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5 Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino STORIA Ricordando Amendola Antonio Ghirelli 7 Settembre/ottobre 2007 – Anno VIII DA PAG. 29 Euronote Andrea Pierucci 45 Liberiamoci del Mezzogiorno? Massimo Lo Cicero Nelle primarie per la costi - tuente del partito democratico l’afflusso dei votanti è stato massiccio nel Mezzogiorno; in Campania hanno votato tre volte gli elettori che hanno partecipato al voto in Piemonte mentre le due regioni hanno entrambe una popolazione nell’ordine dei cinque milioni di abitanti. Eppure l’assemblea costituente si è riunita a Milano perché il Partito Democratico, che prende i voti del Sud, ha il problema di ricostruire il feeling reciproco tra il ceto politico e la società della parte ricca del paese: la regione padania. Ed, infatti, nessuno dei candidati alla leadership, ma neanche il leader designato dalle primarie ed acclamato nella co- stituente, Walter Veltroni, hanno speso una parola sulle condizioni attuali e le scelte necessarie per ribaltarle nell’area povera del paese. Tra la questione meridio- nale e l’iniziativa politica non esiste oggi alcuna relazione. Che non sia quella dei luoghi comuni proposti dalla grande stampa di opinione e non del tutto infondati. Le primarie, in Campania,… a pag 11 Il Consiglio europeo del 18 e 19 ottobre ha fi- nalmente approvato il nuovo progetto dei trattati sull’Unione europea e sul suo funzionamento. Bene. Forse il tormentone post costituzione è finito (se tutte le ratifiche avranno, come si spera, luogo prima del pri- mo gennaio 2009). Non commento per ora il progetto sul merito. Mi limiterò a… a pag 3 DA PAG. 17 Le Zone Franche Urbane Eirene Sbriziolo Paola De Vivo Lo stato dell’arte a Napoli Andrea Geremicca ne discute con RobeRto De Simone e RobeRta CaRlotto EUROPA La politica commerciale europea Marina Santarelli 26 MEMORIA Meina: la più dimenticata delle stragi naziste Almerico Realfonzo 43 Articoli di SeRgio lambiaSe e luCiana libeRo NUOVI PARAMETRI PER IL DIBATTITO UNIONE EUROPEA. DALLA CRISI COSTITUZIONALE AL TRATTATO Andrea Pierucci

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Rivista Mezzogiorno Europa

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Page 1: Numero 5/2007

5Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.

Spedizione in abbonamento postale 70%Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

STORIA

Ricordando AmendolaAntonio Ghirelli� 7

Sette

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ottob

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07 –

Ann

o VII

I

DA pAg. 29

Euronote Andrea Pierucci 45

Liberiamoci del Mezzogiorno?

Massimo Lo Cicero

Nelle primarie per la costi-tuente del partito democratico l’afflusso dei votanti è stato massiccio nel Mezzogiorno; in Campania hanno votato tre volte gli elettori che hanno partecipato al voto in Piemonte mentre le due regioni hanno entrambe una popolazione nell’ordine dei cinque milioni di abitanti. Eppure l’assemblea costituente si è riunita a Milano perché il Partito Democratico, che prende i voti del Sud, ha il problema di ricostruire il feeling reciproco tra il ceto politico e la società della parte ricca del paese: la regione padania. Ed, infatti, nessuno dei candidati alla leadership, ma neanche il leader designato dalle primarie ed acclamato nella co-stituente, Walter Veltroni, hanno speso una parola sulle condizioni attuali e le scelte necessarie per ribaltarle nell’area povera del paese. Tra la questione meridio-nale e l’iniziativa politica non esiste oggi alcuna relazione. Che non sia quella dei luoghi comuni proposti dalla grande stampa di opinione e non del tutto infondati. Le primarie, in Campania,… a pag 11

Il Consiglio europeo del 18 e 19 ottobre ha fi-nalmente approvato il nuovo progetto dei

trattati sull’Unione europea e sul suo funzionamento. Bene. Forse

il tormentone post costituzione è finito (se tutte le ratifiche avranno, come si spera, luogo prima del pri-mo gennaio 2009). Non commento per ora il progetto sul merito. Mi limiterò a… a pag 3

DA pAg. 17

Le ZoneFrancheUrbane

Eirene SbrizioloPaola De Vivo

Lo statodell’artea NapoliAndrea Geremicca

ne discute conRobeRto De Simonee RobeRta CaRlotto

euROpA

La politica commerciale europeaMarina Santarelli� 26

memORIA

Meina: la più dimenticata delle stragi nazisteAlmerico Realfonzo� 43

Articoli diSeRgio lambiaSe

e luCiana libeRo

NUOVI PARAMETRI PER IL DIBATTITO

UNIoNE EURoPEA. DALLA CRISI CoSTITUzIoNALE AL TRATTATo

Andrea Pierucci

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� a pag 3

… segnalare che vi sono parec-chie novità importanti e positive, ma che, al tempo stesso, il testo è davvero complicato; la sua let-tura è solo per esperti. L’adozione del progetto ci consente di fare qualche riflessione di prospettiva. Era tempo, dopo le discussioni apocalittiche che hanno seguito la crisi costituzionale.

Ho, infatti, l’impressione che l’analisi della crisi costituzionale europea si sia svolta e si stia svol-gendo al livello politico e teorico in maniera alquanto conservatrice. Per essere più precisi, non credo che abbiamo davvero assunto nell’analisi e nella pratica politica tutte le variabili nuove del sistema europeo. Dubito che sia possibile farne ulteriormente a meno. Vorrei fare a questo proposito qualche considerazione.

PoLITICAV. CRISI

La prima constatazione riguar-da il fatto che la crisi non si è ma-nifestata nei comportamenti politici concreti dell’Unione, ma piuttosto nelle riflessioni e nei dibattiti. Più precisamente, l’Unione ha svolto o continuato a svolgere una serie di politiche, più o meno come se non fosse capitato nulla. Giusto in termini fattuali, ricorderò l’interven-to in Libano, propriamente deciso dalle istanze europee, il lancio della politica energetica e la sfida per quel che riguarda i cambiamenti climatici lanciata con forza dalla Commissione, il raggiungimento di un accordo sulle prospettive finanziarie, la riforma o l’avvio della riforma della PAC, con il rilancio del dibattito sull’opportunità di dedicare la metà del bilancio alle spese agricole e così via. In so-

stanza, possiamo costatare che il dibattito costituzionale, o istituzio-nale, come aveva voluto chiamarlo nell’81 Spinelli, è stato svolto in modo separato dal dibattito di politica interna e di politica estera. Anzi, è piuttosto l’azione politica ad aver condizionato il dibattito istituzionale, poiché nel nuovo progetto di trattato (mini, maxi o come si vuole) vi sono disposizioni innovative proprio in materie quali l’energia e il cambiamento clima-tico, oggetto, appunto dell’azione politica che si è sviluppata dopo i no referendari; questo, peraltro

permette di svolgere politiche for-temente desiderate dal Consiglio europeo, le cui basi giuridiche o le cui procedure sono chiaramente inadatte. Non è un fenomeno facile da analizzare. Eppure le cause della crisi non si ritrovano in capricci dell’una o dell’altra cancelleria – il pane quotidiano dell’Europa – ma in due referendum che hanno messo al tappeto la costituzione e l’iniziativa politica contigua. Imma-giniamoci cosa succederebbe in un paese come l’Italia (ma credo che la cosa sarebbe simile dappertutto) se un progetto di riforma costitu-

zionale sponsorizzato da tutte le principali forze politiche di destra e di sinistra fosse solennemente respinto dai cittadini. Non credo che l’attività di governo e l’attività legislativa potrebbero proseguire. È possibile, a mio parere indicare due chiavi di lettura di questo fatto, salvo a voler parlare di insensibilità delle forze politiche, dei governi e delle istituzioni.

La prima chiave di lettura con-cerne il fatto che alcune materie sono diventate europee per neces-sità, nel senso che possono essere trattate solo al livello europeo e non al livello nazionale; molte di esse riguardano ormai la politica estera (Libano, energia). Questo imperativo travalica la volontà dei soggetti costituenti, “costretti” a risolvere insieme le questioni poli-tiche in questi settori, a prescindere dalle proprie riflessioni sul futuro dell’Europa. Insomma, mi par di capire che accanto alla tradizionale classificazione delle competenze in esclusive e concorrenti, vi sia una categoria di competenze “necessarie”; oserei se fosse lecito (e non lo è) parlare di competenze “naturali”!

La seconda chiave di lettura è più propriamente istituzionale. Le istituzioni europee, al di là di tutte le possibili e giuste critiche e diatribe, sono forti. Questa forza è garantita da due elementi.

Il primo è la relativa stabilità del sistema istituzionale. In Italia, un articolo di giornale un po’ feroce e documentato può creare una crisi di governo e bloccare i processi decisionali per lungo tempo. Nel sistema europeo que-sta possibilità non esiste: salvo un vero cataclisma, le istituzioni restano comunque in carica cin-que anni. Questo fatto permette di accusare il sistema comunitario di burocratismo e lontananza dalla

AndreA

Pierucci

LA SoLUzIoNEDI UNA DoPPIA EURoPA,

DI UNA EURoPA “A DUE VELoCITà”, PoTRà FoRSE RIVELARSI NECESSARIA, MA NoN è CERTo AUSPICAbILE,

NoN è UN gRANDE SUCCESSo DELL’EURoPA FEDERALISTA

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europa

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�gente. Se ne dà dunque un giudizio frequentemente negativo. Credo che sarebbe opportuno riaprire il dibattito e vedere se, per caso, questa stabilità non sia un dono prezioso in una società nella quale ogni stormir di fronda provoca tragedie (a volte tragicommedie) politiche. In altri termini, mi chiedo se, per caso, la stabilità politica dell’Europa istituzionale non sia una garanzia rispetto alla volatilità delle politiche nazionali. Si badi, se accettassimo una tale affermazione le conseguenze non sarebbero marginali. In primo luogo, il sistema istituzionale nazionale e quello europeo risulterebbero assoluta-mente incastrati l’uno nell’altro, in un nesso inscindibile e con funzio-nalità precise che si ripercuotono nei due sistemi. Non si tratta di una riflessione senza qualche base nella realtà. Da un po’ di tempo, vi è la tendenza a stabilire in ma-niera sempre più approfondita un rapporto fra istituzioni dell’Unione ed istituzioni parlamentari na-zionali, superando lo scetticismo reciproco ed instaurando rela-zioni politiche permanenti e, a volte, sanamente conflittuali. Mi riferisco alla relazione Parlamento europeo – Parlamenti nazionali, a quella fra i Parlamenti nazionali e la Commissione europea ed alle relazioni Commissione – autorità regionali, sia pure, quest’ultima, spesso ostacolata dai governi. Per altro verso, con 27 o magari 30 Stati membri, un elemento di stabilità è condizione essenziale dell’esisten-za dell’Unione. Nel corso di una legislatura del Parlamento europeo (e, dunque, della Commissione) vi sarà un ricambio elettorale di tutti i governi degli Stati membri, con una media annua di 5-6 governi, senza contare le eventuali crisi in-termedie. In particolare, una delle istituzioni decisive, il Consiglio ha

dunque una stabilità teorica media di un paio di mesi; se il resto del sistema non fosse stabile, non metterebbe conto di parlare di costruzione europea o di sistema istituzionale.

Il secondo elemento che spiega questa forza è la continuità del si-stema europeo. Nonostante il cam-biamento permanente dei governi e dei Parlamenti nazionali, il sistema istituzionale europeo ha una grande continuità nelle sue politiche, tanto comunitarie, quanto intergoverna-tive. I cambiamenti corrispondono a cambiamenti politici radicali, che normalmente si verificano piuttosto sul lungo periodo. Paradossalmen-te, due criticatissime anomalie ne sono all’origine. La prima riguarda il Consiglio; quest’istituzione prende generalmente le sue decisioni per consenso, sia che i Trattati preve-dano il voto a maggioranza, sia che conservino l’unanimità. Una volta, dunque stabilita una dire-zione non è cosa politicamente e tecnicamente facile cambiare rotta. In qualche modo è una garanzia di razionalità del sistema: quando si fa una scelta importante si sa che tornare indietro è estremamente difficile. Intendiamoci, la mia non è un’esaltazione dell’unanimità, strumento tecnicamente e politi-camente obsoleto e che fa ostacolo a qualsiasi visione, reso ancor più inefficace proprio dal continuo cambiamento dei governi che com-pongono il Consiglio. La seconda è il concubinato permanete sul piano legislativo e politico delle principali forze politiche europee in seno al Parlamento. Effettivamente non c’è decisione importante che non sia presa, al minimo con l’accordo fra socialisti e popolari (fra questi vi sono anche dei conservatori, come per esempio i britannici o gli italiani Forza Italia) e, quasi sempre, insieme ai liberali. Questa è la

medesima sindrome del Consiglio, anche se tecnicamente si presenta com’è ovvio in forma diversa. Specialmente su alcune materie, si può parlare (teoricamente è quasi una bestemmia) di una politica del Parlamento che si conferma su più legislature. Questo si riferisce, per esempio, alle politiche istituzionali, a quelle relative alla libera circola-zione ed al mercato interno, per molti versi all’ambiente ed ai di-ritti e, più recentemente, ad alcuni aspetti della politica internazionale. È gioco facile per la Commissione, anch’essa a durata quinquennale, con un rischio di sfiducia parla-mentare modestissimo, presentare e promuovere in qualsiasi circo-stanza le proprie proposte presso il Consiglio ed il Parlamento, i cui orientamenti sono stabili, non in-taccabili da una crisi, come i recenti avvenimenti hanno provato.

