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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO
PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA
CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA 9 di Tullio Jappelli COS’È IL CAPITALE UMANO, COME INVESTIRE IN QUESTA FORMA DI RICCHEZZA, QUANTO RENDE? 11 di Marcello D'Amato CAPITALE UMANO E EGUAGLIANZA DI OPPORTUNITÀ 13 di Massimo Marrelli SI DICE CAPITALE UMANO SI LEGGE SVILUPPO 15 di Giovanni Laino CAPITALE UMANO E SVILUPPO ECONOMICO: DA LISBONA ALLA CAMPANIA 17 di Dora Gambardella INCENTIVI E VALUTAZIONE: LE LEZIONI DEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO 19 di Ciro Avitabile
Non tutti i lavoratori sono ugualmente produttivi, per lo più in ragione
del loro "capitale umano", che a sua volta riflette il loro grado di istruzione e stato di salute. Quanto rende l'investimento in istruzione? E in che misura differenze nelle dotazioni di capitale umano possono
spiegare le disuguaglianze fra paesi e al loro interno?
Gli articoli degli incontri si trovano all’indirizzo
www.comeallacorte.unina.it
Tullio Jappelli
Tullio Jappelli insegna macroeconomia presso
l'Università di Napoli Federico II, è direttore del
Centro Interuniversitario di Studi in Economia e
Finanza (CSEF) e Research Fellow del Centre for
Economic Policy Research (CEPR, Londra). Ha
conseguito il Ph.D. in Economia presso il Boston
College e svolto periodi di studio presso MIT,
Università di Pennsylvania e Università di Princeton.
L’attività di ricerca riguarda prevalentemente i temi
del risparmio, delle scelte di portafoglio, della
previdenza sociale e dei trasferimenti intergenerazionali. Ha pubblicato oltre 60 lavori su riviste
accademiche e quattro libri sui temi del risparmio e delle scelte di portafoglio delle famiglie. È
condirettore di Economic Policy (dal 2008) e del Giornale degli Economisti (dal 1998). Ha
collaborato a progetti di ricerca di numerose istituzioni internazionali. Coordina, insieme a
Riccardo Martina e Marco Pagano, il Master in Economics and Finance (MEF) dell'Università di
Napoli Federico II.
pagina web: http://www.csef.it/people/jappelli.htm
COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Capitale umano e crescita economica
Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II
CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA Tullio Jappelli Professore di Macroeconomia Università degli Studi di Napoli Federico II
La capacità di elaborare informazioni e
utilizzarle nella soluzione di problemi o per
apprendere, le competenze linguistiche, la
capacità di operare con particolari tecnologie, la
conoscenza scientifica sono tutti fattori cruciali
per la crescita della produttività, sia a livello
individuale sia collettivo. Per questo motivo nelle
economie sviluppate la capacità intellettuale è di
gran lunga più importante di quella fisica nella
determinazione del reddito di una persona.
L'investimento in capitale umano
protegge anche dal rischio di perdere il posto di
lavoro, perché ci rende più produttivi più a lungo
e adattabili a mansioni diverse; favorisce la
mobilità sociale, perché consente ai più
meritevoli di raggiungere posizioni più elevate
nella scala sociale; migliora anche la salute,
perché individui più istruiti sono più attenti a
prevenire le malattie e dispongono di maggiori
risorse per affrontarle. Poiché il reddito di un
individuo e di una collettività dipendono in parte
dal capitale umano, gli investimenti che
migliorano le competenze di una persona, cioè
l’istruzione e la formazione professionale, sono
le forme più importanti di investimento in
capitale umano. Proprio come il capitale fisico, il
capitale umano ha un suo rendimento, perché
fornisce al lavoratore che lo detiene una
retribuzione maggiore. Gli economisti calcolano
questo rendimento a partire dalle retribuzioni. Il
fatto che chi ha un alto livello di istruzione
percepisce retribuzioni maggiori è considerato
una prova di come il mercato valuta il suo
capitale umano. Si calcola che nei paesi
sviluppati acquisire un anno in più di istruzione
aumenta le retribuzioni di quasi il 10 percento. Il
rendimento è maggiore nei paesi in via di
sviluppo, e tende ad abbassarsi per i gradi di
istruzione più elevati. Naturalmente l’istruzione
non spiega tutto. Ad esempio, il reddito dei figli
dipende fortemente dal reddito dei genitori,
anche a parità di livello di istruzione, oltre che
da altri fattori.
