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DOMENICA 3 AGOSTO 2008 D omenica La di Repubblica I l treno per Odessa fila a centocinquanta orari nella luce verde della sera, scavalca fiumi di carta stagnola, scen- de verso il Mar Nero sul piano inclinato dell’Ucraina. Lo scompartimento trema come un indemoniato: sul ta- volino è franata ogni cosa, e sulla cuccetta di sopra un ti- po di centocinquanta chili russa e sussulta così pauro- samente che temo precipiti anche lui. Intanto m’è già caduto addosso il suo zaino, poi una pioggia di monetine e una botti- glia d’acqua minerale. Alla partenza mi ha chiesto: «Di dove sei?»; gli ho detto «italiano», e lui, ridendo incredulo: «Ma che ci vieni a fare in questo paese?». Gli ho risposto: «La vostra è una terra meravigliosa», ma lui s’era già girato su un fianco col suo corpaccione da orso. Prime stelle, hanno già il colore giallo-fuoco della Provenza e della Turchia, sono così luminose che formano aureole sul vetro del finestrino. Zmerinka, Kolima, Kotovsk, il treno acce- lera ancora, ormai viaggia da due ore su un unico rettilineo — a Est è così, dai Carpazi agli Urali niente curve né tunnel —, sembra voler compensare i pazzeschi zigzag del viaggio inin- terrotto più lungo della mia vita, trentatré giorni finora, dal Mar Glaciale Artico al Mediterraneo lungo la frontiera orien- tale dell’Unione Europea. Odessa. La città mi chiama dopo seimila chilometri di terra- ferma, con quel suo nome imperioso da cantante lirica. È l’im- barcadero perfetto, l’ultimo capolinea prima del ferry che mi sbarcherà a Costantinopoli e il treno che mi riporterà a Trieste lungo i Balcani. Nell’altra cuccetta di sopra c’è un manager di Kiev che non smette di parlare al telefonino, ma tutto è coper- to dal frastuono della corsa, colpi, tonfi, scossoni al limite del deragliamento. Nel buio il macchinista cerca il mare come ipnotizzato dalla bussola, sfoga tutta la claustrofobia di questa sterminata terraferma che è l’Altra Europa. La notte d’estate è piena di treni a lunga percorrenza, bruchi luminosi che pun- tano a Sud; roba da settanta, ottanta ore di viaggio, treni so- vraffollati da Murmansk, Omsk, Ekaterinenburg, Baku. Che avventura. Che incontri. Un pescatore di granchi gi- ganti e floride venditrici di panna acida e mirtilli; un rambo del- le forze speciali in Cecenia diventato prete e una coppia inqui- lina di un’ex sinagoga trasformata in stalla dai nazisti. Ho tro- vato un pastore di renne in guerra con la Gazprom di Putin e uno scrittore di nome “Lupo” in una casa solitaria in fondo a un lago. Ho incrociato contrabbandieri e sommergibilisti, gio- vani guardiamarina appena promossi e comandanti di carret- te inverosimili nei mari gelidi del Nord. Su un treno ho visto una folla di donne incollarsi alle cosce pacchi di dvd e sigaret- te usando lo scotch come giarrettiera, e lungo un fiume una vecchia di nome Ljuba con tre caprette al guinzaglio raccon- tarmi la sua genesi del mondo. In Ucraina un branco di mafio- si ha picchiato sotto il mio naso un tassista che rifiutava di pa- gare il pizzo e in Bielorussia ho assistito al ballo scatenato di venti giovani parrucchiere senza uomini. (segue nelle pagine successive) PAOLO RUMIZ Da Nord a Sud, da Murmansk a Istanbul, lungo i confini orientali della Ue. Comincia qui il nuovo viaggio di Paolo Rumiz L’ Altra Europa spettacoli Batman, il Joker e gli eroi maledetti TOMMASO PINCIO i sapori Hong Kong, la cucina tocca-cuore LICIA GRANELLO e RENATA PISU il reportage La madrasa delle martiri-ragazzine TAHAR BEN JELLOUN e FRANCESCA CAFERRI l’incontro Il sogno sessantottino di Michele Placido MARIA PIA FUSCO la memoria Buchenwald, i superstiti della foto-shock MARCO ANSALDO e MILA RATHAUS SACHS cultura L’avventura dell’East India Company FEDERICO RAMPINI ILLUSTRAZIONE DI ALTAN Repubblica Nazionale

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Page 1: omenica TAHAR BEN JELLOUN eFRANCESCA CAFERRIdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2008/03082008.pdfe gli Urali, il Mediterraneo e il Mare di Ba-rents. Già allora si sapeva che la Mitteleu-ropa

DOMENICA 3 AGOSTO 2008

DomenicaLa

di Repubblica

Il treno per Odessa fila a centocinquanta orari nella luceverde della sera, scavalca fiumi di carta stagnola, scen-de verso il Mar Nero sul piano inclinato dell’Ucraina. Loscompartimento trema come un indemoniato: sul ta-volino è franata ogni cosa, e sulla cuccetta di sopra un ti-po di centocinquanta chili russa e sussulta così pauro-

samente che temo precipiti anche lui. Intanto m’è già cadutoaddosso il suo zaino, poi una pioggia di monetine e una botti-glia d’acqua minerale. Alla partenza mi ha chiesto: «Di dovesei?»; gli ho detto «italiano», e lui, ridendo incredulo: «Ma checi vieni a fare in questo paese?». Gli ho risposto: «La vostra è unaterra meravigliosa», ma lui s’era già girato su un fianco col suocorpaccione da orso.

Prime stelle, hanno già il colore giallo-fuoco della Provenzae della Turchia, sono così luminose che formano aureole sulvetro del finestrino. Zmerinka, Kolima, Kotovsk, il treno acce-lera ancora, ormai viaggia da due ore su un unico rettilineo —a Est è così, dai Carpazi agli Urali niente curve né tunnel —,sembra voler compensare i pazzeschi zigzag del viaggio inin-terrotto più lungo della mia vita, trentatré giorni finora, dalMar Glaciale Artico al Mediterraneo lungo la frontiera orien-tale dell’Unione Europea.

Odessa. La città mi chiama dopo seimila chilometri di terra-ferma, con quel suo nome imperioso da cantante lirica. È l’im-barcadero perfetto, l’ultimo capolinea prima del ferry che mi

sbarcherà a Costantinopoli e il treno che mi riporterà a Triestelungo i Balcani. Nell’altra cuccetta di sopra c’è un manager diKiev che non smette di parlare al telefonino, ma tutto è coper-to dal frastuono della corsa, colpi, tonfi, scossoni al limite delderagliamento. Nel buio il macchinista cerca il mare comeipnotizzato dalla bussola, sfoga tutta la claustrofobia di questasterminata terraferma che è l’Altra Europa. La notte d’estate èpiena di treni a lunga percorrenza, bruchi luminosi che pun-tano a Sud; roba da settanta, ottanta ore di viaggio, treni so-vraffollati da Murmansk, Omsk, Ekaterinenburg, Baku.

Che avventura. Che incontri. Un pescatore di granchi gi-ganti e floride venditrici di panna acida e mirtilli; un rambo del-le forze speciali in Cecenia diventato prete e una coppia inqui-lina di un’ex sinagoga trasformata in stalla dai nazisti. Ho tro-vato un pastore di renne in guerra con la Gazprom di Putin euno scrittore di nome “Lupo” in una casa solitaria in fondo aun lago. Ho incrociato contrabbandieri e sommergibilisti, gio-vani guardiamarina appena promossi e comandanti di carret-te inverosimili nei mari gelidi del Nord. Su un treno ho vistouna folla di donne incollarsi alle cosce pacchi di dvd e sigaret-te usando lo scotch come giarrettiera, e lungo un fiume unavecchia di nome Ljuba con tre caprette al guinzaglio raccon-tarmi la sua genesi del mondo. In Ucraina un branco di mafio-si ha picchiato sotto il mio naso un tassista che rifiutava di pa-gare il pizzo e in Bielorussia ho assistito al ballo scatenato diventi giovani parrucchiere senza uomini.

(segue nelle pagine successive)

PAOLO RUMIZ

Da Nord a Sud, da Murmanska Istanbul, lungo i confiniorientali della Ue. Comincia quiil nuovo viaggio di Paolo Rumiz

L’AltraEuropa

spettacoli

Batman, il Joker e gli eroi maledettiTOMMASO PINCIO

i sapori

Hong Kong, la cucina tocca-cuoreLICIA GRANELLO e RENATA PISU

il reportage

La madrasa delle martiri-ragazzineTAHAR BEN JELLOUN e FRANCESCA CAFERRI

l’incontro

Il sogno sessantottino di Michele PlacidoMARIA PIA FUSCO

la memoria

Buchenwald, i superstiti della foto-shockMARCO ANSALDO e MILA RATHAUS SACHS

cultura

L’avventura dell’East India CompanyFEDERICO RAMPINI

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Repubblica Nazionale

Page 2: omenica TAHAR BEN JELLOUN eFRANCESCA CAFERRIdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2008/03082008.pdfe gli Urali, il Mediterraneo e il Mare di Ba-rents. Già allora si sapeva che la Mitteleu-ropa

dibilmen-te turchi epesce ripie-no alla ma-niera ebrai-ca con il rafa-no, piatto peril quale, scris-se Izaak Ba-bel, «vale lapena convertir-si al giudaismo». Lo sbarco è andato a me-raviglia: ho già mollato lo zaino in alber-go e ho dribblato i tassisti di Odessa, i piùspudorati dell’Impero nello sparare ci-fre. Ho traversato il corso Puskin e viaUspenskaja, ho preso le misure della cittàottocentesca, dei quartieri ad angolo ret-to e dei loro immensi cortili, ho incontra-to gli ultimi nottambuli e i primi spazzini,fiutato profumo di caffè, sarde salate e

pane caldo. In ogni isolatoqualcuno lavava i

marciapiedi, Odes-sa intera era im-

pegnata nellatoilette. Odessaè insieme Istan-bul e Lisbona,

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 AGOSTO 2008

la copertina

(segue dalla copertina)

Si crepa di caldo, il Podil’skijEkspress è una carretta sovie-tica sigillata per evitare spiffe-ri, con addosso l’odore strati-ficato di generazioni di viag-giatori, e così tutti gli scom-

partimenti hanno la porta aperta per cat-turare aria dai finestrini del corridoio, gliunici apribili. Esco in uno sventolio ditendine color caffè, il treno è in preda aglispiriti risucchiati dalla campagna circo-stante, cerco di camminare dritto ma gliscossoni sono tremendi. Colpi secchi, la-terali, come se un maglio colpisse il trenodi fianco. Sfioro col viso piedi che fuorie-scono dalle cuccette, piedi di donna, dibambino, di adulto, di vecchio; piedi rus-si e ucraini, nudi e con i calzini, tutti pro-tesi verso l’aria, poi riesco ad aggrappar-mi alla fessura del vento e respirare a pie-ni polmoni. La notte è calda e profumatadi erba, l’Ucraina stessa è una calda ma-dre.

Sotto la cuccetta c’è il mio vano bagaglicon lo zaino e le scarpe. È tutto quello cheho. Sei chili di bagaglio, e poteva essereanche meno. Ho viaggiato su treni, cor-riere, traghetti, chiatte, talvolta in auto-stop e a piedi. In qualche occasione mi ècapitato di maledire questa scelta — Ru-miz chi te l’ha fatta fare a non viaggiare inautomobile — ma me la sono cavata sem-pre e sempre ho incontrato qualcunopronto a darmi una mano. Lo stato di bi-sogno mi ha fatto capire meglio la tempe-ratura umana dei luoghi, le difficoltà so-no diventate racconto e il viaggio s’è fat-to da sé senza bisogno che programmas-si nulla. Sono partito zoppo per una frat-tura a un piede, ho camminato penosa-mente per chilometri, poi ho buttato ilbastone nel Mar Bianco, dopo aver in-contrato un monaco sulle isole Soloviet-ski, scommettendo che ce l’avrei fatta.Una storia anche questa.

Il buio, che meraviglia il buio dopo l’o-verdose di luce del Nord, che benedizio-ne immaginare il sole che scende in ma-re mentre gli osti stendono tovaglie bian-che sui tavolini all’aperto e dalle finestrearriva rumor di stoviglie. Gli alberi hannosegnato le tappe di questo viaggio ai con-fini della notte: prima le betulle, poi i tigli,poi le querce, quindi le vigne e iplatani. Non potròmai dimenticarel’emozione dell’in-contro col primo ti-glio e il primo ippo-castano in Estonia.

Potevo andare daSud a Nord, per evita-re temperature estre-me e compensare conil procedere della sta-gione calda i rigori delNord. Ho scelto di fareil contrario, per dilata-re la latitudine percorsacon il calendario. Inquesto modo, invece ditrenta paralleli, è comese ne avessi attraversaticinquanta, e invece di unmese ne ho vissuti tre,quelli che intercorronotra la fine dell’inverno el’inizio dell’estate. Nevi-cava a Murmansk, appenaun mese fa, e ora grondo disudore. Davanti a me, sulfilo della longitudine, si èdispiegato un ventaglio inimmaginabiledi scenari. Laghi gelati e campi di grano,freddi albori tra le foreste e notti sensualidel Sud. Un viaggio “verticale”, che mi hatrascinato verso il basso del mappamon-do quasi per forza di gravità.

Mi assopisco, ma dopo un’ora ecco ilprimo sole che dardeggia tra i pioppi, in-dora il materasso azzurro della brina suicampi. È un sole asiatico, polveroso e cal-do, color albicocca, da altopiano anatoli-co. Il corridoio è già pieno di gente che re-stituisce in silenzio federe e lenzuola allacapo-vagone, un’ucraina ringhiosa distampo sovietico. Le capo-vagone che hoincontrato in Russia erano meglio: vesti-te come hostess, efficienti, affettuose,

Pietroburgo e Trieste.Per strada facce slave, caucasiche,

turche, centroasiatiche; bionde bellezzelentigginose e femmine mediterraneedagli occhi di sfida. Mi passa davanti unfilm con le comparse di quest’avventuravissuta dalle terre iperboree del Nord aquelle terribili del Minotauro. Non pote-vano mancare gli ebrei, da Pietroburgo ingiù ho trovato segni impressionanti dellaloro presenza-assenza, e difatti eccoliche mi passano davanti anche qui, vannoalla spicciolata alla sinagoga di via Osipo-va. Li seguo, mi lasciano entrare senzacontrolli, mi danno uno zuccotto, poi ri-prendono a recitare le loro preghiere inun’adorabile confusione levantina.

