ora sì che il sole è alto su nel cielo
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Racconti http://parolescritteavoce.wordpress.comTRANSCRIPT
Presentazione
Scritti nel 2014, i racconti qui contenuti
sono nati da piccole cose - un'immagine, una
statuina di cera, un ricordo - che mi hanno
ispirato il desiderio di scrivere storie brevi,
semplici, adatte a lettori di varie età. Spero
di esserci riuscito.
Questi miei racconti sono stati protagonisti,
durante la stagione radiofonica 2014-15,
della trasmissione Dentro il cuore di ogni
giorno che conduco per Radio ECZ e in
seguito pubblicati su
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parolescritteavoce.wordpress.com, il blog
dove, oltre a trovare riferimenti per
ascoltare le singole trasmissioni, si possono
leggere altri miei recenti scritti.
Annibale.
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NOTA
Gli scritti contenuti in questo libretto
(e il disegno di copertina)
possono essere liberamente condivisi
(fotocopiati, letti ad alta voce, etc.),
a patto che:
- sia sempre citato il nome dell'autore;- siano condivisi senza fini di lucro;
- siano mantenuti integri nella forma e nelcontenuto.
Ogni altro diritto è riservato salvo esplicita autorizzazione dell'autore.
https://parolescritteavoce.wordpress.com
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Eston e Moma
C'erano una volta un pappagallo e una
scimmietta, che si chiamavano Eston e
Moma. Erano amici da molto tempo, fin da
quando erano piccoli, poiché le loro mamme
avevano costruito nido e tana su due rami
affiancati dello stesso albero. In effetti
anche le mamme erano molto amiche e
abitando così vicini i due piccoli si vedevano
tutti giorni. Giocavano a fare la lotta, a
inseguirsi sui rami dell'albero, a chi faceva il
verso più strano. Una volta diventati più
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grandi preferivano andarsene in giro
insieme per la foresta, il più delle volte in
volo, con Moma a cavalcioni di Eston. Ogni
tanto facevano a gara a chi arrivasse per
primo al fiume, il pappagallo volando a tutta
birra e la scimmietta saltando fra liane e
alberi. Alla fine non vinceva nessuno dei
due, perché ogni volta arrivavano nello
stesso momento e questo li divertiva molto.
Il gioco che però amavano di più era
cantare insieme. Dopo aver volato un po' o
aver corso a perdifiato, si mettevano su un
albero e cominciavano a cantare le canzoni
imparate dalle loro mamme o da altri
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animali della foresta. Appena intonavano una
canzone intorno a loro si faceva silenzio,
tutti fermavano le loro attività e si
mettevano in ascolto. Dopo qualche minuto
però cedevano al più forte desiderio di
unirsi a quel canto. Quello che all'inizio
poteva dirsi un concerto di artisti davanti al
pubblico, diventava un unico grande coro a
cui si univano sempre più voci, facendo
vibrare tutta la foresta.
In quelle occasioni i minuti, le ore e le
giornate passavano velocemente e la sera
sopraggiungeva senza che nessuno se ne
accorgesse. Quando Eston e Moma
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rientravano a casa, le loro mamme li
sgridavano per essere tornati così tardi, ma
poi sorridevano sapendo che i due giovani,
per farsi perdonare, avrebbero cantato una
canzone tutta per loro.
Dopo quei momenti di intrecci di voci, la
notte passava tranquilla e serena, mentre i
grilli e gli altri animali notturni
continuavano a cantare sommessamente per
non disturbare chi stava dormendo.
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Fransisco e Barro
Il giorno era iniziato. Il sole cominciava a
illuminare tutte le cose. Gli insetti, gli
uccelli, le scimmie e gli altri animali erano
in attività già da quando il cielo aveva
cominciato a rischiararsi. C'era chi invece
non aveva la minima intenzione di svegliarsi:
il bradipo, socchiudendo ogni tanto gli occhi,
si era reso conto dell'inizio del nuovo giorno,
ma continuava a sonnecchiare a cavalcioni
del ramo su cui si era messo la sera prima.