UNA DEboLEzzA CoNDIVISAC’è un secondo aspetto che

mi sembra molto importante per spiegarci le ragioni della crisi (ma la lista sarebbe estremamente lunga e talora piuttosto di “propaganda”) e, soprattutto il suo sviluppo. Mi sem-bra che la “crisi” sia in parte dovuta alla debolezza del sistema, tanto al livello europeo, quanto al livello nazionale. Al livello europeo, la Commissione paga ancora la crisi Santer, nonostante il quinquennio Prodi e gli ormai tre anni di Barro-so. In particolare, paga l’enorme pressione seguita agli scandali del 1998-99 (le “ruberie”, in tutto e per tutto, non hanno raggiunto, in Euro, il milione e, per la più parte si sono rivelati poi non veri, ivi

compresi i “crimini” della Signora Cresson, sempre assolta dai giudici belgi che avevano giurisdizione sulla questione). L’apertura della Commissione Barroso col caso Buttiglione ha inferto un altro colpo alla Commissione stessa. In effetti, la Commissione è stata capace di partecipare alla con-venzione costituzionale con una certa forza, ma poi si è dovuta auto escludere dall’azione legata alle ratifiche. D’altra parte, la Commissione, peraltro stabile e forte, è figlia di nessuno poiché, pur essendo l’oggetto di un voto parlamentare di approvazione e di una decisione del Consiglio, non ha una sua maggioranza. Questa situazione era compensa-ta dal prestigio dell’istituzione e dalla sua capacità di fare proposte consensuali e mediazioni. Proprio la sua crisi del ’99, ha ridotto radi-calmente il credito disponibile. In parte, tuttavia, questa debolezza è stata compensata dalla “neces-sità” di quest’istituzione; questa necessità si è rivelata in tutta la sua pienezza sul dossier ener-gia e cambiamenti climatici, nel quale la Commissione – ed essa sola – ha potuto avere un ruolo di proposta politica, prim’ancora che di proposta legislativa. D’altra parte, lo stesso Parlamento, fuci-na incredibile d’idee nel passato è diventato un “leggificio”, non tanto perché faccia troppe leggi, ma perché tutto il suo operato è calcato sulla procedura legislativa. Difficilmente in questo periodo il Parlamento europeo è capace di lanciare grandi iniziative e rincorre le proposte della Commissione (si veda la creazione della commissio-ne parlamentare sui cambiamenti climatici) oppure fa il Grande Inquisitore (ruolo peraltro impor-tante). La sua forza, un notevole potere legislativo, è anche la sua

dalla prima

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�debolezza. D’altra parte, lo stesso Spinelli, in una delle sue riflessioni sull’Atto Unico aveva lucidamente segnalato il rischio che il Parlamen-to europeo si facesse “affogare” da un’attività legislativa spesso minore, che lo avrebbe allontanato dai grandi temi politici.

Ma questa debolezza istituzio-nale e politica del sistema europeo è “gioiosamente” condivisa dagli Stati membri, molti dei quali hanno presentato nel periodo delle ratifi-che della Costituzione e presentano tuttora una debolezza di governi o di sistemi politici notevoli. Si pensi alla Francia, che con la pre-sidenza Chirac è scesa ai minimi storici (l’esempio più clamoroso è la perdita dei giochi olimpici). Si pensi all’improbabile politica del cancelliere Schroeder, la cui “logi-ca” è culminata nella decisione di fare, dopo la fine del suo mandato (certamente!), il consigliere di Putin in materia energetica, proprio un settore di negoziato difficile fra Europa e Russia. Si pensi all’Italia (un pensiero riconoscente, ma anche triste!). Si pensi all’Olanda, che ha scoperto con sorpresa le contraddizioni etniche e religiose. Si pensi alla Gran Bretagna di Blair, indebolito da una politica medio-rientale non condivisa da gran parte del suo stesso partito.

UN DIRETToRIo

NoN CI SALVERà

Congiuntamente, queste de-bolezze hanno creato un quadro davvero inquietante, che non permette di pensare a delle scor-ciatoie per risolvere il problema. Si badi, non si tratta di un problema

istituzionale dell’Unione europea, ma di un drammatico problema anche e soprattutto degli Stati: una scarsa capacità dei governi (anche nel contesto dell’alternanza) di esprimere una politica credibile e di rispondere alle inquietudi-ni dei cittadini. Il rilancio della costruzione europea – della sua “costituzione” – passa dunque per un rafforzamento delle istituzioni e degli Stati membri. Questo raffor-zamento è indubbiamente in corso: la Germania e la Francia hanno ritrovato governi che governano (questo non vuol dire che io sia d’accordo con l’uno o l’altro, ma bisogna riconoscere che i livelli di governo in questi due paesi si sono accresciuti radicalmente). L’Italia, se non altro, ha un gover-no non antieuropeo, anche se un po’ distratto in alcuni settori – per esempio la composizione del Par-lamento europeo! e anche se, dopo l’intervento in Libano aspettiamo con pazienza qualche altra inizia-tiva. La Spagna, senza far miracoli ha, perlomeno, superato la crisi della “grande bugia” sugli atten-tati di Madrid. Insomma, senza esagerare qualcosa si vede, anche se restano debolezze importanti in Polonia, in Belgio (ma per ragioni completamente diverse), in Gran Bretagna – ove Brown non sembra sfondare nell’opinione pubblica. Si capisce, a questo punto, perché De Giovanni, sul precedente numero di questa rivista, abbia sottoli-neato, con giustissima intuizione, l’importanza della forza degli Stati membri per un efficace sviluppo dell’Unione, e abbia salutato la possibilità della creazione di un direttorio di Francia, Germania e Gran Bretagna che dovrebbe salvare la costruzione europea. Tuttavia, si tratta di una scorciatoia, non meno di quella di Dastoli, che fa una costruzione ardita dei pro-

cessi di trasformazione, ma, ahimè, molto teorica.

La posizione di De Giovanni, in particolare, merita un commento. Non c’è ombra di dubbio che la forza dell’Unione è intimamente legata alla forza degli Stati. A un sistema di Stati deboli, corrisponde un sistema debole dell’Unione; ma questa situazione è reciproca. La sconfitta nel referendum in Francia, che ha indebolito nettamente il go-verno francese, per esempio, è an-che espressione dell’inquietudine per un’Unione, incapace di reagire alle accuse di essere una sorta di Moloch e al tempo stesso una tigre di carta rispetto alle grandi sfide ed ai problemi della “gente”. Sempre di più, questa questione della forza è un gatto che si morde la coda e che non permette d’individuare un solo punto di partenza. Tant’è vero che, proprio per rafforzare l’insieme del sistema, la Commis-sione ha potuto negli ultimi tempi alzare i toni e la qualità della sua azione. Un direttorio, perciò, mi sembra improprio ed improbabile. Ma vi sono altre ragioni. La Gran Bretagna non è, per natura, mem-bro di un tale direttorio (né adesso, né nel passato), poiché tende ad avere un’opinione ancora “isolana”, nella quale il fenomeno europeo resta relativamente estraneo. Una prova del carattere isolano della politica britannica è data dalla sua reticenza ad aderire a parti del Trattato europeo che tendono a ridurre il controllo degli “stranieri” alle frontiere. Inoltre, la stampa britannica dipinge il fenomeno europeo, con successo, come un fatto estraneo ed in qualche modo una minaccia per la Gran Bretagna. Gli anni di Blair che, soprattutto all’inizio, aveva puntato sull’Euro-pa (a giusto titolo, poiché la forza dell’Europa è anche la forza dei suoi Stati) non sono riusciti, per le

paurose contraddizioni espresse da quel governo e per il pasticcio del-l’Iraq, a far cambiare questo stato di cose. D’altra parte, il concorrente di destra, i conservatori britannici, condividono lo scetticismo di una parte della sinistra laburista. Inoltre, vi è un peso spaventoso degli Stati Uniti nella politica estera fatta o promossa dalla Gran Bretagna. Né il dinamismo economico e sociale (ehm…) della Gran Bre-tagna sono tali da candidarla ad una leadership europea. A giusto titolo, De Giovanni propone come punto aggregante del direttorio il mutato clima nei confronti degli Stati Uniti, in particolare il fatto che Francia e Germania hanno attenuato nettamente l’antiamerica-nismo che aveva seguito la guerra in Irak, anzi, hanno preso posizioni che li hanno riavvicinati agli Stati Uniti. Tuttavia, fra l’atteggiamento “americano” della Gran Bretagna, aprioristico e sovente acritico, e la domanda degli altri due paesi agli Stati Uniti di cambiare alcune posizioni, proprio per permettere questo riavvicinamento ce ne corre. Inoltre, se ci volessimo mettere solo dal punto di vista dell’auspicabilità di un tale direttorio sulla base delle esperienze del passato, dovremmo ricordare che all’epoca di Kohl e di Mitterrand vi erano diversi Stati pronti a sopportare un tale fardello e che questi Stati ponevano sulla bilancia del bene comune pegni di non poco valore; si pensi alla rinun-cia tedesca al marco. D’altronde, lo stesso Delors nega l’esistenza di un semplice direttorio, associando Francia e Germania alla comune volontà di altri Stati (Italia, Benelux, Spagna) che partecipavano piena-mente all’orientamento indicato da Francia e Germania, rispetto al qua-le, tuttavia, non esprimevano certo sottomissione. Inoltre, per esercita-re un tale pseudo-direttorio hanno

europa

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�dovuto consentire un netto raffor-zamento delle istituzioni europee, tanto del Parlamento, quanto della Commissione. Basterebbe ricordare come il cd direttorio franco tede-sco degli anni 80 e dei primi anni novanta abbia potuto esercitare una qualche funzione proprio in correlazione con la Commissione Delors – fortissima – e col Parla-mento europeo in continua ascesa di potere e d’influenza.

Mi sembra quindi complesso ed improbabile che sorga un nuovo direttorio in codeste condizioni, tendendo anche conto – questione da non sottovalutare poiché co-munque il duo franco-tedesco eser-citava in gran parte la sua funzione poggiando sulle istituzioni – del relativo indebolimento della Com-missione gia accennato e del ripie-gamento del Parlamento europeo sul suo ruolo di legislatore.

DUE EURoPE?D’altra parte, ma é questione

discussa in lungo e in largo, la soluzione di una doppia Europa potrà forse rivelarsi necessaria, ma non è certo auspicabile, non è un grande successo dell’Europa federalista. Immancabilmente significherebbe forse rafforzare un gruppo di Stati, uniti in modo

più stretto e coerente forse, ma significherebbe anche indebolire la posizione dell’Europa. Oppure pensiamo che un’Europa for-malmente a due velocità si può fare fra partners ragionevoli e coscienziosi, taluni rammaricati di non poter integrare il gruppo di punta e disposti a sottostare (perché alla fine dei conti di questo si tratterebbe) ai buoni e federali partners? Speriamo, ma, personalmente, vedo la situazione come essenzialmente conflittuale e non certo utile per la costruzio-ne europea. Questo non esclude il netto rafforzamento di alcune, pure importanti cooperazioni raf forzate o, come in campo militare, “strutturate” come dice il nuovo progetto di Trattato, ma dentro un quadro unitario. A me sembra che la sfida di oggi sia anche questa: non si fa l’Europa della volontà e della libertà, ma si tende ad unificare il continente. Non è una scelta senza enormi conseguenze e, a mio parere, non permette di fare un’Europa dei pochi ma buoni ed una di quelli che non ci stanno, ma, chissà per-ché, restano pienamente integrati nel sistema. Questo non esclude però una sorta di auto isolamento di alcuni Stati. Per esempio, la Gran Bretagna, fuori dalla moneta unica, da Schengen, dalla politica militare, da alcune altre politiche, fra cui quelle fiscali, in caso di contrasto di politica estera rischia di trovarsi fuori, senza neanche una volontà predeterminata degli altri Stati. Questa eventualità, tuttavia, a me appare più come un rischio ed un’ipotesi da evitare che come una speranza. Penso, al contrario, che l’Unione dovrebbe mantenere una pressione sugli Stati più riluttanti, invece che di farli uscire: per andare dove? Non oso pensarlo.

UN REFERENDUM EURoPEo? ANCoR MENo!

D’altra parte, mi sembra che le scorciatoie referendarie indicate da Dastoli, brillantemente come al solito, oltre a cozzare col fatto che in questo momento l’Europa, a torto o a ragione teme i referendum (a ragione mi pare, poiché un refe-rendum non passerebbe non tanto o non solo per via dell’Unione in quanto tale, ma soprattutto per la debolezza degli Stati e la relativa sfi-ducia nelle classi dirigenti nazionali) cozza col nuovo trattato che propo-ne altre vie. Mi meraviglio un po’ del fatto che la procedura prevista dal trattato mutuata largamente (non interamente) dal progetto Spinelli o meglio, dalle modalità intraviste per l’eventuale adozione del progetto da parte dei parlamenti nazionali, non abbia sollecitato l’attenzione dei federalisti. È tuttavia vero che, come gran parte del trattato, e avvolta nelle nebbie e nelle lungaggini di un testo degno della caricatura di un funzionario che circola con codici e pandette che solo lui capisce. Ma, ahinoi, non sono stati stavolta dei funzionari a scrivere certe disposi-zioni. Resta comunque che la pro-cedura è interessante poiché dà al Parlamento europeo, con un’ampia apertura sui parlamenti nazionali, il potere di fare proposte di riforma dei trattati. Certo, governi e burocra-zie restano ben piantati nel sistema, ma mi sembra un’innovazione im-portante. Peraltro, tale innovazione ci richiede una riflessione ulteriore, tutta da fare, poiché il progetto di trattato devia dalla tradizionale divisione fra istituzioni dell’Unione

e istituzioni degli Stati, che voleva come tramite essenziale fra l’Unione e gli Stati i governi, mettendo le altre istituzioni nazionali in una bottiglia ben tappata. Invece, la bottiglia, nel trattato, sembra diventata la lampa-da di Aladino, perché ogni volta che la si struscia escono i parlamenti nazionali e, talora, anche le autorità regionali. Se si unisce questo fatto all’accento messo dal trattato sulla partecipazione cittadina, s’intrave-dono piste istituzionali nuove ed in-teressanti. Ma è anche interessante costatare che i governi lasciano uno spazio più ampio ai parlamenti per rilanciare la costruzione europea. Vedremo se, nonostante le tante contraddizioni del trattato stesso, ne uscirà qualcosa. In particolare, sembra emergere una costruzione istituzionale nuova, nella quale il dualismo tradizionale fra nazionale ed europeo non è più dogma né giuridico, né politico. Se questa nuova realtà dovesse confermarsi e svilupparsi, si dovrebbe prendere in conto un nuovo parametro nelle riflessioni istituzionali e politiche relative all’integrazione europea. Se son rose, fioriranno!

