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Antologia Critica e Biografia di Ruggero Maggi Anche un viaggio di mille miglia comincia sempre con un solo passoLao Tzu Pierre Restany' PIU' VERO DI NATURA Ruggero Maggi viene definito come un outsider e, forse, questa parola può essere l'illustrazione più giusta della sua marginalità operativa. Dall'inizio degli anni 70 in poi, Maggi ha iniziato una ricerca apparentemente eclettica, ma di fatto totalmente legata ad una logica interna e ad una visione di perfetta e totale continuità.

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Antologia Critica e Biografia di Ruggero Maggi

“Anche un viaggio di mille miglia comincia sempre con un solo passo”                                                                                       Lao Tzu

 

 

 

Pierre Restany'

PIU' VERO DI NATURA

Ruggero Maggi viene definito come un outsider e, forse, questa parola può essere l'illustrazione più giusta della sua marginalità operativa. Dall'inizio degli anni 70 in poi, Maggi ha iniziato una ricerca apparentemente eclettica, ma di fatto totalmente legata ad una logica interna e ad una visione di perfetta e totale continuità. Il suo lavoro è di natura linguistica. Le sue opere derivano da una ricerca sul linguaggio basato su una dialettica elementare e primaria. Il suo linguaggio combina elementi di alta tecnologia con i materiali primari ed elementari, il primitivismo con la sofisticazione. Cemento, legno, fotografia, ologrammi, neon, laser, pittura, scultura, installazioni, performance: l'opera di Ruggero Maggi è legata ad un approccio etico del

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linguaggio. L'universo dell'artista è l'universo della morale. Il terreno della sua attività linguistica è il mondo della filosofia dell'azione.

E' certo che parlare dell'artista come di un essere morale non vuol dire farne un moralista. La morale di Ruggero è la morale di un'azione umana, cioè la morale dell'essere umano in azione. L'approccio linguistico del mondo artistico della morale implica una visione generosa dell'Uomo. E' addirittura un Umanesimo. Parlare dell'artista come di un umanista rende oggi, in piena società industriale e, attraverso lo schema analitico della condizione post-moderna, un senso del tutto diverso da quello della tradizione scolastica. Il suo umanesimo si volge proprio all'immagine ed alla misura della sua umanità. Non è a caso che, da Hiroshima all'Amazzonia, l'artista abbia affrontato delle situazioni e dei temi legati al destino profondo dell'Uomo, al suo ruolo ed alla sua funzione sul pianeta.

L'opera di Ruggero Maggi è una lotta perpetua contro l'ingiustizia umana. La sua dimensione strutturale è il vero. L'artista, dall'inizio del suo impegno, ha assunto una sfida fondamentale: la rivoluzione della verità! Il criterio fondamentale dell'estetica di Ruggero Maggi è il vero. Il vero che si sostituisce al bello, al bello dei canoni tradizionale dell'Arte. Sostituire il vero al bello implica un concetto rivoluzionario del vero e il vero dell'artista non è certo il prodotto delle constatazioni, delle osservazioni ineluttabili dell'evidenza. Il vero di Maggi è un sistema di apparenza. Se il vero è apparenza, questa realtà vera non si può rappresentare. Infatti tutta l'opera di Maggi è un'opera di presentazione del vero e non di rappresentazione. Il passaggio dalla rappresentazione alla presentazione caratterizza il ritmo e la struttura essenziale del linguaggio. Presentare il vero nella realtà non è percepito dall'Uomo se questo vero si limita ad essere sé stesso. Per rendere il vero estetico, per rendere il criterio fondamentale del linguaggio artistico è necessario renderlo e presentarlo più vero di Natura. E' proprio in questo supplemento espressivo che risiede la chiave di lettura dell'arte di Maggi.

Rendere il vero più vero di natura vuol dire impegnarsi a dare all'azione umana la sua essenziale verità che è il dinamismo intrinseco della motivazione morale. Più il vero è percepito come tale, più viene presentato come più vero di natura, e più siamo nell'universo di un'estetica attiva, operativa, capace di creare gli elementi di una sensibilità armonica. Proprio questo senso della verità trova la base nella grande interrogazione del momento, nella grande sfida del gusto e della sensibilità. Siamo in una società totalmente satura di industrie. In questa società è necessario reinventare il rapporto fra l'Uomo e la macchina, e la macchina, oggi, è il computer. Ridefinire questo rapporto implica creare le condizioni giuste e vere di un dialogo tra due tipi di intelligenze: l'intelligenza artificiale e l'intelligenza dell'Uomo. E' proprio nel cuore di questo dialogo che si inserisce

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la ricerca linguistica di Ruggero Maggi. Ecco perché la sua ricerca è vera e si presenta come più vera di natura. Senza questo supplemento di anima anche la verità non sarebbe più credibile!

 

Pierre RestanyTRUER THAN NATURE

Ruggero Maggi is defined as an outsider and, maybe this best describes how he operates on the margin of the accepted forms. Since the early seventies, Ruggero Maggi has been researching and developing in apparently eclectic manner but, in fact, wholly supported by an inner logic and by a vision of perfect and total continuity. Ruggero Maggi's work is closely associated with language. His individual creations are derived from a research into language based on an elementary and primary dialectic. His language combines "high-tech" elements with primary and elementary materials: the primitive and sophisticated interrelated. Cement, wood, pictures, holograms, neon lamps, paintings, sculptures, installations, performances,. Ruggero Maggi's work is connected with an ethical approach to language. His universe is the world of morality. The basis of his linguistic activity is the world of philosophy of action; although to speak of the artist as a moral being does not mean he is a moralist. Ruggero Maggi's morality is the morality of human action. His linguistic approach to the artistic world of morality implies a generous vision of Man - perhaps, even speak a humanistic approach. Nowadays, to speak of the artist as a humanist in a highly industrial society and through the analytic paradigm of the post-modern condition, is to suggest a quite different meaning from that of scholastic tradition. Ruggero Maggi's humanism is directly related to the image and measure of his own humanity. It' not by chance that, from Hiroshima to the Amazon, the artist has coped with the innermost destiny of Man, his role and his function on our planet. Maggi's work is an everlasting struggle against human injustice. His structural dimension is represented by the truth. The artist at the beginning of his commitment accepts a fundamental challenge: the revolution of the Truth!Truth is the fundamental criterion of Maggi's aesthetics.Truth substitutes beauty, the concept of beauty of the traditional canons of art. Substituting truth for beauty implies a revolutionary idea of truth, and the artist’s truth certainly is not the product of the inescapable observations of evidence. Maggi's truth is a system of appearances. If truth is formed by appearances, this true reality cannot be represented. In fact, the whole of Maggi's work is a display of truth and not a representation. The passage from representation to display of truth informs the rhythm and essential structure of language.The display of truth in reality is not perceived by the Man if the truth is limited to his own being. In order to get aesthetical truth, to get the fundamental

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criterion of the artistic language it is necessary to present it as truer than Nature. And it is exactly in this expressive addiction where lies the key for reading Maggi's art.

To express truth as truer than Nature means to engage oneself to give to human action its intrinsic dynamics of moral motivation. The more truth is perceived as such, the more we are in the universe of an active aesthetics, an operational aesthetics, capable of creating the elements of an harmonic sensibility. Right this sense is truth finds its basis in the great question of the moment, in the great challenge to taste and sensibility. We are in a post-industrial society, and therefore in a society which has not gone beyond the industrial stage, but is wholly sutured with machines. In this society it becomes necessary to re-create the relationship between Man and machine, and today this machine is the computer. To re-create this relationship implies the creation of right and true conditions of a dialogue between two types of intelligence: artificial and human. And it's in the core of this dialogue that Ruggero Maggi's linguistic research is inserted. This is the reason why his research is true, and truer than Nature. Without this supplement of soul, truth itself would be no longer credible.

Pierre Restany

 

 

Ven.Ti bet

Tibet che dis-orienta, che sprigiona al suo intorno infinite e continue vette spezzate ad alta quota. Biancori dalle punte innevate che iniettano scaglie visive in un'estetica chirurgica di assoluta bellezza.

Anche senza averlo mai visto ciascuno ne contempla una chiara e immaginifica visione: si deve raggiungere ogni meta lentamente assaporando ogni fragile tassello di cielo bianco acido per poi piegarne ogni intensità in barattoli trasparenti con tappo a vite di metallo trasparente; occorre staccarsi dalle cose del mondo, essere così vicino al blu da disperdere ogni sussulto umano; preghiera, meditazione, mantra. Quando sei in altezze spergiuranti e cammini a capo chino, con il sole che spacca l'iride e spezza ogni inquietudine in sassi riflettenti, la compostezza è salva e puoi spacciare la tua fragile esistenza in gradevoli note di liuto. Non occorre anticipare i tempi, mai, e la tempesta dei venti decide cosa apprezzare come pasto principale e soporifero. Segui il tuo karma, sii compassionevole. Quante vite per raggiungere il Nirvana?

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Spesso intravedi delle feritoie per volare, scorri il sillabario e t'incarti con l’aiuto di una scienza che ti incarna di squame. Piccoli richiami, sporgi il naso per intuire sapori nevralgici e alzi il bavero per non far capire che il tuo collo è stato assoggettato al lauto affondo di prelievi negletti ceduti in opposizioni di linee simil-trasparenti con impreviste curvature d'aria dipinta. Partiture di tenui vibrazioni tattili passano in spine riflesse per scomparire in una rarefazione affettata di bianco. Il mondo è lontano, smarrisci il senso d'orientamento e un auspicio t'annienta in una millimetrica intensità atmosferica che spinge in raffiche lamate ogni ceĺlula fondativa, balìa indistinta di vortici furiosi.

“… Vi sono luoghi che appartengono alla pura geografia…, ma altri luoghi sono densi di una violenza simbolica, sono cerimonie della pietra… esorcismi del vento e delle nubi, sacri addobbi di brughiere, allegoriche tenebre di nebbia. …” (Giorgio Manganelli).

E’ una mostra sul Tibet e diventa quasi dottrinale immergersi nel poliedrico universo creato da una molteplicità di artisti che tiene insieme creatività individuale e collettiva. Tibet che obbliga la fantasia a un ritmo ferreo che non vuole abbandoni o dilazioni. La profondità di sguardo di chi fa arte coglie i luoghi e le forme che producono il massimo di emozionalità. E lo spirituale del Tibet è la dimensione che maggiormente si avverte comunque e a prescindere.

Quando l'arte è tanto lieve ti sazi delle sue esitazioni, di quell'innocenza di cui è ricca l'infanzia e che smarrisci irrimediabilmente nella perdita dei flussi di vita. Ti potrebbe bastare osservarla perché il solo sguardo t’imprima da preda. E' quell'estraneità del sentire che spiazza l'incostante servitù dell'intuito che giace dormendo, ma che si scuote appena ne sente il fruscio. E’ inutile cercare residui estetismi che potrebbero attrarre ignoti passanti perché la verità che smuove è quell'impulso sordo alle velleità, ma cedevole e sofferente al piacere della purezza che respira tra i rifugi di tentazioni inospitali. Rintocchi di campane sorde cumulano macigni di millenni di storia e le altezze sconfiggono le distanze. E’ inutile costruire muri, i venti non li puoi fermare, scuotono e trasportano dove più è il richiamo: Impara le regole, affinché tu possa infrangerle in modo appropriato. (Dalai Lama)

Quando nel fare artistico cammini in perniciose scomposizioni di altopiani ipercinetici, disseminate in vuoti diversi, non vuoi sapere dove sei e capti ogni sospiro come la cedevole vernice del tempo. E speri ci sia abbastanza cielo. Ruggero Maggi, curatore della mostra e autore dell’installazione, ha raccolto una pluralità d’artisti per un innato abbraccio al mondo. Le opere volteggianti sono Lung Ta, cavalli di vento.

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A 7000 metri d'altitudine tutto si muove attraverso delle onde, che sono fatte di alti e di bassi, d'intervalli, di pause e di silenzi. Qui il vento soffia profondo rendendo le cose temporanee e provvisorie, istante dopo istante, per diventare quasi emblema di un'attesa imperturbabile, di una forza indefinita e regale, leggera e forte che a volte può divenire violentissima.E’ forse questo che tutti gli artisti, collettivamente, propongono: la forza invisibile del vento e il silenzio della rarefazione. E un fitto dialogo tra lontananze e altezze vettive, un’opera collettiva capace d’inventare discorsi altri, un'opera che non detta criteri estetici, ma porta all’intuizione, alla distanza o assenza di distanza tra presente, passato e il più in là. Distanza non sempre individuabile perché spesso non sai distinguere tra ciò che incute paura e ciò che porta alla purificazione. Condividi la tua conoscenza. E' un modo per raggiungere l'immortalità. (Dalai Lama)

Ogni notte la banda delle onde lunghe suona concerti d'esistenze libere slegate dai lacci materiali. Bisogna solo ascoltare. Come l'arte. Piccole bandiere trasportate da venti di burrasca volteggiano come domande in cerca di ripari che possano placare le finite intrusioni. Spalanca le porte, l'arte entra ed esce anche se chiudi ermeticamente il chiavistello. E aspetti per un tempo ininterrotto qualcosa, e guadi, ascolti i mattoni che scricchiolano e progetti le tue distanze assaporandone le soglie imperfette. Sono canti di popoli interi. Piccoli ritagli di stoffa, pezzi di indumenti variopinti che attraverso il silenzio parlano e vincono. Forse le preghiere sono cosi, folate di venti, leggere, furiose, affamate e folli.

Donatella Airoldiper Padiglione Tibetprogetto ideato e curato da Ruggero MaggiPalazzo Zenobio, Venezia, 2017

 

 

COSE  NUOVE!

“La gente tende ad evitare le cose nuove, preferisce aggiungere dettagli alle cose vecchie. Così è semplice” - Andy Wharol.

La scorsa edizione della Biennale di Venezia era consacrata alle forze interiori, spirituali, intimiste, esoteriche, che muovendosi alla stregua di recondite molle spingono l’artista ad essere tale, ossia faber di creatività. Il “Palazzo Enciclopedico” diventava così metafora immaginifica del sapere totalizzante dell’arte; di un’arte che per essere tale non può però prescindere

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da attente osservazioni, da visioni, da sogni, da ideali, da utopie, in una parola: dalla ricerca di Libertà.

L’attuale edizione della rassegna espositiva veneziana è viceversa legata alla disamina della totalità degli impulsi esterni, di carattere sociale, politico, etnico, culturale, antropologico che fungono, anche in questo caso, da molla di creatività, da viatico di Libertà. Un punto di vista almeno apparentemente antitetico, rispetto alla precedente ricerca, in quanto l’indagine artistica parte dal tourbillon degli umani eventi, dagli impulsi esterni che quotidianamente ci coinvolgono e ci permeano, anziché salpare da una sottile ricerca nei meandri dell’uomo.

