nuove tribù - la repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/08022009.pdfio mi vesto come mi...

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L e magliette rosa della bambole da shopping center, tira- te allo spasimo e corte da lasciar scoperto l’ombelico ciccioso, dicono: sì, mi piacciono i dolci, hai qualcosa da obiettare? Le camicie scozzesi fresche di stiratura dei casual-gay dicono: non mi etichettare come omoses- suale, potrei essere il tuo genero ideale. I gilet di lana su pantaloni larghi delle nonne indaffarate dicono: scusa non ho tem- po, sto organizzando la prossima pesca parrocchiale. Sfogliare le pa- gine quasi senza parole di Exactitudes, il libro che accompagna l’o- monima mostra (più che altro un progetto internazionale in pro- gress) che approda a Roma, finalmente visibile in Italia per la prima volta dopo quindici anni di lavoro, è come consultare un’enciclo- pedia di divise militari. Le uniformi, da sempre, parlano: non svela- no solo grado, arma, corpo di appartenenza di chi le indossa, ma an- che il carattere, l’ideologia, l’aggressività dell’esercito di cui sono l’insegna. Ma esistono anche uniformi civili e disarmate. (segue nelle pagine successive) I clandestini non esistono in natura. Sebbene il nome li con- noti già in maniera negativa, alludendo a una loro vocazione quasi criminale, sono il frutto acerbo di legislazioni spesso inadeguate. La verità, spiega Ulrich Beck, il padre della “so- cietà del rischio” a Genova per ritirare proprio il premio Mon- di Migranti-Carige, è che abbiamo un assoluto bisogno di lo- ro. Senza, le nostre economie collasserebbero. Conviene migliora- re le leggi che ne decretano lo status, quindi, perché render loro la vita difficile finirebbe per peggiorare drammaticamente anche la nostra. Da Istanbul a Londra siamo esteriormente più simili — lo certi- ficano le foto di Exactitudes — ma interiormente ancora assai di- versi. Che manca al traguardo di un’Europa culturalmente unita? «Parecchie cose devono cambiare. La maggior parte della gente ne ha ancora una definizione tutta in negativo: non è una nazione, non è un super-stato, non è una piccola Nazioni Unite». (segue nelle pagine successive) spettacoli Gli archeo-spot nei cinema del boom EDMONDO BERSELLI l’immagine All’asta la casa-museo di Saint Laurent NATALIA ASPESI l’incontro Tony Curtis, le donne della mia vita MARIO SERENELLINI FOTO STUDIO EXACTITUDES / ARI VERSLUIS & ELLIE cultura Gli eroi di Simenon tra noia e tragedia GIANNI MURA e GABRIELE ROMAGNOLI l’attualità La tentazione della settimana cortissima LUCIANO GALLINO e ROBERTO MANIA DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009 D omenica La di Repubblica RICCARDO STAGLIANÒ MICHELE SMARGIASSI Arriva in Italia “Exactitudes”, una sorprendente mostra fotografica che esplora l’antropologia delle metropoli contemporanee e racconta la difficile Europa del meticciato Nuove Tribù Repubblica Nazionale

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Page 1: Nuove Tribù - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/08022009.pdfIo mi vesto come mi pare, protesti. Poi però colto dal dub-bio ti alzi, vai allo specchio, ti osservi

Le maglietterosa della bambole da shopping center, tira-te allo spasimo e corte da lasciar scoperto l’ombelicociccioso, dicono: sì, mi piacciono i dolci, hai qualcosa daobiettare? Le camicie scozzesi fresche di stiratura deicasual-gay dicono: non mi etichettare come omoses-suale, potrei essere il tuo genero ideale. I gilet di lana su

pantaloni larghi delle nonne indaffarate dicono: scusa non ho tem-po, sto organizzando la prossima pesca parrocchiale. Sfogliare le pa-gine quasi senza parole di Exactitudes, il libro che accompagna l’o-monima mostra (più che altro un progetto internazionale in pro-gress) che approda a Roma, finalmente visibile in Italia per la primavolta dopo quindici anni di lavoro, è come consultare un’enciclo-pedia di divise militari. Le uniformi, da sempre, parlano: non svela-no solo grado, arma, corpo di appartenenza di chi le indossa, ma an-che il carattere, l’ideologia, l’aggressività dell’esercito di cui sonol’insegna. Ma esistono anche uniformi civili e disarmate.

(segue nelle pagine successive)

Iclandestini non esistono in natura. Sebbene il nome li con-noti già in maniera negativa, alludendo a una loro vocazionequasi criminale, sono il frutto acerbo di legislazioni spessoinadeguate. La verità, spiega Ulrich Beck, il padre della “so-cietà del rischio” a Genova per ritirare proprio il premio Mon-di Migranti-Carige, è che abbiamo un assoluto bisogno di lo-

ro. Senza, le nostre economie collasserebbero. Conviene migliora-re le leggi che ne decretano lo status, quindi, perché render loro lavita difficile finirebbe per peggiorare drammaticamente anche lanostra.

Da Istanbul a Londra siamo esteriormente più simili — lo certi-ficano le foto di Exactitudes — ma interiormente ancora assai di-versi. Che manca al traguardo di un’Europa culturalmente unita?

«Parecchie cose devono cambiare. La maggior parte della gentene ha ancora una definizione tutta in negativo: non è una nazione,non è un super-stato, non è una piccola Nazioni Unite».

(segue nelle pagine successive)

spettacoli

Gli archeo-spot nei cinema del boomEDMONDO BERSELLI

l’immagine

All’asta la casa-museo di Saint LaurentNATALIA ASPESI

l’incontro

Tony Curtis, le donne della mia vitaMARIO SERENELLINI

FO

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SLU

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ELLIE

cultura

Gli eroi di Simenon tra noia e tragediaGIANNI MURA e GABRIELE ROMAGNOLI

l’attualità

La tentazione della settimana cortissimaLUCIANO GALLINO e ROBERTO MANIA

DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

RICCARDO STAGLIANÒMICHELE SMARGIASSI

Arriva in Italia “Exactitudes”, una sorprendentemostra fotografica che esplora l’antropologia

delle metropoli contemporaneee racconta la difficile Europa del meticciato

NuoveTribù

Repubblica Nazionale

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28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

MOSLIMAS Rotterdam 2008

HIPSTERS Rotterdam 2008

MUSELMAN Casablanca 2000

la copertinaNuove tribù

Era cominciato quindici anni fa come un normale serviziogiornalistico, è diventato un work in progress senza fineOra arriva anche in Italia “Exactitudes”, gigantescoesercizio di catalogazione dei differenti stili metropolitani,enciclopedia delle mille uniformi dentro cui ogni giornocombattiamo l’implacabile battaglia della vita cittadina

(segue dalla copertina)

Eccole, sono le uniformidella gigantesca incruentaimplacabile battaglia dellavita metropolitana. Chiu-di il libro con un certo di-sagio, come se qualcuno ti

avesse ordinato: cerca anche tu il tuoplotone, lo troverai. Ma nessuno mi haarruolato, insorgi. Io mi vesto come mipare, protesti. Poi però colto dal dub-bio ti alzi, vai allo specchio, ti osservi.Giacca tweed, camicia di flanella, pan-taloni di velluto, cravatta di lana, tim-berland. Sei un giornalista di opinioniliberal. Se incontri per strada un gio-vanotto biondo allampanato di nomeAri Versluis e una sorridente signoradai capelli corti rossi di nome EllieUyttenbroeck, forse ti convincerannoa posare per un ritratto: allora ti trove-rai anche tu su una di queste pagine,assieme alle tue exactitudes: altri un-dici individui a te sconosciuti che peròindossano la tua stessa identica divisadi giornalista liberal.

I due autori, Ari il fotografo e Ellie lastilista, dicono che è solo un esperi-mento sullo stile, invece è molto, mol-to di più. Anche se tutto è iniziato, nel-l’ottobre del 1994, con ambizioni mi-nime: un’inchiesta televisiva sui codi-ci d’abbigliamento di alcune bandegiovanili di Rotterdam, la loro città.

Dovendo esercitare lo sguardo analiti-co del cacciatore di farfalle, s’accorse-ro che sul palcoscenico della stradanon s’aggirano solo attori che la divisasignificante se la scelgono con cura,per riconoscersi tra loro, per fare grup-po. Dopo qualche settimana di appo-stamenti alla fermata del bus, davantialla scuola, all’uscita del centro com-merciale, Ari e Ellie hanno cominciatoa vederle, le exactitudes (le esatte-atti-tudini, gli atteggiamenti ricorrenti),anche addosso a quelli che vivono sul-la faccia buia del pianeta trendy: an-ziani, casalinghe, proletari. E hannodeciso di reclutarli tutti. «Scusi, stiamofacendo un’inchiesta sullo stile, accet-ta di posare per un ritratto fotografi-co?», da quindici anni la loro frased’aggancio è sempre questa. Sorpresadel fermato, risatina imbarazzata, ladiffidenza infranta dall’orgoglio lu-singato: «Be’, ho fatto colpo, mi hannonotato». Si combina l’appuntamentoin studio: fondale bianco, macchinaprofessionale; pochi minuti sul set,qualche piccola astuzia (imporre atutti i simili una posa simile) e la farfal-la è imbalsamata. Non resta che siste-marla nella cassetta dell’entomologo,di fianco alle altre della stessa specie.Dodici per pagina, schema fisso, trecaselle per quattro. Impatto garantito.

Ora, Ari e Ellie non sono ingenui.Qualcuno ha già fatto una cosa del ge-nere. Due grandi fotografi tedeschi,Bernd e Hilla Becher, hanno passato la

vita a fotografare impianti industriali(cementifici, centrali elettriche) in-quadrati sempre allo stesso modo, percomporre grandi pannelli dove l’infi-nita variazione dell’identico produceun effetto quasi ipnotico. E l’idea di uncatalogo dei tipi sociali, neppure que-sta è nuova: ci provò negli anni Ventiun altro tedesco, August Sander, ma isuoi Volti del tempo, uno per profes-sione classe e ceto, restavano indi-struttibilmente individuali: fenotipiumani più che stereotipi. Allo stessomodo un promettente allievo dei Be-cher, Thomas Ruff (ma solo i tedeschihanno la mania della classificazione?)radunò un’impressionante serie di ri-tratti di contemporanei, riuscendo so-lo a dimostrare l’assoluta intercam-biabilità. C’è poi stato quel matto in-glese, l’eugenista Francis Galton, cheproduceva “ritratti medi” di un grup-po professionale o di un ceto socialesovrapponendo una dozzina di volti,ma otteneva solo delle nuvolette gri-giastre dall’aria piuttosto tonta.

Nessuno però aveva finora osato ap-plicare il rigido schema dei Becher agliesseri umani. Bastava provarci perscoprire che individualità e omologa-zione non sono opposti inconciliabili.Che non siamo tutti uguali, ma nep-pure tutti irriducibilmente singolari.Che tutti, lo vogliamo o no, lo sappia-mo o no, apparteniamo a una tribù ene portiamo i segni distintivi anche se— anzi, proprio perché — non ci piace

essere uguali agli altri. Bisogna resiste-re a un moto di sconcerto e andare piùa fondo: Exactitudes, geniale esperi-mento di antropologia visuale, non èuna tesi sull’omologazione, ma sulladistinzione. Non dice neppure chesiamo tutti manichini dell’industriadella moda; e in effetti tra le centoven-ti tribù finora identificate e schedatedalla coppia di Rotterdam nel corso difaticose perlustrazioni metropolitanesoprattutto in Europa, ma anche inUsa e Asia, ben poche si possono cata-logare fra le fashion victim. Anzi: or-mai si sa che il mondo della moda, co-me hanno fatto Ari e Ellie, spedisce instrada i suoi trend scout proprio perspiare cosa la gente normale fa deglistracci normali che compra in negozinormali, come li accosta e li componein modo originale; e poi li copia.

No, rinfranchiamoci: i nostri vestitice li scegliamo ancora noi. È forse unproblema statistico. Siamo sei miliar-di, figlioli miei. Il numero di possibilivarianti combinatorie degli oggettid’abbigliamento acquistabili nei ne-gozi non è infinito, non ce n’è a suffi-cienza per fare sei miliardi di indivi-dualità stilistiche. Le ricorrenze sonoinevitabili. Anche la fantasia non è in-finita. Ci guardiamo attorno, cogliamosuggerimenti. Da chi? Dagli altri mem-bri della nostra tribù. Non è necessarioche li conosciamo tutti, né che li fre-quentiamo: il marciapiede è la passe-rella di una sfilata che non chiude mai.