Nel confronto internazionale sappiamo
che vi è una forte relazione tra reddito pro capite
e livello di istruzione. Paesi con un grado di
istruzione medio pari a 12 anni hanno un reddito
pro capite 8 volte superiore a quelli con grado di
istruzione pari a 6 anni. La straordinaria crescita
del Giappone nel dopoguerra e, più
recentemente, il miracolo economico di altri
paesi asiatici sono in gran parte una storia di
manodopera istruita e ben addestrata sui posti
di lavoro. Ma questa osservazione, di per sé, non
ci dice quanta parte della differenza nei livelli di
reddito sia effettivamente causata da differenze
nei livelli di istruzione. Infatti, è anche vero che i
paesi più ricchi possono permettersi di investire
di più in istruzione. Inoltre, la ricerca recente ha
messo in luce il fatto che conta non solo il livello
di istruzione formale (gli anni trascorsi a scuola),
ma anche le competenze acquisite, che solo in
parte dipendono dagli anni di studio. Molte
indagini internazionali mettono in evidenza che
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Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II
le competenze acquisite variano enormemente
tra paesi, anche a parità di età e istruzione, e
che le competenze dipendono anche dalla qualità
delle strutture scolastiche, dal background fami-
liare, dalla formazione e retribuzione degli inse-
gnanti, dal tempo trascorso a scuola e così via.
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COS’È IL CAPITALE UMANO, COME INVESTIRE IN QUESTA FORMA DI RICCHEZZA, QUANTO RENDE? Marcello D’Amato Professore di Politica economica Università degli Studi di Salerno
Cos’è il capitale umano? In che senso
umano? Esiste anche quello dis-umano?
D’accordo forse non è una felice definizione per
un concetto importante ma prendiamo i termini
della disciplina come dati e proviamo a capirci.
Per il discorso che segue serve solo che, di
fronte al termine “capitale umano”, per “umano”
s’intenda l’insieme di risorse fisiche, intellettuali
e di conoscenza di un individuo, insomma non
ciò che possiede ma ciò che sa fare. Per
“capitale” il discorso è più complesso. Non si
deve intendere solo che tali risorse hanno valore
sul “mercato”, dalle quali cioè è possibile, per
l’individuo, ottenere reddito. Il termine “capitale”
si riferisce al fatto che per ottenere l’insieme di
risorse considerato è necessario aver realizzato
un investimento. In altre parole il capitale
umano può essere accumulato solo attraverso
atti di rinuncia, in un certo senso come la terra,
come il capitale fisico, come il capitale
finanziario, di qui l’uso del termine. Le differenze
principali con altre forme di capitale è che il
capitale umano non può essere, se non in parte
e secondo modalità diverse, trasmesso ad aventi
causa. Una conseguenza importante
dell’imperfetta trasmissibilità è il fatto che nel
finanziare l’investimento il capitale umano non
può essere utilizzato (come collaterale) per
l’accesso al credito. Il secondo punto su cui
porre attenzione è che l’investimento individuale
in capitale umano è collegato, al resto dell’eco-
nomia nel suo complesso e in modo straordi-
nariamente complicato agli investimenti in altre
forme di capitale e all’investimento in capitale
umano realizzato da altri individui1. Com’è per
altre decisioni il coordinamento avviene di solito
attraverso il mercato. Come e, forse, più che in
altri casi, l’investimento in capitale umano
avviene in presenza di esternalità che i mercati
non riescono a governare in modo efficiente.
Questi fallimenti di mercato (imperfe-
zioni del mercato del credito ed esternalità)
rappresentano un problema importante per
interpretare e magari governare la crescita nelle
economie moderne.
È oramai opinione condivisa che la
crescita delle unità economiche, sia elementari
(famiglie e imprese) sia aggregate (territori,
paesi, stati/nazione), dipende in misura cruciale
dal capitale umano in questa accezione.
