni, a seconda di quale direzione prenderà la vitadi ciascuno. Il Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea forni-sce basi documentarie e di verifica per aiutare i giovani a en-trare nel mondo del lavoro e offre informazioni relative allevarie facoltà delle 64 Università che hanno aderito al consor-zio. AlmaLaurea e Istat, da un’indagine svolta nel 2009, diconoche i laureati in Ingegneria sono coloro che hanno maggioripossibilità occupazionali addirittura a un anno dalla laurea, alsecondo posto si classificano i laureati in Chimica farmaceuti-ca, poi quelli in Economia, e in Odontoiatria; i dottori in Medi-cina e Giurisprudenza impiegano più tempo per entrare nelmondo del lavoro dopo la laurea, in quanto impegnati in corsidi specializzazione e in praticantato. Riguardo all’Universitàdegli Studi di Perugia gli ultimi dati AlmaLaurea risalenti amarzo 2011, relativamente alla facoltà di Giurisprudenza, ri-portano che i 321 laureati del collettivo selezionato hanno im-piegato in media 5,6 anni di studio e di questi già lavora il36,7%, il 37,4% pensa che la propria laurea sia stata efficace,mentre il 25,2% invece sostiene il contrario. Per quanto riguar-da la facoltà di Lettere e Filosofia sono 909 i laureati del collet-

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tivo selezionato, il 40.6% lavora, il 37,9 % fa un uso ridotto del-le competenze acquisite con la laurea e il 24,8% invece le uti-lizza in maniera elevata. Ciò che è meglio scegliere non puòdirlo nessuno, nemmeno le tante percentuali e dati che sonostati pubblicati, e occorre superare il cliché degli ultimi tempisecondo il quale un laureato in lettere automaticamente sino-nimo di “sfigato”. Sarebbe opportuno che ognuno facesse lapropria scelta universitaria da solo, ragionata e il più possibilematura, senza troppi condizionamenti; la società dovrebbe da-re a ognuno la possibilità di spendere la propria laurea nel mi-glior modo possibile, senza sprecare intelligenze e conoscenzeacquisite da anni di studio.

Ostacoli al pieno sviluppo della persona umana.I tagli alla scuola risanano il bilancio ma lasciano ferite an-che ai portatori di handicapL’insegnante di sostegno è un insegnante specializzato, istitui-to con il DPR n. 970/1975 in cui viene definito “docente spe-cialista” e poi la figura è stata ulteriormente definita dalla leg-ge 517/77 in cui veniva ribadito il diritto all’ integrazione dellostudente portatore di handicap. Precedentemente la legge 118del 1971 ha dettato le prime norme che affermano il diritto deidisabili a frequentare le scuole pubbliche, nelle classi normali,sancendo il diritto all’integrazione scolastica, nonostante iltutto fosse già contemplato dalla Costituzione. L’insegnantedi sostegno viene affidato alla classe in cui c’è il soggetto por-tatore di handicap oppure in gravi condizioni di disagio socia-le o familiare; questa figura specializzata deve provvedere ache il bambino o il ragazzo realizzino forme di integrazionecon il resto della classe, assecondare e sviluppare al megliole potenzialità di ciascuno, in relazione alle specifiche esigen-ze del soggetto. Inoltre esso collabora alla realizzazione del“Piano Educativo Individualizzato” in cui viene predisposto unprogramma da attuare su misura del soggetto portatore dihandicap con interventi didattici, terapeutici e educativi. Ma,ahimé, i continui tagli della scuola hanno coinvolto anche que-sto settore, e ciò getta un’ulteriore ombra nella scuola italiana.

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Le ore di sostegno di ragazzi in condizioni di disabilità sonodrasticamente diminuite e il più delle volte il precariato degliinsegnanti non garantisce loro continuità didattica, che per unsoggetto disabile è fondamentale, in quanto spesso i progressisono determinati da un rapporto di fiducia e affetto con l’in-segnante che li accompagna nel loro percorso di apprendi-mento. Ma un’ulteriore considerazione si rende necessaria, ov-vero il precariato generale della scuola mette i docenti nellacondizione di “scegliere” l’insegnamento di sostegno, in quan-to rappresenta l’unica continuità lavorativa nel mondo dellascuola, anche senza la completa convinzione professionale epersonale che quest’attività rende necessaria. La mancanzadi insegnamento di sostegno fa sì che i ragazzi versanti incondizioni più gravi siano lasciati fuori dalla classe perché di-sturbano lo svolgimento delle lezioni, a volte stanno nellostanzino dei bidelli, oppure trascorrono l’ora di educazione fi-sica in classe, per non parlare dei laboratori. A volte sono i ge-nitori che devono coprire i vuoti lasciati dalla scuola, dallo Sta-to, spesso e volentieri accompagnano i loro figli nei viaggi diistruzione, perché spesso il bus non è attrezzato in modo ido-neo, oppure nei congressi o nei progetti perché gli altri inse-gnanti non si prendono la loro responsabilità. I genitori lotta-no, si infuriano e fanno ricorsi al Tar e spesso ottengono sen-tenze per loro favorevoli e che addirittura condannano lecondotte discriminatorie. In queste storie di disabilità, dove èil diritto allo studio e all’integrazione?! Articolo 3 comma 2della Costituzione «E’ compito della Repubblica rimuovere gliostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto lalibertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno svilup-po della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i la-voratori all’organizzazione politica, economica e sociale delPaese.»

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Canto alla mia coraggiosaAbbi cura di te, dolcissima

dalla voce chiara e le labbra serrate

T’ammiro fresca nelle foto sgranate di ierigli occhi ingenui e le guance morbide incoscienti del

doloreaspettavano la vita

con ansia trepidante e mesta allegria

Non vedi quanto splendi di degno entusiasmobeffandoti del tempo

e delle lacrime?

Cara, gentile signora,nata tra un cielo di rocce ed un suolo d’acque, i pasti frugali t’attendevano pronti sulla tavola

e tu, solitaria bimba,ti nutrivi di sogni e immaginazione…

Mille baci avrei voluto dare alla tua fronte d’infante

e mille altri ancora vorrei dartene ora

Mia seconda madre

Assi di sostegno alla mia crescita si rivelaronola tua pazienza

il tatto imparzialela naturale riluttanza per le parole vuote

Le tue risa spiritosecome le tue spigolose contrarietà t’hanno resa mitica ai miei occhi

mai abbastanza grati della tua presenza

Degna padrona di casa

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le mani pratiche sono artefici d’incantate gioiedi cucina e cucito

L’agilità delle ruoted’un’instancabile bicicletta sono

le gambe svelte

Quercia salda e tenacecolonna portante di famiglie troppo distratte,

i tuoi rami carichi si volgono al cielocantando i vivi ricordi

la saggezza ammaliantela precisione del quotidiano

Dopo mesi di assidue visiteTra i vapori della cucina

e le ampie stanze della tua dimora

mi scopro lontana

lontana da tedai pomeriggi di amorevoli,

premurose cure

E m’accorgo solo ora,insostituibile nonna, di quanto profondamente

mi manchi.

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In volo per CubaCon un’ora e mezza circa di ritardo sull’orario previsto è in-fine giunta la chiamata d’imbarco della quale ho avuto noti-zia, non già dall’altoparlante della sala completamente sof-focato dal rumore assordante di un televisore acceso al cen-tro della stessa, ma dalla concitazione con la quale improv-visamente, quasi illuminati da un comando telepatico, tuttii viaggiatori sono scattati in piedi e si sono caoticamenteammassati alla porta di uscita verso il piazzale di decollo.Forte del mio biglietto d’imbarco contrassegnato dal nume-ro di prenotazione 1, mi sono messo compostamente in co-da e così sono salito per ultimo sull’aereo fermo al centrodella pista. Errore: a Cuba non c’è prenotazione del postoma ci si siede così come capita quasi all’arrembaggio. Erroreveniale, per fortuna, in quanto anche a Cuba almeno nonemettono più biglietti d’imbarco rispetto alla capienza diposti seduti dell’aeromobile; quindi ho trovato infine un po-sto libero e mi sono seduto. La cabina dell’aereo era stipatadi tutto: pacchi legati con lo spago, sacchi di iuta, ceste epersino enormi torte di pasticceria dolce senza incarto, te-nute in mano dal proprietario per tutto il tempo del viaggio.Quella del trasporto delle torte in mano, senza incarto, èuna delle consuetudini più diffuse in ogni angolo dell’isola.E’ frequente infatti vedere uscire dalle profumate pasticce-rie aperte e molto attive in tutta l’isola clienti con in mano,o persino sulla testa o sulla spalla, enormi torte decoratedai fantasiosi e vari colori pastello (celeste cielo, rosa con-fetto, verde pisello, ecc.), che poi vengono trasportate a lun-go per le vie cittadine e, come ho potuto personalmenteconstatare, anche per aereo da una città all’altra. Debboconfessare di non avere mai avuto il coraggio di assaggiaretali torte che, alla vista, sembrano quasi essere finte, per so-la mostra, fabbricate di cartapesta e di gesso colorato; soperò che loro le mangiano e le apprezzano molto; chissà laprossima volta, un’altra volta, le assaggerò anch’io. Com’eraovvio, la quasi totalità dei viaggiatori cubani aveva trasfor-mato la cabina dell’aereo in una piazza vociante e festosa