MICHELE SMARGIASSI

L’EVENTO

Si intitola Exactitudes, è un progetto costituito da una serie di ritratti fotograficimultipli realizzati dagli artistiAri Versluis e Ellie Uyttenbroek(nella foto sopra). La Provinciadi Roma porta la loro mostrain Italia per la prima voltaIncomincerà a Palazzo Incontroil 14 febbraio e durerà finoal 26 aprile 2009 “Ugualie differenti - ha dettoil presidente della ProvinciaNicola Zingaretti spiegandolo spirito dell’evento - comesintetizza il sottotitolodella mostra: è questo il binomioche ci deve guidareper sconfiggere l’intolleranzae la paura”Le immagini di queste paginee della copertina sono tratteda Exactitudes di Ari Versluise Ellie Uyttenbroek

Fammi vedere come ti vesti...

Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

«Non sapendola definire non capisce nep-pure cosa ci guadagna da questa cosa va-ga. Quindi, per cominciare, partirei dalla

definizione: un sistema di nazioni che cooperano peraumentare la sovranità comune e per risolvere così iproblemi nazionali. Poi bisogna accrescere la plura-lità al suo interno. Non è più possibile escludere l’al-tro. L’Europa sta invecchiando e la sua popolazionerimpicciolendo: l’unico modo per contrastare questatendenza è attraverso i migranti. Ne abbiamo biso-gno. Infine c’è urgentemente bisogno di una visionesociale dell’Europa. Pensarla come un supermarketcapitalistico non è abbastanza».

Ma fino a che punto è desiderabile perdere le no-stre diversità? Molti scettici usano questo argomen-to in chiave anti-europea...

«Ad esempio l’Europa deve superare la sua molti-tudine incoerente di leggi sull’immigrazione. Abbia-mo bisogno di una risposta in-tegrata nei suoi confronti. Suquesto terreno di certo farem-mo bene a perdere le nostre di-versità. Lo stesso vale, ovvia-mente, per le risposte alla crisifinanziaria. Nessuna rispostanazionale sarà mai capace dicontrastare questo come altririschi globali».

Dalla cronaca recente nonarrivano buoni segnali. In Ita-lia uno stupro commesso daalcuni romeni ha provocatoreazioni feroci e indiscrimina-te. Ed episodi di intolleranzaviolenta si moltiplicano. Cosasi dovrebbe fare per disinne-scare la bomba a orologeria del risentimento?

«La risposta a queste spinte xenofobe dev’essereurgentissima. La lingua ufficiale, delle istituzioni,dev’essere molto chiara e ferma. I governi e tutti i loroministri devono parlare in modo non ambiguo e far sìche i colpevoli vengano puniti. Altrimenti le cose pos-sono mettersi davvero male. Anche in Germania, do-po la riunificazione, ci sono stati vari episodi di vio-lenza. Ma la risposte istituzionali sono state inequi-voche e il rischio di un patriottismo nazionalista è sta-to scongiurato».

Da noi il parlamento ha rigettato un decreto cheavrebbe consentito un fermo sino a diciotto mesi,dai due attuali, dei clandestini in centri di detenzio-ne temporanea. Però è passato l’onere per i medici didenunciarli se vengono a curarsi da loro. E moltihanno già dichiarato che faranno obiezione di co-scienza.

«I cittadini sono spesso più saggi dei politici. Quel-lo dei clandestini resta un problema molto delicato.Se non ci fossero tutte quelle persone irregolari le no-stre economie collasserebbero. Di nuovo: il nostrostile di vita dipende da loro. E la loro condizione di il-legalità è prodotta dalla nostre leggi nazionali. Nonsono illegali perché lo vogliono ma perché le nostreleggi li definiscono tali. Voglio dire che per la stra-

grande maggioranza sono persone per bene che vo-gliono farsi una vita migliore, lavorando da noi. Dicodi più: molti di loro sono più europei di noi, nell’acce-zione cosmopolita verso la quale dovremmo tendere.Si spostano all’interno degli stati membri come seniente fosse, sanno come interagire con le loro diver-se culture. Sono già come noi dovremmo diventare».

La malsopportazione dello straniero, tuttavia,cresce in tempi di crisi. Lavoratori britannici hannodimostrato contro operai italiani, reclamando queiposti per i locali. Cosa succederebbe se venisse mes-sa in discussione la libertà di lavoro all’interno dellaUe?

«Il protezionismo interno ucciderebbe l’Europa. Èsempre stato più facile restare uniti quando le coseandavano bene. In tempi di crisi, economiche e so-ciali, le spinte xenofobe si presentano puntuali. Il fat-to è che dobbiamo abituarci a una nuova contrappo-sizione, sia all’interno del medesimo stato che tra sta-ti diversi. Non più tra classi ma tra vincitori e vinti del-

la globalizzazione. Questi ulti-mi sono quelli la cui posizioneesistenziale dipende dai confi-ni nazionali. Coloro che tendo-no a percepire la concorrenza,in questo caso di lavoratori piùa buon mercato o motivati, intermini etnici. I vincitori invecesono coloro che hanno la capa-cità di interagire oltre i confini.Ciò dipende ovviamente dall’i-struzione. I primi vedono mi-nacce dove i secondi vedonoopportunità».

Dipende forse anche dai di-versi tipi di immigrazione chenoi abbiamo, ad esempio, ri-spetto agli Stati Uniti?

«Certo. L’85 per cento della manodopera stranieranon qualificata viene in Europa, contro il 5 per centoche va in Usa. Viceversa da noi arriva solo il 5 per cen-to dei qualificati, contro il 55 per cento nordamerica-no. Dobbiamo invertire questa proporzione con po-litiche migratorie che favoriscano i flussi di lavorato-ri qualificati. Lo fanno già i paesi scandinavi e in unqualche modo anche la Gran Bretagna. Sarebbe l’ap-proccio più realistico e adottarlo avrebbe un enormeeffetto anche nella riduzione dell’allarme sociale, giu-sto o sbagliato, che oggi i migranti producono».

In America però il figlio di un kenyano può diven-tare presidente. Cosa ci manca perché possa acca-dere anche da noi?

«La “visione Obama” è molto importante e at-traente, una visione cosmopolita, non solo per la bio-grafia dell’uomo ma perché tende a includere inveceche escludere. Gli Usa però sono, dall’origine, un pae-se di immigrati. L’Europa no. Puntare a una specie diStati Uniti d’Europa sarebbe controproducente.Piuttosto a una visione cosmopolita che tenga insie-me le diverse identità territoriali, riconosca che siamodiversi e simili allo stesso tempo. È più complesso maanche più entusiasmante».

(L’ultimo libro di Ulrich Beck è Conditio humana.Il rischio nell’età globale edito da Laterza)

No all’Europasupermarketcapitalista

RICCARDO STAGLIANÒ

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

GRANNIES Rotterdam 1998

SAPEURS Parigi 2008

BU YING! Londra 2008

Non è neppure necessario che siamocoscienti di appartenere a una tribù.L’istinto mimetico dev’essere stato in-serito in qualche cromosoma per fun-zionare in modo subliminale. Comecerti insetti modificano la propria li-vrea, adeguiamo la nostra al posto cheriteniamo di dover occupare nell’am-biente vitale, alla nicchia ecologica checi spetta o che abbiamo scelto. È pro-prio per distinguerci dall’umanità in-distinta, presa tutta insieme, è per de-finire una nostra più circoscritta iden-tità che diventiamo così simili ai nostrisimili. Bel paradosso, vi pare?

Ma non è mica una sciagura. Nonstiamo a scomodare Pasolini, l’omo-logazione culturale eccetera. Una ri-cerca di exactitudes condotta nell’Ita-lia dell’Ottocento, o nella Francia delSettecento, avrebbe prodotto un cata-logo ben più povero. Nobili, mercanti,contadini, guerrieri, chierici: poco al-tro. È il nostro, vivaddio, il secolo dellemille tribù minime, del mosaico di ap-partenenze. E sono talmente tante chesi fa fatica a definirle gabbie. Al con-trario, scardinano i compartimentistagni di sesso, genere, razza. Guarda-te lì: i maniaci delle treccine rasta sonomaschi e femmine; i bundaboys tipi-da-spiaggia sono un intero catalogoetnico. Le appartenenze, poi, sonomutevoli ed effimere: le emos di Rot-terdam con le loro felpe a zip potreb-bero essere domani le yupstergirls diNew York col loro spolverino aggressi-

vo; i giovani marocchini con giacca dipelle sopra camicia a righe fantasiafinto-Capucci da grandi passerannomagari nella categoria executives concompleto man-in-black; gli sfrontatiteddy boys di Bordeaux con chiodo emano sulla patta dei jeans fra qua-rant’anni potrebbero indossare il pe-renne maglione girocollo degli earlybirds, i giovani pensionati attivissimifin dall’alba uguali in tutto il mondo.Persino gli appartenenti alle subcultu-re che sembrano più compatte, che so,la comunità dei gay-con-tuta-di-cuoio o le dark girls sosia di MorticiaAddams, probabilmente cambianolook nel corso della giornata, o dellasettimana, secondo le occasioni: l’eco-punk crestato della notte può essereun candido incamiciato macellaio digiorno.

In una delle tappe del suo tour mon-diale, Exactitudes si presentò come gi-gantesca decalcomania sulla fiancatadi un treno: ogni ritratto, ridotto a di-mensioni minuscole, da lontano si ri-duceva a pixel di un colorato mosaicoindistinto. Quella trama è la società, efinché è così, c’è speranza. Se propriov’inquieta la collezione di farfalle cheè questo libro, prendete le forbici, rita-gliate uno per uno i ritratti, mescolate-li e distribuiteli a caso come carte dagioco su un grande tavolo: avrete ri-composto il vero volto delle nostrecittà. Perché aveva ragione Matisse:l’esattezza non è mai la verità.

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l’attualitàCrisi globale

Nel pieno della Nuova Depressione torna – con Keynes e Marx -anche lo slogan lanciato da Pierre Carniti negli anni Settanta:“Lavorare meno, lavorare tutti”.La Germania incentiva le riduzionid’orario, la Gran Bretagna ragiona sulla settimana di tre giorni,da noi molte aziende tessili tagliano tempi e salari in cambiodel mantenimento del posto. Ma gli economisti sono perplessi

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

Lord John Maynard Keynes,con le sue ricette dal saporesocialdemocratico, è diven-tato l’unico ispiratore deigoverni che, a corto di idee,cercano una via d’uscita dal-

la Nuova Depressione. Karl Marx, con lasua apocalittica visione del capitalismo,si è conquistato, all’alba del 2009, la co-pertina di Time, come fosse Barack Oba-ma. E allora è tempo di revival anche perun vecchio slogan di successo, seducen-te quanto poco praticato: “Lavorare me-no, lavorare tutti”. Che questa volta,però, potrebbe anche andare a segno.Cambiando il nostro modo di lavorare,riequilibrando i tempi delle nostre gior-nate, rimescolando i ruoli familiari. In uncorpo a corpo soft con la recessione. Qua-si una rivincita dei paradigmi mancatidal Novecento.

La Germania di Angela Merkel ha scel-to la strada della settimana corta, incen-tivando con aiuti statali le riduzioni d’o-rario. La Bmw e la Daimler le hanno giàapplicate. Presto seguirà l’Opel. Anche aLondra si ragiona sulla settimana cortis-sima: solo tre giorni di lavoro. E il prece-dente, nella Gran Bretagna oggi pratica-mente deindustrializzata, non è dei piùfelici: a imporre il taglio dell’orario nellefabbriche a corto di rifornimenti energe-tici fu all’inizio del 1973 il primo ministroEdward Health in una situazione diemergenza per lo sciopero e i picchettidei minatori. La Francia fa discorso a sé.La stagione delle trentacinque ore è tra-montata con i governi socialisti. NicolasSarkozy è stato sprezzante durante l’ulti-ma campagna elettorale: «Quella delletrentacinque ore è stata l’unica invenzio-ne francese per la quale non serve il bre-vetto perché finora nessuno l’ha imita-ta». Però doveva ancora arrivare il grandecrollo di Wall Street e di quel che fu il tur-bocapitalismo finanziario.

In Italia l’orario si riduce, ma non si di-ce. Lo fanno decine di aziende tessili delNord, nelle quali la presenza massicciadelle donne favorisce gli accordi per icontratti di solidarietà, con il taglio degliorari e dei salari in cambio del manteni-mento del posto. «Perché le donne —spiega Aris Accornero, professore eme-rito di sociologia industriale alla Sapien-za — sono più sensibili a questo scam-bio». Una questione di genere che — ve-dremo — ritornerà.

Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacco-

ni, ha parlato di «lavorare meno per lavo-rare tutti», aggiungendo una preposizio-ne che, però, non ha modificato nella so-stanza la proposta. Quella che sul finiredegli anni Settanta lanciò il leader cislinoPierre Carniti. Fu infatti lui a inventarsi loslogan “lavorare meno, lavorare tutti”.Era anche quella epoca di austerità. DiceCarniti: «Già allora l’Italia aveva un tassodi attività scandalosamente più bassodegli altri paesi. In particolare tra le don-ne. Quello slogan nacque proprio con l’o-

biettivo di allargare il numero degli occu-pati e per combattere la disoccupazio-ne». Nella logica di ripartire il lavoro di-sponibile. Ma quella di Carniti non si tra-sformò nella strategia del sindacato allo-ra unitario, per quanto non venne con-trastata. Piuttosto fu risucchiata dal trantran contrattuale e poi travolta dallagrande “depressione” sindacale succes-siva alla sconfitta subita nell’80 ad operadella Fiat di Cesare Romiti.

L’occasione, dunque, all’epoca fu

persa. «Eppure ora potrebbe ripropor-si», sostiene Chiara Saraceno, sociologadella famiglia. La chance della crisi, allo-ra. «Per cambiare il nostro modello». Perdistribuire diversamente il tempo quoti-diano, senza essere più stretti tra il lavo-ro e il consumo, o il consumismo. «Fa-cendo — dice ancora Saraceno — quelche si fa in tutte le famiglie in tempo dicrisi: si va meno in tintoria e si lava più incasa, si ricorre meno alla baby sitter, si fa,insomma, economia di manutenzione».

Vero. Però l’esperienza empirica france-se non va proprio, o esclusivamente, inquella direzione. Non solo perché — co-me dimostra Francis Kramaz nel libroWorking hours and job sharing in the Eue Usa, scritto insieme a Tito Boeri e Mi-chael Burda — con la riduzione dell’ora-rio di lavoro in Francia si sono persi postidi lavoro anziché aumentarli, ma ancheperché ha accentuato le differenze diruolo tra uomini e donne. Queste ultimesi raccontavano «stressate e affaticate»in un’inchiesta del sindacato pubblicatada Le Parisien. In sostanza, nonostante ilmeno tempo perso sul traffico e un’infe-riore permanenza al lavoro, sulle donnericadeva ancora di più il peso delle fac-cende domestiche.

“Lavorare meno” significherebbe —banalmente — andare meno volte al la-voro. «E la questione trasporti è notevo-lissima», osserva Accornero. «È la primaragione per cui i lavoratori accettanouna concentrazione del lavoro in alcunigiorni soltanto anziché ridurre le oregiornaliere. È evidente come sia pocopratico andare al lavoro tutti i giorni ri-manendoci sempre meno». Poi cresce iltempo libero. «Perché, nel caso di unasettimana lavorativa di quattro giorni,nei restanti tre si possono fare ben piùcose che in un weekend». Scriveva, e nonsenza qualche azzardo, più di dieci annifa, il sociologo Domenico De Masi: «Lasocietà post-industriale concede unanuova libertà: dopo il corpo, libera l’ani-ma».

Il tempo libero, quindi, o quello — sesi vuole — liberato dal lavoro, da un over-time in ufficio non sempre produttivo.Per ritrovare — secondo Saraceno — an-che un rinnovato senso della comunitàimpegnandosi nel volontariato scolasti-co, nella tutela dell’ambiente urbano,nella manutenzione di base delle stradecittadine. Lontani — forse — da quell’i-dea di “ozio creativo” teorizzato qualchetempo fa, e più orientati verso una formainedita di sussidiarietà su vasta scala.

L’idea di ridurre l’orario per aumen-tare il numero degli occupati ha semprefatto storcere il naso agli economisti.L’errore, per i cultori della scienza triste,sta nell’assunto che il lavoro sia quanti-tativamente dato una volta per tutte equindi possa poi essere distribuito. E in-vece nella dinamica dei mercati giocanoanche altri fattori, tra tutti quello dell’in-novazione tecnologica che restringe glispazi per la manodopera ma finisce an-che per creare nuove opportunità di im-

La settimana cortissimaantidoto ai licenziamenti

ROBERTO MANIA

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

Da oltre un secolo l’idea di lavoraremeno ore al giorno e alla settima-na è stata avanzata più volte per

scopi pressoché opposti. Il primo, stori-camente, fu quello di migliorare la qua-lità della vita di operai e operaie. Ridur-re la fatica della giornata lavorativa, ave-re più tempo per la cura dei bambini, go-dere di uno o due giorni pieni in cui po-ter fare altro, estendere a un maggiornumero di compagni i vantaggi diun’occupazione corredata di diritti e sa-lari decenti. A questo miravano i grandiscioperi per rivendicare la giornata diotto ore a parità di salario che il movi-mento operaio effettuò nell’Ottocento.Tra i quali si festeggia ancora ai giorninostri quello nazionale svoltosi negliStati Uniti il primo maggio 1886, con ilsuo tragico seguito di manifestanti giu-stiziati l’anno dopo in forza di un pro-cesso infame.

Tuttavia non fu soltanto il movimen-to operaio a prefiggersi lo scopo di lavo-rare meno per stare meglio. Nel 1914Henry Ford ridusse la giornata lavorati-va nei propri stabilimenti da dieci ore aotto e raddoppiò il salario degli operairispetto alla media dell’industria: 5 dol-lari al giorno in luogo di 2,50. Nel 1926 ri-dusse la settimana lavorativa da sei acinque giorni, mantenendo ferma la pa-ga precedente. Non era solo un eserciziodi quella che oggi si chiamerebbe la re-sponsabilità sociale di impresa. Me-diante le riduzioni d’orario unite all’au-mento dei salari, Ford intendeva certocontrastare l’influenza dei sindacati;ma lo faceva anche perché sapeva cheoperai più riposati e meglio pagatiavrebbero fatto un lavoro migliore, e so-prattutto avrebbero potuto comprare leautomobili che essi stessi producevano.

Nei decenni successivi la tendenzaverso orari più corti a fronte di salari cre-scenti parve destinata a rafforzarsi intutti i paesi industriali. Gli anni Trentavidero gli operai lottare — là dove unadittatura non lo impediva — per la setti-mana di trentacinque ore. In Usa il par-tito repubblicano promise agli operaiper bocca di Nixon, nel 1956, che avreb-be ridotto a trentadue ore l’orario setti-manale. In Italia come in Germania lequarantotto ore del 1950 erano scese ameno di trentanove alla metà degli anniNovanta, mentre il salario reale era cre-sciuto. In Francia uno studio del 1965prevedeva che entro vent’anni la setti-mana lavorativa sarebbe scesa a venti-due ore, e a quattordici nei primi annidel Duemila, sempre a parità di salario.Di fatto l’orario legale non toccò tali li-miti, però scese quanto meno a trenta-cinque ore nel 1998 con il governo Jo-spin; creando, pur tra molti problemi,almeno 350mila posti di lavoro.

Poi le imprese cominciarono a parla-re di crisi, e lo scopo di lavorare menocambiò faccia: in luogo d’una migliorqualità della vita per la massa dei lavo-ratori, si mise in primo piano la neces-sità di contenerne il peggioramento di-nanzi alle pressioni dell’economia glo-balizzata. Erano ormai disponibili nelmondo centinaia di milioni di individuiper i quali la settimana di quarantottoore e i salari di sussistenza contro i qua-li si erano battuti gli operai europei del1950 rappresentavano un progressostraordinario. Le nostre imprese si af-frettarono a offrirglielo aprendo nei lo-ro paesi migliaia di società sussidiarie.Ai dipendenti si cominciò quindi a pro-porre di lavorare meno, non più a paritàdi salario bensì a salario ridotto. Ciòavrebbe evitato dolorose misure di li-cenziamento. Il primo grande contrattoche prevedeva di ridurre a trenta ore l’o-rario settimanale, con annessa una de-curtazione del salario un po’ meno cheproporzionale, fu firmato dal sindacatotedesco dei metalmeccanici nel 1994:furono così risparmiati, si disse, 50milalicenziamenti. Seguirono vari altri con-tratti del genere.

Oggi di crisi si parla come non mai, mala posta in gioco rimane la stessa. È scon-tato che, dinanzi all’alternativa tra lavo-rare e guadagnare di meno per evitare illicenziamento di migliaia di loro similied il continuare con l’orario e il salario disempre sperando di non essere toccati apropria volta dal licenziamento, la granmaggioranza dei lavoratori dipendentisia orientata a scegliere la prima soluzio-ne. Lo confermano recenti sondaggi.Tutto sta a vedere se la soluzione pro-spettata — guadagnare meno per conti-nuare a lavorare tutti — si rivelerà effet-tivamente temporanea, oppure se nonsarà l’inizio di un piano inclinato in fon-do al quale la riduzione dei salari realisarà definitiva. La globalizzazione è sta-ta ed è essenzialmente un complesso dipolitiche del lavoro rivolte al medesimotempo a spostare il lavoro nei paesi dovegli orari e i salari non sono in realtà tute-lati da nessuno, e a ridurre le tutele là do-ve esse avevano raggiunto negli anniSettanta-Ottanta il massimo livello. Nel-lo sfondo di ogni discorso sulla crisi del-l’economia reale, sono queste le politi-che che continuano ad operare, perquanto siano ornate da dotte analisi sul-la necessità di modernizzare il sindaca-to, i contratti, il mercato del lavoro.

Se una conquistadiventa un ripiego

LUCIANO GALLINO

piego. «È ampiamente dimostrato nellaletteratura — sostiene Tito Boeri, pro-fessore alla Bocconi — che lavorare me-no non vuole dire lavorare tutti. Ognivolta che si è stabilito per legge una ri-duzione obbligatoria dell’orario di lavo-ro, non solo si sono distrutte le ore, maanche i posti di lavoro. L’unica stradache si può percorrere è quella della con-trattazione aziendale, caso per caso, inbase alle esigenze specifiche di datori dilavoro e lavoratori».

In un fitto carteggio del gennaio 1933ne parlano ampiamente GiovanniAgnelli e Luigi Einaudi, allora entrambisenatori. Il primo — sorprendentemen-te per un industriale — si domanda seper affrontare la disoccupazione di mas-sa di quegli anni arrivata al picco di 25milioni di senza lavoro, anche per la pro-gressiva meccanizzazione dei processiproduttivi, non possa essere efficace una«riduzione generale uniforme delle oredi lavoro». Einaudi, futuro Governatore

della Banca d’Italia e poi Capo dello Sta-to, replica che no, quel dubbio non hafondamento. E spiega: «La disoccupa-zione tecnica non è una malattia; è unafebbre di crescenza, un frutto di vigoria edi sanità. È una malattia, della quale nonoccorre che i medici si preoccupino granfatto, ché essa si cura da sé». Perché, ap-punto, nella concezione liberale è il mer-cato che ha in sé la terapia per riequili-brare il lavoro.

Eppure dagli anni Trenta a oggi la que-stione, anche in Italia, è rimasta sostan-zialmente la stessa. Certo nel nuovo Mil-lennio appare difficile trovare un im-prenditore che possa ragionare nei ter-mini del senatore Agnelli, ma è invece in-teressante notare che il tabù dell’orariosia stato timidamente rotto nella comu-nità degli economisti. Fiorella Kostoris èla studiosa che involontariamente sug-gerì nel 2004 all’allora premier Silvio Ber-lusconi di abolire un po’ di ferie per far la-vorare di più gli italiani e accrescere laproduttività. Ma ora il protagonista è letempesta perfetta della crisi finanziaria.Così in un articolo sul Sole 24 Oreha scrit-to a fine gennaio che sì, l’orario di lavoroè una delle leve su cui agire per difendereil lavoro. Ragiona sul caso tedesco ma peranalogia la sua analisi sembra estensibi-le all’Italia. «Si è di fronte — sostiene Ko-storis — ad uno shock negativo reale, si-stemico, da domanda, che fa emergereun eccesso di offerta nelle aziende, noncompensabile con vendite all’estero acausa della generalità della crisi; in pas-sato invece la domanda interna e inter-nazionale tiravano e la minaccia per l’oc-cupazione tedesca veniva dalla eventua-le sua sostituzione con lavoratori menopagati. Di fronte all’eccesso attuale di of-ferta, la soluzione migliore sarebbeespandere con larghe detassazioni e conspese sociali i redditi dei lavoratori, deiconsumatori e dei risparmiatori, nonchéprocedere a maggiori acquisti pubblici diprodotti privati. Poiché i limiti e i vincolidi finanza pubblica non lo consentono —conclude Kostoris —, al fine di colmare ildivario fra offerta e domanda, si permet-te alle imprese di contrarre la produzio-ne, diminuendo l’impiego di personale econtemporaneamente si riduce il consu-mo meno che proporzionalmente, inquanto il reddito dei parzialmente occu-pati è sostenuto dai sussidi pubblici».

Insomma si riduca l’orario per garan-tire ai lavoratori il lavoro e un reddito chepossa sostenere un po’ la domanda. In at-tesa di tempi migliori, però. Sia chiaro.