Antitetico dunque? E invece no. Perché la molla che muove il tutto è sempre la stessa, ossia l’anelito di Libertà; che essa sia mossa da impulsi esterni o interni, alla fine poco importa.

Libertà… che grande parola, che immenso concetto, propugnato per secoli, per ogni dove, e tutt’ora ricercato con veemente forza in molte aree del pianeta: dal Tibet all’Africa, dal Medio Oriente all’America Latina, ma potremmo continuare ben oltre. In sintesi: da Oriente a Occidente.Un concetto, quello della Libertà, propugnato dalla più parte delle Avanguardie del XX secolo: dalla Libertà idealizzata degli amanti di Marc Chagall, che volteggiavano nei cieli, come a dire che neppure agli ebrei russi poteva essere privata la libertà di sognare, poteva essere negata la volontà di riconoscimento e di rispetto del proprio essere in quanto tale. Una Libertà molto più dissacratoria, sbeffeggiante, d’azione era quella propugnata invece dai dadaisti, che in un afflato nihilista giungevano persino a negare l’esistenza della realtà stessa e delle proprie dissennate convenzioni. E così via, transitando dalla libertà plastico-dinamica dei futuristi a quella anti-prospettica dei cubisti, da quella simbolico-intimista degli astrattisti a quella politico-ideologica dei poeti visivi e dei mail-artisti.

Ma cosa significa esattamente Libertà?

Esaminando il vocabolario si trova “condizione per cui un individuo può decidere di pensare agire ed esprimersi senza costrizioni ricorrendo alla volontà di ideare e mettere in atto un azione mediante una libera scelta dei fini e degli strumenti che ritiene utili a realizzarla”. Ma ideare significa spesso decontestualizzare, ossia abbandonare una strada vecchia e obsoleta per trovare nuove vie e strumenti di ricerca e per fare ciò è necessaria anche una fondamentale variabile integrativa: il Tempo. Riflettere sulla gravità delle condizioni di libertà di espressione sia del pensiero, sia artistico aiuta a comprendere la grandezza di quei movimenti, politici, etici e religiosi che osarono sfidare, nel corso del tempo, tutte quelle strutture dispotiche, capitalistiche e postcolonialiste, che hanno pervaso e invaso la facoltà

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creativo-ideatrice dell’essere umano e che ancora oggi non paiono avere perso smalto.

Come i figli di Duchamp e Man Ray professavano la decontestualizzazione dell’oggetto per elevarlo a dignità d’opera d’arte, a dignità di simbolo, così dalle storiche fondamenta della Chiesa di Santa Marta, sede del Padiglione Tibet della 56° Biennale di Arti visive di Venezia, emerge come un fossile antidiluviano, pregno di tutto il suo fulgore maieutico, l’ombrello. L’ombrello che si fa opera d’arte, montagna incontaminata, esercizio spirituale, voce di protesta, elemento di autocoscienza individuale e di memoria collettiva. L’ombrello che assurge a sinonimo di Libertà.

Così, infatti, è stato per i giovani studenti di Hong Kong, solo pochi mesi fa, durante la loro eroica protesta verso il governo centrale di Pechino. Così sarà per tutti coloro che amano il prossimo come sé stessi, ieri oggi e domani. Perché la vera Libertà converge ineludibilmente sull’Amore e il suo viatico è il Tempo. Libertà e Amore sono dunque le esplicitazioni della forza creatrice dell’Arte ed esse stesse si sublimano nel Tempo.

“Il tempo non è nient’altro che dilatazione – scriveva S. Agostino nel libro X delle Confessioni – ma che cosa si dilati lo ignoro e non mi stupirebbe scoprire che sia proprio l’anima”. L’Anima, un’emozione di memoria stratificata proveniente da profondi silenzi, lontani ricordi, esperienze di vita irripetibili ed in cui le forme, i volumi ed i colori si fondono insieme racchiudendo in essi propositi esplorativi, illuminati dalla luce interiore dell’Essere. Come nel giardino delle Esperidi anche qui vi è una porta di accesso, un varco sensoriale tra il reale e l’ideale, una prova d’iniziazione che bisogna superare per fendere la barriera e aprire il passaggio verso un luogo che si fa paesaggio interiore, dove l’uomo riesce a fondersi con gli elementi primordiali che lo circondano, diventando un tutt’uno con il cosmo. Questo passaggio straordinario si chiama Tibet.

Il Tibet, spesso decifrato come Stato misconosciuto, è di fatto la più grande metafora di Libertà. Una libertà il cui emblema sommo è rappresentato dalla sua grande guida spirituale: il Dalai Lama. Il Padiglione Tibet raccoglie dunque l’anima artistica, spirituale e culturale di un popolo martoriato e ne dà voce. Un voce importante, una voce schietta, una voce totalizzante, una voce di Libertà.

Questo è l’anima recondita, questo il fine di Padiglione Tibet: una narrazione, il tentativo di raccontare, quasi che fossero i capitoli di un libro, la Libertà. Questa scorre veloce, sempre più veloce dinnanzi a noi, accelera come non avevamo mai pensato. Eppure non possiamo tra calendari e cronometri che reggerne il passo. Per quanto lei possa essere veloce e noi lenti, finché siamo vivi non possiamo separarci.

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Roma 20/04/2015

Giosuè Allegriniper Padiglione Tibetprogetto ideato e curato da Ruggero MaggiChiesa di Santa Marta, Venezia, 2015

 

 

Aspetti di confine, installazione di Ruggero Maggi

Giardino dei Ciliegi

Diresti: un’opera dedicata al lavoro manuale poiché presenta una sequela di mani di terra inguantate in asettici-drammatici-suggestivi guanti di lattice. Ma potresti anche arrischiare altro: per esempio, un drammatico richiamo alle torture della Terra che l’uomo sta infliggendo con maniacale operazione chirurgica, dunque un messaggio no global o quasi. Altro ancora, in merito a tutt’altra frontiera e terra di confine. Credo anzi che questa possa essere una lettura corretta o quanto meno assai vicina alle intenzioni dell’artista, alla sua progettualità metaforica. Quest’installazione, difatti, sin dal titolo indiziario – “Aspetti di confine” – può farsi metafora di quelle recinsioni dolorose e assurde che dividono la terra non più secondo quanto scritto, poniamo, da Mircea Elide, da altri studiosi a cominciare da coloro i quali si sono occupati precipuamente dei riti e dei miti dell’uomo primevo, ma invece secondo le irragionevoli e crudeli volontà di potere e di profitto che soggiogano la contemporaneità.

E allora, come evitare il richiamo assordante dell’alta barriera che circonda i kibbuz israeliani e divide villaggi e insediamenti, deserto da terre irrigate? Come non riconoscervi – grazie a quelle drammatiche e magiche mani di terra inguantate nel lattice - il richiamo simbolico d’altre barriere artificiali e profondamente ingiuste come quelle che stanno scavando solchi di odio tra credo religioso e credo religioso, tra consapevolezza e incoscienza, tra sapienza e ignoranza?

La teatralità dell’installazione è indubbia, la sua drasticità prorompente, anche. Dunque non è possibile sottrarvisi e tanmeno è possibile sfuggire a questi richiami. Questi e molti altri ancora e per ognuno ecco che potremmo aprire un varco, tracciare altre e nuove linee di confine azzardandone una qualche rappresentazione visiva, questa rappresentazione in particolare, che

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evoca a sé un credo neoilluminista che ha radici nel rinascimento, un credo in cui l’uomo torna ad essere misura di tutte le cose.

Rolando Bellini

 

 

L’arte di confine di un artista outsider

Il tecnologico e urbano Maggi, incarna la “perdita della natura” con vere e proprie installazioni, composte da tubi al neon, metallo e legno, eseguiti a partire dal 1989, fino alle più recenti opere dove il concetto “Artificiale/Naturale” assume un ruolo predominante e caratterizza gli ultimi felici esiti del suo lavoro.

Sono sempre più convinto che la tecnoscienza prima o poi ci strangolerà, ingoierà tutto. Sicuramente stiamo distruggendo il pianeta e ci stiamo avviando a sondare un futuro pieno di incognite, per niente tranquillo. Infatti, l’uomo non si rende conto che distruggendo la natura in nome del progresso, del consumismo e dello spreco programmato, distruggerà anche se stesso. Forse in un futuro prossimo, gli unici abitatori del pianeta terra saranno le formiche e i topi che prenderanno definitivamente il posto dell‘uomo. Il futuro, quindi, sarà una catasta di logori relitti, a meno che venga riscoperto e propugnato uno spirito umanistico con un sentimento morale nei confronti della natura e delle sue straordinarie possibilità. Oggi, purtroppo, la sfida ambientale coincide con la nostra stessa esistenza; siamo in piena situazione “ post-ecologica “.

Solo alcuni artisti contemporanei come Ruggero Maggi hanno il coraggio di porsi tali problemi di vitale importanza, interessati a scandagliare l’essenza “vera” del reale. Sono i nuovi ”primitivi post-industriali che vivono una dimensione tecnologica, che meglio si potrebbe chiamare di “confine”, per la maggiore difficoltà che abbiamo a accostarci alla natura, ormai annullata da una civiltà poco intelligente, che distrugge tutto. Sicuramente nello spazio-tempo della vita di un uomo, la natura è la misura della sua coscienza e della sua sensibilità. R. Maggi è cosciente della triste situazione dell’uomo senza futuro; evidenzia lo sforzo di convivere con la tecnologia e tenta di instaurare un possibile dialogo con essa, quasi una rivitalizzazione dei materiali naturali o artificiali , raccolti e riproposti in una dimensione “altra”. Ruggero Maggi lavora spesso sui materiali trovati, che colloca dentro lo spazio reale e in tal modo diventano memorie urbane, come ha scritto Pierre Restany, presentando più di una volta il lavoro di R. Maggi, scrive: “Siamo in una società post-industriale dunque in una società che non ha superato di fatto lo

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stadio industriale, anzi ne è satura, e totalmente satura di industrie. In questa società, è necessario reinventare il rapporto fra l’uomo e la macchina. Ridefinire questo rapporto implica creare le condizioni giuste e vere di un “dialogo".

E’ proprio nel cuore di questo dialogo che si inserisce la ricerca linguistica di R. Maggi. Infatti, l’artista si interroga sulla natura che non può più rappresentare, tutt’al più la ricrea per frammenti di materia naturale e artificiale”. Per comprendere appieno i suoi lavori bisogna conoscere l’operazione “museo in casa” del 1980, in cui proponeva la “casa” svuotata da ogni mobile e suppellettile, dichiarando che era uno spazio quasi riabilitato al ruolo di Museo d’arte. Proprio da questa iniziale e fondamentale operazione, derivano tutti gli altri suoi lavori che accolgono frammenti di realtà, raccolti, conservati e rivitalizzati da un neon di luce industriale o da un laser tecnologico. Maggi, si affida ad una dialettica elementare e primaria che va a confrontare con la tecnologia e la sofisticazione; accostando il neon ai materiali primari li de-materializza e li concettualizza (l’arco della luna del 1975).

Dice Jacqueline Ceresoli: una presenza silenziosa, in cui solo la vista – un raggio laser frantumato in tanti piccoli punti – può dare voce a tutti gli altri sensi isolati”. L’artista metropolitano, quindi, ha bisogno di recuperare i frammenti del reale e di immetterli nel circuito della memoria, così facendo, la scatola, l’installazione, diventa il luogo che archivia e conserva i dati raccolti, quasi una dimora della sopravvivenza. Questa immissione di elementi naturali e artificiali, in un rapporto continuo di intensa “interferenza” dove gli elementi naturali (il legno, la pietra, il fossile) convivono con elementi tecnologici (tubi al neon, plexglass, laser), creano uno strano sincronismo emozionale che diventa “cortocircuito” ad alta frequenza. Quello che crea Maggi è un universo privato che viene messo in vista, desideroso di essere conosciuto e che l’artista “generosamente” esibisce.

Sandro Bongiani - Retrospettiva Spazio Ophen Virtual Art Gallery14 novembre 2009 – 10 gennaio 2010

 

 

Per essere comunità

"Finora è stata una vittoria. Stare insieme nelle piazze sta insegnando a tutti a ragionare in termini meno individualistici, a condividere, a sviluppare un senso di comunità".

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Queste sono le parole dell'attivista Vincent Wong, espresse in occasione della cosiddetta rivoluzione degli ombrelli. Il giovane studente diciassettenne è stato tra i primi ad occupare insieme ad altri studenti, con l'appoggio dei professori, la piazza centrale di Hong Kong nell'ottobre del 2014, contro il potere centrale della Cina chiedendo il suffragio universale. Nei giorni successivi, dopo i primi arresti si sono aggiunti alla protesta altre categorie, tra cui i sindacati e gli operai che hanno aderito con uno sciopero generale. La protesta è stata organizzata all'insegna delle pratiche pacifiste, alzando le braccia di fronte ai militari accorsi in piazza; ma dopo molti giorni ci sono state delle cariche della polizia con gas lacrimogeni e le nuvole di pepper spray (lo spray al peperoncino), contro cui i manifestanti si sono protetti con gli ombrelli. Ecco come gli ombrelli, che nell'antica India erano utilizzati per riparare e designare i personaggi importanti, ora sono divenuti simbolo estremo della protesta. Così altri ombrelli gialli sono stati aperti, nel gennaio del 2015, da un gruppo di venti deputati quando il Capo dell'esecutivo, filo pechinese, è entrato nel parlamento di Hong Kong. Ad aggiungersi a questi eventi possiamo ricordare anche il Movimento dei Girasoli di Taiwan. Tutti episodi che testimoniano della ricerca di indipendenza e della richiesta ad alta voce di riconoscere i propri diritti, creando momenti di difficoltà alla grande potenza della Cina, e allo stesso tempo si contrappongono alla sua predominanza economica e artistica in campo mondiale. In questo clima si inserisce il rinnovato appuntamento veneziano del Padiglione Tibet, evento che prelude sempre ad una serie di iniziative che non si limitano alla finestra espositiva veneziana, ma che nei mesi proseguiranno in collaborazione con i diversi comitati nazionali e internazionali pro-Tibet.

Come già anticipato dal curatore Ruggero Maggi l'elemento simbolo sarà appunto l'ombrello, supporto su cui gli artisti potranno intervenire con le diverse tecniche rispecchianti le singole ricerche artistiche e poetiche; ma la particolarità sarà che gli stessi artisti dovranno accettare di far parte di un insieme. Le singole opere diventeranno un UNO nell'allestimento dell'installazione visibile all'interno e all'esterno della chiesa di Santa Marta di Venezia, sede che per il secondo anno ospiterà il Padiglione Tibet. Ed ecco allora che fanno eco ancora le parole di Vincent Wong: ognuno farà parte della causa non per un diritto limitato ad una categoria, ma per la libertà collettiva.