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dato l’alto tono delle voci e l’abbondare di risate e battute.Una signora seduta nella fila dietro la mia, in particolare,parlava ininterrottamente con tutti quelli che le risultavanoa tiro di voce, come una macchinetta, alternando parole a ri-sate dal tono assai alto. Erano chiaramente chiacchiere e ri-sate nervose che lasciavano trasparire la non poca appren-sione dei viaggiatori per l’esperienza, forse non molto dif-fusa, del volo aereo. Cosicché, non appena l’aeromobile si èmesso in movimento e dal pavimento della cabina ha inizia-to a salire un denso fumo, costituito in verità da nebbia dicondensa del sistema di condizionamento, quel vociare e ri-dere s’è improvvisamente interrotto sopraffatto da un silen-zio assordante come il rombo delle turbine dei tre reattoriin accelerazione. Poi il vociare, questa volta in tono quasiisterico, è di nuovo ripreso interamente incentrato sulla giu-sta preoccupazione generata dal quella coltre di fumo chesi andava diffondendo sul pavimento della cabina; ad uncerto punto il comandante del volo, con un forte e ripetutomessaggio dagli altoparlanti della cabina, ha dovuto rassi-curare i passeggeri sulla natura e sulla “normalità” di quelleemissioni gassose, invitandoli alla calma e, di più, alla fidu-cia(!). La calma è tornata, la fiducia onestamente non lo so aguardare i volti stirati dei passeggeri più vicini, quasi para-lizzati nella istantanea di un sorriso congelato. L’aereo hainiziato a rullare sulla pista, ha raggiunto il punto di parten-za, ha alzato al massimo il rumore dei motori ed ha iniziatola sua corsa per il decollo. In quello stesso momento l’emis-sione di fumo si è decuplicata e nei pochi istanti dello stac-co dal suolo la cabina dei passeggeri è stata interamente in-vasa dal gas di condizionamento sino ad impedire la vistapersino del sedile di fronte al proprio. Questo fatto mi haimpedito di vedere le nuove espressioni che indubbiamentesi erano andate formando sui volti dei miei vicini in quelfrangente preannunziato, ma non certo previsto con quelledimensioni assolute; il gelo termico diffuso dal gas del con-dizionamento era accompagnato da un gelo di voci e persi-no di respiri che ben trasmetteva il clima psicologico che mi

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circondava. Per fortuna non appena in volo il gas si è di-sciolto con la stessa improvvisa rapidità con cui si era for-mato e quindi la trasvolata si è svolta serenamente e senzaulteriori sorprese, avvolta nel buio della fonda notte carai-bica. Lo sbarco ha visto ripetere le stesse scene di assaltodella salita, ma oramai si era a terra, per qualcuno a casa,per altri, come me, in attesa del prossimo volo … certamen-te con un mezzo di trasporto più moderno ed affidabile.

Nella sua immensa misericordiaC’era una volta un re di un popolo, tanto pio e obbedienteda essere stato “eletto” dal suo Signore e Creatore. Il re perònon riusciva ad avere un figlio maschio (le femmine ovvia-mente non contavano) per dare la successione al suo trono.Il re si chiamava Abramo, la moglie legittima ma sterile (al-meno quanto a figli maschi, di femmine non se ne sa nulla)si chiamava Rebecca. Nonostante le infinite suppliche, attidi contrizione e sacrifici al Dio onnipotente il problema nonsi sbloccava, gli anni passavano, la successione era in peri-colo. Come si usava allora (solo all’allora?) venne concessauna deroga: il re venne autorizzato a utilizzare una servaper farsi produrre il necessario erede maschio. La serva sichiamava Sara, il prodotto che ne nacque venne chiamatoIsmaele, erede al trono di Israele. Colpo di scena inatteso, laoramai vecchia Rebecca resta incinta e partorisce finalmen-te il maschio legittimo che venne chiamato Isacco. Che faredel bastardo Ismaele e della madre serva? Com’era usanzadi allora (solo di allora?) ambedue, oggi si direbbe “vacca evitello”, vennero cacciati dalla tribù e mandati a morire difame e sete nel deserto. Ma ecco che Dio nella sua immensamisericordia manda in soccorso ai due reietti un angelo cheli salva e promette a Sara che il figlio, persa l’aspettativa deltrono di Israele, avrebbe comunque dato vita a una grandenuova stirpe, quella degli arabi. A questo punto ci si aspet-terebbe la solita conclusione: e tutti vissero felici e contenti(più o meno). E invece no! Ecco che il buon Dio ha un altrobel regalo in serbo per Abramo e per il suo popolo eletto: il

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padre deve sacrificare la vita del figlio lungamente atteso al-la gloria del Creatore. Il pio e docile Abramo obbedisce (nonè detto se con animo grato o con qualche “rodimento” inte-riore), porta il figlio Isacco in cima a un monte, ovviamentesacro, e prepara il barbecue per la gloria del Signore. Ma ilSignore, sempre nella sua immensa misericordia, ha in ser-bo ancora un colpo di teatro, al momento dello sgozzamen-to al posto di Isacco compare un agnello, che è pur semprefiglio di qualcuno ma non creato a immagine e somiglianzadel suo Dio. Padre e figlio, dopo avere mangiato l’arrosto di-vino, se ne tornano a casa e finalmente tutti vissero felici econtenti (ma mica per tanto...). Direbbe a questo punto il ra-gionier Fantozzi: “Come è buono Lei!”

Il muroDa qualche giorno avevo iniziato a riflettere su quell’argo-mento, discutendone e dibattendone con un immaginariointerlocutore in verità così diverso dall’immaginario dal-l’avere sempre contorni precisi e ben delineati, quasi unavera presenza fisica, anche se frequentemente mutevolenello stesso corso del ragionamento ad ogni sua occasionaleinterruzione e ripresa. Ci ragionavo da tempo e quella sera,sul balcone di una camera d’albergo di quella terra lontanis-sima, decisi di fissare sulla carta i miei pensieri per ricercar-ne un ordine ed una coerenza logica. Prima di iniziare a scri-vere, però, mi guardai attorno ancora una volta, quasi perdare un contesto concreto ed attuale a quelle mie riflessioni.In quel momento mi resi conto della presenza di un muroche, alto e cieco di fronte al mio sguardo, mi sovrastava fi-sicamente e, a quel punto, anche mentalmente. Il balcone,piccolo e stretto, sul quale si trovavano due piccole sdraiedi plastica e tela che si fronteggiavano divise da un ancorpiù piccolo tavolino, era chiuso sui due lati corti da paretiin muratura piena, una molto più lunga dello sbalzo del bal-cone. Seduto sulla sdraia di destra mi trovavo a fronteggiareil muro più lungo che, impedendomi la veduta verso occi-dente, mi soprastava di diversi piani, così creando un senso

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d’oppressione che comprometteva la veduta dell’oceano an-cora illuminato dal sole al lento tramonto. Mentre riflettevosulla presenza opprimente di quel muro cieco e alto, ho gi-rato un poco la testa alle mie spalle, notando che da quellaparte, invece, il muro finiva al limite esatto dello sbalzo delbalcone. L’albergo, disposto lungo il fronte dell’oceano, ave-va una struttura “a gradini” ed il mio era il primo balconedel gradino arretrato. Nessun ostacolo alla veduta, nessunmuro incombente, dunque, dal lato opposto alle mie spalle.Sarebbe bastato cambiare sdraia, dare le spalle al muro piùavanzato e così guadagnare la veduta incontrastata del-l’oceano sino alla curvatura visibilissima dell’orizzonte ma-rino. Mi venne da sorridere apertamente benché fossi da so-lo, considerando la banalità di quel senso di oppressioneche poco prima aveva bloccato il mio impulso di scrittore.Abbandonandomi a una debolezza filosofica, che soventedilaga nelle ore del tramonto, considerai che molto spessoi muri che ci troviamo di fronte nella vita sono solo il fruttodi un errore di prospettiva, di un angolazione sbagliata del-lo sguardo o dell’approccio. A volte basterebbe ruotare latesta, cambiare sedia o angolo di veduta e allora tanti muri,veri o immaginari, perderebbero in un attimo la loro impo-nenza e lo sguardo si aprirebbe verso diversi orizzonti e so-luzioni già pronte, a portata di vista e mano, solo a volerlee saperle vedere. Prima però di darmi definitivamente dellostupido per il clamoroso errore nella scelta della sdraia, misoffermai ancora un attimo a riflettere più a fondo sulla si-tuazione. Il muro più grande ed opprimente era in effetti di-sposto verso ovest, verso cioè la direzione in cui stava tra-montando il sole e così impediva proprio la veduta di unospettacolo naturale tra i più emozionanti, quello del lentis-simo tramonto sino alla totale, quasi improvvisa, scompar-sa in mare del sole che, a quelle latitudini e nell’orizzontecurvilineo di un oceano infinito, assume l’immagine di unapalla di fuoco rosso incendiato che quasi si spegne, conun’ultima fiammata violenta e brusca, precipitando nel ma-re. Accreditandomi a quel punto di un istinto primigenio,

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giustificai in quel modo la scelta inconscia della sdraia didestra condizionata dal non casuale orientamento verso iltramonto del sole. Intanto, però, il sole non c’era più, la lucecon l’ultima fiammata, oscurata tuttavia alla mia vista daquel muro alto e lungo, d’improvviso era venuta meno, edera perciò impossibile scrivere. Decisi quindi di rinviare adomani, o a un generico domani, il progetto di scrittura ap-pena concepito. Nella penombra debolmente rischiaratadalle luci dell’albergo che si andavano via via accendendo,c’era però ancora la possibilità di “incendiare” e fumare unasigaretta, restando pur sempre seduto sulla stessa sdraia“dell’istinto”.

