oltre - anno 2, n°3 febbraio 2015

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OLTRE - Rivista di Storie e Fotografia - Anno 2 N° 3 Febbraio 2015 Organo di Informazione Università Popolare di Camponogara Direttore Responsabile: Michele Gregolin oltre

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Rivista di Storie e Fotografia, Università Popolare di Camponogara (VE)

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OLTRE - Rivista di Storie e Fotografia - Anno 2 N° 3 Febbraio 2015

Organo di Informazione Università Popolare di Camponogara

Direttore Responsabile: Michele Gregolin

oltre

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oltreeditoriale

Cari lettori di OLTRE, siamo online con un nuovo numero della nostra, vostra rivista. Il mio editoriale questa volta sarà de-dicato alla tecnologia e al marketing.Ad oggi non possiamo sapere come le tecnologie si evolveranno nei prossimi anni; la cosa certa è che la crisi dell’editoria e gli alti costi per creare un prodotto su supporto cartaceo, fanno si che l’au-to informazione e l’auto produzione diventeranno sempre più una forma utilizzata nel panorama dei giornali e delle riviste online.L’online, mezzo che abbiamo deciso di usare per far conoscere e divulgare la nostra rivista, ha il vantaggio di raggiungere tutti, velocemente, a costi apparentemente bassi; purtroppo un conte-nuto online ha una vita abbastanza breve, nasce e muore in poco tempo, non lo si sfoglia nuova-mente come accade per un giornale cartaceo. La sfida pertanto che ci siamo posti, e che rinnoviamo ad ogni riunione di redazione, è quella di trovare argomenti interessanti, argomenti che per la poca conoscenza possano lasciare un ricordo, in modo tale che OLTRE venga conservato, o meglio anco-

ra, stampato dal formato pdf che mettiamo a di-sposizione per il download. I risultati a nostra di-sposizione dei download e delle stampe dei primi due numeri ci fanno ben sperare in una riuscita del nostro progetto.Sappiamo che questa è una sfida, ardua, difficile da vincere, ma questo non toglie a me e ai miei collaboratori la voglia di ricerca, una ricerca che possa attrarre gli utenti attraverso i contenuti e soprattutto le immagini, con l’abilità di riuscire a creare un interesse che non solo si fermi nel vostro monitor, ma che possa essere condiviso e divulga-to. Solo cosi, con il vostro aiuto, sarà possibile cre-are una piattaforma sempre più stabile, che possa mantenere la libertà di esprimere e condividere le idee e le opinioni liberamente.

Michele GregolinDirettore Responsabile

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oltre la redazione

Ai lettori di OltreCome avrete certamente avuto modo di notare, OLTRE ha scelto il servizio web di ISSUU come principale supporto dove visualizzare la rivista.Lo strumento digitale offre, a parte gli evidenti vantaggi legati alla facilità di diffusione, anche del-le straordinarie occasioni di scambio, di conoscen-za e di interazione a cui la redazione di Oltre non vuole rinunciare.Come abbiamo già avuto modo di scrivere, OLTRE racconta “storie”. Storie del territorio, delle per-sone che ci vivono, delle comunità, dei singoli, dei gruppi di persone, degli artisti, delle persone che lavorano ecc. ecc.Oltre vuole raccontare quindi le nostre storie e per questa ragione vi chiediamo di contribuire, con le Vostre idee, suggerimenti, racconti. Ogni spunto, notizia, appunto, indicazione che riceveremo ci consentirà di indagare situazioni nuove, di cono-scere realtà diverse, di trovare nuovi stimoli per migliorare e per poterVi raccontare nuove storie.Abbiamo aperto una pagina su facebook:“OLTRE_Rivista online” dove potete postare la Vo-stra voce; se preferite scriverci inviateci una mail all’indirizzo [email protected]

GrazieLa redazione

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oltre il saluto

Gentile Direttore Michele Gregolin,come presidente dell’Università Popolare di Cam-ponogara sono onorata e felice di scrivere queste poche righe e raggiungere così i soci, e non solo, della nostra bella Associazione.Come prima cosa però desidero ringraziare Lei e il suo gruppo di lavoro per l’entusiasmo e la passio-ne che state mettendo nel fare tutto ciò; anche se sono convinta non sia semplice donare del tempo agli altri perché gli impegni personali e familiari sono sempre tanti e variegati.Credo che un giornale online, per la nostra Univer-sità Popolare possa essere una grande opportuni-tà comunicativa, informativa e culturale.Detto ciò, vorrei esprimere un pensiero molto per-sonale sul valore della cultura. Io sono fermamen-te convinta che nella vita di ciascuna persona tale dimensione sia fondamentale per affrontare la vita di tutti i giorni con più tranquillità e per leggere con senso critico quello che accade a noi e attorno a noi. Per avere pensieri affettivi da condividere con le persone che amiamo, per affrontare la vita lavorativa in un clima di rispetto e dialogo. Per es-sere persone che credono in sé stesse, che hanno un’idea positiva di sé e sanno trasmettere fiducia e il senso di ironia agli altri. La cultura ci aiuta ad essere migliori e a confrontarci con serenità anche

nei momenti difficili e di dolore. Io credo che oggi l’uomo preso da tanti impegni, da tante rabbie, da un tempo che non gli basta mai abbia bisogno di un nuovo Umanesimo per ridistribuire in maniera completamente diversa impegni, affetti, lavoro, necessità e tempo libero.A questo punto uno si può chiedere: “Cosa c’entra tutto ciò con un giornale online?”Penso che qualsiasi tipo di giornale aiuti a riflet-tere, a confrontarsi, a costruire nuovi pensieri, a conoscere di più il nostro territorio e ciò che è lon-tano da noi, per cui spero di cuore che il giornale OLTRE abbia lunga vita e grazie a tutte quelle per-sone, che in varie maniere, lo fanno vivere.Con affetto e profonda riconoscenza

Giuliana Brun Presiedente Università Popolare di Camponogara

oltre... sommario

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oltre...sommariosommario

che forma ha il suonoTesto di: Marta Toso

Fotografie di: Andrea Collodel, Paola Poletto, Marta Toso08

la storia appesa ad un filo18Testo di: Martina Pandrin

Fotografie di: Martina Pandrin, Paola Poletto

nessuno si senta esclusoTesto di: Massimo Bonutto

Fotografie di: Massimo Bonutto, Enrico Gubbati34

la lanterna magicaTesto di: Stefano Berto 28

Fotografie di: Stefano Berto, Mirka Rallo

i l dolce domaniTesto di: Francesco Dori 42

Fotografie di: Massimo Bonutto, Andrea Collodel, Francesco Dori

l 'emozione del dettaglioTesto e fotografie di: Roberto Tacchetto

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un racconto di altri tempiIntervista di: Michele Gregolin

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lunchtime atop a skyscraperTesto di: Michele Gregolin, Silvia Maniero

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camponogara fotografiaroberto bartoloni

Testo di: Lucia Finotello

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unexpectedMichele Gregolin intervista Piermarco Menini 3O

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Che forma ha il suono?

Quello che può sembrare un ossimoro è invece la realtà della vita quotidiana di Michele Della Giusti-na, un liutaio “a pizzico”, ovvero un artigiano che costruisce chitarre. Nato nel 1962 a Vittorio Ve-neto (TV), la sua passione per la musica inizia da bambino, quando comincia a suonare la chitarra da autodidatta, per poi passare allo studio della mu-sica al conservatorio di Udine. Dopo il diploma, la sua vita nella musica continua come concertista e insegnante di chitarra classica. Ma è nel 1986 che arriva la svolta e il passaggio ad una nuova fase della sua vita e della sua musica. Dopo aver assi-stito ad un workshop su come costruire la propria chitarra, Michele entra nel mondo della liuteria, si documenta, studia, partecipa come utente a fiere e conferenze; la sua ricerca lo porta a conoscere e imparare da grandi liutai italiani e stranieri. Pre-sto iniziano ad arrivare i riconoscimenti, i premi, il lavoro vero e proprio, ed ora lui stesso tiene

conferenze in Italia e nel mondo. Proprio durante una conferenza a Siracusa incontra il grande liuta-io giapponese Kazuo Sato che dimostra grande apprezzamento per il suo lavoro e lo introduce al mondo della liuteria giapponese. Proprio quello giapponese diventerà in seguito il mercato con cui collaborerà maggiormente, fino a tenere in casa un “ragazzo di bottega” (per usare un termine antico che certamente Michele gradirà) direttamente dal Giappone, per insegnargli la sua arte. Ma tramite il Giappone la fama di Michele arriva poi in Usa e Canada, con un passaparola transoceanico che rende merito al suo lavoro. Così lui definisce il lavoro di liutaio: dare una for-ma, funzionale ma anche estetica, a qualcosa che una forma non ha, come il suono.Lo abbiamo incontrato nella sua casa a Revine-Vit-torio Veneto, dove vive con la famiglia, composta dalla moglie Viviana, il figlio di 10 anni Vassili, e i loro animali. Ci racconta che quello del liutaio, che per certi periodi è stato un mestiere anacro-

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Testo di: Marta TosoFotografie di: Andrea Collodel, Paola Poletto, Marta Toso

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nistico, sta vivendo ora una nuova riscoperta che va di pari passo al recupero di un certo tipo di cul-tura che sta vivendo il nostro tempo. “Si sta tor-nando all’artigianalità, un po’ come in fotografia si sta tornando alla pellicola oppure al vinile dopo l’ubriacatura del cd ... io lo vedo con entusiasmo. Questo passo indietro è uno straordinario passo in avanti. Riprendere le conoscenze materiali di una volta, rivisitandole con le conoscenze tecnologiche attuali che abbiamo a disposizione, è un’azione intelligente. Noi abbiamo dei maestri del passa-to come punti di riferimento. Per tutta la loro vita sono andati in una certa direzione e ad un certo punto si son fermati; e per molti di noi è bello ini-ziare da lì e pensare a dove loro sarebbero arrivati con la tecnologia odierna”. “Le nuove generazioni cresciute con il suono digitale, quando sentono il suono analogico…. si emozionano!”.Ma il suo lavoro, la sua arte, non è spiegabile solo con cenni tecnici. Esiste una parte tecnica che se-gue le regole della fisica acustica, e una parte me-tafisica che ha a che fare con l’istinto, con l’espe-rienza, con la soggettività e unicità della persona che costruisce lo strumento, della persona che lo suona e infine della persona che ascolta. E’ una storia d’amore quella che Michele ci raccon-ta, l’amore per la musica in tutti i suoi aspetti, par-tendo dalla materia, il semplice legno: “a me piace tagliare il pezzo di legno a mano perché ottengo delle informazioni che altrimenti non avrei, come la resistenza al taglio, il profumo (così so se è un legno stagionato naturalmente o meno), il grado di elasticità, la tenuta …raccolgo informazioni che magari razionalmente non uso, ma convergono nella ‘banca dati’ che alla fine farà prendere delle decisioni. Sono decisioni inconsapevoli, ma quan-do prendo quella decisione c’è anche quel dato. Per cui più informazioni raccolgo più il mio gesto andrà nella direzione giusta”.E’ con amore che ci parla di abeti, palissandri e

gelsi, di come la vita che un albero ha vissuto pri-ma di essere abbattuto ne determini la crescita e di conseguenza le venature, gli incavi, che divente-ranno poi l’elemento decorativo del suo strumen-to, dando così una nuova vita all’albero stesso, rendendolo veicolo di musica, di arte e di bellezza.Perché quando lo strumento è finito e lascia le sa-pienti mani del liutaio, inizia la sua storia, la sua evoluzione che dipenderà dal se e come verrà suo-nato. E’ una storia d’amore anche quella tra il musicista e il suo strumento, che sfugge ad ogni possibilità di quantificazione. Anche qui c’è un aspetto fisi-co, ovvero come le molecole del legno reagiscono alle sollecitazioni, dando quindi la timbrica, la se-quenza armonica che appartiene a quella chitarra e soltanto a quella, rendendola riconoscibile. C’è poi l’aspetto metafisico: “a seconda della sequen-za armonica che si sviluppa, ci sono delle micro vi-brazioni che danno quel qualcosa che poi si insinua dentro a colui che lo suona o che lo ascolta e si crea questa forma di concordanza di fase, di sinto-nia. Per cui per qualcuno lo stesso strumento può risultare indifferente mentre ad un altro può toc-care il cuore. E’ come l’incontro tra due persone, quando nasce quell’alchimia... alla fine c’ è sem-pre da un lato l’aspetto spirituale che è l’amore e dall’altro quello materiale che è la chimica delle combinazioni. Ci sono delle cose che si possono e altre che non si possono combinare mai. E tante volte i nostri errori nascono dal fatto che vogliamo combinare ciò che non è possibile…”. E così la nostra chiacchierata continua, tra sequen-ze armoniche, suoni consonanti e dissonanti, come in una parentesi nel tempo, in questa casa alle por-te del bosco, dove questo artigiano e artista ha allestito il suo laboratorio. Qui, tra chitarre in fase di incollaggio, legni vari e rosette a mosaico, tro-viamo anche qualche chitarra in riparazione, per-ché “a volte i ragazzi del paese mi portano le loro