Nell'intento dell'operazione di riportare costantemente l'attenzione sulla condizione dei monaci buddisti e del Tibet, l'occidente impara a dialogare con gli elementi di un'altra cultura recuperando il loro originario valore; e nell'intervenire in un'unica installazione, con la motivazione di aiutare l'altro, recupera anche quei valori di comunità che molto spesso si sono dimenticati, soprattutto nel mondo artistico. Così che questa opera comunitaria si eleva verso l'alto come gli ombrelli sulla stupa, che nella simbologia tradizionale

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rappresenta il percorso verso il raggiungimento della mente illuminata. L'ombrello, che è uno degli otto simboli di buon auspicio, indica quindi in questo caso il superamento della sofferenza per il popolo sfrattato dal suo paese, ma allo stesso tempo il superamento della superficialità che avvolge il mondo occidentale. Laddove in un altro evento recente gli ombrelli sono divenuti un elemento puramente decorativo per le strade di una città."L'aiuto che la filosofia potrebbe dare a una generazione insoddisfatta, ansiosa e apprensiva potrebbe risiedere, - affermava George Collingwood - in un'asserzione ragionata del principio secondo cui non può esistere nessun male nelle istituzioni umane che la volontà umana non possa curare". Potremmo allora dare la stessa funzione all'arte, facendo nostro quel compito che Collingwood affidava alla filosofia, in un periodo storico in cui mette in guardia le masse dei giovani che esaltavano il potere forte che avrebbe portato alla seconda guerra mondiale. Per ritrovare così quella fiducia nel buon senso dell'uomo che ci parlava il filosofo inglese.

Lara Cacciaper Padiglione Tibetprogetto ideato e curato da Ruggero MaggiChiesa di Santa Marta, Venezia, 2015

 

 

RUGGERO  MAGGI

[…] Il cursum artistico di Ruggero Maggi si è svolto all’insegna di una sua personale ricerca, che lo ha portato dagli esordi condivisi negli ambiti democratici, trasversali e contigui della visual poetry, della mail art e dell’artist’s book, attraverso la sperimentazione installativa con il laser e l’ologramma, fino ad una sua personale interpretazione della “teoria del caos” applicata all’arte. Personaggio diagonale, si compiace di un vessillo senza insegne per amor di libertà. Amante dei materiali primordiali almeno quanto della tecnologia più avanzata, opera come artista, ordisce come teorico, trama come curatore e scrive con assoluta dimestichezza. Nel suo lavoro le questioni estetiche si confrontano quotidianamente con quelle etiche, definendo una linea di condotta espressiva e umana di grande intensità e autenticità. […]

Mauro Carrera

 

 Padiglione Tibet: l’incontro di due culture.

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Sovrapposizioni d’espressioni artistiche a spirito di fratellanza universale.

L’arte […] è una spugna […] deve assorbire e lasciarsi impregnare […].

Deve sempre essere in mezzo agli spettatori e guardare ogni cosa con una purezza, una ricettività, una fedeltà sempre più grandi.

Pasternak, Alcune posizioni

Uno dei fattori più importanti nel giudicare un’opera d’arte deve certamente essere quello di conoscere l’intenzione dell’artista. Il valore del lavoro dipende primariamente dalla qualità della sua intenzione e secondariamente dal successo della realizzazione tecnica di quell’intenzione. Ruskin diceva che non ci può essere arte senza comprensione. Se è così, la critica e l’apprezzamento devono essere basati su conoscenza ed esperienza: può esserci quindi posto per la sensazione e l’emozione istintiva? Alcuni popoli occidentali vogliono trovare come prima ragione, quella emotiva. In quest’ottica non c’è che mettersi, in umiltà, davanti all’opera d’arte con le emozioni che essa ha saputo risvegliarci. Alcune etnie orientali trovano che l’arte visiva sia una parte essenziale del loro modo di vita. Esplicativa in tal senso, per l’importanza determinante assunta nella vita spirituale e sociale della popolazione, è l’arte tibetana che ruota interamente attorno alla religione buddista, diffusasi nell’altopiano sotto la forma speciale del Lamaismo.

Oggi che cataloghi e libri d’arte abbondano oltremisura, può forse destare stupore la pubblicazione di questo volume che vede la promulgazione dell’arte tibetana; stupore destinato a rientrare ove si mediti sul criterio con cui esso è stato elaborato. Criterio di fatto agevolmente identificabile, improntato nella scelta curatoriale volta ad “istituzionalizzare” il Padiglione Tibet facendovi compartecipare artisti italiani e tibetani con volontà di unificare intenzione ed emozione al fine di comporre un’opera di divulgazione culturale e, insieme, di respiro ascetico. Per tanto il presente volume esula da ogni univoca visione delle due distinte estrazioni artistiche e quindi da ogni atteggiamento di parte e da ogni settarismo ideologico, ed è volto a fornire al lettore – collezionista o amatore o più semplicemente neofita desideroso di conoscere – uno strumento utile per penetrare nel complesso e variegato repertorio dell’arte italiana contemporanea combinata alla mistica visione tibetana per comprenderne le plurime filiazioni riunite nelle due distinte titolazioni “Archivio di Strutture – Mandala” e “Ruote della Preghiera”. Una vasta gamma di tipologie e di espressioni originate dalla fusione della sapiente erudizione artistica italiana con la forza profetica e divinatrice

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tibetana ad esprimere influssi caratterizzati da un’intensa spiritualità mai scevra di un’evoluzione stilistica che trascende ogni confine diventando veramente internazionale.

Giorgia Cassiniper Padiglione Tibetprogetto ideato e curato da Ruggero MaggiChiesa di Santa Marta, Venezia, 2013

 

 

Burqa: velo d’ombra o arma di difesa?

Il burqa è un’infamia, un sipario calato sul palcoscenico della vita che viola dignità e imprigiona sguardi, ma anche uno schermo, un modo per proteggersi, nascondersi e riflettere sul nemico; l’uomo dannatamente solo è vittima e carnefice di sé stesso.

Burqa è una parola araba che vuol coprire, basta indossarlo per capire cosa si prova, dai buchi davanti agli occhi filtra la luce diafana e tutte le cose si vedono da una “grata” a piccoli quadrati, come dietro le sbarre. La prospettiva è negata, non si può vedere né a destra e né a sinistra, si respira appena, e non si ha mai il piacere dell’immagine intera, è una tortura imbrigliare il guardare dietro a quel cappuccio forato all’altezza degli occhi. Dietro la “visiera” gli sguardi si muovono negli anfratti della visione, pensano immagini e fantasticano su estensioni esperenziali, il limite della visione altera i sensi, accentuando sensorialità inesplorate, il rischio è di perdere il lume della ragione e di scambiare i sogni per realtà, le sagome per corpi e le paure per verità, occultando lo sguardo si sprofonda nella caverna, consapevoli di scorgere solo ombre sul muro.

L’enigma è se l’uomo è prigioniero dello sguardo o imperatore delle ombre, poiché la vista può anche scorgere ciò che si pensa oltre al dato reale. Il velo è simbolo dell’allontanamento dal mondo esteriore, velare qualcosa indica un occultamento della verità, mentre “velato” significa misterioso, in ogni caso le ombre sono segni di una luce schermata, ma anche indefinibili entità autoreferenziali. Alcune lingue definiscono l’immagine, l’anima e l’ombra con la stessa parola, la leggenda tramanda che chi non può vedere la propria ombra sia destinato alla morte, poiché è già entità immateriale, puro spirito che si aggira negli strati empirei inconoscibili. L’installazione “Velo d’ombra” di Ruggero Maggi al di là delle simbologie interpretative svela il fascino della negazione, le sagome rivestite con il burqa attraggono e respingono lo sguardo, annullandosi in un’esigua e impalpabile proiezione di luce bianca.

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Sono sagome ammantate dal fascino platonico, animazioni di idee che forse hanno accesso alle visioni di verità assolute, totem ricettivi, sensibilissimi catalizzatori e alternatori di sensi che non definiscono, che non dichiarano, ma si pongono come elementi fuorvianti, apparentemente senza campi visivi, ma poi, sotto si scopre l’inganno: il velo d’ombra conduce lo sguardo a vedere sé stessi e il trauma è fatale.

L’ombra interroga lo statuto dell’immagine partendo da un punto di vista opposto rispetto a quello della mimesis trionfante attraverso la fotografia. Si potrebbe dire che l’ombra è una “fotografia” primitiva, entrambe sono scritture fatte con la luce che manipolano l’immagine, portando gli artisti a sperimentazioni astratte. Christian Boltanski realizza installazioni con proiettori parastatici, usando con intento ludico le ombre, lo scopo è di creare simulacri effimeri in serie dall’effetto teatrale mettendo in scena la caducità delle cose. In ogni caso il velo d’ombra proietta labirinti di demoni, strani orchi o luoghi mitici e celestiali, insidiandosi come tarli nell’atto della visione. Nell’ombra si muovono i servi dell’immaginazione che ci conducono nel giardino “mirabile” della visione dalle affabulazioni concettuali irresistibili.Il buio è sempre complice: l’oscurità è l’utero dell’immaginazione. L’ombra è l’anfratto nero da cui si generano le rappresentazioni di sé e del mondo, una cesura tra l’immagine e l’altra, lasciando fantasticare suggestioni che condizionano lo sguardo degli osservatori e dei sognatori. Dal buio nessun uomo può scampare, la vita nasce e muore là, nel pensiero dell’immagine, fantasticando sull’atto della creazione.

Jacqueline Ceresoli

 

 

da TESTUALE39

Gio Ferri

Letterale

Lesa sul Lago Maggiore, 18 giugno 2006

 

Caro Ruggero, come ti ho già detto la tua invasiva installazione con luce di wood nell’ampio spazio centrale della Galleria d’Arte Moderna di Gallarate (quasi una... Cappella Sistina della scrittura!) mi ha potentemente impressionato. Quella fluorescenza diffusa, accesa dall’ombra e spenta dal

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biancore della luce (splendida poetica ambiguità), mi ha coinvolto in un oltremondo di concettualità quadridimensionale. Brancolare nel buio e leggere l’in-leggibile nel tutto del vuoto ha spinto me, e (dalle reazioni che ascoltavo) i visitatori (pur essi, nel buio, fantasmatici) verso un abîme caotico eppure illuminante (paradossalmente questo è il lemma giusto), felicemente, seppure ossessivamente, spettacolare. Non plateale: spettacolare nel senso del latino spectare, vale a dire osservare al di là di ogni superficiale realtà, oltre la parete invisibile del banale quotidiano. L’esaltazione del gesto scritturale non è mai stata tanto provocatoria, e insieme tanto suadente, anche rispetto a molte opere tue e di diversi artisti contemporanei che negli ultimi decenni hanno lavorato con la luce, il neon, il laser...

Sovente si è trattato di opere piuttosto fredde e decorative – di scarso significato quando hanno cercato banalmente di scrivere con la luce, a volte semplicemente spaziando un aforisma, un detto, un verso. Qui, in questa tua Underwood, il discorso è diverso e ben più complesso. Nel tentativo di farmi capire, in merito alle mie complicate sensazioni di fronte alla tua camera oscura della scrittura luminosa ma evanescente, devo trascrivere, sintetizzandola e parafrasandola con una certa utile approssimazione, una citazione (riportata da Rudy Rucher, matematico statunitense, in La quarta dimensione, Adelphi 1994) da un saggio del 1885 del filosofo Charles H.Hinton dal titolo Many Dimensions:

... Spesso ho pensato, viaggiando in treno, quando nelle oscure gallerie i ragazzi si curvano sopra fogli di carta malamente stampati per leggere orribili e ‘oscure’ storie, spesso ho pensato quanto sarebbe meglio se si dedicassero invece a quella che potrei chiamare la ‘comunione con lo spazio circostante e invisibile’, spazio non visto, appunto, ma sentito nel vuoto... Ne ricaverebbero un diletto, una poesia e un interesse infiniti… Eppure guardando pieno di curiosità proprio quelle scritture stampate, guardando sempre più a fondo negli intervalli fra bagliori e oscurità, ho visto che, nei tratti sbavati d’inchiostro e nell’opaco tessuto fibroso, ciascuna parte era definita, esatta, precisamente a quella distanza e non di più... Un tesoro di bellezza, una ricca varietà e ampiezza di forme esaltate dalla contrapposizione fra luce e ombra... In quei segni intricati e in quella carta spiegazzata c’è lo spazio stesso, in tutte le sue infinite determinazioni di forma...

Rucker commenta: “afferrando così l’unità del mondo”.

E mi è venuto in mente, ancora, l’insistito tentativo di cogliere il passaggio fra la luce e l’ombra nell’opera scritturale e critica di Roberto Sanesi.

Qui, in Underwood tu hai dipinto con la luce e l’ombra lo spazio quadridimensionale, invitandoci ad entrarvi.

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E c’è qualcosa di demiurgico (non darti troppe arie!) in questo tuo lavoro. Cito anche la Genesi: Dio creò la luce, vide che la luce era bella, perciò la separò dalle tenebre. Quindi la luce e le tenebre convivevano. Come convivono qui in Underwood: un luogo originario, vissuto prima della separazione della luce dalle tenebre.

(Scritta a Ruggero Maggi nel ricordo di Underwood, intervento ‘site specific’, alla Galleria d’Arte Moderna di Gallarate dal 19 febbraio al 2 aprile 2006).

 

 

Il Caos: fremito del senso ascoltando il brusio del linguaggio

Caotica(arte) per Caotica(mente) è ciò che all'estasi, intesa come assorbimento contemplativo dell'impulso apollineo, si contrappone, nel dionisiaco, l'estasi intesa come rapimento e disfacimento della individuazione; alla esperienza del modellare si sostituisce l'esperienza dell'essere modellati. In altre parole, la soggettività della rappresentazione è vinta dall'unità aggregante dell'elemento naturale: non si ha più la condizione illusoria del sogno, in cui si emancipa la creatività formale dell'artista, ma quella dell'ebbrezza, della perdita di sé come individuo cosciente e della piena partecipazione alla vita di tutta la natura. È solo così che l'uomo si trasforma in opera d'arte avvertendosi parte del tutto, e lasciandosi plasmare da essa. In nessun modo “natura” può significare l’ordine necessario e causale della realtà materiale, e “naturalismo” il riconoscimento dell’appartenenza dell’uomo a quest’ordine o il principio filosofico che induce a comprendere ogni fenomeno. Natura è esattamente l’opposto: è caos, è «difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza», e naturalismo è riconoscimento di tale realtà. I due concetti di caos e di ordine descrivono, a prima vista, due situazioni opposte. In realtà i due aspetti coesistono: esiste dell’ordine nel caos e del disordine nell’ordine.