Ad un certo punto sentì che qualcosa lo
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colpiva sulla testa e una vocina rapida,
familiare e assolutamente antipatica gli dava
il tormento:
"Ehi Fransisco! Non è ora di alzarsi? Non
vedi che il sole è già alto? Su forza, in
piedi! Non è più tempo di dormire!".
Al che il bradipo, con somma calma, non
fece altro che mettersi sotto il ramo su cui
stava, aggrappandosi saldamente con le sue
zampe uncinate per non cadere di sotto.
Non passò molto tempo quando sentì che
qualcosa era caduto sulla sua pancia e quel
qualcosa aveva la stessa voce che poco
prima lo stava tormentando. Alzando la
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testa e aprendo gli occhi si rese conto che
si trattava di Barro, l'amico scoiattolo che
ora stava a pochi millimetri dal suo naso.
Aveva le guance talmente piene che
Fransisco pensò che gli sarebbero scoppiate
sul muso.
"Maaaa..." iniziò a dire il bradipo chiudendo
di nuovo gli occhi.
Visto che non continuava, due secondi dopo
Barro disse a gran velocità:
"Ma cosa? Cosa vuoi dirmi? Ehi? Allora?
Guarda che io non ho tutto il giorno per
darti retta! Su, sveglia amico mio, dimmi
dimmi!"
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Inondato da quella mitraglia di parole
Fransisco avrebbe voluto rispondere a tono,
ma preso un bel respiro riuscì a dire ciò
che voleva dire con la sua solita lentezza:
"Com'è che hai le guance così gonfie? Non
vorr..."
Senza dargli tempo di continuare, lo
scoiattolo con tono un po' risentito rispose a
raffica:
"Be' caro mio, è già dall'alba che io lavoro!
Non ho mica tempo da perdere io, ho una
famiglia da sfamare e i miei piccoli non
farebbero altro che mangiare. Per cui io,
mentre tu continui a sonnecchiare, ho già
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fatto scorte fino a domani mattina. Vuoi una
nocciolina?" disse ficcandosi una zampetta in
bocca e allungandola poi verso l'amico
bradipo.
Fransisco si rese conto di avere fame, ma
visto da dove proveniva l'offerta dello
scoiattolo, girò la testa con un certo
disgusto.
"Vedi un po', una in più per me" disse Barro
rificcandosi la nocciolina in bocca. Poi
girandosi per andarsene aggiunse:
"Be' amico mio, vorrei restare qui a fare
conversazione con te, mi farebbe molto
piacere, ma come ti dicevo prima non ho
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tempo da perdere e quindi è meglio che
torni alle mie faccende. Se passo ancora da
queste parti ti faccio un fischio. Intanto
vedi di alzarti e darti una mossa!"
Fransisco non aveva sentito granché delle
ultime parole dello scoiattolo, perché appena
questi fece i primi passi, si riaddormentò
profondamente; la velocità di parola
dell'amico scoiattolo a quell'ora di mattina,
lo aveva stancato non poco.
Si risvegliò dopo qualche ora. "Ora sì che il
sole è alto su nel cielo" pensò riaprendo gli
occhi. Ricordando di aver fame già da un
po', con la sua solita calma afferrò le foglie
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del ramo a cui era appeso e se le mangiò
masticando lentamente e a lungo, tanto
lentamente e a lungo che finì per
riaddormentarsi.
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La tartaruga e lo scarabeo
Nel grande giardino di una casetta costruita
nel bosco, viveva da molto tempo una
tartaruga. Faceva una vita molto tranquilla,
pienamente soddisfatta. Passava le sue
giornate andando a passeggio di qua e di là
senza mai uscire dal recinto che circondava
il giardino; di cose da vedere ce ne erano a
sufficienza senza bisogno di avventurarsi
nel bosco. Quando aveva fame bastava che
si dirigesse verso l'orto, dove poteva trovare
tutto ciò che voleva e che le piaceva. Be',
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non proprio tutto, perché poteva cibarsi solo
delle verdure che si trovavano al di fuori
della rete che proteggeva il resto dell'orto,
riservato ai padroni di casa. Quando poi si
sentiva stanca e aveva voglia di dormire si
fermava in un qualsiasi punto del giardino e
si ritirava nella sua corazza.