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Il linguaggio di ognunoUna lingua è solitamente sia scritta che parlata. La sua di-stinzione, ai fini della comunicazione, potrebbe apparirenon molto significativa, ma in effetti è immensa. Precisiamosubito che una frase orale è unica e irripetibile e può rivesti-re più significati a seconda di molteplici variabili. La linguaorale usa l'intonazione della voce, le pause, i cambi di volu-me ed è accompagnata dai gesti, dall'espressione del viso edal contesto. La lingua scritta (pur nella sua infinita ricchez-za) può utilizzare solo la punteggiatura o altri sistemi gra-fici (sottolineatura, grassetto, ecc.). Le parole, anche se vo-lano, una volta pronunciate non possono essere più ritirate(pensa prima di parlare); se scrivo, le parole, anche se ri-mangono, possono essere modificate fino al momento effet-tivo dell'invio della comunicazione. Sono solo alcune e forseneppure le principali differenze quelle da me citate, ma èsufficiente riflettere per trovare ulteriori spunti: distanza ovicinanza degli interlocutori, contesto comune della comu-nicazione che consente di sottintendere un'infinità di coseche viceversa vanno precisate se la comunicazione è scritta.Nella lingua parlata un modesto 30% delle parole che for-muliamo vengono utilizzate per la comunicazione e la com-prensione, mentre il 70% viene trasmesso da come lo dicia-mo, dal contesto, da posture fisiche e da quello che abbiamogià elaborato mentalmente o ci aspettiamo di sentire. Se ilmarito torna a casa alle quattro di notte e la moglie gli do-manda, sai che ore sono? Tutto vorrà rappresentare la do-manda tranne che sapere l'ora, ma: dove sei stato? Che haicombinato? Sentiti in colpa! E quante volte è accaduto chedavanti ad un'aspettativa di un no alla nostra domanda l'in-terlocutore abbia dovuto ripetere più volte: guarda che sonod'accordo con te! Che hai capito? Ti ho detto si! Ogni parlan-te trascina una modalità che ne denuncia la provenienza an-che parlando un italiano formale, che identifica e invia mes-saggi che, anche se inconsapevolmente, riceviamo ed elabo-riamo. Quando si ascolta un'inflessione della lingua nonpropria, scattano meccanismi automatici: non è delle mie

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parti, non ha le mie abitudini, consuetudini, gusti alimenta-ri... è necessario che mi metta sulla difensiva oppure? InUmbria, sicuramente una delle regioni più piccole per popo-lazione ed estensione, è bastato un fiume (neppure tantogrande), il Tevere, per creare due aree linguistiche molto di-verse. Noi folignati riconosciamo un perugino dopo pocheparole, come i perugini riconoscono subito l'appartenenzaad un'area geografica che va da Foligno a Terni. Sono consi-derazioni, senza la presunzione di uno studio o taglio scien-tifico (è inimmaginabile la mole di testi sull'argomento). So-no semplici riflessioni che ognuno di noi avverte e non si èmai soffermato a valutare.

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Tramonto(da Gocce di cristallo. Poesie d’amore)

Filari di lucecorrono lungole chiome verdi

e dai rami carichiscendono grappoli

dorati di sogni:frutti spremutiacini rinsecchiti

che s’ammucchianoai piedi dell’alberocopiosi… baciati

soltanto dall’ultimopallido raggio di luced’un triste ed ugualetramonto d’Autunno.

Avrei volutoda Gocce di cristallo. Poesie d’amore)

Avrei volutospezzare con le mani

le fredde alidella morte.Avrei voluto

soffiare sul tuo corpol’alito caldo del mio amore.

Avrei volutostringerti fortefino a farti male

e parlartidi cose che non dissi mai

Ma ho potutofarti dono

solo delle mie lacrimeunici gioielli caldi

sul tuo corpo

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freddo e rassegnato.

A mia sorellaSono come unfiume in secca:

non ho più lacrimené parole né emozioni.

Una pietra al postodel cuore, e la luna

ha soffiato l’argentosui miei capelli.La mia anima

intirizzita e stancaaspetta il Sole.

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L’same di matematica«Hai preso la merenda?» le gridava dietro la mamma, mentrel’accompagnava al calesse. Era tutto un vociare di ragazzi e dimamme, che si accalcavano nella piccola piazza del paese. Lemamme, tutte vestite di nero, con il fazzoletto sulla testa, ibambini, con i vestiti della festa, che lasciavano intuire la po-vertà, i sacrifici, che quel momento significava per le povere fa-miglie. Era giugno, giugno 1914, l’alba. Il calesse aspettava nel-la piazza. Una piccola piazza, di forma quadrata, dominatadalla facciata della chiesa di Sant'Antonio. Sulla sinistra un pic-colo negozio, una merceria, al cui fianco si apriva un arco, cheimmetteva sulla riva del fiume. Ancora più a destra un pontein pietra, sorretto da un ampio arco; anche la strada che lo per-correva era arcuata, a dorso di mulo. Gli altri due lati dellapiazza erano delimitati da case; in particolare il lato sinistroera occupato da un alto palazzo signorile, abitato dalla fami-glia più ricca del paese; accanto ad esso c’erano case, moltopiù basse e dimesse. Case di gente povera, a due piani. La pri-ma aveva un arco che dava sulla strada, con un ampio portone,sempre aperto, all’interno un perenne rumore di telai che tes-sevano tappeti di lana spessa e colorata. L’anima della bottegaera la Tombolina, una donna anziana, bassa e grassa, con unaparlantina a mitragliatrice, praticamente incomprensibile. Ilportone accanto si apriva su scalette ripide, salite le quali si so-stava su un piccolo pianerottolo, su cui si aprivano tre porte.A destra era l’appartamento del maestra Emirene, la porta difronte portava alle scale per il secondo piano; a sinistra si apri-va la grande cucina della famiglia Bischi. Una cucina un po’buia, con un grande camino sulla parete di fronte, a sinistrauna finestra che dava sulla piazza, subito a sinistra rispetto al-la porta di ingresso la grande madia di legno chiaro, dentro laquale veniva messo a lievitare il pane. La parete di destra davasu una camera da letto, al fianco della quale si apriva la portae il corridoio che portava sul retro della casa, verso il monte,dove su un piccolo spiazzo c’era un forno, lì proprio sotto ilmonte scosceso. Era il forno del paese, sempre aperto, giornoe notte, il giorno per i pochi clienti, la notte per i componenti

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della famiglia che vi lavoravano. Questa descrizione riguardaun periodo molto successivo all’avvenimento che sto per rac-contare, circa 45 anni dopo. Torniamo al giugno 1914, la bam-bina che era uscita dalla porta del forno aveva 10 anni, si chia-mava Melania, era la penultima di nove figli, sette maschi e duefemmine, l’unica vivente delle sorelle, dato che l’altra era mor-ta in tenera età. Era una bambina vivace, volitiva, quasi capar-bia, che si faceva rispettare anche dagli altri sette fratelli. Lepiaceva studiare, e quella mattina, finalmente era giunto ilgran giorno. Finita la quinta elementare si partiva per andarenel paese vicino e sostenere gli esami. Con lei c’erano altribambini, tutti eccitati, con il libro su cui avevano studiato, ilpranzo al sacco, le scarpe consumate, ma pulite, passate lorodai fratelli più grandi. La bambina corse felice, eccitata versoil calesse, seguita dalla mamma e dalla maestra. Si accomodòsul sedile posteriore, insieme ad altre bambine, tra cui la Tom-bolina. I ragazzi sedevano sul sedile di fronte, in mezzo, poi,quasi a dividerli, l’insegnate. La mamma le ravviò i capelli lun-ghi e neri, raccolti dietro la nuca. La baciò sulla fronte, mentrele sussurrava le ultime raccomandazioni. La Melania la guardònegli occhi mentre un tenero sorriso le disegnava le labbra, co-me per rassicurarla. Il carro trainato da due muli, lentamentesi mosse, tra lo stridio delle ruote sulla breccia della strada.Lentamente percorse la salita del ponte, poi girò a destra lungoil fiume, tra i tigli fioriti. Le mamme rimaste per qualche attimosulla piazza, ormai vuota, tornarono alle loro case, agli abitualilavori. La strada era lunga, circa 15 chilometri, i ragazzi primachiassosi, mano mano che passava il tempo divenivano più si-lenziosi. La maestra dava gli ultimi suggerimenti “mi racco-mando Melania, tu mettiti al centro dell’aula e cerca di aiutarei compagni”. Sì, lei lo sapeva che in “matematica” era la piùbrava, in italiano no, ma in matematica! Sì, avrebbe fatto comediceva la maestra. Arrivarono alle 8 del mattino, in una scuolagrande come non l’avevano mai vista, con grandi aule spoglie.Sulle pareti grandi carte geografiche, il crocefisso, il ritratto delRe. I banchi erano disposti a file di tre. Come prestabilito la Me-lania si sedette al centro, con intorno gli altri ragazzi. La penna

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di legno, con un bel pennino nuovo, la boccetta dell'inchiostrodavanti a sé; il bel foglio di carta a quadretti spiegato sul ban-co. I due maestri della commissione in piedi davanti alla lava-gna, dopo aver intimato il silenzio, cominciarono a scrivere iltesto del problema di matematica che gli alunni dovevano ri-solve. Appena finito scrivere si voltarono, verso i ragazzi, chefaticosamente stavano trascrivendo il testo. Passarono pochis-simi minuti, ed ecco una bambina, vestita di nero, con i capelliscuri, raccolti dietro la nuca, seduta al centro dell'aula, si alzò,avviandosi verso la scrivania. “Dove vai bambina, devi risolve-re il problema” gli disse il maestro... “Ho finito “ rispose lei.“Non è possibile, così presto! Fammi vedere”. Il maestro preseil foglio in mano, e rimase di stucco nel vedere il problema per-fettamente risolto in così poco tempo... La bambina tornò alsuo posto, ed occupò il resto del tempo ad passare il compitoai compagni meno dotati. Quante volte ho sentito questa sto-ria, raccontata dalla protagonista, la Zia Melania. Quante voltel'ho ascoltato fino in fondo, con piacere, immaginando comepoteva essere l'ambientazione di questi avvenimenti, svoltisiin un paesino di montagna, circa un secolo fa, in un paese dovefino a 50 anni fa si parlava un dialetto difficilmente compren-sibile. Io e i miei figli, malgrado conoscessimo perfettamentela storia, sempre seguivamo il racconto in silenzio e con pia-cere, seduti di fronte alla Zia ormai centenaria.