Neanche questo fatto, pero ci consente d’illuderci troppo. Resta la necessità, innegabile e insormontabile, almeno in fase di avvio di qualunque fondamentale novità, dell’espressione di una precisa volontà politica da parte di tutti gli Stati membri. Con questo non intendo dire che i meccanismi istituzionali non influenzino anche la volontà politica. Per fare un esempio, un progetto parlamen-tare ben presentato e contenente aspetti “alla moda” può certo avere influenza sulle determinazioni dei governi. Un lavoro interparlamenta-re efficace può avere conseguenze importanti sulla volontà politica dei governi: ma da essa non si potrà prescindere.

dalla prima

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Ricordare Gior-gio Amendola nel cuore della allarmante crisi che sta colpendo il sistema politico italiano, non è e non può essere

una pura esercitazione retorica e nemmeno soltanto un omaggio alla persona. L’esperienza umana, cultu-rale e politica del figlio di Giovanni Amendola costituisce una severa e benefica lezione per quanto hanno a cuore le sorti della democrazia italiana e anche soltanto lo sviluppo civile del nostro paese.

Riflettere sulle ragioni della sua “scelta di vita”, cioè della sua affiliazione al Partito comunista italiano, e sul modo con cui Giorgio ha successivamente interpretato la sua milizia in quel partito, significa ad un tempo comprendere come e perchè tanti intellettuali borghesi hanno seguito nel tempo il suo esempio, e chiedersi quale irrepa-

rabile perdita sia stata la morte di Amendola nel momento storico in cui egli avrebbe potuto imprimere al difficilissimo dialogo tra comunisti e socialisti un esito ben diverso da quello al quale sono approdati, purtroppo, Berlinguer e Craxi nono-stante le singolari doti politiche che entrambi potevano vantare.

Giorgio Amendola è uscito da un ambito familiare dichiaratamente colto e borghese. Suo padre Gio-vanni può essere tranquillamente definito come un conservatore democratico, gradualmente passato da una visione politica non molto lontana da quella che aveva ispirato sul finire dell’Ottocento la Destra storica ad un’apertura più schietta verso una prospettiva di centro-sinistra, come quella incarnata da Francesco Saverio Nitti, in pole-mica con il tatticismo esasperato di Giolitti, sicuramente positivo in campo nazionale ma funesto per il Mezzogiorno: un giudizio di Salvemini che, paradossalmente, si

potrebbe attribuire, nella storia della Prima Repubblica, alla funzione della Democrazia Cristiana.

Si è molto ironizzato, anche più di recente e perfino sulle co-lonne del Corriere della Sera, sulle motivazioni che nel secolo scorso indussero intellettuali, artisti, scrit-tori usciti dalle file della borghesia a schierarsi disciplinatamente sotto le bandiere del movimento comunista come “organici” alla sua ideologia e alla sua prassi militante.

L’ambizione sfrenata e uno scaltro calcolo opportunistico sarebbero stati alla base di questa adesione, non di rado confermata nel tempo nonostante le smentite sempre più persuasive e scorag-gianti che, sull’effettiva democrati-cità del regime sovietico e dei suoi derivati, arrivavano dall’Est. Baste-rebbe rileggere i libri di Giorgio Amendola, ed in particolare quello relativo proprio alla “scelta di vita”, per comprendere che – almeno nel caso italiano – quell’adesione

è scaturita in linea generale pura-mente e semplicemente dai fatti, e cioè dall’atteggiamento cinico o smarrito del ceto dominante – la corona, il Vaticano, l’impresa – di fronte alle due grandi guerre del Novecento e soprattutto al processo di democratizzazione delle masse proletarie, nonché dalla complicità obiettiva, anche se spesso invo-lontaria, che i partiti democratici borghesi e lo stesso variegato e frantumato movimento socialista hanno assicurato, tra le due guerre, all’avvento del fascismo italiano e di quello tedesco.

La vicenda dei due Amendola, padre e figlio, l’uno già parlamen-tare illustre e più volte ministro “nit-tiano”, l’altro ancora giovanissimo, diviso tra una grande passione per la buona letteratura e l’angoscia per i ricorrenti disturbi mentali della madre russa (ma di nascita baltica), è una vicenda esemplare perchè il loro rapporto tradizionale si trasforma e matura drammati-camente nei mesi precedenti alla morte di Giovanni, nell’Agosto del 1925. L’autobiografia del figlio è commovente perchè la sua appas-sionata solidarietà con lui, nella crescente violenza della persecu-zione fascista, non gli impedisce di esternare i suoi dubbi e sottolineare il distacco dalla reazione ferma, ma secondo Giorgio troppo cauta e silenziosa, a quella persecuzione e che ai suoi occhi riflette le esi-tazioni, le debolezze, gli equivoci di tutto l’establishment, ben più ambiguo dell’inflessibile direttore del Mondo.

I due passaggi essenziali per accelerare la conversione di Giorgio alla disciplina comunista corrispon-dono, ovviamente, ai due episodi

Ricordando AmendolaAntonio Ghirelli

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�più laceranti della sua esperienza dei primi anni Venti. Il 10 Giugno 1924, il giorno fatale per Giacomo Matteotti e per la democrazia ita-liana, era stato preceduto da altri squallidi episodi: la devastazione della casa di Nitti; due attacchi falliti contro lo stesso Giovanni Amendola, che tuttavia costarono la crisi della moglie e il suo ricovero in clinica per dieci anni; ed infine una dura aggressione a suo padre, manganellato brutalmente e ferito alla testa. Il che non aveva impedito ad Amendola di partecipare alle elezioni vincendole, nonostante tutte le intimidazioni e le minacce degli squadristi, portando alla Ca-mera quattro deputati, tra i quali Roberto Bracco.

Il 10 Giugno, quando il depu-tato socialista uscì di casa per non arrivare mai a Montecitorio, si diffu-se subito la voce del suo rapimento, ma passarono 48 ore senza che

Mussolini si pronunciasse, tanto che fu accusato di tacere perchè com-plice. Giorgio si trovava a Piazza Colonna, gremita di folla, quando l’auto che portava il Presidente del consiglio proveniente dalla Camera puntò su Palazzo Chigi, salutata da uno sparuto gruppo di fascisti che abbozzò un “eja, eja, alalà” al Duce. Il “cupo e grave silenzio” incomben-te sulla piazza fu rotto, allora, da un repentino urlo di rivolta: “Mussolini assassino! Abbasso il fascismo!”.

Solo un istante, e nient’altro. A questo punto, nel suo libro, Giorgio annota malinconicamente: “sentii che era passato il momento. Perchè non avevano gridato prima, perchè nessuno aveva preso l’iniziativa? Il ricordo di quel momento non l’ho mai dimenticato: ci ho visto sempre come il segno di un male profondo che ha colpito fin dall’inizio l’an-tifascismo italiano: l’attendismo”. Quanto alla feroce spedizione

punitiva di Montecatini, che avreb-be portato Giovanni Amendola alla morte, il 7 Aprile dell’anno seguente, a Cannes, i particolari dell’infame aggressione sono noti e spiegano esaurientemente tanto la reazione struggente del figlio quanto la sua “scelta” della risposta rivoluzionaria alla dittatura. Vale soltanto la pena di rilevare come, anche in questa circostanza, il fascismo abbia confermato la sua desolante mediocrità, giacché la morte del direttore del Mondo fu spiegata come la conseguenza di “un male inguaribile” e soltanto nel 1947, a Liberazione avvenuta, un tribunale accertò la verità. L’auto-biografia del figlio ci aiuta a capire fino in fondo che tipo di adesione sia stata la sua al movimento co-munista e quali caratteristiche egli abbia contribuito a trasmettere nel partito italiano. Non si trattò soltanto di una reazione agli avve-

nimenti del primo dopoguerra. Nei capitoli iniziali del libro, Giorgio accenna con garbata e affettuosa ironia ai racconti di sua madre, che aveva illuminato un “periodo eroico” della famiglia, una sorta di bella leggenda familiare “confusa ed affascinante”. Erano esaltate, per esempio, le avventure garibal-dine del nonno Pietro, sorvolando sul fatto che si era poi arruolato come carabiniere, partecipando alla repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno. Al che il futuro comunista aggiunge significati-vamente: “La cosa non avrebbe dovuto sorprendere né indignare, perchè Pietro aveva seguito la linea tracciata da uomini come Silvio Spaventa”.

Non a caso nel 1953, in occa-sione di un dibattito alla Camera sulla “Legge-truffa” di De Gasperi, Giorgio si trovò a dire: “Mio bi-snonno mazziniano, mio nonno

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�garibaldino, mio padre antifascista, io comunista, questa è la linea del progresso politico nazionale”. Non siamo lontani da un’altra linea, quella che si diffuse nel PCI qualche anno dopo la Liberazione lungo un ideale percorso culturale e politico De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci che, in fondo,esprime il meglio della cultura meridionale e ad un tempo del comunismo italiano. Al quale Giorgio Amendola decise di iscriversi in capo ad un processo graduale, in cui un’influenza ri-levante giocò l’insegnamento di Emilio Sereni, ma risultò ancor più risolutivo lo spettacolo che veniva offrendo in quegli anni la social-democrazia europea incapace di bloccare in Austria e in Germania, come già era accaduto in Italia e più di recente in Francia, l’avanzata dei movimenti reazionari, nonché di assicurare una concreta solidarietà alla “riscossa liberatrice” dei popoli

coloniali. Contro “la santa alleanza dell’imperialismo mondiale”, la difesa dell’URSS, solo paese “so-cialista” accerchiato e minacciato finiva per essere identificata “con la causa stessa della rivoluzione”. La lettura dei libri di Trotsky e di Lenin, che il regime lasciava circolare in Italia in lingua straniera, fece il resto: il 7 Novembre 1929, in casa dello stesso Sereni, Giorgio chiese “con voce commossa”, dinanzi ad altri due compagni, che venisse accolta la sua domanda di iscrizione al partito.

Naturalmente, in questo nostro articolo non è in discussione il ruolo che Amendola ebbe nelle diverse fasi della vita del partito, come non lo è la sua tenace fedeltà al collegamento ideale e politico con l’Unione Sovietica che, del resto, per gli antifascisti della sua genera-zione, anche socialisti, rappresentò un punto fermo nella lotta contro

il nazifascismo trionfante, negli anni cupi della guerra di Spagna, del naufragio del Fronte Popolare francese, della vergogna di Mona-co. Tardò molto il PCI, e non solo la generazione di Giorgio e dei compagni più anziani, a spezzare il vincolo con la casa madre di Mosca e se, alla fine, si arrivò allo “strappo” di Berlinguer, una rottura clamorosa non ci fu mai.

Il che non vuol dire che il fon-datore, l’ispiratore della corrente dei “miglioristi” non abbia modificato gradualmente il suo atteggiamento e quella intransigenza leninista che aveva ispirato nel ’29 la sua definitiva “scelta di vita”. Le tappe più salienti di questo recupero delle grandi ragioni del passato, non esclusa la robusta eredità sto-ricistica di suo padre e della sua giovinezza, toccarono questioni come l’opportunità di assicurare un qualche sostegno alle iniziative

riformiste del centro-sinistra o la nostra adesione alla Comunità Europea.

Ma fu un intervento del Novem-bre ’64 a segnare una svolta clamo-rosa, provocando una vivacissima polemica destinata a prolungarsi per molti anni, allorché Giorgio Amen-dola prospettò l’opportunità di un incontro tra comunisti e socialisti per creare “un partito unico della classe operaia”, che non ricalcasse le esperienze dei due partiti ormai insufficienti a risolvere i problemi della società ma ne aggiornasse programmi e organizzazione in chiave socialista-democratica.

Se il vertice del PCI e Berlinguer in particolare avessero condiviso quell’auspicio, se il PSI di Craxi fosse riuscito a superare la loro resistenza, la storia della democra-zia italiana sarebbe radicalmente cambiata in meglio. Purtroppo non è andata così.

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11dalla prima

… hanno rasentato il fallimento da brogli ed opacità nella gestione del voto e nella sua quantificazione: una drammatica evidenza del clima di sfiducia e di slealtà reciproca che caratterizza i rapporti sociali nella realtà meridionale. Eppure, solo po-che settimane prima delle primarie Mario Draghi aveva drasticamente rovesciato un giudizio preoccu-pante. Commemorando un grande economista italiano scomparso di recente, Riccardo Faini, Draghi ne ha ricordato l’impegno civile e la tenacia con cui difendeva le ragioni di una politica economica capace di risolvere il problema della mancata crescita meridionale per avviare, finalmente, quella dell’intero paese. Da alcuni mesi, invece, il confronto politico trascu-rava proprio questo problema. La ripresa autunnale segnava, infatti, un ulteriore slittamento negativo nella percezione della questione meridionale.

I primi sintomi di questa ul-teriore ondata di discredito, non del tutto infondata come abbiamo appena detto, si leggevano sulle pagine di settimanali e quotidiani distribuiti nelle settimane di agosto. Il Sud condannato alla camorra ed alle clientele. Insomma, dei ritardi e dei problemi del Sud si parla non per capire se e come si possano o debbano risolvere. Se ne parla per dimostrare che il Sud è il problema della società italiana e che, di conseguenza, andrebbe rimosso – per la verità non si ca-pisce bene come – anche perché, in questo modo e finalmente, il nostro ceto politico, di destra e di sinistra, potrebbe riconciliarsi con la classe dirigente settentrionale, la insoddisfazione della quale non si limita più alla critica degli usi e costumi di quel ceto: la “casta”. Un nome che evoca i privilegi ed il lusso che solo l’antico oriente riser-vava ai titolari del potere. Certifica questo atteggiamento una inchiesta pubblicata in prima pagina, il 10 settembre, dal supplemento eco-nomico settimanale del Corriere della Sera. I titoli rendono bene il

contenuto ed il tono del messag-gio: “Sud, il flop dei Governatori Rossi; Bassolino ed i rifiuti; Loiero ed il racket; Vendola e l’acqua; in gioco anche la credibilità della sinistra nazionale”. In maniera meno provocatoria ma altrettanto ostile si esprimeva, parlando a Bari, alla Fiera del Levante, il presidente del Consiglio, Romano Prodi, due giorni prima, l’8 settembre�.