A volte era talmente stanca che capitava si
addormentasse a pochi centimetri da dove
aveva appena fatto i suoi bisogni.
L'inconveniente era che il loro odore, non
certo gradevole, la faceva risvegliare prima
del tempo. Una di quelle volte però le capitò
di risvegliarsi come se avesse dormito per
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tutto il tempo necessario. Ne fu sorpresa e
quindi si girò a guardare dietro di sé: si
accorse in effetti che i suoi bisogni erano
già spariti. Forse i padroni di casa avevano
già fatto pulizia, pensò la tartaruga. Mentre
faceva questo pensiero vide con la coda
dell'occhio uno scarabeo che correva
all'indietro a tutta velocità spingendo con le
zampe posteriori una pallina scura grande
più del doppio di lui. Che sta facendo quello,
si chiese la tartaruga. Cose strane
succedono oggi nel mio giardino, si disse
mentre continuava a guardare lo scarabeo
che si allontanava e decise che avrebbe
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indagato. Andò a dormire presto quella sera
così da essere sicura di non addormentarsi
il giorno dopo. Svegliatasi di mattina presto,
si nascose fra l'erba alta, in un punto in cui
poteva tenere d'occhio gran parte del
giardino. Non passò molto tempo quando
vide giungere lo scarabeo, stavolta
camminava in avanti. Girò un po' per il
giardino in cerca di chissà cosa. Poi, visto
che non trovava ciò che cercava, si diresse
verso il retro della casa ed entrò in una
specie di vasca dove i padroni mettevano i
bisogni della tartaruga, forse in attesa di
liberarsene tutti insieme. Dopo qualche
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minuto ecco lo scarabeo uscire da quella
vasca spingendo una pallina scura, ancora
più grande di quella del giorno prima. A
quel punto la tartaruga uscì pian piano dal
suo nascondiglio e urlò lentamente allo
scarabeo: "Ehi tu, che cosa fai con i miei
bisogni?".
"Per ora mi diverto un mondo a farli
rotolare!" rispose lo scarabeo salutando
allegramente. Tempo pochi secondi e la
tartaruga lo vide sparire oltre il recinto del
giardino. Veloce come il vento, pensò la
tartaruga, domani bisogna che lo fermi
prima che vada nella vasca.
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Il giorno dopo, appena sveglia, la tartaruga
fece provvista di cibo e si piazzò proprio
davanti alla vasca dei bisogni. Quando
arrivò, lo scarabeo salutò cordialmente la
tartaruga, ma non diede l'idea di volersi
fermare. A quel punto la tartaruga riuscì a
bloccarlo con una zampa e con voce non
troppo gentile disse: "Si può sapere che ne
fai dei miei bisogni?".
Lo scarabeo con voce un po' strozzata
rispose: "Te l'ho detto ieri, mi diverto a
farli rotolare".
"Sì, ho capito" insistette la tartaruga "Ma
poi cosa ne fai?".
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"Beh, che domande, ci costruisco la mia
casa!" rispose lo scarabeo cercando di
alzare un po' la voce. La tartaruga,
lasciando libero l'insetto, cominciò a ridere
a crepapelle, tanto da non riuscire a
completare ciò che voleva dire:
"Tu… Ah ah ah… Costruisci… Ah ah ah… Con
la mia cac… Ah ah ah…".
"Be', cara mia, sapessi quanto è resistente e
sicura" rispose lo scarabeo mentre la
tartaruga continuava a ridere a più non
posso "Tanto tu non la usi più e non so cosa
possano farsene i tuoi padroni. Io riesco a
farmi una casa. Certo non ha un gran
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La Rosa di Gerico
Ah, quanta gente conosco nel corso degli
anni! Quante famiglie incontro di
generazione in generazione! Un sacco di
persone conosco nel corso della mia vita.