60 anniÈ successo, sembrava impossibile ma è successo! Questa mat-tina mi sono svegliato, come tutti gli altri giorni, ho fatto cola-zione , mi sono custodito, ma ecco, il cellulare comincia aemettere il suono del “messaggio ricevuto”, una, due, tre... vol-te. Apro i messaggi, il ritornello è sempre lo stesso… tanti cariauguri. È successo, oggi, ho compiuto 60 anni. Sessanta anni,non è possibile. Io, che ancora inconsciamente, mi immaginoun ragazzo, timido, insicuro, sempre pronto a ricevere i sug-gerimenti dei più grandi, ...60 anni. Mi guardo allo specchio,vedo un uomo, abbastanza ben mantenuto, con i capelli bian-chi, lo sguardo interrogativo, si sono io. Quando compii 40 an-

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ni pensai “sono un uomo”, quando compii i 50 anni “sono unuomo arrivato”, e adesso ai 60 che devo pensare, “l’inizio dellavecchiaia”, “gli anni dell’abbandono (lavoro)”, “gli anni del de-clino (fisico)”? No mi rifiuto. Come potremmo definirli… ”glianni della consapevolezza, gli anni da dedicare a se stesso, glianni della seconda giovinezza”! Vedremo. Dunque che fare?Chiudersi in una stanza al buio e disperarsi per il tempo chepassa? Fare finta di niente; come se nulla fosse successo; an-dare in giro per la strada cercando di indovinare gli anni deglialtri dai capelli, le rughe, le pance, le chiappe cadenti? Nulla ditutto ciò. Festa! Una bella festa di compleanno, non invitandoi soliti quattro amici con cui ci si vede tutto l'anno. No, una bel-la festa invitando più o meno tutti coloro (poi senza dubbio neho dimenticati alcuni) che in questi anni mi hanno accompa-gnato. Quindi tutti quelli che se uno ti chiede: conosci il Tale,potresti rispondere, si è un amico. Che c'entra, un AMICO èqualcosa di diverso, è quello che ti conosce bene, che conoscei tuoi difetti, che ti vuole bene per questo. Gli AMICI non pos-sono essere tanti, due, tre, quattro, basta. Ad un AMICO per-doni tutto, le idee, i comportamenti, le stramberie... Pensa, houn AMICO che adesso nel 2011 è ancora comunista, ma noncomunista illuminato, ma legato ancora agli anni 50, uno sta-linista; per lui la caduta del muro di Berlino è stata una dellenefandezze della storia, Pol Pot è stato un esempio, l'invasionedell'Ungheria e della Cecoslovacchia una necessità. Abbiamosempre litigato per queste idee, e sempre litigheremo, ma è unAMICO, allora... collaboro ad un giornale da lui pubblicato, ungiornale comunista stalinista. Che si fa per un AMICO! Tor-niamo a noi. Quanti sono gli amici di un uomo? Sono fortuna-to, io ne ho tanti. Ho fatto un elenco... forse cento. Certo nonposso invitarli tutti, ma una buona parte, i più vicini (nel sensodella residenza) sì. Saremo circa ottanta. Ci sono amici che hoconosciuto all'asilo (Marco), altri all'elementari (Carlo); altri allemedie, liceo ecc... alcuni che bazzico settimanalmente, altri piùraramente. Durante la festa mi piacerebbe fare un bel discor-so, sì un discorso come quelli che si vedono nei film. Un di-scorso serio; mi ci vedo, io in piedi, davanti a tutti che mi stan-

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no a sentire, seri, ma contenti. Un discorso sull'amicizia, suimomenti che negli anni abbiamo vissuto insieme, io con cia-scuno di loro. Come al Giro d'Italia, i corridori partono insie-me, poi ogni tanto uno si stacca, ma la mattina dopo sono tuttidi nuovo tutti insieme. Si vorrei ringraziare tutti i miei compa-gni si strada, tutti coloro che negli anni hanno saputo trasfor-mare la mia vita. Che sarebbe la vita senza gli altri, non sareb-be vita, sarebbe un trascinarsi di giorno in giorno in attesa del-la fine. Invece la condivisione dei problemi, dei momenti, degliinteressi, delle vacanze, dell'attività sportiva questo è il saledella vita. Mi ci vedo con un bicchiere in mano in piedi tra diloro. Un breve ricordo di chi non c'è più, delle persone più care,di coloro che ogni volta che ci pensi ti viene un groppo alla go-la. Due parole anche per loro, sperando che la voce non vengastrozzata dall'emozione. Due parole per Antonio un paren-te/AMICO che ci ha lasciato pochi mesi fa, sicuro che se fossestato alla festa, avrebbe apprezzato la compagnia e il mangia-re. Due parole per i figli, sempre al centro dei miei pensieri.Due parole per mia moglie, che da oltre 43 anni mi sopportae... Un bel brindisi e il discorso si chiude con un applauso e untintinnare di bicchieri. Questo è il discorso che avrei voluto fa-re, ma che non farò mai, data la mia riservatezza, e un sensodi pudore, che mi impedisce di esternare come vorrei i mieisentimenti. Chissà perché è così difficile dire cose belle, men-tre a volte è facile dirne di brutte. Diceva la zia Melania, mortaa 101 anni, “la vita è come un battere di ciglia, quando le riapriè già finita”. Forse aveva ragione, mi sembra ieri che stavo suibanchi di scuola, mi sembra ieri che tornavo a casa dai genito-ri, con quella sensazione di tornare in un porto sicuro, mi sem-bra ieri che mi sono laureato, che mi sono nati i figli, ecc. A mepiacciono molto le fotografie, da sempre; ho il computer inta-sato da migliaia di foto, spesso mi piace cliccando sulla tastie-ra rivedere volti antichi, situazioni famigliari. È una magia ve-dere gli amici li sullo schermo eternamente giovani, i genitorieleganti mentre si recano al veglione, i figli che giocano al ma-re, la moglie giovane, bella, sinuosa, desiderabile. Si è veramen-te bello, è una illusione meravigliosa. Sessanta anni... che ci ri-

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serverà il futuro? Bando alla malinconia, anche se la festa inparte è stata rovinata dalla pioggia, non ci importa, che gli anniche ci restano siano come una festa, con buon cibo, buon vino,buona conversazione. Sempre con il sorriso, la voglia di stareinsieme. E quando sarà il momento dell'ultimo brindisi, levia-mo in alto i bicchieri, e con un sorriso guardiamoci negli occhiper l'ultima volta, abbracciamoci, così che il calore che ci tra-smetteremo ci riscaldi il cuore, e ci convinca di non aver vissu-to inutilmente, perché saremo stati capaci di amare.

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VaccheGente magra

in un mondo grassograssissimo,gente falsa

e il mondo è vero.

Un finale lo percepiscilievemente

ma mai lo affronticosciente.

Ecco, non puoi assolutamentemai

aspettare una fine.

Apri gli occhi amore mioperché la gente muore

con gli occhi chiusi.

Di notteEgoisticamente

partirei per non tornare piùe nel buio lasciare il buio.Tralasciando molte cose

senza salutiné accortezze

lascerei questi desertie questi oceani.

Lascerei le rosei cieli mutie le carezze

per non dimenticarle.Soprattutto quelle.

Lascerei tuttocome si trova

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la mia debolezzanell’armadio

le scarpesotto il letto

di notte.