LE IMMAGINILe immaginiche illustranoqueste paginesono trattedal libro Otto Neurath-

The Language

of the Global Polis

di Nader Vossoughian,edito da NAiPublishers,Rotterdam

PIERRE CARNITI

In periodo di austeritàsul finire degli anniSettanta, il leaderdella Cisl Pierre Carnitiinventò lo slogan“lavorare meno,lavorare tutti”per combatterela disoccupazione

ANGELA MERKEL

Il governo tedescoper frenare l’ondatadi licenziamentiha scelto di incentivarecon aiuti statalile riduzioni d’orarioAziende comela Bmw e la Daimlerle hanno già applicate

NICOLAS SARKOZY

Sul taglio d’orarioSarkozy ha una visioneopposta:“Le trentacinqueore sono l’unicainvenzione franceseper cui non serveil brevetto: finoranessuno l’ha copiata”

Repubblica Nazionale

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

SimenonViaggio

intornoa

I suoi eroi, al biviotra noia e tragedia

Un convegno e una mostradi memorabilia del più grandecollezionista sul tema. Così

in Liguria ci si prepara a festeggiare il centenario della mortedel grande scrittore belga. Tra cinema, incontri e una figurache non si può ridurre al padre del suo commissario più famoso

CULTURA*

Atutti quelli che hanno letto sempre e soltanto i ro-manzi di Simenon con il commissario Maigretperché amano la serialità: non sapete che cosa visiete persi. E, soprattutto, non avete capito: anchel’altro Simenon è seriale, ha lo stesso protagoni-sta, lo stesso ambiente, la stessa dinamica. Ro-

manzo dopo romanzo Simenon ci racconta storie di «uomini cheguardavano passare i treni».

È tale il più esemplare di loro, Kees Popinga da Groningen, unuomo di quarant’anni con casa, moglie, figlia, «una stufa del mo-dello più perfezionato, una scatola di sigari sul caminetto e uneccellente apparecchio radio da quasi quattromila franchi». È unuomo dalla vita inscritta inun cerchio dove le passionisono state barattate con lecertezze, i rischi con le abi-tudini e l’unico atto fuoridall’ordinario è osservare larotaia che tutto contiene e itreni che vi passano sopraper andare lontano.

In un’altra vita, in un’al-tra storia, fa «l’orologiaio diEverton» (Saint-Paul nellaversione cinematografi-ca), che «si limitava a vive-re senza fretta, senza pro-blemi, senza esserne nep-pure appieno cosciente,ore così uguali l’una al-l’altra da indurlo quasi acredere di averle già vis-sute».

O «il libraio di Archan-gelsk» e per anni mangiaal ristorante italiano diPepito, dove nulla maicambia, facendolo di-ventare una secondacasa.

In questa routine si muovo-no tutti i piccoli uomini di Simenon.Piccoli perfino quando sono (stati)grandi, come «il presidente», l’ex pri-mo ministro a riposo, che non a casoesordisce «appoggiato allo schienalepressoché dritto della vecchia pol-trona Luigi Filippo, di pelle nera or-mai logora che per quarant’anni loaveva seguito da un ministero all’al-tro». Sono prigionieri, sconfitti o ar-resi senza aver mai combattuto,non stanno aspettando niente. In-torno a loro c’è uno scenario fattodi poche costanti claustrofobiche.

Il più delle volte piove, in unmodo che non sembra poter ave-re fine. Pagine intrise. «Pioggianera» è perfino il titolo di unastoria, tra le più cupe. Ma I fan-tasmi del cappellaio si apre così: «Era il 3 di-cembre, e continuava a piovere». Poi continua: «E dal 13 no-vembre pioveva». Quanto a La casa sul canale è un vero ricetta-colo di umidità: «L’oscurità era impregnata di pioggia gelida, an-che lo scompartimento di terza classe era bagnato, bagnato il pa-vimento sotto le scarpe infangate, bagnate le pareti coperte di unvapore vischioso, e bagnati i finestrini, dentro e fuori».

Il personaggio, meglio sarebbe dire l’ostaggio, nelle sue mol-teplici incarnazioni è segregato dalla meteorologia e da un’altraforma di oppressione: quella del clan. Il clan lo attornia, lo op-prime, lo annulla. È un cerchio che si stringe. Molto spesso a rap-presentarlo è la famiglia: originaria, come quella dei Mahé («A ca-sa aveva ritrovato i pesanti pantaloni di velluto a coste e anche ilsuo cognome, Mahé, scritto sulla porta di quindici o venti casedel paese»), oppure acquisita, entrandoci attraverso la porta-trappola del matrimonio, come accade con i Pitard («Che cosaaveva in comune lui con quella famiglia? Aveva sorriso a una ra-gazza che mangiava pasticcini ascoltando la musica e si era ri-

trovato con una suocera, un cognato, una cognatae un nipote malaticcio»). Altrove è invece un ordi-ne costituito, come il Sindacato dei notabili che go-verna La Rochelle fino all’arrivo del Viaggiatore delgiorno dei mortio, a tutt’altra latitudine, la cricca de-gli espatriati europei, bianchi, mediocri e cinici chespadroneggia a Libreville, in Gabon, prima del Colpodi luna e di testa dell’ultimo arrivato.

Questo ordine delle cose sembra immutabile, laroutine infrangibile, la pioggia incessante, il clan in-vincibile, finché succede qualcosa. Un piccolo grandeevento per un piccolo grande uomo. Lo dichiara lostesso Simenon nelle prime righe di La verità su BebéDonge: «Accade, talvolta, che un microscopico mosce-rino increspi la superficie di una pozzanghera più dellacaduta di un enorme sasso». Basta davvero poco: al dot-tor Mahé la vista di una ragazzina vestita di rosso (che

«non era una donna, e neppure un corpo», ma «la negazione ditutto quello che era stata la sua vita»); al piccolo libraio di Ar-changelsk la scia dell’odore delle ascelle di Gina Palestri un gior-no d’estate in cui entra nel suo negozio; al viaggiatore del giornodei morti «un impalpabile pulviscolo dorato» che danza in unraggio di sole mentre la zia Colette sta finendo di vestirsi.

E la svolta si compie, nulla è più come prima, perché nulla eramai stato così come lo si credeva. Nessuno era quel che era, con-teneva in sé il germe della rivolta, la miccia dell’esplosione, la viadi fuga. Talvolta un olezzo o una visione non bastano, occorronoil crimine di un figlio (come all’orologiaio) o la bancarotta del pa-drone (come a Popinga) perché la catena si spezzi e l’ostaggiodelle convenzioni, della pioggia e dei clan si liberi e ammetta:«Per quarant’anni ho guardato la vita come quel poverello che,col naso appiccicato alla vetrina del pasticciere, guarda gli altri

mangiare dolci». Dopodiché, entra nel negozio e si ingozza finoa morire.

Questo è il bivio senza uscite a cui Simenon conduce il suo per-sonaggio seriale, il piccolo grande uomo che non era Maigret: av-vizzire nella vita segnata, o scartare di lato e abbracciare la rovi-na, spesso la morte. Con iniziale entusiasmo e terminale consa-pevolezza i più scelgono la seconda strada e svelano a se stessi «ilsegreto degli uomini» come lo definisce l’orologiaio.

È un segreto mal custodito da generazioni, che Simenon espo-ne e nobilita: è la vocazione gloriosa all’autodistruzione, la rea-lizzazione di sé attraverso un male così purificato da trasformar-si in bene rovesciando ogni morale, l’accettazione del nulla co-me legge e del tutto come conseguenza. Giacché, per dirla conl’immortale Popinga: «Non c’è una verità, ne conviene?».

GABRIELE ROMAGNOLI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

Maigret, profeta“slow food”

La fortunadi Maigret è che Simenonlo fa nascere quando a Parigi nonc’è ancora la Tour Eiffel e lo manda

in pensione (a Meung-sur-Loire) nel1972. Di lui sappiamo che è nato e cre-sciuto in campagna, nell’Allier (oggi fa-moso per le barriques, di cui non si trovatraccia nelle storie di Maigret). È un au-vergnat sentimentalmente e gastrica-mente legato a piatti di terra, pur non di-sdegnando il pesce d’acqua dolce (la frit-tura di ghiozzi) né il mare (sogliola à ladieppoise, cappesante e, quando se lapuò permettere, aragosta).

Nel ’78, cioè sei anni dopo l’ultima av-ventura (Maigret et monsieur Charles),Simenon scrive del suo commissario, inverità suo alter ego: «Maigret è un picco-lo borghese molto onesto. Ama mangia-re ed è forse l’unico piacere che si conce-de, come i poveri. Non va quasi mai al ci-nema, non vede la tv, non ha l’automobi-le, non sa guidare». È vero che Maigretama mangiare e non si preoccupa della li-nea. Se sta interrogando un sospetto conla prospettiva di farlo confessare, fa arri-vare panini e birre dalla BrasserieDauphine, altrimenti prende quello chela cosmopolita Parigi gli offre, ma rara-mente cede a cucine straniere (giustouna paella, una pizza, una scaloppina al-la fiorentina).

Parigi non è la città di Maigret, che ci ar-riva da orfano, a vent’anni, e nemmenocon la prospettiva di entrare in polizia. Fail commesso in un negozio di passama-nerie di rue des Victoires quando un vici-no di pianerottolo, l’agente Jacquemain,lo convince a scegliere la divisa, e Maigretpartirà dal gradino più basso per un flic:da un commissariato periferico, in bici,portando messaggi.

Parigi, coi suoi riti, miserie e grandez-ze, diventa la sua città, è obbligato a co-noscerla, dai ministeri (che non ama) al-le topaie (che cerca di capire, ma senza fa-re sconti). Nemmeno madame Maigret,Louise, è parigina. È alsaziana di Colmar,una sorella le manda il liquore di prugne(qualche goccia nel coq au vin è il suo toc-co segreto). Vivono protetti, se non pro-prio in difesa, al 132 di boulevard Ri-chard-Lenoir. Lei quasi sempre in casa,salvo uscire a fare la spesa per lui. E quan-do a pranzo c’è un piatto di quelli predi-letti da Maigret, garantito che non puògoderselo. Motivi di lavoro. Spesso luitorna che lei è già a letto. Salendo al terzopiano si slaccia la cravatta e infilando lachiave nella toppa ripete la brevissima,rassicurante formula: «C’est moi». Leuscite mondane si riducono a un quindi-cinale scambio d’inviti con la famiglia deldottor Pardon (che è anche il medico cu-rante di Maigret). Abita nello stesso bou-levard, ha gli stessi gusti di Maigret. Dopocena gli uomini si ritirano in un salottinoa fumare e a sorseggiare un liquore o undistillato mentre le mogli restano a parla-re fra loro e a scambiarsi ricette. Dal dot-tor Pardon Maigret va volentieri, mentresi sente intimorito, vagamente a disagio,quando lo invita il dottor Paul. Uno fa-moso, ha fatto l’autopsia a Jules Bonnot,l’anarchico che fece da autista a ConanDoyle e fu ucciso dalla polizia nel 1912.

Uno famoso va nei posti famosi, comeLapérouse (quai des Grands Augustins),ma quel lusso ovattato non piace al cam-pagnolo Maigret.

A Maigret piacciono posti più popola-ri, i bistrots che noi chiameremmo trat-torie, oppure osterie con cucina. Quelledi una volta (appunto), con una donna aifornelli (moglie, amante, figlia, sorella,cognata, zia) e un uomo in sala, ad illu-strare a voce i piatti del giorno, se già nonerano stati scritti su una lavagnetta. An-che il vino sfuso era fornito da qualcheparente. In quei posti, con calma, il com-missario si consegnava al piacere del ci-bo. Con calma, lentamente: è facile im-maginare Maigret «slow food», non soloperché il fast food doveva ancora esserecodificato ma soprattutto per una que-stione di pelle, di sensibilità. Oltre al fu-mo e al sudore, in quelle stanze affollatedi varia umanità, il suo naso percepiva gliodori dominanti (burro uguale nord,aglio uguale sud) ma anche quelli che ve-nivano da un localuccio pomposamentechiamato cucina. Le andouillettes allagriglia, il fricandeau all’acetosella, il co-niglio in umido, le trippe à la mode deCaen. Nei suoi esordi parigini, Simenonse ne serviva da Pharamond, alle Halles,e trovava il gusto «eccessivo».

I gusti di Maigret sono evidentementemodellati sui gusti di Simenon, cresciutoin Belgio con un padre vallone che man-giava principalmente bistecche stracot-te e patate fritte e una madre fiammingache amava le cotture lunghe e i dolci.«Maigret stava per mangiare il dessertquando si accorse del modo in cui suamoglie lo osservava, con un sorriso unpo’ canzonatorio e materno sulle labbra.Fece finta di non notarlo, tuffò il naso nelpiatto, trangugiando qualche cucchiaia-ta di uova al latte prima di alzare gli oc-chi». Il brano, tratto da Maigret e il corposenza testa, rappresenta un Maigret in cuisono stati riversati i ricordi di Simenon.