Sempre che sia vero quello che si dice su di
me… Chi sono?! Oh scusate, non mi sono
presentata, io sono la Rosa di Gerico. Cosa si
dice su di me? Che… Sono eterna! Che non
muoio mai! Perché?! Ma io non lo so il
perché! E sinceramente non mi interessa
granché saperlo. Il fatto è che io sembro
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tutta rinsecchita e appallottolata senza vita,
ma basta darmi un goccio d'acqua, anche a
distanza di settimane e addirittura di mesi,
e io rinasco, mi apro, mi stendo, sgranchisco
i miei rametti e mostro a chi mi guarda
tutto il verde che racchiudo. Poi quando
l'acqua si esaurisce, torno a sembrare un
cespuglietto rotondo e secco, una specie di
palla un po' bruttina secondo qualcuno. Ma
quest'idea della palla a me non piace molto,
perché quando sono chiusa io mi vedo più
che altro... fatta a forma di cuore. Non
trovate? In effetti mi sento un cuore che
sta sempre in ascolto ed è pronto ad aprirsi
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quando qualcuno glielo chiede. Che sia
chiusa o che sia aperta io sento tutto quello
che succede intorno a me. Sembra che io sia
ferma, muta e immobile, ma mi accorgo
proprio di tutto. So se c'è qualcuno che sta
male, qualcuno che scoppia di gioia,
qualcuno che alza la voce o che dice parole
gentili a qualcun altro. Potrei raccontarvi un
sacco di storie se aveste molto tempo, anzi
moltissimo tempo, per ascoltarle. Sì, perché
finora sono passata tra le famiglie di almeno
dieci generazioni e tutte mediamente
numerose, con figli, sorelle, nipoti, cugini,
zie, pronipoti. Quindi immaginate quante
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storie avrei da raccontare, ma visto che il
tempo è sempre limitato, cercherò di
raccontarvene almeno una.
In una grande veranda luminosa, vivevano
con me un ciclamino e una primula. Non
provavano molta simpatia l'uno per l'altra;
almeno così sembrava, perché non passava
giorno che non discutessero e litigassero
per le cose più stupide di questo mondo. A
turno, improvvisamente, ognuno diceva che
cosa credeva riguardo a questo o a quello, e
puntualmente l'altro ribatteva che credeva
esattamente l'opposto. E andavano avanti
per minuti e minuti, a volte per ore, a
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difendere il proprio pensiero e a dire "tu
non capisci che", "cosa vuoi mai sapere tu",
"non stai sul filo del ragionamento", "sei
semplicemente una bastian contraria", "sei
un ipocrita" e via di questo passo. Per me,
che ero proprio in mezzo ai loro vasi, era
un vero strazio, finché arrivata al limite
della sopportazione cominciavo a cantare a
squarciagola una filastrocca senza senso e
riuscivo a far smettere quel ping pong di
parole e di voci.
"Ma possibile che voi due" dissi arrabbiata
un giorno "su ogni argomento che prendete
in considerazione la pensiate uno l'opposto
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dell'altra? Non vi viene mai l'idea, il
pensiero, il dubbio che qualche volta
potreste pensarla allo stesso modo?".
"Be'..." iniziò a dire il ciclamino "sì… qualche
volta…". "No…" disse invece la primula
"sempre, se si tratta di un argomento
specifico…".
"Sì, in effetti su un solo argomento siamo
pienamente d'accordo" rincalzò il ciclamino.
Poi visto che si guardavano di sottecchi e
non dicevano niente chiesi un po' stizzita:
"Qual è questo argomento? Me lo volete
dire?".
Loro si guardarono di nuovo e poi in coro
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risposero così: "Che tu dovresti lasciarci
discutere e litigare in pace e se questo ti dà
fastidio fatti portare in un'altra stanza!".
Be'... era l'ultimo argomento a cui avrei
pensato, ma finalmente avevano espresso
entrambe lo stesso pensiero. Un'ora dopo,
non ci crederete, Anselmo - a quel tempo
bambino di sei anni, oggi nonno di sei nipoti
- mi prese e mi portò in giardino. Mi mise
al centro di un bellissimo tavolo posto sotto
una grande magnolia. All'aria aperta capite!