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La solitudine dei numeri primi Durante un piovoso pomeriggio di mare, gironzolando perun piccolo paesino sardo, mi sono imbattuta in una libreria.Non uno di quei supermarket del libro a cui siamo abituati,no, ma una piccola ed accogliente libreria in cui girare finoa che il prossimo libro non ti sceglie. Già, perché non vor-remmo certo dire che una libreria è come un negozio qua-lunque... c’è una magia strana lì, qualcosa che guida verso ilprossimo viaggio. Questa volta mi ha scelto un libro di cuiavevo sentito molto parlare, La solitudine dei numeri primidi Paolo Giordano. Già il titolo ci introduce in un mondo diprofonda incomprensione e isolamento, attraverso la pre-sentazione di numeri speciali, i numeri primi gemelli. Sitratta di numeri primi, divisibili solo per se stessi e per uno,che hanno un’altra ulteriore caratteristica, sono separati daun unico numero, vicini e al tempo stesso intoccabili, comei protagonisti di questo romanzo. Mattia e Alice sono duepersone speciali che viaggiano sullo stesso binario ma de-stinati a non incontrarsi mai. Sono due universi implosi, in-capaci di aprirsi al mondo che li circonda, di comunicare ipensieri e i sentimenti che affollano i loro abissi. La causa èun’infanzia compromessa da un evento drammatico che sitrascina nel tempo rendendo difficili le loro fragili esisten-ze. Alice, rimasta drammaticamente segnata da un inciden-te subito da piccola e di cui incolpa il padre, e Mattia, al qua-le il caso ha incredibilmente portato via la sorella gemella,vivono la consapevolezza di essere diversi dagli altri. Que-sto non fa che accrescere le barriere che li separano dalmondo fino a portarli a un isolamento atroce, e neanche l’in-crociarsi delle loro vite e il filo invisibile che li lega riesce asalvarli. Il tono del romanzo sale e l’emozione diventa sem-pre più palpabile non appena ci si inoltra nel racconto e nel-le vite dei protagonisti. La solitudine dei numeri primi èun'opera delicata e terribile allo stesso tempo in cui emer-gono due protagonisti imperfetti e marginali lontani dai lo-ro coetanei così concentrati su frivolezze, che su Alice eMattia scivolano invece inesorabilmente. I turbamenti e le

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cicatrici, i fallimenti e l'incapacità di vivere quelli che nor-malmente sono considerati successi, l’incomunicabilità cheinevitabilmente mina il rapporto tra i figli che diventanoadulti e i loro genitori sono i cardini di questo romanzo.Con il suo libro d’esordio lo scrittore guarda verso una par-te della società troppo spesso nascosta e tralasciata, esplo-rando la vita di questi ragazzi speciali e così deboli. Si trattadi un romanzo meraviglioso, toccante e profondo, che ciporta a vivere fino in fondo il dolore e a riflettere sull’im-mensa solitudine e incapacità di vivere nel mondo moderno,così pieno di stimoli e possibilità quanto altrettanto privodi verità e amore.

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Uno rispetto all’infinitoGli orizzonti speculari e paralleli della nascita e dellamorte si dividono tra loro le rappresentazioni di tutte leumane paure. Infatti la prima è vista come paradossal-mente oscura, informe, avvolta in superstizioni inestrica-bili, ingabbiata per sempre nel corpo altrettanto oscuro,potente e pericoloso, della donna; la seconda è conside-rata invece quasi familiare, abitata da personaggi mitolo-gici e da figure care che nella morte non hanno perdutola propria umanità, in grado all’occorrenza di tornare amescolarsi con il mondo dei vivi, di ascoltare suppliche eraccogliere offerte. In mezzo, la scienza tenta come puòdi fare “da pacere”. Una domanda da sola contiene tuttele nostre incertezze: cos’è la vita? Poiché chi scrive, comeaccade ad altri, non è in grado di dare a tale essenzialequesito né una risposta scientifica, né una filosofica, inqueste righe ne verrà ricercata una simbolica, basata surisorse e vissuti personali. Potremmo immaginare la vitacome una luce, un fuoco, secondo i culti antichi (inizial-mente matriarcali, poi patriarcali), come una sostanzainusuale dotata di sorprendenti facoltà. Le sue espressio-ni possono essere uniche, eppure esemplari, e nessuna diessa può essere considerata un’eccezione. Si dice che cisia vita quando c’è movimento, consumo energetico, ca-lore, una piccola luce della ragione già accesa. Tuttavia,quando un bambino nasce, così riporta il Piccolo Midra-chim (O. Rank, Il trauma della nascita), un angelo lo col-pisce sotto il naso e gli spegne la luce che arde sopra lasua testa. Il bambino quindi, inconsciamente, piangerà adirotto la sua perdita forzata: da quell’istante in poi la vi-ta dovrà essere inseguita, imparata tutta da capo girandoin tondo come fa la Terra che, circondata dal buio piùdenso, sembra danzare solo per se stessa. Ogni bambinoè stato formato e fatto nascere senza tener conto dellasua volontà, “chiuso dentro”, nella propria pelle e nelventre di sua madre, “a chiavistello”, quindi alla nascitapiangerà solo per se stesso. Egli non è e non rimarrà altri

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che se stesso, immodificabile da chiunque, nel caratteree nella sostanza; d‘altra parte la vita non si crea, esistesoltanto, e forse è sempre esistita. Quel bambino appenanato, una luce isolata, indipendente dal buio che lo hapartorito, assumerà su di sé una nuova vita. K. Kerényi(Dioniso, Adelphi) si è trovato ad affermare che la moder-na biologia dovrebbe più correttamente definirsi zoolo-gia: esiste infatti la vita intellegibile, simile a un mimo,chiara e definita, che abbina a un proprio essere una mor-te “propria”: la bìos. Poi esiste la Vita, quella che per de-finizione non può cessare d’esistere, sia concettualmenteche di fatto, la vita che si identifica col termine anima ead esso si sovrappone: la zoé. Per quanto la scienza deidivieti e delle assoluzioni cerchi di travasare un po’ dizoé nella bìos, noi esseri umani non potremo mai arrivarea possedere la vita vera: su questo punto il nostro liberoarbitrio diventa soltanto libera immaginazione. La forzadella zoé è ancora sconosciuta, essa interviene sconvol-gendo ciò che noi riteniamo essere la nostra natura, sov-vertendo i nostri ritmi, incontrollabile come il calore delfuoco, come il fuoco veicolo di conoscenza. La vita cosìintesa non può far altro che scottare, accecare, disturba-re, inebriare. Essa completa il nostro esserci, e non puòessere paragonata alla bìos. Comprendere la vita ci co-stringe a un nuovo linguaggio, privato del corpo delladonna nella sua rassicurante profondità e dispiegato in-vece su molte superfici tecnologiche e sterili, partorite,piuttosto che dalla mitica costola di Adamo, dal suo intel-letto. Ormai lo sappiamo, la vita non è più solo movimen-to, essa può avere solo l’apparenza del nascere. Un bam-bino (mi riferisco a prima dell’avvento delle moderne tec-niche diagnostiche) può essere formato, almeno all’ester-no, arrivare al nono mese di gravidanza e indurre le do-glie del parto, eppure nascere morto, o meglio, a dispettodella vitalità delle sue cellule, non essere mai stato vivo.Ancora: un feto che, a seguito della morte della madre, sitrovi a migrare nelle vicinanze di un qualsiasi tessuto ne

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assimilerà la fattezza, divenendo per esempio osso. Sem-bra proprio che la bìos possa essere modellata come unqualsiasi materiale. Ma la vita non è certo una materia pri-ma pregiata o un atto segreto, i nostri corpi non sono ca-ve estrattive di cui Altri decidono l’apertura e la chiusura.A cosa servirà quel materiale, la cui unicità viene forzo-samente dilatata e strattonata da un capo all’altro dellaterra, quel materiale divenuto ormai luogo pubblico, senon a trasformare gli emblemi della vita che conosciamoin idoli (B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubbli-co. Sull‘abuso del concetto di vita)? Io credo che sia lecito,per quanto doloroso, “aggirare” il corpo materno allo sco-po di dare allo stesso più voce, di aprire una porta, sco-moda e imperfetta senza dubbio, per permetterle di ospi-tare dentro di sé una vita da amare. Avere la pretesa diimpadronirsi del corpo della donna “dal di dentro”, inve-ce, è semplicemente inaccettabile. Così come è impensa-bile l’idea che siano le nostre “celluline speciali”, i nostriidoli divisi in tante parti anatomiche, la sola origine dellavita. La vita non ci appartiene, sfugge al nostro controllo,noi non siamo in grado di trattenerla, è lei a sceglierci. Es-sa ci passa solo attraverso: è consustanziale al nostro de-siderio, un desiderio che ha già in sé una preghiera esau-dita; l’anima in noi s’impiglia e basta, finché qualcosa ditraumatico non la costringe a tornare libera. La vita nonè nel nostro genoma, nei nostri tentativi d’interpretazio-ne della conoscenza: sta tutta nel nostro desiderio di ve-derla nascere e maturare. La vita è un frutto, il frutto diuna grande vite a cui vengono periodicamente staccatidei germogli, affinché non dia tralci sterili ma fruttifichi.Troppo spesso la nostra esistenza, accumunata in questoa quella di Dio, è qualcosa che, come diceva M. Seta nel‘49, può avere una sola possibilità rispetto all’infinito.Mentre “a priori” ha tutte le possibilità di esistere, e quin-di non c’è ragione di credere che non esista, “a posteriori”ha una sola probabilità di esserci rispetto all’infinito. Lavita non proviene da noi, dunque è una “benedizione”, un

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atto d’amore che per compiersi utilizzerà tutti i mezzipossibili e non. Forse l’unica cosa da fare di fronte a pra-tiche mediche che non condividiamo, eppure coraggiosee generose, di fronte a genitori e figli che non conoscia-mo, non è ostacolarne il percorso con precetti crudeli, mausare, per esempio, la formula dubitativa con cui le infer-miere, dopo la prima guerra mondiale e fino agli anni ‘50,a modo loro “benedicevano”, cioè spruzzavano con l’ac-qua, i feti di cui era incerta non solo l’origine e la natura,ma anche la fine: “Se sei un uomo…”. Il compito di rico-noscere socialmente il prodotto del concepimento, dun-que, era tornato ad essere gestito, magari non dalla ma-dre, ma pur sempre da una donna. Chissà se rimettersinelle mani di ogni donna non sia, anche adesso che il lorodiritto alla procreazione viene rimesso in gioco nei tribu-nali, quella nostra unica possibilità rispetto all’infinito.