Macché Est. Questo dove mi trovo è ilcentro. La pancia, l’anima del Continen-te. E quest’anima sta tutta fuori da quel-l’impalcatura burocratica che si chiama

Ue. Anche geograficamente è così: sulTibisco, in Ucraina, ho trovato un obeli-sco austroungarico del 1874 che segnavail baricentro di terraferma tra l’Atlanticoe gli Urali, il Mediterraneo e il Mare di Ba-rents. Già allora si sapeva che la Mitteleu-ropa non sta affatto nei caffè viennesi mamolto più a Oriente, anche di Budapest eVarsavia. Il cuore batte qui, centinaia dichilometri oltre l’ex Cortina di Ferro, trale betulle e i grandi fiumi divaganti, in una“Terra Incognita” fatta di periferie di-menticate.

Sulla mia carta fai-da-te non sono an-notati stati-nazione ma antiche regionifrontaliere inghiottite dalla geopolitica.Sentite che nomi. Botnia, dove il fondodel Baltico muore nella tundra. Carelia,un labirinto di fiumi tra Russia e Finlan-dia. Livonia, coperta di laghi e abeti.Ascoltate come suona bene la parola Cur-landia. Cercate sull’atlante la PrussiaOrientale, la Latgalia e la Masuria. E che

quasi materne. Anche i trenierano meglio, in Russia. Cessi immacola-ti, trine alle finestre, aerazione perfetta.Lo sfascio si vede sempre dalle periferiedegli imperi.

Ore 5.30, rallentiamo fra case dirocca-te, acacie, panni stesi, non facciamo intempo a capire che stiamo entrando aOdessa e già dobbiamo scendere. Laplatform numero 8 è piena di gente: ven-ditrici di fragole, mirtilli e malinke, signo-ra anziane in tailleur che offrono appar-tamentini sul mare, «Dacia na moria»,scolaresche in arrivo da direzioni mitolo-giche, Samara, Lugansk, Saratov, Kali-ningrad. Tutta l’Altra Europa si imbotti-glia qui di primo mattino, sotto la cupoladella stazione, davanti ai platani secolaridi Odessa — i primi del viaggio — in unamagnifica luce radente, senza urlare,senza litigare, in un flusso liquido e pa-

ziente.Fame da lupi e colazione allesei, con cavolo fritto, involti-

ni di riso e carne inconfon-

PAOLO RUMIZ

FOTO E DISEGNILe foto dei luoghi

e dei personaggi

incontrati durante

il viaggio sono

di Monika Bulaj

I disegni sono

di Paolo Rumiz

In copertina,

un disegno

di Altan

In viaggio

Nella terradegli imperiin frantumi

In pullman, in treno, in traghetto, a piedi o in autostop. Settemilachilometri dall’Artico al Mediterraneo, una “discesa verticale” dentro paesiche sono la pancia e l’anima dell’Europa ma di cui non si trova traccianei depliant turistici: Botnia, Carelia, Curlandia, Volinia, Tracia...

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 3 AGOSTO 2008

ne dell’Estonia o della Polonia avevo unasensazione bruciante: a Ovest l’avventu-ra finiva, nel taccuino le annotazioni era-no destinate a rarefarsi e nell’aria c’eraquell’impasto inconfondibile di zucche-roso perbenismo cattolico e ossessioneprotestante del fare che avvelena il miomondo. Ho provato fastidio immediatoper il suo moralismo, la sua pulizia far-maceutica, i suoi noiosi fiorellini alle fi-nestre, la sua presunzione di innocenza.

A Est era meglio. Ma anche a Ovest ilconfine era un’altra cosa. Aveva un’ani-ma slava. Su tutto l’itinerario la linguafranca è stata il russo e dire «Spasiba»,grazie, ha funzionato sempre. Solo unabigliettaia ucraina, alla stazione di Uzho-rod mi ha abbaiato che non era tenuta aparlare la lingua fottuta dei padroni, cosìle ho risposto imperturbabile in inglese,mandandola ancora più in bestia. Russi,ucraini, bielorussi, la differenza tra loro èstata per me come quella tra serbi e croa-ti, nemici giurati che Miroslav Krleza iro-nicamente definì «lo stesso sterco di vac-ca diviso in due dal carro della storia».

«Guardi questa terra, non è meravi-gliosa?», mi ha chiesto una sera una con-tadina ucraina davanti a un oceano dimessi nel vento. Le ho risposto: «Potreb-be nutrire tutta Europa». Allora lei, comea se stessa: «Perché allora siamo così po-veri? Perché milioni di noi emigrano?Perché c’è tanta terra incolta? Perché tan-te donne vanno in Italia a badare ai vostrivecchi?». E poi, dopo un lungo silenzio:«Glielo dico io il motivo: siamo governatida banditi. E voi in Italia, li avete anche voii banditi al potere?».

È stato un bagno di umanità questoviaggio a Est. Spesso mi è bastato dire«ciao» per essere sfamato e accolto comeun re in casa di perfetti estranei. Nel mon-do ortodosso la gente semplice non hamai vissuto con derisione il mio saccosulle spalle, e la mia barba bianca è stataspesso oggetto di commosso rispetto.Non sono stato io a fare il viaggio, ma lepersone che ho incontrato.

All’inizio pensavo di continuare fino aCipro, sfiorando la Turchia lungo le isolegreche che la chiudono a due passi dallabattigia, e magari fino ad Alessandria d’E-gitto, abitata fino a ieri da greci, ebrei, ita-liani, francesi. Ora mi accorgo che ho vi-sto troppo. Ho fatto il pelo all’orso russo,riempito sette taccuini di ottanta pagine,e quello che ho visto basta e avanza. Sonosaturo. Sette bloc-notes e un corredo didisegni, raccolti su un quadernino rigidoper fissare meglio dettagli e paesaggi nel-la memoria. Non posso andare oltre.Odessa è già un terminal perfetto, non soquasi niente di lei ma già sento che con-tiene in sé tutto il viaggio compiuto. Lastrada del ritorno comincia qui, sullasponda del mare nero.

Facile arrivare alla spiaggia di Odessa.Basta seguire la corrente dei pedoni conle borse da mare. Scendo per un boschet-to di acacie, supero bancarelle di pescesecco, gamberetti rosso-rubino in cane-stri e sogliole brune appese, e mi trovo da-vanti alla più pulita e civile spiaggia libe-ra mai vista in vita mia. Un popolo di due-cento milioni di russi e ucraini scende almare qui, senza urtarsi, senza pavoneg-giarsi, senza cartacce, bambini urlanti omusiche a tutto volume. «È così perché irussi ricchi e arroganti sono al mare inItalia», ride del mio stupore una donnasui settanta, con un vistoso fiore rosso neicapelli.

Mi tuffo controvento, l’acqua è pocosalata e vagamente oleosa. Al largo, mol-to al largo, una decina di portacontainersembra essersi messo già in fila per il Bo-sforo. Verso le undici il vento del Sudrinforza e il mare in controluce prende ilcolore del peltro. C’è agitazione sulmoletto: un plotone di cormorani,tuffandosi in mare, ha segnalato unbanco di sardine. Le vedo che incre-spano la superficie. Tutti le hannoviste, le lenze già sibilano in quel-la direzione, sempre in perfettosilenzio. Sono in mezzo a genteche mi pare di aver sempre co-nosciuto. Mi metto a scrivereal tavolo di un bar. La storiacomincia.

(1. continua)

mi dite della Polesiadalle cui paludi untempo potevi scenderein barca sia sul Baltico siasul Mar Nero? O delle ster-minate colline della Voli-nia?

Rutenia, Podolia e Bucovi-na: provate a fare questi nomi in un’a-genzia di viaggio. Vi prenderanno permatti. Eppure sono posti reali. Conten-gono fiumi, città, monasteri, sinagoghe,pianure e montagne. Insistete, mostratela carta geografica, dite che volete vedereanche il Budjak, ultima propaggine del-l’Ucraina prima del Delta del Danubio,selvaggia terra di minareti. Pretendete divisitare la Dobrugia e la Tracia. Rieduca-te l’industria del turismo, spiegate checol petrolio alle stelle il viaggio deve ridi-ventare avventura e scoperta, mollare icentri rinomati, scegliere le periferie, ri-diventare leggero. In seimila chilometrinon ho incontrato un viaggio di gruppo enemmeno un ristorante cinese. Di italia-ni meno che meno. Vorrà pur dire qual-

cosa. Dalla Norvegia in giù non ho trovato

nazioni, ma solo un lento trascolorareche ignorava le frontiere e le loro ridicolesbarre. Polacchi in Ucraina, ebrei in Bie-lorussia, finlandesi in Russia e russi inLettonia. Sulla frontiera la gente mispiazzava sempre, non confermava mai icliché ed era sempre distante dai centripolitici e amministrativi del suo paese.Non dicevano «Mosca ladrona», ma pococi mancava. Ovunque trovavo relitti del-le frontiere mobili degli imperi — russo,tedesco, turco e austroungarico — ab-bandonati come massi erratici in mezzoalle colline. In Ucraina ho visto brillareuna madonna in cima a un ex minareto.Nei Carpazi tombe di soldati triestini inguerra con l’Austria contro lo Zar. E poicastelli di cavalieri teutonici in Polonia etitanici monumenti a Stalin nel cuoredella campagna bielorussa.

Voglia di tornare a casa? Neanche unpo’. So perfettamente il motivo. Tutte levolte che sono rientrato nell’Ue in questozigzag sulla cerniera-lampo d’Europa,ho provato spaesamento e mi sono chie-sto «che ci faccio qui?». Varcando il confi-

Da domanisu r2

Comincia con questa puntatail viaggio 2008 di Paolo RumizSeicento pagine di appunti,

quattromila foto, un centinaiodi disegni dentro un viaggio

di settemila chilometri, da Norda Sud, lungo la frontiera

orientale dell’Unione Europeaper raccontare l’“Altra Europa”quella straordinaria mescoladi etnie, lingue, tradizioni, storiae speranze che è il vero centro

geografico del VecchioContinente. Il reportage

che parte oggi sulla Domenicadi Repubblica continuerà ognigiorno, da domani e per tuttoil mese di agosto, sulle pagine

di R2 con i disegnidi Paolo Rumiz

e le foto di Monika Bulaj

MAPPAQui accanto,la cartinadel viaggioLa linea continuasegna il confineorientale della Ue,quellatratteggiatail percorsodel nostro inviato

Repubblica Nazionale

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della Jamia Hafsa. «Qui mangiamo, preghiamo, ciriuniamo», spiega Zaheda. Intorno le ragazze simuovono a gruppi: quelle che sono appena rien-trate o stanno per uscire sono avvolte dal niqab. Lealtre sono velate, ma indossano vestiti colorati ehanno il viso scoperto. Vicino alla fontana che ser-ve per lavarsi si mischiano bambine, adolescenti,giovani donne. Hanno età diverse ma sono tuttestudentesse: «Le allieve più grandi hanno la mia età— conferma Zaheda — le più piccole quattro anni:sono le famiglie ad affidarle alla scuola».

Sul cortile principale si apre una serie infinita distanzette, una dietro l’altra. Di giorno funzionanoda classi, di sera i materassi ammucchiati nell’an-golo vengono stesi a terra e le ragazze ci dormo-no. Il concetto di privacy non esiste, nella ma-drasa tutto è condiviso: i pasti, preparatiogni giorno da quindici cuoche per tuttele allieve, che li consumano insieme ein silenzio; le preghiere che, insiemealle lezioni, scandiscono il ritmo dellagiornata. «Ci alziamo ogni mattina allequattro — racconta la giovane guida —, c’èla prima preghiera, poi iniziamo la lettura delCorano. Intorno alle sette facciamo colazione edalle otto all’una e mezzo siamo in classe. Dopouna nuova preghiera e qualche ora di riposo, ri-prendiamo i libri fino a sera». Un rituale ugualegiorno dopo giorno, sette giorni su sette: «Usciamodalla scuola durante le vacanze, o se ci serve qual-cosa. Ma non capita spesso: qui c’è tutto quello dicui abbiamo bisogno», spiega Zaheda.

Mentre parla, la ragazza continua a camminare.Al piano di sopra, in altre stanzette-dormitorio, ungruppo di bambine di quattro-cinque anni sotto lasupervisione di una ragazzina ripetono parole in

arabo: è una delle sure (capitoli) del Corano. «Nonsono troppo giovani per questo?». «Ci vuole tempoper impararlo tutto», risponde Zaheda. La mia gui-da è una piccola autorità fra le ragazze: vent’anniappena, ha completato il ciclo di quattro anni distudi islamici e poi si è specializzata nel fiqh, la giu-risprudenza. Ora insegna il Corano alle più picco-le. Come molte delle allieve, ha trascorso anni fra lemura della scuola, spesso senza lasciarla neanchequando, come in questi giorni, è tempo di vacan-ze. Della sua famiglia, della vita fuori di qui, nonvuole dire neanche una parola: «Questa è la mia ca-sa», taglia corto.

«Per capire le madrase bisogna prima sapereche non sono solo scuole — mi aveva detto Kam-

ran Rehmat, direttore di Dawn News, il prin-cipale telegiornale in lingua inglese del

Pakistan — sono posti dove i bambinipossono stare, vengono nutriti e fattistudiare. Tutto gratis. Molti dei ragaz-

zi che sono lì non hanno un altro postodove stare, sono orfani o vengono da fa-

miglie che non possono mantenerli: quin-di li mandano dai religiosi. Inoltre la scuola

pubblica in Pakistan non esiste: o sei ricco e puoimandare tuo figlio in istituti privati o, se vuoi cheimpari a leggere e scrivere, non ti resta che la ma-drasa». Una volta dentro, i bambini e le bambine vi-vono nel culto dell’Islam: il mondo esterno vienecancellato in nome dell’aderenza ai principi dellareligione rappresentata dai maulana che dirigonole scuole.