L’importanza del tema ha quindi giustamente
meritato grande attenzione nella comunità degli
economisti negli ultimi cinquant’anni: essi hanno
provato ad estendere l’analisi dell’accumulazione
del capitale umano a partire dai termini in cui si
analizza di norma l’accumulazione di altre forme
di capitale2. Si considerano i benefici e i costi
1 Incentivi ed esiti attesi nella scelta di diventare, per esempio, neurochirurgo cambiano se nessun altro investe per diventare anestesista, assistente post operatorio o nessuno investe in macchinari di sala operatoria. 2 In società non troppo lontane nel tempo e nello spazio la scelta era solo parzialmente consapevole (per l’individuo) e veniva influenzata - se non presa - dall’intero gruppo familiare o indotta in modo più o meno cogente dalla posizione sociale della famiglia di
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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Capitale umano e crescita economica
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individuali fronteggiati dall’unità decisionale di
riferimento. Poniamo il caso di un ragazzo di
diciotto anni che considera se diventare
neurochirurgo o meno: valuterà- con l’aiuto e le
cognizioni di causa di amici e familiari- costi
immediati (sette anni destinabili ad altro) e
benefici attesi (salario, prestigio, passione
personale, il tutto pesato per le appropriate
probabilità) se i secondi superano i primi, il
ragazzo decide di incorrere nei costi oggi per
ottenere benefici domani. I problemi, come detto
riguardano due aspetti: fallimenti del mercato
del credito ed esternalità delle scelte individuali
non perfettamente controllate dai mercati3.
Dati questi problemi è più opportuno
utilizzare forme di intervento pubblico o delegare
al mercato l’allocazione della principale risorsa
delle moderne economie? Entrambe le soluzioni
hanno punti di forza e punti di debolezza. Il di-
battito su questi temi rappresenta uno dei temi
più spinosi della teoria della crescita, sia dal
punto di vista della teoria, sia dal punto di vista
delle analisi empiriche. Senza entrare nei
dettagli del dibattito ritengo che la principale
lezione della teoria del capitale umano in
presenza di imperfezioni di mercato è che la
parità di condizioni di opportunità per l’investi-
appartenenza. Sotto il profilo individuale, più che una decisione libera e responsabile, faceva parte del processo di crescita e maturazione dell’individuo in quella struttura sociale. Oggi questo è meno vero e il profilo individuale della decisione analizzato dagli economisti ha maggiore rilevanza che in passato. 3 Quale mercato al di fuori della famiglia è disposto a finanziare questo investimento? Come si coordina l’insieme delle decisioni di diventare neurochirurgo con quelle di diventare assistente di sala operatoria o imprenditore di cliniche specializzate?
mento delle famiglie non è una questione di
giustizia sociale, è una questione di efficienza4.
Dal punto di vista politico e su un orizzonte di
tempo di un paio di generazioni ritengo sia
questo il punto su cui si regge o crolla – nel
lungo periodo- la credibilità degli Stati
contemporanei (o qualunque altra organizzazio-
nerappresentativa) in termini di democrazia
politica. Molto più che sulla credibilità della
Banca Centrale Europea o di quella della Borsa
di Londra e delle agenzie di rating.
4 Per completezza: esiste ed è autorevole e influente una scuola di pensiero che ritiene i fallimenti di mercato in questo settore non superiori a quelli generati dall’intervento pubblico. Secondo questa scuola in un’economia di mercato un talento riesce sempre in qualche modo ad emergere (in misura maggiore o minore a seconda del settore o del background). Il processo di mobilità sociale innescato dall’alea della genetica dei talenti innati e dalla trasmissibilità culturale di una parte del capitale umano all’interno della famiglia, permette di rendere vantaggioso ex-ante per tutti il meccanismo di allocazione indotto dal mercato.
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CAPITALE UMANO E EGUAGLIANZA DI OPPORTUNITÀ Massimo Marrelli Professore di Economia pubblica Università degli Studi di Napoli Federico II
L'eguaglianza delle opportunità è un
principio di giustizia distributiva ampiamente
accettato nelle società democratiche occidentali.
È anche ampiamente riconosciuto il ruolo che il
sistema di istruzione può svolgere nel
determinare il livello di uguaglianza delle
opportunità e di mobilità intergenerazionale
all'interno di una società. È, quindi, di primaria
importanza valutare gli effetti delle politiche di
istruzione in termini di uguaglianza delle
opportunità. Tuttavia, una valutazione del
genere incontra difficoltà, non solo dal punto di
vista della scarsità di dati, ma anche sullo stesso
piano concettuale: cosa significa esattamente
eguaglianza delle opportunità? È sufficiente
eliminare qualsiasi forma di discriminazione per
assicurarla? Fornire pari risorse scolastiche a
tutti gli studenti assicura che esista eguaglianza
di opportunità?