Sollievo«Roma è bellissima, somiglia a te: Roma somiglia a te»; leparole di una signora al telefono rompono l’aria rarefattadella sera, e la sera, da parte sua, sobbalza insieme al tre-no, come presa da un eccesso di singhiozzo. A dire il veronon riesco a immaginare le fattezze o il carattere di unapersona capace d’incarnare da sola l’intera Capitale dallaquale sto tornando, tuttavia non posso fare a meno dicredere sulla parola alla signora in questione…sono sicu-ra del fatto che una persona bella tanto quanto Roma daqualche parte debba pur esistere, o altrettanto saggia, eil pensare che magari ne esistano più d’una rende un po’felice anche me. Tutta la bellezza del mondo non può en-trare per intero dentro la spaziosa Roma, ma dentro unapersona per fortuna si. Gli esseri umani sono assimilabilia delle scatole magiche d’incredibile fattura: visti da fuorihanno degli spazi ben definiti, eppure non esiste nulla diabbastanza grande da non poter essere “messo in salvo”al loro interno. Tutto ciò che è stato e che non è stato puòessere racchiuso in un pugno della stessa grandezza di

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un cuore. È come se le persone di valore, passando in mo-do solo apparentemente casuale, lasciassero dietro di lo-ro un’infinità di gesti, di volontà, di nostalgie, di respiri,che si separano dal corpo come fiori recisi e che restanolungo la strada percorsa, trasformandosi poi in sospiri disollievo quando un dettaglio ci sorprende, quando unanotizia di bellezza ci sfiora. Tutto quello che custodiamodentro si riversa su una superficie più ampia, diradandosisenza mai disperdersi. La persona a cui mi capita di pen-sare più spesso invece somiglia a un bouquet di rose ros-se. Le rose sono fatte di una gentilezza acuta e autoironi-ca e il rosso incarna al meglio il colore vivo di tutto ciòche lei amava. Con quelle rose si potrebbero ancora co-struire sogni imponenti come dei monumenti romani, an-che se molto più leggeri.«Costruire, edificare implica necessariamente un sacrifi-cio:I bambini giocano spontaneamente coi mattoncini o le sca-tole di fiammiferi, con le tessere del domino o i cartoni, co-struiscono gli edifici più alti che possono. E se li osservas-simo di nascosto li sorprenderemmo a sistemare sulla pie-tra più alta un fiore che hanno raccolto, un ramoscello oquello che ritengono più significativo: un oggetto, insom-ma, a cui tengono o che ha per loro un significato speciale.Ossia stanno facendo un sacrificio alla nuova costruzio-ne.» (L. Boella, Maria Zambrano. Dalla storia tragica allastoria etica. Autobiografia, confessione, sapere dell’anima,pp. 80 - 81).Gli ideali, i sentimenti, come “sepolti viventi” ci guardanoe sorridono dei nostri sacrifici alla storia: a chi custodisceil soffio della poesia, dell’impegno o dell’intuizione, nonservono né contorni né difese architettoniche. Infatti daquando la persona a cui penso non c’è più, mi pare di ve-der crescere rose rosse in ogni stagione, e di vedere mu-tare in rosa ogni sprazzo di umanità. Si dice che non sipossa cavare il sangue da una rapa, certo, così come, fuordi metafora, non si possono veder sanguinare i cuori, che

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invece, all’apparenza, si limitano a fiorire o a sfiorire pro-prio come le rose. Eppure poco tempo fa mi sono imbat-tuta in una rapa sanguinante, una rapa rossa, incisa a for-ma di rosa. In realtà c’erano insieme tante cose: piccolidraghi magici, pesci d’oro, rose bianche e rosse; oggettiusciti, minuti e perfetti, dalle mani “sanguinanti” di unmendicante-artigiano di origine asiatica che sembravastrapparle via direttamente dal petto di una terra cemen-tificata. Per un momento ho pensato di averne riconosciu-to il sorriso, o forse, quel giorno Roma somigliava sola-mente a lei. Scendendo, la signora, ancora al telefono, siè appoggiata a me per resistere al contraccolpo della fre-nata. Che non abbia ascoltato i miei pensieri come io hoascoltato i suoi? Intanto il treno tirava, così mi è sembra-to, un lungo sospiro di sollievo.

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Miseria e NobiltàNon posso credere di essere rimasta senza il mio lavoro.Prendetela come un piagnisteo, un continuo lamentarsi ad-dosso, ma io faccio ancora fatica ad abituarmi. Eppure dimesi ne sono passati. Per una donna non pensiate che sia fa-cile restare senza niente tra le mani, da un giorno all'altro.Con uno stipendio da fame, riuscire a mettere in piedi unpranzo e una cena, a dare ai miei figli la parvenza di una vitanormale. Non pensiate che sia facile dormire la notte, quan-do la mattina dopo ci si sveglia ed è un altro giorno, identicoa quello di ieri e identico a quello di domani. Io sono fuorimercato. Cosa significa? Significa che per questa società ionon ho diritto di cercarmi un’occupazione perché non servopiù. Io per lo Stato devo accontentarmi dell'elemosina chericevo, e dire persino grazie mille con gratitudine vera. Lacassa integrazione i politici non sanno nemmeno cos'è. Nonsanno come si vive con 4 soldi, i problemi che ci sono, per-ché non hanno l'umiltà di sentirsi dei privilegiati, non han-no il senso della nazione, ma solo quello personale, anchese sentendo queste parole qualcuno farà il finto indignato eminaccerà magari querela, chiedendo soldi ovviamente. Per-ché gli affamati di denaro non conosco l'anoressia, al mas-simo sono sempre bulimici. Ho una rabbia dentro che graf-fia più della puntina del giradischi su un vecchio vinile. Po-litici, sindacalisti, che mi dite di star calma, di sorridere, disentirmi fortunata… Vi prego. Non fatelo più. Vorrei preva-lesse dentro di me sempre e solo la speranza e la forza diandare avanti nonostante tutto. Perché se fosse la rabbia aprendere il sopravvento, allora sarebbe davvero finita lapossibilità che si crei in un futuro qualcosa di migliore peri nostri figli. Lavoro all'Antonio Merloni da non molti anni.Prima mi avevano detto che le donne non le assumevano equando è stato possibile ho lottato disperatamente per l'im-piego in questa azienda. Anche contro la mia dignità. Oggiper pagare l'affitto e mantenere i miei figli ho dovuto inte-grare la cassa integrazione con un lavoro in nero. Faccio ladonna delle pulizie e guadagno 6 euro l'ora. Mi spacco la

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schiena dalla mattina alle 8 per 10 ore, senza nessun dirittolavorativo, ma lo faccio solo per i soldi. All'improvviso…misono sentita immigrata anche io…come le badanti dell'Est.Non mi sentivo più italiana, perché lo Stato c'è solo quandodeve chiedermi le tasse, e la politica c'è solo quando ci sonole elezioni per chiedere voti, per strappare promesse. Nonchiedo nient'altro se non il mio vero posto di lavoro, nellacatena di montaggio a fare frigoriferi. Niente di più. Non uneuro di troppo. Sono sfiduciata…lo so, le cose non cambie-ranno...ma chissà se qualcuno domani come me, non vergo-gnandosi di raccontare la sua storia, possa riuscire a smuo-vere le coscienze di chi dovrebbe aiutarci, di chi dovrebberappresentare lo Stato e non abbandonarci. Vado perché ètardi e domani un altro giorno arriverà.

Non spegnete questa voce Alla rabbia segue sempre una sorta di innaturale calma. Cisi siede, ci si passa una mano tra i capelli e forse si riflette.Magari si piange. Nella vicenda Merloni, la nascita di un Co-mitato ha attraversato questi mesi e settimane come un urlogigantesco che si è propagato fino a rompere qualche tim-pano di troppo. Si sono vinte battaglie, ci si è scontrati con-tro una nuda realtà, crudele come solo i soldi sanno essere.Crudele come quest'Italia fatta di partiti, sindacati, tessere,voti, corruzione, scambismo. Schifo. Troppo schifo. Vienela voglia dopo un timido risultato, dopo l'urlo che si è avutoil coraggio di gridare, di abbandonare. Di far finta che tuttosia stato solo una parentesi, un'esperienza, come la primavolta che si fuma o come una ribellione insolita. Abbando-nare. Tanto non si può vincere, tanto la gente non cambia,perché "loro", queste persone che restano innominate per-ché sono solo merda in bocca a chi ne parla, loro non cam-biano. Ma loro chi sono? I politici, i sindacalisti, i soliti noti?Non si sa. Non si sa più nulla. E proprio per questo che si ab-bandona tutto. VE LO POTETE SCORDARE. Perché è l'alba diun tempo nuovo e anche se il giorno forse sarà difficile davedere, tutto sta cambiando. Tutto. E' tempo che non ci si

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fermi più davanti a nulla, nomi affari soldi furbate. Tuttodeve venire fuori. Bisogna cominciare a lavare i panni spor-chi, perché così un Paese, un territorio come il nostro puòfinalmente rinascere e offrire alle generazioni di domani unluogo di cui non vergognarsi. Fare un passo indietro, ma so-lo per prendere la rincorsa. Se uno ha paura di parlare par-leremo insieme. Parleremo tutti.