Quando si chiede a Zaheda cosa studi oltre al Co-rano e dove abbia imparato l’inglese, la rispostasuona triste: «Prima avevamo più spazio, c’eranocomputer e televisioni, un laboratorio per l’ingle-

ISLAMABAD

Al mondo delle ragazze della Mo-schea rossa si accede attraverso unapiccola porta, rossa anch’essa. Duespesse tende, una fuori e una den-

tro, assicurano protezione dagli sguardi. Varcata lasoglia, quelli che pochi passi prima sembravanofantasmi neri riacquistano corpo e si svelano perquello che sono: ragazzine, adolescenti o poco più.Islamabad, zona G73: è qui, a poca distanza da do-ve vivono gli impiegati statali e dalla Blue Area,quartier generale delle società straniere, che biso-gna venire se si vuole provare a capire cosa, negliultimi mesi, ha spinto un numero crescente didonne a morire pur di uccidere il maggior numeropossibile di «nemici dell’Islam».

Fra le mura di una costruzione anonima, in fon-do a una strada sterrata che sfocia contro una pic-cola moschea, da qualche mese si sono rifugiate leragazze terribili che un anno fa fecero tremare ilPakistan: dapprima scendendo in strada, niqab (ilvelo integrale che lascia scoperti solo gli occhi) ad-dosso e bastoni alla mano, per chiedere l’introdu-zione della sharia in tutto il paese. Distrussero unnegozio di musica e videocassette e tennero inostaggio per qualche giorno la tenutaria di un bor-dello. Nel luglio successivo le ragazze, assieme aicompagni maschi di una scuola vicina, sfidarono aviso aperto il presidente Musharraf nel suo bracciodi ferro contro la Moschea rossa e gli estremisti chene avevano fatto il loro quartier generale. A decine— secondo le fonti ufficiali, centinaia a sentire lo-ro — morirono durante il raid ordinato dal genera-le contro la moschea. Le altre furono arrestate, in-terrogate, minacciate. Si pensò che si fossero di-sperse, ma a riflettori spenti sono tornate a riunir-si. Oggi vivono poco lontano dal centro di Islama-bad, in una scuola chiamata Jamia Hafsa: fuori diqui le si vede poco, solo in eventi come la grandemanifestazione che, poche settimane fa, ha ricor-dato la strage dello scorso anno.

Entrare nel loro mondo significa trovarsi facciaa faccia con la mentalità e le condizioni che negliultimi mesi hanno spinto sempre più donne adesporsi in prima linea nella jihad, dall’Iraq ai Terri-tori palestinesi, e allo stesso tempo fare un tuffo nelcuore del Pakistan che si oppone a Musharraf: è inmadrase come questa che si annida l’opposizionepiù dura al generale diventato presidente e al suoprogetto, appoggiato dall’Occidente, di sradicarel’estremismo religioso. Da posti così partono imujaheddin che vanno a combattere in Afghani-stan e i kamikaze responsabili dell’ondata di at-tentati suicidi che da mesi sconvolgono Pakistan eAfghanistan. È qui, sostengono gli esperti, che nellungo periodo la battaglia contro l’estremismosarà vinta o persa.

Tutto questo e molto più passa per la testa quan-do un guardiano dalla barba bianca acconsente fi-nalmente ad aprire la porta rossa e lasciare entrareuna giornalista straniera nella scuola. «Benvenutafra noi», dice una voce in inglese. Zaheda è sullaporta: è appena rientrata e solleva il velo nero chefino a qualche momento fa le lasciava scoperti so-lo gli occhi. È una ragazzina poco più che adole-scente: i grandi occhi neri rivelano la curiosità perl’ospite, venuta a interrompere la monotonia deigiorni di vacanza. Si offre come guida. «Qui dentroviviamo in millecinquecento, tutte donne», dicementre cammina verso la sala principale: un corti-le chiuso su due lati, il pavimento coperto di tap-peti, è il principale luogo di incontro delle allieve

se e la matematica. Ora è tutto più brutto e non c’èposto. L’inglese l’ho imparato nel nostro laborato-rio». «Prima» evoca un tempo felice, quello dellaLal Masjid, quello prima del raid dello scorso anno.«Di questo non ce la faccio a parlare», dice. Il no siscioglie di fronte a un bicchiere di tè, quando ilgruppo delle ragazze accorse a osservare l’ospite siallarga. A spezzare il ghiaccio è una macchina fo-tografica digitale. «Non posso crederci», sussurraAmna quando sullo schermo appaiono le immagi-ni della spianata di macerie che occupa oggi lo spa-zio dove una volta c’era la scuola. «Le nostre ami-che sono morte lì», ricorda Saba, adolescente co-me le altre ragazze sedute intorno. Come? «Hannosacrificato la vita per l’Islam — racconta —. Quan-do è iniziato l’assedio noi siamo rimaste dentro perdue giorni, ma poi le insegnanti ci hanno ordinatodi uscire e lo abbiamo fatto. Loro hanno scelto direstare». Non avevano paura? «Prima o poi tuttidobbiamo morire: se la morte arriva così è un ono-re».

L’atmosfera si è fatta cupa, serve un filo nuovoper ricominciare. «Come si fa a camminare lì sot-to? Non inciampi?», chiedo ad Amna indicando ilniqab nero. Lei se lo sfila e dice: «Prova». Il senso disoffocamento è immediato, non riesco a respirarema non voglio offendere le mie ospiti. «Sei moltopiù bella». «Come fai a dirlo? Vedi solo i miei occhi».«Appunto, sei nostra sorella ora». Frugo nella bor-sa e tiro fuori un lucidalabbra: «Vuoi provare?», di-co a Zaheda. Lei sorride, lo prende, lo apre e lo pas-sa alle altre, poi fa segno di no. «Non possiamo truc-carci a scuola, ma fuori sì», dice. Per non essere dameno, mostra una boccetta di profumo, un ba-stoncino di legno che qui viene usato come spaz-zolino e una boccetta di hennè. «Questa — dice —serve per decorare mani e piedi». «Erano truccatele prostitute del bordello dove avete fatto irruzionela primavera scorsa?». La domanda coglie le ragaz-ze di sorpresa: «Queste sono cose che il governo hamesso in giro per giustificare l’attacco — rispondeZaheda — ma non abbiamo commesso nessun at-to violento. Abbiamo solo manifestato per chiede-re l’istituzione della sharia in Pakistan, e continue-remo a farlo. Questo è nato come il paese dei puri.Dovrebbe essere governato dalla legge del Cora-no». Ma anche Musharraf è un musulmano. «Que-sto — conclude — lo dice lui».

Aisha per tutto il tempo non ha fatto che man-dare sms, non sembrava interessata al discorso.Ma l’impressione è sbagliata. «Amiamo l’Islam, èun crimine?», dice all’improvviso. «Non imponia-mo nulla. L’Islam è compassione, non violenza.Ma preghiamo per voi, perché capiate che l’Islamè l’unica via e la abbracciate. Però non vogliamocostringervi con la forza». E i kamikaze? «È solo pro-paganda, ma morire per l’Islam è una cosa buona».Sembra sincera ma dell’Occidente per cui prega sapoco o nulla: che le donne non si coprono e lavora-no fuori casa, che i valori non esistono, che non c’èmorale. Il mondo fuori dal Pakistan è un magmalontano, il cui unico punto comune è non essereIslam. «Tu sei venuta qui per convertirti?». «No, percapire». «Ora che hai visto come viviamo vuoi con-vertirti?». «Ho già una religione». La conversazioneè ormai su un binario morto.

Future martiri? Estremiste? Potenziali kamika-ze, come le donne che si sono fatte esplodere inIraq nelle ultime settimane? È tempo di uscire emille domande frullano per la testa. Poi Aisha miconsegna un bigliettino con su scritto il suo indi-rizzo e-mail e lo spiazzamento è totale: “Silly-but-nice” è il suo nickname in rete, “Pazzarella ma ca-rina”. Guardo la ragazza con occhi sgranati, ma laporta rossa si è aperta e lei è scappata via.

FRANCESCA CAFERRI

La scuola delle martiri-ragazzine

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 AGOSTO 2008

il reportageIntegralismi

Le adolescenti terribili della Moschea rossa, dopo lo scontrocon le truppe di Musharraf, sono tornate a riunirsiin una madrasa di Islamabad chiamata Jamia HafsaCi siamo entrati e abbiamo parlato con loro, scoprendoche dietro la corazza del niqab e del fanatismo religiosoci sono vezzi e mode tipici delle teenager occidentali

Repubblica Nazionale

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ALLIEVAQui accanto,una piccola allievadella madrasaJamia Anwariadi Lahore,in Pakistan,mostra il Corano

Contrariato dalle sue due spose, Hafsa ela giovane Aïcha, una volta il profetaMaometto le punì disertandone i letti

per un mese. Dopo ventinove giorni, il Mes-saggero di Dio ritornò dalle mogli. Aïcha, lasua preferita, quella che si permetteva di di-re ciò che pensava, gli fece osservare: «Avevidetto un mese!». «Il mese è di ventinove gior-ni», le rispose Maometto. Fu allora che Dio ri-velò questi versetti: «Profeta, dì alle tue mo-gli: se cercate la vita di questo mondo e il suofasto, venite: vi assegnerò alcuni vantaggi e vicongederò con grazia. Ma se desiderate Dio,il Suo Messaggero e l’eterna Dimora, a quel-le fra voi che faranno il bene Dio prometteuna splendida ricompensa» (XXXIII, 28-29).

Ovviamente, quando fu chiesto di precisa-re la scelta, Aïcha scelse Dio, il Suo Messag-gero e l’eternità. Questo per ricordare che ledonne musulmane non sono sempre sotto-messe e segregate, che si difendono bene eche l’Islam non le ha emarginate al punto direlegarle a una vita da schiave sessuali. Oc-corre distinguere tra il temperamento deibeduini, uomini del deserto rudi e duri, gliarabi di prima dell’Islam, e le direttive del-l’ultima religione rivelata. Prima dell’arrivodi Maometto, prima della sua rivelazione, al-cuni arabi della sua tribù seppellivano vivi ineonati di sesso femminile. Era un modo persbarazzarsi dei problemi. L’Islam è arrivatoper proibire questa barbara usanza. Come lealtre religioni monoteiste, non ha dato alladonna tutti i diritti. Tutte le religioni si di-stinguono per la loro sfiducia nei riguardi delgenere femminile. Oggi, alcuni uomini mu-sulmani spingono questa sfiducia fino all’in-giustizia, alla diseguaglianza ostentata e aimaltrattamenti. Più che altro, è il loro tem-peramento che prende il sopravvento sui te-sti dell’Islam.

Alla base di questi comportamenti ci sonoignoranza, arroganza e paura. Paura che ladonna possa prendere il posto che le spetta,paura che la sua libertà diventi un ostacoloper l’egoismo naturale dell’uomo. Per giusti-ficare il diritto di ridurla in una condizione diinferiorità, gli uomini fanno una lettura par-ziale e deviata dei testi religiosi. Per questoBenazir Bhutto è stata assassinata, probabil-mente in maniera incosciente e inconfessa-bile. Al di là dei rimproveri che si potevanomuovere alla sua politica o al suo modo di vi-vere, nei piani di chi l’ha uccisa ha pesato ilfatto che fosse una donna e che volesse “co-mandare”. Il fanatismo religioso ruota attor-no a un’ossessione: non toccare la mia don-na: moglie, sorella, ragazza o madre... Ilmondo musulmano avrebbe bisogno di unFreud radicato nella cultura orientale che sa-pesse definire con parole precise il male (lamalattia) che insidia buona parte della so-cietà musulmana.

Nell’attesa, occorrerebbe tornare alle fon-ti e ricordare che il Profeta, pur essendo sta-to sposato con molte donne, quanto al ri-spetto e alla giustizia nei loro confronti haavuto una condotta esemplare. La sua primasposa è stata Khadija Bint Khuwaylid, unaricca commerciante divorziata e più vecchiadi lui. La donna lo prese al suo servizio e ungiorno gli fece chiedere da una serva: «Checosa ti impedisce di sposarti?». «Non possie-do quel che occorre per prendere moglie», ri-spose Maometto. Khadija gli disse allora: «Ese quello te lo garantissi io, per offrirti al tem-po stesso bellezza, fortuna e virtù, che cosane diresti?». Passata la sorpresa, il futuroMessaggero di Dio disse all’intermediaria diKhadija: «Sono il tuo uomo». E fu così cheMaometto sposò Khadija, che occupa un po-sto privilegiato nel pantheon musulmano.

Più tardi, di fronte alle traversie della vita,Dio rivelò questo versetto per le mogli in dif-ficoltà: «Dio fa carico a un cuore soltanto diciò che può sopportare...». Un ritorno intel-ligente alle fonti, ai testi e al loro significato èil mezzo migliore per battere il fanatismo el’oscurantismo. Ma per questo bisognereb-be che lo studio dell’Islam fosse affidato amenti aperte e a coscienze equilibrate.

Traduzione di Elda Volterrani

Se anche l’Islam

avesse un Freud

TAHAR BEN JELLOUN

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 3 AGOSTO 2008

Repubblica Nazionale

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 AGOSTO 2008

Il Nobel per la paceha accettatodi risponderealla nostra domandae ha confermato la tesidel Museo Yad Vashemdi Gerusalemme: “Sì,il giovane raffiguratoin quella foto sono io”

Wiesel

Gruener

BAD AROLSEN/HAIFA

«N.

el momento in cui ci inquadravano ho pensato: guardo verso lamacchina fotografica, oppure no? È bene che mi vedano? O è be-ne che non mi riconoscano? Perché nei lager non sapevi mai esat-tamente che cosa fare. Alla fine decisi: guardo dritto in avanti. Ec-

co perché sono il solo a non girare la testa verso l’obiettivo». C’è una foto molto nota impressa nella mente di tutti coloro che ricordano i campi di con-

centramento nazisti. Fu scattata la sera del 15 aprile 1945 dagli uomini del generale Patton,appena entrati a Buchenwald. Mostrava quel che gli alleati trovarono dentro le baracche.Corpi ammassati sui soppalchi. Occhi spenti. Ciotole vuote usate come cuscini. In piedi unuomo, le costole sporgenti in evidenza mentre copre la sua nudità con una divisa a righe.Era la foto di gruppo del Blocco 56. E divenne l’emblema della vita nei lager.

A sessantatré anni da quella foto, tre degli uomini immortalati allora sono ancora vivi. Ilbambino con i capelli rasati lungo le tempie, il più piccolo della baracca, che sdraiato sulterzo ripiano guarda davanti a sé, è Naftali Fürst. All’epoca aveva dodici anni, oggi ne hasettantacinque e vive a Haifa, nel nord di Israele. Due piani sotto di lui, tutto pelle e ossa,supino, c’è Max Hamburger, allora venticinquenne, adesso residente in Belgio, ottantot-to anni. In primo piano sulla sinistra compare il volto emaciato di Nicholas Gruener, quin-dicenne, oggi settantotto anni, abitante in Svezia. I tre si sono di recente incontrati per laprima volta da allora.