� “ In questa fase espansiva del ci-clo economico, le aree più sviluppate mostrano già difficoltà ad incrementa-re il loro tasso di crescita per carenza di manodopera, nonostante sia ripreso il flusso di immigrazione interna che drena risorse qualificate al Mezzogior-no. Un Mezzogiorno che ancora non decolla nonostante le ingenti risorse pubbliche impiegate… L’altro giorno, e lo dico con tristezza, i rappresentanti dell’Ocse disegnavano una cartina del-l’Italia con un Nord simile all’Europa e un Sud più simile ai paesi del Nord Africa…Il Mezzogiorno ha già perso troppe occasioni nella sua recente storia. Oggi ci attendiamo e vogliamo provocare un cambiamento. I mezzi ci sono… si tratta di risorse ingenti che però non sono in sé garanzia di sviluppo perché devono essere spese efficacemente, facendo tesoro degli errori del passato.. il quadro strategico definisce ovviamente gli obiettivi e la cornice di riferimento. La concreta realizzazione dipenderà invece dalla qualità delle scelte che le amministra-zioni interessate saranno chiamate a fare nei prossimi mesi…Desidero qui richiamare la responsabilità degli enti territoriali e degli amministratori del Mezzogiorno. Essi hanno oggi sicuramente più poteri di quanti non ne abbia il Governo centrale. Hanno il potere di decidere e di gestire. Spetta quindi principalmente a loro il merito del successo o la responsa-bilità dell’eventuale fallimento… Lo dico, non per sottrarre il Governo alle sue responsabilità, ma per esortare le amministrazioni a progettare me-glio, a selezionare meglio, a gestire e controllare meglio… Sebbene spetti agli amministratori locali effettuare le scelte, consentitemi di esprimere linee guida di indirizzo che sono in armonia con ciò che il governo sta facendo”. Seguono indicazioni, sulle energie rinnovabili e lo sviluppo delle imprese agroalimentari, ma “ Voi (i meridionali presenti alla Fiera del Levante ndr) dovete fare le scelte: sarà compito del governo centrale aiutarvi ad armonizzarle e renderle compatibili

MAssiMo

Lo Cicero

La relazione tra la rete delle organizzazioni sociali

e lo Stato, in Italia, è squilibrata. Nel Nord le prime sono troppo forti, nel Sud sono inesistenti, in termini

di forza autonoma e capacità di rappresentare interessi effettivi

ed indipendenti dalla spesa pubblica

Mezzogiorno

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12Di quel discorso la grande

informazione ha riportato solo due punti, assai distanti dal tema del Mezzogiorno: l’esistenza di gravi problemi, il debito e l’evasione fiscale che, entrambi, compromettono le possibilità di risanamento della finanza pubbli-ca. Maliziosamente, verrebbe da aggiungere, l’economia nera, e quella criminale diffuse nel Sud, e la spesa improduttiva ad esso dedicata, che produce il debito pubblico, potrebbero essere un rimando subliminale alla negatività che il Mezzogiorno rappresenta per l’intero paese. Questa lettura ostile della questione meridionale è sgradevole, e tendenziosa, ma contiene, purtroppo e certamente, elementi di verità con cui bisogna fare i conti.

Decentrare le responsabilità, in una società debole, povera di valori e dalle fragili istituzioni, non produce soluzioni ma aggrava i problemi.

Il bilancio dei tre cicli di po-litiche europee è meno brillante del bilancio dei primi venti an-ni – quelli eroici, gestiti dai padri fondatori – della Cassa del Mez-zogiorno. Ed infine, ma non è una semplificazione meccanicistica, è preoccupante che, allora, il ceto politico nazionale fosse densa-mente popolato di esponenti della classe dirigente meridionale e che oggi questo fenomeno si sia molto diradato. Non è la cultura politica meridionale che orienta il dibattito in corso e non è il Mezzogiorno la questione che viene affrontata dal dibattito politico. Anche la rosa dei candidati alla segreteria del partito democratico, si arrestava al paralle-lo della capitale. Un lungo ciclo di errori spiega come e perché siamo arrivati a questo punto e quanto

fra di loro.. lo Stato farà certamente la sua parte, ma in questo suo sforzo deve essere coadiuvato dalla società civile, dai cittadini e dalle imprese”. Nonostante la sua lunghezza la cita-zione rappresenta solo una parte del discorso del presidente, che si può leggere alla pagina web http://www.governo.it /Presidente/Interventi/te-sto_int.asp?d=36250.

alta sia stata la responsabilità della società meridionale ma cercare una soluzione nazionale al problema, piuttosto che liquidare il Sud come fosse la rogna dalla quale l’Italia deve liberarsi, sembra una strada migliore e da praticare. Merito di Draghi aver riportato su questo binario la riflessione.

Il sentiero stretto del Mezzogiorno

Subito dopo la sortita di Draghi sulla questione meridionale – se il Mezzogiorno non riprende la sua crescita la stessa economia italiana può andare in affanno – gli attori principali del meccanismo che do-vrebbe rimettere in moto la crescita si sono incontrati a Napoli, in un convegno promosso dal Ministero dello Sviluppo Economico e dalla Regione Campania. Il Governo ha chiarito che il problema può essere risolto lavorando su tre piani: con-centrare le risorse disponibili, che non sono affatto poche, su grandi progetti infrastrutturali; sostituire lo strumento del credito d’impo-sta, una leva fiscale automatica, a quello degli incentivi diretti alle imprese; garantire la sicurezza per l’incolumità delle persone e dei patrimoni. In quella sede Pierluigi Bersani ha aggiunto una metacon-dizione, una variabile di contesto, che è stata presentata come una sorta di vincolo radicale: che si parli una sola lingua, quella della fattibilità economica e della effet-tiva utilità di sistema dei progetti previsti. Sarebbe a dire che sono necessari non solo la scala rile-vante degli investimenti proposti ma anche la loro capacità di avere effetti sul sistema meridionale nel suo complesso, il loro impatto sulla crescita. La risposta delle Regioni meridionali alla sfida di Bersani ha scontato qualche esitazione e qualche riserva. Le esitazioni erano riferite al cambiamento di passo

necessario per raccogliere la sfida stessa; la remora nasceva dal fatto che, in molti casi ed in perfetta buona fede, politiche di coesione, mobilitate su obiettivi circoscritti e locali, sono state solo una sorta di supplenza al deficit di efficacia della spesa pubblica ordinaria.

Ma sarebbe miope ed impreci-sa una diagnosi che si limitasse ad indicare nello squilibrio tra Gover-no centrale e governi locali il solo ostacolo che si oppone alla ripresa della crescita meridionale.

Come ci ricorda la Svimez il problema meridionale non è il divario, di reddito e produttività ma il dualismo tra Sud e Nord, che rischia di allargarsi invece di restringersi. Le trasformazioni in atto nell’economia italiana confer-mano l’esistenza di questo rischio. Concentrandosi – evento che ne

rafforza la capacità di competere alla scala europea – il sistema bancario ha anche ridimensionato le sue reti meridionali a mere strut-ture distributive. Mentre la ridotta dimensione unitaria, e la bassa numerosità delle imprese esistenti al Sud, avrebbe richiesto banche capaci di produrre anche cultura finanziaria, per sostenere l’irrobu-stimento della base imprenditoria-le. Come fecero al Nord la Comit e la Cariplo, emanazione entrambe delle banche tedesche, supportan-do la progressiva espansione delle medie imprese lombarde durante il difficile che separa le due guerre mondiali. Anche nel campo im-prenditoriale le differenze tra le due italie appaiono marcate. La ca-pacità di reagire alla moneta forte, reinventando il made in italy come italian style e sviluppando sistemi di

dalla prima

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1�filiera transnazionali, si legge solo nelle imprese del Nord mentre il Sud rimane debole anche solo nella capacità di esportare che, in definitiva, è il primo gradino di un effettivo processo di internaziona-lizzazione. Così come deboli nei marchi – e non solo nelle dimen-sioni unitarie o nel farsi accettare dal mercato internazionale delle merci e dei capitali – appaiono le imprese meridionali. Senza uno scheletro imprenditoriale affidabile, e senza una rete di servizi finanziari adeguati, non esiste politica econo-mica pubblica che tenga sul terreno dell’accelerazione della crescita. Lo spessore ed il contenuto della politica rappresentano, infatti, il terzo lato di questa sorta di nuovo triangolo delle Bermuda, nel qua-le rischia di essere risucchiata la società meridionale. Una politica all’altezza di questa sfida deve viaggiare lungo la linea che collega la libertà economica, la crescita e la giustizia sociale ma deve fare anche i conti con i valori dominanti e le dinamiche consolidate del sistema sociale. Come direbbe Sergio Marchionne, deve fare i conti con il carattere renano e non americano del capitalismo italiano. Ma siamo sicuri che questo capitalismo rena-no rappresenti anche la base socia-le del meridione o – come è molto più probabile – accettare e capire il dualismo tra Nord e Sud ci im-pone di riconoscere la sostanziale estraneità della società meridionale rispetto ai modelli cooperativi delle relazioni fondate sulla coesione, che nutrono quotidianamente la so-cietà settentrionale? Le grandi aree metropolitane del Sud presentano oggi una faccia sudamericana e non certo europea. L’intera società appare dominata dalla ipertrofia dell’intervento pubblico e dalla dipendenza di troppi interessi dalla spesa che esso è capace di indirizzare.

La principale differenza, tra una economia liberale ed una economia dirigista, sta nel fatto che l’impianto socialista della seconda denuncia ed individua i costi e le iniquità del cambiamento inne-

scato dalla libertà di impresa ma la terapia suggerita per correggere le patologie – il controllo pubblico del processo economico – non regge la sfida della prova. Il Sud reagì positivamente alla terapia di modernizzazione esogena nei primi due decenni del dopoguer-ra. L’Italia cresceva e l’intervento straordinario trasferiva nel Sud parte della crescita ed un effetto di modernizzazione nella parte arretrata del paese. Quello che ha rallentato, e progressivamente osta-colato, lo sviluppo autonomo della crescita meridionale è stato proprio il consolidamento della ipertrofia della macchina pubblica, ed il conseguente peso determinante del ceto politico sulle scelte economi-che. La politica, al Sud, somiglia piuttosto ad un sistema sovietico che ad un sistema liberale: prevale il suo ruolo nella allocazione delle risorse e non, come accade in una società liberale, la gestione degli ammortizzatori e dei pilastri di sistema che assorbono i costi so-ciali, generati dalle decisioni private di investimento, e consentono il consolidamento della crescita e, parallelamente, l’affermarsi di un regime di giustizia sociale.

Questo modello, al contrario, il Nord dell’Italia è capace di reg-gerlo e, nei fatti, lo realizza grazie ad un processo di riequilibrio tra poteri centrali dello Stato e poteri locali. La medesima trasforma-zione istituzionale, quando viene proposta nella società meridionale, consolida, al contrario, il primato della politica sull’economia e la sua parallela incapacità di realiz-zare un ordinamento istituzionale affidabile, socialmente utile e, di conseguenza, economicamente efficace. La ripresa della crescita meridionale è un obiettivo che sarà possibile realizzare solo attraverso un sentiero stretto che sia capace di aggirare queste tre minacce. L’inva-denza della politica sull’economia; la fragilità del tessuto imprendito-riale, la inadeguatezza dei mercati finanziari. Tre lati di un triangolo insidioso, che si tengono tra loro ed impediscono al Mezzogiorno

di riavviare la propria crescita no-nostante la ripresa del dialogo tra Governo e Regioni, e tra le Regioni meridionali che dovrebbero coa-lizzarsi e cooperare tra loro nella progettazione e nella gestione del quarto, ed ultimo, ciclo delle poli-tiche di coesione finanziate dalla Commissione Europea.

Il rapporto Svimez 2007

Come ogni anno, prima del-l’estate, la Svimez ha presentato il suo Rapporto annuale sull’eco-nomia del Mezzogiorno. Ma, in questo caso, non si è trattato solo di una diagnosi, anche se non mancano dati ed interpre-tazioni che fanno comprendere lo stato dei fatti e la natura del problema da risolvere. La Svimez ha avanzato anche una proposta che potrebbe riaprire la strada per condurre l’Italia alla soluzione di questo problema antico: una divisione economica che taglia in due il paese e che la riunificazione politica non ha saputo affrontare. Non solo negli oltre cento anni che stanno alle nostre spalle dal-la data dell’unità nazionale. Ma neanche da quando, nei primi anni novanta, si è aperta la crisi che ha condotto alla così detta “seconda repubblica”. Un assetto istituzionale fondato sul bipolari-smo ed alla ricerca di una palin-genesi, che non è mai avvenuta, rispetto ai vizi della nostra prece-dente storia repubblicana. Hanno fallito – in questa lunga parabola quasi ventennale, che separa la crisi del 1992 dalla ripresa della crescita, avvenuta nel 2006 solo grazie al dinamismo di un gruppo limitato, e non meridionale, di im-prese italiane – governi di centro sinistra e governi di centrodestra. Sono stati impiegate, in maniera inefficace ed inefficiente, molte risorse finanziarie offerte dalle politiche di coesione europee in questi anni. Risorse che vengono

da un bilancio comunitario del quale il nostro paese è creditore netto: dunque risorse che noi stessi abbiamo conferito ad un obiettivo che non siamo stati poi in grado di realizzare.