“Frigidaire” 30 anni dopo - The Suburbian MiracleSe uno cresce in un paesino di provincia, non è che trovamolti sogni a cui attaccarsi. Non c'è molto da fare, se non vi-vere una monotona realtà cercando di uniformarsi il più infretta possibile alla piccola massa di uomini e donne, vecchie giovani, che hanno rappresentato il tuo passato, sono iltuo presente, accompagneranno il tuo futuro. Però, statenecerti, a volte i miracoli accadono anche in periferia. Un’in-tervista. Poche frasi. Non importa che le mie tavole sianogiudicate belle o brutte da qualcuno, ma che quel qualcuno,leggendole, ad un dato istante possa sentire il suo cuorebattere più o meno forte, le ghiandole secernere più o menoliquido. Quando incontri Andrea Pazienza così, non può cherimanerti dentro per tutta la vita. Ma come riuscire a far ri-vivere questo concetto di arte? E' più o meno con questaidea in testa che si comincia ad acquistare Frigidaire, versoi 20 anni scarsamente compiuti. Cari lettori, molti di voi, ar-rivati a questo punto, si staranno chiedendo se Frigidairesia: una medicina, una droga, un maglione. Se volete scopri-re quale di queste tre cose sia ascoltate, per una volta, il mioconsiglio: “Foligno, poi Bastardo, frazione di pianura del Co-mune di Giano, di là verso il vecchio borgo di Giano in colli-na. Proseguire poi oltre il borgo sulla strada del Monte Mar-tano. A sinistra, circa duecento metri dopo il borgo, c’è ilcancello d’ingresso di Frigolandia.” Frigidaire. Frigolandia?Frigolandia è la terra di Frigidaire, che come spero avrete or-mai scoperto è un mensile popolare d'élite che a novembreha compiuto i suoi ben portati 30 anni. E' realmente la terradi Frigidaire eh. Lo so vi state ingarbugliando con i pensieri

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e a dirla tutta pure io con le parole. Insomma: Frigidaire èun mensile popolare d'élite che esce ogni mese in edicola,costa 3 euro (e sono spesi bene e fidatevi che se lo dice unache non ha mai un soldo bucato in saccoccia ci potete cre-dere) e come se non bastasse da 30 anni continua a dare na-tali, pasque e giorni del ringraziamento alle migliori mentiche il nostro italico Paese possieda (Andrea Pazienza, Filip-po Scozzari, Tanino Liberatore, Stefano Tamburini su tutti- aspettate voglio aggiungerci anche Ugo Delucchi). Frigolan-dia è la repubblica della fantasia. Un accampamento noma-de sulle vie del sogno, come la definisce il suo presidenteVincenzo Sparagna, nonché fondatore insieme a due dellesopracitate menti, di Frigidaire. E' una repubblica marinaradi montagna. Che sta in pratica a uno starnuto dai posti piùbelli dell'Umbria, precisamente a Giano. Una repubblica do-tata persino di Costituzione. E anche della possibilità di fareun passaporto. Lo so, lo so. Non c'avete capito nulla. Tran-quilli lettori. Tranquilli. E' che si stanno aprendo le vostrementi e inizialmente si hanno di questi effetti da capogiroe uno si sente smarrito e perso e mio Dio che sta succeden-do? Allora facciamo così: chiudiamo qua quest'articolo, perora. Tralasciamo di raccontare del paesaggio bellissimo chesi gode dalle finestre di Frigolandia, delle cene stupende, delcaffè caldo di Eleonora, delle spiegazioni e delucidazioni diMaila su Ranxerox, del sorriso di Vincenzo che t'accoglie co-me fossi un ospite atteso più o meno da un triliardo di annioppure un amico che finalmente si è deciso a tornare a casa.Evitiamo indignazioni inutili, raccontando di come la Giun-ta comunale di Giano dell'Umbria abbia tentato di sfrattareingiustamente e ignobilmente Frigolandia dal territorio, unaGiunta di sinistra per altro, ma di quella sinistra malata cheoggi sta ammorbando l'Italia. Per non far arrabbiare i citta-dini di Giano non diremo nemmeno che la Giunta comunaleha perso questa causa di sfratto e ora dovrà sprecare soldiche sarebbero potuti servire per la gestione del territorio,per pagare le spese del giudizio. Nelle prossime volte pro-metto di tornare a raccontarvi di Pazienza e di tutte le menti

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di frigidaeriana memoria che conosco. Intanto avviate l'au-to. Vi aspetto ai cancelli di Frigolandia. http://www.frigolan-dia.eu/

StorieControSe nasci qui il primo sogno è quello di scappare. Indipen-dentemente da chi sei, che fai o come la pensi. L'Umbria èchiusa, buia, un paese ogni quarto d'ora. In mezzo solo lecampagne, il grigio, il sudore dei miei nonni contadini, mez-zadri come nel Medioevo. Lo stesso Medioevo che sopravvi-ve nel pensiero della gente. Se nasci qui è ovvio il primo so-gno è quello di scappare. Almeno fino un po' sopravvivi: duescelte al bivio adolescenziale: ti omologhi, o resisti. Diventimassa o sei pronto a dare guerra. Da grande puoi scoprirela via della vergogna, allora ti spegni e la storia finisce qua.La mia sì. Ma non quella di Giulia.«...Stavo in un posto dove tutto suonava ugualePoi c'ho messo l'anima ed è diventato specialeNon lo faccio per la fama ma per dare caloreSe sorridi a ste parole tutto sembrerà migliore...»Mi sono sempre chiesta se sia la musica a far battere il cuoreo il cuore che in un certo senso dia il ritmo alla musica. Pergiorni ho fissato il soffitto ammuffito della solita camera ri-petendomi questa domanda fino allo sfinimento. Che si tro-verà mai una risposta? Nell'attesa che i cosmici dubbi par-toriti da questa mente inutilmente lamentosa si tramutinoin certezze, ecco che Il giovane Holden e il buon vecchio Sa-linger sono piovuti nuovamente, come gocce di colore sulletele di Pollock, nella mia vita. E precisamente sono tornaticon questa citazione:«Quelli che mi lasciano proprio senzafiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tuttoquel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per lapelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gi-ra.» (capitolo III). Io penso che non solo i libri facciano que-sto effetto, ma pure le note, le canzoni, i testi allucinanti esognanti di un brano che dura poco più di un sorriso attesoda secoli. Che poi quando tutto questo vortice emozionale

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ti capita all'improvviso da qualcosa di inaspettato è come sesi spalancasse una porta su un'eternità sconosciuta prima.Vibrations. Tenetevi forti lettori se vi dico che chi conoscela ricetta per amalgamare questi ingredienti potrebbe esse-re la vostra vicina di casa. O una ex compagna di classe. Osemplicemente un'amica che non vedete da tanto tempo. Ola figlia di amici. O una concittadina prima schifata, odiatae ora magari riconosciuta con ipocrisia. Se vi dico che Giulia,alias Mc Nill, è una delle più grandi sorprese del rap italianoche vive fuori dai cliché, e proviene nientemeno che dallanostra odiatissima, apprezzatissima, santissima regioneUmbria, siete disposti a crederci?«Sono convinta che le cose possano cambiare ma che in Umbriac'è troppa gente che si lamenta ma alla fine si accontenta»I testi di Mc Nill la prima volta che li ascolti sono un sordopugno alla bocca dello stomaco. Contengono un'alta dose direaltà talmente condensata in poche parole che quasi si rie-sce a toccare con mano. Impossibile pensare che ogni rimanon sia stata sudata, vissuta, sofferta, amata. «Ho trovato nella musica la mia più grande amante»L'ascolto dell'Ep Rap da Block forzatamente ti lascia qualco-sa dentro così come parlare con l'“autrice” di questo lavoro,Giulia. Giulia o Mc Nill non ho trovato differenze, comespesso molti artisti di più ampia fama c'abituano. Essere inun modo per la gente e esserlo in un altro nel privato, per-ché si recita una parte, un copione prescritto dalle divinitàdel mondo moderno, fama e soldi su tutte. In questo modopersonale e diretto di vivere la musica e le sue sfumature daparte di Giulia, ho rivisto buona parte di un certo Bukowski,il poeta scrittore che amava dire a proposito dell'arte «senon ti esce tutto da dentro cosa lo fai a fare?». «Non sono nessuno per impormi come giusta e/o perfetta pe-rò, se riesci a sentire quello che sento quando rimo, quandosono su un palco, se riesci a percepire il mio amore per l'hiphop allora magari mi sostieni»La nostra artista, come anticipato, è umbra doc. Questa èstata la seconda cosa che più mi ha colpito dopo la sua mu-