Repubblica, che ha trovato nell’archivio nazista di Bad Arolsen, in Germania, i loro dos-sier e gliene ha fornito le copie, ha però individuato anche un quarto protagonista di quel-la foto tuttora in vita. Si tratta di Yozek Angel, il ragazzo con gli occhi chiari nella prima filain alto, il terzo da sinistra. Oggi ha ottantasei anni e vive sulle alture del Golan.

È Naftali Fürst, un uomo alto e gentile, a ricordare ogni particolare di quella vicenda nelsalotto al diciassettesimo piano del suo appartamento che domina Haifa. «Per me la mise-ria è quando la gente non ha da mangiare — dice con un sorriso — io mi sento a posto conuna fetta di pane e una cipolla, il cibo non mi preoccupa. E anche la paura non mi spaven-ta. L’Olocausto mi ha fatto resistente, stabile, incapace di lamentarmi. La fortuna mi ha da-to dei genitori straordinari che mi hanno insegnato ad adattarmi. “Qualunque cosa suc-ceda — ci diceva nostro padre — noi dobbiamo superarla”. Era una specie di ordine, ca-pace però di infonderci speranza».

«Juraj-Naftali Fürst», com’è scritto nel dossier ingiallito compilato dalle Ss, è nato nel-l’anno in cui Hitler andò al potere. A Bratislava, nel 1933 la vita scorreva tranquillamente el’azienda di famiglia prosperava nel commercio del legno. Per gli standard del tempo,Arthur, il padre, era considerato un capitalista: automobile, telefono, cuoca, un’istitutriceper i figli Shmuel e Naftali. «Vivevamo in un paradiso», ricorda quest’ultimo. Cinque annidopo, la loro vita fu sconvolta. La Germania si annetté l’Austria, e nella vicina Slovacchiaagli ebrei fu impedita la residenza nelle città. In dieci giorni i Fürst furono costretti ad ab-bandonare la casa e l’azienda.

Al campo di Sered, settanta chilometri dalla capitale, Naftali venne messo in falegna-meria. Una mattina, mentre piallava un cavallo di legno, davanti a lui si fermò un gruppodi ufficiali guidato da Adolf Eichmann e dal suo vice Alois Brunner, responsabile della de-portazione dalla Slovacchia, oggi ancora ricercato in Siria. Per alcuni minuti esaminaronoil lavoro del bambino, poi proseguirono l’ispezione. Fürst rammenta con un brivido quan-do tutta la famiglia si trovò di fronte a Brunner, nello spiazzo dell’appello. Dopo ore passa-te in piedi, il gerarca si avvicinò proprio a loro, li osservò attentamente e disse: «È vero chesiete Mischlingen (sangue misto, ndr)?». Shmuel riuscì a rispondere: «Sì, siamo Mischlin-gen e non sappiamo perché ci tengano qui da tanto tempo». Brunner pensò che l’assenzadel padre potesse significare una sola cosa: che non era stato arrestato perché ariano; e die-de ordine affinché la madre e i due bambini venissero trasferiti nella parte di campo dei co-siddetti “protetti”. Ma la nonna, sessant’anni, fu lasciata sul piazzale e mandata allo ster-minio la notte stessa.

«Fu come il giudizio di Salomone — sospira Fürst — l’esperienza di un momento che ri-mane con te tutta la vita. Mia madre fino alla fine dei suoi giorni provò la sensazione di ave-re sacrificato sua mamma». Anche il padre fu infine catturato, e la famiglia intera venne de-portata ad Auschwitz. Fürst non dimentica quel viaggio: ottanta persone dentro un vago-ne bestiame chiuso. Un tempo interminabile. «Arrivammo che era quasi notte. C’era buio,freddo, cani che abbaiavano ed Ss che gridavano: “Heraus, heraus. Schnell, schnell”. Il fu-mo usciva dai crematori. Non sapevamo se saremmo stati uccisi, e come. Avevo sentitoparlare delle camere a gas, ma quella morte l’immaginavo come l’immersione in una pi-scina da cui non si esce più».

Gli viene tatuato il numero, 14026b, che adesso porta sul braccio nudo e che ritrova scrit-to, immergendosi curioso e assorto, nei documenti che lo riguardano rimasti sepolti persessant’anni nell’archivio in Germania. Viene inviato assieme al fratello Shmuel al kinder-block, il blocco dei bambini, usato come “serbatoio”: quando mancavano i candidati alledocce della morte, il numero prestabilito veniva comunque raggiunto con i più piccoli, inbuona parte malati o già morenti. «La mattina venivano portati fuori i cadaveri. La notte in-vece, era il tempo dei ladri. Tutto poteva essere rubato: la coperta, la fetta di pane, la cami-cia. I bambini che sprofondavano in un sonno troppo profondo si svegliavano senza ve-stiti».

Quando l’Armata Rossa si fa più vicina, i tedeschi decidono di spostare gli internati. Nelgelo, i prigionieri vengono avviati a marce sfinenti. Molti cadono, altri finiscono impiccatiagli alberi. «Mentre camminavamo, mio fratello e io ripetevamo quello che papà ci dicevasempre: “Dobbiamo farcela, dobbiamo andare avanti”». Raggiunta Breslau, capitale sto-rica della Bassa Slesia, oggi in Polonia, tutti di nuovo sul carro bestiame. I morti in un an-golo del vagone. «Quando il treno si fermava, qualcuno riusciva ad arrivare alla locomoti-va per prendere un po’ di acqua calda e far sciogliere un cubetto di margarina».

A Buchenwald comincia la selezione per i campi-satellite. Shmuel deve trasferirsi. Naf-tali è destinato a restare nel lager principale. I due però non vogliono separarsi. Vengono asapere che nel blocco accanto ci sono altri due fratelli nella stessa situazione. Il più vecchiopropone a Shmuel uno scambio di identità e parte con il fratello per la nuova destinazio-ne. La sera stessa, gli aerei alleati bombardano il convoglio e i due rimangono uccisi.

Malato di polmonite, con la febbre alta e in preda alle allucinazioni, Naftali finisce nelbordello del campo. «All’inizio mi ero spaventato, non sapevo che cosa fosse un casino.Pensavo che si trattasse di un posto non ordinato, qualcosa dove regna la confusione. Sul-la porta stavano in piedi due donne, molto belle. Erano vestite e truccate pesantemente.Mi spaventai ancora di più. Pensavo che volessero usarci come cavie, come aveva fatto ildottor Mengele ad Auschwitz». Naftali entra e sente una di loro dire: «Così biondo, pecca-to che sia piccolo». All’interno ci sono altre donne ben vestite. E poi mobili, tappeti, lam-pade, tutte cose che gli ricordano l’abitazione paterna abbandonata sette anni prima. Benpresto capisce che si tratta della “casa chiusa” del campo, usata dai kapo e dagli altri pro-

la memoriaTestimoni della Shoah

minenten. Ma qui i ragazzi malati vengono ospitatiin una grande sala, ci sono persino i materassi. Naf-tali riceve un pigiama strappato, a strisce rosse:«Mi sentivo come uscito da un pozzo nero e arri-vato al palazzo reale». Il medico gli estrae conun’enorme siringa il liquido dai polmoni. Luicomincia a riprendersi. Le donne lo coccolano,gli danno da mangiare dolci e cioccolato.

L’11 aprile, mentre gli echi degli spari giungono fi-no al reticolato, i tedeschi svaniscono: «Sono stato liberato nel

bordello di Buchenwald», ride oggi Fürst. Armato di pane e cioccolata, ilragazzo va a cercare il fratello. Non lo trova: la sera prima Shmuel aveva lasciato il

campo. Naftali si unisce allora alla banda di bambini abbandonati che vaga per il lager de-serto: scoprono le celle della tortura, frugano nei depositi dei vestiti, passano accanto al cre-matorio, si imbattono in un ammasso di cadaveri pronto per essere bruciato. «Ero un do-dicenne nel parco dell’orrore», dice allargando le braccia. Cercano disperatamente del ci-bo, e dove passare la notte. A sera, Naftali arriva al Block 56. Si sistema nel soppalco in alto,perché quello inferiore è riservato ai morenti. Lì incontra Nicholas e Max. Rivoltano le cio-tole del cibo, le ricoprono di stracci imbottendole per trasformarle in cuscini. Sono passa-te le cinque quando dalla porta entrano sei-sette americani. Li mettono in posa. Sistema-no uno straccio davanti all’uomo nudo in primo piano. Scattano la fotografia. «Subito do-po andammo a dormire. Nel lager avevamo imparato a essere pratici. Non pensavamo cer-to a che cosa sarebbe diventata più tardi quell’immagine».

La mattina dopo i prigionieri vengono organizzati in gruppi. I cecoslovacchi sono fattisalire su un camion e portati a Bratislava. Lì Naftali ritrova il padre, la madre e il fratello. Lastoria, in un insolito impeto di generosità, aveva risparmiato tutta la sua famiglia.

Questo reportage, che si basa sulle carte trovate da “Repubblica” a Bad Arolsen,

è il sesto di una serie. I precedenti sono stati pubblicati su R2. Altri ne seguiranno

È stata scattata a Buchenwald il 15 aprile ’45 dai soldati americanied è diventata l’immagine-simbolo dei lager nazisti. Alcuni di quegli uominisono ancora vivi: “Repubblica” ha seguito le loro tracce nell’archiviodi Bad Arolsen, li ha ritrovati e si è fatta raccontare le loro storie

MARCO ANSALDO e MILA RATHAUS SACHS

I sopravvissuti

della foto-shock

Nicholas Gruener avevaquindici anni, oggi ne hasettantotto e vive in SveziaI documenti riprodottiin queste pagine, e che testimoniano la storiadi prigionia di Gruenere compagni, vengonodagli Archivi di Bad Arolsen

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GERUSALEMME

«Sì, è vero, sono io». Nella foto-simbolo scattata dai soldati americaninel lager di Buchenwald, gli uomini rimasti in vita ancora oggi non so-no solo i quattro di cui si parla nell’articolo qui accanto. Ce n’è un

quinto, celebre in tutto il mondo: il premio Nobel per la pace Elie Wiesel.In passato, alcuni giornali israeliani avevano ventilato l’ipotesi che il volto

magro nella seconda fila dal basso, il settimo da si-nistra, potesse essere quello dello scrittore de LaNotte. E molti siti riportano tuttora accanto al suonome la foto di Buchenwald. Ma senza mai unachiara ammissione da parte di Wiesel, come se l’es-sere stato catturato in quell’immagine potesse qua-si imbarazzarlo. Molti “si dice” anche fra gli espertidi storia della Shoah. Ma nessuna certezza. PerchéWiesel, che pure tanto ha scritto sull’Olocausto,non ha mai voluto parlare della foto emblematicadel male che l’uomo può fare al suo simile?

Un nostro primo tentativo diretto con lo scrittore è andato a vuoto. NaftaliFürst, il superstite che qui racconta la storia della foto di Buchenwald, dice chenon tutte le persone raffigurate si conoscevano. «Wiesel — spiega — si è sem-pre rifiutato categoricamente di parlarne. E quando alcuni anni fa ci siamo in-contrati a New York, non sono riuscito a ottenere né una conferma né unasmentita». Lo stesso per il primo editore italiano del Nobel, il fiorentino DanielVogelmann (figlio del tipografo salvato da Schindler, Schulim), anch’egli sicu-

ro della presenza di Wiesel in quella foto ma senza una prova. Persino i paren-ti di Wiesel che vivono in Israele, i cugini Hollander, affermano di non aver maisentito parlare della possibilità che il loro celebre familiare vi comparisse.

E se le biografie non autorizzate (come in Wikipedia) o ufficiose (come quel-la dell’American Academy of Achievement, un’organizzazione prestigiosa concui Wiesel collabora da anni) danno per sicuro che il Nobel sia uno dei prigio-nieri ritratti nella fotografia di Henry Miller, l’unica biografia ufficiale in rete,

quella nel sito della Wiesel Foundation for Huma-nity, non ne fa per nulla cenno.

La conferma ufficiale, alla fine, è arrivata dal Mu-seo dello Yad Vashem a Gerusalemme, cui Repub-blica si è rivolta. Le ricerche dell’istituzione hannoportato all’identificazione di un certo numero dipersone nella foto, fra cui, come attesta il loro rap-porto, «nel secondo soppalco dal basso, settimo dasinistra: Elie Wiesel».

Forti di questa conferma abbiamo inviato una se-conda richiesta allo scrittore, che oggi vive a New York, e abbiamo ricevuto, permail, la risposta definitiva: «Sì, è vero, sono io». Senza ulteriori commenti, co-me se anche soltanto ricordare quella storia gli provocasse una pena enorme.Scriveva Wiesel, nel racconto autobiografico La Notte, a proposito della terri-bile esperienza a Buchenwald: «Io volevo vedermi allo specchio [...] Non mi eropiù visto dopo il ghetto. Dal fondo dello specchio, mi guardò un cadavere. Losguardo nei suoi occhi, come guardavano dentro i miei, non mi lascia più».

(m. ans. - m. r. s.)

E Wiesel ammette“Quello sono io”

Max Hamburger alloraaveva venticinque anni,oggi ne ha ottantottoe vive in BelgioDi recente si è incontratocon Fürst e Gruener,altri due dei sopravvissutidel gruppo di prigionieriritratti nella foto

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 3 AGOSTO 2008

Naftali Fürst aveva dodicianni. Ora ne ha settantacinquee vive a Haifa, in IsraeleSul suo stesso ripiano,nell’altro cerchio,c’è Yozek Angel, anche luisopravvissuto: oggiha ottantasei annie vive sulle alture del Golan

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«La Compagnia ha il grande privilegio di tra-sferire al servizio di Sua Maestà un corpo difunzionari civili e di ufficiali militari quale ilmondo non vide mai prima d’ora. Auspi-chiamo che Sua Maestà gradisca il dono,che prenda sotto il suo controllo diretto il

vasto paese e gli innumerevoli milioni di indiani; ma che non di-mentichi la grande azienda da cui li ha ricevuti». Con questo bre-ve commiato centocinquanta anni fa annunciava la sua scom-parsa la East India Company. Il Parlamento di Londra aveva va-rato il 2 agosto 1858 il Government of India Act: per legge da quelmomento tutti i diritti della Compagnia delle Indie Orientali ve-nivano trasferiti alla Corona.