La Svimez ha richiamato tutti a questa responsabilità nazionale che deve tradursi in una nuova e più intensa spinta verso la crescita del Mezzogiorno. Se si vuole evi-tare che il dualismo si traduca in una profonda crisi della coesione sociale, impedendo all’Italia di agire come una potenza signifi-cativa, sia alla scala europea che ad una scala mondiale. Proprio perché questa critica radicale investe la cultura politica di en-trambi i corni di un bipolarismo federale – che aggrega, in due schieramenti frastagliati, oltre ven-ti partiti – la Svimez individuava il destinatario della propria proposta nel Parlamento e non nel Gover-no. Nella speranza che, almeno in quella sede, si ricompongano le fila di un processo che, altrimenti, tra decentramento amministrativo e contrapposizioni di interessi tra il Nord ed il Sud del paese, potrebbe condurre ad un vero e proprio collasso istituzionale. Un collasso generato dal deficit di crescita presente nell’area debole del paese e dalla parallela e costo-sa manifestazione di politiche di sostegno, che non avviano la cre-scita ma dilatano solo il dissesto della finanza pubblica nazionale. La base analitica necessaria per ritrovare una dimensione politica della questione meridionale è evidente.

Il Mezzogiorno è omogenea-mente un’area che non cresce per l’assenza di capitale fisso sociale – le infrastrutture, tangibili ed intangibili – e per la fuga della parte migliore del suo capitale umano ma anche per l’abbandono degli investitori internazionali. Gli investimenti dall’estero si riducono in ragione dello smo-bilizzo, o della cessione degli impianti esistenti, e dell’assoluta assenza di nuovi ingressi. Nel Mezzogiorno vive il 35% della

Mezzogiorno

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1�popolazione, si produce solo il 25% del prodotto interno lordo ma lavorano il 28% degli occupati (la domanda di lavoro coperta sul mercato ufficiale) e si registra la presenza del 30% delle Forze di lavoro (l’offerta ufficiale di lavoro). Ne segue che nel Mezzogiorno è bassa la produttività del lavoro; i disoccupati rappresentano il 54% del totale italiano; è molto estesa

l’area grigia e nera del mercato del lavoro. Si tratta insomma di una economia che sconta una bassa produttività del lavoro ed una mediocre produttività totale di sistema. Di conseguenza essa esporta poco (solo l’11% del totale italiano) e grazie ad alcune, troppo poche, grandi industrie nazionali ancora presenti nell’area. Il pro-dotto pro capite è la moltiplica-zione tra il prodotto per occupato e la frazione degli occupati sulla popolazione esistente: tra quanto produce ogni lavoratore e quanti lavoratori esistono. Il primo indice, dal 2000 al 2006, è stabile intorno all’82% di quello del centronord mentre il secondo è pari al 69% del centronord. Ne segue che il prodotto procapite del sud sia stabilmente pari solo al 57% di quello del centronord.

Un divario di produttività, combinato con un marcato gap in-frastrutturale, rende il Mezzogiorno la regione meno competitiva tra le regioni europee. Mentre il divario tra le economie degli stati europei, nell’Europa a 27, si riduce e si allar-ga, invece, il divario tra le regioni. L’Italia – il paese con il maggiore dualismo interno in Europa – non ha futuro in questo contesto.

Questione settentrionale vs.Questione meridionale

Insomma: le due questioni del-la politica italiana, la settentrionale e la meridionale, si contrappon-gono o sono le due facce della medesima medaglia? Sembrereb-bero, a prima vista, le due facce ma la cosa diventa più complicata se ragioniamo sul merito dei due problemi.

La relazione tra la rete delle organizzazioni sociali e lo Stato, in Italia, è squilibrata. Nel Nord le prime sono troppo forti, nel Sud sono inesistenti, in termini di forza autonoma e capacità di

rappresentare interessi effettivi ed indipendenti dalla spesa pubblica. La forza di fare sta, nel Sud, dalla parte dello Stato che, tuttavia, non ha grandi competenze e capacità nella organizzazione della pub-blica amministrazione. Al Nord, sebbene non esistano troppe risorse finanziarie – che al Sud sembrano addirittura troppe rispetto alla capacità di fare delle regioni e dei

comuni, ma anche a quella del-l’amministrazione centrale – esiste un reddito medio elevato e diffuso, che consentirebbe di realizzare in regime di finanza di progetto e di partnership tra attori privati e soggetti pubblici una nuova rete di infrastrutture. I cittadini del Nord potrebbero pagare per il loro utilizzo e le banche ne potrebbero finanziare la realizzazione. Al Sud il reddito procapite è troppo basso e la ricchezza è molto concentrata.

Le infrastrutture dovrebbe crearle lo Stato, ma abbiamo ap-pena detto che le sue competenze e le sue capacità sono assai fragili. Paradossalmente inferiori a quelle delle organizzazioni pubbliche del Nord che, al contrario, hanno le competenze e la coesione so-ciale necessaria ma non ricevono adeguati fondi pubblici per creare

nuovo capitale fisso sociale. La sicurezza è un problema al Nord come al Sud ma la causa del pro-blema è assai diversa. Al Nord il problema nasce dalla difficile in-tegrazione sociale dei ceti deboli, gli immigrati. Al Sud essa nasce dall’eccessiva forza dell’unico soggetto sociale organizzato e ro-busto: la malavita. Questa simme-tria ne genera un’altra altrettanto inquietante. Al Nord l’economia sommersa la producono le imprese che agiscono in maniera illegale ma non per finanziare attività criminali. L’elusione confina con l’evasione ed entrambe creano un vantaggio competitivo anomalo, ma collegato alla produzione ed alla competizione. Nel Sud l’eco-nomia illegale finanzia la sopravvi-venza e la incapacità della società di porre in valore le proprie risorse. Una parte dell’economia illegale è decisamente criminale ma si ritorna, per questa strada, al caso della mafia e della camorra, cioè della malavita organizzata.

Insomma, per farla breve, al Nord concertazione e partnership tra pubblico e privato sono molto utili, al Sud sono irrealizzabili. Al Sud la fragilità intrinseca del-l’economia e delle organizzazioni pubbliche genera un paradosso originale: si parla molto (troppo?) di progetti dei quali si capisce poco l’oggetto e per i quali non è mai disponibile un soggetto capace di realizzarli. In fondo la mancata cre-scita del Sud riguarda la capacità di programmare ed organizzare il cambiamento. Servirebbe una pub-blica amministrazione migliore. Al Nord. invece, basterebbero meno tasse e meno pubblica amministra-zione, dice la società civile locale. Dove conduca questa analisi è abbastanza evidente. Non dobbia-mo più inseguire la chimera della riduzione del divario, di reddito o di produttività, tra Nord e Sud, Bi-sogna riconoscere che il dualismo italiano è rimasto immutato e, forse, si è addirittura allargato con la fine della guerra fredda e lo sviluppo dell’economia della conoscenza e della globalizzazione.

dalla prima

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1�Sarebbe possibile fare altrimenti?

Francamente la cosa più singo-lare della questione meridionale, oggi, è proprio il disinteresse che la circonda fuori e dentro il Mez-zogiorno.

Un disinteresse che si affianca ad una lenta, ma sistematica, ero-sione degli interrogativi radicali che dovrebbero darci le risposte per avviare una politica economica capace di aggredire il problema. Come se, per rimettere in moto un terzo dell’Italia, e così facendo, aiutare la ripresa dell’Italia intera, bastasse parlare solo di quello che si potrebbe spendere – 100 miliardi di euro – senza mai dire come e dove quella spesa andrebbe realiz-zata e, da ultimo ma è la cosa più importante, perché.

Cento miliardi di euro, da spendere tra il 2007 ed il 2013, sono veramente una montagna di soldi. Rappresentano, in rate annuali costanti e consecutive, il 4% del prodotto interno lordo nel Mezzogiorno ogni anno.

Ma il Mezzogiorno, tra i suoi tanti caratteri negativi, è ancora una pentola bucata. Perde liquidi-tà. Tracima, quando versate nella sua economia spesa, pubblica o privata che sia. Perché dipende molto dalle importazioni, dal resto dell’Italia e dal resto del mondo, e non riesce ad esportare altrettanto, in Italia e nel resto del mondo. Ma, anche se immaginiamo che il Mezzogiorno debba impor-tare il 40% della sua domanda effettiva – ed è una enormità – e che i meridionali risparmino solo il 10% del proprio reddito – essendo molto più poveri del resto d’Italia e dell’Europa intera, nonostante l’avvenuto allargamento a chi non era certo ricco, come la Romania e la Bulgaria – aggiungere il 4% di investimenti esogeni dovrebbe far crescere il prodotto interno lordo all’8% l’anno. Con una ipotesi fin

troppo cauta si dovrebbe avere una espansione di breve periodo mai realizzata negli ultimi due secoli! Questo banale esercizio di aritmetica economica ci mostra, purtroppo, quanto inefficace sia stata la spesa realizzata con Agen-da 2000. Ma anche quanto essa sia stata inferiore alle dimensioni che diceva di poter conseguire. Il fatto è che gli effetti moltiplicativi, che abbiamo descritto, richiedono che la spesa si traduca in investimenti, e non in una pioggia di rendite e sussidi, e che – parallelamente alla spesa che si realizza – quegli investimenti chiudano i fori della pentola meridionale. Espandano, cioè, l’offerta di beni e di servizi prodotta in loco, ed aumentino la produttività delle forza lavoro impegnata nelle produzioni locali. Perché, in questo modo, si ribalta la relazione negativa della dipenden-za. Il Mezzogiorno produce per se, esporta e finanzia, in prospettiva, la propria accumulazione: senza dover più dipendere da flussi di spesa pubblica esogena. I nuovi investimenti dovrebbero andare in tre direzioni. Rafforzare la rete delle infrastrutture, che connettono tra loro le varie parti del Mezzogiorno, per creare un vero grande mercato di oltre venti milioni di consuma-tori: molto più grande di molti mercati domestici che si trovano negli Stati new comers nell’Unione Europea. La seconda direzione è quella del risanamento delle grandi città e dei possibili sistemi urbani di secondo livello. Napoli e Palermo, certamente, ma anche le poten-ziali conurbazioni tra Salerno ed Avelino; tra Bari, Brindisi e Lecce; tra Benevento, Campobasso ed Isernia. Solo per fare qualche esem-pio. La terza direzione è quella dei sistemi di imprese: rinunciando alle microimprese ed ai capannoni delle grandi imprese esogene. Reti di imprese collegate tra loro; capaci di stringere relazioni e collegamenti con i mercati internazionali. Reti di impresa in cui riversare le com-petenze e le capacità di una forza lavoro che è ampiamente ecce-dente rispetto alle dimensioni della

domanda che possono esprimere oggi le economie locali.

È evidente che tutto questo non si possa fare affidandone la realizzazione ed il coordinamento a sei regioni. Sono troppe, troppo piccole e troppo litigiose contro la presunta invadenza delle buro-crazie nazionali. Creino, invece, le regioni meridionali un proprio sistema di coordinamento per la regia politica di questa prospettiva e diano vita – chiedendo fondi e competenze al sistema bancario ed agli organismi internazionali – ad una banca di sviluppo che sia per loro uno strumento prezioso: una struttura tecnica idonea per proget-

tare, valutare e gestire investimenti capaci di creare valore, alimentare la crescita, riequilibrare il gap tra capacità di spesa e capacità di produrre. Assegnino le Regioni una finalità unica e condivisa all’ultimo ciclo delle politiche di coesione: mettere il Mezzogiorno in grado di reggere la sfida per la creazione di un’area di libero scambio, un gran-de mercato unico nel Mediterraneo. Magari non 2010 – come si illuse l’Europa di poter fare, a Barcellona nel 1995 – ma nel 2014, come conclusione riconoscibile di una lunga parabola europea.

Non bisogna avere paura di pensare in grande se si vuole trasformare il Mezzogiorno in un paese normale ed europeo.

Nord e Sud non sono la mede-sima cosa e le due questioni poli-tiche – troppo Stato e troppo poco Stato – da risolvere sono un grande problema. Ma con la nascita di istituzioni nuove, capaci di alimen-tare spinte di liberalizzazione e di coordinamento, nelle due sezioni del paese, si avrebbero certamente effetti migliori dell’attuale confusa reciproca diffidenza tra i due corni del nostro dualismo.

Il cambiamento sarà tanto più efficace quanto più si annunci come una novità radicale, come una com-provata diversità dal passato.

Mezzogiorno

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Scrive Castells: “…l’ambito urbano oggi si contraddistingue dalla multifunzionalità che va oltre la segregazione funzionale della passata urbanistica” e le “nuove attività di progettazione {urbana} portano contemporaneamente a un decentramento e a un accen-tramento di una costellazione sui centri dell’area metropolitana…” e “non dovrà trattarsi di un solo immaginario dominante, quanto piuttosto di una cultura di comu-nicazione tra coralità…”.

Oggi, Napoli è ancora il nega-tivo di tutto questo.

E il fatto grave non è che Napoli non segua Castells, ci mancherebbe.

Solo che quei concetti valgono anche per il suo futuro.

Napoli con il suo PRG 2004 “la passata urbanistica” l’ha invece riconfermata con l’articolazione spaziale per zoning, “la segrega-zione funzionale …” cui si riferisce Castells.

Napoli non ha affrontato poli-tiche per decentrare e per ricom-porre secondo nuove condizioni urbane e sociali gli spazi urbani, perché ha eluso il problema di una «costellazione sui centri dell’area metropolitana».

E poi Napoli stenta a distac-carsi dal suo “solo immaginario dominante”.

Sociologi e urbanisti hanno così continuato nel loro impegno per misurare il disagio urbano, hanno avvicinato indicatori più sofisticati per meglio misurarlo, il

malessere della Città, hanno esplo-rato una quantità di campi diversi per affrontarlo…per questo oggi lo strumento di zona franca si carica di terapeuticità.

Non rinvango tanto indietro nel tempo, ma già cinquantanni fa, quando iniziai ad affiancarlo negli studi per questa città, Luigi Piccinato me la spiegò bene la lezione, per cui non mi sembrò apodittica la sentenza: “i problemi di Napoli si debbono risolvere dall’esterno”.