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chitarre per cambiare le corde”. Questa è l’umiltà dell’artista, che cambia le corde a semplici chitarre costruite in serie con le stesse mani con cui crea strumenti eccezionali. Come la sua chitarra jazz: la “fissazione dell’artista”, costruita in 1 anno e mezzo di lavoro nei ritagli di tempo, solo per se stesso, per mettersi alla prova e scoprire il suo valore come liutaio anche nel genere jazz e non solo nelle chitarre classiche. Il risultato di questo lavoro è uno strumento semplicemente prezioso, sul quale poggia, nella custodia aperta come uno scrigno, un bigliettino di carta con su scritto a pen-na “Vassili”, il nome di suo figlio, al quale questo strumento è destinato per quando sarà grande; il suo valore lui lo conosce già e infatti lo accarezza con cura e ce lo mostra con grande orgoglio.Sono circa 300 le chitarre che sono nate qui e che

ora stanno vivendo in diverse parti del mondo. 300 gioielli che Michele della Giustina ha creato con amore e con estrema umiltà, perché potendo trasferirsi in Paesi dove il lavoro di liutaio ha un mercato consolidato, come ad esempio in Canada o negli Stati Uniti, lui ha scelto di rimanere qui, sul-le prealpi venete, per condurre una vita tranquilla e mantenere intatta la natura dell’ essere, del suo lavoro e del suo amore.“Avrei potuto essere una superstar nel mondo, ma io voglio essere una superstar per i miei familiari e per i miei animali”.

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La storia appesa ad un filo

Burano è al centro della laguna di Venezia, ma an-che alla fine del mondo.Per arrivare a Burano dalla terraferma si deve fare un incantevole e suggestivo viaggio attraverso Ve-nezia e la sua laguna. Burano è un’isola, un mondo a sé. Uno scrigno di straordinaria bellezza e originalità. Luogo di colori, canali e antiche tradizioni.Culla di un’arte millenaria che il mondo lentamente sta dimenticando, il merletto.Arriviamo a Burano e ci sentiamo due turiste. Ep-pure questo è anche il nostro territorio.Abbiamo le stesse radici, anche se proveniamo da punti diversi della laguna.Ciononostante ci guardiamo in giro con la curiosità e la sorpresa negli occhi di chi vede per la prima volta gli straordinari abbinamenti di colori delle sue case, la magnifica natura che la circonda, gli inimitabili prodigi dolciari e la perfezione dei suoi

merletti.E oggi siamo qui proprio per scoprire il merletto.Un’arte che sa di antico, di tradizione, di passato.Durante il viaggio, ammettiamo con sincerità di sa-perne ben poco.Conosciamo solo la sua bellezza, legata a donne d’altri tempi. Ma ci sembra qualcosa di anacroni-stico, totalmente lontano dal mondo contempora-neo. Emma è una merlettaia.Ci aspetta al centro della grande sala che si trova al primo piano del museo del merletto.E’ una stanza elegantemente arredata. Pavimen-to in legno, mobili antichi ed una splendida trifora dalla quale si vedono gli edifici colorati della via principale e dalla quale filtrano i raggi del sole.Nella stanza il tempo sembra essersi fermato.E’ il luogo dove da sempre le donne di Burano han-no appreso l’arte del merletto e dove ancora oggi ricamano i loro preziosi manufatti. Ogni merlettaia ha la propria sedia con lo sgabello per appoggiare i piedi. Alcune sono già sedute al lavoro con il tom-

Testo di: Martina PandrinFotografie di: Martina Pandrin, Paola Poletto

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bolo in grembo e l’ago in mano.Emma ha 99 anni, è minuta ed elegantemente ve-stita e un curatissimo chignon in testa.E’ la regina della stanza, ha un sorriso sereno ed accogliente. Ci prende per mano e ci accompagna fra le stanze di quello che per noi è un museo e per lei la sua casa.Il merletto non è un lavoro, ci dice, è un’arte.Il disegno di partenza è realizzato su una tela fis-sata con una cucitura ad un cartoncino, il tutto poi appoggiato ad un tombolo, che serve da sostegno. Per creare un merletto servono sette passaggi di diversi nodi sapientemente realizzati sul disegno con ago e filo.La storia di Emma è quella di molte altre bambine di Burano dei primi decenni del secolo scorso; a scuola solo per un anno, una famiglia numerosa, la necessità di portare dei soldi in casa.Si entrava alla scuola di merletto da bambine, nove dieci anni, il grembiule, il tombolo ed ago e filo. Disciplina e pazienza.Sedute in quelle sedie di legno, con i piccoli piedi appoggiati allo sgabello ad imparare il punto Bu-rano ed il punto Venezia, a fare i pieni ed i vuoti, a fare la rete.Le suore vigilavano sulle ragazze; nella sala doveva regnare il silenzio, ma poi ci si scambiava una pa-rola, un qualcosa da raccontare e scoppiava una ri-sata, impossibile resistere, ed inesorabile arrivava puntuale la punizione della suora che sospendeva il lavoro e costringeva a rimanere lì in silenzio sen-za far nulla. I soldi erano sempre pochi, poche lire per ore di lavoro.Diventate giovani donne, qualcuna rimaneva nella scuola e continuava a ricamare, qualche altra trova-va un altro lavoro più remunerativo. Il matrimonio, la famiglia, i figli, e continuava a ricamare in casa.Chi era bambina negli anni della seconda guerra mondiale non aveva molte altre possibilità a Bura-no. Imparare a fare il merletto era il destino delle donne, la tradizione da portare avanti.Burano era il merletto per definizione.Emma ci accompagna fra le teche del museo e ci mostra con orgoglio dei merletti straordinari, fatti

da mani abilissime.Ci vuole tecnica, precisione, pazienza.Ha dedicato la vita intera al merletto, ed è una del-le ultime custodi dei segreti di quest’arte.Un mestiere così fuori dal presente che il filo per poter lavorare è diventato merce rara, difficilissi-mo da trovare, ricercato in mercatini e negozi di sartoria.Ci racconta di una vita religiosamente dedicata al merletto, ricca di soddisfazioni.Protetta nel “mondo fuori dal mondo” dell’isola in cui abita, dove la vita comunitaria esiste ancora, un filo sottile che lega le persone in un rete sociale, ci si aiuta, ci si fa compagnia.Con una civetteria femminile che ci intenerisce non poco, ci racconta che è molto ricercata per la sua arte. Mentre l’aiutiamo a scendere le scale per passare da una sala all’altra, ci parla saggiamente della vita e ci prende per mano.Le chiediamo se c’è un futuro per il merletto. La scuola è chiusa, non ci sono ragazze interessate ad apprendere quest’arte.Imparare a fare il merletto richiede degli anni. Girando fra gli espositori, Emma si rammarica mol-to della chiusura della scuola; le poche persone che vogliono imparare devono prendere lezioni private; dice di non volersi più prendere questo impegno, pur avendo insegnato a lungo l’arte.Ci vuole disciplina, ci dice, e anche etica, ci parla di punti, di proporzioni, di disegni. Ma poi ammette che non sempre viene seguito lo schema origina-rio e proprio perché si tratta di opera d’arte, ogni merlettaia, segue il proprio estro, la propria crea-tività.Ci viene da pensare che il merletto è davvero un’arte in totale contrasto con il mondo di oggi.Il merletto richiede pazienza e tempo, sia per l’ap-prendimento dei punti, sia per la realizzazione, e oggi invece tutto si consuma in un attimo, non c’è pazienza di attendere.Oggi i prodotti hanno una durata limitata, seguo-no le mode, incalzati da bisogni costruiti. Il merlet-to, invece, è un prodotto unico, ognuno un’opera d’arte.Viviamo in un mondo che vive per fare denaro, si cercano occupazioni con facili guadagni e poco im-

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pegno; il merletto invece non paga. Non c’è proporzione fra il tempo, la dedizione, la tecnica, le conoscenze necessarie per fare un mer-letto e la retribuzione oraria di una merlettaia.Dedicarsi a questa arte deve essere una passione, perché non permette di vivere.Come se non bastasse, il vero merletto di Burano soffre la concorrenza di prodotti industriali ed è penalizzato dalla scarsa conoscenza del prodotto da parte di chi lo vuole comprare, che spesso non riconosce il pezzo originale da acquistare.Dopo aver concluso la conversazione con noi, Emma si siede sulla sua sedia e prende in grembo il tombolo, prende il filo e lo infila nell’ago, rigoro-samente senza occhiali.Quando usciamo per andare via, la incrociamo di nuovo nel campo davanti al museo, mentre parla con una coppia di turisti lombardi che vogliono ve-dere lavorare il merletto. E’ appena stata a pranzo in trattoria e ora torna al museo, al suo sgabello, per lavorare un po’.

L’abbiamo vista dirigersi verso le sale con il turista sottobraccio raccontandogli la sua storia, ossia la storia del merletto.Ci auguriamo che ci sia qualche giovane donna che abbia voglia di mantenere in vita questa tradizio-ne, per continuare a dar vita a quei capolavori che le mani geniali di artiste come Emma hanno saputo creare.

Un ringraziamento particolare a Lina, artista au-tentica, che ci ha accolto nella sua casa facendoci sentire in famiglia e ci ha raccontato con passione del merletto e delle merlettaie.

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La lanterna magica

Nel centro di Padova, affacciato sul Prato della Valle, ospitato all’interno di Palazzo Angeli (anti-co edificio fine XV secolo), si trova il Museo del Precinema, nato nel 1998 in collaborazione con il Comune di Padova, dove la direttrice, nonché pro-prietaria, Laura Minici Zotti, è lieta di presentare al pubblico il suo magico mondo fatto di strumenti sconosciuti e dai nomi quasi impronunciabili qua-li praxinoscopio, taumatropio, fenachistoscopio; tutti strumenti antenati del cinema, dove ognuno con il proprio sistema di visualizzazione in sequen-za veloce di fotogrammi crea l’illusione del movi-mento. Soprattutto troviamo lei, la protagonista indiscus-sa, attorno alla quale gira un po’ tutto il museo, la bellissima Lanterna Magica. Antenata dell’attuale proiettore, è costituita da una scatola chiusa all’interno della quale veniva posta una candela che illuminava un’immagine di-pinta (solitamente su vetro) proiettata per mezzo di una lente su una parete. All’interno del museo se ne possono vedere di

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vari tipi risalenti ad epoche diverse, dalla lanter-na di fine settecento (una originale in esposizione) a quelle più “moderne” datate metà ottocento. Ovviamente si trovano una serie di vetri dipinti a mano dove sono raffigurate fiabe, racconti, storie di vita quotidiana o di guerra. Purtroppo lo spazio ridotto dell’area museale, come evidenziato dalla direttrice, non è sufficien-te ad esporre tutto il materiale in loro possesso. Quello esposto è comunque ben ordinato, nulla è lasciato al caso e tutto segue un filo logico. Poco spazio, ma tanta storia, tanta cultura, tanta passione ma soprattutto tantissime emozioni che ci avvolgono in questa magica atmosfera e per qualche istante ci fanno tornare bambini. Posto assolutamente da visitare, più unico che raro, è un frammento di storia e cultura da non tra-lasciare perché è una realtà che rischia di essere dimenticata o mai conosciuta, travolta dal cinema moderno con i suoi effetti speciali e le sue tecno-logie digitali.