Nelle mitologie antiche il caos è quasi sempre contrapposto al Cosmo, nel senso di universo disordinato il primo e ordinato il secondo. I concetti di caos e di ordine strutturato erano avulsi dalla fisica Ottocentesca ma la situazione cambiò notevolmente nel Novecento. Dagli studi sul caos venne fuori che, mentre i veri dati casuali rimangono dispersi in una confusione indefinita, il caos (deterministico e strutturato) attrae i dati in un ordine invisibile che attiva solo alcune possibilità, delle molte del disordine. Gli scienziati, studiando il caos, si accorsero che forse lo stesso nome non era adeguato. Il termine“caos”, a livello etimologico, è legato a “casualità”, ma tali processi caotici producevano splendidi edifici complessi senza casualità, strutture

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ricche, nonché belle. D’altra parte ci si accorse che l’ordine poteva e doveva coesistere con il disordine, essere ad esso complementare, per arrivare ai concetti di “order from noise” (ordine dal rumore) e al “caso organizzatore”. Potente strumento interpretativo della realtà, sembra essere ovunque il ruolo ricoperto dall’ordine, come ci insegna Giordano Bruno nel “De umbris idearum”: «il vero Chaos di Anassagora è una varietà priva di ordine. Così nella stessa varietà delle cose possiamo individuare un ordine mirabile, il quale, stabilendo la connessione dei supremi con gli infimi e degli infimi con i supremi, fa cospirare tutte le parti dell’universo nella bellissima figura di un unico grande animale (qual è il mondo), poiché una diversità tanto grande richiede un ordine altrettanto grande e un ordine tanto grande richiede una diversità altrettanto grande. Nessun ordine si ritrova infatti, dove non esiste alcuna diversità.»

Tutta la scienza è nata per scoprire, descrivere, spiegare un ordine della natura, o forse per definire, inventare, costruire un ordine nella natura e ciò in tutto quanto ci circonda, quanto è esterno a noi. È così che il modello del discorso scientifico si propone come modello dell’ordine naturale, come paradigma interpretativo delle nostre percezioni degli accadimenti del mondo e un po’ alla volta diventa la nostra immagine del mondo, e dunque, in ultima istanza, il mondo stesso. Le suggestioni foucaultiane spingono alla fantastica utopia di una scienza diffusa nel corpo vivo dell’umanità che riesca a far convivere idee diverse, modi diversi di avvicinarsi alla realtà, ordini di discorso diversi, che perdano la loro stessa connotazione di ordine, una scienza che costituisca un tessuto variopinto e molteplice, come l’arte che per Beuys “è la scienza della libertà” giacché la base di ogni creatività, è la conoscenza vera e profonda delle leggi del mondo e solo a quel punto l’azione è davvero libera, e l’uomo libero riconosce di ogni azione le conseguenze e se ne assume le responsabilità. Occorre ascoltare con quello che Roland Barthes chiamava “il brusio della lingua”, in quel miracoloso frammento di scrittura che appunto così si concludeva: «Ed io interrogo il fremito del senso ascoltando il brusio del linguaggio, di quel linguaggio che è la mia Natura peculiare di uomo moderno».

Giulia Frescaper “Caotica. 2014”progetto ideato e curato da Ruggero MaggiChiesa di san Cristoforo, Lodi | Palazzo dei Convegni, Jesi

 

 

La Mail Art di Ruggero Maggi. La via di una globalizzazione possibile.

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Ruggero Maggi ha presentato in varie occasioni ( al Foyer del Teatro Franco Parenti di Milano – mostra organizzata in collaborazione con Atelier 51 – alla Chiesa di S. Chiara di Vercelli ed alla On The Road Art Gallery di Gallarate) una delle più ricche raccolte di Mail Art composta dalle opere postali di oltre cinquecento artisti che rappresentano tutto il mondo. La personalità coinvolta in questo evento è uno dei nomi più noti e, storicamente rilevanti per questa corrente - anche se questo termine è impropriamente usato - uno dei fautori più attivi per la diffusione, lo sviluppo e la proliferazione di un network, come lui stesso lo definisce, di mail-artisti: Ruggero Maggi, che in questa occasione ha proprio offerto al pubblico un nucleo cospicuo del suo archivio.Maggi, artista dalla personalità poliedrica e vulcanica, riesce a dedicarsi ai progetti più diversificati con un’energia ed un entusiasmo coinvolgenti e stimolanti, quasi travolgenti per chiunque possa poterne condividere il lavoro; proprio grazie a questa sua passionalità artistica, sottaciuta ad un saldo intellettualismo mai ostentato, è riuscito a diventare un punto di riferimento internazionale per la Mail Art e il suo archivio, in costante crescita, è un ricco contributo all’intendimento di cosa sia questa forma artistica di cui è, giustamente, esempio tangibile.

Maggi, in questo come in altri contesti, riesce sempre a lasciare una forte impronta personale al suo operato, al suo credo artistico; per lui il fattore umano è il denominatore comune di qualsiasi sua azione, di qualsiasi suo lavoro. Non deve essere mai tralasciato, mai offuscato, mai tradito. L’Arte Postale, nata negli Stati Uniti nella seconda metà del secolo scorso, per lui è innanzitutto una forma di libertà umana assoluta: in quest’ottica è diventato scrupoloso tessitore di contatti che, come una rete, si sono allargati dal suo studio a tutto quanto il mondo. Ha raccolto, riunito, fatto da tramite ad artisti di ogni dove attivando, o meglio mantenendo attiva, una forma di comunicazione quasi dimenticata nel nostro quotidiano. Nell’era di una comunicazione globalizzata, telematica, informatica, dove l’istantaneità e l’immediatezza fanno perdere valore e senso al nostro stesso bisogno e desiderio, a volte pur inutile e superfluo, di comunicare, l’Arte Postale recupera una dimensione più attenta al valore dell’individuo e alla sua peculiare presenza nel contesto che lo circonda. Supera il confine di evento, di corrente artistica per allargare il suo orizzonte culturale in territori divenuti più ampi.

Il canale postale diventa una via per arrivare ovunque, in qualsiasi contesto, regione, nazione ma in un modo più personale ed autentico. Una lettera, un francobollo, un pezzo artistico: strumenti desueti nel mondo tecnologico attuale che tornano ad essere occasione per riqualificare il nostro stesso tempo, riconciliandoci con il nostro modo di comunicare. Il mail-artist diventa una tessera di un mosaico che si distribuisce nel mondo ridisegnandone ogni volta i confini e i tratti. Un’onda di piena inarrestabile e continua, che sfugge

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l’impersonalità di messaggi destinati ad essere fasci di elettroni sparati su un monitor, per essere invece segno del valore dell’individuo nella riscoperta qualificazione della globalità in cui siamo inseriti. Una sorta di globalizzazione del singolo, di autoidentificazione e di non-omologazione meccanica. Anche secondo questo principio, da sempre, il tratto distintivo dei mail artists è stato quello di avere una certa avversione alle forme, ai canali della patinata ufficialità artistica.

La libertà è data anche dall’intenzione, dalla consapevole scelta, di mantenersi estranei al circuito dell’arte ufficiale, a vantaggio di un’indipendenza totale. In uno scambio reciproco, le lettere viaggiano si spostano e la dinamica artistica che si crea è un brulicante fermento che investe tutti i continenti senza vincoli di scelte o esclusioni dettate dall’alto o dalla moda del momento. La diversificazione delle esperienze, sociali, psicologiche, culturali, formative che contraddistinguono le singole personalità degli artisti, finiscono con lo smaterializzarsi, col liberarsi da specificità chiuse in e su sè stesse, a vantaggio di uno scambio inarrestabile e comune che vede, ora, l’Arte Postale, come epicentro dinamico di una globalizzazione possibile. Dalla quale nessuno, se epurato da pregiudizi, può essere escluso. L’impressione è che l’essenza sta tutta in una comunicazione qualificata: così, nella ridefinizione di una terminologia abusata, globalizzazione diventa il motore stimolante per un vero allargamento dei confini dell’intelletto umano.

Matteo GalbiatiOttobre 2005

 

 

CONFINE MOBILE

«Quella linea dell’orizzonte è la nostra meta del sapere … il nostro confine ideale e quindi come tale irraggiungibile. Esso è quindi mobile e si avvicina o si allontana in funzione del nostro essere; è un confine che avvicinato ricostituisce la realtà mentre se allontanato da essa svanisce. L’artista ha compreso…» (Sandro Felletti)

Varcare la soglia per trovare nuovi confini: con il coraggio dell’Ulisse dantesco, ma senza l’hybris del superuomo, piuttosto nel tentativo di scoprire leggi che governino elementi ritenuti ingovernabili, nella consapevolezza dell’esistenza di una parte inconoscibile della realtà. Il confine mobile proposto da Ruggero Maggi è simile a quello che si pone - che dovrebbe porsi - lo scienziato nell’assumere nei confronti della realtà naturale

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quell’atteggiamento di apertura rispettosa, sensibile all’esistente. In tal senso la scienza si avvicina all’arte, alla sociologia, alla psicologia. In fondo, è ciò a cui giunge Mitchell Feigenbaum quando intervistato afferma: «In definitiva, per capire occorre cambiare rapporto. Si deve ricostruire in che modo si concepiscono le cose importanti che stanno accadendo (...) Quando lei guarda che cosa c’è in questa stanza - della roba là, una persona seduta qui, e delle porte - lei dovrebbe prendere i principi elementari della materia e scrivere le funzioni d’onda per descriverli. Beh, questa non è una cosa realizzabile. Forse Dio potrebbe farlo, ma non esiste alcun pensiero analitico in grado di comprendere un tale problema» . Allora lo scienziato si rende conto che un confine, benché mobile, esiste.

Un limite posto dal caso? Maggi, con la sua lettura artistica delle leggi del caos - ossimoro colmo d’ironia- sembrerebbe indicare un altra via: là dove persino il caso mostra di possedere un proprio intimo, intrinseco, talora inconoscibile, sistema. La scelta del campo d’interesse dell’artista è appassionante; suscita un’empatia paragonabile forse a quella che provò Dante per Ulisse, da cui il tono commosso e tragico delle terzine nel XXVI canto dell’Inferno. In fondo Ulisse quando spronava i suoi, ormai vecchi e stanchi all’ultima impresa non fece altro che cercare di vedere l’aspetto del mondo al di là della soglia. Fu un folle volo sì, ma non per sciocco orgoglio; spronato da virtute e canoscenza, Ulisse dimenticava la grazia: la questione del limite, suggerisce il poeta, risiede nella coscienza, non tanto nelle colonne d’Ercole, oltre le quali Odisseo trovò il caos. Dalla notte dei tempi il termine è gravato da un’accezione negativa. L’uomo percepisce il caos come elemento avverso alla vita, nella tradizione del vicino Oriente, in Grecia, in Cina, in Egitto, come nel mondo celtico, esso è l’antitesi del cosmos, il disordine scatenato dalla lotta delle divinità primordiali per il possesso della Terra e dei suoi abitanti. Ma non fu così per tutte le cosmogonie: nella cultura ebraica il caos non esprime negatività. Nella Bibbia non è altro che la condizione precedente la creazione del cielo e della terra, è descritto come tenebra e abisso sì, ma per mancanza di definizione, di luce; su di essi aleggia comunque lo spirito di Dio. Non c’è alcuna lotta per il creato, l’uomo stesso non è fatto come schiavo.

Anche l’etimo del termine greco chaos, se da un lato conduce al verbo spalancare, là dove richiama la voragine, l’abisso, esso può anche rimandare all’apertura mentale, condizione indispensabile per la ricerca; l’atteggiamento creativo dello scienziato che si volge alla vastità del reale filtrandola attraverso le proprie cognizioni, per cercare di rispondere, attraverso leggi e modelli matematici, ai grandi quesiti sugli accadimenti universali.In tal senso, per la versatilità che le caratterizza, la scoperta delle leggi del caos non cessa di suscitare, a circa trent’anni dalle prime formulazioni teoriche, un entusiasmo e un fascino eccezionali. La capacità di scrutare il

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meccanismo arcano che presiede la formazione dei fiocchi di neve, l’evoluzione delle nubi, dei cicloni, il moto ondoso turbolento, le fluttuazioni delle masse, dell’economia o di popolazioni animali, o ancora eventi biologici come lo scatenarsi inconsulto del battito cardiaco, hanno interessato la scienza a partire dalla seconda metà degli anni ’70, nella ricerca di una possibilità di interpretazione di questi fenomeni secondo modelli matematici. Le peculiarità sfuggenti e spesso disastrose degli eventi caotici, hanno incentivato l’interesse di giovani scienziati, in varie parti del mondo. Trattandosi di una scienza che osserva la natura globale dei sistemi, il suo campo d’interesse è vastissimo. Benché non sia sempre facile ammetterlo nel mondo scientifico, l’approccio di natura sensibile alle variazioni di qualsiasi genere, ha costituito l’atteggiamento vincente per questa scoperta.

Quando Feingenbaum meditava sulla natura delle nubi, un aspetto vago e dettagliato al contempo, che fino ad allora i fisici avevano trascurato, applicava alla propria osservazione quel genere di apertura mentale. Lasciava cioè alla propria sensibilità la capacità di comprendere ciò che un’ampia cultura specialistica gli impediva di interpretare. Ampliava così i confini della propria ricettività, permettendo ai fenomeni di mostrargli la via per una possibile lettura scientifica di un universo complesso. E guardando al di là della propria formazione trovava parallelismi di carattere estetico: «In un certo senso l’arte è una teoria sul modo in cui il mondo appare agli esseri umani. È ovvio che non conosciamo nei particolari il mondo che ci circonda. Il merito degli artisti è quello di essersi resi conto che ci sono solo poche cose importanti, e poi di vedere quali siano» . Tra le “poche cose importanti” per Maggi, c’è la teoria del caos. L’artista sa riconoscere la bellezza del fenomeno naturale anche là dove riesce a rendere visibili i frattali con un’idea semplice, senza ricorrere alle ingegnose costruzioni informatiche realizzate negli anni ’80 da molti artisti che trovarono nel caos una fonte d’ispirazione. Maggi trova la risposta in un duchampiano ‘ready made’, un oggetto comune come il foglietto riposizionabile gli offre una forma espressiva capace di proporre l’effetto di unità del molteplice tipica dei frattali.