Un modo diretto e semplice per tradurre il linguaggio ricercato di Castells?

E infatti, se finalmente – dopo rimbalzi da legislature a legislature (undici anni se non vogliamo an-dare troppo indietro: dal primo

Governo Prodi) avremo la tanta attesa e indispensabile riforma urbanistica, con norme moderne per il governo del territorio, que-sta con molta probabilità intro-durrà il dispositivo della fiscalità urbanistica.

Una norma a regime che con-sentirebbe, con riferimento all’inte-ro tessuto urbano delle nostre città, di evidenziare contestualmente natura e qualità delle situazioni del degrado urbano e sociale e di premiare gli interventi di riqualifi-cazione più difficili.

E con azioni sia sulla base delle procedure previste dai piani locali sia su quella di specifici strumenti di scopo.

In presenza di gravi crisi econo-miche e sociali – che fisicamente si

Sta per essere pubblicata in volume una ricerca sulle Zone Franche Urbane realizzata dalla Fondazione Mezzogiorno

Europa per conto del Centro Studi dell’Unione degli Indu-striali e della Camera di Commercio di Napoli. La ricerca si

articola in cinque saggi – di Paola Coppola, Emanuele Di Palo, Giovanni Forte, Alberto Gambescia e Donatella Tra-

montano – e due contributi scientifici – di Eirene Sbriziolo e Paola De Vivo – dei quali riportiamo alcuni stralci.

Le Zone Franche Urbane

MICRO OPERATIVITÀ SPERIMENTALEEirene Sbriziolo

1�

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traducono in degrado fisico di tante parti delle città – si rendono neces-sari responsabili e non marginali cambiamenti, anche di natura nor-mativa, per non ripercorrere neu-trali ripristini di superficie di aspetti urbanistici, oltre tutto inconsistenti per poter considerare anche quelli economici e sociali dei luoghi.

La fiscalità urbanistica configu-rerebbe un approccio allo scopo, mettendo a confronto offerte di privati e riconoscendo loro van-taggi fiscali in merito a programmi e soluzioni che rivestono massimo interesse per la riqualificazione della città. […]

L’oggettoIo assumo la Zona franca ur-

bana come motore di avvio di una possibile micro operatività sperimentale in grado di concepi-re politiche urbane con modalità integrative di differenti programmi e interventi innovativi e di attori diversi, per superare le difficoltà dell’intervento ordinario per riquali-ficare tessuti cittadini manomessi e degradati fisicamente e socialmen-te: per modo di puntare su concre-tizzazioni rapide e, soprattutto, più che all’improbabile compiutezza dell’esito al messaggio per la comu-nità: stiamo provando per voi.

E si tratterà anche di spiegare bene perché i primi interventi solo in parte potranno incidere sulle radi-ci del degrado. Che si dovrà lavorare insieme e per lungo tempo…

Da molti anni in molti Paesi europei sulle azioni minute è stato costruito il consenso verso le istitu-zioni locali, e riposta tanta fiducia in quelle istituzioni da seguirle nelle proposte di più complessi progetti e con più lunghi tempi realizzativi, perché –si sarebbero – realizzati.

Una boccata d’aria nuova per cittadini stanchi e delusi delle grandi narrazioni urbanistiche per la città e che non si concretano, delle epifanie dietro l’angolo?

Forse dal piccolo comince-rebbero a vedere e, soprattutto, a capire che è possibile fare. […]

Si puòoperare nelle contraddizioni?

Il caso del centro storico, pri-mo esempio, e che la stessa legge finanziaria indica per un’area di zona franca.

Qui, da un lato, si ribadisce il riconoscimento dell’UNESCO, assimilato ad una condizione d’intoccabilità. Da un altro, gli stessi difensori della conservazione propongono per la zona franca addirittura il perimetro dell’intera città storica.

Difesa e fraintesa, la città sto-rica e, per maggiore sicurezza, codificata fino all’ultimo dettaglio nel PRG.

E il riconoscimento dell’UNE-SCO diventa orgoglio ed incubo,

Non sarebbe più semplice, oltre che corretto politicamente e culturalmente, dare uno sguar-do ai luoghi e ai siti riconosciuti dall’UNESCO per tranquillare i difensori emotivi?

Si apprenderebbe che questo Organismo non si oppone alle azio-ni qualificate, perché sono queste che ci vogliono per salvaguardare dal degrado luoghi e monumenti eccellenti: quelli che l’UNESCO protegge per tramandarli come patrimonio dell’umanità.

L’incuria, questa sì, l’usura, il lavorio del tempo staranno a decretare irreversibili danni fisici, cancellazione di memorie.

Il caso Napoli tra immobilismoe innovazione

Rispetto a questa contraddizio-ne, la zona franca può avere un ruo-lo significativo, con un più d’anima e di personalizzazione ai casi, senza tradire sostanzialmente le caratteri-stiche che la informano?

È il caso di non sottovalutare questi indicatori di novità per Na-poli? Scuoterla dall’immobilismo?

Nonostante le conflit tuali-tà di contesto di varia origine e natura,quale si constata, a Napoli si realizzano interventi eccellenti e ospiti proprio in precarie realtà urbane, quasi a lasciarli in attesa della sua nuova immagine di città contemporanea.

Immagine che non potrà dare un disegno di piano, se continua a mancare il progetto/Napoli.

D’altra parte, Napoli non è una pagina bianca, i segni indicatori di modernità ci sono, basta leggerli.

La città storica è una galassiaE dentro questa galassia ci

sono le galassie‑isole, quelle di cui parlano alcuni astronomi. E dentro le galassie‑isole spiccano gli episodi/novità. Perchè non li osserviamo?

Ha senso attardarsi e polemiz-zare su questa o quella scelta per individuare l’area della zona franca urbana?

Cogliamo spunti immaginativi che queste moderne realizzazioni ci suggeriscono per liberarle dalla capsula degradata che le include.

Osiamo qualche nome.Cosa c’è alle spalle del MA-

DRE? Si può pensare di alleggerire il degrado dell’area intorno alla zona Settembrini?

E cosa dietro il rinato Teatro San Ferdinando? Può interessare un borgo S’Antonio Abate con nuove qualità urbane?

E le stazioni delle linee Metro-politane, cosa suggeriscono?

E fin troppo facile lamentare contaminazioni di frequentatori, se poi si sottovalutano le ragioni del fenomeno erratico: causa ed effetto dei luoghi sofferenti delle provenienze.

E la rilevanza sociale e econo-mica che avrà la facoltà di Medicina a Scampia ?

Non varrebbe una sperimenta-zione di zona franca urbana?

È fuori la città storica, quest’ul-tima, si dirà.

Ma anche la zona est della Città lo sarebbe, per non dire di

altre opzioni che pure sono state avanzate.

E si potrebbe continuare con al-tri esempi delle potenzialità urbane: mappa di Napoli alla mano.

Ma di questi pochi esempi mi servo, per far leva sulla carat-teristica sperimentale operativa che ha la zona franca urbana: di trascinamento verso una pratica di sperimentazione di natura ur-banistica e di accezione ampia per operazioni inedite: costruire contesti urbani di qualità intorno ad interventi‑episodio.

Non sarebbe una novità asso-luta: appartiene da anni a quelle logiche disattese in questa Città, ma sperimentate in più città italiane, con finalità d’implementare azioni di qualità In luoghi urbani e territo-riali a partire da realtà concrete.

Da anni la misura dello stato di degrado delle Città è stato indicato da tipi di strumenti e di interventi mirati e ritenuti, di volta in volta, i più incidenti per l’alleggerimento di emergenze urbane, le più critiche della città.

La realtà non sempre ha poi confermato l’attesa: nella mag-gior parte dei casi strumenti ed interventi non sono andati oltre la logica della risposta contingente, perché non c’era stato l’approccio ad una strategia di programmi e d’interventi da cui sarebbe stato possibile derivare azioni che non rimanessero marginali alla sostanza dei problemi.

Immaginerei questo nuovo strumento della zona franca il più possibile dentro a quelle problema-tiche di parti degradate della Città, quelle suggeritrici esse stesse di qualche proposta.

Qualcheimpressione

La soddisfazione per l’introdu-zione di una zona franca urbana a Napoli sembra – a prima impres-sione – che confermi una tendenza (inconsciamente consolatoria?) quella di confondere strumenti con

1�Zonefrancheurbane

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finalità. Tocca oggi alla zona franca urbana il ruolo salvifico?

Si pensa che sia la volta buona per interessarsi della parte scomoda e sofferente della Città: Il suo centro storico?

Un’impressione, ma sarà stata questa propensione ad ispirare qualche soggetto, di quelli da sempre più presenti sulla scena culturale, imprenditoriale, politica cittadina a reagire, e con qualche nota sopra le righe, per le incer-tezze (e forse la rinuncia) dell’Am-ministrazione nell’indicare il centro storico per la zona franca?

A me sembra che la preva-lente concentrazione sulla scelta di questa o di quell’area abbia rinviato l’approfondimento della valenza più significativa di questo strumento, e mi ripeto: la politica della sperimentazione.

Più volte ho avuto la sensazione che questa Città, continui a diffida-re delle novità e nel passato trovi le sue certezze.

Ma non sono tanto sicura che questa sensazione sia giusta: l’af-fetto per questa Città e l’impegno che le ho dedicato, non so più da quanto tempo, non elude tutti i tratti della mia appartenenza adottiva. E ancora mi imbarazzano le esal-tazioni che hanno sempre un più di esaltazione, e le delusioni che hanno un più di delusione.

Ma se un po’ di vero c’è in questa mia sensazione, la tendenza rassicurante alla certezza trove-rebbe specularità virtuale anche nella difesa del piano urbano: un elaborato di certezze e basato su logiche di tradizione.

Ora, la sperimentazione per sua natura non si concilia con certezze scontate.

E nei casi delle trasformazioni urbane il rischio delle imprevedibi-lità, che altererebbero i codici del piano rigido, c’è.

E, però, sarebbero proprio le imprevedibilità a rivelare alla cu-riosità della ragione opportunità e stimoli inediti per un progetto urba-no: si aggiungono consapevolezze gradienti e via via approssimate alla comprensività delle esigenze di

una Città. Da tempo i Paesi Europei sperimentano in materia di politiche urbane e l’U.E. suggerimenti ne ha anche dati.

Ma c’è voluta un’occasio-ne – questa della zona franca urbana per Napoli – per veicolare l’informazione rassicurante: la Fran-cia già applica questo strumento da dieci anni e con successo.

Non si dice come c’è riuscita.Per lo meno da un decennio

prima la Francia è stata tra i Pesi Europei che sperimentavano la va-lidità delle possibilità di interazione e di integrazione di strumenti di natura diversa ma concorrenti ai fini di perseguire politiche efficaci e plurali di sviluppo urbano e territoriale.

Ma non c’era già tanto, anche qui, e da più anni, per poter pro-muovere riqualificazioni urbane (direttive, suggerimenti, misure della U.E., specifiche leggi di scopo nazionali e regionali, e poi risorse e finanziamenti, professionalità e cultura…)?

E oggi? Si ricorrerà proprio agli strumenti in essere da anni per dare sostanza ai contenuti della zona franca.

E, infatti: “nell’ambito delle forme di pianificazione strategica e urbanistica,,è evidente la necessità di trovare efficaci forme di integrazione con gli strumenti in essere ed in previsione volti alla riqualificazione urbana e sociale dei quartieri degra‑dati quali i Contratti di Quartieri, i Programmi di recupero Urbano …e altri programmi complessi in opera a livello locale” (Paola De Vivo). […]

Per unanuova qualità urbana

La competitività economica e la coesione sociale cui l’Unione Eu-ropea ispira la nuova qualità urbana nel Mezzogiorno in generale e a Napoli scontano una conciliazione di grande difficoltà realizzativa.

La ricaduta è il degrado fisico di parti della Città. Con sacche urbane d’esclusione sociale nello

stesso scrigno del centro storico: scampie invisibili, esplosive.

In più, queste aree dell’esclu-sione sociale, in generale, a breve e medio termine – ai fini degli interventi – darebbero minori po-tenzialità di sviluppo economico e risultati visibili.

E per visibile intendo la perce-zione che le comunità avrebbero della bontà degli interventi, se sono davvero serviti. E, tuttavia, è oggettivamente difficile rappresen-tare i bisogni di una realtà umana e sociale specie se questa non ha più radici solo e prevalentemente locali (e le aree di esclusione sono anche questo).

È più difficile, in questi casi, selezionare interventi, definire progettazioni, indicare come si realizzerebbero, e individuare possibilità d’integrazioni e di com-plementarietà al contorno…

Già cinque anni fa – sulla Rivi-sta Mezzogiorno Europa – avevo riflettuto sui motivi per cui nelle realtà del Mezzogiorno le misure di investimento della U.E. non avrebbero dovuto declinare solo rapporti tra costi e utilità, che probabilmente sarebbe stato signifi-cativo centrare anche bilanci sociali (protocollo di Rio).

L’occasione alla riflessione me la forniva la circostanza che i programmi URBAN, che avrebbero dovuto garantire benefici sociali attraverso rigenerazioni urbane, di fatto non riuscivano ad aiutare molti centri del Mezzogiorno: erano realtà troppo fragili per es-sere inquadrate nell’impostazione originaria degli URBAN, perché le regole europee presupponevano esistenza di efficienza economica e di gestione.

Preoccupano queste realtà fragili del centro storico?

La sperimentazione con una zona franca urbana quanto può ser-vire ? E in quale rapporto andrebbe posta con parti urbane contigue e con più generali scelte ed interventi per la Città, per modo che il luogo risanato recuperi anche fisicamente la condizione di esclusione?