E lì sono ancora oggi, in amabile compagnia
della luce del sole e della frescura della
pioggia.
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La campana del vento
Ho un buon rapporto con il vento, mi fa
cantare e sperimentare armonia più di
chiunque altro. Certo qualche volta esagera
e mi sento un po' troppo sballottata. Il
canto non è male, ma si fa più frenetico e
rapido e subito dopo mi sento stanca.
Molto meglio la brezza che soffia leggera,
delicata, senza mai spingere. Con lei il canto
è tranquillo, fatto di note sparse, di suoni
allungati, di pause. E poi è come se fossi su
un dondolo, ondeggio pian piano e mi rilasso.
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Fosse per me starei sempre con la brezza o
al massimo con il vento non troppo forte.
Ma d'altronde bisogna prendere quello che
viene, non è che basta pensare
intensamente ed ottengo il soffio che mi fa
stare meglio. C'è da ringraziare la rosa dei
venti quando posso cantare e risuonare,
perché a volte non c'è il più piccolo soffio
d'aria.
Mi è capitato, per fortuna poche volte, di
avere a che fare con venti molto forti. Mi
hanno spinto di qua e di là, mandato a
sbattere contro il ramo a cui ero appesa e
più che cantare mi hanno fatto urlare di
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paura. Una volta sono stata suonata da una
tromba d'aria: mi ha fatto vorticare come
una trottola. È durato pochi secondi, per
fortuna, ma alla fine vedevo girare tutto.
Per parecchi minuti non ho capito più
dov'ero, né che cosa fosse successo. Poi mi
sono ricordata di averla sentita ridere
mentre diceva: "Adesso ti faccio fare un bel
giro". Be' io non mi sono divertita per
niente. Spero proprio di non fare mai più un
incontro del genere.
Una mia amica che vive sulle coste
dell'America mi ha raccontato che anche lei
ha incontrato una tromba d'aria. Solo che
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dalle sue parti la chiamano tornado e a
quanto pare è molto, molto più forte.
Talmente forte che la mia amica, più che
vorticare, è stata trasportata per chilometri
e chilometri. E poi si è ritrovata sbattuta in
cima ad un fienile in un posto sconosciuto.
Beh, direte voi, almeno è atterrata sul
morbido. Sì, ma che spavento! Poi tutto si è
risolto bene perché un bambino l'ha trovata
e, aggiustata qualche ammaccatura, l'ha
appesa sotto il portico della sua casa. In
ogni caso è una fortuna che io abiti da
queste parti. E da quando ho saputo di
quella brutta avventura, sono molto felice se
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posso cantare accarezzata dalla brezza e
cerco di non lamentarmi troppo se capita di
essere sballottata da un vento un po' più
irrequieto.
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Il nido
"Chissà com'è farsi il nido fra i rami di un
albero..." si chiese la passerotta abituata a
farlo sotto le tegole di un tetto. "Devo
chiedere alla mamma appena la vedo".
"Ah non lo so" disse la madre alla figlia
quando si incontrarono "io e tuo padre
l'abbiamo sempre fatto dove ora lo fanno
tutti e dove lo fai anche tu, sotto il tetto
dei nidi degli umani".
"Non avete mai provato a fare un nido su un
albero?" chiese allora la passerotta.
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"E perché avremmo dovuto farlo?" disse la
madre con le ali sui fianchi "Qui sotto siamo
al riparo dalla pioggia, dal vento, dal sole
quando scotta e i piccoli sono protetti.
Sarebbe un po' da stupidi rinunciarci, non
credi?".
"Forse sì…" disse pensierosa la passerotta
"Ma mi chiedo se i nidi degli umani siano
sempre stati fatti così".
"Ah questo devi chiederlo al vecchio Passero
Cantastorie" disse la mamma mentre
spiccava il volo "lui ne sa certo più di tutti
sugli umani".
"Cosa ne so degli umani!?" disse il
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cantastorie sgranando gli occhi
"Probabilmente anche più di loro. Ho
raccolto tante di quelle storie che per
raccontarle tutte avrei bisogno di decine e
decine di vite. Ma perché ti interessano
tanto?".