Testo di: Stefano BertoFotografie di: Stefano Berto, Mirka Rallo

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11th Venice Movie Stars Photography AwardPremiazione concorso fotograficoMercoledì 10 dicembre 2014 alle ore 19.30, pres-so il h>club doney, Hotel The Westin Excelsior di Roma si è tenuta la cerimonia di premiazione del 11th Venice Movie Stars Photography Award.Alla cerimonia erano presenti tra gli altri Francesca Valtorta, madrina dell’evento, La giuria presieduta da Luca Dini, è composta da Luca Argentero, Greta Scarano, Daniele Maver, Ar-mando Gallo, Marco Giusti.Sezioni Ufficiali:Sezione Foto Ritratto 1° classificato: Filip Van Roe soggetto: Abel Ferrara2° classificato: Arianna Scolaro soggetto: Abel Ferrara3° classificato: Karim Rahoma soggetto: Dachi Orvelashvili

Sezione Fotocronaca 1° classificato: Piermarco Menini soggetto: Ethan Hawke2° classificato: Marco Sartori soggetto: Reportage3° classificato: Piergiorgio Pirrone soggetto: Kim Ki-dukSezione Premio del pubblico1° classificato: Ilaria Costanzo - soggetto: reportage 2° classificato: Piergiorgio Pirrone soggetto: Kim Ki-Duk3° classificato: Annalisa Flori - soggetto: Willem Dafoe

Immagini in alta definizione a disposizione su richiesta. [email protected]

Il fotografo Piermarco Menini durante la premiazione.

Rubrica a cura di Michele Gregolin

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Piermarco MeniniUnexpected

Domanda: Piermarco hai vinto il premio VMSPA un riconoscimento arrivato dopo anni di lavoro al festival di Venezia durante i quali hai fotografato i più importanti personaggi del cinema interna-zionale. A questo punto della tua carriera lo vivi come un traguardo o come uno stimolo per conti-nuare la tua esperienza di ritrattista? Risposta: Assolutamente come uno stimolo. Cre-do infatti che per un fotografo i premi siano si-curamente una soddisfazione ma principalmente diventano una responsabilità. Mi spiego meglio, quando ti premiano è come mettere un caposaldo sul tuo lavoro e questo significa che da quel punto in poi non avrai più scuse e dovrai assolutamente evolvere e trovare nuove strade. Quindi non può essere nient’altro che una sfida positiva per me.D: Conosco la tua tenacia e professionalità, come hai vissuto i cambiamenti organizzativi dei festival del cinema negli ultimi anni nei riguardi dei foto-grafi? R: Da quando ho cominciato a frequentare i festi-val del cinema, nella seconda metà degli anni ’80, le cose sono radicalmente cambiate. Prima era molto più facile incontrare, interagire e convince-re i personaggi a farsi fotografare e l’atmosfera era molto più rilassata; ora, ed il grosso cambia-mento è avvenuto negli ultimi 15 anni, i personag-gi più importanti si nascondono all’interno di lus-suose suite e si possono ritrarre, per pochi minuti, solo se si riesce ad avere un appuntamento at-traverso gli uffici stampa che devono gestire una grossa mole di richieste dalla globalità dei media.. Quindi per i fotografi restano certi solamente gli appuntamenti ufficiali quali i photo call ed i red

carpet, in cui fotografare tutti insieme le star del giorno senza possibilità di incontro personale. Tut-to questo per me, che sono un ritrattista, è stato un cambiamento difficile, specialmente ho sentito la mancanza di interazione con il personaggio, e per questo motivo negli anni ho cercato, in que-ste situazioni pubbliche, di ritrarre ugualmente le celebrità sforzandomi di coglierne i momenti più veri e più intimi, trovare cioè in quell’incontro ne-gato uno spunto per evidenziare ugualmente una loro verità interiore. Questa serie di ritratti, che ho chiamato “Unexpected”, vorrei riuscire a finaliz-zarla in un libro fotografico.D: Oltre al lavoro nei festival del cinema sei anche un affermato ritrattista, come vivi l’incontro con le più importanti star del panorama cinematografico internazionale? R: Devo essere sincero, quando ritraggo le celebri-ties non riesco mai a vedere di fronte a me una star ma sempre una persona, con la sua importanza ma anche con le sue fragilità e debolezze; cerco sempre di cercare dentro l’uomo, per sco-prirne il più possibile il lato intimo, ovvero tuttoquello che sta sotto la sua scorza di personaggio.Tutto questo non è facile da far emergere o per mancanza di tempo o perché ci sono delle

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resistenze da parte del soggetto ad aprirsi ed alasciarsi andare. In questa situazione io per primo devo aprirmi e comunicare con il soggetto, con lo sguardo, con la parola o con la gestualità dei movimenti, quasi come fosse una “danza rituale”, un innamoramento fugace ma intenso che crei un forte feeling. D: C’è un qualcosa che ti piace venga fuori dalle tue immagini qualunque sia il personaggio che stai fotografando, ovvero esiste un elemento ripetitivo che possiamo cogliere nelle tue immagini o sei pri-vo di ossessioni? R: Credo che il ritratto sia figlio della complicità, il punto di incontro tra l’espressività, l’emozione, l’intensità del personaggio e lo sguardo sensibile e creativo del fotografo. Dunque penso che l’elemento ripetitivo nelle mie immagini possa essere proprio io, ovvero la mia ricerca continua di trovare nelle persone che ri-traggo quegli aspetti che sono anche miei, di me-ravigliarmi di non essere solo ma in “buona” com-pagnia. Probabilmente è questa l’ossessione a cui ti riferisci.

D: Come le tue radici veneziane hanno influenzato i risultati stilistici delle tue immagini? R: Mah… è una domanda per me difficile. È sicuro che essere nato a Venezia non può non aver in-fluenzato il mio gusto estetico, ma è proprio quan-do, 25 anni fa, mi sono allontanato da questa città, anche un po’ ingombrante, che ho cominciato a capire meglio le differenze con altre realtà, magari meno importanti, ma più diversificate e contrad-dittorie ed a quel punto la bellezza non era più il principale valore e questa complessità di visioni e vissuto mi ha creato nuovi stimoli. Adesso vedo Venezia con occhi diversi, città mar-toriata che subisce più torti che splendori anche un po’ a causa dei veneziani stessi che ne hanno venduto l’anima al miglior offerente. Questo ha maturato in me in quest’ultimo periodo la volontà di lavorare ad un ricerca fotografica e video molto soggettiva ed impietosa, una sorta di presa di co-scienza, su come Venezia si stia trasformando.D: Durante il tuo vissuto vieni mai attratto da qual-che sconosciuto tanto da volerlo ritrarre a tutti i costi? R: Si, mi succede abbastanza spesso, infatti la mia abitudine a vedere fotograficamente è sempre presente, ma sono spesso ritratti virtuali che non si concretizzano in immagini fotografiche compiu-te, forse complice anche un po’ di pigrizia. Il mio vissuto, fino ad ora, è pieno di fotografie viste e mai scattate ed un esempio è anche la mia sfera privata nella quale ho preferito quasi sempre vive-re i momenti piuttosto che fotografarli.D: Come vorresti che gli altri percepissero le tue fotografie? R: Con la stessa sincerità con cui le realizzo.

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lo sport

Nessuno si senta escluso

Le sue origini ci portano alla fine degli anni Settan-ta, quando un gruppo di atleti tetraplegici reinven-tava una disciplina, di grande agonismo, alternati-va alla pallacanestro in carrozzina: stiamo parlando del “Wheelchair rugby “ o Rugby in carrozzina.Nel 1979 ci fu il primo Campionato Nazionale in Canada, e dopo due anni si formò una prima squadra per partecipare a un Torneo Internazio-nale, dove gareggiarono squadre statunitensi e canadesi. La vera spinta allo sviluppo del Rugby in carrozzina fu il primo Torneo Internazionale di Toronto, dove gareggiarono team provenienti da USA, Gran Bretagna e Canada.Si deve, invece, al Comitato Paralimpico Interna-zionale il riconoscimento come sport paralimpico nel 1994, mentre l’anno seguente in Svizzera ve-niva disputato il Primo Campionato Mondiale di Wheelchair Rugby, al quale parteciparono otto squadre. Nel 1996 il WR è stato incluso come sport dimo-strativo ai Giochi Paralimpici di Atlanta raggiun-gendo nel 2000, ai Giochi Paralimpici di Sydney, la qualifica di sport premiato con medaglie.Ad oggi è praticato in 45 paesi nel mondo e dal 2011 è riconosciuto come disciplina anche in Italia.Uno sport caratterizzato da un notevole sforzo fi-sico, il Rugby in carrozzina come tutti gli sport, ha una funzione stimolante a livello motivazionale, in special modo se praticato da persone affette da diverse disabilità.Questo progetto intende avvicinare persone con disabilità motorie, paraplegici, tetraplegici o con disabilità “equivalenti”, persone con lesioni spina-li, integrali o parziali che interessano gli arti supe-riori e inferiori ma con un ampio e diverso spettro di abilità per lo sport, nel nostro caso il rugby in carrozzina, in modo da creare integrazione.Il Rugby in carrozzina è uno sport di squadra per uomini e donne con disabilità che combina ele-menti della pallacanestro, pallamano, hockey su ghiaccio e rugby. Gli atleti giocano su carrozzine spinte con mani o polsi rispettando precise specifiche regole presen-ti nel Regolamento Internazionale al quale gli at-leti devono attenersi per partecipare alle compe-tizioni. Il contatto violento è permesso solo tra le carrozzine (si può ben vedere dalle ammaccature), mentre è vietatissimo quello tra gli atleti.Si gioca su un campo da basket utilizzando un pal-lone da pallavolo, con quattro giocatori in campo

per squadra (le squadre sono formate da 12 ele-menti), la cui classificazione non può dare più di 8 punti in campo.La classificazione è data dal grado di abilità residua del giocatore e lo scopo è portare il pallone oltre la linea di meta e, affinché sia valida la segnatura, due ruote della carrozzina devono aver superato la linea mentre l’atleta è in possesso della palla.Davanti alla linea di meta, demarcata da due co-netti, c’è un’area larga 8 metri e profonda 1.75m. Non più di tre difensori possono trovarsi all’inter-no di quest’area contemporaneamente, mentre, come succede nel basket, gli attaccanti non pos-

Testo di: Massimo BonuttoFotografie di: Massimo Bonutto , Enrico Gubbati

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all’ iniziativa del pluricampione paralimpico Alvise De Vidi e all’appello del Presidente del Comitato Italiano Paralimpico Luca Pancalli, che auspicava che anche in Italia si sviluppasse questo sport.Il primo evento in Italia è stato il raduno a Lignano nel febbraio del 2011 in collaborazione con la Na-zionale Austriaca, e da allora molti passi in avanti sono stati fatti: il Torneo di Colonia nel 2012, primo impegno ufficiale, la qualificazione agli Europei in Irlanda dove c’è stata la storica vittoria contro i pa-droni di casa e i Campionati Europei di Anversa nel 2013 che hanno portato l’Italia all’11esimo posto in Europa e al 16esimo nel ranking mondiale.

sono rimanervi più di dieci secondi. Il giocatore in possesso della palla la può tenere per non più di 10 secondi e poi deve farla rimbalzare o passare, mentre 12 sono i secondi a disposizione a chi at-tacca per superare la linea di metà campo. Il tem-po massimo per una segnatura è di 40 secondi; la partita dura 32 minuti effettivi, divisi in quattro tempi da otto minuti.Il parquet è la superficie preferita, ma si può gioca-re anche su altre superfici sempre che il campo sia accessibile alle carrozzine e siano presenti i canoni per la pratica della pallacanestro in carrozzina.In Italia il rugby in carrozzina arriva nel 2011 grazie