La zona franca – nonostante

si circoscriva in perimetro – per le finalità che traguarda sembra non debba seguire logiche di “compar-timento” rigido, e regole stabilite in termini definiti e definitive perché “dovrà rappresentare un’occasione per elevare i livelli d’integrazione fra le diverse politiche in ambito urbano…”(P.D.V.)[…]

Modellofrancese e zona francaurbana

Con l’introduzione del dispo-sitivo della zona franca urbana nella legge finanziaria 2007 tiene banco il modello francese appli-cativo di questo strumento ormai da dieci anni:<un tassello di un più vasto complesso di politiche urba‑ne…volto a contrastare fenomeni di marginalità e segregazione urbana > (P.D.V.).

L’obiettivo non è da poco, e si comprende anche con un confron-to molto sommario tra le politiche urbane italiane e quelle francesi che la Francia esce avvantaggiata da tutta una tradizione di studi urbani e di pratiche informate all’in-treccio territorio – società – Stato, che data da un quarantennio.

Il confrontocon la Francia: può essereutile?

Nel 1970 in Italia furono istitui-te le Regioni, e soltanto nel 1975 si pose mano alla definizione (e in modo prudente) delle competen-ze da decentrare alle Regioni (L 382/75 e di seguito DPR/616/77), ma rimane aperta tuttora la que-stione – anche dopo la riforma del titolo V della Costituzione che muta la nozione di urbanistica in governo del territorio regionale, con incer-

Zonefrancheurbane1�

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tezze di legislazioni e competenze concorrenti.

In Francia le Regioni nascono nel 1972: due anni dopo l’istituzio-ne di quelle italiane.

Ma nello steso anno 1972 in Francia si concreta il trasferimento della materia urbanistica dallo Stato alle regioni e si riforma conseguen-temente il regime amministrativo delle regioni stesse e nel 1976 si emana lo statuto della regione parigina.

Ma sin dal 1965 la Francia aveva lo schema dell’amenagement du territoire in base al quale ha evoluto nelle politiche urbane con caratteristiche di flessibilità per lo sviluppo.

La stessa applicazione dello strumento di zona franca urbana ormai decennale, aveva alle spalle a sua volta quelle politiche di c.d. aggiustamento, tendenti a costituire nuovi centri di sviluppo nella peri-feria parigina. Optando per priorità di interventi in quest’ultima rispetto agli stessi bisogni individuati al-l’interno della metropoli, con la finalità di privilegiare la qualità del rapporto Parigi – periferia.

Già allora furono creati, a fini operativi, organismi pubblici, sosti-tutivi delle collettività locali, con il compito di assicurare il governo dei suoli, la regolarità dei flussi d’inve-stimento, un più attento controllo dello sviluppo.

Anni fa Massimo Saverio Gian-nini nel corso di un convegno dell’INU reagì ad alcuni di noi prudenti sull’adozione di modelli e convinti che i territori sono orga‑nismi, ciascuno con il proprio DNA e censurò con veemenza il “rigetto degli apporti e dei modelli avanzati stranieri”.

Personalmente non ho pre-giudizialità ottimistica o non circa l’adesione a modelli stranieri.

Sono prudente, questo sì, per-ché vorrei prima rendermi conto delle implicazioni che comporte-rebbero in caso di trasposizione acritica in altre realtà.

I mutamenti delle città difficil-mente sono vissuti con analogie tra luoghi e luoghi e con la stessa

vivacità creativa. Né si può dare per scontato che le novità attraggano in eguale modo. Anzi di frequente il nuovo è misurato in rapporto a come muterebbero individuali comportamenti e abitudini di vita, di lavoro, di attaccamento a tradizioni.

Perciò penso che non sempre trasposizioni di modelli di azioni sul territorio – che in altre realtà hanno dato esiti positivi – sono di per sé replicabili negli stessi termini, modi, e tempi di assuefa-zione ad ogni latitudine o ambito culturale. […]

Territorio e politicheeuropee

Lo schema di sviluppo dello spazio europeo è del 1999. Cono-sciuto con l’acronimo SSSE/99, ma la contrazione ha fatto smarrire i significati.

Succede sempre più di fre-quente che si parli per sigle e, in quanto alle leggi, per numero.

E succede che si abbiano delle vittime, come nel caso dei PIT: di assonanza troppo leggera e civet-tuola per significare natura, portata e difficoltà che avrebbe incontrato una modalità di programmazione e d’interventi in Campania del tutto inedita. In una Regione priva an-

cora di un progetto/obiettivo e che rimane condizionata da logiche di separatezze programmatiche e de-cisionali, da conflitti di competenze non componibili su uno sfondo di condivisioni, e aggravate da fragilità di strumenti di piano locali.

Oggi le delusioni: il Mezzogior-no, la Campania non sono riusciti con i Progetti Integrati Territoriali (i PIT) 2000-2006 a incanalare politiche di nuova qualità, e si prende atto che vecchie logiche di dispersione non pagano e nemme-no allargano il consenso.

Andrea Geremicca – già due anni or sono – con un bell’articolo sulla sua Rivista: Riflessione sul futuro del Mezzogiorno, mettersi in gioco con fiducia aveva chiamato coriandoli quell’insieme di poli-tiche e di strumenti avviati negli anni per fare sviluppo (dalla pro-grammazione negoziata ai patti ter-ritoriali agli accordi di programma all’imprenditorialità diffusa …per la frammentarietà delle impostazioni, programmatiche e operative. E lamentava cambiamenti d’indirizzi …ogni quarto d’ora perché penano a darci efficienza e competitività.

Lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSS/99) ci mette un po’ d’anima e parla di politiche urbane: nasce dal trattato di Am-sterdam e dal suo titolo specifico dedicato alla coesione economica e sociale. E nonostante politiche europee per prassi, non si riferisco‑

no direttamente alla materia urbana e territoriale. lo SSS/9 avverte che politiche per il territorio (le settoriali in particolare) incidono fortemente sul territorio comunitario in quanto spazio geografico d’intervento: il loro impatto territoriale dipende dalla natura degli interventi, dalla natura finanziaria, da quella giuri-dica, e dalla pianificazione.

Spingendosi ad avvicinare anche livelli più locali per “l’im‑portanza crescente del ruolo delle collettività locali e regionale” …in “politiche di sviluppo territoriale che garantiscano uno sviluppo equilibrato e sostenibile del territo‑rio dell’Unione”.

Lo SSS/99 “si basa sull’idea che la crescita economica e la conver‑genza di certi indicatori non siano sufficienti per conseguire obiettivi di coesione economica e sociale” e “per rimediare alle disparità con‑statate è dunque auspicabile un intervento concertato in materia di sviluppo urbano e territoriale”

Un suggerimento di garanzie di dignità a tutti gi spazi urbani e sociali indipendentemente da di-mensioni, ruoli, e funzioni attuali?

O serve per individuare stra-tegie di sviluppo non trasponibili indif ferentemente in qualsiasi luogo, e per responsabilizzare alla comprensione e valorizzazione delle identità diverse, che reci-procamente si relazionerebbero con politiche di integrazione e di complementarietà?

Servono allora politiche più fini, più differenziate, e capaci di la-vorare nelle singole realtà, arricchi-te di economie esterne materiali e immateriali, e strutturanti capacità inedite relazionali, di cooperazio-ne, di capitale sociale…?

E se di questo dovrà trattarsi, che senso ha una rivalsa micro localistica per la scelta dell’area della zona franca urbana a Na-poli, laddove per la prima volta sulla rincorsa a presunte certezze, il nodo lo scioglierebbe la più razionale cultura della sperimen-tazione?

Architetto

20Zonefrancheurbane

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Può contribuire uno strumento, qual è quello della zona franca urbana, al rilancio complessivo di Napoli, una città che sembra alle prese con un incessante declino e preda di forze negative che ne osta-colano il cammino verso forme più evolute di organizzazione sociale, politica ed economica? Sino a che punto il carattere innovativo che permea questa forma di intervento la può concretamente aiutare a riposizionare la sua collocazione nello scenario nazionale ed inter-nazionale? Ancora, ha una logica prefigurare ex‑ante il percorso di attuazione di un tale dispositivo normativo, al fine di prevenirne i limiti ed anzi valorizzarne le potenzialità?

La sperimentazione di una zona franca può sortire, se adegua-tamente sorretta sul piano politico e della gestione, un effetto benefico per Napoli. Di seguito spiegherò meglio perché, articolando in modo più dettagliato ed approfon-dito quali motivazioni sostengono questa mia affermazione. […]

Napolinello scenario nazionaleed internazionale

La rivalutazione del ruolo della città nei processi di sviluppo eco-nomico e negli scambi internazio-nali ha dato luogo negli ultimi anni alla proliferazione di una letteratura specialistica, che si è essenzialmen-te soffermata su tre piani di analisi: la ridefinizione delle modalità di relazione che intercorrono tra la ristrutturazione dello Stato nazio-nale ed i governi regionali e locali,

l’europeizzazione, il fenomeno della globalizzazione. Sicuramen-te è possibile affermare alla luce delle acquisizioni che emergono dai molteplici studi sulle città, che queste ultime vivono, in particolare in Europa, un periodo di declino non congiunturale. Oggi si avverte la necessità di recuperare su questo versante ed è in corso un processo di riabilitazione anche culturale delle potenzialità dei centri urbani, con le città che vengono presen-tate e percepite come i luoghi nei quali si condensano i principali presupposti sociali per affrontare la competitività mondiale.

L’attenzione dedicata ai pro-blemi delle città, dopo un periodo di scarsa considerazione goduta dalle politiche urbane, dovuta peraltro all’affermazione in molti paesi di una corrente politica ispirata ad un’impostazione di stampo neo-liberale, è ripresa con l’espansione economica di settori – dalla finanza all’editoria sino alla comunicazione – nei quali l’innovazione nelle conoscenze e nelle tecnologie è fondamentale e necessita di essere continuamente riprodotta.

I fenomeni di ristrutturazione spaziale dell’economia hanno con-tribuito all’ulteriore sviluppo di vere e proprie città “globali”, caratteriz-zate da una forte capacità attrattiva, che hanno ridisegnato la geografia urbana intessendo reciprocamen-te delle complesse relazioni di scambio. In questa generazione di nessi funzionali e di sinergie interplanetarie, ciascuna città ha poi sviluppato una “competenza distintiva”, denotando un percorso di sviluppo originale, che si traduce spesso in una specializzazione in particolari attività economiche, produttive e dei servizi.

Nella rete che si è costituita

tra le maggiori città del mondo, si rinviene la posizione che esse hanno raggiunto, rispetto alle altre, nella divisione internazionale della produzione, del lavoro, della cul-tura. Si comprende, altresì, come questa fitta ed intesa rete di scambi sia espressione essa stessa del grado di strutturazione raggiunto dal capitalismo a livello globale. Le città che predominano nello scenario internazionale sono quelle la cui performance competitiva è migliorata grazie alle capacità di governo delle elite politiche ed amministrative urbane, che hanno sapientemente dosato riforme nelle politiche economiche con ingenti investimenti nel campo delle cono-scenze e della formazione, predi-sponendo programmi d’intervento pubblico basati su una combinazio-ne di strumenti tra loro strettamente integrati: incentivi per la diffusione e l’utilizzo di tecnologie innovative, per l’attrazione di investimenti e di capitale finanziario dall’estero, per la formazione e lo sviluppo di capitale umano. Il punto è che il protagonismo delle città globali non si è arrestato davanti alla crescita economica; le ammini-strazioni locali più lungimiranti si

sono in verità servite dell’incre-mento di risorse finanziare derivati da quest’ultima, ricollocando e destinando i profitti aggiuntivi ad investimenti per le opere pubbli-che. La crescita economica ha così avuto un’altra funzione di stimolo nei processi di sviluppo urbano, contribuendo all’incremento della costruzione di infrastrutture civili, al mantenimento e all’ammoder-namento dell’arredo urbano, alla riqualificazione d’intere aree, il cui degrado può compromettere od ostacolare un’ulteriore espansione del mercato.

Napoli è alla ricerca di una pro-pria collocazione nella gara com-petitiva che si è aperta tra le città internazionali e nazionali. In fondo, ormai da più di tre lustri, anche in questa città si discute di politiche per la riqualificazione urbana, giun-gendo a formulare diverse ipotesi, concepite per intraprendere delle azioni finalizzate alla rigenerazione e al rilancio della città. Espressione di un tale fermento politico e cul-turale sono le numerose proposte avanzate per ridare ossigeno alla città: dalla definizione di un mo-dello di pianificazione strategica alla riorganizzazione delle sue

QUALE È LA DIMENSIONE IDENTITARIADI NAPOLI?Paola De Vivo

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funzioni e competenze politiche ed amministrative, con la riforma delle municipalità; dallo studio dei nessi funzionali del capoluogo con l’area metropolitana, una riforma mai decollata, sino al rapporto con le altre città della stessa regione.

A fronte degli sforzi profusi dall’amministrazione cittadina, il decollo auspicato nello sviluppo stenta ad innescarsi; vi è anzi un dualismo di fondo che impronta il processo di ristrutturazione urbana ed il più complessivo ridisegno spaziale di questa città: è come se due movimenti antagonisti la spin-gessero in una direzione opposta. Da un lato, la sua collocazione a livello internazionale è del tutto marginale, mentre, dall’altro, essa è in una posizione di predominan-za nella regione, che la configura addirittura come gerarchicamente superiore, rispetto agli altri ca-poluoghi di provincia (Salerno, Caserta, Avellino, Benevento). Alla supremazia di Napoli in termini di abitanti, di dotazione di servizi e di funzioni direzionali si contrap-pone però la crescita in città di una tensione, sempre più avvertita e percepibile dalla cittadinanza, relativa alla sostenibilità territoriale, ambientale e sociale e alle scadenti modalità di fruizione degli spazi e delle strutture urbane.

Una delle cause che, almeno in parte, spiega la persistenza nel tempo di un tale dualismo, va ricercata nel fatto che Napoli è completamente esclusa dal circuito che connette a livello nazionale le città più rilevanti, strategiche e centrali per lo sviluppo economico del nostro paese (Milano, Torino, Roma). Le altre città italiane han-no trovato, o stanno cercando sul serio, una loro specifica identità e specializzazione nei cambiamenti che hanno attraversato il capitali-smo italiano e globale, mentre Na-poli stenta a relazionarsi con esse perchè non riesce ad esprimere una sua precisa dimensione identitaria e, perciò, neppure ad individuare un proprio tratto distintivo. È città di mare, è città post-industriale, è città d’arte, è città tuttora alla ricerca di

un processo d’industrializzazione. A ben osservare, è tutto e niente allo stesso tempo.