La fortuna di Maigret sta nel non averconosciuto splendori e limiti della nou-velle cuisine. Quasi impossibile pensarloalla prese con uno dei mille ikebana del-la Nc (uno col suo appetito, tra l’altro, e ilsuo fisico) oppure, ai tempi attuali, conun salmone marinato all’aneto, creatodai Troigros ma presente ovunque, dallaLorena al Roussillon, o con i “méli-mé-lo”, i “duo”, i “voyages autour de”. Sime-non aveva viaggiato tantissimo e, peresempio, mangiato aringhe crude(maatjes) in Olanda e pesce marinato nellatte di cocco a Tahiti. Ma nelle migliaia emigliaia di pagine sulle sue inchieste,Maigret non mangia mai nulla che nonsia cotto a puntino, con l’eccezione dellebistecche alte due dita (con le solite pata-tine fritte). Maigret è onnivoro perchémangia la choucroute dell’est comel’aioli e la bouillabaisse del sud, il cassou-let del sudovest, con preferenze per quel-lo di Tolosa. Bere, uguale, a seconda dicome gli gira e di quello che mangia: Mu-scadet di Sèvre et Maine o rosso forte diCahors, Borgogna come Médoc, ma an-che birra, anche sidro. Maigret mangiaquello che vuole, non quello che capita.Si adatta. Se ha in mente uno spezzatino

coi piselli e gli pro-pongono gigot d’a-gneau, va bene lostesso. Quello checonta è che sianopiatti semplici eserviti con sempli-cità.

Tra le pagine siscopre una passio-ne che privilegia lefrattaglie: animelle,trippe, fegato e inparticolare le an-douillettes. Si trattadi salsicce compo-ste da tratti d’inte-stino e stomaco delmaiale, in genereservite con una sal-sa alla senape o gri-gliate. Due localitàsi disputano l’ap-pellativo di patriadell’andouillette:Troyes, nell’Aube,dove si fa risalirel’invenzione all’an-no 878, per l’inco-ronazione a re di

Francia di Luigi II detto il Balbuziente, eVire, in Normandia, dove il disciplinareprevede l’affumicatura delle trippe conlegno di faggio. Capisco che una salsicciadi trippe di maiale possa non rappresen-tare il massimo, ma si tratta di uno deipiatti che si servono non solo nei bistrotsma in tutti gli autogrill di Francia. Lo dicoper il morale della trippa e perché Mai-gret nasce da un contrasto. Il cognome èquasi identico a una specialità (magretde canard) e Maigret significa magrolino.Invece il commissario è massiccio, anchese non grasso, facciamo 110 chili per 1.80di statura. In tempi di sushi e sashimi nonsi sa perché imperanti e per conto degliamanti del quinto quarto, lasciatemichiudere dicendo che a tavola Maigret èvivo e lotta insieme a noi.

GIANNI MURA

LA RASSEGNA

A vent’anni dalla scomparsa di GeorgesSimenon, Fantastiche Terre di Portofino

gli dedica una serie di eventi tra febbraio e aprileIl cuore della rassegna, promossa dal sistematuristico locale Terre di Portofino, sarannole mostre allestite attingendo in gran partealla collezione di Romolo Ansaldi. L’esposizionedei materiali (volumi in prima edizione, fotografied’epoca, locandine) sarà a Villa San Giacomoe a Villa Nido nel Parco di Villa Durazzo a SantaMargherita Ligure. Altre manifestazioni a RapalloL’evento sarà inaugurato da un convegnointernazionale di studi simenoniani il 14 febbraiodi cui qui anticipiamo due relazioniInfo: www.terrediportofino.eu

IN FAMIGLIALa foto grandeè un’immagineineditadi Simenoncon la secondamoglie DenyseOiumet e i figlinel 1955;sopra, Simenonnella sua villadi Epalingesnel 1964(foto Panicucci)

PRIME EDIZIONIA sinistra,copertine di primeedizionidei romanzidi GeorgesSimenon:M. Gallet décédé

del 1931;Pietr le Letton

del 1931e Mon Ami

del 1949

PIPA E CAPPELLONell’altra pagina,Georges Simenonin un’immagineclassica: cappotto,cappello e pipa;sotto due lettereinedite: consiglisulla letteraturae questionisui diritti d’autoreIl materialedi queste pagineè trattodalla collezioneprivata di RomoloAnsaldi

Repubblica Nazionale

Page 8: Nuove Tribù - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/08022009.pdfIo mi vesto come mi pare, protesti. Poi però colto dal dub-bio ti alzi, vai allo specchio, ti osservi

dai concessionari di ogniregione.

Così può indurre a qualche doman-da sull’efficacia delle campagne pubblici-tarie, e magari sulle loro implicazioni su-bliminali, l’immagine proposta dalla Gi-lera, in cui una ragazza bendata, con unaccenno malandrino di coscia in bella vi-sta, gli abiti coloratissimi e i tacchi come sideve, si accinge a provare il modello 125,mentre il partner le sta dietro, stringendo-le i fianchi. Il messaggio è quello di una di-sponibilità comportamentale da accetta-re «ad occhi chiusi», come recita un em-brione di slogan, senza nascondere uncontenuto potenzialmente erotico, equindi emancipato, “moderno”: chissàquali vantaggi ne avrà tratto la concessio-naria Tartamella di Trapani, in quegli an-ni che si immaginano chiusi, neri, ostili aogni idea di liberazione femminile.

Eppure, basta gettare l’occhio sul ma-nifesto della sedicesima edizione dellaFiera «campionaria internazionale» diMessina, tenutasi nell’agosto del 1955,per registrare proprio l’irruzione dellamodernità, dato che il «Gran Premio Af-fluenza» mette in palio «8 Fiat 600» e «7motoscooters». Quindi non può stupireche la réclame del L’Ora di Palermo, «daoltre mezzo secolo al servizio dei sicilia-ni», renda esplicita proprio questa carat-teristica: «Leggete il giornale più modernodell’Isola». Ed è particolarmente sugge-stiva, nella sua semplicità, la diapositivain cui l’azienda «Torino Televisione, sededi Palermo» invita i costruttori a dotare gliappartamenti dell’antenna e dei cavi del-la tv. Mancava poco e la Rai avrebbe man-dato in onda il teatrino di Carosello, cheavrebbe insegnato all’Italia del boom aconsumare, e alle aziende a comunicare inuovi prodotti. Ma evidentemente il nuo-vo poteva ancora affiancare l’antico, l’ac-quisto dei libri a rate (ma anche dei vesti-ti) accanto alle moderne bombole di Pibi-gas; il successo degli scooter Vespa e Lam-

c i -t a r i a .

Erano diapo-sitive di vetro che

raccontavano il mondoche precede l’industria. Nel

guardarle oggi sembra di rivedereuna fase della modernizzazione italianain cui il tempo scorre ancora lento, e il pas-sato convive senza troppi conflitti con ilpresente.

Oltretutto, con queste immagini siamoin Sicilia, e nel suo saggio introduttivo (Isogni figurati) l’antropologo AntoninoButtitta coglie con nitidezza il passaggioche l’isola vive in quel decennio: dopo lanascita della Regione a statuto speciale,nel 1947, la Sicilia e in particolare il capo-luogo sperimentano vistosi cambiamen-ti demografici: «La permanenza a Paler-

mo degli appartenenti alceto politico proveniente dalle

province dell’Isola divenne di fattouna necessità», con quel che segue, fami-glie che si spostano, parenti, galoppini,clienti che si inurbano. Tutto questo men-tre il boom dell’istruzione obbligatoriaporta nelle città gli insegnanti elementariprovenienti dal retroterra. Insomma, frapolitica, scuola, burocrazia, un pubblicodiverso.

Così, la pubblicità al cinema inaugurauna multimedialità certo ancora molto«rozza», come annota in prefazione Al-berto Abruzzese, ma che ha individuatocon precisione il suo target. Ovvero unpubblico legato alla tradizione, eppuregià disposto a correre qualche avventura.A cui si rivolgono i produttori e gli esercizidel luogo, ma anche quelle imprese na-zionali che hanno inventato un “format”in grado di unire il nazionale e il locale,realizzando campagne di portata italianae però personalizzabili dagli esercenti e

Nell’epoca delle multisale edel Blu-Ray non è facile im-maginare le due ore che sipassavano al cinema mez-zo secolo fa. Le poltroneparcamente coperte di vel-

luto rosso, l’architettura subito riconosci-bile delle grandi sale, le linee geometrichedel soffitto spezzate per evitare gli echi, ilfumo che si illuminava nel cono delproiettore. E naturalmente gli intervallifra il primo e il secondo tempo (e qualchevolta, in certi drammoni o in certi inter-minabili peplum, anche fra il secondo ilterzo).

Per i ragazzi di allora, l’intervallo erauna durata carica di tensione e di impa-zienza, forse ancor più che l’attesa dell’o-rario d’inizio del film, preceduto dal ca-nonico spegnersi delle luci. Erano atmo-sfere da Nuovo cinema Paradiso, ugualinelle città e in provincia. Al massimo mu-tavano le sale, il prestigio degli arredi, ifilm in prima o in seconda visione, la qua-lità della proiezione e della pellicola.

A moderare l’impazienza, nei due o treminuti di interruzione, o nello spazio frauno “spettacolo” e l’altro, c’era solo lapubblicità. Immagini che generalmentescivolavano via nell’indifferenza, mache si ripresentavano ogni volta nellastessa successione, fino a divenireun accompagnamento prevedi-bile dell’attesa. A guardarleoggi, nel bel libro La pubbli-cità al cinema negli anniCinquanta pubblicatoda Sellerio, si ha lasensazione diun’archeolo-gia della pro-mozionepubbli-

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

Nei primi anni del nostro dopoguerra, la gentescopriva tra un film e l’altro la magiadella réclame. Le diapositive che anticipano

“Carosello” raccontano una fase della modernizzazione del Paese in cuiil tempo scorreva lento. Quando si beveva vermouth e le lotterie regalavanoFiat 600. Ora un libro raccoglie la storia e le immagini di quel mondo ingenuo

SPETTACOLI

EDMONDO BERSELLI

L’archeo-spotdell’Italiadel boom

PuBB iCiT

cinemaL al

à

www.edizionidedalo.it

Maurice WegnezClonazioniL’individuo, le cellule e i geniLe bistecche sulle nostre tavole potrebberopresto provenire da cloni di mucca? Le meletransgeniche sono rischiose per la nostra salute? Ma soprattut-to, che cos’è un clone? Un li bro per far chiarezza su un temadibattuto e complesso.

Cameron M. Smith - Charles SullivanI falsi miti

dell’evoluzioneTop ten degli errori più comuni

In occasione del bicentenario della nascita di Darwin, un volu-me chiaro e documentato che ci aiuta a comprendere gli erroriche si nascondono dietro le più diffuse credenze sull’evoluzione.

Repubblica Nazionale

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le», lucidi da scarpe, SaponeSupersgrassato per Toeletta

Pinolivo, apparecchi radiofonicimolto vintage delle ditte Kosmoradio eRao, offerte ferroviarie («Preferite i negoziche donano Buoni Km. Ferroviari “Orbis”,viaggerete gratis»).

In ogni caso, se si guarda con più atten-zione agli stili di vita suggeriti dalla pubbli-cità locale, ci si accorge facilmente di abi-tudini forse meno provinciali del previsto.C’è qualche locale notturno dove si ballafra orchestre e smoking, qualche parruc-chiere che nella giungla di permanenti etinture e «acconciature artistiche» non dis-simula un tratto di ricercatezza promet-tendo «haute coiffure» e perfino «ondula-zione ad aria» oltre a qualche bella pettina-tura a banana, mentre non manca la pub-blicità di «una buona macchina fotografi-ca ed un buon libro» della Fotolibreria Vil-larosa, che presenta una scena da vacanzaborghese al mare, con lui dietro l’obiettivoe lei in costume intero e grande cappello. Eanche la pubblicità seduttiva rivolta a«aspiranti attori-attrici del Cinema», cheinvita a inviare «il vostro indirizzo» al Cen-tro Internazionale Cinematografico diMessina.

Esisteva già la Maico, con i suoi apparec-chi contro la sordità, che appaiono enormirispetto a quelli miniaturizzati di oggi; c’e-ra la Necchi con le sue macchine da cucire“testimonializzate” da un’estatica Lea Pa-dovani, attrice famosa, che le contempla amani giunte. Tuttavia, per un ultimo toccodi nostalgia, bisognerebbe ricordare chespesso, durante l’intervallo, la proiezionedelle diapositive pubblicitarie veniva ac-compagnata da una canzone di successo.E quindi non poteva mancare l’immagineche annuncia «Avete ascoltato un discoCetra», con la figura stilizzata di una tam-burina: dopo avere visto le immagini sem-bra quasi di risentire il suono di quell’epo-ca, quando l’Italia era ancora consumisti-camente così ingenua.

b r e t t a ,presentati an-

che come possibili «risciò» insieme aglislogan che riproducevano il parlato di al-lora: «una cannonata!», esclama il mecca-nico che consiglia la F. B Mondial.