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sica. Vi chiederete perché, e io vi dico che è difficile e facileallo stesso tempo rispondervi. L'Umbria è una terra in cui ècomplicato crescere, perché il futuro troppo spesso affoganel passato, dove le tradizioni di pensiero unite a ipocritipregiudizi sopravvivono alle generazioni. Dove ancora fascandalo avere malattie mentali, problemi di tossicodipen-denza, gravidanze senza matrimonio o essere omosessuali.«Parto dalla convinzione che la gente attacca spesso ciò chenon conosce (...) Cerco di far capire che non ci si deve fermarealle apparenze, la vita (esattamente come un testo scritto) seanalizzata può svelare cose che non si notano nella vita frene-tica di tutti i giorni. La musica dal punto di vista personale poisicuramente è stato un mezzo per resistere alle pressioni di unambiente sociale che mi ha sempre ritenuta inadatta.»Giulia la sua omosessualità non la nasconde, ma nemmenote la sbatte in faccia. La vive come è normale che sia. Nientedi cui stupirvi direte voi. Se sei umbra sì. Normalmente i ra-gazzi che vivono qui, quelli che cercano di andare oltre, diaprirsi al mondo di darsi più di qualche squallida possibili-tà, qua nelle nostre piccole città medievali non hanno vitafacile e spesso perdono i sogni per strada o peggio ancorase stessi e nel tempo diventano bigotti e vendicativi più emeglio dei loro avi. Chi ci riesce scappa e non torna più. Otorna giusto per le feste, giusto per i saluti, giusto per i titolidi coda. Pochi hanno il coraggio di restare o ritornare e cer-care di cambiare le cose. Giulia insieme alla sua musica cre-do sia una delle poche.«Tra me e questo ambiente non ho mai cercato di metteredelle mura, ma di creare dei veri e propri ponti. Per me tor-nare in Umbria significa staccare dalla vita frenetica e riab-bracciare le persone a cui tengo che sono ancora qui ma èanche brutto vedere che poco e niente è cambiato e che spes-so se si erano fatti dei passi avanti poi qualcuno ne ha rifatti100 indietro è bello vedere che ci sono giovani che seguonoil mio esempio ma fa schifo vedere chi ha mollato perché sì"che fico, facciamo i diversi" ma se poi non hai le palle "farei diversi" pesa»

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Parole da aggiungere ce ne potrebbero essere a centinaia masarebbe solo un esercizio di stile. Piuttosto se vi è nata, con questo articolo, un po’ di curiositàvi invito, nient'altro, che ad un ascolto selvaggio di Rap daBlock. See ya.

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NinaC'è un lungo filo d'amore che lega la mia casa ad unosperduto paese dell'est, Kosticovici in Bielorussia. E’ unfilo lungo centinaia di chilometri, migliaia di metri,15anni, 5475 giorni e più, perché il tempo passa e passaveloce. Nina è arrivata a casa nostra in un caldo giugnodel 1997, piccolo essere sperduto, pulcino infreddolitosenza piume, aveva allora poco meno di 9 anni e vivevagià da tempo in istituto. Avevamo aderito al progettoChernobil senza tanto pensarci... ospitare un bambinoper un mese a casa nostra non era poi cosi sconvolgentee poi le avevo viste quelle bambine bielorusse tutte bion-de tutte carine... e cosi avevo specificato nella domanda"bambina". Quel giorno sono scesi tutti dal pullman, tut-ti biondi tutti carini, maschi e femmine... alla fine, quasidi nascosto, con timore, da sola mi hanno portato Nina.Il colpo è stato duro, da mozzare il fiato, la natura erastata proprio matrigna con questa sua figlia. A dentistretti e pugni chiusi mi sono detta - vai che è solo unmese ce la faremo passerà presto. Quanto mi sbagliavonon sapevo che quello era il primo passo di un lungoviaggio alla scoperta del mondo degli emarginati allascoperta della Bielorussia più sperduta, ma anche allascoperta di sentimenti nuovi inaspettati, inimmaginabiliprima alla scoperta di Nina. Nina mi ha insegnato chel'amore arriva all'improvviso senza regole, senza limiti,senza età e non c'è più scampo. E' piombata nella mia vi-ta in una pacata serata di giugno, e come un pugno nellostomaco mi ha lasciato per un po’ senza fiato. Come uncagnolino randagio impaurito e bagnato sotto la pioggia,bambina stanca e affamata che chiedeva solo amore. Einvece amore ha dato a piene mani e ha riempito i nostricuori, la nostra casa... Sento le sue risate squillanti, isuoi passi allegri di bambina, la sua voce... E aspetto chetorni. Per tutti questi anni è venuta tre mesi in estate euno a Natale, è diventata piano piano la nostra terza fi-glia e crescendo si è fatta quasi carina, almeno ai nostri

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occhi, educatissima e molto affezionata a tutti noi. Il suoarrivo che coincideva con l’inizio dell'estate e con il Na-tale era sempre una festa. In Bielorussia viveva in istitu-to con qualche piccolissima parentesi presso la mammaalcolizzata così, in un certo senso, è stata protetta e con-trollata fino a 20 anni. I problemi sono cominciati quan-do da lì è uscita... sola in un piccolo monolocale datodallo Stato e un lavoro nelle stalle e nei campi di unacooperativa agricola statale e una piccola paga giustoper sopravvivere. Ma io ero tranquilla, pensavo che mainessuno avrebbe potuto importunare quella ragazza, vi-sto il suo aspetto; ogni mese le mandavo qualche europer farla vivere in modo decente, aveva il suo cellulare,la televisione, aveva messo le tende alle finestre. Ma ungiorno di marzo di tre anni fa una telefonata... era Ninamolto agitata mi dice che vuole venire subito a casa danoi per sempre (glielo avevamo chiesto tante volte maaveva sempre detto di no). Un po’ increduli abbiamo fat-to il biglietto aereo e dopo pochi giorni Nina era da noi.Ma non era lei nervosa, stanca, preoccupata. Non ci è vo-luto molto per capire che era incinta e che era tornata acasa a chiedere aiuto. Forse quel piccolo benessere ave-vano attirato Anton, suo compagno d’istituto da sempree suo compaesano. Dopo tre mesi, alla scadenza del per-messo di soggiorno, se ne è tornata in Bielorussia con ilsuo pancione, ma rassicurata, tranquilla. Poco dopo ènata Victoria, una bella bimba bionda tutta suo padre.L’ho vista per la prima volta questo anno all'aeroportodi Fiumicino, e' ritornata. L’anno scorso non ci eravamoviste perché Victoria era troppo piccola per fare il viag-gio ed io avevo Antonio mio marito gravemente malato,malato terminale. Ero molto contenta di vederle, di aver-la a casa insieme alla sua bambina, una festa... ma è du-rata pochi giorni. Nina era stanca, molto, allevare una fi-glia da sola è dura soprattutto per una come Nina... per-ché Anton era sparito subito dopo la nascita di Victoria,mi dicevo. Ma non mi ci è voluto molto per capire anche

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questa volta che era di nuovo incinta (e di un altro), chetristezza che delusione... tu sei italiana e io bielorussadiceva e lo diceva anche quando era piccola se si arrab-biava con me. E se ne è andata con il suo pancione e Vic-toria per mano all’aeroporto di Fiumicino. Ha partoritoun bel maschietto ad ottobre, lo ha chiamato Zima. Ierimi ha chiamato "mamma non ti arrabbiare, io non ho fat-to niente, non è colpa mia". le hanno tolto i bambini, tut-ti e due affidati a case famiglie, è rimasta sola... Piangevae come sempre nel bisogno ha cercato me, la mammaitaliana, ma questa volta non so proprio come aiutarla.Che Dio me la protegga... e aspetto che torni. Ti vogliobene Nina... un bacio, mamma.

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Fuori uno(da Giovinezze)

Poesia arranca sulla piastra cocented’acciaio fumoso

sotto fredde gocce d’acqua :sfrigola e schizza pepe arrogantesulla morbidezza di dolci sapori.

Tra richieste incalzantie dimesse accuse d’imperizia,farò come chi prende e tace,

offre dita titubantia dubbia intesa con gesti acquisiti,ripone in salse piccanti e carni unte

l’inopportuna domanda, quandoil tempo diventa solo brusio impaziente

di delusi avventori.Faranno come chi mastica e ride,

sottrae musica allegra agli angoli scuricol tintinnare di concilianti posate,

la raccoglie impastando bocconie digerisce note frizzanti.

Poesia corre dal panno umidoalle molliche sul tavolo stanco,si scioglie tra semplici unguenti

e sulla bocca socchiusafinché sarò come chi guarda e tace,stringendo il pugno vuoto di odori.

Poesia, l’hanno stesa bene accanto al piattodopo il lauto pasto.

Alla sagra, d'estate(da Vapori)Fuori di te

Come sprazzo attonito.In ogni respiro

siamo ciòche al di là

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RM

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di noi non ha confine,

la nuda struttura della claudicanza.Ad ogni passo

inciampa la nostra storia,storia di storie

storia fra le storie.In essa ci siamo cercati,

trovandocinon siamo piùcome chi cerca,

camminiamo a testa drittacome colui che accetta

ciò che trova.Non amiamoné odiamo,

viviamoper perpetuare

una stirpe di ignoti.

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ClessidraIl tempo che scorre sembra tornare indietro,

si rinnova nel lento ma continuo fluire della sabbia.

Bugiarda!

Le ore che scorrono non si rinnovano,la sabbia morbida, che forma dune

perpetuamente identiche, lasciaprofondi solchi sul mio visoe scava buchi nel mio cuore.

TalentoÈ come il ventonessuno lo vede

eppure sa essere travolgentee, a pelle, si sente.

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AN

NA

RIT

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Supplemento del periodico Piazza del GranoAutorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009

via della Piazza del Grano n. 11 - Folignoe-mail [email protected] presso GPT Srl - Città di Castello

febbraio 2012

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La critica marxista deve porsi questa parola

d’ordine: studiare, e deve respingere ogni pro-

duzione di scarto e ogni arbitraria elucubra-

zione del proprio ambiente. ! Il partito deve

quindi pronunciarsi a favore della libera com-

petizione dei vari gruppi e delle varie correnti

in questo campo. Ogni altra soluzione sarebbe

una pseudosoluzione burocratica.

Lev Trotsky