Era la fine di una storia straordinaria, potente incarnazionedell’imperialismo mercantile allo stato puro. Nei due secoli emezzo della sua esistenza la Compagnia — un’impresa privatacon la natura giuridica della società per azioni — aveva governa-to un quinto della popolazione mondiale, aveva gestito un eser-cito, una marina, una burocrazia coloniale, perfino una chiesa.All’apice della sua forza il colosso privato ebbe un fatturato an-nuo superiore al prodotto interno lordo della sua madrepatria,l’Inghilterra. Amministrava oltre all’India un territorio i cui con-fini andavano da Sant’Elena a Singapore. Eppure fino al giornodella sua estinzione non cessò di essere uno “Stato S.p.A.”, pos-seduto da soci-imprenditori, e le cui azioni si compravano e ven-devano quotidianamente. Prima che il Parlamento britannicodecretasse la sua “nazionalizzazione” (per così dire) in favore del-la regina Vittoria, a difendere la Compagnia era sceso in campocon passione John Stuart Mill, filosofo ed economista di ideeavanzate.

L’incredibile avventura della East India Company ha inizio nel-l’anno 1600 con un atto firmato da Elisabetta I. La sovrana accet-ta la richiesta di alcuni suoi sudditi di essere autorizzati «a propriorischio e pericolo, a proprie spese, per l’onore del Regno e il pro-gresso del commercio, ad avventurarsi in uno o più viaggi con ade-guato numero di vascelli onde trafficare con le Indie Orientali».Elisabetta non può certo immaginare che quel decreto cambieràil corso della storia del suo paese, segnando la nascita del più este-so impero mai esistito.

Sullo sfondo c’è la gara in atto fra le potenze europee per espan-dersi. Spagna e Portogallo, nelle grazie della Chiesa cattolica, han-no ricevuto la benedizione della Santa Sede per possedere i terri-tori scoperti nel secolo delle grandi esplorazioni. Ma la disfattadella Grande Armada spagnola nel 1588, poi la morte di Filippo IInel 1598, hanno scatenato gli appetiti di molti avversari. Le riva-lità più accese non riguardano il Nuovo Mondo scoperto da Cri-stoforo Colombo. L’Oriente è ancora più importante perché for-nisce il pepe e tutte le spezie, indispensabili a quell’epoca comemedicinali e come conservanti dei cibi (prima dell’invenzione delfrigorifero, la carne in Europa viene consumata in uno stato che larenderebbe insopportabile ai palati odierni). Per insidiare spa-gnoli e portoghesi, l’Inghilterra e i Paesi Bassi quasi contempora-neamente appaltano le intraprese coloniali ad altrettante azien-de private. A Londra come ad Amsterdam esiste già la “joint stockcompany”, antenata della moderna società per azioni. La Com-pagnia olandese delle Indie Orientali è la gemella nemica che gliinglesi vogliono battere. Le “Indie Orientali”, dove gli olandesihanno già importanti insediamenti commerciali, sono Sumatra,Giava, il Borneo (oggi parte di Indonesia e Malesia).

Nel gennaio 1601 parte da Londra la prima spedizione navale.L’elenco dei suoi finanziatori coincide col primo gruppo di azio-nisti della Company: Nicholas Barnsley, droghiere, 150 sterlinedi capitale; Henry Bridgman, mercante di pellame, 200 sterline;James Deane, grossista di tessuti, 300 sterline; Sir Stephen Stea-me, sindaco di Londra, 200 sterline; Richard Wiseman, orafo, 200sterline; seguono altri duecento soci fondatori. È gente che ha spi-rito di rischio. I traffici con l’Oriente offrono opportunità di gua-dagno elevate ma anche la possibilità di perdere tutto. Le flotteche sopravvivono ai tifoni e agli attacchi dei pirati possono esse-re decimate dalle epidemie. Per l’impossibilità di mangiare frut-ta e verdura fresca durante le lunghe traversate, il flagello più dif-fuso è lo scorbuto (carenza di vitamina C) che provoca perdita deidenti, emorragie, piaghe purulente e attacchi di depressione. In-teri equipaggi possono essere sterminati dalla malattia e le loronavi vagano cariche di cadaveri: è qui l’origine delle leggende sui“vascelli fantasma”. La prima flotta mercantile della Companyviene decimata, dopo diciotto mesi di viaggio solo una parte del-le navi sbarcano a Sumatra. Nonostante le perdite di uomini e ba-stimenti, al suo ritorno la spedizione carica di spezie garantiscelauti profitti agli armatori. Ma l’arcipelago indonesiano è inospi-tale per la supremazia di olandesi, spagnoli e portoghesi.

Ben più gravido di conseguenze è il primo viaggio che la Com-pany finanzia in India: la nave Hector sbarca a Surat nell’agosto1608, quattrocento anni fa. Il capitano William Hawkins è porta-tore di una lettera di re Giacomo I all’attenzione dell’imperatoreMoghul, con la richiesta di stabilire un fruttuoso commercio tra idue paesi. In India sono gli ultimi anni del regno di Akbar, sovra-no colto e illuminato, mecenate delle belle arti, che promuove ildialogo tra le religioni e la pacifica convivenza tra le comunità et-niche. Gli europei che hanno visitato la sua corte sono rimasti stu-pefatti da un’opulenza sconosciuta nel Vecchio continente. Al-l’epoca del primo contatto con la Company, l’impero Moghul èuna superpotenza che nessuna nazione occidentale può egua-gliare: l’India del 1600 rappresenta il 22,5% del Pil mondiale, l’In-ghilterra l’1,8%.

Saranno i rapporti di forza politico-militari a cambiare per pri-

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 AGOSTO 2008

Centocinquanta anni fa il Parlamento inglese scioglievala Compagnia delle Indie Orientali e trasferiva alla Coronala sua formidabile struttura: un esercito, una flotta, una burocrazia

coloniale con cui per due secoli e mezzo quell’azienda privataaveva governato un quinto della popolazione mondialeUna perfetta, potente incarnazione dell’imperialismo mercantile

CULTURA*

FEDERICO RAMPINI

La S.p.a. che regnòsu un continente

East IndiaCompany

mi. Quando i discendenti di Akbar ripudiano la sua tolleranza esposano una versione fanatica dell’Islam, i mercanti inglesi sfrut-tano abilmente le tensioni tra la dinastia islamica e la popolazio-ne induista. L’uomo bianco ha dalla sua un vantaggio nella tec-nologia militare: quando i britannici e i francesi si affrontano sulterritorio indiano prolungando le guerre napoleoniche, è evi-dente la superiorità delle loro armi rispetto agli eserciti locali. Do-po essersi imposti come efficaci intermediari nel commercio traEuropa e Oriente, dopo essersi infilati gradualmente nelle riva-lità tra sovrani locali, a un secolo e mezzo dal primo sbarco gli af-faristi inglesi lanciano la vera e propria penetrazione. Robert Cli-ve, governatore della Company dal 1758, usa la superiorità nava-le britannica per controllare il Golfo del Bengala e da lì risale il del-ta del fiume Gange. All’età di trentacinque anni Clive, il conqui-statore del Bengala, diventa l’uomo più ricco d’Inghilterra subi-to dopo la famiglia reale. La flotta della East India Company è lapiù grande marina mercantile privata del mondo. Dietro un’ap-parente rispetto del potere Moghul, gli inglesi si sono impadro-niti del ruolo di esattori; hanno organizzato un’amministrazionefiscale efficiente e rapace. Dirigenti e alti funzionari della Com-pagnia diventano noti in Inghilterra con il nome di Nababbi peril loro tenore di vita lussuoso. La società è una fantastica macchi-na da profitti. La corruzione vi regna a tutti i livelli: ogni impiega-to può arricchirsi personalmente organizzando affari privati pa-ralleli a quelli della Compagnia. Il business numero uno della so-cietà è un narcotraffico su vasta scala, condotto alla luce del sole.Sotto la benevola protezione di Sua Maestà britannica la East In-dia Company organizza la coltivazione dell’oppio indiano cheesporta in Cina, per scambiarlo con il tè da rivendere in Europa(La maledizione dell’oppio si porterà via Clive, stroncato da unaoverdose all’età di quarantuno anni nella sontuosa dimora diBerkeley Square a Londra).

Nonostante incarni un capitalismo di rapina la East IndiaCompany trova un suo equilibrio nei rapporti con la società in-diana, le sue tradizioni, i suoi assetti di potere. Gran parte dei suoifunzionari sono degli affaristi senza scrupoli, non degli ideologi.Non intendono fare proseliti, diffidano dei missionari. Dai Na-babbi bianchi ai soldati comuni sono frequenti i matrimoni mi-sti, anche con prostitute indiane: le cosiddette bibis. Dalla reli-

Al momento della scomparsa, la societàcontrollava 250 milioni di persone e dovevarispondere solo a 1700 azionisti privati

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Repubblica Nazionale

Page 9: omenica TAHAR BEN JELLOUN eFRANCESCA CAFERRIdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2008/03082008.pdfe gli Urali, il Mediterraneo e il Mare di Ba-rents. Già allora si sapeva che la Mitteleu-ropa

militari, massacri di civili, violenze orrende ai danni di donne ebambini. Il 1857 rivela una grave fragilità nel controllo del piùgrande possedimento britannico d’oltremare. Londra si accorgeche l’India può sfuggire al suo dominio proprio quando è diven-tata uno sbocco essenziale per l’industria manifatturiera inglese(soprattutto le fabbriche tessili di Manchester e Liverpool) e unafonte altrettanto importante di materie prime. Escono allo sco-perto i nemici interni della Compagnia, e sono tanti. Altri mer-canti privati inglesi hanno già cominciato ad allungare le mani sulsuo monopolio troppo lucroso. L’opinione pubblica britannica

ha accumulato invidie e risentimenti per i privilegi della Com-pagnia: al crepuscolo della sua gloria questa società che go-

verna duecentocinquanta milioni di persone deve ri-spondere soltanto a millesettecento azionisti pri-vati. E naturalmente la parte più evoluta e consa-

pevole della società indiana ha aperto gli occhisulla gigantesca rapina ai suoi danni: solo unaminima parte dei profitti della Compagniavengono reinvestiti in India; le fughe di capi-

tali verso l’Inghilterra dissanguano il sub-continente asiatico.

Quando il processo alla Compagnia arri-va al Parlamento di Westminster, il destinodella società privata è ormai segnato. Devemorire. Il 1858 apre l’era nuova del Raj in cui

l’India è governata direttamente da un Vicerébritannico e da un segretario di Stato a Londra.

Nella storia sorprendente della East India Companyl’ultimo colpo di scena è l’arringa in suo favore. La vigo-

rosa difesa dell’azienda privata che si appropriò dell’India èaffidata nientemeno che a John Stuart Mill, il pensatore libe-

rale e utilitarista, teorico dei diritti umani. La tesi di Mill poggia suargomenti pragmatici: non è la Compagnia la vera responsabiledella grande rivolta; è meglio tenere l’India fuori dall’influenzadei partiti di Londra. E soprattutto, la Compagnia privata è statacapace di mantenere il controllo di un immenso territorio asiati-co per secoli, «mentre l’amministrazione diretta da parte del Par-lamento ha fatto perdere alla Corona britannica un altro grandeimpero sulla sponda opposta dell’Atlantico».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 3 AGOSTO 2008

A VELE SPIEGATE

Qui accanto, una stampaottocentesca mostrail veliero “John Wood”,della Compagnia delle IndieOrientali, che a vele spiegateentra nel porto di Bombaynel 1850. Nel cerchio in basso,un ritratto della Regina Vittoria

All’apice della sua forza la Compagniaaveva un fatturato annuo superioreal prodotto interno lordo della madrepatria

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gione alla gastronomia gli uomini della Compagnia sono apertialle influenze dell’Oriente, alcuni di loro si vestono come deimaharajah, praticano la poligamia, rendono omaggio alle divi-nità locali.

Molto prima del suo scioglimento ufficiale, per la East IndiaCompany fin dall’inizio dell’Ottocento compare all’orizzonte untemibile avversario: è la religione evangelica che si diffonde in In-ghilterra, la madre del puritanesimo. Le usanze dissolute deimercanti inglesi in India suscitano una crescente riprovazione inpatria. Nel nuovo fervore religioso che si diffonde a Londra, lamissione civilizzatrice della Gran Bretagna viene identificatacon la conversione delle razze pagane. Tra il personale che vie-ne inviato nelle colonie comincia a emergere una nuo-va figura: è il funzionario tutto d’un pezzo, ben piùonesto dei suoi predecessori, ma anche profonda-mente razzista e convinto di non doversi me-scolare con i popoli soggetti. Sempre più spes-so partono alla volta dell’India anche le mogliinglesi, le celebri memsahib, guardiane gelo-se della moralità dei mariti. Quelle donnediventano le missionarie laiche dell’evan-gelismo, portatrici del nuovo ordine eticonella sfera privata.

Da questo nuovo incrocio di rigore e di in-tolleranza del colonizzatore bianco, in Indiamatura l’evento che segna la fine della East In-dia Company. È la celebre rivolta dei sepoys, chegli inglesi etichettano spregiativamente come “l’am-mutinamento” e che gli indiani invece considerano al-la stregua di una vera e propria guerra d’indipendenza. Nel1857 gran parte dei soldati indiani organizzati sotto il coman-do della Compagnia (i sepoys) si ribellano agli ordini. Non a casola scintilla che ha messo il fuoco alle polveri è la voce — probabil-mente infondata — secondo cui gli ufficiali inglesi costringono latruppa locale a maneggiare munizioni con il grasso di bue e dimaiale, un sacrilegio per gli induisti e per i musulmani.