Gli studi più recenti hanno provato a
risolvere il problema partendo dall’ipotesi che la
distribuzione di un particolare tipo di risultati
individuali (per es. voti di laurea, reddito post
laurea, etc.) possa essere determinato da due
classi di variabili: circostanze e impegno. Da
questo assunto è allora possibile dividere gli
individui in gruppi (o "tipi") caratterizzati dal
possesso delle medesime circostanze (per
esempio background familiare, percorsi di studio
pre universitari, regione geografica, ecc.); se si
ritiene che il risultato individuale sia determinato
unicamente dalle circostanze e dall'impegno, e
che la distribuzione dell'impegno sia
indipendente dalle circostanze allora tutta la
variabilità dei risultati degli individui all'interno
di un dato gruppo sarà prodotta dal diverso
livello di impegno personale. Ciò equivale a dire
che la distribuzione dei risultati condizionata alle
circostanze può essere interpretata come
l'insieme dei risultati disponibili agli individui che
sono dotati delle medesime circostanze:
l'insieme delle opportunità, espresse in termini
di risultati, a disposizione di ogni individuo
appartenente a quel gruppo. Quindi
confrontando gli insiemi di opportunità di due
individui dotati di una diversa dotazione di
circostanze si può verificare la presenza di
diseguaglianza di opportunità.
In un lavoro recente (2009) Peragine e
Serlenga hanno condotto un’indagine di questo
tipo per i laureati delle Università italiane.
I risultati sono interessanti. I risultati
empirici mostrano una forte influenza della
famiglia sulle performances universitarie degli
studenti e sulla transizione dei laureati nel
mercato del lavoro. Il grado di diseguaglianza
nelle opportunità è più forte se si osservano gli
effetti del background familiare sui voti di laurea
e sul tasso di abbandono rispetto a quelli sul
reddito dei laureati.
La diseguaglianza di opportunità risulta
essere più marcata al Sud che al Centro-Nord, in
modo particolare sulle distribuzioni del reddito
dei laureati. L'effetto delle origini sociali svolge
un ruolo importante nel determinare le
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distribuzioni del reddito anche tra laureati con lo
stesso voto di laurea e questo effetto è più forte
al Sud che al Centro-Nord. L'esistenza di voti
generalmente più alti nelle regioni del Sud e dei
forti effetti del background familiare su quei voti
sono indicativi di un sistema universitario che
difficilmente riesce a segnalare in modo
appropriato le abilità e le competenze degli
studenti. Ma se il sistema dell'istruzione fallisce
nell'essere pienamente meritocratico e nel
selezionare in base alle abilità allora diventa più
facile che altri meccanismi lo sostituiscano nel
mercato del lavoro. Inoltre, le aspettative di un
mercato del lavoro non in grado di riconoscere
pienamente le competenze acquisite, può
generare una scelta "razionale" di minor
investimento in Istruzione.
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SI DICE CAPITALE UMANO SI LEGGE SVILUPPO Giovanni Laino Professore Politiche urbane e territoriali Università degli Studi di Napoli Federico II
L’ultimo premio Nobel per l’economia è
andato – per la prima volta – ad una donna che,
forse non a caso, secondo la motivazione lo ha
meritato “per aver dimostrato come la proprietà
pubblica possa essere gestita dalle associazioni
di utenti e per la sua analisi della governance in
economia, in modo particolare del bene
collettivo”. Una donna che ha dato prove
economiche della cooperazione fra gli esseri
umani come fattore strategico per lo sviluppo.
È un segnale molto rilevante della
progressiva evidenza che le buone qualità del
capitale umano, e quindi gli investimenti per tali
finalità, sono essenziali per realizzare
seriamente traiettorie di sviluppo (termine da
preferire a quello, più neutro, di crescita).
Il capitale umano ha diverse dimensioni,
in parte ancora un po’ misteriose, almeno per la
sua riproduzione e crescita. L’istruzione in una
scuola che dovrebbe essere meglio curata dai
governi, resta una condizione incisiva che
interagisce con altri fattori, quelli delle reti corte:
madre istruita; capitale socio professionale degli
adulti della famiglia; sistema delle opportunità
presenti nei gruppi dei pari. Ma siamo in una
società che offre ai giovani limitate opportunità
di promozione e mobilità sociale. Una delle
piaghe delle conurbazioni del mezzogiorno è
proprio un basso livello di istruzione, che, ancor
più nei gruppi sociali molto deboli, determina
l’esistenza di centinaia di migliaia di ragazze/i
poco alfabetizzati e poco occupabili, perché
hanno carenze di competenze trasversali di
base.