"Mi interessa sapere se i loro nidi sono
sempre stati così" rispose la passerotta.
"E perché mai dovrebbe interessarti?" disse
il cantastorie solleticandosi sotto il becco
"Vuoi fartene uno anche tu? Così grande?!".
"No, non è per quello" rispose ridendo la
passerotta "solo vorrei sapere se il popolo
dei passeri ha sempre fatto il nido sotto i
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loro tetti".
"E quando lo sai che cosa cambia?" chiese il
cantastorie grattandosi la testa.
"Forse niente" rispose la passerotta
dondolando un po' sulle zampette "ma mi è
venuta la curiosità di sapere com'è farsi il
nido tra i rami di un albero, come fanno
tanti altri uccelli".
"Ah, potevi dirlo subito!" disse il cantastorie
dandosi un colpetto d'ala sulla fronte "Non
servivano tanti giri di parole. Farsi un nido
su un albero richiede un po' di lavoro in più,
ma anche noi passeri un tempo li facevamo
tra i rami".
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"E perché adesso non li facciamo più?"
chiese la passerotta quasi interrompendo
l'altro.
"Perché dovremmo rinunciare a tutte le
nostre comodità!" disse Passero Cantastorie
aprendo le ali "Tu lo faresti?".
"Credo di sì" rispose la passerotta dopo
aver fatto sì con la testa alcune volte.
"Ah sì?" chiese l'altro socchiudendo gli
occhi. "Sì" disse convinta la giovane.
"Sì..., in effetti tu potresti farcela" disse il
vecchio passero dopo aver sorriso per
qualche istante in silenzio "il coraggio non ti
manca". Dopo qualche momento di
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riflessione, disse a gran voce: "E allora
avanti, provaci mia cara! Potresti addirittura
dimostrare che non è poi così difficile
tornare a farsi il nido come un tempo. E
anzi sai cosa ti dico? Se ci provi ti aiuterò
molto volentieri! Scegli l'albero e domani ci
mettiamo al lavoro".
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Zannino
Questa è la storia di un elefantino di nome
Zannino, che scoprì per caso di amare il
disegno e di essere molto bravo, perché i
suoi disegni piacevano non solo alla sua
mamma e agli elefanti del branco, ma anche
agli altri animali.
Beh, a dire il vero non fu proprio per caso
Zannino scoprì il suo amore per il disegno,
ma sicuramente in modo inaspettato.
Un giorno, mentre stava facendo il bagno,
vide in lontananza alcuni elefantini più
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grandi fare un gioco che sembrava molto
divertente: lanciarsi a tutta velocità su uno
scivolo di terra e poi tuffarsi nel fiume.
Allora chiese alla mamma il permesso di
andare a vedere più da vicino. La mamma lo
lasciò andare, ma gli raccomandò di stare
solo a guardare, perché era ancora troppo
piccolo per un gioco del genere. Zannino era
così impaziente di arrivare che correndo a
tutta velocità lungo l'argine, finì per
inciampare in un grosso sasso. Perdendo
l'equilibrio ruzzolò lungo tutto lo scivolo e
poi cadde dentro il fiume. Subito, gli altri
elefantini corsero ad aiutarlo e lo
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accompagnarono a riva. Lui piangeva
naturalmente, per lo spavento e certo per
qualche botta. Ma pianse ancora di più
quando un'elefantina gli fece vedere la
zanna che aveva perso cadendo. La prese
lentamente con la sua piccola proboscide e
poi singhiozzando disperato la lasciò
ciondolare sul terreno. Dopo qualche minuto
arrivò la sua mamma e vedendo che cosa
era successo, cominciò a coccolare Zannino
e a fargli carezze sulla testa. Ad un certo
punto notò che la zanna ciondolante del
figlioletto lasciava dei segni che
assomigliavano tanto alle onde create dalla
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corrente del fiume. La cosa le piacque tanto
e la fece notare a Zannino. Il piccolo
elefante smise improvvisamente di piangere.