Quanto ai consumi e ai servizi, siamo al-la preistoria. Si beve anice, «dissetante di-gestivo» e marsala, vermouth, moscatononché marsala all’uovo. Nonostantel’impegno dei vini da pasto Selinunte, conle ormai dimenticate bottiglie a fiasco, e diDuchessa, «il vino che piace», e che nondovrebbe mancare mai «nella vostra men-sa», non sembra esserci sintomo della bril-lante evoluzione vinicola isolana. A suavolta, con una combinazione che oggi fasorridere, la pasticceria è «svizzera e sici-liana». Ciò nonostante, da qualche varco siprofila l’arrivo dalla Germania della «no-bile birra» Pils, «la più rara», «imbottigliataall’origine» e presentata da una sommariaragazzotta dalle guance molto rosse conun vistoso costume di ascendenza tedesca(ma in un accesso di internazionalità si po-trà trovare anche la pregiata Falcon, birradi Amsterdam). Gli slogan, come si è ac-cennato, sono sommari. «Su ogni tavola»,intimano gli spaghetti del Molino e Pasti-ficio Tomasello e Figli. «Esigetelo!!» è l’im-perativo del burro Zancle, «freschissimodi pura panna» e «vitaminizzato». «Fa labarba da sé» promette la lametta Monopol(«Esclusivamente presso le rivendite di ge-neri di monopolio»).

Si ha quasi la sensazione che intorno al-la provincia stia cominciando a premereun mondo altro, che più tardi diventerà l’e-stero, il Mercato comune, e infine l’econo-mia globale, preannunciata dal Bucato alPerborato che «è un prodotto Spic» e da Mi-lo, alimento energetico-fortificante-vita-minico, «una tazza di salute» della Nestlé.Le prime fessure nel protezionismo forse siaprono allora, tra una folla di lavasecco, ditintorie, maglierie, modisterie, drapperie,«settimane del ribasso al mercato centra-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

IL LIBRO

Si intitola La pubblicità al cinema negli anni

’50 (Sellerio, 128 pagine, 35 euro)È una raccolta delle cosiddetteréclame, le diapositivepubblicitarie che venivanotrasmesse al cinema primae dopo il film negli anniche precedono il boomeconomico, quando le tecnichedi marketing erano agli alboriIl volume, che sarà in libreriail 12 febbraio, è realizzatoin collaborazione con lo Iulm

e comprende due testi di Antonino Buttitta e del sociologo Alberto Abruzzese

INTERVALLOLe immaginidi questepagine,tratte dal libroLa pubblicità

al cinema

negli anni ’50,sono alcuniesempidi diapositiveche venivanoproiettatein salaTra le altre,la pubblicitàdella Gilerae dellelavanderieespresso,primi segnalidi un’Italiaavviata versoil boom

2008 © ENZO SELLERIO EDITORE

Repubblica Nazionale

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

l’immagineTesori

Vanno all’asta a Parigi i capolavori accumulati da SaintLaurent in una vita di spese inimmaginabili.Picasso,Degas, Brancusi, Géricault. Ricordi di anni in cui lo stilistaera il più grande, il più imitato, il più ricco di tuttiPrima della depressione e dell’esilio nel suo regno dorato

Si può vivere serenamente,piacevolmente, in una di-mora che è più solenne diun museo, più preziosadella grotta di Ali Baba, piùstraripante del magazzino

di un antiquario sfrenatamente ingor-do di tutto, più eccentrica di uno deicastelli di Ludwig di Baviera, più opu-lenta dei palazzi dei grandi nobili diFrancia? Si può ricevere con garbato emondano entusiasmo gli amici e lepersone da stupire con la propria raffi-natezza e ricchezza, in un fastoso ho-tel particulier abitato, se non infestato,più che da preziose invidiabili colle-zioni, da un accumulo eterogeneo dirari capolavori scelti per disordinatoinnamoramento e illimitata disponi-bilità finanziaria?

Quando una residenza diventa fa-stosa al limite di una ingordigia sini-stra, finisce col perdere il senso dome-stico della casa, diventa, in un certosenso, inabitabile per mancanza di er-rori, di disordine, di dimenticanze, didistrazioni, di odori, persino di polve-re. Se poi ognuno dei mille capolavoriche la popolano come intrusi ingom-branti, è un pezzo eccezionale, che ap-partiene al momento alto di una car-riera d’autore, senza un graffio o unaincrinatura, sicuramente provenienteda vedove e eredi dell’artista, da resi-denze imperiali, da celebri collezioni-sti capricciosi (come il sarto belle-épo-

que Jacques Doucet che buttò via ilSettecento per riempirsi di Decò di cuisi liberò mettendo tutto all’asta nel1977), chi mai si muoverebbe con di-sinvoltura tra tanta fragilità rara e in-sostituibile?

Ma non era agli altri che pensavanoYves Saint Laurent e Pierre Bergé, cop-pia nel lavoro e nella vita, quando fi-nalmente nel 1972, già famosi e già alculmine del “monde” più aristocrati-co come del mondo dell’alta moda edel mercato d’arte, con il successo pla-netario di un profumo, Opium, si ri-trovarono all’improvviso immensa-mente ricchi, in grado di esaudire ognicapriccio, di fare finalmente della loroabitazione di rappresentanza il ritrat-to debordante delle loro passioni, l’e-spressione al limite del morboso delleloro sensibilità e dei loro eccessi. È perquesto che non si riesce a immaginarenessun temerario sbattersi con non-curanza su una delle due panchetteleopardate anni Venti, firmate Gusta-ve Miklos, valutate tra i due e i tre mi-lioni di euro, né urtare, anche per sba-glio, una specie di grande incastro dilegno dall’aspetto primitivo africano,che rispondendo al titolo di Portrait deMadame L.R., risulta essere una pre-ziosissima opera di Constantin Bran-cusi, valutata tra i quindici e i venti mi-lioni di euro.

Soprattutto è impensabile che — traquei tavolini zeppi di tesori di storden-te eclettismo, e le antiche statue roma-ne, e i cavalletti col nudo maschile di-pinto da Géricault, e le colonne per so-stenere la testa di Giano in bronzo at-tribuita alla scuola del Primaticcio, etutti quegli ibridi anni Trenta adoratisoprattutto dai raffinati arredatori ho-mo, come le poltrone pazze di Eilen

Gray datate 1917, e le lampade a stelofirmate da Eckart Muthesius, in quelfragile labirinto trasudante gusto, de-naro e malinconia — un bambino po-tesse correre allegramente senza faredanni irreparabili.

Accatastata con sapiente e implaca-bile grazia, di anno in anno, fino aquando la possibilità di scialare sfre-natamente si ridimensionò, una talevalanga di opere d’arte subì il destinodell’eccesso: che è quello di elidere lameraviglia di ciascuna meraviglia,confondendo i sempre più rari invita-ti di massimo rango, soprattutto mon-dano, e quindi adusi al “Rothschildstyle” diffuso nelle case del “monde”parigino, creando stanchezza, assue-fazione, forse anche sgomento. Per-ché nell’inimitabile, straordinaria pa-lazzina del 55, Rue de Babylone, nel VIIarrondissement, affacciata su un ma-gnifico giardino agitato dalle freneti-che percussioni di Mick Jagger allog-giato di fronte, abitava la bellezza piùstordente, rara e raffinata, venata daun insopprimibile languore gay: labellezza ma non la vita, neppure quel-la dei suoi proprietari, Yves Saint Lau-rent e Pierre Bergé, che uniti e poi se-parati ma sempre complici e vicini so-prattutto nell’amore per i loro capola-vori, finirono con legarsi indissolubil-mente con i pacs, le unioni civili con-sentite in Francia.

Al Grand Palais di Parigi, dal 23 al 25febbraio, i tesori della coppia sarannomessi all’asta da Christie’s e dalla casad’aste di Bergé: dal lotto numero 1, Pay-sage d’Italie vu par une lucarnedi EdgarDegas, valutato 300-400mila euro, al-l’ultimo lotto, numero 733, Dejeunerchinois en porcelaine de Sèvres,1839/1842, valutato 40-60mila euro. Cisaranno oltre alle preziosità, secondo igusti anche bruttissime, di Rue Baby-lone, anche quelle di Rue Bonaparte,dove Pierre Bergé abita dal 1992 (nel-l’appartamento dove era nato Monet)e del Chateau Gabriel in Normandia,follia onirica proustiana arredato dal-l’amico, un tempo bello come un che-rubino, Jacques Grange. Tutto verrà di-sperso, un pezzo alla volta, i Géricault ei Derain, i Leger e i De Chirico, i Matis-se e gli Ingres, la serie di grandi spec-chiere dei Lalanne e le due straordina-

rie teste settecentesche in bronzo di untopo e una lepre che ornavano la fonta-na zodiacale del palazzo d’estate del-l’imperatore Quianlong e che, essendostate rubate dall’esercito francese du-rante la seconda guerra dell’oppio nel1860, il governo della Cina oggi preten-de, invano, in restituzione. Se parteci-perà all’asta, dovrà prepararsi a sbor-sare almeno sessanta milioni di europer riaverle.

Nel momento in cui il battitore colsuo martello riuscirà a trovare un ac-quirente vuoi per Instruments de musi-que sur un guéridon di Picasso, valuta-to da venticinque a trenta milioni di eu-ro, che per un Important boite a por-trait de Louis XIV valutato da 200 a300mila euro, ognuno di questi ogget-ti — prigionieri per anni su tavolinitroppo affollati, su pareti troppo zep-pe, al punto che un collage di carta co-lorata di Matisse non aveva trovato po-sto se non sulla porta di una cameretta,e un pastello di Degas in un bagno tra ilgabinetto e il bidet — riprenderà il suocammino, si riapproprierà della pro-pria storia, riacquisterà la sua libertà, lasua esclusività, un rispettoso vuoto at-torno a sé che gli restituisca il suo valo-re di opera d’eccezione, in altre case,palazzi, dimore, musei, in Giapponecome in Italia, in Russia come in Cina,a Dubai (da dove era arrivata la richie-sta anonima di acquistare in bloccotutti i lotti) come negli Stati Uniti.

Nei tre giorni di esposizione prece-denti all’asta, che sarà l’evento mon-dano massimo in questi tempi di crisi,verranno minuziosamente ricostruitial Grand Palais l’immenso salone, lasala di musica, la biblioteca, gli am-bienti in cui Saint Laurent si aggiravasempre più stordito dai farmaci e dal-l’alcol, sempre più ansioso di solitudi-ne, ferito dalla depressione, dopo annidi celebrità, creatività, venerazione,piacere, ma anche di vita spericolata,dissipata, in un continuo viaggio agliinferi più torbidi e oscuri.

Regnava tra quelle meraviglie scin-tillanti un silenzio funebre, da cui a po-co a poco, soprattutto dopo la venditadella Maison alla finanziaria Senofi nel1993, con successive umiliazioni co-centi, Yves Saint Laurent si era ritirato.Prima dal lussureggiante giardino, poidai saloni del pianterreno, rifugiando-si senza più uscirne, come il suo ama-tissimo Proust, in camera da letto: adestra un disegno di Picasso, a sinistrauno schizzo di Matisse, sopra la testa-ta due crocefissi, vicino un tavolinoesattamente copiato, con gli stessi og-getti, da uno visto e amato nel palazzodi una delle sue tante eccentriche mu-se, Marie-Laure de Noailles, signora diun mondo ormai finito, fatto di raffi-natezza, nostalgie da ancient regime,distacco dalla realtà, frequentato daaristocratici, artisti, couturier, dameanziane, colte, ricchissime, e giovaniomosessuali belli e creativi.

Il letto a due piazze disegnato daJean-Michel Frank, dove il grandecouturier, ancora oggi il più copiato almondo, si è spento a settantuno anni,il primo giugno 2008, sarà battuto al-l’asta il 24 febbraio alle sei di sera, va-lutazione 30-50mila euro.