Lo studio delle carriere sociali delle
famiglie che vivono sulla loro pelle la miseria
urbana rivela che, dopo decenni di povertà e di
reiterazione delle disopportunità, la povertà
economica, diventa multidimensionale e morde
dentro: investe le capacità di immaginare, di
sperare, di progettare, di investire. Tende a
seppellire la resilienza dei soggetti quando essi
non scelgono scorciatoie illecite. L’evidenza del
peso che l’esposizione ai rischi sociali ha nella
costruzione di forti condizionamenti di una sorta
di destino sociale dei “trop out” (come
affettuosamente chiamiamo quelli che, si
trovano ad essere calamite di guai), è
un’ulteriore verifica della rilevanza del capitale
umano.
È necessario superare le retoriche che
lavano un po’ le false coscienze ma non
cambiano i processi reali. Crediamo veramente
nella formazione di qualità e nella meritocrazia?
Siamo veramente capaci di pensare al benessere
dei nostri figli e quindi convinti che le politiche di
coesione sociale per migliorare il capitale sociale
dei più deboli, sono un fattore strategico per un
modello di sviluppo necessario oltre che
auspicabile? La disponibilità di badanti straniere
istruite ed educate come di maggiordomi indiani
affidabili fa sentire molti ben pensanti protetti.
Per ora non sembra affare nostro l’esistenza e la
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qualità delle pari opportunità per gli
svantaggiati. Con un velo di opacità e
incoscienza, in realtà, a molti di noi non importa
molto quanto si riesca a fare davvero per
qualificare il capitale umano. Perché non sappia-
mo bene quanto sia rilevante il capitale umano
per la cura dei beni comuni, ma anche perché
oggi è molto difficile vivere secondo un orizzonte
di senso veramente solidale, attento alla
sostenibilità.
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CAPITALE UMANO E SVILUPPO ECONOMICO: DA LISBONA ALLA CAMPANIA Dora Gambardella Professore di Metodologia della ricerca sociale Università degli Studi di Napoli Federico II
La prima Strategia di Lisbona ambiva a
rendere entro il 2010 l’Ue “l’economia della
conoscenza più competitiva e dinamica del
mondo, capace di una crescita economica
durevole accompagnata da un miglioramento
quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da
una maggiore coesione sociale”, un obiettivo
ambizioso in cui la piena occupazione e la
coesione sociale assumono pari peso rispetto
alla crescita economica e alla competitività, con
un ruolo cruciale riconosciuto all’investimento in
capitale umano. Oggi, a dieci anni di distanza da
quella dichiarazione di intenti, mentre ferve il
dibattito intorno alle opzioni aperte per il
coordinamento della politica Ue dopo il 2010,
appare chiaro che nessuno degli indicatori fissati
a Lisbona sarà raggiunto, come mostrano i dati
riportati da Pochet in un recente numero della
Rivista delle Politiche Sociali interamente
dedicato al tema (2009).
Per quanto riguarda in particolare
l’obiettivo della creazione della società della
conoscenza - misurato attraverso la spesa in
ricerca e sviluppo e l’accesso alla formazione
continua – solo pochi paesi europei raggiungono
gli standard fissati a Lisbona, con l’Italia al 17°
posto per entrambi gli indicatori nella
graduatoria dei paesi europei a 27. Stesso
discorso per gli indicatori relativi al mercato del
lavoro – che semmai segnalano solo la crescita
dei contratti atipici e del lavoro a tempo parziale
– e per la diseguaglianza nella distribuzione dei
redditi, semmai aumentata in 16 paesi su 23.
Al di là della riflessione intorno alle
ragioni del fallimento della Strategia di Lisbona,
occorrerebbe interrogarsi sui modi con cui questi
temi vengono ripresi e declinati nelle politiche
pubbliche nazionali e locali e soprattutto sullo
scarto esistente tra arene discorsive e arene
delle pratiche. Anche qui solo un esempio. La
Legge per la dignità e la cittadinanza sociale
campana (L.R. 11/2007), partendo da una
nuova concezione delle politiche sociali,
concepite non più come unicamente orientate
alla cura del disagio, ma anche allo sviluppo
socio economico del territorio, promuove
l’integrazione “degli interventi e servizi sociali,
sanitari, educativi, delle politiche attive del
lavoro, dell’immigrazione, delle politiche
abitative e di sicurezza dei cittadini”, salvo
dedicare attenzione alla sola integrazione
sociosanitaria. Allo stesso modo il Piano Sociale
Regionale 2009-2011 riconosce il carattere
assolutamente decisivo per lo sviluppo
complessivo del territorio della “convenzione tra
sistema sociale e altri settori che governano la
società, quali l’economia, l’urbanistica,
l’ambiente” (PSR 2009, 44).