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Ma per meglio conoscere il rugby in carrozzina siamo andati a vedere un allenamento della Na-zionale a Sacile, dove abbiamo incontrato Franco Tessari, assistente tecnico della Nazionale e alle-natore del Padova Rugby, al quale abbiamo posto alcune domande:Innanzitutto, come ti sei avvicinato a questo sport? Tutto è nato per caso; sono stato invitato al primo stage a Lignano da un’amica che aveva collaborato a quella prima iniziativa. Ho subito accettato con la curiosità di scoprire questo nuovo sport e vedere cosa poteva avere in comune con il rugby tradizio-nale dove io ho allenato per molto tempo.E cosa hai trovato ?Uno sport che delle regole del rugby non ha mol-to, ma che della filosofia del rugby ha tutto. Il con-cetto di sostegno, tipico del rugby, qui assume l’importanza di un valore superiore e diverso. Lo scontro fisico, anche se solo con la carrozzina è for-te e reale e questo è l’unico sport paralimpico che lo permette. Come nel rugby c’è contatto, ma mai violenza.Cosa puoi dirci degli atleti che alleni ?Le parole non bastano per descrivere una realtà così complessa. In tutto lo sport si raccontano sto-rie interessanti, aneddoti divertenti o drammi de-vastanti ma con questi ragazzi tutto è ancora più articolato.La maggioranza di questi ragazzi si trova in carroz-zina a causa di un trauma e per quasi tutti c’è un prima e un dopo. Ognuno a suo modo ha cercato di affrontare le difficoltà che si sono presentate, dove anche negli allenamenti cambiano i parame-tri di riferimento con molte nuove variabili, a co-minciare dalla termoregolazione. Ognuno di loro è un romanzo che varrebbe la pena di leggere a partire dall’attuale capitano del Pa-dova Rugby e della Nazionale, Davide Giozet, fino agli ultimi arrivati.A proposito di ultimi arrivi, come si sta sviluppando il rugby in carrozzina in Italia in questo momento ?Per adesso gli atleti non sono molti. Probabilmen-te poco più di trenta in tutta Italia. Ci sono società consolidate come il Padova Rugby, Sportequal Trieste che è la prima nata, ma che fatica a reclu-tare nuovi atleti per proseguire nell’attività, Ares Roma che sta crescendo bene e la Polisportiva Mi-lanese che da poco si sta muovendo.La conoscenza del nostro sport va portata soprat-

tutto nella varie unità spinali in Italia sfruttando canali che possono dare informazioni e assistenza come l’Inail e il Comitato Paralimpico. La Fispes (Federazione Italiana Sport Paralimpici E Speri-mentali) ha fatto molto in questi anni e molto avrà ancora da fare soprattutto nella promozione nel Centro e Sud Italia.Come è possibile avvicinarsi a questo sport ?Ci sono dei raduni ai quali possono partecipare sia gli atleti convocati che altri atleti che voglia-no provare; si svolgono principalmente nel Nord Est perché la maggioranza degli atleti in questo momento proviene da quest’area. Nel passato ci siamo ritrovati anche a Parma, Prato, Milano, e non è escluso che nel futuro ci siano raduni della Nazio-nale in altre località.Per poter iniziare ci si può rivolgere alle società che prima ho citato e che sono rintracciabili in in-ternet e nei principali social network.E cosa vedi nel futuro ?Quest’anno ci sono i Campionati Europei, a Praga dall’11 aprile,del Gruppo B al quale appartengono le squadre dal 7° al 12° posto nel ranking europeo, alle qua-li si aggiungeranno altre 2 squadre tra quelle con ranking inferiore. Dalle gare usciranno 2 squadre promosse al Gruppo A per il titolo europeo con la possibilità di andare alle Paralimpiadi in Brasile nel 2016.Questo è un nostro obiettivo, anche se dobbiamo dire che una squadra giovane come la nostra ha qualche difficoltà in più di piazzarsi. Più realmente cercheremo di migliorare la nostra posizione negli Europei per poi lavorare per arrivare con più possi-bilità a giocarci un posto per le Olimpiadi di Tokyo nel 2020. Non so se sarò ancora nello staff di questa meravi-gliosa squadra per quel periodo, ma sicuramente sarò tra quelli che la sosterranno in tutte le manie-re possibili.Per chiudere questa intervista ?Per chiudere non posso che ringraziare questi stupendi atleti per il loro coraggio, la loro deter-minazione, la voglia di mettersi in gioco. Sono il vero esempio di cosa significa non mollare mai, ed è questa la frase che riassume al meglio la storia sportiva di questi ragazzi. E per gli atleti affetti da disabilità il valore di queste parole ha un significato ancora più forte.

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oltreTesto di: Francesco Dori

Fotografie di: Massimo Bonutto, Andrea Collodel,Francesco Dori

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Il dolce domani

Un’opera materica, direbbe qualche addetto ai la-vori.Sulla sinistra un ragazzo indossa un paio di jeans spiegazzati. Nella mano, nascosta, tiene saldo un sasso. Tutto, i jeans, il corpo, la mano ed il sas-so sono vergati di bianco. Sulla destra una parete ininterrotta, colorata di un bianco, forse ancora più luminoso.Questo quadro, che ha rappresentato un passo im-portante della sua vita artistica, racconta bene Gia-como. Sempre pronto alla sfida, a lanciarsi verso il nuovo. Lo sfondo bianco, incognita o opportunità? Muro o vuoto? A noi osservatori, questa scelta arbitraria.Chi di noi, non è attratto da questa parete bianca?AntonioA parlarci cosi è Antonio, il padre di Giacomo, in arte Jeos, l’autore del quadro, morto nel 2011 a trent’anni per una banale caduta. Antonio non è un addetto ai lavori. E’ un impren-ditore, di successo ed illuminato (la mia azienda è stata una delle prime ad ottenere la certificazione etica; a quei tempi eravamo una cinquantina in tut-ta Italia). Ha dovuto e voluto allearsi all’arte del figlio dopo la sua morte. Un appiglio, forse l’unico, per guar-dare avanti. Sopravvivere alla morte del proprio figlio, l’unico figlio. L’incubo peggiore per ogni genitore. Un dolore talmente indicibile che, questa dramma-tica condizione esistenziale, non trova una parola per descriverla. Se si perde la moglie o il marito si è vedovi, se si perde un genitore si è orfani, ma se si perde un figlio che cosa si è?L’incontroAntonio ci ha accolti, in una sera di dicembre, nel suo ufficio, all’ultimo piano di una elegante palazzi-na, in una zona industriale in una qualsiasi provincia del nordest. Gli altri uffici sono vuoti. Probabilmen-te la frenetica attività che contraddistingue la vita

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professionale di Antonio si è conclusa da poco.Ci mostra uno stampo in metallo e ci spiega la fun-zione di uno scambiatore di calore. E’ questa una delle sue nuove attività imprenditoriali. Nuove, perché Antonio nel 2012 ha venduto le sue attività, frutto di una vita di lavoro, per poter af-frontare direttamente il suo dolore. Come talvolta accade, i fili che improvvisamente si sono intrecciati, possono dipanarsi nella ricerca di una nuova relazione e consapevolezza, tra passato e futuro, tra corpo e spirito. Camminare.Camminare sorretti dalla mistica. Il filo si dipana nel Cammino di Santiago di Compostela, il tragitto che tra la Spagna e la Francia ripercorre le strade dei pellegrini. Antonio ci racconta di un viaggio fatto da solo, dove ha incontrato persone incredi-bili e che non dimenticherà mai.Il cammino restituisce ad Antonio la determinazio-ne di andare avanti e di portare con se la testi-monianza di centinaia di giovani, che con e come Giacomo, condividono la passione di “esprimere se stessi e le proprie emozioni”. Nasce cosi l’Associazione Jeos, con l’intento di fornire sostegno agli artisti, ai gruppi artistici e agli enti di promozione artistica che operano nell’area del writing e della street art.JeosFin dall’età di 6 anni Giacomo ha fatto capire che la sua vita sarebbe stata diversa da quella del padre. Già da quell’età i segni della sua passione erano tangibili e sono cresciuti in modo esponenziale con l’adolescenza.“per il mio quindicesimo compleanno i miei amici mi hanno regalato 15 bombolette….., era un mio desiderio da tempo fare un graffito”.Se la sua morte è avvenuta per circostanze banali, non si può dire altrettanto della sua vita, che di banale ha avuto poco. Gli incontri alle banche, il luogo prediletto della cultura Hip Hop padovana. Writers, skaters, bre-akdancers, dj. “Ci si ritrovava tutti insieme, fai gruppo, ti senti una famiglia, perché condividi, ti senti al sicuro, condividi fratellanza” In quel periodo Giacomo inizia a diventare Jeos. Prima Jeoos, perché la doppia o gli consentiva di integrare elementi figurativi alle lettere, per poi trovare, graffito dopo graffito, la propria identità. Poi, passo dopo passo, disegno dopo disegno, ini-zia l’evoluzione artistica di Giacomo che diventa definitivamente Jeos.

Jeos si ricava uno stile, inizialmente rielaborando continuamente le lettere, che a poco a poco si in-tegrano con lo sfondo “Sono biolettere, direi”. Dall’esaltazione del proprio nome alla rappresen-tazione del proprio stato d’animo.L’evoluzione della propria forma d’arte si coniuga con il proprio personale talento. Il muro non basta più, o meglio, non è più sufficiente per rappresen-tare le sue emozioni.Dopo il Diploma come grafico pubblicitario, la scelta per Giacomo è quasi obbligata. Inizia cosi il suo percorso all’Accademia di Belle Arti di Ve-nezia, dove si diploma con il massimo dei voti, presentando una tesi sulla sua personale ricerca tecnica e pittorica.“Mio figlio era un vero talento artistico e…sincera-mente, non lo dico come padre”. Tra il plauso della commissione e del rettore, Jeos affina continuamente la sua tecnica, che richiaman-dosi alla tradizione, rielabora temi odierni. La sua personale reinterpretazione dell’antica tec-nica del bassorilievo ripropone, nel suo personalis-simo stile, i temi a lui più cari, dove si ricava il ruolo di “attento spettatore” del contemporaneo.Il tao, la dicotomia tra bianco e nero, tra bene e male, diviene una costante del linguaggio artistico di Jeos.Antonio ci fa notare, in una foto di Giacomo, il se-gno del tao tatuato sul suo polso. “Le ruspe, tante volte disegnate da Giacomo, rap-presentavano la distruzione ma anche la possibilità di costruire cose nuove. Gli elicotteri, erano visti come strumento di guerra ma anche di soccorso. Le scale mobili servono per salire e per scendere, le metropolitane per partire ed arrivare.Le prime mostre collettive (Atelier aperti, Street Artist Urban Signs, MiArt, Mutazioni contempora-nee….) e le prime personali, tra cui la site specific per la Galleria Civica di Modena. Ed infine le mostre postume, dedicate alla sua me-moria artistica; “Quotidiana 2011” e “Urbanize-me 2011”, curate da Progetto Giovani di Padova.Padova è considerata oggi, uno dei centri di mag-gior rilievo per l’arte di strada e per il writing. Sicuramente ha contato il livello degli artisti che sui muri della città hanno iniziato il loro percorso artistico. Antonio, diventato un profondo esperto della ma-teria, ci racconta che, nel 1994, quando Jeos, a 16 anni iniziava il suo personale cammino, c’erano già

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le prime crew, gruppi di ragazzi che dividevano la medesima passione.L’EAD (Escuela Antigua Disciples) soprattutto ma anche l’SPC (Sotto Pressione Costante). Poi l’evoluzione (parola cara a Giacomo) e la cresci-ta degli artisti, tra i quali Jeos e i suoi compagni più stretti (Greg, Boogie, Axe). Artisti che ora sono conosciuti in tutta Italia, ma anche in Europa e nel mondo.Un’altra ragione del successo di Padova per la stre-et art deriva anche dal fatto che si è perseguita la via della legalità. Questo ha favorito l’adozione di spazi riservati, consentendo agli artisti di prender-si i loro tempi creativi; una competizione basata sulla qualità piuttosto che sulla quantità. E su questo approccio, l’Associazione Jeos ha as-sunto un ruolo preminente, facendo da veicolo di congiunzione tra gli artisti e le amministrazioni pubbliche (i comuni più spesso, non solo Padova e l’hinterland, ma anche Milano Vicenza, Chianciano

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Terme e tanti altri) e ispiratrice e promotrice di un approccio verso la legalità.Antonio ha voluto riservarci un pomeriggio per accompagnarci in giro per Padova. Un giro che in qualche modo riapre le ferite.Ci parla di Ahead, il progetto artistico promosso dall’Associazione, una “writing action” sulle pareti esterne di alcuni complessi di edilizia popolare am-ministrati dall’Ater. Gli artisti Joys, Made, Yama, Axe, Orion, Zagor, sotto gli occhi attenti degli abitanti stessi, hanno ri-disegnato i luoghi, sottraendoli al loro inesora-bile grigiore. I quattro edifici dislocati in tre zone della città (via Fratelli Carraro in zona Ippodromo, via Stella all’Arcella e via Pizzamano in zona Vigo-novese) fanno capolino per i loro colori. Con Antonio proviamo a ritrovare, non senza diffi-coltà, nelle grandi pareti colorate, i nomi, ancora una volta continuamente rielaborati, degli artisti che li hanno dipinti.Ritracciamo cosi sui muri di Padova la testimonian-za ancora viva di quest’arte effimera.La facoltà di Ingegneria dell’Università, il Centro Sociale Pedro ed il quartiere che lo circonda, il muro di Via Vicenza disegnato da 40 writers amici, interamente dedicato alla memoria e ispirato alla vita di Jeos, la parete del cavalcavia Borgomagno dedicata a Yellow Submarine dei Beatles, forse l’u-nica nota di colore e bellezza nell’area della stazio-ne dei treni. Writing & Street artChi dice “Io”, dice sempre in certo qual modo, uno pseudonimo. Jacques DerridaIl nome, il tag, è per il writer l’elemento identifica-tivo, con cui esprimersi, con cui dichiarare la pro-pria esistenza, la propria appartenenza. Il nome non ha bisogno di traduzioni o di spiegazioni, è un linguaggio trasversale, riconosciuto e riconoscibile in qualsiasi paese.La forma ed il colore del proprio nome rappresen-tano la propria identità ed il proprio stato d’animo. E su questo concetto, Antonio, tornerà spesso nel-la nostra lunga conversazione.L’evoluzione artistica dei writers parte dalla con-tinua rielaborazione delle lettere, con lo scopo di creare una propria identità artistica e per veicola-re il concetto di comunicazione che rappresenta il movente primario del giovane artista.Lo spray è lo strumento di questa continua elabo-razione.