Vedendo ciò che aveva fatto sorrise e fece
un piccolo barrito di gioia. Poi, armeggiando
di nuovo sul terreno con la sua piccola
zanna, disegnò se stesso con le gambe
all'aria. Quando ebbe finito gli altri
elefantini intorno a lui mormorarono
meravigliati; e così il resto del branco che si
era avvicinato. Non si era mai visto un
elefante che sapesse disegnare. Quindi
decisero di fare subito una grande festa.
Da quel giorno Zannino cominciò a
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disegnare tutti i giorni. I primi tempi
continuò a farlo sul terreno in riva al fiume.
Poi si accorse che intingendo la sua piccola
zanna nel fango poteva fare disegni sulle
pietre e sugli alberi e lì potevano essere
ammirati per molti giorni. Un giorno scoprì
anche di poter disegnare con diversi colori:
bastava schiacciare un po' di erba e
otteneva il verde, da fiori e frutti ricavava
il giallo, l'azzurro, il rosso e tanti altri
colori.
Col passare degli anni diventò sempre più
bravo, tanto che molti in tutta la regione
parlavano di lui. Altri invece, seguendo il suo
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esempio, iniziarono a disegnare. Avevano
trovato un modo per rendere ancora più
bello il mondo dove vivevano.
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La Pendola Matrona
In un grande salone di un palazzo antico
vivevano insieme tre pendole, quattro
orologi e dodici sveglie. Se ne occupava ogni
mattina il signore del palazzo, ma a parte
dare la carica o una veloce spolverata, non
faceva altro.
Quella che invece faceva in modo che tutti
facessero l'ora giusta era la Pendola
Matrona. Nessuno l'aveva incaricata di
svolgere quel compito, ma era la più antica
e quindi aveva molto da insegnare; in
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particolare su come segnare il tempo senza
sgarrare di un secondo, neanche quando la
carica stava per finire.
Svolgeva il suo compito con perfetta
regolarità. Ogni mezz'ora richiamava
all'ordine ogni sveglia, pendola e orologio
presente nel salone. Diceva di darsi una
mossa a chi restava indietro e di non
correre a chi andava avanti. Se uno o l'altra
non ticchettava al ritmo del suo pendolo,
contava ad alta voce ogni secondo che
passava finché l'altro non ritrovava il giusto
passo. Ma chi si era fermato se la passava
davvero brutta. Veniva richiamato a suon di
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rintocchi assordanti e poi obbligato ad
ascoltare la Pendola Matrona che raccontava
ancora una volta che lei, da quando era
nata, non aveva mai ceduto alla fatica e
sempre aveva trovato la forza per essere
precisissima.
Le altre due pendole la ammiravano
grandemente. Una diceva che voleva
diventare come lei, l'altra che sarebbe
diventata anche più brava ascoltando i suoi
consigli. Fra gli orologi e le sveglie c'era chi
non la sopportava, chi non se la prendeva
più di tanto e chi avrebbe voluto prendere il
suo posto. Ma al di là di tutto questo, la vita
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nel salone continuava come sempre,
segnando il tempo senza troppe sorprese.
Una mattina di giugno però successe
qualcosa di strano. Uno degli orologi
svegliandosi si rese conto che erano già le
8.15, secondo più secondo meno. Gli sembrò
strano visto che solito il primo controllo
dell'ora e del ticchettio avveniva alle 6 in
punto. Allora bisbigliando chiamò la sveglia
vicino a sé, che a sua volta svegliò l'orologio
a fianco e in pochi secondi furono svegli
tutti quanti. Tranne la Pendola Matrona…
Che mai sarà successo, chiedeva l'una
all'altro. È stata male, dicevano le pendole.
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Le è preso un colpo, disse una sveglia.
Ormai è vecchia, osservò un orologio. Che si
fa, chiesero altri. Furono tutti concordi nel
dire che bisognava svegliarla trovando il
modo giusto perché non si arrabbiasse. Ma
non servì perché sentirono che la Pendola
Matrona sbadigliava e subito dopo diceva
con voce assonnata: "Controllo delle sei".
"Ma… veramente…" disse una delle pendole
"sarebbero le 8.20…".
"No, è impossibile" disse la Matrona
svegliandosi del tutto "vi state sbagliando".