Al di là delle enunciazioni di principio, i
temi connessi alla promozione di capacità, alla
partecipazione e integrazione stentano
concretamente a realizzarsi. Su tutto ciò pesa
indubbiamente la forte carenza di risorse
economiche, specie in rapporto alla domanda
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latente e espressa di prestazioni e servizi sociali,
così come pesa negativamente il ritardo nello
sviluppo economico. Nonostante le indubbie
difficoltà, non mancano anche nella nostra
regione interventi innovativi di indubbio interes-
se, che però raramente hanno superato la fase
della mera sperimentazione, mostrando tutte le
difficoltà dell’innovazione a diventare sistema.
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INCENTIVI E VALUTAZIONE: LE LEZIONI DEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO Ciro Avitabile Modigliani Fellowship Università degli Studi di Napoli Federico II
Negli ultimi decenni il fenomeno della
dispersione scolastica ha registrato una sensibile
riduzione ma ci sono regioni italiane in cui il
numero di abbandoni è ancora molto alto.
Secondo i dati forniti dal Ministero
dell’Istruzione, nell’anno 2006/07 in Campania
e Sicilia gli studenti che hanno abbandonato gli
studi hanno superato, rispettivamente, le 7.000
e 6.000 unità. Il fenomeno acquisisce dimensioni
ancora più preoccupanti se si considerano i
bambini che, pur continuando a frequentare la
scuola dell’obbligo, lavorano in nero: nella sola
provincia di Napoli ci sono 40.000 bambini tra i 9
e i 13 anni che lavorano. In questi anni non
sono mancate politiche e programmi volti a
ridurre il fenomeno della dispersione scolastica,
ma la valutazione di questi interventi è stata o
del tutto inesistente o basata su metodi
scientifici poco attendibili.
Il basso tasso di scolarizzazione viene
comunemente annoverato tra le cause principali
degli alti tassi di povertà e disuguaglianza nelle
aree più arretrate. Proprio per aumentare la
partecipazione scolastica e, più in generale,
incentivare l’accumulazione di capitale umano, in
numerosi paesi in via di sviluppo sono stati
introdotti nell’ultimo decennio programmi di
sussidi condizionali, noti in inglese con il nome di
Conditional Cash Transfers. Questi programmi
subordinano trasferimenti in denaro alle famiglie
più povere all’effettuazione di predeterminati
investimenti in capitale umano. Al fine di
ricevere gli aiuti, le famiglie devono iscrivere i
propri figli a scuola e garantire un’assidua
frequenza. Altre condizioni prevedono che i
bambini sostengano regolari visite mediche e
che i genitori frequentino corsi di informazione in
materie di salute e nutrizione. In Messico il
programma Oportunidades distribuisce aiuti ad
un totale di 5 milioni di famiglie, mentre in
Brasile il programma Bolsa Familia dà sostegno
a quasi 12 milioni di famiglie. La strategia di
riduzione della povertà perseguita da questi
programmi è stata quella di bilanciare obiettivi di
sostegno sociale con quelli di formazione del
capitale umano. I risultati di un recente studio
della Banca Mondiale evidenziano come questi
programmi siano riusciti ad aumentare, da un
lato, il livello dei consumi delle famiglie e,
dall’altro, il tasso di iscrizione e frequenza alla
scuola primaria e secondaria.
Alla base del successo di questi
programmi c’è, tra le altre cose, un attento
processo di monitoraggio e di valutazione. La
verifica del rispetto dei requisiti per ottenere il
sussidio si basa sul confronto dell’informazione
raccolta dai diversi attori coinvolti (enti statali,
organizzazioni non-governative e beneficiari).
Questo controllo incrociato ha determinato un
limitato numero di casi di corruzione.
L’applicazione su larga scala dei Conditional
Cash Transfers è stata preceduta
dall’introduzione di progetti pilota che sono stati
valutati utilizzando metodi statistici che
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permettono di identificare l’effetto del program-
ma sul comportamento individuale. Sistemi di
monitoraggio e valutazione rigorosi sono requi-
siti indispensabili per il successo delle politiche di
sviluppo, in Messico come nel sud Italia.
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