In questo contesto il confine tra legale ed illegale non è correttamente definito. E’ importante però conoscere le regole base. Tra queste il divieto as-soluto di disegnare sui monumenti ed il “non going over”, ovvero non sovrascrivere sulle opere di altri writers (se non sui muri palestra).Secondo Antonio, “Il Writing è innanzitutto disci-plina”, ed è proprio in questi frangenti che i ragaz-zi trovano la giusta dimensione del loro agire arti-stico. Il periodo di formazione non ha una precisa dimensione temporale. L’evoluzione artistica si coniuga con la propria evo-luzione personale; talvolta si esaurisce e concre-tizza nella sola reiterazione del segno, ma talvolta incontra percorsi più articolati. La street art è una naturale evoluzione del writing, permette ai giovani artisti di utilizzare strumenti diversi (marker, pennelli, stencil ecc.) e di concen-trarsi su soggetti diversi, con un forte ritorno al figurativismo.I più bravi impari a conoscerli e a riconoscerli. Il loro tocco, come per Jeos, va oltre il loro tag.I salutiChiediamo ad Antonio cosa vorrebbe che emer-gesse dalla nostra conversazione.Dopo una breve pausa ci dice che vorrebbe che la street art ed il writing venissero, definitivamente e senza distinguo, considerati come forme d’arte. Lui persegue con determinazione questo scopo at-traverso l’associazione e spera che il suo impegno possa contribuire a togliere i pregiudizi contro i “presunti” imbrattamenti.Ci racconta orgoglioso della sua battaglia per “co-lorare” gli ingressi del “Centro Commerciale Le Torri” a Torri di Quartesolo. Molti esercenti all’ini-zio erano contrari. Grazie alla sua determinazione e al contributo dei suoi amici artisti, il non-luogo per eccellenza ha as-sunto un nuovo valore, una nuova identità. Guardare per credere. Musei a cielo aperto“L’arte è tutto ciò che ci circonda” - JeosAd inizio 2010, Jim Richardson propose il “Manife-sto incompleto per MuseumNext”. Il documento metteva assieme pensieri su come musei e gallerie possano utilizzare la tecnologia per creare espe-rienze più coinvolgenti con gli spettatori, ed aveva lo scopo di favorire la fruizione dell’arte da parte di una platea allargata e diversificata. Uno degli auspici del manifesto era di aprire le porte dei musei e delle teche, uscendo dalla logica

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della pura ed esclusiva conservazione a favore di una maggiore possibilità di fruizione e di condivi-sione, soprattutto in considerazione delle nuove tecnologie disponibili.In questa logica, la street-art assume un ruolo im-portante e trova uno spazio di fruizione diretto e coinvolgente e che va ben oltre la virtualità della fruizione auspicata da Richardson.Come ci ricorda Antonio, “La street-art non è un’arte pagata. Chi la fa, consegna un’opera al pubblico”. Una interazione effettiva quindi, che da concre-tezza agli auspici di uno dei massimi innovatori nell’ambito della fruizione museale. I muri bianchi che chiamano, i ragazzi creativi armati di bombo-lette spray, le amministrazioni pubbliche illumina-te, rappresentano una straordinaria e qualificata

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alternativa di espressione artistica. I muri come musei a cielo aperto.In una nostra personale rielaborazione del Manife-sto di Jim Richardson, proviamo, con l’ispirazione dell’associazione Jeos, a rielaborare alcune delle regole.Ci si sposterà dalla didattica al dialogo - I musei a cielo aperto come piattaforme di scam-bio, accettando il fatto che tutti possono avere qualcosa di valido per contribuire.Daremo la possibilità al nostro pubblico di renderci migliori - per creare nuove opportunità e per con-tribuire a rendere i nostri musei migliori.Costruiremo esperienze personalizzate - I musei a cielo aperto come veicolo in grado di offrire espe-rienze culturali ed artistiche personalizzate.Saremo sociali - per unire le persone e per esten-dere la portata dei nostri progetti. Metteremo il pubblico nella storia - Dobbiamo dare al nostro pubblico la possibilità di essere pro-tagonista nell’ esperienza e nella storia del museo, riconoscendo il fatto che molte persone preferi-scono questo modo di imparare. Saremo delle piattaforme per la creatività - Un mu-seo non deve essere solo un posto dove vedere la creatività altrui, dovrebbe essere una piattaforma per incoraggiare tutti ad essere creativi. Noi continueremo ad esistere al di là del museo fisico Permettere al museo di entrare in contatto con persone al di fuori della sua posizione fisica, aumentando la portata geografica e l’impatto che può avere. Anche il nostro piccolo manifesto, come quello di Richardson si conclude con un punto lasciato vo-lutamente in bianco, per lasciare uno spazio a chi legge, per invitarlo a contribuire.

Vivo perCostruire distruzioniDistruggere costruzioniPer unaCostruzione di massaDistruzione di massaFabbriche armiTraSacro e massacroAzioni e mozioniFiducia e sfiduciaMacchine nella giunglaUomini e macchineNella giungla di macchineA me PiaceColorare!Jeos

Associazione JeosLink:

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Quale disciplina più anacronistica della Calligrafia (dal greco kalos “bello” e graphia “scrittura”) in un’ epoca in cui la gran parte della scrittura avvie-ne usando la tastiera di un computer o un dito su un touch screen? Ma come ci insegna la storia di Apple, questi “stru-menti di scrittura” nati per essere funzionali (Mac, Iphone, Ipad), possono trovare il loro punto di for-za e di differenziazione, nella diretta correlazione tra la precisione a cui sono costretti e l’estetica a cui devono tendere. Come Jobs ben sapeva, la forma di una lettera non è quindi secondaria al suo suono e al suo senso. Lo sapevano bene anche i primi writers, che all’ini-zio degli anni ’70 con il proprio nome, segnavano il territorio delle metropoli americane, iniziando cosi una rivoluzione “pacifica” armata dei soli segni, a testimonianza della propria pulsante esistenza. Se l’evoluzione del segno dei primi writers era direttamente connessa all’occupazione illegale di ulteriori muri, gli spazi, ora sempre più “volonta-riamente” offerti dalle amministrazioni pubbliche, consentono ai graffitari di talento di svilupparsi con tempi e secondo criteri più strettamente ar-tistici.

Il luogoNe è una diretta testimonianza il sottopasso ferro-viario di Gaggio, nel comune di Marcon. Il sottopasso, un non-luogo per eccellenza, depu-tato all’anonimo passaggio, di possibile e facile emarginazione, che invece, in questo caso, grazie alle pareti colorate dai writers locali, diviene luogo familiare, riconosciuto dalla comunità locale e ras-sicurante per chi lo attraversa.I graffiti, che più di ogni altra forma artistica, si prestano alla facile indignazione e fastidio del pubblico, dove resi legali, consentono agli artisti di esprimersi al loro meglio, rendendo evidente la differenza tra il puro vandalismo e le esperienza artistiche, cariche di studio e ricerca.In questo luogo, in un pomeriggio di gennaio in-contriamo Diego Brusegan, in arte Clay.

Il tagLa prima domanda è d’obbligo; perché Clay?Da ragazzo praticavo il kick boxing e per chi come me, amava il combattimento, l’idolo assoluto era Cassius Clay. Il campione, considerato da molti come lo sporti-vo del novecento, che “volava come una farfalla e pungeva come un’ape”, proprio con il cambio di nome, (che fu costretto ad accettare, perché quel-lo che tanto amava «mancava di significato divi-no»), segnò indissolubilmente la storia della boxe e dell’America stessa.Se Ali, dopo il febbraio 1964, firmò ogni pezzo di carta della sua vita, con un semplice «Muhammad» l’uomo degno di lode, Diego dopo la sua persona-le illuminazione, iniziò a firmare i suoi muri con il nome di Clay.

Lo stileMentre conversa con noi, non toglie mai lo sguar-do dalle lettere che stà disegnando nella parte di parete a lui riservata nel sottopasso. Una continua rielaborazione del ductus (il modo e il grado di rapidità con cui viene tracciata una scrittura) delle legature, dei movimenti verticali e orizzontali che portano alla definizione (transitoria perché sempre mutevole) del suo tag, ovvero della sua firma identitaria.Uno stile che si evolve grazie ad un enorme lavoro collaterale, fatto di bozzetti, schizzi preparatori al lavoro sulla parete.Ha iniziato nel 1997 “per noia, per divertimento, per l’adrenalina e per l’eccitazione di fare una cosa nuova” e dal quel momento non ha più smesso. Dopo l’iniziale e spontanea adesione alle crew, Clay predilige ora la non appartenenza ad un grup-po, sviluppando, come è giusto per qualsiasi arti-sta, un percorso autenticamente autonomo ed in grado di discostarsi da binari prestabiliti.Se la sua evoluzione artistica lo porta anche ver-so nuovi supporti (tele, canvas) Clay rimane però (come lui più volte ribadisce) un “graffittaro” che predilige i muri.

… se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono.Steve Jobs

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Nella breve conversazione emerge con forza il suo lato mistico. Ci racconta senza reticenze il suo at-traversamento tra le religioni (il buddismo, l’islam, il sufismo) e ne parla come un percorso necessario, di formazione alla vita. La frequentazione delle religioni, soprattutto di quelle che proibiscono la rappresentazione reali-stica di esseri animati e che hanno maggiormente sviluppato l’arte calligrafica, diventa un’ulteriore terreno di conoscenza, per affinare, con la neces-saria disciplina, il proprio segno.

Le lettere La codifica del lettering è complessa e Clay deve più volte ri-abozzarla per noi, per semplificarla e rendercela leggibile. La personalizzazione passa attraverso la moltiplicazione, la modificazione ed in alcuni casi, la distruzione parziale delle singole tracce che compongono le lettere.Clay nel tag sulla parete, sostituisce la C con la K a

cui letteralmente spezza le parti, per renderla nuo-va, disarticolata, reinterpretabile.Ogni singola lettera viene trattata come fosse un micro organismo. Come nell’uso comune ogni let-tera può assumere uno specifico significato con-nesso al contesto (la k nelle carte da gioco france-si, la k di Mozart, la k in in astronomia, in botanica, in chimica, in fisica, in matematica in metrologia, in informatica……). Le lettere si amalgamano e si fondono creando la parola, la firma. La “signature” diventa la griglia attorno alla quale tracciare un ulteriore perimetro di segni, una combinazione di forme che rappre-sentano il completamento del pezzo.Tra i sorrisi e i saluti dei passanti (“qui tutti mi conoscono”) Clay continua ad appoggiare il suo sguardo sulla parete. Un ciclista si ferma e con noi condivide le sue impressioni di spettatore-passan-te. Il lavoro è prossimo ad essere completato e Clay... sembra soddisfatto.