"No, guardi..." azzardò un orologio.
"Silenzio!!" rintoccò furibonda la Matrona
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"In tutti questi secoli non ho sbagliato di un
solo secondo! E quindi senza discutere vi
regolerete sulle ore 6, 2 minuti e 25
secondi!". E uno dopo l'altra tutti quanti
obbedirono.
Qualche minuto più tardi, entrò nel salone
come ogni mattina il signore del palazzo. Fu
stupito di vedere che pendole, orologi e
sveglie segnavano le 6.10, perché il suo
orologio da taschino faceva le 8.30. Non
sapeva che pensare. Ma dopo qualche
istante decise che era meglio regolare
l'orologio sull'ora della Pendola Matrona,
perché sapeva che era sempre giusta. "E
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visto che è ancora così presto" disse poi ad
alta voce "torno a letto a sonnecchiare
ancora un po'".
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Il gufetto che legge
Sapete cosa ho scoperto? Che il gufetto che
sta sulla mia libreria legge i libri. Vi sembra
strano eh? Adesso vi racconto com'è andata.
Qualche notte fa mi sono alzato per fare la
pipì. Appena uscito dalla camera mi è
sembrato di sentire un rumore provenire
dallo studio. Così mi sono fermato e ho
aperto bene le orecchie. Dopo qualche
secondo ecco di nuovo il rumore: era
qualcuno che rideva. Allora sono entrato
nello studio in punta di piedi. Appena
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superata la porta ho visto una luce sulla
libreria. Quando sono stato abbastanza
vicino mi sono accorto che era il gufetto,
con la mia pila accesa e un libro aperto.
Ecco che di nuovo l'ho sentito ridere. Non
potevo credere ai miei occhi né alle mie
orecchie. "Divertente?" ho chiesto senza
alzare troppo la voce.
Ma il gufetto si è spaventato e sussultando
ha fatto cadere il libro e rotolare la pila.
Appena ritrovato l'equilibrio si è girato
verso di me con le ali sui fianchi e gli occhi
quasi chiusi. Aveva sul becco un paio di
occhiali tondi che lo rendevano molto
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simpatico. Ma lui rimettendo a posto la pila
mi ha detto un po' arrabbiato: "Ti pare
questo il modo di spaventare la gente?"
Al che io ho ribattuto: "Ti sembra questa
l'ora di leggere?" E poi ci siamo messi a
ridere.
"Che cosa stai leggendo di così divertente?"
chiesi al gufetto.
"Un racconto di un certo Astolfo Boffani" mi
ha risposto guardando il libro a terra.
"E da quando ti piace leggere?" chiesi
raccogliendo il libro.
"Eh… Da un bel po'. Ho già letto tutti questi
libri e stasera stavo ricominciando da capo"
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mi ha detto come se fosse la cosa più
normale di questo mondo.
"Ma non c'è bisogno, ne ho ancora tanti
nell'altra stanza" ho detto subito, pensando
però che forse stavo solo sognando.
"Ah, grazie... come ti chiami?" mi ha chiesto.
"Astolfo... Boffani" ho detto arrossendo un
po', ma forse al buio non si è visto.
"Ah… Quello del racconto? Be' complimenti!"
ha detto mettendo le ali dietro la schiena.
"E tu hai un nome?" ho chiesto a mia volta.
"Certo. Sono Amilcare Dionisio Occhitondi"
ha risposto il gufetto con un inchino.
"Be' Amilcare Dionisio" ho detto dopo aver
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fatto un inchino anch'io "io ora devo proprio
andare in bagno e poi tornare a letto. Tu se
vuoi puoi dare un'occhiata ai libri nell'altra
stanza".
"No, grazie" ha detto lui sbadigliando "lo
farò domani. Fra poco farà giorno e mi
metterò a dormire".
"D'accordo. Allora buona notte" gli ho
augurato.
"Buonanotte" mi ha risposto rimettendosi a
leggere.
La mattina seguente, dopo essermi alzato e
aver fatto colazione, sono andato nello
studio per fare un saluto al gufetto. La
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