La sua idea rende comprensibile concetti complessi: mentre l’immagine d’assieme sulla parete è organizzata nella forma della nube, l’artista propone all’interno dei foglietti le figure che presiedono alla formazione delle nubi o dei fiocchi di neve, o di altre forme naturali. Nei frattali è la bellezza nascosta cui può giungere il sistema frammentato del mondo reale, arrivando ad eguagliare la preziosità di un ricamo. Sarà forse nella consapevolezza di non poter raggiungere tale perfezione, che Maggi ricorre alla quotidianità dei post-it e, con una buona dose d’ironia, si spinge a ‘frattalizzare’ una mucca, sezionando il mantello maculato secondo i tagli del macellaio per dedicare lo scamone a Benoit Mandelbrot, il filetto a Pablo Picasso, la guancia a Pierre Restany e così via. Là dove si riconosce l’unità nel genere: “animale” o,

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poniamo, “nube” si rileva altresì un’intrinseca differenziazione che a suo modo influisce sul risultato finale. Ma ciò che emerge è anche l’aleatorietà dell’intero sistema: come avviene nei fenomeni caotici una minima variabile può conferire all’immagine una mutazione generale. Il post-it è una forma frattale monocroma, una volta stampato con immagini frattali riceve un nuovo carattere. È una parte del sistema-immagine formato da unità singole composte fra loro, eppure è labile nella sua posizione organizzata: la sua natura mobile lo rende duttile alla creatività, l’artista può trovare il criterio per farlo interagire altrettanto efficacemente all’interno di un diverso sistema di foglietti.

Così noi, immersi nei meandri di un labirinto caotico di cui ignoriamo le leggi, proviamo una irresistibile attrazione empatica per le forme regolari nascenti da un disordine apparente. Una simile spinta creativa dà vita all’attesa di ogni giorno, nella consapevolezza che uscire dal caos è lotta quotidiana. Forse per questo la preghiera ebraica del mattino recita: “Dio rinnova ogni giorno l’opera del principio”.

Maria Laura Gelmini

M. Feigenbaum, geniale matematico citato da J. Gleick in Caos. La nascita di una nuova scienza. J.Gleick, Caos. La nascita di una nuova scienza, Biblioteca scientifica Sansoni, Milano 1989, p.186 J.Gleick, op. cit. p.187 Coniato da Benoit B.Mandelbrot nel 1975, il termine ‘frattale’ si riferisce alle innumerevoli forme naturali le cui figure matematiche hanno dimensione frazionaria, e non intera come nelle ordinarie figure geometriche (ad es. le rette, che hanno una dimensione, i piani due, etc.). Il grande critico francese (1930-2003) era giunto all’arte del caos attraverso Fluxus. È stata molto ammirata l’installazione allestita in suo onore da Maggi (Miart 2004, stand del Milan Art Center) utilizzando i mobili della stanza dell’hotel Manzoni abitata dal critico per più di vent’anni, con opere d’arte su post-it alle pareti.

 

 

In un battito d'ali

Come leggiadre farfalle di carta, migliaia di foglietti hanno occupato i muri e gli arredi della Camera 312. Uno accanto all’altro, ordinati come le squame della coda di una sirena, i piccoli e sottili riquadri si sono impossessati delle superfici delle cose, vanificandone la forma e mimetizzandone la presenza. Tuttavia, tra quel mare giallo, si raddensano qua e là colonie di colori e di segni, nebulose di pensieri e di ricordi; si disegnano geometrie irregolari e

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approssimative, isole dai perimetri elementari, contorni innocenti da quaderno a quadretti. Da uno di questi ammassi prende forma anche il profilo di un uomo. Come un fantasma, l’effige pare affiorare da lontane memorie, da luoghi remoti e silenziosi: è Pierre Restany. A lui è simbolicamente dedicata quest’insolita stanza: la sua provvisoria “casa” milanese, momentaneamente trasferita sui canali della laguna. In questa temporanea dimora, le migliaia di postit, attaccati da artisti diversi, come le preghiere nei templi buddisti, sono la discreta (ma sentita) invocazione di una moltitudine a non dimenticare, a non perdere neppure la più piccola delle idee, né i pochi centimetri di vita e di storia faticosamente conquistati. E’ l’offerta, e allo stesso tempo la richiesta, di un popolo che sussurra la sua supplica e la sua penitenza. Ma, la precarietà e la provvisorietà di quei fogli e di quella camera inquietano: basterebbe un soffio per scompaginare quel mosaico; basterebbe un battito d’ali per disperdere quella miriade di appunti, per spezzare la dolce poesia di un ricordo, la commozione di quell’omaggio. Basterebbe un nonnulla e quella preziosa manciata di secondi andrebbe irrimediabilmente perduta, travolta dall’indifferente eternità del mondo.

Lorella Giudiciper “Camera 312 – promemoria per Pierre”progetto a cura di Ruggero Maggi52.Biennale di Venezia, 2007

 

 

Connessioni ideali

Nell'ex protettorato britannico monta la protesta circa la libertà di scegliere i candidati al ruolo di governatore. Giovani studenti di Hong Kong, scesi in piazza per manifestare la volontà di libere elezioni contro il controllo delle candidature da parte cinese, si difendono dagli spray urticanti e lacrimogeni con uno strumento di uso quotidiano e ne fanno elemento-oggetto di protesta, ricordando la lezione di Mao “un’ immagine vale più di mille parole”.Le immagini di ombrelli, sorretti aperti in piazza, vengono subito diffuse in tutto il mondo e la protesta prende il nome di “umbrella revolution”.Gli ombrelli, permeati di una drammaticità intrinseca del disagio sociale in Cina, divengono supporti dove l’arte contemporanea occidentale incontra e sostiene l’arte sacra Tibetana. Una dialettica tra arte e impegno sociale, etico e ideologico, attraverso una serie di interventi in una pluralità di stili e ricerche differenti, ombrelli-poemi e ombrelli-opere realizzati sullo stesso campo d’indagine, la stoffa degli ombrelli, evocheranno l’ ombrello cerimoniale uno dei simboli presenti nello stupa.

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Ruggero Maggi chiama a raccolta artisti contemporanei per un’azione corale a favore della libertà di un popolo, della sua identità, dei suoi simboli e della propria spiritualità. Una ricerca artistica tesa all’unione e conoscenza di culture differenti con una precisa relazione del fenomeno artistico con il fenomeno spirituale, dove la spiritualità possa portarci a guardare oltre il confine territoriale determinando un’ideale connessione.Il padiglione Tibet crea il suo segno che esclude tutto quel che non riguarda l’autocoscienza centrata, una divisione tra ciò che è possibile – l’arte- da ciò che è accaduto – la storia- , molti degli artisti che si sono cimentati nella sperimentazione di un linguaggio dall’alto valore sociale, nel corso delle edizioni, hanno elaborato processi visuali differenti in relazione con lo spazio, singole opere in un’istallazione collettiva di estremo fascino e suggestione.Seguendo le tracce di Walter Evans-Wentz, antropologo e scrittore americano, affronteremo un ideale viaggio attraverso Europa, Arabia e India per approdare ai confini del Tibet sulle più alte vette del pianeta, la scoperta di una cultura dove l’opera d’arte serviva principalmente come icona, intermediario tra l’uomo e la divinità, -tongdol- (mothong-grol), liberazione (spirituale) per mezzo della visione (della divinità), in relazione con l’arte e la cultura occidentale. Una complessa e delicata operazione di conoscenza e scoperta del repertorio dell’arte contemporanea italiana contaminata dalla mistica visione tibetana, leggerne i segni e decifrarne i codici a sostegno di un popolo che lotta per la propria libertà.

Alexander Larrarteper Padiglione Tibetprogetto ideato e curato da Ruggero MaggiChiesa di Santa Marta, Venezia, 2015

 

 

Ecce ovo

Ruggero Maggi è artista poliedrico che si è avvalso nel suo percorso creativo di molti mezzi espressivi. Il pensiero alla base del suo operare è agire sulla realtà attraverso la manipolazione e le mise-en-scène degli oggetti, per suscitare in chi osserva una riflessione critica e quindi un possibile cambiamento.La quotidianità e la banalità dell’oggetto d’uso sono quindi riscattate da un processo simbolico e metalinguistico che ne fa intuire il significato altro e che colloca l’artista fra i discendenti di Dada, di cui conserva la carica eversiva, ironica e spesso ludica, e i surrealisti. Per Maggi l’arte è soprattutto comunicazione, e non a caso negli anni ’70 è stato uno degli esponenti più rappresentativi della Mail Art, un formidabile network del tempo per

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raggiungere migliaia di persone. Oggi è l’installazione multimediale la forma espressiva che meglio esprime la finalità del suo lavoro che, partendo dalla riflessione sull’arte, è approdato in anni recenti alla teoria del caos. Se la creatività è alla base della vita l’arte nasce dal caos, solo in apparenza ammasso informe e confuso, ma in realtà dotato di leggi proprie. All’origine del tutto c’è la cellula e nella cellula il patrimonio cromosomico che Maggi ha rappresentato con grande efficacia nella riproduzione plastica di un genoma frutto del lavoro corale con altri artisti.

All’origine del tutto c’è l’uovo, la cellula più macroscopica. Ed è proprio iniziando dall’uovo che l’artista esprime il suo pensiero sul riscaldamento globale e lo fa lanciando un grido d’allarme. Ma nessun catastrofismo, nessuna fine del mondo. Solo uova nel nido che a causa del gran caldo nascono cotte, anzi fritte. L’autocombustione è l’effetto più devastante e pauroso del global warming, ma l’artista non fa appello al senso di paura, bensì all’ironia e alla razionalità. E ottiene l’effetto di porre l’attenzione sulla gravità del problema con tocco leggero, con la levità di invisibili fili che scendono dall’alto mostrando nidi, autentici nidi, e al posto delle uova che vi si dovrebbero annidare, immagini fotografiche delle stesse cotte al tegamino. Quasi un divertissemant, una commistione fra realtà e finzione, fra oggetto e immagine, che nell’arte convivono senza contraddizione, perché come nel gioco tutto si anima e diventa vero.

Con l’installazione Ecce ovo, che contamina lo spazio in ogni punto, lo spettatore partecipa all’azione metaforica, come succede in “Camera 312 - promemoria per Pierre”, presentato dall’artista alla 52° Biennale di Venezia, in cui l’effetto totalizzante è ottenuto con la proliferazione coprente oggetti e spazio circostanti, di gialli post-it. L’installazione presentata a Vertigo rimanda anche per alcuni aspetti di rilevanza sociale al lavoro installativo di Maggi sulla fame nel mondo, e dell’Africa in particolare, in cui l’arte era pane e si vendeva a peso. L’espressione ecce ovo, mediante la sua assonanza con ecce homo, d’altra parte, richiama alla mente, al di là dell’aspetto ironico e concettuale dell’operazione, la passione di Cristo, a sottolineare un possibile sacrificio della terra a causa della cecità e dell’avidità dell’uomo. Nonostante il legame con la terra e l’universo sia una costante del lavoro dell’artista, tuttavia la tecnologia compare sempre a fugare il sospetto di un nostalgico ritorno alla natura tout-court, sotto forma di raggi laser o di luce di wood che al buio rende visibili i disegni graffiti con appositi inchiostri sui muri della Civica Galleria d’Arte Contemporanea di Gallarate e qui assume l’aspetto, ormai familiare, del video a significare un’arte meticciata, in cui i mezzi espressivi si coniugano mescolandosi fra di loro e dando luogo a nuovi linguaggi. La trasmigrazione, che è l’effetto della diffusione dei mass-media, avviene quindi all’interno dell’arte e all’esterno, mettendo in comunicazione forme espressive di paesi lontani in tempo reale. La virtualità, forma di realtà

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veicolata dai media, nasconde però, fra le mille opportunità, un pericolo insidioso: la perdita di contatto con il reale, preludio al solipsismo e alla mancanza di relazione. L’aver messo in atto un processo che ridesta la sensorialità assopita attraverso il tatto, l’udito (i gusci d’uovo sparsi sul pavimento, calpestati dal pubblico, producono un suono/rumore), la vista (con effetto immersione nell’opera), la razionalizzazione di un evento possibile, significa mettere al centro dell’arte la vita e l’uomo nella sua totalità.E’ quanto fa da anni Ruggero Maggi con risultati artistici di notevole spessore che lo collocano fra i sensori più sensibili del nostro tempo.

Mimma Pasqua  2008

 

 

Padiglione Tibet

I numerosi artisti presenti, come in uno scrigno contenitore non solo di tesori ma di suggestioni, speranze, desideri, hanno costruito, ognuno con il proprio linguaggio, unico e insostituibile, un affascinante percorso ideale in un territorio unico in cui l’uomo ha giocato senza sconti la sua partita con la libertà, una libertà misurata con un metro diverso da quello turbato dell’Occidente.  

Il Tibet è forse l’unico “altrove” che ci avvicina a una comprensione profonda di una delle culture spirituali più importanti d’Oriente. Unico per tradizioni, storie e leggende presenti nella sua stessa vita quotidiana e radicate anche in Occidente. Unico per la sua anima vulnerabile, il suo coraggio, la sua radicalità. Unico per l’esempio che offre di rifiuto dell’ambiguità morale che tutto pervade e tutto scolora. Unico perché continua a esercitare un fascino irresistibile.

Cristina Rossi

per Padiglione Tibet

progetto ideato e curato da Ruggero Maggi

Palazzo Zenobio, Venezia, 2017

 

 

La camera dell'eterno ritorno

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L’affetto e il riconoscimento di tanti per Pierre Restany, così emotivamente materializzato in questa installazione, sono una viva testimonianza dell’intenso amore per l’arte che lo ha caratterizzato. Amore appassionato e senza limite che lo portò a fare infinite esperienze e amicizie in vari luoghi del mondo. Un mondo di forti sfumature e stimoli, tanto variabili e mutevoli come in un caleidoscopio: una voragine di profili e sentimenti dove si mischiano in tale misura le tensioni del simbolo e la realtà, la natura e la civiltà, dell’incipiente e il visibile, che – ci arrischiamo a pensare – doveva ancorarli, con i suoi cinque sensi, in uno spazio stabile fuori di sé per poterli riconoscere dentro di sé. Questa marea di sguardi attenti e allusioni che oggi ricoprono le pareti della camera 312 profondamente costituiscono, nel senso più letterale, le pareti stesse di quella camera. Come ci segnala Mircea Eliade, l’istituzione di uno spazio sacro dove si rivive nel presente una scena mitica fuori dal tempo, è la risposta archetipica dell’uomo al suo terrore della storia, del divenire e della dissoluzione nella moltiplicità. E la vita tutta di Restany è stata, in ognuno dei suoi profusi dettagli, un inno glorioso alla storia – in questo caso, dell’arte, e attraverso essa, dell’uomo – e alla teofania della libertà. Per questo, l’eterno ritorno al monotono spazio di una stessa camera, alle sue stesse pareti, allo stesso ambito sicuro per conoscenza, sia come esorcismo all’universo palpitante che lui stesso invocava e celebrava, sia come rifugio davanti al passo vertiginoso di quella marea universale, ce lo fanno sembrare, per questi stessi motivi, così più vicino e riconoscibile nella nostra modesta umanità. Il patriarca mitico, sovraumano e tanto meritatamente adorato diventa così quello che sempre è stato: nostro fratello, lo specchio di quello che possiamo, e per quello stesso dovremmo, aspirare a essere.