L’ultima collezione di re YvesNATALIA ASPESI

IL BUE E IL SARCOFAGOUn vaso a forma di bue d’argentoe oro con il marchio della fabbricatedesca di Hans Valentin Laminit(1614-1616); sotto, una coperturadi sarcofago antropomorfo egizio

(I secolo dopo Cristo)

IL RATTO DELLE SABINE E BRANCUSIIl Ratto di una Sabina in bronzorealizzato da Fernandino Tacca

nel XVII secolo;sotto, il Ritratto di Madame L.R.

scolpito da Costantin Brancusitra il 1914 e il 1917

DÉCO E ANTICHITÀIn alto, da sinistra, un vaso déco

di Jean Dunand realizzatoper l’Esposizione Universale

del 1925; un torso di atleta romano(I-II secolo) nell’appartamento

parigino di rue de Babylone

IN POSA CON IL SUO MATISSEIn alto, al centro, Yves SaintLaurent fotografato sottoLes coucous, tapis bleu et rose

di Henri Matisse; a destra,il salotto con una poltrona EileenGray e un altro vaso Dunand

Repubblica Nazionale

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Slurp. La goccia che scende malan-drina lungo la tazza, un tondino ri-masto sul fondo del polsonetto, ilgrumo rappreso intorno al cuc-chiaio di legno. Impossibile resiste-re: il dito scova, raccoglie, porta al-

la bocca, per la più infantile delle trasgressioni.Quel poco di crema sottratto al destino di avan-zo da gettar via riempie di allegria, apertura dicredito goloso per il dessert in arrivo.

Le creme sono così: si lasciano amare dagrandi e piccini, abbondanti nelle morbidissi-me forme che assumono all’interno di tazze etazzine, eppure mai in quantità adeguata. Im-possibile lasciarla a metà, finirla controvoglia.Per quanta ne servono, l’ultimo boccone si ac-compagna sempre a un piccolo dolore, comeun senso di perdita: lo stesso che induce — ap-punto — a passare il dito là dove cucchiai e cuc-chiaini non possono più nulla...

Certo, la parola, in sé, definisce poco. Il gre-co antico la associa a krinein, separare (dal lat-te), o alla radice kar, kra, ovvero scaldare, ar-dere (da cui il verbo cremare). Termini aridi,incapaci di restituire anche solo una gocciadella magia di quel provvidenziale bendidio,che mangiato a cucchiaiate o delicatamentesorbito, spalmato o usato per farcire, scaldatoo raffreddato, fa salire l’indice glicemico in mi-sura almeno pari a quanto migliora l’umore.

Le creme sono dolci, se non per definizione,sicuramente per comune sentire. Certo, lanuova cucina ha esteso il concetto a patate ecarote, zucche e zucchine, facendole correresul crinale del dolce-salato. Ma pasticciera echantilly, zabaione e ganache sono reginesenza rivali. Più che dolce o salato, a dividere èlo status termico: cotte o crude, questo è il di-

lemma. Generazioni di bambini più o menopallidi, inappetenti, convalescenti, o sempli-cemente golosi, hanno goduto di colazioni emerende a base di tuorli e bianchi d’uovo sbat-tuti con lo zucchero. Per i più grandi, la resu-mada (nome dialettale lombardo) prevede inaggiunta un sorso generoso di vino o caffè: uni-co addensante, il vigore con cui viene mossa lafrusta. Anche la sua evoluzione alcolica, lo za-baione, prescinde dai farinacei. In questo ca-so, la maggior cremosità deriva dal calore, do-sato con attenzione per evitare che l’uovo sistracci.

La creazione di creme dalla giusta densitàriesce decisamente più facile, quando la ricet-ta prevede l’uso di amidi — farina di grano te-nero, fecola, tapioca, maizena... — come nelcaso della pasticciera. I puristi storcono il nasoperché a volte nella crema resiste un retrogu-sto farinoso, i protagonisti della nuova cucinacontemporanea variano le ricette sostituendole farine con gli addensanti “rubati” all’indu-stria alimentare, come agar agare xantana.

Ma ciò che conta davvero è la seduzione del-la crema. Difficile trovare un cibo più scoper-tamente sexy con cui inventare amorosi giochida tavola, come testimoniano alcune scene-culto, da Sweet movie al nostrano Volere vola-re, dove la crema al cioccolato è il vestito che ri-veste la nudità delle protagoniste. Ipermoder-na, invece, la crema che una breve immersio-ne nell’azoto liquido trasforma in pralina dal-la sottile superficie croccante, a racchiudereun cuore scandalosamente tenero.

Se le vostre arti culinarie vi fan temere di nonessere all’altezza di una cena ad alto tasso ero-tico, studiate le pagine della nuovissima guidaRomantik Hotels & Restaurants. Troverete unelenco dettagliato di indirizzi e menù da unaparte all’altra d’Europa, perfetti per trascorre-re un San Valentino squisito, seducente e mol-to, molto cremoso.

i saporiBocconi dolci

Difficile trovare un cibopiù platealmente sexy,difficile tenerle fuoridalle tavole afrodisiacheche la vicinissimaricorrenzadi San Valentinotorna a proporre

LICIA GRANELLO

Creme

Mettil’erosnel piatto

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

L’appuntamentoDal 6 al 9 marzo al Centro

per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci

di Prato “Dolcemente Prato”,

mostra-mercato dedicata all’alta

pasticceria (www.dolcementeprato.it)

Tema della seconda edizione, la

colazione, con degustazioni guidate,

itinerari dolci, laboratori dove i migliori

pasticceri italiani realizzeranno torte,

biscotti, creme, dessert al cucchiaio

Repubblica Nazionale

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itinerariFederico Molinarigestiscecon la sorellaCristinail “Laboratoriodi resistenza

dolciaria”, nel cuore di Alba,dove ricette squisitee impegno socialevanno a braccettoTra le creazionipiù sfiziose,la meravigliosa cremaal barolo chinato

Nella città-madredi Slow Food,la tradizione pasticcieraruota intornoa un gruppo di artigiani,che hanno saputorivisitare le ricetted’antàn. Su tutti,spiccano le famiglie

Alciati e Boglione, alla guida di due locali-cultodella gastronomia langarola

DOVE DORMIREALISEA ECO GUEST HOUSEFrazione Pocapaglia Tel. 0172-473105Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREDA GUIDO (con camere)Via Fossano 19Tel. 0172-458422Chiuso domenica e lunedì, menù da 65 euro

DOVE COMPRAREBAR PASTICCERIA CONVERSOVia Vittorio Emanuele II 199Tel. 0172-413626

Bra (Cn)Nella cittadinadella provinciapistoiese resa celebredalla produzionedegli irresistibilibrigidini, la vicinanzacon la Chocolate Valleyha indotto i pasticcieria creare deliziose

variazioni, con la ganache di cioccolato colatasu torte e biscottini

DOVE DORMIREANTICO MASETTOPiazza Francesco Berni 11Tel. 0573-82704Camera doppia da 105 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE DELFINAVia della Chiesa 1, CarmignanoTel. 055-8718074Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREANTICA CAFFETTERIA SANDRO VEROVia Antonio Gramsci Tel. 0573-803795

Lamporecchio (Pt)

Speedy pizza e ghiacciolola mia cena romantica

LUCIANA LITTIZZETTO

SILVIA FUMAROLA

«Tutta questa mistica delle cenette roman-tiche non ce l’ho, devo avere problemi didigestione, il post prandiale mi crea son-

nolenza; dopo aver mangiato, tutto farei tranne chedei chupa dance, andrei a dormire».

Luciana Littizzetto neanche per San Valentinodiventa buona?

«Per carità, a me quelle cenette cosiddette “afro-disiache” non m’ispirano niente di sensuale, mapoi ’sta cosa dei cibi afrodisiaci mi sembra discuti-bile, e un po’ comica: prima erano afrodisiache leostriche, vabbè, poi il cioccolato. Ora è tutto afrodi-siaco, anche l’osso del prosciutto e il grasso della bi-stecca».

Avrà un ricordo romantico.«Ricordo una serata interessante del mio passa-

to da single, speedy pizza e ghiacciolo, poca roba.Secondo me per finire in bellezza bisogna stare leg-geri».

Quindi non ha mai festeggiato il 14 febbraio conun menù speciale, magari dolce.

«Faccio i muffin, le creme non tanto, qualche tor-ta. Mi piace cucinare e sono anche abbastanza bra-va ma a me piace il salato, datemi pepe, spezie, car-damomo, e vedrete che combino. Non sono unapatita dei dolci. Ricordo quando uscivo con miamadre, che è golosissima: “Luciana, che dici cicompriamo un gelato?”. “No, io non lo voglio”. Pas-seggiavamo un po’ e ci riprovava, io niente. Però michiedeva dei festeggiamenti di San Valentino... Ec-co, quando ci sono questi festeggiamenti, vorrei es-sere festeggiata per sottrazione».

Come per sottrazione?«Non voglio fiori, ma opere di bene. Non mi ag-

giungere pensieri ma toglimene qualcuno, allegge-riscimi la vita. Toglimi una delle mille cose che fac-cio per te. Un regalo che mi piacerebbe tantissimoche mi facesse il mio compagno è portare l’acqua acasa — ma tutte e sei le bottiglie — che c’è quella

specie di maniglino colloso che in genere si staccae ti stacca le falangi. E tu devi portare su la confe-zione coi denti... Poi sono per l’abolizione delle do-mande casalinghe».

Quali?«Per San Valentino festeggiamo abolendo qual-

cuna delle mille domande su dove stanno le cose incasa: schiaccianoci, aspirina, martello, un uomonon si ricorda neanche dove tiene lo zucchero. Pos-sibile? Io mi sento chiedere: “Luciana, dov’è il pro-sciutto?”. “E dove vuoi che sia? Nella scarpiera”».

Non dica così. Forse, quella del 14 febbraio, èsemplicemente una festa che andrebbe abolita.

«Non so chi lo diceva, forse Pippi Calzelunghe,che la cosa più bella è festeggiare “i non complean-ni” e quindi i “non san valentini”. Però, no, non lovorrei abolire».

Vede che ha una vena romantica anche lei. «Quand’ero single mi davo più da fare, apparec-

chiavo, decoravo, qualcosa organizzavo. Adesso,dopo tanti anni di frequentazione ti viene meno be-ne, ci sentiamo più ridicoli. E devo confessare cheio non ho quelle doti lì della poesia e del romantici-smo. Rovino un po’ tutto».

Esempi recenti?«Qualche giorno fa sono arrivata da Roma tardi,

Davide e il bambino per festeggiarmi un po’ aveva-no preparato la tavola, e avevano messo su anche lecandele, ma brutte, di un brutto... Mi sono seduta eho detto: “Ragazzi, non sono mica morta”».

Ma è una vera belva.«Mi sembrava una roba funebre. Però è vero, con

l’aria che tira un po’ di dolcezza ci vuole. Alla finenon sono così negativa su San Valentino, neanchesu Halloween e sull’Otto marzo. Di questi tempi coldolore che c’è in circolazione, le notizie che arriva-no, la gravità della crisi che ti viene l’ansia, i balsa-mi di questi piccoli festeggiamenti sono squarciche fanno venir fuori la luce dal nero».

PasticcieraLa crema delle creme è base di infinite

ricette. Per farla, tuorli e zucchero

montati a neve, poca farina o amido

di mais, latte bollente profumato

con bacche di vaniglia o scorza

di limone, e dieci minuti

di uso vigoroso della frusta

perché non si formino grumi

ChantillyCreata a fine Seicento da François

Vatel per servire le fragoline

a un banchetto al castello di Chantilly,

è freschissima panna montata

con zucchero a velo vanigliato

In Italia, la Chantilly coincide

con la diplomatica, fatta miscelandola

con pari dose di pasticciera

Inglese Nella versione “elegante”

della pasticciera, solo uova, zucchero

e latte, con la lecitina dei tuorli

ad addensare il composto,

a patto di tenere la temperatura

sotto gli ottanta gradi. Una noce

di burro finale lucida la superficie

e impedisce che si formino veli

MascarponeSeducente e peccaminosa,

la crema che assomma due memorie

golose d’infanzia: l’uovo sbattuto

e un formaggio in tutto simile

alla panna. Per renderla più soffice,

albumi a neve da unire alla fine

Accompagna frutta, panettone,

biscottini e tiramisù

Zabaione Montati i tuorli con lo zucchero,

si diluiscono con poco alcol

– dal leggerissimo moscato d’Asti

al tosto marsala – per poi scaldarli

a bagnomaria fino a raggiungere

la giusta cremosità. Coi bianchi

si preparano le lingue di gatto,

complemento perfetto

BruléeI rossi montati con lo zucchero

vengono stemperati con la panna

bollente, profumata con i semi

della bacca di vaniglia e la scorza

di limone. Cottura a bagnomaria,

riposo in frigo e rapido passaggio

sotto il grill dopo aver cosparso

la superficie di zucchero

GanacheLa “crema idiota” (francese antico)

è un mix setoso di crema di latte

bollente e cioccolato in scaglie

La proporzione varia a seconda

della densità richiesta

Si può renderla spumosa

montandola con la frusta

e aromatizzarla con liquore o caffè

CaffèZucchero e rossi sbattuti fino

a diventare quasi bianchi,

poi – a filo – una tazza di caffè ristretto

e caldo, addensando

a bagnomaria. Una volta raffreddata,

panna montata non dolce

aggiunta lentamente (bianchi

montati a neve nella versione light)