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L’emozione del dettaglio

La fotografia macro è il genere fotografico che si concentra su soggetti piccoli o molto piccoli. Soggetti per la fotografia macro possono essere trovati un po’ ovunque, e non serve attrezzatura particolarmente sofisticata: tutte le reflex attuali si prestano per questo genere di fotografia. Foto di questo tipo sono affascinanti e destano facilmente l’attenzione dell’osservatore tuttavia, per ottenere buoni risultati è necessario conoscerne la tecnica, e avere molta pazienza! Eccovene un paio di esem-pi. Per ottenere immagini macro, diverse sono le strade percorribili.Obiettivi macroSi possono utilizzare ottiche “macro” che consen-tono cioè rapporti di ingrandimento pari a 1:1 o superiori che però hanno un certo costo. Rapporto di ingrandimento 1:1 significa che per esempio un soggetto lungo 2 cm nella realtà, ha le stesse di-mensioni anche sul sensore o sulla pellicola.

Tubi di prolunga per la fotografia macroSi possono utilizzare sistemi di tubi di prolunga che interposti tra corpo macchina e ottica aumentano la distanza tra piano focale e soggetto e quindi il rapporto di ingrandimento, a scapito però della lu-minosità; dovremo perciò scegliere il tipo di tubi

Canon EOS-1D Mark III - EF100mm f/2.8 Macro USM- f/8 – 1/200 – 400 Iso - Tubi di prolunga

Fotografie e Testo di: Roberto Tacchetto

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con trasmissione degli automatismi che costano un po’ di più.I tubi di prolunga, detti anche tubi di estensione, possono essere anche montati l’uno sull’altro e in questo modo aumentano ulteriormente l’ingrandi-mento; il loro impiego non comporta quasi nessu-na perdita di qualità delle foto.

I soffiettiSi possono usare i soffietti che hanno la stessa fun-zione dei tubi di prolunga ma consentono rapporti di ingrandimento maggiori e un più agevole con-trollo dell’estensione; essi sono un po’ più costosi.

Lenti close-upSi possono utilizzare delle lenti cosiddette clo-se-up che ingrandiscono il soggetto ripreso ma, essendo aggiuntivi ottici, deteriorano la qualità finale dell’immagine.Sono delle apposite lenti che si avvitano sull’obiet-tivo (come i filtri) e che fungono da vere e proprie lenti di ingrandimento. Ne esistono con diversi fat-tori di ingrandimento: +1, +2, +4, ecc. Con queste lenti si perde in qualità, soprattutto ai bordi della foto i contorni vengono un po’ ammorbiditi.

Questi difetti vengono compensati da prezzi piut-tosto bassi. È possibile acquistare set di lenti close up con diversi fattori di ingrandimento a partire da circa € 50. Attenzione, quando le acquistate, a scegliere quelle compatibili con il diametro della lente frontale dell’obiettivo su cui volete montarle.

Inversione dell’obiettivoSi possono usare obiettivi normali ma montati al con-trario mediante l’uso di anelli di inversione che permet-tono di ottenere l’aumento del fattore di ingrandimen-to; perderemo però tutti gli automatismi e il controllo del diaframma dell’ottica. L’alternativa sarebbe quella di utilizzare lenti datate che possiedono la ghiera dei dia-frammi manuale.

Canon EOS-1D Mark III-EF100mm f/2.8 Macro USM - f/8 – 1/15 – 200 Iso - Tubi di prolunga

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Una nota sull’apertura massima. Nella fotografia macro è necessario usare valori di apertura piut-tosto elevati. Quindi, la massima apertura specifi-cata degli obiettivi macro è un valore spesso inin-fluente. Se però intendete acquistare un obiettivo macro ed usarlo anche per altri generi di foto, ad esempio per i ritratti, potreste voler preferire un obiettivo con apertura massima più ampia.Vediamo ora alcuni aspetti tecnici relativi alla foto-grafia macro. Le condizioni estremamente partico-lari che caratterizzano la macrofotografia, come la distanza ridottissima dai soggetti e le loro micro-scopiche dimensioni, costringono ad avere alcune attenzioni altrettanto particolari.Talvolta i soggetti per le nostre foto macro sono oggetti inanimati in luoghi chiusi. In questi casi, siamo liberi di usare qualsiasi tempo di posa, senza controindicazioni. Molto più spesso, però, capita di voler fotografare soggetti in movimento, come piccoli animali o insetti, che si spostano molto ra-pidamente.Oppure capitano facilmente soggetti che dovreb-bero stare fermi, ma non lo fanno. Pensiamo ad esempio di voler fotografare da vicino un fiore all’aperto. Sembrerebbe una situazione semplice, con un soggetto immobile, ma basta un po’ di ven-to per rendere il nostro compito decisamente im-probo. Non solo il fiore si muove, rovinando conti-nuamente la composizione, ma se il tempo di posa non è abbastanza rapido, la foto risulterà mossa e da buttare. Per avere una sufficiente profondità di campo, l’apertura del diaframma va ridotta pa-recchio nella macrofotografia. Perciò, la quantità

di luce che colpisce il sensore diminuisce e, per il triangolo dell’esposizione, diventa necessario au-mentare il tempo di esposizione o l’ISO. Dovendo tenere l’ISO bassa per ridurre il rumore, l’unica so-luzione spesso è quella di usare tempi di esposizio-ne più lenti, esattamente il contrario di quello che ci servirebbe. Come risolvere questo problema?Ci serve la luceMolti fattori concorrono a ridurre la luce a disposi-zione nella fotografia macro: - l’apertura ridotta, di cui abbiamo già detto - la distanza ravvicinata dal soggetto, che riduce la quantità di luce ambientale catturata, - l’uso di tubi di estensione.Siccome, però, paradossalmente abbiamo biso-gno di più luce, come facciamo a garantircela? Innanzitutto, la cosa più ovvia, è cercare di foto-grafare durante le ore più luminose della giornata, all’aperto. La luce abbagliante del sole di mezzo-giorno in molti casi permette di tener il tempo di esposizione decisamente basso. Quando il sole è a picco, però, è necessario fare attenzione alle om-bre. Nella macrofotografia una piccola ombra può oscurare completamente il soggetto o una sua parte significativa. Un piccolo pannello riflettente posizionato appena fuori dall’inquadratura è la so-luzione più semplice per conferire direzionalità alla luce e alleggerire le ombre.

Canon EOS 5D MKII – Canon EF 100 f/2.8 USM Macro – t 4” – f/8 – 100 Iso – 3 Tubi di prolunga - Cavalletto

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la tecnica

Si trovano in vendita modelli estremamente econo-mici e pieghevoli, quindi facilissimi da trasportare.Illuminazione del soggettoQuando la fotocamera è vicina al soggetto, po-trebbe bloccare la luce. Come sempre accade, quando la luce non basta dobbiamo crearcela da soli. Questo vuol dire usare un flash. L’uso del fla-sh integrato non è sempre efficace: la copertura a distanza ravvicinata può non risultare uniforme. Se non si dispone di un flash separato, una lampada da tavolo può offrire un’illuminazione buona per i soggetti in interni. Un riflettore in cartoncino bian-co è utile per il controllo dell’ombra. Altra soluzione è quella di usare un flash ma se-parato dalla fotocamera. Per fare ciò ci sono tre opzioni: - comandare il flash esterno a distanza usando il flash integrato (se il modello di fotocamera lo per-mette),- usare un cavo apposito per collegare il flash alla fotocamera, - usare un trigger flash wireless.Tutti questi dispositivi permettono di collegare fi-sicamente o via wireless la macchina fotografica al flash che quindi può essere posizionato vicino al soggetto usando l’angolazione migliore.L’uso del flash esterno è però un tema su cui ci sa-rebbe troppo da dire, quindi mi fermo qui.Per un’illuminazione macro professionale esistono dei Flash Macro Ring progettati in modo specifico

per gli scatti da vicino. Queste unità flash elettro-niche possono essere montate direttamente sull’o-biettivo della fotocamera.Riduzione del movimentoÈ facile scattare immagini sfocate con le riprese ravvicinate poiché l’ingrandimento non aumenta solo le dimensioni dell’immagine, ma anche qual-siasi tipo di spostamento. I movimenti da evitare sono di due tipi: quello della fotocamera e quel-lo del soggetto. Il movimento della fotocamera è inevitabile se la s’impugna. Le mani non sono mai perfettamente ferme e la pressione del pul-sante dell’otturatore causa ulteriore movimen-to. Quest’ultimo è maggiormente visibile con le fotografie macro rispetto agli scatti normali. Per risolvere questo problema, occorre fissare la foto-camera a un treppiede. Ma anche quando la foto-camera si trova su un supporto stabile e si preme il pulsante dell’otturatore potrebbero verificarsi ulteriori movimenti. Per evitare questo problema, utilizzare un telecomando. Se proprio non si di-spone di alcun dispositivo remoto, ma solo come ultima spiaggia per non perdere lo scatto, impo-stare il timer su un ritardo di 2 secondi. Quando l’otturatore scatta, qualsiasi movimento causato dalla pressione del pulsante sarà ormai terminato.Altra accortezza è quella di impostare la funzione di blocco dello specchio cosicché al momento del-lo scatto si apre solo l’otturatore diminuendo le probabilità di micro mosso.

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Addio autofocusProbabilmente, nel 99% dei casi, le foto sono scat-tate con la messa a fuoco automatica. La messa a fuoco manuale, soprattutto agli inizi, è decisamen-te difficile, anche se si impara con l’allenamento, come tutte le cose.Nella fotografia macro i soggetti sono così piccoli e la profondità di campo così ridotta che l’autofo-cus fa molta fatica a mettere a fuoco esattamente il punto che desideriamo. Pensiamo ad esempio alla foto di un insetto, in cui si voglia mettere a fuoco un occhio. Quanto può essere grande: uno o due millimetri?Perciò è necessario affidarsi alla messa a fuoco ma-nuale ed al proprio occhio. Chi possiede reflex più economiche è svantaggiato, perché solitamente queste hanno un mirino più piccolo e buio rispetto alle sorelle più avanzate.

Canon EOS-1D Mark III – Canon EF 100mm f/2.8 USM Macro – 1/15 – f/8 – 200 Iso - 3 Tubi di prolunga – Cavalletto – Unione di 5 scatti con focus stacking

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la tecnica

Quindi, il consiglio è quello di usare il LiveView (quando disponibile) attivando anche l’anteprima della profondità di campo per valutare se effettiva-mente la parte a fuoco è quella desiderata.Per risolvere il problema della profondità di campo esiste una tecnica chiamata focus stacking che per-mette al fotografo di combinare più scatti realizza-ti allo stesso soggetto senza modificarne posizio-ne e esposizione variando solo il piano di messa a fuoco. Il risultato di questa fusione è una immagine in cui il soggetto è tutto a fuoco.

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Francesca BelluzzoUn racconto di altri tempi

“Oltre... la fotografia” presenta Francesca Belluz-zo, una giovane ragazza, anno 1995, della provin-cia di Venezia, studi classici; attualmente vive a Mi-lano per frequentare l’università Bocconi.Non possiamo, data la sua giovane età, appellarle il nome di “fotografa”, ma la sua grande attenzio-ne al mondo della fotografia e le sue doti naturali verso questo tipo di espressione visiva, la mettono in grande risalto nel panorama del “sottobosco” fotografico, convinti che siano notevoli le possibi-lità di emergere.Francesca inizia un po’ come molti ad avvicinarsi alla fotografia, grazie ai genitori; è soprattutto la madre anch’ella innamorata della fotografia, che cerca di trasmettere la curiosità in una ragazzi-na ancora troppo giovane per poter capire quale possa essere il suo futuro di donna. La portano in molte parti del mondo, un po’ per svago, un po’ per farla innamorare di tutte le bellezze che ci cir-

condano; tra musei, mostre, arte e architettura, Francesca cresce fra l’amore per ciò che “in un at-timo diventa realtà”, la magia della fotografia, e le arti che piano piano inizia a conoscere; le imma-gini sono ancora in analogico, e la stampa di ogni foto rappresenta per Francesca non solo il ricor-do dell’istante ma la consapevolezza che l’istante può essere fermato.Ancora la madre, quando Francesca è ormai dicio-tenne, la iscrive ad un corso di fotografia; chi scri-ve ha la fortuna di ricordarla in quei primi esercizi per prendere pratica, per conoscere i meccanismi tecnici e compositivi , gli occhi “furbi” e attenti, lo sguardo, la curiosità e la sua dote naturale nel saper vedere e la pone fin da subito ad una spanna sopra gli altri corsiti.Finiti gli studi superiori a Francesca viene chiesto un primo sacrificio, una prima scelta: spostarsi dal-la sua città natale per frequentare la prestigiosa università Bocconi a Milano, dove aveva superato brillantemente l’esame di ammissione; è una scelta che per ora condivide, anche se.....