Massimo Scaringellaper “Camera 312 – promemoria per Pierre”progetto a cura di Ruggero Maggi52.Biennale di Venezia, 2007

 

 

Padiglione Tibet

Esistono rivoluzioni silenziose che oppongono al fragore del mondo la gentilezza di forma e di senso. Non si tratta di una resistenza immediata e violenta, piuttosto di una costante, delicata, eppur visibile fede nella luminosità che appartiene al cuore umano e sopravvive nello spazio al riparo dalle ombre. È la storia a creare i suoi simboli e sono i simboli a raccontare la storia. Vicende come quelle di Hong Kong dimostrano che i simboli sono frequenze dinamiche, per nulla statiche, costantemente arricchite da ciò che

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accade. Tra le molteplici forme simboliche che costellano il mondo della storia culturale condivisa c’è anche l’ombrello, un simbolo antichissimo, sacro, che appartiene alle culture del bacino del mediterraneo così come in quelle sorte nell’area centro asiatica.

L’ombrello: elemento che protegge, difende, ripara, crea ombra e fende la pioggia. Un elemento strutturale importante dello stupa, il tempio buddista, nobile immagine della mente illuminata, diventa impulso per condurre ancora una volta una preziosa riflessione artistica e spirituale chiamata “Padiglione Tibet”. L’ombrello è elemento che irradia, si apre, proietta le energie all’esterno. E un ombrello diventa emblema di resistenza passiva, posto a protezione dalle energie negative, dalle intemperie della mente individuale e collettiva. La regalità del cuore passa spesso attraverso il linguaggio dell’arte, ed è l’arte, ancora una volta, a parlare di un intero popolo, a ribadire la nostra appartenenza a una radice comune. Certi che la sacralità del simbolo e dell’azione condivisa possa contribuire alla propagazione e ricezione di un messaggio di karuṇā, compassione, e prajñā, saggezza. Per ricordarci che se lo spazio è sacro, anche il tempo lo è. E non è più il tempo dell’attesa, ma della rivoluzione gentile, in grado di penetrare nel cuore umano rischiarandolo dalle ombre della non conoscenza.

Giuliana Schiavoneper Padiglione Tibetprogetto ideato e curato da Ruggero MaggiChiesa di Santa Marta, Venezia, 2015

 

 

UNITA' NELLA DIVERSITA'

Il Padiglione Tibet e il Padiglione Armenia a Palazzo Zenobio per la 57esima Biennale

Dalla data di fondazione che ricorreva nel 2010, il Padiglione Tibet ideato da Ruggero Maggi e sostenuto da artisti ed intellettuali di tutte le nazioni, ritorna a Venezia alla Biennale del 2017. Negli anni precedenti avevo già dato un mio contributo critico a questo incredibile progetto e per quanto sia felice di offrire nuovamente la mia collaborazione al Padiglione Tibet, sono rammaricata dalla triste riflessione che dopo tanti anni, la situazione politica di questo popolo non è cambiata. Ed è per questo che non voglio parlare della negazione d'identità alla quale il Tibet sembra essere stato condannato dalla comunità internazionale, ma al contrario vorrei soffermarmi sulla

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costante e imperitura presenza di questo Padiglione che nonostante tutto continua ad esserci raccogliendo sempre più consensi dal pubblico e dalla stampa.

Quest'anno per un caso fortunato di eventi, il Padiglione Tibet è ospitato a Palazzo Zenobio della Congregazione dei Padri Armeni di San Lazzaro.E' così che le drammatiche storie di due popoli, due splendide civiltà che arrivano dall'Oriente e che entrambe (seppur in epoche diverse) hanno subito soprusi e violenze, s'incontrano grazie all'Arte. Quello che si respira a Palazzo Zenobio dove al piano nobile si trova il Padiglione Armenia e al piano terra il Padiglione Tibet, è un clima di solidarietà che si basa sul dialogo instaurato dal coro di voci di tutti gli artisti che vi partecipano.Senza solidarietà non potranno mai esserci ponti, poiché la benevolenza verso l'altrui diversità è l'unica strada possibile per uscire dai propri confini e abbracciare il mondo.

Non c'è vera ricchezza senza gli altri, ma solo caparbia ostentazione di se stessi e del potere arrogante di chi governa che impoverisce i singoli individui e le loro nazioni. In questo particolare momento politico che l'Europa sta vivendo, la presenza dei due Padiglioni dell'Armenia e del Tibet nello stesso luogo, in Italia, a Venezia è una conferma di quel fondamentale principio di “unità nella diversità” dal quale si è formato il Sacro Romano Impero e molti secoli dopo, la nostra giovane Europa da sempre terra di accoglienza, democrazia e libertà.

Roberta SemeraroVenezia, 18 maggio 2017

 

 

Un demone dell’installazione

Ruggero Maggi è un artista che sfugge agli incasellamenti e alle definizioni di comodo. E non soltanto perché, ancora giovanissimo, si staccò subito dall’oggetto in sé, quadro o scultura, quale fatto estetico. Anche nell’ambito, ormai collaudatissimo, delle installazioni, nel quale sostanzialmente agisce, si rivela un globe-trotter della fenomenologia espressiva, un navigatore libero e rapace, un pirata dalla sensibilità multidirezionale e persino entusiasmante in talune sue spontanee contraddizioni.

Nel 1992 l’artista è vittima di un incidente automobilistico, ne esce ferito mentre il parabrezza della macchina è abbondantemente lesionato. Il risultato, appena superato lo shock? Il parabrezza viene esposto, inalterato,

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con un semplice surplus estetico-emotivo: un neon che lo attraversa orizzontalmente. Ed ecco il titolo dell’opera: “Caro Piero, forse forse quella sera pensavo troppo a te”. Didascalia completata con l’indicazione dei materiali: “parabrezza, sangue e neon”. Sì, in effetti, se di affinità o di raccordo si vuole parlare, il personaggio giusto da richiamare è proprio Piero Manzoni. Tant’è che, volendo tentare una sintesi del modo di operare di Maggi, riterrei opportuno parlare di arte comportamentale. Ma non comportamentale-concettuale, bensì comportamentale-oggettuale-installativa.

Infatti, sulle idealità del “caro Piero” si innestano, opportunamente filtrate e direzionate, influenze di Arte Povera per il modo come l’oggetto trovato viene trasferito subito non già in un oggetto esteticamente teso (vedi Schwitters, ad esempio), ma in una “messa in situazione” eticamente impegnata. In altra maniera, attraverso modi meno “déracinés” rispetto al poeta di Soncino, ogni opera di Maggi viene per così dire dalla sua “carne”, è – ovviamente, l’analogia è solo ideale e parallela – come la “merde” in scatola. E così dalla componente etico-simbolica (Manzoni) si passa alla componente etico-realistica (l’operazione installativa di Maggi). Un’operazione cruda, priva di orpelli. Un’asciuttezza che si apprezza ancor di più quando, nell’usare “new media”, come neon, ologramma, laser o altro, la naturale spettacolarità di questi materiali viene controllata fino a livelli minimali. Anche perché tali “immateriali” molto spesso colludono o si fondono con materiali tradizionalissimi quale il legno o la fotografia con il suo contributo evocativo.

Il primo incontro con Maggi è stato mediato dalla corrispondenza, come usava un tempo. Credo sulla fine degli anni ’70 egli mi inviava del materiale relativo a una sua produzione connessa con l’Amazzonia, da dove probabilmente era appena tornato. E a questo proposito mi aveva pensato in quanto allora, con Pierre Restany, ci si occupava di “Natura Integrale”, rivista-laboratorio tesa alla rieducazione sensoriale e all’ecologia della sensibilità. Cito questo fatto perché credo che nelle opere di questo demone dell’installazione (se Re Mida trasformava tutto quanto toccava in oro, il Re Maggi trasforma tutto in installazione) ci sia, senza nulla togliere alla mobilità ideativa, un rigore etico di tipo fondamentale, come scaturente da una esperienza di inflessibilità emblematica quale una natura terribile quale l’Amazzonia può trasmettere.

Carmelo Strano

 

 

Mandala dell’universo

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La percezione del mondo, dell’universo cosiddetto esteriore, è soggettiva per l’individuo che è, appunto, colui che percepisce. In senso generale mandala significa “centro” o “contenuto interiore”, è racchiuso in un cerchio e rappresenta anche questo universo. Descritto nella tradizione Abhidarma, il mandala viene offerto nelle pratiche preliminari del Vajrayana, che nel buddhismo della cultura indo-tibetana deriva dal Mahayana quando questi ricorre agli “espedienti salvifici” che permettono di raggiungere l’Illuminazione in poche se non addirittura in una sola vita. Questa rappresentazione, sul piano straordinario del Vajrayana, ha invece il significato di quintessenza di tutte le cose. Da ciò ne consegue che il praticante, nel momento in cui medita con la visualizzazione di questa immagine, supera la semplice percezione della realtà fenomenica del mondo così come appare all’occhio profano e riesce a raggiungere il suo “centro” che è la mente di saggezza dei buddha, la realtà del dharmadhatu percepita dagli esseri illuminati.Il palazzo quadrato con quattro porte a forma di T, inscritto in un cerchio bordato di vajra e fiamme, è la rappresentazione tibetana classica del mandala, mentre le varianti fanno riferimento al tantra che di volta in volta viene preso in considerazione nelle iniziazioni e nei sadhana, che in pratica sono dei metodi usati per il conseguimento della realizzazione e nuclei centrali e fondamento di ogni rito tantrico.

Questo palazzo è visibile in forma grafica bidimensionale nei thanka, dipinti su tela, generalmente circondati da broccato, arrotolabili per poter essere trasportati agevolmente in occasione di un qualsiasi spostamento. Un altro modo di creare questa immagine è quello usato dai monaci, ritualmente, in occasione di una iniziazione, con sabbia di vari colori, e poi distrutta con la dispersione nell’acqua di un lago o di un fiume dopo averla raccolta in un’urna. Esistono però testimonianze tridimensionali eclatanti, di grandi dimensioni, di cui conosciamo l’esistenza passata solo dalle fonti storiche, come l’università buddista di Odantapuri in India, distrutta dalle invasioni musulmane del XII secolo, mentre di altre abbiamo ancora testimonianza. Queste ultime sono costitute, per esempio, da edifici come monasteri (a Samyé, Tibet centrale) o come il grande stupa di Borobudur a Giava.I quattro punti cardinali del palazzo corrispondono a quattro colori, bianco a est, giallo a sud, rosso a ovest e verde a nord, ma possono anche cambiare a seconda della deità e se la rappresentazione è bidimensionale e appesa, in basso di fronte all’osservatore ci sarà l’est, a sinistra il sud, l’ovest in alto e il nord a destra, nel mandala di sabbia l’est è rivolto verso il praticante.È forse irriverente porsi di fronte al mandala e alla sua creazione, e lasciare che la nostra mente di occidentale, anche se praticante, lasci che il pensiero, per una volta non disciplinato, si sposti sull’arte? Dobbiamo correre il rischio e cercare un ponte di passaggio, pensando per esempio all’arte gestuale e quasi rituale di Jackson Pollock che nel gocciolamento circolare dei colori ci rimanda alla cultura ritualistica e apotropaica dei nativi americani, alla Spiral

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Jetty di Robert Smithson, destinata a essere modificata dalla forza della natura e quindi con l’idea di impermanenza come caratteristica fondante originaria, ma anche alla perfezione formale di un qualsiasi Stone Circle di Richard Long, sovraccarico di energie cosmiche.

Nel mandala una realtà esoterica è rappresentata in maniera simbolica, bidimensionale, per diventare poi architettura sacra, mentre, con un processo inverso, l’arte occidentale da rappresentazione della realtà tangibile, in certi casi diventa una tangibile e poi, negli ultimi esiti, intangibile. È questa la rappresentazione di un pensiero visibile in un progetto che è l’opera stessa, come avviene abitualmente nell’arte concettuale. La tangenza culturale visiva tra oriente e occidente, tra dominio della mente e creatività liberata non risiede in una tensione estetica, c’è il momento in cui nell’arte classica la bellezza significa equilibrio delle forme come contenuto morale e il bello viene fatto coincidere con il buono, mentre all’interno del percorso dissacrante della modernità il percorso è tutto all’interno della conoscenza: soffermandosi su quello che si conosce e non su quello che si vede, su quello che si sente e non su quello che l’occhio percepisce. Tanto che questo modo di procedere sposta la rappresentazione dal retinico al filosofico e tocca la stessa gamma del brutto e del deforme. Pensiamo a Cézanne, a Matisse, al Cubismo, e così via.

C’è un continuum significante, che crea un collegamento possibile tra la cultura buddhista e parte della cultura occidentale, di processi e contenuti che si esprime non sempre all’interno della stessa logica del procedere e non risiede negli stessi luoghi della mente ma evidenzia un bisogno o una radice diramata, se così si vuol dire, che per Guenon rappresenterebbe la prova di una matrice primigenia comune alla tradizione esoterica di molti popoli.Quando S.S. il Dalai Lama parla di etica del terzo millennio, si riferisce a una etica laica, quindi condivisibile da tutti gli esseri umani, religiosi praticanti e non. Allo stesso modo, nelle creazioni visive, è possibile riconoscere dei segni, dei colori che ci appartengono e sono condivisibili se non da un punto di vista strettamente culturale, per lo meno da un punto di vista umano. L’elemento formale veicola significati palesi, intenzione e progettualità, ma l’autore è sempre strumento espressivo metalinguistico: trasforma e trasporta quello che ha a disposizione dentro di sé e fuori di sé. È la visione ragionata che accoglie la possibilità che ci viene offerta, per una seppur remota, eppure non impossibile, illuminazione o per un semplice frammento di luce.