La macchia indelebile sulla reputazione della East India Com-pany, per le autorità britanniche, è il fatto che la rivolta divampaper mesi prima di essere domata. Gli inglesi subiscono sconfitte

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 AGOSTO 2008

Dietro il successo dell’ultimo Batman, “Il cavaliere oscuro”,c’è l’ombra di Heath Ledger, lo straordinario attoreche ha dato vita al Joker per morire tragicamente subito dopo

E dunque torna la suggestione che accomuna tanti spettacoli e personaggidi cinema e teatro segnati dalla malasorte: dal Macbeth a Don Chisciotte,da Matrix all’Esorcista, dal Corvo a Superman, in una galleria di leggende nere

SPETTACOLI

EroiMaledetti

Nel bene e nel male, sini-stra come le streghe diMacbeth, l’ombra delfantasma di Joker incom-be sui destini di Batman.Nel bene, perché Il cava-

liere oscuro è diventato campione d’in-cassi nel giro di un fine settimana. Nelmale, perché Christian Bale è piomba-to in una profonda depressione. Si mor-mora che dietro alle sue recenti escan-descenze ci sia per l’appunto lo zampi-no del più acerrimo nemico dell’uomopipistrello. Bale non si sarebbe mai ri-preso dalla scomparsa dell’amico, non-ché compagno di set, Heath Ledger. Lavicenda è nota: l’attore è stato trovatomorto nel suo appartamento di NewYork lo scorso gennaio, poco dopo averterminato le riprese del nuovo Batman.Avvelenamento accidentale causatodagli effetti combinati di sonniferi e an-siolitici, dissero i referti medici.

Una semplice disgrazia, insomma.Ma le semplici disgrazie vanno bene peri comuni mortali, non per le star di Hol-lywood nel fiore degli anni. Quindi vialibera alle speculazioni. Per alcuni si èsuicidato come il suo cantante preferi-to, Nick Drake. Per altri non è privo di si-gnificato che un paio di anni fa Ledgerabbia partecipato a un droga party alloChateau Marmont, l’albergo in cui èmorto John Belushi. Quel che ha fattopiù discutere, però, è il sibillino com-mento di Jack Nicholson comparso suigiornali di mezza America all’indomanidella tragedia: «L’avevo avvertito». Co-sa intendeva, il vecchio Jack? Forse chela parte di Joker è maledetta?

I set infestati da spiriti pericolosi nonrappresentano certo una novità. Primadi accettare una parte è buona regolasoppesare i rischi di un’eventuale male-dizione. Per esempio, Ledger avrebbepotuto riflettere a quanto capitò men-tre si girava Il corvo, film anch’esso ispi-rato a un fumetto dalle atmosfere dark.Brandon Lee restò ucciso durante la la-vorazione da un colpo di pistola. L’armaera stata caricata con proiettili a salve,in teoria innocui. In pratica produsserouna pressione paragonabile a una car-tuccia vera perché la canna era ostruita.Nessuno si era ricordato di pulirla.

Tragica fatalità? Probabile. Tuttavia,fin dall’inizio delle riprese, il set vennefunestato da incidenti. Attrezzisti che siferivano la mano con il trapano, contro-figure che si rompevano le costole ca-dendo dal tetto, temporali che distrug-gevano le scenografie. Ma fosse soloquesto. Brandon era figlio di un certoBruce Lee. Il re delle arti marziali morì incircostanze che non si esitò a definire«misteriose», pochi giorni prima di gi-rare una scena in cui avrebbe dovuto in-terpretare il ruolo di un attore ucciso sulset da un proiettile non a salve. La coin-cidenza da brivido fece ventilare l’ipo-tesi assai cervellotica di un omicidio incodice a opera della mafia cinese.

Triadi a parte, Brandon era convintoche la sua fosse una famiglia maledetta.In base a una leggenda urbana, la iattu-ra avrebbe poi contagiato il set di Ma-

trix, in quanto i fratelli Wachowski pen-savano di affidare a Brandon Lee la par-te poi andata a Keanu Reeves. Le prove?Gloria Foster, l’indimenticabile Oraco-lo che dispensa ermetiche profezie sot-to forma di biscotti, passò a miglior vitamentre girava il secondo episodio dellasaga. Triste sorte è toccata pure alla can-tante Aaliyah: morì in un incidente ae-

TOMMASO PINCIO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 3 AGOSTO 2008

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credibilità si ottiene convincendo pri-ma di tutto se stessi, così da non doverfingere. Ma è un massimo che compor-ta dei rischi. Ledger ha confessato diaver iniziato a usare calmanti e sonnife-ri durante le riprese de Il cavaliere oscu-

ro proprio per scrollarsi di dosso questacreatura infernale «incapace di com-passione e priva di lati positivi».

Sulla vicenda Ledger gravano però al-tre strane coincidenze. L’attore è scom-parso nel bel mezzo della lavorazionedel prossimo film di Terry Gilliam, The

imaginarium of Doctor Parnassus. Inun primo momento, il regista avevapensato di mollare tutto. Poi la produ-zione è ripartita. A sostituireLedger non sarà un unico at-tore ma ben tre: JohnnyDepp, Jude Law e Colin Far-rell. Del resto, Terry Gilliam èabituato a sfidare la malasor-te. La sua sfrenata e coraggiosavisionarietà lo porta a sfondare re-golarmente i budget, come in Brazile Le

avventure del barone di Münchausen, oa sfidare l’impossibile, come quando simise in testa di trarre un film da Paura e

delirio a Las Vegas, un romanzo famosoa Hollywood proprio per il gran nume-ro di adattamenti cinematografici falli-ti. Il caso più eclatante resta però L’uo-

mo che uccise Don Chisciotte, che nongiunse mai nelle sale e le cui disgrazie

sono documentate in Lost in La Man-

cha. Eclatante perché Orson Wel-les si era già cimentato in

un’impresa analoga. Passò gliultimi venticinque anni dellasua vita cercando di finire unfilm ispirato al capolavoro diCervantes. Non vi riuscì mai.

Non c’è da stupirsi, perciò,se Don Chisciotte sia entrato

nel club delle storie refrattarie al-la cinepresa. Membro onorario del cir-colo è ovviamente la storia raccontatanel romanzo di William Peter Blatty,quella della bambina posseduta dal de-monio. Vale a dire: L’esorcista. Il set delfilm omonimo dovette fare i conti conincendi inspiegabili e morti improvvi-se, inclusa quella di un attore il cui per-sonaggio viene ucciso nel film. Alla fine,per tenere lontane le disgrazie, si ricor-se all’aiuto di un vero esorcista.

Semmai si facesse un censimento deifantasmi scopriremmo che Hollywood

è uno dei posti più stregati del pianeta.Storie e personaggi diversi per registi eattori diversi, ognuno con la sua specia-le maledizione. È quasi una sorta di sin-drome, simile a quella di Stoccolma oStendhal. La potremmo chiamare com-plesso di Macbeth. La più breve fra letragedie di Shakespeare, si sa, ha unabrutta nomea. Gli attori la chiamano «ildramma scozzese» per evitare di pro-nunciarne il titolo ad alta voce. Leggen-

da vuole che ogni messa in scenadi Macbethsia segnata da guai e

avvenimenti luttuosi. Di oc-casioni, peraltro, la tragediane offre parecchie. Tra fore-ste che camminano e am-mazzamenti vari, se non si

presta attenzione ci si può ri-trovare come niente con la te-

sta fracassata da un ramo vagan-te o pugnalati per sbaglio. E infatti, si di-ce che l’origine debba ricercarsi in unincidente che ricorda da vicino quellooccorso a Brandon Lee: un attore trafit-to per sbaglio da una spada. Natural-mente, c’è pure chi preferisce dare lacolpa alle streghe e ai loro malefici sor-

tilegi. La vera questione è però un’altra. Nel

mondo dello spettacolo le maledizionispuntano come funghi. Perché tantasuperstizione? Ma soprattutto: siamoproprio sicuri che si tratti di supersti-zione? I maligni ritengono che qualcu-no pensò di creare un’aura sinistra at-torno al Macbeth perché il suo allesti-mento era molto costoso. Una bellamaledizione era quello che ci voleva perattirare più pubblico e rientrare dellespese. Non è un caso che anche oggi lemaledizioni riguardino spesso le gran-di produzioni e si risolvano con nuovirecord d’incassi.

C’è dunque da chiedersi quanti, fracoloro che corrono a vedere Il cavaliere

oscuro, lo facciano per il film in sé o per-ché attratti dall’ultima performance diun attore consegnato anzitempo allaleggenda. Quanto all’avvertimento dacui tutto è scaturito, in realtà Nicholsonnon si riferiva a Joker bensì all’abuso dipsicofarmaci. Qualcuno in America si èdimenticato di precisarlo. Ma in fondo:cos’è un piccolo peccato d’omissione difronte alla nascita di un nuovo mito? Lospettacolo deve continuare e, a quel chepare, se è maledetto continua meglio.

reo mentre Reloadedera ancora in lavo-razione.

E vogliamo dimenticare la pesantemaledizione che grava sul capostipitedegli eroi a fumetti: il mitico Superman?Tutti sanno di Christopher Reeve, para-lizzato dalla testa ai piedi in seguito auna caduta da cavallo. Ma la lista di di-sgrazie abbattutesi su chi si è immi-schiato con l’uomo d’acciaio è lunga.Persino John F. Kennedy è della partita:sarebbe morto a Dallas perché nel 1963il suo staff approvò l’idea che Supermandiventasse testimonial della campagnapresidenziale a sostegno del fitness. Ilprimo a fare le spese di questa maledi-zione fu Kirk Alyn che, dopo esser statoil Superman degli anni Quaranta, nontrovò più lavoro: i registi sostenevanoche il suo volto era ormai troppo legatoal personaggio che aveva reso celebre.Ben più sfortunato fu George Reeves,protagonista delle serie televisiva deldecennio successivo: rimasto senza la-voro per le stesse ragioni, si suicidò nel1959 pochi giorni prima di sposarsi. Ècredenza diffusa che si sia buttato dallafinestra convinto di saper volare. In ef-fetti, si sparò alla tempia. Ma il succo re-

sta più o meno quello.Basterebbe poco per confutare simi-

li dicerie. Prendiamo il caso di Teri Hat-cher: è stata la fidanzata di Superman inuna serie televisiva, eppure è riuscita afarsi baciare dalla fortuna impersonan-do una delle famosissime Casalin-

ghe Disperate. C’è poi KeanuReeves: malgrado abbia «ru-bato» il ruolo a Brandon Lee,il maledetto set di Matrix gliha fatto piovere nelle taschepiù di cento milioni di dollari.E che dire di Jack Nicholson? Èin ottima salute, il lavoro non glimanca e se la intende con ragazze diquarant’anni più giovani. Aver incar-nato Joker non gli ha causato guai di sor-ta. Ma forse è proprio questo il punto: loha davvero incarnato? Il suo Joker ave-va le fattezze e i tic di Nicholson, parla-va come lui e rideva alla sua inconfon-dibile maniera. Sebbene straordinaria,la sua interpretazione restava però unNicholson truccato da Joker.

Ledger, invece. Si è inventato unacreatura del male che pare ispirata daldiavolo in persona, e ci si è calato contutta l’anima. È diventato Joker, sempli-cemente. Del resto, il massimo della

Show belli da morire SUPERMANLa storia cinematografica del supereroeè costellata di eventi tragici, specieper i suoi interpreti: Kirk Alyn non trovapiù lavoro; George Reeves per questomotivo si suicida; Christopher Reevecade da cavallo e resta paralizzato

3

IL CORVO (1993)Brandon Lee, che interpreta EricDraven, viene ucciso durante le ripresedel film con un colpo di pistola a salvereso mortale dalla canna ostruitaNel 1973 suo padre Bruce era mortoa trentadue anni in circostanze bizzarre

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MATRIX (1999)Numerose sventure affliggono il filme i suoi sequel. Gloria Foster, l’Oracolo,muore di diabete; la cantante Aaliyahin un incidente aereo. Keanu Reeves(Neo) e la sua famiglia sono colpitida una serie di eventi tragici e misteriosi

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GIOVENTÙ BRUCIATA (1955)La fama di film maledetto viene dalla morteprematura e violenta dei tre protagonisti:James Dean, in un incidente d’auto subitodopo l’uscita del film; Sal Mineo,assassinato nel 1976; Natalie Wood,annegata in circostanze ambigue nel 1981

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MACBETHLa tragedia di Shakespeare è il primocaso di “opera maledetta”. La storiadella sua rappresentazione è costellatadi sciagure ed eventi luttuosi. Gli attorinon ne pronunciano nemmeno il nome,ma la chiamano “il dramma scozzese”

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BATMAN-IL CAVALIERE OSCURO (2008)Sono due le vittime nel nuovo filmdi Christopher Nolan: Conway Wickliffe,un membro del suo staff, e il Joker,Heath Ledger. Lo stesso Batman,Christian Bale, è stato arrestatoper aggressione alla madre e alla sorella

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i casi

Quando caldo e faticati buttano giù, scegli

la forza del numero uno

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 AGOSTO 2008

i saporiTerre di mezzo

«Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non vo-lare mai, m’aveva detto un indovino. Era successo a Hong Kong. Avevo incontratoquel vecchio cinese per caso». Malgrado fosse il 1976, Tiziano Terzani non dimen-ticò. E sedici anni più tardi decise di seguire il consiglio. «Pensai che il miglior mo-do di affrontare quella “profezia” fosse il modo asiatico: non mettercisi contro, mapiegarcisi». L’aereo su cui avrebbe dovuto salire cadde, e l’episodio battezzò uno

dei suoi libri più famosi: Un indovino mi disse.La magia di Hong Kong è un soffio che accompagna i passi lungo le passeggiate pedonali sopraelevate,

dalla rutilante skyline affacciata sulla baia ai vicoli larghi una spanna di Sheung Wan, affollati di facce e diodori. E magico è anche il rapporto con il cibo, che diventa di volta in volta rito, festa, medicina, o tutte e trele cose insieme: basta scegliere.

L’anima fusion della città, sancita dall’occupazione inglese, è una contaminazione che non ha azzeratogli elementi originari. Al contrario: per molto tempo, qui si è gustata lamiglior cucina cantonese, grazie alla tradizione intatta e alla disponibi-lità di risorse. Se gli inglesi non hanno mai abdicato alla primogenituradel tè col latte e al roast-beef con le patate, gli hongkonger si sono tenu-ti ben stretti le zuppe di melone e il piccione arrostito con la salsa hoisin

(a base di fagioli e olio di sesamo). Alla fine, pur lentamente, le due cul-ture si sono mescolate, allargando a dismisura la gamma di sapori gra-zie alle memorie alimentari dei tanti cuochi arrivati in città dalla Cinacontinentale. Così, l’ex possedimento inglese — traslocato a regioneamministrativa speciale cinese — oggi può vantare una cucina origina-le, popolare e raffinatissima, a seconda dei luoghi e degli interpreti.