Intervista di Michele Gregolin

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la fotografia

Come mai la scelta di frequentare la Bocconi a Milano? Fino allo scorso anno avevo una forte cer-tezza di voler fare questa facoltà, poiché non pen-savo alla fotografia, o al mondo dell’arte, come la mia strada; vedevo la fotografia come una passio-ne, anche se una volta arrivata a Milano, città che comunque ti da degli stimoli, sia visivi che culturali, ho iniziato a pensare alla fotografia in maniera di-versa, e mi sono posta subito una domanda: “Ho sbagliato qualcosa?”. Una domanda che per ora non ha ancora una risposta, consapevole che una grande città ti porta a credere nella possibilità di realizzare il sogno della tua vita. Per ora la mia idea è quella di continuare almeno fintanto che possa ottenere una laurea triennale in Economia, consa-pevole che il percorso di studi che sto facendo mi potrà comunque aprire delle strade interessanti nel mondo del lavoro, per poi mettermi nuovamente in discussione, pensando magari di iscrivermi alla Scuola Internazionale di Design. A volte quando racconto ai miei amici questa voglia e questa mia grande passione, non capiscono, non riescono a provare le stesse cose che sento io nel momento dello scatto.Riesci a descriverci che cosa provi durante il mo-mento dello scatto? Premetto nel dire che la mia fotografia è istintiva, la parte tecnica la lascio in se-condo piano, ed è proprio forse per questo moti-vo che quando scatto sono molto concentrata; “mi isolo, è come se il mondo non fosse presente attor-no a me”, trasmetto le mie emozioni nelle imma-gini. Vedo un soggetto che mi interessa, lo seguo, cerco di capire quale possa essere l’immagine che più lo racconta, ma soprattutto non guardo mai nel monitor della fotocamera le immagini che scatto. Voglio avere, una volta davanti al computer, il pia-cere di scoprire, di vedere i risultati, come una volta si faceva con il negativo.Qual è la tua fotografia? Vivere a Milano mi ha fatto anche capire che la fotografia alla quale sono più appassionata è la street photography, una foto-grafia fatta di istanti, di momenti di piccoli racconti quotidiani; per fortuna a Milano non posseggo una fotocamera e questo devo dire è un bene, perché credo che studierei meno e scatterei molto di più.C’è stato un momento dove hai capito che que-ste tue sensazioni che vivi durante lo scatto, si trasformano anche in un risultato interessante, piacevole alla visone degli altri? Si c’è stato un momento preciso, quando ho frequentato un wor-kshop “dal digitale al bianco e nero, passando per la camera oscura” di Michele Gregolin; in quell’i-stante, quando scattavo, iniziai a sentirmi “fuori

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la fotografia

dal tempo”, ma la più grande soddisfazione l’ebbi quando, guardando le foto assieme ai partecipanti del workshop, per una valutazione del materiale prodotto, mi accorsi che avevano una marcia in più, un qualcosa che in qualche maniera mi tra-smetteva emozioni e ancor più interessante le stesse emozioni che provavo io nel vedere le foto erano condivise con gli altri. E poi la magia del ve-dere l’immagine che piano piano, nella vasca dello sviluppo, compare...la magia della fotografia che si realizzava davanti ai miei occhi.Nell’avvicinarsi alla fotografia ci sono dei foto-grafi ai quali ti ispiri? La mia passione per la “stre-et” nasce dopo aver visto una mostra dei fotografi di Magnum, Robert Capa, Henry Cartier Bresson, René Burri e Abbas solo per citarne alcuni; inte-ressante era il fatto che si vedevano sia le foto, sia i provini a contatto in bianco e nero dell’intero servizio fotografico, accorgendomi che lo scatto perfetto deriva da una serie di immagini, quindi da un percorso di perfezione, quello che in fondo sto cercando di fare io nel mio piccolo. Inoltre nell’in-

formarmi, ho visto che spesso i fotografi che ven-gono selezionati e accettati a Magnum, vengono valutati non in base allo scatto finale, ma alla pro-gressione del lavoro visto attraverso i loro provini, e questo mi ha in qualche maniera dato la carica per cercare di migliorare l’intero mio percorso di scatto, non finalizzandolo alla foto che poi sce-glierò come immagine da mostrare.Per chiudere mi piacerebbe parlare delle cose che stai facendo attualmente, di quali sono i pro-getti che hai in cantiere... Continuo con la “stre-et”, in ogni momento libero e quando posso cer-co di raccontare momenti, istanti di tutto ciò che mi circonda, ma sto anche facendo un percorso di “selfie”, dopo aver assistito all’incontro con Mi-chela Medda a Camponogara Fotografia lo scorso anno, accorgendomi che a volte da soli si può, con l’aiuto di una buona tecnica, realizzare delle imma-gini spettacolari. Non tralasciando l’aspetto tera-peutico del farsi uno scatto! Sei tu che attraverso una foto “ti predi cura” di te stesso.

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oltre... lo scatto Testo di Michele Gregolin, Silvia Maniero

‘Lunchtime atop a Skyscraper’, una delle icone di tutti i tempi compie 80 anni: 11 operai in pausa pranzo, seduti su una trave di ac-ciaio sospesa nel vuoto. Un pranzo mozzafiato, 69 piani sopra Manhat-tan che, si scopre oggi, sarebbe stato minuziosamente creato per una trovata pubblicitaria: ‘Lunchti-me atop a Skyscraper’ non sarebbe l’immagine spontanea che sembra. La foto in bianco e nero venne scat-tata mentre New York era colpita in pieno dalla Grande Depressione e un operaio su quattro era senza lavoro; ciò nonostante grandi pro-getti edilizi iniziati negli anni Venti stavano andando in porto: tra que-sti l’Empire State Building e i 14 edifici del complesso Rockefeller. Secondo gli storici di Corbis Ima-ges, lo studio che ne detiene i di-ritti, si sarebbe trattato di uno spot promozionale: i modelli sono veri lavoratori del cantiere, ma l’im-magine sarebbe stata commissionata dal Rockefel-ler Center per lanciare il nuovo grattacielo. La tesi è avvalorata da un altro scatto che raramen-te viene mostrato, in cui si vedono gli stessi ope-rai in un’altra posa, “ Uomini che dormono su una trave “; in precario e terribile equilibrio sulla stessa trave della foto precedente, ad un’altezza di 260 metri da terra, gli stessi uomini riposano, con le gambe a penzoloni. Entrambe le foto furono scat-tate il 20 settembre 1932 durante la costruzione dell’Rca Building; la foto apparve sull’ Herald Tri-bune di New York nel suo supplemento domenica-le del 2 ottobre . Pur essendo usualmente attribu-ita a Charles Ebbets, non è in realtà chiaro chi, nel gruppo di fotografi chiamati dal Rockefeller Cen-ter, abbia effettivamente la paternità dello scatto. Resta un mistero anche l’identità degli undici ope-rai anche se, nel corso degli anni, vari familiari si sono fatti avanti identificandone alcuni: a quanto pare quasi tutti di recente immigrazione irlande-se. ‘Lunchtime atop a Skyscraper’ fu scattata a mezzogiorno, al 69esimo piano del grattacielo GE Building durante gli ultimi mesi di costruzione . La fotografia raffigura 11 operai seduti su una trave, che mangiano il loro pranzo, con i piedi penzolanti a centinaia di metri sopra le strade della città di New York. L’altra fotografia “ Uomini che dormono su una trave “ mostra gli stessi operai che fanno un sonnellino sulla trave .

Queste due foto divennero subito famose in tutto il mondo. Nel 1932/33 Ebbets, non del tutto consapevole dell’eccezionalità della celeberrima foto del pran-zo sulla trave, realizzò una serie di scatti assurdi e senza senso, visibilmente costruiti, di operai in situazioni e atteggiamenti paradossali: operai che dormono o pranzano sulla trave, seduti ad una ta-vola perfettamente apparecchiata e serviti da ca-merieri in livrea o che giocano a golf sulla trave e altre simili.In questo modo Ebbets finì con lo sva-lutare se stesso e il suo lavoro, consegnandosi ad una serie di immagini certo gradevoli, simpatiche e spiritose, ma che rimasero per sempre quello che erano: semplici curiosità, prive di valore documen-tale.Ebbets non è una celebrità nella storia della foto-grafia, e la sua immagine-icona viene spesso erro-neamente attribuita ad un collega assai più famo-so: Lewis Wickes Hine; anche Hine scattò diverse immagini vertiginose, ma la verità è che il genere era appassionante e redditizio per molti fotografi. Si conoscono infatti decine di varianti, più o meno verosimili, su quel che si può fare, con sprezzo del-le vertigini. Biografia:Charles Clyde Ebbets è nato il 18 agosto 1905 a Gadsden, Alabama. Gli viene regalata la sua prima macchina fotografica all’età di 8 anni e nel 1920 inizia a lavorare con il padre in un giornale locale.

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oltre...lo scatto

A circa 16 anni, lascia la sua casa e si trasferisce a Montgomery, in Alabama, per iniziare a lavorare in proprio ad un giornale della città. Nel 1922 si tra-sferisce a St. Petersburg, in Florida, dove continua a lavorare con la fotografia ed inizia ad interessarsi al nuovo fenomeno del cinema che lo porta a di-versi ruoli come attore con lo pseudonimo di Wally Renny. Negli anni successivi torna al lavoro fotografico viaggiando in tutto il sud-est. Per la sua audacia comincia ad essere conosciuto tra i direttori dei giornali come un fotografo che ama ottenere le immagini che nessun altro poteva realizzare.Nell’autunno 1932, viene nominato direttore della fotografia per la costruzione del Rockefeller Cen-ter. Le sue immagini sono presenti sul New York Times, il New York Herald Tribune, The Chicago Tribune, la Cronaca di Augusta, la Norfolk News Service, il Miami Daily News. E’ anche in questo periodo che scatta la fotografia degli operai che pranzano sopra la città di New York.Nel 1935, a Charles viene chiesto di diventare il fotografo ufficiale di Associated Press per la re-gione sud della Florida. Si costruiva in quell’anno la copertura della costruzione della prima ferrovia in Florida Keys e si trovò coinvolto in un disastro naturale con oltre 400 persone morte nella tempe-sta. Charlie, primo fotografo sulla scena, inviò le prime foto della devastazione in tutta la nazione e trascorse quattro giorni documentando l’enorme sforzo dei soccorsi.Ebbets era sempre pronto a coprire una notizia , ma alcuni dei suoi lavori più importanti sono incen-trati sulla fauna delle Everglades della Florida: le sue fotografie vengono usate come riferimento

per quello che sarebbe diventato il Parco nazio-nale delle Everglades; inoltre, in virtù della singo-lare amicizia con molti membri della tribù indiana dei Seminole, fu il primo uomo bianco a cui venne permesso di fotografare l’intero evento sacro della Green Corn Dance. Durante la seconda guerra mondiale prestò servi-zio civile presso la Army Air Corps e l’Aeronautical Institute dove documentò la formazione dei piloti americani e britannici . In seguito si occupò di pub-blicità e fu uno dei fondatori del Bureau Miami . Fino allora aveva più di 300 immagini pubblicate a livello nazionale .Le sue immagini sono state utilizzate anche in depliant di viaggio, cartoline, documenti militari e materiali di formazione, riviste di settore, pro-mozioni di prodotti e opuscoli informativi per or-ganizzazioni come Il Dipartimento degli Interni, la Federazione nazionale della fauna selvatica, il Rockefeller Center, The British Royal Air Force, il National Park Service, Embry-Riddle Aviation, can-ne Orvis Fly, Johnson Motors, Essex Motorcars, Pneumatici BF Goodrich, il Clyde Beatty Circus, il Miami Serpentarium, il Miami Seaquarium, The Jungle Parrot, The Monkey Jungle, Teatro di il mare, la Virginia Camera di Commercio di Norfolk, la Georgia Camera di Commercio di Augusta, e molti altri ...Si ritira dalla città di Miami nel 1962 continuando a lavorare nel settore privato per molti anni dopo il suo ritiro ufficiale. Purtroppo, dopo una lunga battaglia con il cancro, morì il 14 luglio1978 all’età di 72. La maggior parte dei suoi lavori si possono trovare ancora oggi in stampa, libri d’epoca e car-toline in collezioni private in tutto il paese.