Elisabetta Bacci e Roberto Vidaliper Padiglione Tibetprogetto ideato e curato da Ruggero MaggiChiesa di Santa Marta, Venezia, 2015

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Underwood

Nell’opera fondamentale della mitologia greca, la Teogonia di Esiodo, il Caos è la figurazione iniziale, seguita poi da Gaia (Terra) dal Tartaro e da Eros. Si dice subito dopo che dal Caos nacquero Erebo e la Notte e che dalla loro unione nacquero l’Etere e il Giorno. Il termine “Caos”, derivato da “spalancarsi”e “aprirsi”, viene qui utilizzato con l’accezione di “abisso” e “baratro”; il Caos è infatti descritto come tenebroso e ad esso è riferibile il senso di una grande voragine, quella forse che separa il cielo dalla terra. Il Caos inoltre è sempre collegabile in un rapporto di dipendenza con l’oscurità, la Notte: “Dal Caos nacquero Erebo e la nera Notte”, scrive Aristotele (…), riferimento significativo dato che l’oscurità come fonte e origine delle cose sembra essere un elemento emblematico nella mitologia primitiva; si ritrova nella cosmogonia orfica e anche in molti miti non greci.La preminenza della Notte, dell’oscurità come origine delle cose si coglie come primo dato sensibile nella grande opera site specific di Ruggero Maggi, per la quale la frontiera tra due condizioni di luce diverse, la luce tradizionale a incandescenza che illumina vuote pareti espositive e la luce di Wood che rivela l’essenza dell’intervento pittorico, è data proprio dal buio, dell’oscuramento, senza il quale l’opera non sarebbe. Si tratta, ovviamente, di una frontiera la cui origine risiede nel movimento, nel passaggio, nel trascorrere da una condizione ad un’altra; dall’assenza e dal silenzio dello spazio bianco che accoglie il visitatore, allo stupore di immagini, di segni, di scritture e graffiti fluorescenti, rivelati improvvisamente dal Wood. Dal superamento del confine emerge un ordine nascosto, più inquietante ma ben più coinvolgente e denso di richiami significativi, suggestioni, alterazioni. Emerge il Caos.

Proprio la scritta Caos è al centro dell’opera, è il cuore pulsante da cui segni, scritture e immagini hanno origine, concettualmente ed anche visivamente.Per cominciare Maggi non ha scelto un segno grafico qualunque ma ha ingrandito, trascinato e fatto esplodere l’immagine di copertina del testo Caos. La nascita di una nuova scienza di James Gleick (BUR, 2000), testo guida per Maggi e per chiunque affronti oggi la teoria del Caos.“Dove comincia il Caos si arresta la scienza classica – scrive nel prologo Gleick – Finché il mondo ha avuto fisici che investigavano le leggi della natura ha infatti sofferto di una speciale ignoranza, sul disordine presente nell’atmosfera, nel mare turbolento, nelle fluttuazioni delle popolazioni di animali e piante allo stato di natura, nelle oscillazioni di cuore e cervello.

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L’aspetto irregolare della natura, il suo lato discontinuo e incostante, per la scienza sono stati dei veri rompicapo o peggio mostruosità. Ma negli anni Settanta alcuni scienziati, negli Stati Uniti e in Europa, cominciarono a trovare una via per orientarsi nel disordine. Erano matematici, fisici, biologi, chimici, tutti alla ricerca di connessioni tra diversi tipi di irregolarità (…). Ora che la scienza lo sta cercando, pare che il Caos sia presente dappertutto (…)”.La teoria del Caos dunque nasce quando la scienza classica non ha più mezzi per spiegare gli aspetti irregolari e incostanti della natura.Se nella scienza classica il Caos era, per definizione, assenza di ordine, oggi è inteso come ordine complesso dove le regole dell’antica idea di armonia hanno lasciato il posto a sistemi dinamici, non deterministici, partecipi al tempo stesso di ordine e disordine, equilibrio e non equilibrio.La nuova visione della natura oscilla dunque tra condizioni vincolanti e libertà tra loro dinamicamente convesse.

Tutto questo significa da un lato trovare nuove risposte agli interrogativi e allo sguardo critico sul mondo; dall’altro, nel campo specificatamente artistico, approdare a immagini e a interventi consapevoli delle prospettive aperte dalla scienza e dunque mettere in discussione, uno dopo l’altro, tutti i fondamenti del sapere e dell’arte ereditati dall’età moderna. Metterli in discussione, non rifiutarli a priori. In questa logica si muove con lucidità Ruggero Maggi, assumendo su di sé e nella propria opera tutta la forza generatrice che il Caos aveva nell’antichità e le infinite potenzialità aperte dalla Teoria del Caos, non regola, non legge ma fulcro e forza di creazione. Ho già fatto notare che in Underwood l’attrattore è la stessa scritta Caos che esplodendo, dilaga sulle pareti, sui pilastri, sul soffitto dando luogo a forme frattali che, con un procedimento identico allo zoom, potrebbero proseguire all’infinito.

Come tutte le forme frattali, anziché perdere di riconoscibilità nel dettaglio, ingrandite, e dunque modificate, si arricchiscono di nuovi particolari e conducono la mano di Maggi (come lo sguardo dello spettatore) verso nuove e imprevedibili immagini. Sì, perché anche l’opera di Ruggero non è pianificata e progettata tutta a priori, secondo regole e schemi. Si muove piuttosto con andamenti imprevisti secondo dinamiche nascoste, non preordinate, inseguendo i suggerimenti dettati dallo stesso lavoro. Dunque una Teoria del Caos non semplicemente enunciata ma profondamente vissuta da Maggi e, direi, anche da me stessa. Scrivere di un’opera mentre questa sta ancora affiorando con tutte le imprevedibilità del caso è infatti essere già dentro a una particolare visione del mondo, a un processo non deterministico dove il disordine diventa poi ordine. Il lavoro è veramente a stretto contatto: partiamo da un progetto, lo modifichiamo fino a giungere ad altro. I confronti sono serrati, senza scontri ma anche senza finzioni.

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Ho chiamato Ruggero Maggi a intervenire nel museo partendo dall’esposizione della prestigiosa collezione permanente dedicata alla mail art e alla poesia visiva. Maggi, si sa, è un maestro e un precursore in questo campo, come artista e come curator. […] Chiedo a Maggi un progetto site specific che possieda le caratteristiche della mail art, la leggerezza, l’ironia, l’uso della parola e dell’immagine fuse insieme, la capacità di trascorrere tra concezioni estetiche diverse giungendo ad una visione dinamica eppure unitaria, senza, necessariamente il supporto della cartolina e della sua spedizione. Ed ecco Underwood, ambiente plurisensoriale, dove la luce di wood permette di andare oltre al nulla, di superare l’assenza e di scoprire l’ under wood, il sottobosco, ciò che non si vede nell’immediato ma che c’è, esiste, è ben presente. Di scoprire, insomma, tutta la storia artistica di Maggi dagli anni Settanta ad oggi, la sua ricerca linguistica e la sua poetica, articolata ma nel contempo unitaria.

Non mi riferisco, per questo specifico intervento, alla combinazione tra elementi tecnologici e elementi primari che, di norma, caratterizza la natura linguistica dell’artista. In Underwood infatti la dialettica della materia è davvero ridotta al minimo: luce a incandescenza, luce di wood, medium pittorico fluorescente e la tridimensionalità degli stessi spazi.Mi riferisco invece a icone centrali nell’immaginario di Maggi, qui riunite a costituire quasi una summa del suo pensiero: l’impronta stilizzata di un uomo sdraiato a terra, le ali di una farfalla; la Mucca caotica, il volto di Einstein, le figure di Alice o di una rana; la tavolozza tecnologica e poi scritte, commenti, citazioni, segni che si disperdono e si rincorrono ruotando tutti attorno alla scritta Caos.

Ogni intervento di Maggi ha le sue radici nel passato e la sua proiezione nel futuro: nel 1988 Maggi viene invitato a tenere in Giappone l’azione performativa Progetto ombra, in memoria delle vittime dell’atomica. Da quell’esperienza la sagoma di uomini e donne sdraiate a terra, piena o vuota, bidimensionale o tridimensionale, diventa un motivo ricorrente nei suoi lavori, non tanto come ripetizione di un gesto già visto quanto piuttosto come segno significante che emerge, in occasioni e lavori diversi, portando con sé tutta la propria carica evocativa. Lo stesso avviene in Underwood, dove un’intera parete accoglie la sagoma umana dentro la quale scorrono segni e parole che suggeriscono situazioni, riflessioni, pensieri attorno alla natura dell’uomo e alla teoria del Caos.

Analogamente la rappresentazione grafica di una mucca suddivisa nei suoi tagli di carne e “dedicata” a grandi uomini dell’arte, della scienza, della filosofia, non è invenzione nuova ma viene da una grande scultura tridimensionale realizzata da Maggi, la Mucca caotica, trasformata in

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Underwood in segno grafico e riproposta dunque quale icona di se stessa.Senza entrare nel merito di ogni particolare e di ogni scelta iconografica organizzata nel racconto-non racconto di Underwood, ciò che conta è cogliere nell’ambiente di Maggi non una narrazione preordinata e univoca quanto piuttosto la presenza di infiniti nuclei semantici che si schiudono improvvisamente per rivelare, nella meraviglia dell’inaspettato,un mondo quasi sempre nascosto ai nostri occhi.

Emma Zanella  (direttrice Museo MAGA di Gallarate).

 

Testi critici di Pierre Restany,  Donatella Airoldi, Giosuè Allegrini, Rolando  Bellini, Sandro  Bongiani, Lara Caccia, Mauro Carrera, Giorgia Cassini, Jacqueline Ceresoli, Gio Ferri, Giulia Fresca, Matteo Galbiati, Maria Laura Gelmini, Lorella Giudici, Alexander Larrarte, Mimma Pasqua, Massimo Scaringella, Giuliana Schiavone, Roberta Semeraro, Carmelo Strano, Elisabetta Bacci e Roberto Vidali, Emma Zanella.

 

 

 

LE INTERVISTE:

Interviste di Giovanni Bonanno e Roberto Vidali

 

INTERVISTE/ L'intervista di Giovanni Bonanno a un caotico casuale

- L‘intervista si riferisce a un incontro tra Ruggero Maggi e Giovanni Bonanno negli anni 90, nello studio di Milano.

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Giovanni Bonanno: In questi ultimi anni c’è un proliferare di artisti, di critici, di gallerie e soprattutto di artisti giovani che si “offrono” ai vari critici alla moda e accettano di essere sacrificati sull'altare dell’arte. Cosa ne pensi?

Ruggero Maggi: Conosco giovani che sono dei veri e propri arrampicatori sociali. D'altronde, giovani o vecchi, gli artisti che vogliono arrivare in fretta a certi traguardi, devono bruciare le tappe, così usano qualsiasi mezzo. Non è tanto un fatto di gioventù o di vecchiaia, ma di mentalità.

G.B.: Io sono convinto che se non si hanno dei riferimenti che possano garantire degli stimoli; una presa di coscienza autentica, non si può lavorare seriamente. Barilli, con le sue ondate di caldo e di freddo, pensa che l’arte si rinnovi a scadenze periodiche, per cui a ogni decennio, c”e il tentativo di rivelarci dove va l’arte contemporanea, purtroppo sempre lontano dall'interno della “cosa”, cioè della creatività più infuocata.

R.M.: Barilli, pensa che ci sia in atto qualche cosa di nuovo (vedi la rassegna “AnniNovanta”, tenutasi recentemente a Bologna), in realtà le situazioni nuove sono ben poche e quelle poche non sono sempre inserite in un certo circuito ufficiale.

G.B.: E’ colpa dei critici “creativi”, se l’arte diventa sempre più ripetitiva e omologata?

R.M.: E’ colpa dei critici che non fanno il proprio mestiere. Il vero critico deve scrivere, criticare e non solo limitarsi a organizzare rassegne.

G.B.: Perché il critico non ha più voglia di criticare?

R.M.: Perché il critico non è più un poeta. Una volta, vedi P. Restany,  erano dei poeti, degli artisti loro stessi, adesso è un personaggio impelagato nel sistema politico e istituzionale e quindi strumentalizzato.

G.B.: Nel panorama contemporaneo dell’arte esistono due tipi di artisti; quei pittori che collaborano con il sistema “mafioso” dell’arte, e poi “gli altri”, i franchi tiratori, come noi, liberi da obblighi e da vincoli.

R.M.: L’artista, emarginato volutamente o comunque costretto a farlo, ha una visione più lucida rispetto ad un artista inserito in un certo mondo ufficiale. Per forza di cose egli viene “assorbito” dal mercato, con una produzione, a livello poetico, quanto meno ripetitiva e involutiva.

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G.B.; Sicuramente, Barìlli e A. Bonito Oliva, sono stati i grandi artefici che hanno “condizionato”, un pò troppo, il sistema dell’arte in Italia, con il relativo appiattimento di idee e di contenuti.

R.M.: Molti artisti sono diventati pigri, non vogliono sacrificarsi molto, vogliono arrivare in fretta, comodamente. L’artista non deve diventare un “bancario”, un manager di sé stesso. Trovando sulla propria strada tutti questi critici che “inventano” continuamente ipotesi tipo trans, post, neo, alcuni artisti accolgono tali proposte partecipando a questi “comodi movimenti” che, secondo me, non sono assolutamente “veri movimenti”, ma solo brutte copie di movimenti passati. Il vero artista è il ricercatore.

G.B.: Riguardo il sistema “ufficiale” dell’arte, il tuo posizionamento è autonomo, rispetto a mode e tendenze pre-confezionate. Una ricerca senza contenuti, senza ripensamenti o riflessioni, non ha senso. Iil silenzio serve a costruire un lavoro nuovo. Diceva Marcel Duchamp : Il grande artista deve andare nella clandestinità e nell’anonimato. Sicuramente, con la Mail Art, la dichiarazione di Duchamp diventa un lucido programma, dal momento che non c’è nessun interesse commerciale e si presta a questa “nuova dimensione” per la sua intrinseca capacità di scavalcamento della critica, dei galleristi, del mercato, in un confronto “diretto”, tra un artista e l’altro e, soprattutto, in un attraversamento “libero” delle più diverse tendenze dell’arte di ricerca.

R.M.: Ognuno di noi, Mail Artisti, contribuisce alla Mail Art, apportando qualcosa di nuovo, con la propria mentalità, esperienza, fantasia. La Mail Art, per me, ha un’importanza prevalente; realizzo operazioni di Mai Art dal 1975, e, al tempo stesso, ho sempre operato anche a livello professionale anche se mi reputo molto poco ufficiale, perché non seguo le mode.

G.B.: In questi ultimi tempi, dopo che il linguaggio dell’arte risulta nettamente omologato a livello planetario, si parla, con insistenza, di marginalità, di periferia, mi chiedo: Più marginale dell’operazione Mail, come mai gli artisti postali, non vengono presi in considerazione?