La cittadina baroccaoggi brilla ancheper il genio dei fratelliAssenza. Nella loropasticceria,cura maniacaledelle materie primee ricette lievi dannonuova vita a dolci

ipertradizionali come cannoli e cassate, dove trionfauna leggiadra crema di ricotta

DOVE DORMIREAL CASALE DEI MORIFrazione MarinaTel. 0931-812909Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREBAGLIERI DEL CROCIFISSOVia Principe Umberto 48Tel. 0931-571151Chiuso mercoledì

DOVE COMPRAREPASTICCERIA CAFFÈ SICILIACorso Vittorio Emanuele 125Tel. 0931-835013

Noto (Sr)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

Repubblica Nazionale

Page 13: Nuove Tribù - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/08022009.pdfIo mi vesto come mi pare, protesti. Poi però colto dal dub-bio ti alzi, vai allo specchio, ti osservi

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009

l’incontroWalk of Fame

MONTREAL

Aottantatré anni, appenatrenta di meno della sto-ria del cinema, è una ma-tassa di flashback, so-

prattutto d’area proibita, dietro lequinte. I primi che sbroglia sono dueaneddoti da leggenda, entrambi su Ma-rilyn Monroe, di cui non è stato solol’invidiato partner in A qualcuno piacecaldonel ‘59, ma, dieci anni prima, l’an-cor più invidiato compagno, lui venti-quattro anni, lei ventuno, lui agli inizi dicarriera, lei ancora sconosciuta, ma giàunica, generosa Marilyn. «Siamo statiinsieme sei-sette mesi, poi ciascuno èandato per la sua strada», ricorda TonyCurtis: «Era una ragazza stupenda, neero innamorato. Un momento magicodella mia vita. È stato bellissimo ancherivederci, dieci anni dopo, e recitare in-sieme. Ma Marilyn era già diventataun’altra, piena di difficoltà nel suo la-voro, priva di autocontrollo. Anche in Aqualcuno piace caldo, tendeva ormai aportare sé stessa nei suoi personaggi. Enella vita privata aveva la rara capacitàdi circondarsi di persone sbagliate, dal-l’influenza nefasta. Ero lontano da leiquando è morta. Sono sicuro che è sta-to un suicidio, non un omicidio: l’ulti-mo gesto del suo malessere, del suo maldi vivere. Nessuno ha ucciso Marilyn, èstata lei a farla finita».

Con la malinconia e la pena per unperiodo in cui la Monroe era quotidia-namente a rischio licenziamento per lecostanti amnesie e i cosmici ritardi, rie-mergono gli aneddoti, entrambi gioio-si, legati al set del film di Billy Wilder. Ilprimo riguarda la celebre sequenza deldivano, in cui Curtis, in abiti femminili

nel ruolo di Josephine, deve abbraccia-re con innocenza la prorompente Zuc-chero Kandiski. È vero che Marilyn ri-corse a ogni malizia per eccitarla e farcosì spuntare sotto la gonna un’erezio-ne? «Verissimo! Era il suo modo di ria-versi dalle frustrazioni. E, forse, di met-tere alla prova quelle degli altri». L’altravoce che reclama conferma è la “sfidadel centimetro” tra Curtis e Marilyn, almomento della confezione degli abiti:«Tutto vero. Dopo aver inutilmentetentato di adattarmi abiti “d’archivio”,di Debbie Reynolds o Loretta Young, ilsarto della Monroe si rassegnò al vesti-to su misura, prendendomi ascelle,fianchi, gambe. Passando subito doponel camerino di Marilyn, alla verificadel lato B sbottò: “Ehi, ma qui Tony tibatte!”. E lei, aprendosi di colpo la ca-micetta: “Vediamo se mi batte anchequi!”». L’attore ride di gusto, mimandola scena: ritrova di colpo il volto birbo-ne dei film della giovinezza, ora schiac-ciato sotto un cappellone texano checela la calvizie, spesso immusonito,quasi sprezzante dei clic a mitraglia,che spiano l’icona invecchiata.

Anche le differenze tra i suoi più illu-stri colleghi d’epoca si riducono, nei ri-cordi dell’attore, a una questione dicentimetri. Nel documentario Jill &Tony Curtis Story sull’“ospizio equino”da lui creato e gestito con la moglie a LasVegas, presentato a Montreal al Festi-val des Films du Monde dove ha ricevu-to il Grand Prix des Amériques alla car-riera, Curtis si fa riprendere mentrestriglia un cavallo. Non proprio in mo-do ineccepibile (viene in mente l’im-probabile pizza manipolata da SophiaLoren in L’oro di Napoli), tanto che luistesso ammette: «La mia spazzola fun-zionerebbe meglio nel lavaggio auto-matico delle automobili». Ma una voltafinito il lavoro («ognuno ha bisognod’un cavallo», sentenzia con ammiccoshakespeariano), si fa inquadrare ac-canto al muso del quadrupede e co-mincia a elencare: «John Wayne gli ar-rivava qui, Errol Flynn fin qui, comeme, Jack Lemmon più sotto», abbas-sando di colpo la mano con malcelatasoddisfazione. Il pragmatismo dellamisura — gerarchia del centimetro orecord di durata — è il suo criterio di va-lutazione anche nell’altra principaleoccupazione della sua vita, insieme alcinema: le donne. «Dopo quattro gior-ni passati con una nuova compagna,mi sento ingabbiato in anni di matri-monio. Se si arriva a una settimana, mivien da correre da un avvocato a chie-dere il divorzio».

Tanti film, altrettante donne. Cento-duecento, i film, in oltre mezzo secolo,non ricorda nemmeno lui (ma «almenocinquanta son da dimenticare»). Ledonne? Molte di più. Nessuna dimenti-cata. Di cui cinque divenute sue moglie a lunga tenuta, dati i presupposti.L’ultima è Jill Vandenberg, trentasetteanni, virago extra-blonde che l’accom-pagna, un po’ crocerossina, un po’ de-

ammirata, oggi, è la figlia Jamie Lee,cinquant’anni il 22 novembre scorso,suo clone al femminile nella bellezza(The Body era il suo nomignolovent’anni fa, ai tempi di Un pesce di no-me Wanda) e nella predisposizione co-mica: «È nata da me e Janet Leigh. Oggivive a Santa Monica col marito, l’atto-re-regista Christopher Guest, e i due fi-gli. Quando ho divorziato, Jamie eramolto giovane. Fin da piccola, ne avevoavvertito le capacità: era attentissima atutto, anche se aveva un’espressioneassente. Già da bambina le piacevascherzare, raccontare barzellette. Manon ho mai pensato, e non ne sarei sta-to contento, che prima o poi diventas-se attrice. È successo quando aveva se-dici anni. Era una ragazza bellissima.Mi sono affrettato a metterla in guardiadalle trappole, non volevo che passas-se attraverso gli innumerevoli “rischidel mestiere”. Parlo per esperienza...».Ma non tutti gli attori sono pericolosicome lei. «Io non sono mai stato un pe-ricolo per le donne. Diciamo che siamosempre stati di reciproca utilità. Tuttele volte in cui ero disilluso, frustrato,amareggiato, le donne mi tenevanolontano dallo sconforto, mi aiutavano anon cadere nella disperazione. Le don-ne son sempre state i miei più efficaciantidepressivi».

Nella sua vita declinata al femminile,non c’è mai stata una complicità ma-schile? «Forse Stanley Kubrick, di cuison diventato grande amico sul set diSpartacus. Ero stato chiamato per unpaio di pose, vi sono rimasto nove me-si, divertendomi come un matto conLaurence Olivier: bagni in vasche rega-li, insaponandoci a vicenda la schie-na». E Kubrick? «Siamo tutti e due cre-sciuti a New York. Una volta che sei vis-suto a New York, puoi affrontare ilmondo come vuoi tu. È il caso di Ku-brick. Aveva uno sguardo determinato,volitivo. Se la realtà non era come lui sel’aspettava, la cambiava per renderlacome l’aveva pensata. L’ho conosciutogiovane, quand’era fotoreporter e se neandava in giro con una piccola macchi-na fotografica: in ciascuno dei suoiscatti c’era già il suo cinema», s’entu-siasma Curtis evocando il pungente re-portage d’esordio sullo zoo, dove sonogli animali a guardare noi, esposto perla prima volta in Italia una quindicinad’anni fa al Festival di Taormina.

Anche la New York di Curtis è stata,quand’era bambino, la gabbia d’unozoo, dov’era lui a guardare noi, dalghetto del Bronx, alle soglie della Gran-de Depressione: prima, la miseria inuna famiglia d’immigrati ungheresi,poi l’orfanotrofio, infine la fuga, nellamarina e poi in teatro, il ciuffo spaval-do e conquistatore alla Elvis Presley.Dopo, siamo stati noi a guardare lui. Inun saliscendi di film, alcuni da cancel-lare subito, altri indimenticabili, comeA qualcuno piace caldo, La parete difango, 1958, di Stanley Kramer, sua uni-ca nomination all’Oscar, o Lo strango-

vota, ovunque. Si son conosciuti sedicianni fa, lei aveva ventuno anni e lui ses-santasette: lei l’ha convinto a metterein piedi in Nevada un “pensionato” percavalli, strappati al mattatoio (cui sondestinati negli Usa, ogni anno, cento-mila esemplari). Insieme, oggi, sonouna coppia di passerottini, tutta bacet-ti e complimenti a specchio, con qua-rantasei anni — di nuovo il centimetro— di differenza. «Jill mi ha tratto in sal-vo dal vortice delle droghe e dell’alcol,cui mi ero da tempo abbandonato. L’hoincontrata quando ne stavo uscendo,nel momento più difficile, in cui dove-vo ritrovare l’equilibrio. Jill mi ha salva-to la vita, più di una volta. E continua aprendersi cura di me — sottolinea l’at-tore con sorriso malandrino — come lofa con i suoi cavalli... Con tutto il rispet-to per le altre che mi sono state accan-to, devo dire che con Jill tutto mi appa-re differente e divertente. È bella, per-spicace: Marilyn era così. Poi, purtrop-po, è cambiata».

Di donne firmate Tony Curtis, la più

latore di Boston, 1968, di Richard Flei-scher: «Qui mi aspettavo la statuetta. Einvece, niente. È l’unica ombra dellamia vita», confessa con smorfia amara.Gli alti e bassi della sua carriera saran-no presto in vetrina, nell’autobiografiaAmerican Prince, in uscita negli Usa:«C’è dentro tutto, anche quel che non sisapeva. La mia infanzia, quando a ottoanni i genitori mi hanno messo in orfa-notrofio col mio fratellino Julius, finitosotto un camion quattro anni dopo. Finda piccolo mi son preparato al peggio.Non sono mai stato capace di affronta-re il meglio, i successi, la fortuna. Ognivolta che sono arrivato al top, invaria-bilmente ho trovato il modo di ripreci-pitare in basso: anche con l’alcol e ladroga. Mi sono sottoposto a una dolo-rosa terapia per rivivere le ore terribilidell’infanzia, scoprendo quanto dete-stassi mia madre, perché mi picchiava,perché non mi amava, perché ci avevabuttati in orfanotrofio. Lo psicoanali-sta mi ha strizzato ben bene, mettendoin relazione carenze affettive e inguari-bile dipendenza dall’universo femmi-nile». L’uomo che amava le donne, co-me Truffaut (uscito lui pure da un’in-fanzia “senza” madre).

Oggi assicura di aver trovato l’equili-brio: oltre al rapporto stabile con Jill, lapratica costante di un hobby, la pittura.Nel suo atelier, la mano sicura, dipingeogni giorno elementari teste di cavalloe volti d’attori (tante Marilyn, riprese,alla Andy Warhol, da fotografie: «Lei sì,era un’opera d’arte»). Quadri sempli-ciotti, in mostra a dieci-ventimila dol-lari alla Galérie MX di Montréal. La pit-tura è il surrogato d’un cinema che nonla chiama più? «Mi chiamano, ma perparti di vecchietto. E io non mi sentovecchio. Mi proponessero un ruolo divecchietta, allora sì!».

Marilyn era stupenda,un momento magicodella mia vitaÈ stato bellissimorivederci, dieci annidopo, e recitareinsieme. Ma era giàdiventata un’altra

Centinaia di film, “moltida dimenticare”, dice. Centinaiadi donne, “nessuna da dimenticare”Perché l’attore che ha avuto tuttoe ha lavorato con Kubrick e Wilder

ha da sempre bisognodi loro: “Sono statei miei antidepressivipiù efficaci ”. Colpadi un’infanzia terribile,un orfanotrofio,un fratellino mortoe una madre “che non mi

ha mai amato”.Per questo, solo ora,con la nuova compagna, ha trovatoil modo di non “riprecipitare in basso”

MARIO SERENELLINI

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Tony Curtis

Repubblica Nazionale