Dal cibo di strada ai piatti di gastro-design, nelle cucine dei ristoran-ti tutto viene pensato, preparato e offerto con gesti che godono di unasapienza millenaria. L’esiguità degli spazi casalinghi e la possibilità ditacitare l’appetito con una risicatissima manciata di dollari locali, infat-ti, hanno trasformato il fuori-casa in pratica quotidiana per la gran par-

te degli hongkonger: colazione, pranzo, e soprattutto cena sono vissute come attività “sociali”, supportateda una scelta gastronomica sterminata, se è vero che i dim-sum (letteralmente tocca-cuore, sfizi in versio-ne monodose) sono più di mille.

Spiedini, ravioli, polpettine, bocconi: tutto quanto può abitare una ciotola, un cartoccio, una scatolinadi bambù, è candidato a entrare nei dim-sum. Una volta soddisfatto il requisito della commestibilità, nonc’è limite alla fantasia dei cuochi: il “non si butta via niente” della cultura contadina viene moltiplicato al-l’infinito, dai cracker di meduse al fegato di tonno crudo. In molti casi, i piatti vengono “corretti” (secondotemperatura, consistenza, umidità) per soddisfare l’equilibrio corpo-mente (Yin e Yang) alla base della me-dicina tradizionale cinese.

L’alta gastronomia internazionale arrivata sull’isola non ha disdegnato. Anzi: i menù dei grandi cuochidel mondo che qui hanno aperto filiali dei loro ristoranti, si sono arricchiti negli anni di ingredienti e cottu-re nuove, dalla tartare di abalone e mango di Pierre Gagnaire al tofu di ostrica dell’anglo-cinese Alvin Leung.

Se poi veniste assaliti da gastro-nostalgia, non disperatevi: mezz’ora di ferry vi separa da Macao, la LasVegas asiatica. Una volta all’interno dell’incredibile costruzione-ananas del Gran Lisboa Hotel, gestito dalmiliardario-gourmet Alain Ho, ignorate roulette e slot-machine per dirigervi al piano-ristoranti: i pacche-ri di “Don Alfonso” e le straordinarie bistecche di manzo di Kobe di “The Kitchen” vi faranno affrontare conrinnovata energia zuppe di serpente e pinne di squalo.

MANDARIN ORIENTAL5 Connaught Road, tel. 852-25220111www.mandarinoriental.comCamera doppia da 250 euro

JIA1-5 Irving Street, tel. 3196-9000www.jiahongkong.comCamera doppia da 150 euro

COSMOPOLITAN387 Queen Road East, tel. 3552-11111www.cosmopolitanhotel.com.hkCamera doppia da 170 euro

MINDEN7 Minden Avenue, tel. 2739-77777www.theminden.comCamera doppia da 160 euro

FORTUNA63 Rua de Cantao, tel. 853-786333www.hotelfortuna.com.moCamera doppia da 120 euro

dove dormireBO INNOVATION 60 Johnston Road, Hong Kong Tel. 852-28508371Menù da 40 euro

AQUA 1 Peking Road, Hong Kong Tel. 852-34272288Menù da 40 euro

FELIX AT PENINSULA HOTEL Salisbury Road, Hong KongTel. 852-23153188Menù da 50 euro

THE EIGHT AT GRAN LISBOAAvenida de Lisboa, MacaoTel. 853-88037788Menù da 50 euro

LA PALOMAAvenida da Republica, MacaoTel. 853-28378111Menù da 30 euro

dove mangiareFOOD MARKETGage Street cornerHollywood RoadHong Kong

FOOK MING TONG TEA SHOPIFC Mall 8 Finance StreetShop 1016Hong Kong

PONTI FOOD & WINE CELLARHong Kong Pacific Centre28 Hankow RoadShop 3Hong Kong

MERCADO DE SÃO DOMINGOLargo de São DomingoMacao

PASTELERIA KOI KEIRua Sao Paulo 23 Macao

dove comprare

Bella e determinata, Livia Iaccarino ha inventato col maritoAlfonso il ristorante-faro della cucina mediterraneanel cuore della penisola sorrentina. Il “Don Alfonso”ha una filiale cinese all’hotel “Gran Lisboa” di Macao

HONGKONG

itinerari

C U C I N A

MacaoMacao è una regione a statutospeciale ben collegataa Hong Kong. L’alta gastronomiaannovera cultori della tradizionecino-lusitana, ma si è apertaalle cucine del mondo: dal francese Robuchonal giapponese Furusato,alla famiglia Iaccarino

TofuDetto “cibo del poverouomo”, è derivatodalla buccia pressata dei fagioli. Ipocaloricoma ricco di aminoacidi,risulta delicato nelle zuppee semi-morbido nelle frittureSia marinato che fermentato

Germogli di bambùIl meglio di due alimentiamatissimi. La presenzadi vari germogli – sempre più diffusi – in insalate, zuppee frittura, assicuracroccantezza ed elementinutritivi. Il bambù si utilizzabollito, come contorno

LICIA GRANELLO

Ricette fusion

“tocca-cuore”

Won TonCome le paste ripiene,possono essere farciticon carne (soprattuttomaiale), pesce e verdureOltre alle cotture in brododi pollo (con noodles) o asciutte, ci sono ricetteal vapore (jiaozi) o fritte

Nel mese delle Olimpiadi questa metropoliin bilico tra Occidente e Oriente si riproponecome “porta della Cina”. Il suo cibo,arricchito da contaminazioni antichee recenti, è insieme rito, festa e medicina

Repubblica Nazionale

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In Cina si mangiava male, si mangiava poco. C’e-ra chi non mangiava affatto. Quando studiavoall’università di Pechino nel paese infuriava la

carestia, ma noi non lo sapevamo, l’abbiamo sapu-to anni dopo. Comunque il cibo era razionato, lacarne un lusso, i passeri, abbattuti a suon di tam-buri, gong e urlacci perché distruggevano i raccol-ti, fornivano proteine. Ricordo di aver mangiatotanti spiedini di passeri. Gustosi? Non saprei. Ri-cordo però che li sgranocchiavamo fino all’ultimoossicino. Alla mensa dell’università campeggiavauna grande scritta: «Non sciupare nemmeno unchicco di riso». E le rare volte che si andava in un ri-storante era una vera sofferenza perché i camerie-ri, che bisognava chiamare “compagni”, ti ingiun-gevano di ordinare soltanto quello che eri sicuro dipoter mangiare. Se nella tua scodella restava qual-che avanzo, eri severamente redarguito. E pagaviuna soprattassa.

Quando tornai in Italia, tutti mi domandavano:com’è la cucina cinese? E io mi sentivo in imbaraz-zo, davo risposte vaghe. Poi sono tornata in Cinatante volte, non più da povero studente ma comemembro di una qualche delegazione culturale: ilturismo era severamente proibito, nell’immensopaese che si era chiuso al mondo esterno si potevaentrare soltanto camuffati da “delegazione cultu-rale”. In genere si arrivava a Pechino con la Pia, la li-nea aerea pachistana che era considerata, chissàperché, amica della Cina: volava a Pechino anchel’Aeroflot, ma viaggiare con la compagnia sovieticaera ideologicamente molto scorretto. Ci spostava-mo in treno all’interno dell’immenso paese e visi-

tavamo fabbriche, comuni popolari, scuole e ospe-dali: ci servivano cibo in abbondanza ma era evi-dente che la Rivoluzione non apprezzava i piaceridella buona tavola. Eppure gli ingredienti nonmancavano, gli anni della grande carestia erano or-mai lontani. Perché allora nessuno sembrava piùinteressato all’arte culinaria? Al massimo si citavaMao — anche a tavola, Lui e sempre Lui — per direche il peperoncino faceva bene e che Lui, da vero in-tenditore, mangiava sempre cibo molto piccante.

Alla fine si arrivava a Canton e si concludeva ilviaggio passando nella Hong Kong capitalista epercorrendo a piedi un lungo tratto di terra di nes-suno. Oggi è inimmaginabile un simile percorso,eppure un tempo, non tanto tempo fa, non c’eracollegamento diretto tra socialismo e capitalismo,le rotaie della vecchia ferrovia erano state divelte, ecosì ci si incamminava con tutto il carico dei baga-gli verso il possedimento britannico in terra cinesee si sudava per la fatica dato che non era stata anco-ra inventata la valigia con le rotelle. Di là ci si disse-tava con Coca-Cola ghiacciata e whisky senza rim-piangere le gazzose tiepide della Cina comunista. Ela sera si folleggiava per night club e ristoranti, si gu-stava finalmente la cucina cinese, le sue mille pre-libatezze, il servizio inappuntabile, anche se tra imembri della “delegazione culturale” c’era semprequalcuno che si sentiva in dovere di sottolineare co-me tutto questo fosse “decadente”, un vero insultonei confronti del popolo cinese. Così accadeva tal-volta che le pinne di pescecane o i nidi rondine ti an-dassero di traverso.

Tuttavia è grazie alle mie frequenti soste a HongKong che sono riuscita a scrivere una documenta-ta prefazione per un libro di cucina cinese, un testoche è stato pubblicato proprio negli anni in cui danoi le trattorie toscane sparivano inghiottite da vo-raci ristoranti dell’Impero del Centro. Così ho de-scritto tante squisitezze, come il maiale all’ibisco ela tartaruga saltata nell’olio di sesamo, che ho avu-to modo di apprezzare a Hong Kong e soltanto aHong Kong quando nell’isola sventolava la UnionJack. Ora in Cina si mangia benissimo ovunque eogni volta che vado a Hong Kong, devo confessareche mi gusto con estremo piacere un semplice roa-st-beef con patate all’inglese.

Com’era decadentemangiare bene

RENATA PISU

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 3 AGOSTO 2008

NoodlesAntesignani degli spaghetti(Marco Polo li avrebbeimportati in Italia alla finedel 1200) i lunghi filamentiottenuti dalla lavorazionea mano di farina di grano,riso e fagioli si gustanoin zuppa o fritti

Oyster sauceEcco la salsa gourmand,compagna di tutti i fritti –pesce, uova, verdure, carne– che si ottiene da ostriche,frumento, acqua e salsadi soia (a volte caramello)Scura, densa, aromatica, insaporisce morbidamente

UovaOltre a zuppe, torte, fritturesono oggetto di straordinarietecniche di conservazione:dalla marinatura nel tèa quella in cenere, limee sale (pei daan), fino alle haam daan, disidratatee avvolte nell’argilla

Yuk-gàwnLe cotenne caramellate sonoconsiderate una prelibatezzaLa pelle del maiale (in primis) o di altri animali, disidratata,caramellata e ridottain sfoglie croccanti, vienevenduta tagliata a tocchetti(al momento) con la forbice

AbaloneRaro e pregiato molluscodell’oceano Pacifico,può raggiungere i trentacentimetri di diametroLa qualità più ricercata, però,arriva dal GiapponeDi gusto suadente, ricordala nostra cappasanta

Galinha africanaPiatto simbolo della cucinadi Macao: è un mix gustosodi profumi europei e saporiorientali. Il pollo, tagliato e grigliato sulla carbonella,viene coperto da uno stufatodi erbette, peperoni, aglio,paprika e latte di cocco

Salsa XoLa salsa-culto della cucinahongkonger è preparata con aglio, peperoncino, olio, cappesante disidratateSi serve in un piattinorotondo con due chiliincrociati, per richiamareil suo logo

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Pantaloni allazuava e camiciadi lana a scacchi?Lo stile non si discu-teva, sulle montagned’antan. Ma oggi sui sen-

tieri s’incontra di tutto: tute che infagot-tano e giacche fluorescenti, bermuda damare e canottiere da palestra. Eppure datempo i produttori di attrezzatura e abbiglia-mento si stanno impegnando per superare, an-che quassù, i vecchi stereotipi che vorrebbero lafunzionalità nemica della bellezza. Nell’anno in cuiTorino ha celebrato il suo ruolo di World Design Capi-tal, tra mostre e convegni, Ferrino ad esempio ha provatoa dimostrare che anche tende e giacche antipioggia posso-no essere diverse. Il progetto Ferrino 1870 — è di quell’anno ilprimo brevetto dell’azienda torinese di una formula a base di ce-ra per impermeabilizzare la tela — utilizza il nylon cerato più leg-gero al mondo per la Canadese Popche rispolvera il disegno delle ten-de ideate da geniali alpinisti ottocenteschi come Whymper e Mum-mery, rinfrescandolo con una pioggia di grossi bolli colorati. Materiali al-l’avanguardia e nuovi stili, senza dimenticare che in duecento anni e più l’al-pinismo è già arrivato all’essenzialità. Una forma può essere migliorata, masenza eccessi.

A meno che, per partire dai piedi, non si rovesci proprio il concetto. Vibram, forte del suo primato nel campo dellesuole, ha ridotto al nulla le sue Fivefingers, un velo di gomma che riproduce la pianta nuda, adattandosi dito per dito. Laleggerezza al suo grado più estremo, una sfida forse più adatta ai trekking nelle brughiere britanniche che ai nostri sen-tieri sassosi. Dove le calzature è meglio siano più solidamente ancorate alla tradizione. Lo è Scarpa, che ha festeggiato laprimavera scorsa il settantesimo della fondazione — Lord Guinness Iveagh riunì nel 1938 un gruppo di maestri artigianidel cuoio di Asolo — e non ha abbandonato i vecchi sistemi di costruzione manuale, rinnovandosi di anno in anno fin nel-le pedule da bambino, come le Mowgli, o nelle Mustang ideali per l’escursionismo estivo.

Tinte antiche, rivisitate. Se l’oliva caratterizzava l’abbigliamento dei cacciatori e delle guide alpine d’una volta, perchénon osare con un verde lichene? Lo hanno fatto Patagonia e The North Face già l’inverno scorso — e lo ripropongono perl’estate in giacche, pile e t-shirt —; lo prova Scarpa con varie pedule; piace a Salewa perfino nei caschi da ferrata; ad Arc’-teryx nei suoi top in Polartec Power Stretch; mentre Mountain Hardwear ne colora le tende e Osprey uno zaino come ilKestrelche permette, camminando, di agganciare i bastoncini. Indispensabili anche d’estate, salvano le ginocchia in di-scesa e aiutano a sopportare il carico salendo. Grivel, storico marchio di Courmayeur che produce da oltre un secolo pic-cozze e ramponi, ha rilevato lo stabilimento valdostano di Verrayes dalla Rossignol per svilupparne la tecnologia.