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Camponogara Fotografia: Roberto BartoloniTesto di: Lucia Finotello

Roberto Bartoloni, dopo la laurea in Scienze Geo-logiche, ha preso parte a diverse spedizioni pale-ontologiche in Europa ed Africa, per conto delle Università di Bologna e di Utrecht. Ha insegnato per più di trent’anni Matematica e Scienze Naturali ed ora è in pensione. Da circa vent’anni è il Delega-to LIPU (Lega italiana protezione uccelli) della se-zione di San Donà di Piave in provincia di Venezia.Il suo rapporto con la fotografia è iniziato all’età di nove anni, quando ha letteralmente “rubato” la macchina fotografica al padre, appena tornati dagli Stati Uniti, e ha fatto i suoi primi scatti sen-za rullino. Il padre decise così di comprargli la sua prima macchina fotografica e Roberto andò a foto-grafare galline e conigli nel cortile di un vicino. La sua prima esperienza con la fotografia naturalistica risale ai primi anni ’80, quando rimase “folgorato” dalla foto di una garzetta tutta spettinata a cau-sa del forte vento, proiettata durante una serata a Favaro Veneto. Capì così che quello era il genere di fotografia che gli sarebbe piaciuto fare. Prima di questo episodio fotografava un po’ di tutto, anche i bidoni della spazzatura, con la sua Pentax MV che però lo limitava molto, in quanto non gli permette-va di regolare l’esposizione. Corse così a comprar-si una macchina fotografica che gli permettesse di fare quel genere di foto. A cavallo della sua Renau-lt 5, con la sua DOI 500 mm e cinque rullini in tasca cominciò a frequentare assiduamente le zone umi-de, quali la laguna di Venezia, quelle di Grado e di Marano. Qui ha imparato ad avere la pazienza e la caparbietà necessarie per fare buone fotografie. Nel tempo si è comprato l’attrezzatura necessaria. Oggi ha due corpi macchina Canon: una EOS 1-DX e una DMK4; anche le ottiche sono tutte Canon: dallo Zoom 17/35 mm f2.8 allo Zoom 70/200 mm f2.8, per finire con il tele 500 mm f4.0, che gli han-no permesso di diventare negli anni un “quotato” fotografo naturalista wildlife.

© Massimo Bonutto

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l'evento

Dopo l’esperienza con le lagune venete, parte alla scoperta dei più importanti siti dove vivono gli uc-celli: la Camargue, l’isola di Texel (Olanda), il lago di Neusiedl (Austria) e altre località in Scandinavia, Turchia, Grecia, Scozia e Islanda. Nel parco nazio-nale tedesco di Bayerischer Wald impara moltis-simo osservando i fotografi naturalisti tedeschi all’opera. Dal 1988 inizia a viaggiare fuori dell’Eu-ropa: in Africa, Asia ed Americhe sempre alla ri-cerca dei più importanti siti naturalistici, in parti-colare in Kenya e negli Stati Uniti, avendo sempre come scopo la ricerca fotografica e documentaria, unendo così l’amore per la natura a quello della fotografia. I suoi due grandi amori rimangono co-munque l’America del Nord e l’Africa, mentre gli mancano da visitare, come dice Lui “le 3 A: An-tartide, Alaska ed Australia”, dove conta di recarsi appena possibile.Ha allestito numerose mostre e collabora con pa-recchie riviste di natura. Ha vinto importanti premi sia in Italia, sia a livello internazionale. Nel 2012, con una foto delle oche delle nevi, denominata “Si Parte”, ha vinto il premio FIAF “Foto dell’Anno”. Quando il tempo glielo permette tiene corsi e wor-kshop di foto naturalistica. Dal 1999 organizza la manifestazione “diapoNATURA”, che si svolge nel mese di marzo a San Donà di Piave (VE). A febbra-io del 2014 ha pubblicato il libro “Splendida Natu-ra d’Africa” che segue il suo primo libro dedicato al Nord America, una raccolta di immagini fotogra-fiche naturalistiche di animali selvatici: fotografie che racchiudono scene di vita “quotidiana” del mondo animale.Dopo la serata organizzata a Camponogara ho ri-volto alcune domande all’autore:Quanto lavoro e studio c’è dietro ai suoi viaggi e ai progetti che intraprende?Nei viaggi che intraprendo mi documento accura-tamente, con largo anticipo, utilizzando Internet, riviste specializzate ed anche l’esperienza dei miei amici fotografi, i quali mi possono fornire consigli utili. Ad esempio per il viaggio in Patagonia, che ho programmato per il 2016, ho già iniziato a do-cumentarmi consultando le mappe del territorio e le previsioni meteo di quest’anno. Rivedrò poi le informazioni raccolte poco tempo prima di partire.E’ stata la sua formazione professionale ad indiriz-zarla a questo genere di fotografia?Avevo già la passione per la natura. Questa è stata poi incrementata dagli studi effettuati. Inizialmen-te ho cominciato ad osservare e fotografare gli uc-celli e poi con il tempo ho cominciato a scoprire i ghepardi, i leoni e mi sono dedicato così anche ai

mammiferi.Ha iniziato in gioventù a collaborare in alcune ricer-che paleontologiche. Come mai è passato ad un lavoro più convenzionale?Per le ricerche paleontologiche mi davano una mo-desta borsa di studio: questa non era sufficiente a coprire le spese quotidiane. All’epoca vivevo a Bo-logna. Ho scelto quindi l’insegnamento che mi per-metteva di avere, oltre ad uno stipendio migliore, anche abbastanza tempo libero. Viaggia da solo durante i suoi viaggi?Quando posso viaggio da solo, talvolta mi accom-pagna mia moglie, come durante l’ultimo viaggio, oppure qualche amico fidato. Per fotografare il comportamento degli animali nel loro habitat pos-so rimanere fermo nello stesso posto anche tutta la giornata, come ad esempio può capitare nell’os-servare una famiglia di leopardi in Africa. È una condizione difficile da sopportare per una persona che non sia molto appassionata. Con le persone che mi accompagnano chiarisco sempre questa mia esigenza prima di partire.In questi posti selvaggi da dove scatta le sue foto?Dall’automobile. In Africa, ad eccezione di po-chissimi posti, è proibito scendere dall’auto per fotografare. Tra l’altro risulta comodo poter ap-poggiare la fotocamera sopra il tetto dell’auto, considerato anche il peso degli obiettivi. In Ame-rica invece posso fotografare anche all’esterno in quanto generalmente non si verificano situazioni pericolose.Ha iniziato a fotografare con apparecchi analogici per poi passare a quelli digitali. Quali sono secon-do Lei i rispettivi pregi e difetti?Per quanto riguarda gli apparecchi analogici, il loro pregio è dato dal fatto che, una volta tornato a casa, è sufficiente scegliere le diapositive ed il la-voro è terminato. I pregi degli apparecchi digitali sono costituiti invece dai difetti di quelli analogici. In primo luogo la spesa è più limitata in quanto non c’è più il costo dei rullini. Una volta partivo con 150 rullini, con un costo, tenendo conto anche dello sviluppo, paragonabile a quello del viaggio stesso. Ora mi porto via solo una decina di sche-de da 32 GB, 16 GB. Un altro grande vantaggio è quello di poter vedere subito il risultato dello scatto effettuato. In digitale poi tutto il materia-le raccolto è contenuto in hard disk, senza così riempire armadi interi di diapositive. Il problema maggiore della fotografia digitale è costituito dal tempo speso per la postproduzione. Normalmen-te non effettuo molti ritocchi ma li eseguo sempre personalmente. Per quanto riguarda invece le foto

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destinate ai concorsi, queste non possono essere ritoccate, in alcuni casi è ammesso un taglio non superiore al 5%.Ha qualche nostalgia della macchina analogica?Possiedo due fotocamere analogiche, una Leica R5 ed una Pentax di mio padre. Ogni tanto effettuo qualche scatto per vedere se funzionano ancora ma non ho nostalgia.Che consigli di tipo pratico darebbe a chi desidera avvicinarsi a questo tipo di fotografia? Riguardo all’equipaggiamento tecnico, quali ottiche e at-trezzature sono, secondo Lei, indispensabili?Innanzitutto ci vuole passione, poi la conoscenza. Si deve studiare per conoscere le abitudini ed il comportamento degli animali. Si devono ricono-scere i maschi e le femmine. Le prime foto che si ricavano solitamente sono ritratti. Io soprattutto scatto foto di azione: quando gli animali litigano, si accoppiano, volano. Sono le foto più intriganti. Occorre conoscere anche il luogo ed il momento adatto per fotografare una determinata specie. Ad esempio, per fotografare le oche migratrici nel-la laguna veneta, non posso certo andare in esta-te perché non ci sono e nemmeno in inverno, se questo è troppo caldo o troppo rigido, perché gli uccelli si fermano in altri luoghi. Anche i panorami richiedono attenzione, osservazione, per trovare le giuste inquadrature. Riguardo l’attrezzatura, per le foto naturalistiche, serve una fotocamera che scat-ti almeno 5-6 fotogrammi al secondo. Per quanto riguarda gli obiettivi ci vuole innanzitutto un buon grandangolare, 24 o 28 mm, uno zoom 70/200 o 70/300 mm e poi, se possibile, anche una focale lunga, almeno 400-500 mm. Durante la serata non sono state proiettate foto-grafie in bianco e nero. Fotografa sempre a colori oppure la scelta è dettata dalle situazioni?Per me le foto naturalistiche sono a colori. A volte scatto anche in bianco e nero ma non mi interessa. Non si possono togliere i colori alla natura.C’è una fotografia che ha visto e che non è riuscito a fare, oppure una fotografia che oggi le manca?Me ne mancano tante, in tutti i viaggi che ho fat-to. Una volta mi sono arrabbiato particolarmente perché non sono riuscito a fotografare due leoni che stavano lottando. Appena mi sono avvicinato a loro questi hanno smesso di battersi. Un’altra volta un gruppo di cicogne si sono alzate in volo tutte insieme davanti a me, ho scattato ma la batteria era scarica.A Lei piacciono le foto mosse. Magari alcuni fo-tografi potrebbero considerarle foto mal riuscite.

Cosa ne pensa?I fotografi si accorgono subito se si tratta di un mos-so creativo, poi può piacere oppure no. Una persona inesperta potrebbe invece pensare che siano scatti imprecisi.Se la fotografia naturalistica non esistesse avrebbe usato la macchina fotografica eventualmente per altri soggetti?Avrei fotografato le persone, in particolare popola-zioni che vivono isolate dal mondo considerato civile. Quando ho cominciato a fotografare esistevano anco-ra popolazioni di questo tipo ma attualmente sarebbe molto difficile trovare simili soggetti.E’ più importante per lei il viaggio o la fotografia?Sono importanti entrambi in egual misura in quanto sono complementari.Si considera un professionista di questo genere foto-grafico oppure solamente un appassionato? Sono un appassionato ma devo ragionare per progetti come un professionista, cosa che non facevo fino a dieci anni fa, in quanto non avevo ancora pensato di pubblicare libri per raccogliere gli scatti più significati-vi ottenuti durante i viaggi.Quali sono i suoi progetti per l’immediato futuro?La “Splendida Natura d’Europa” che va ad aggiunger-si agli altri due libri pubblicati relativi al Nord America e all’Africa.Di solito inserisco nei libri cinque capitoli e per questo ho pensato a servizi relativi ai lupi e alle linci in Germa-nia, all’isola di Kornati in Croazia, al delta del Danubio, alle zone umide dell’Austria e alle nostre lagune. La pubblicazione del libro è prevista per marzo 2016.

Link: per sfogliare il libro di Roberto Bartoloni

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Collaboratori esterni: Silvia Maniero

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Foto di copertina © Paola Poletto

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“OLTRE” progetto editoriale del Corso di Fotogra-fia dell’Università Popolare di Camponogara Laboratorio Fotografia & Comunicazione

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