R.M.: In verità, tra il mondo “ufficiale” dell’arte e quello della Mail Art non ci sono punti di contatto, per tanti fattori, anche se ultimamente, certi passi per avvicinare i due mondi sono stati fatti, vedi la Mostra di novembre dell’anno scorso, al Palazzo degli Uffizi a Firenze, dedicata, appunto, alla Mail Art, tanti altri eventi che sono stati realizzati  in questi ultimi anni. Prima hai accennato all'aspetto “ludico” della Mail art; molti, purtroppo, pensano che la Mail Art sia soltanto giocare con le cartoline, i francobolli, i timbrini, ma non è così, io per esempio, ho organizzato più volte una manifestazione chiamata “Progetto Ombra”,  dedicato alla distruzione atomica di Hiroshima, argomento su cui

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non mi sembra che ci sia proprio da scherzare. Ci sono operatori, tipo Clemente Padin in Uruguay, che sono stati, addirittura messi in galera per le loro opinioni politiche, e dalle prigioni mandavano dei messaggi a tutto il mondo, sulla situazione politica e dittatoriale del loro paese.

G.B.: Sei un artista, un organizzatore”perfetto” di interessanti rassegne e, soprattutto, un uomo libero e autentico in questa giungla di cartapesta. Come hai iniziato la tua attività, come è sorto questo bisogno incontenibile di fare arte? Se non ricordo male, hai iniziato come gallerista, gestendo a Milano, in via Fatebenefratelli, il Milan Art Center.

R.M.: Nel 1973 avevo solo 22 anni, in quell’epoca l’artista era per me un personaggio talmente affascinante e importante, che non pensavo lontanamente di poter fare quel lavoro a livello professionale, perchè li vedevo come dei “mostri sacri”. Vivendo dentro al mondo dell’arte e conoscendo quindi gli artisti stessi un pò più da vicino, mi sono convinto che potevo fare benissimo un certo tipo di lavoro. Dal 1973 al 1979 ho continuato a gestire il Milan Art Center. Dopo il 1979 sono andato a vivere in Perù per diverso tempo. Ritornato a Milano, dopo aver preso la direzione,assieme a T. Montanari, del Centro Lavoro Arte riaprii il Milan Art Center, inteso come spazio multimediale, interessato ad un certo tipo di sperimentazione che certe gallerie ancora rifiutano: performances, installazioni, video arte, mail art etc).

G.B.: Vuoi dirci qualcosa del tuo metodo di lavoro, per realizzare l’opera parti da un progetto?

R.M.: No, generalmente parto da una visione particolarmente stimolante avuta in ....strada. Sono un “raccoglitore” dei più disparati oggetti, che trovo, appunto per la strada e che poi riutilizzo. Sono sempre stato attratto dalla luce, dai tubi al neon, dal laser; tutti elementi tecnologici, che associo ai materiali trovati, più primitivi (terra, legno, pietra, fossile).

 

G.B.: Quali progetti hai realizzato recentemente?

R. M.: Ho organizzato una rassegna d’arte contemporanea italiana, “Italian Report” nel prestigioso Museo Municipale di Tokyo, all’Art Space di Nishinomiya,vicino Osaka e al City Museum di Kyoto. Nel 1993, con P. Barrile, ho realizzato un omaggio a Piero Manzoni, alla sua linea infinita. Piero Manzoni è stato un grande ricercatore, spesso polemico, ma molto intelligente. Piero, poteva essere un grande Mail Artista, peccato che nel 1963, anno in cui è morto, non fosse ancora nata la Mail Art.

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G.B.: Come artista, hai un sogno nel cassetto che vorresti realizzare?

R. M.: Di sogni ne ho tanti. Vorrei fare un’installazione al Castello di Barletta, un castello “bellissimo”, che ha dei sotterranei ancora più splendidi; sono dei luoghi fantastici, magici, dove mi piacerebbe collocare un enorme serpente di pietra e tubi al neon. Un altro sogno è quello di realizzare “il libro d’artista più grande del mondo”, in una cava semi-abbandonata vicino a Prato. Su una parete nuda della collina sono visibili diverse stratificazioni geologiche che mi sembrano pagine di un libro. Su queste “stratificazioni”, con delle enormi lettere al neon, vorrei scrivere una lettera ideale di Darwin.

Giovanni  BonannoMilano, 1990

 

 

INTERVISTE/ In conversazione con Ruggero MaggiROBERTO VIDALI 12 NOVEMBRE 2019

La vita artistica di Ruggero Maggi è stata plasmata dalla curiosità del mondo circostante. A 22 anni aprì una galleria d’arte multimediale: il Milan Art Center. La ricerca, la sperimentazione, il neon, il laser, l’olografia, l’incontro inconsapevole con la Poesia Visiva, i libri d’artista e l’incredibile mondo della Mail Art furono i suoi interessi di quegli anni.

Se penso alla tua storia vedo tre strade importanti che si intersecano nelle vesti di autore e promotore: la prima strada è senza dubbio il tuo lungo rapporto intercorso con Restany…

Conobbi Pierre negli anni ‘70. Accompagnavo un artista fiorentino amico mio che, avendo appuntamento con Restany, ma non conoscendo Milano, mi chiese di accompagnarlo all’Hotel Manzoni, residenza milanese di Pierre. Dopo una visione della documentazione portata dall’artista e incuriosito dalla mia presenza, gli dissi che ero appena tornato da un viaggio in Perù e che ero stato da poco nell’Amazzonia peruviana. Amazzonia fu la parola magica

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che fece scattare un immediato contatto spirituale: anche lui era un grande amante e conoscitore della Foresta amazzonica e del suo mondo. Da allora ci incontrammo numerose volte e sempre, immediato, scattava il ricordo di quell’amore comune che ci ha profondamente legato. Quando, una decina di anni fa, gli chiesi per la prima volta se avesse potuto o voluto scrivere qualcosa sul mio lavoro, non ebbe esitazioni e ne scaturì quel testo Più vero di Natura che si è rivelato fondamentale per la mia ricerca. Dopo la sua scomparsa ho pensato di rendergli omaggio con un progetto non solo a lui dedicato, ma su di lui incentrato: “Camera 312 – promemoria per Pierre” presentato anche alla Biennale di Venezia nel 2007 all’interno di uno spazio in cui le pareti furono avvolte da fluttuanti Post-it gialli e dove fu esposto anche l’arredamento originale della camera 312 dell’Hotel Manzoni in cui Pierre soggiornò per oltre trent’anni.

Il secondo punto nodale del tuo percorso artistico è incentrato sulla mail art e sulla piccola editoria d’artista…

L’Arte Postale mi accompagna dal 1975. La Mail Art non è solo un banale scambio di lettere o di cartoline, ma ha da sempre rappresentato un esplosivo esempio di deflagrante creatività. L’Arte Postale è stata ed è ancora per me una meravigliosa avventura! Nel 1975 iniziai a lavorare anche su piccoli oggetti a cui davo la forma di libri… pagine come opere d’arte, pagine che non si sfogliano e fissate nel tempo. Nello stesso periodo fondai anche un particolare archivio/biblioteca Non solo libri che raccoglie più di un migliaio di monotipi realizzati da artisti di tutto il mondo.

Infine il progetto del Padiglione Tibet, ultimo e attuale nodo della tua avventura artistica…

Padiglione Tibet è un’idea del 2010: da allora rappresenta un ponte tra culture, fra arte contemporanea occidentale e iconografia tibetana. Un progetto nato per non dimenticare una cultura millenaria che la Cina vorrebbe distruggere… per restituire al Tibet la dignità di una nazione di diritto. L’accostamento di due semplici parole: “Padiglione” e “Tibet” che, in occasione della biennale veneziana, assumono un significato particolare di identità geo-politica rendendo utopicamente il Tibet un paese autonomo. Mi piace pensare a Padiglione Tibet come a un sogno che ha lasciato il segno ma, come diceva Kubrick, i sogni non sono mai solamente sogni.

Parliamo ora della tua ricerca sulla teoria del Caos…

Ho iniziato ad interessarmi alla teoria del Caos già negli anni ‘80 e nel ‘98 creai e organizzai quello che credo si possa considerare il primo vero evento d’arte contemporanea dedicata a tale argomento: Caos italiano in simultanea con specifiche sezioni in tre gallerie milanesi. Permettimi una autocitazione

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tratta da Fratello frattale che scrissi per tale occasione: “Il caos va oltre la conformazione prettamente fisica della nostra vita e pervade la stessa coscienza umana, per regolare, in una successione di eventi in apparenza casuali, l’intera esistenza. La nostra stessa vita potrebbe quindi ritenersi uno schema frattale molto complesso in espansione sia a livello fisico che metafisico, sia temporale che spaziale”. Possiamo rappresentare questa evoluzione spazio-temporale come una linea-vita che si propaga su diversi livelli, su vari possibili strati esistenziali (come per esempio nel film Sliding doors), come una frattura su una lastra di vetro o in un arido terreno.

Ci racconti qualcosa sulle tue installazioni con il laser e il neon?

Ho sempre considerato la luce come elemento primario di ricerca, come reale materiale-sorgente di strutture, di schemi, di segni e linee. Nei primi anni ‘70 le prove con la luce neon che accostavo alla dura roccia delle incisioni della Val Camonica o alla fibrosa sostanza del legno, e poi il laser che sfiora e legge la rugosità dei materiali e gli studi sull’interferometria che mi portarono all’olografia con i primi film 3D realizzati nel ‘79.

E riguardo alla luce wood, peraltro usata alla GAM di Gallarate?

Nel 2006 fui invitato da Emma Zanella, direttrice dell’allora GAM di Gallarate (ora MAGA), a realizzare un’installazione site-specific che possedesse ironia, uso della parola e dell’immagine. Fu un periodo molto particolare e intenso: immerso nella penombra del museo, lavorando con il solo wood che irradiava lo spazio di una luce irreale, metafisica, mi impegnai a dipingere direttamente sulle pareti del museo con una speciale vernice fluorescente (ma trasparente alla luce normale) segni che altrimenti non sarebbero stati percepiti dall’occhio. Fu un’esperienza unica. Emma scrisse sulla presentazione del catalogo: “Ed ecco Underwood, ambiente plurisensoriale dove la luce di wood permette di andare oltre al nulla, di superare l’assenza e di scoprire l’under wood, il sottobosco, ciò che non si vede nell’immediato ma che c’è, esiste, è ben presente”.

Progetti per il 2020?

Per il 2020, oltre a progetti in fieri (per me “the art is the project”), prevedo la pubblicazione di una monografia, il restyling dei miei siti e la riorganizzazione dei miei archivi.

 

 

 

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La Biografia di Ruggero Maggi

Dal 1973 si occupa di poesia visiva e libri d'artista (Archivio Non Solo Libri); dal 1975 di copy art e arte postale (Archivio Amazon); dal 1976 di laser art, dal 1979 di olografia, dal 1980 di X-ray art e dal 1985 di arte caotica sia come artista - con opere ed installazioni incentrate sullo studio del caos, dell’entropia e dei sistemi frattali - sia come curatore di eventi: “Caos italiano” 1998; “Caos – Caotica Arte Ordinata Scienza” 1999 – 2000; “Isole frattali” 2003, “CaoTiCa” 2004, “Attrazione frattale” 2006, “Caos e Complessità” 2009, “Caos, l’anima del caso” 2010, “Caotica.2014” Lodi e Jesi.

Tra le installazioni olografiche: “Una foresta di pietre” (Media Art Festival - Osnabrück 1988) e “Un semplice punto esclamativo” (Mostra internazionale d’Arte Olografica alla Rocca Paolina di Perugia – 1992); tra le installazioni di laser art: “Morte caotica” e “Una lunga linea silenziosa” (1993), “Il grande libro della vita” e “Il peccatore casuale” (1994), “La nascita delle idee” (1993) esposta nel 1995 al Museo d’Arte di San Paolo (BR).

Suoi lavori sono esposti al Museo di Storia Cinese di Pechino ed alla GAM di Gallarate. Ha inoltre partecipato alla 49./52./54. Biennale di Venezia ed alla 16. Biennale d’arte contemporanea di San Paolo nel 1980.

2006 realizza “Underwood” installazione site-specific per la Galleria d’Arte Moderna di Gallarate.

2007 presenta come curatore il progetto dedicato a Pierre Restany “Camera 312 – promemoria per Pierre” alla 52. Biennale di Venezia.

2008 presenta come curatore il progetto “Profondità 45 – Michelangelo al lavoro” sul rapporto Arte -Tecnologia. Nel 2008 a Villa Glisenti (BS) ed all’Art Centre della Silpakorn University di Bangkok, per un simposio artistico italo-thailandese dedicato alle problematiche del riscaldamento globale, realizza l’installazione “Ecce ovo”.

2009 cura l’installazione site-specific collettiva “Prima o poi ogni muro cade” all’interno di PLAZA: OLTRE IL LIMITE 1989-2009 XX Anniversario della caduta del Muro di Berlino in Galleria del Corso a Milano; evento

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successivamente presentato a Villa Pomini a Castellanza (VA) e Spazio Luparia a Stresa.

2010 “GenerAction – un promemoria per le generazioni” progetto di Mail Post.it Art presso la Galleria di Arti Visive dell’Università del Melo - Gallarate.

2011/2013/2015/2017 presenta a Venezia con il Patrocinio del Comune di Venezia Padiglione Tibet, progetto presentato successivamente alla Biennale di Venezia, al Museo Diotti di Casalmaggiore (CR), palazzo Ducale di Genova e presso la Biblioteca Laudense di Lodi.

2014 PadiglioneTibet partecipa alla Bienal del Fin del Mundo in Argentina.

2016 “TERRA/materiaprima” progetto di Mail Art presso la Galleria di Arti Visive dell’Università del Melo – Gallarate.

2016 presenta Padiglione Tibet al Castello Visconteo di Pavia.

2017 presenta la 1 Biennale Internazionale di Mail Art a Venezia – Palazzo Zenobio

2018 Padiglione Tibet partecipa alla Vogalonga (Venezia)

2018 installazione “Erosioni in pinzimonio” - Poetry and Pottery Un’inedita avventura fra ceramica e poesia visiva - CAMeC centro arte moderna e contemporanea La Spezia

2018 installazione CaraPace - Museo Tecnico Navale - La Spezia

2019 “Onda Sonora” libro collettivo – V Biennale del Libro d'artista - Napoli

2019 ARTNIGHT Venezia – Padiglione Tibet - videoproiezione 2011.2019. Storia di un padiglione per un paese che non c'è - Magazzini del Sale, Reale Società Canottieri Bucintoro

2019 riceve il Premio alla carriera - PREMIO ARTE IN ARTI E MESTIERI 2019 – XIX EDIZIONE - Fondazione Scuola Arti e Mestieri "F. Bertazzoni" - Suzzara (MN)

2020 “#GlobalViralEmergency / Fate Presto” L’arte tra scienza, natura e tecnologia - Spazio Ophen Virtual Art Gallery – Salerno

 

 

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Link Utili:

www.camera312.itwww.padiglionetibet.comwww.ruggeromaggi.com (nuovo sito in costruzione)[email protected]

 

 

Antologia critica aggiornata

a cura di Sandro  Bongiani Arte Contemporanea