Ancora tecnologia nelle camicie di Columbia, apparentemente classiche e invece tagliate in un tessuto, l’Omni-DryMinim Rip, che stoppa i raggi Uv. Per camminare sotto il solleone. Quando la temperatura cala, a pelle si indossa un “pri-mo strato” come i capi in Lifa di Helly Hansen. Una sicurezza, in vari pesi da sovrapporre come la buccia della cipolla,pronti a partire dal fondovalle più afoso per salire ai 4810 metri del Monte Bianco senza sudare.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39

PIÈ VELOCEPer escursionisti “fast and light”o per correre sullo sterrato,ecco le Spider Lo di Tecnica

ULTRALEGGERAPoco più di un chilo per la tendaStiletto 1 di Mountain Hardwearcon l’abitacolo in rete

EFFETTO POPCanadese Pop di Ferrino 1870si ispira, rivisitandole, alle tendedegli alpinisti ottocenteschi

A PROVA DI BUFERALeggerissima e idrorepellente,ideale anche in parete, la Grade VIJacket di Patagonia a tre strati

A PIEDI NUDIEcco Fivefingers Sprint (Vibram)per ritrovare la camminatapiù naturale anche in montagna

PRIMO STRATOLa t-shirtin microfibradi Dolomiteda indossarea bucciadi cipolla

BAGAGLI LIGHTNello zainoVaudeci va il menopossibile, manon scordatel’acqua

UNO PER TRETre capi in unoda mutarecon zip: eccoil TrekkerConvertible Pantdi The North Face

LEONARDO BIZZARO

L’arte di salirecon leggerezza

PESO PIUMALa Mustang Gtx di Scarpa pesa1390 grammi. Per escursioniestive anche con zaini pesanti

TR

EK

KIN

Gle tendenzeVacanze in quota

IL FLESSIBILESigma FlexUltra di Salewasi adattaa spallee bacinocon elasticità

DOMENICA 3 AGOSTO 2008

Pedule di gomm

a,

t-shirt a prova

di sbalzi termici,

zaini porta-tutto,

tende ultrasottili:

così la tecnologia

aiuta gli scalatori

senza dimenticare

i vezzi della moda

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 AGOSTO 2008

l’incontroStoria e storie

SUBIACO (Roma)

«Se non ci fosse stato ilSessantotto oggi sa-rei un bel marescial-lo di polizia in pen-

sione», dice Michele Placido e non è unabattuta. Nel 1967, a ventuno anni, facevail poliziotto a Roma, caserma Castro Pre-torio. «Non avevo una vera formazionepolitica e senza i fermenti di quegli anninon avrei fatto il salto di qualità umana eculturale che mi diede il coraggio di af-frontare l’esame all’Accademia d’artedrammatica. Il coraggio di andare oltre,di credere che un ragazzo del Sud, figlio diun geometra di paese, poteva confron-tarsi con i figli delle famiglie borghesi diRoma, di Milano, di Genova che allora ap-prodavano, solo loro, ai corsi dell’Acca-demia».

Il Sessantotto è il tema centrale di Ilgrande sogno che Placido sta girando inquesti giorni, nono film da regista, «il piùpersonale. L’avevo pensato sei anni fa,ma mentre scrivevamo la sceneggiaturacon Angelo Pasquini, uscì la notizia diThe dreamers di Bertolucci sul Sessantot-to e ci fermammo. L’abbiamo ripresoampliando il soggetto, non è più solo ilcaso privato di un poliziotto che sogna didiventare attore, ma abbiamo inserito glieventi del tempo, la primavera di Praga,la figura di Ian Palach, la morte di MartinLuther King e di Bob Kennedy, l’episodiopoco noto dell’uccisione di centinaia distudenti a Città del Messico durante leOlimpiadi, il maggio parigino, i colonnel-li in Grecia, le prime dissidenze in Urss.Anche perché mi ero scocciato di sentiretanti commenti negativi sul Sessantottocome se fosse solo una cosa italiana».

L’idea è di raccontare il privato dei treprotagonisti — Riccardo Scamarcio, ilpoliziotto; Jasmine Trinca, una studen-tessa cattolica che si avvicina al movi-mento; Luca Argentero, un operaio del

Nord politicizzato — segnato dagli even-ti del mondo, un po’ com’era Romanzocriminale. Per Placido il riferimento è aLa Storia di Elsa Morante. L’incontro av-viene sul set, a Subiaco, settanta chilo-metri da Roma. Sulla strada che fian-cheggia il monastero benedettino di San-ta Scolastica sfilano decine di giovani co-lorati e sorridenti, cantano Bella ciao, gri-dano slogan contro la guerra, le bandiererosse si intrecciano con insegne cattoli-che e manifesti pacifisti: è la sequenza diuna delle marce della pace di quegli anni.Ci sono Jasmine Trinca e Riccardo Sca-marcio. «La mia storia è simile a quella diRiccardo, un bel ragazzo pugliese a cui ungiorno una signora in treno disse “tieniuna bella faccia, perché non fai l’attore?”e lui venne a Roma a provarci».

Curioso è il rapporto tra il sogno del-l’attore e la polizia. Non solo, ma il primosogno era ancora un altro. «Per essere inun paese del Sud, Ascoli Satriano, isolatodai grandi centri culturali, nella mia fa-miglia la cultura c’era. Mio padre, Benia-mino Placido, cugino del giornalista, erageometra e insegnava: nel Sud all’epocanon c’era lavoro per un geometra. Le miesorelle e i miei fratelli — otto, cinque ma-schi e tre femmine — studiavano tutti aBari, si sono tutti laureati. Io ero l’unicoribelle, di studiare non ne volevo sapere.A nove anni decisi di seguire la strada diun mio zio missionario e diventare prete.Andai in un collegio religioso, ci rimasiquattro anni e non furono anni infelici,anzi. Come sempre mi capita, riuscii pre-sto ad inserirmi, diventai un piccolo lea-der, non ero arrogante, ma non mi piace-vano i primi della classe, preferivo starecon i cosiddetti cattivi all’ultimo banco,tutti quelli che poi venivano espulsi era-no gli amici più cari. Finché sono statoespulso anch’io».

La vocazione c’era, però il bambinoMichele restava ribelle: «Non riuscivo adaccettare la disciplina. La gerarchia cat-tolica era piuttosto oppressiva, ho vissu-to le punizioni, i ritiri nel silenzio, le gior-nate di digiuno. Ma mi hanno espulsoperché a tredici anni sentivo le prime pul-sioni sessuali e, con l’abitudine di diresempre la verità, in confessione raccon-tavo che sognavo le donne, che facevopensieri “cattivi”. E la masturbazione erapeccato, andava punita. Si è capito chenon avrei mai potuto fare il giuramentodi castità. Giustamente mi hanno man-dato via».

Malgrado tutto «in quei quattro anniho imparato più che nel resto della vita,l’educazione cattolica è stata molto for-mativa sul piano culturale. Oltre alla Di-vina Commedia, che mio padre ci legge-va le sere d’inverno davanti al fuoco — latv era ancora lontana —, posso dire che ilVangelo è il mio primo romanzo di for-mazione, la figura di Cristo è rimasta perme di un carisma enorme, mi accompa-gna negli anni, la sua immagine si so-vrappone a Che Guevara, a Pasolini, atutte le persone che ammiro. E conservola religiosità».

Scomparsa la vocazione, gli è rimasto

scrivano all’ufficio imposte del paese,magari in attesa di una raccomandazio-ne come avveniva per i posti nel Sud».

Allora ebbe l’idea. «Mi ero informatosu come entrare all’Accademia, bisogna-va avere ventuno anni e essere esenti dalservizio militare. Mi dissi: a diciotto annivado in polizia, mi preparo per l’Accade-mia, a ventuno anni faccio la domanda.Era un progetto folle. Grazie all’aiuto diuno zio, andò in porto, con la fortuna diessere mandato a Roma».

Sia pure nella finzione, Il grande sogno,che comincia nel ‘67 e ritrova i personag-gi oggi, racconta molto del vissuto di Pla-cido, compreso l’incontro con una ragaz-za borghese cattolica — «Eravamo inna-morati» — nipote della traduttrice di An-na Achmatova, «una donna meravigliosache mi aiutò molto a prepararmi per l’Ac-cademia», l’esame superato «anche seero molto rozzo nella dizione e nella po-stura, ma era anche una mia scelta di nonpiegarmi ai metodi classici». E raccontal’addio alla polizia, «di cui ho ricordi con-trastanti. In quegli anni era repressiva efortemente anticomunista, si potevanoleggere Il Tempo e Il Messaggero, nean-che Il Corriere della Sera, figuriamociL’Unità. Io, che compravo Paese Sera, l’u-nico con le informazioni sui film, ho fat-to parecchi giorni di prigione di rigore.Però c’era un colonnello che amava il tea-tro e mi aiutò, mi mise a disposizione labiblioteca, era orgoglioso che potessi riu-scire».

L’esordio a teatro fu nel ‘70 con l’Or-lando furioso, regia di Luca Ronconi. Il ci-nema arrivò quattro anni dopo, con Mo-nicelli, Comencini, Bellocchio, Rosi, i Ta-viani. «Fu un misto di fortuna e di scelte.Avevo offerte di film brillanti, commer-ciali, ma per il tipo di educazione religio-sa e politica, preferivo lavorare con auto-ri anche difficili che mi aiutavano a cre-scere». Non immaginava che nell’83 iltrionfo della serie La Piovra e la popola-rità del suo commissario Cattani loavrebbero reso una star, adorato dalledonne, acclamato in tanti paesi. «Sonostato il primo attore di tv a diventare unastar europea, ancora oggi sono invitato inRussia alle celebrazioni dell’Armata Ros-sa e ho rapporti con i presidenti dei paesidell’ex Urss più di quanti ne abbia Berlu-sconi o qualsiasi politico italiano. Manon me ne vanto, così come allora noncapivo l’interesse delle donne, perché hosempre sofferto di inferiorità nei con-fronti dei miei fratelli, belli, alti, con gliocchi azzurri come papà».

Le donne occupano uno spazio impor-tante nella vita di Placido. «È difficile par-larne, a distanza di anni posso dire che hoavuto la frenesia dell’infedeltà, ma congrande onestà dico che sono tre le donneche hanno contato: la prima moglie, laseconda e Federica, la mia compagna at-tuale. Quando avevo una compagna, amodo mio ero fedele, facevo qualchescappatella, ma non ho mai avuto la clas-sica amante. E amo il ruolo di padre — sispiegano i cinque figli — mi è sempre pia-ciuto condividere il desiderio di mater-

il germe del teatro, sbocciato in collegiodove un sacerdote organizzava piccolerecite con testi popolari come La cieca diSorrento, Il fornaretto di Venezia. Il de-butto di Placido fu molto particolare:«Feci la regia di uno sketch, La moglie del-l’ubriaco. Il ruolo dell’ubriaco mi sem-brava banale, vestito da donna feci la mo-glie che lo aspettava a casa e lo picchiava.Con grande ilarità dei preti».

Tornato a casa, la sorella Rita gli fecescoprire la poesia alimentando la passio-ne per il recitare, finché Michele ragazzosubì il fascino di Shakespeare e cominciòad intrattenere gli amici con la lettura.«Amleto era il preferito, mi appassiona-vano l’apparizione dello Spettro, l’ucci-sione del padre, tutte le scene cruenteche gli amici amavano ascoltare. Nonavevo mai visto un vero teatro, ma nesentivo la suggestione». Intanto il rifiutodella scuola era rimasto integro e «quan-do i miei fratelli più piccoli mi superaro-no e io fui bocciato per la terza volta all’i-stituto tecnico industriale di Altamura,mio padre, disperato, cominciò a pensa-re a una sistemazione come modesto

nità della mie compagne. Sulla fedeltànon sono un buon esempio, ma i tradi-menti avvenivano quando il rapporto siesauriva, con Federica sto da sette anni enon ho mai pensato di tradirla. E conser-vo un grande rispetto per la Stefanelli. Miha dato tre figli, Violante, Brenno e Pie-rangelo, uno più bello dell’altro. Forsesono stato un uomo normale, quasi nor-male», conclude cercando complicitànel giustificarsi.

La carriera, le donne, la popolarità nonhanno scalfito il rigore alla base delle suescelte; non a caso chi lo conosce lo defi-nisce una «persona perbene». Per libe-rarsi da Cattani — «ho conquistato privi-legi che mai avrei sognato, ma non so vi-vere la celebrità, non era un mio traguar-do, il mio traguardo era diventare unoche la sera recitava cose ed emozionava ilpubblico» — Placido fece una svolta radi-cale, debuttò nella regia con Pummarò,un piccolo film sugli immigrati che soloora viene apprezzato. Poi Le amiche delcuore, Un eroe borghese, Del perdutoamore, storie anche scomode su realtà diieri e di oggi. Come il Sessantotto.

«Oggi a sessantadue anni, non piùschiavo delle spinte erotiche e con la po-polarità che scolora — per qualcuno so-no il padre di Violante — mi interrogospesso sulla società, sul mio lavoro. ConIl grande sogno vorrei lasciare un senti-mento positivo. Ci sono personaggi chein quegli anni hanno dato il meglio di sestessi, che con tutti gli accidenti della vi-ta non hanno perso la speranza di esserepiù felici e se non ci riusciranno loro, co-me dice Cecov, forse lo faranno i nipoti.Io non riesco mai a tenere a freno i mieistati d’animo, le mie emozioni. Nel filmsento il bisogno di confronto tra passatoe presente. La società di oggi ne esce apezzi, non dico che i personaggi sono ne-gativi, ma i politici di oggi non sono mi-gliori di quelli di ieri. Non so come verrà ilfilm ma, se servirà a far riflettere qualcu-no, sarò felice. Perché un film a qualcosadeve servire».

Da ragazzino volevofare il missionarioPassai quattro anniin un collegio religiosoMi cacciaronoquando capironoche non avrei maipotuto fareil voto di castità

Un ragazzo del Sud diventa poliziottoe poi, sull’onda dei fermentidel Sessantotto, si inventa attoreNel film che sta girando, “Il grandesogno”, l’uomo che è diventato

celebre nei pannidel commissario Cattaniracconta un bel pezzodella sua giovinezzae si confronta con un temadavvero impegnativo“Metto allo specchioquel passato e il nostro

presente, e la società di oggi ne escea pezzi.Spero che serva a far rifletterePerché un film a qualcosa deve servire”

MARIA PIA FUSCO

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Repubblica Nazionale