Il risultato è che nella sfida tra quelle che sono definite le lepri del capitalismo – le città – e le tartaru-ghe statali, Napoli si ritrova affan-nosamente a correre senza avere una meta precisa da raggiungere. Le politiche urbane finiscono, in tal modo, per indebolirsi ulterior-mente, perchè chiamate a far fronte ad una duplice sfida. Da un lato, mantenere le città all’avanguardia di un’economia sempre più mon-dializzata e competitiva; dall’altro, fare i conti con i ritardi accumulati, con il degrado urbano preesistente. Se è vero che nel ridisegno com-plessivo di tali politiche entrambe le sfide sono accolte e considerate come normali per lo sviluppo di un qualsiasi ambiente urbano, nel caso di Napoli, la priorità dell’azione di governo, il suo principio fondamen-tale, rimane colmare il ritardo che si è accumulato sul fronte dell’ammo-dernamento delle infrastrutture fisi-che e, soprattutto, della formazione e della valorizzazione di risorse civiche. Bisogna, però, evitare il rischio di entrare nella trappola della dipendenza dalle condizioni di partenza, che finisce per divenire un alibi che frena le stesse ipotesi di trasformazione urbana e di ricerca di modelli d’innovazione politica ed amministrativa. In che modo si può allora sfuggire ad una tale trappola? […]

La replicabilità dell’esperienza

Vale la pena riprendere, dopo questo rapido excursus sul caso francese, i contenuti delle doman-de formulate in apertura: si può replicare un esperimento di tale natura a Napoli (ed ovviamente in altre realtà urbane del Sud dell’Ita-lia), e, soprattutto, quali scenari sono prefigurabili sul terreno del-l’attuazione�?

� Le seguenti riflessioni risentono di

Naturalmente, è superfluo avvertire che esiste un problema di replicabilità delle esperienze in contesti differenti da quelli in cui si sono verificate: nel campo del sociale “sterilizzare” le variabili di disturbo ambientale è un’utopia; soprattutto quando si è impegnati a risolvere delicate problematiche sociali – criminalità, lavoro nero e minorile, abbandono ed evasione scolastica – si è sempre alle prese con la questione degli esiti impre-vedibili di progetti e di strumenti pianificati “dall’alto”. Il processo che origina dal percorso di at-tuazione di qualsiasi dispositivo normativo è soltanto parzialmente controllabile secondo un ottica razionalistica, funzionalista o di evoluzionismo sociale. L’uso della comparazione sembra comunque offrire degli spazi per un confronto costruttivo, di certo rimane più complesso indagare in profondità i meccanismi e le logiche d’azione che inevitabilmente accompagne-ranno un processo che, per ora, è in fieri. Ciò non blocca del tutto l’eser-cizio in corso, la prova è quella di rintracciare quegli elementi utili a rimarcare le diversità di fondo che caratterizzano i contesti nazionali e locali che si raffrontano, con il fine di tratteggiare uno scenario che lasci intravedere gli eventuali punti di blocco ed aiuti sin d’ora riflettere sulle loro cause e, soprat-tutto, sulle soluzioni da individuare per rimuoverli. Si tratta, insomma, per una volta di cercare di giocare d’anticipo.

In questa prospettiva, un primo aspetto che colpisce dagli indizi che si colgono, riguarda una diver-sità di significato attribuita alle fina-lità dello strumento dai due governi nazionali. L’azione del governo francese a favore dell’integrazione sociale sembra puntare molto più decisamente sullo strumento delle zone franche per innescare cambiamenti profondi e duraturi nei quartieri urbani: trasformazioni

un quadro normativo ancora incerto, in assenza di un testo ufficiale definitivo e della posizione che assumerà la Commis-sione europea e lo stesso Cipe.

dell’ambiente, sviluppo di servizi pubblici di qualità e dei mezzi di trasporto. Dopo i recenti disordini nelle banlieues, ristabilire un ordine territoriale, ed anzi mettere ordine in una situazione sociale che presenta tratti di reale complessità, rimane in Francia una priorità go-vernativa. Che dire a proposito del caso italiano? In Italia, il governo centrale si è impegnato con l’ultima finanziaria approvata a rendere disponibili delle risorse pubbliche da attivare per risolvere, allo stesso modo, quei fenomeni diffusi di disagio sociale ed economico che caratterizzano le strutture urbane, limitando tuttavia l’intervento “ad aree e quartieri degradati nelle città del Mezzogiorno”. Su di un terreno simbolico, si riconosce un’accentuazione, nell’imposta-zione governativa, maggiormente orientata a tamponare o risolvere le problematiche dell’arretratezza sociale ed economica, piuttosto che a porre al centro del provve-dimento, come nel caso francese, la questione dell’esclusione sociale. In pratica, in Italia, il debolissimo progetto di politica meridionalista ormai esistente, comporta che l’azione governativa individui di volta in volta in finanziaria provve-dimenti specifici – il cuneo fiscale, le stesse zone franche… – ma un disegno unitario su come aggredire i mali del Mezzogiorno, in verità, continua a scarseggiare. […]

Prefigurandouno scenariodi attuazione

Da quanto appena esposto, è bene convincersi sin d’ora che le misure agevolate possono avere una loro significatività ed effetto nel rilancio complessivo degli investimenti pubblici e privati di Napoli, ma non hanno un’inci-denza di carattere “strutturale”, essendo concepite unicamente come risposte a situazioni eccezio-nali di crisi delle strutture urbane; anzi, esse sono limitate nel tempo,

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fermo restando che può essere sia concessa la possibilità di una pro-roga, oppure che si delinei un piano graduale d’uscita dal beneficio delle esenzioni. La consapevolezza da acquisire è che, in prospettiva, i nodi da sciogliere sono quelli che in città ritornano perennemente al pettine: i vincoli a cui è sottoposto il patrimonio edilizio, la criminalità organizzata e diffusa sul territorio, la dequalificazione delle risorse umane o, all’inverso, con livelli di istruzione addirittura troppo elevati per il contesto di riferimento, la de-bolezza dei capitali di investimento privati, la bassa propensione delle banche a finanziare progetti di investimento privati e/o a parteci-pare al cofinanziamento di opere pubbliche.

Uno dei nodi più spinosi che si ripropone è, dunque, quello degli spazi per la localizzazione delle imprese, in una città satura e alla ricerca di una riconversione industriale, dove tuttavia i vin-coli urbanistici previsti dal piano regolatore – o quelli della tutela del patrimonio storico ed ambientale, oppure quelli burocratici per la concessione di autorizzazioni e permessi – sono così stringenti da non permettere la rapida ripresa di un ciclo di appalti pubblici finalizzati al risanamento urbano e/o alla costruzione ex-novo di spazi per l’insediamento di attività imprenditoriali e per la riqualifica-zione delle strutture già esistenti. È presumibile, pertanto, che gli investimenti privati sarebbero fre-nati nella loro espansione, mentre la stessa realizzazione delle opere pubbliche finirebbe per bloccarsi a causa dei veti incrociati da parte di burocrazie eccessivamente tarate sul rispetto dei vincoli formali e procedurali (ed estremamente gelose delle proprie prerogative e competenze istituzionali). Una stra-da da seguire per uscire da questa prevedibile impasse, è quella che si riferisce alle pratiche attivate, anche in Francia, per promuovere un’urbanistica “consensuale”, in cui politiche di concertazione tra soggetti pubblici e privati hanno

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consentito di trovare degli accordi di massima per “flessibilizzare” l’uso degli strumenti urbanistici in funzione dei bisogni di sviluppo della collettività. È lecito attendersi, inoltre, che il rilancio dell’edilizia pubblica e privata può richiamare l’attenzione di gruppi d’interesse criminali, tradizionalmente pronti, come la storia del Mezzogiorno insegna, a cogliere illegalmente le opportunità di mercato che si dischiudono da questo settore. Può risvegliare poi l’interesse di gruppi di speculatori, posto che neppure questi ultimi si sono mai tirati indie-tro nel dare un ragguardevole “con-tributo” agli abusi paesaggistici che abbondano nella città di Napoli ed in altre realtà meridionali. Accanto ad una deriva camorristica/specu-latoria che potrebbe originare da un rilancio dell’edilizia, vi è un altro pericolo da contenere, quello di una diffusione e penetrazione di gruppi criminali nelle attività economiche vere e proprie (dal riciclaggio di denaro sporco in attività lecite all’usura).

Il pessimismo che sembra traboccare da questo scenario può apparire eccessivo rispetto alle aspettative benefiche che, in ogni caso, si ritiene potranno discendere dall’implementazione dello strumento di cui si discute. Tuttavia, i rischi di un’ingerenza di gruppi d’interessi criminali vanno tenuti preventivamente in conto e posti sotto osservazione, poiché lo strumento, per definizione, va ad incidere su aree “sensibili” a queste problematiche. Va da sé, in altre parole, che sono proprio i peculiari caratteri di arretratezza economica e di marginalità sociale delle strutture urbane su cui esso interviene che devono ancora di più allertare l’attenzione delle istituzioni pubbliche locali. In caso contrario, si tratterebbe di una col-pevole omissione, di un reiterarsi di comportamenti, da parte delle classe politica e delle altre ammi-nistrazioni competenti su questa materia, il sottovalutare sistema-ticamente l’importanza di una bonifica del territorio dai gruppi

criminali. Un ostacolo allo sviluppo economico che si ripropone nelle aree d’istituzionalizzazione delle zone franche, con l’aggravante che le iniziative da intercettare hanno come riferimento principalmente le aziende estere, le quali in uno scenario globale dispongono di un’ampia possibilità di scelta per la localizzazione e, di conseguenza, potrebbero preferire territori più “tranquilli” sotto questo versante.

La limitatezza del raggio d’intervento della zona franca potrebbe invece consentire un controllo più serrato del territorio e di prevedere con largo anticipo delle incisive azioni di contrasto alla criminalità. Tali azioni si devono necessariamente concen-trare a monte e a valle delle filiere produttive e delle zone prescelte per l’intervento. A monte, la mancanza di capitali iniziali da avviare nell’attività imprendito-riale spinge spesso alla ricerca di capitali finanziari “alternativi” (come l’usura); a valle, nel control-lo particolareggiato della fase di distribuzione di beni e servizi sul territorio, dedicando attenzione alle possibili forme di riciclaggio delle risorse finanziarie ottenute illegalmente. L’illegalità delle atti-vità imprenditoriali, oltre che nella natura dei finanziamenti e degli investimenti, si materializza nella produzione e nella vendita di mer-ci contraffatte, commercializzate in mercati sommersi paralleli a quelli regolari. Infine, l’esecuzione delle opere pubbliche ed i relativi appalti sono stati, spesso, fonte di commistione tra interessi crimina-li, politici ed amministrativi. Per fronteggiare le forme di devianza sociale e ridimensionare il ruolo dei gruppi criminali che control-lano il territorio, ancora una volta può essere d’ausilio ricorrere alle pratiche della concertazione, in-tensificando i rapporti istituzionali tra i soggetti variamente coinvolti in queste problematiche (forze dell’ordine, guardie municipali, istituzioni scolastiche ed univer-sitarie, ecc.) affinché le azioni di contrasto a riguardo siano inte-

grate negli obiettivi repressivi e di prevenzione da perseguire.

In definitiva, per accrescere l’interesse delle imprese di livello in-ternazionale ad insediarsi nelle zone franche si potrebbe strategicamente offrire un “pacchetto integrato” di azioni che comprendano congiun-tamente la stipula di accordi sulla sicurezza territoriale con un insieme agevolazioni, esenzioni, ed iniziative tese alla conoscenza e alla valoriz-zazione delle potenzialità imprendi-toriali. Attraverso la sperimentazione del dispositivo sulle zone franche si potrebbe addirittura arrivare ad una certificazione preventiva sulla Sicu-rezza e la Legalità Territoriale, un vero e proprio “marchio” di qualità, che potrebbe fungere da stimolo per la “cattura” di potenziali investitori internazionali e convincere il go-verno nazionale, negli ultimi tempi piuttosto scettico sulle capacità degli amministratori locali, che questa volta si fa sul serio.

Zona francae rilanciodella città

Per concludere, c’è da chie-dersi in maniera realistica se a Napoli vi siano le condizioni necessarie per portare a compi-mento un’iniziativa così ambi-ziosa. In una città dove tutte le negatività sembrano sommarsi tra loro, quasi frenando qual-

siasi spirito d’intrapresa, ritorna la domanda: si può uscire dal determinismo delle condizioni di partenza grazie al dispositivo della zona franca urbana?

Può servire, a tale scopo, tirare le fila del discorso sin qui abbozzato, per rispondere con un’affermazione positiva, soffer-mandosi sulle ragioni principali che spiegano perchè è il governo cittadino a giocare la partita più rilevante e, in ultima istanza, più difficile a proposito del provvedi-mento di cui stiamo discutendo. L’istituzione della zona franca in città può divenire un’occasione positiva per cercare di forzare e scardinare un’impostazione degli strumenti di indirizzo, che ha visto prevalere, mediante la piani-ficazione strategica, un approccio sistemico alle politiche urbane e per lo sviluppo, ma che rischia di riprodurre un altro dualismo: una separazione tra la mission di lungo periodo, che proietta la città nel futuro tra più di un decennio, e l’articolazione della sua strategia d’attuazione nel breve e medio periodo, che deve necessariamente scandire su di un arco temporale molto più ristretto i ritmi della programmazione, della gestione e del controllo nell’esecuzione del ciclo d’inter-venti di volta in volta prescelti e da realizzare. […]

Dipartimento di Sociologia, Università degli Studi di Napoli Federico II

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Il mondo è for temen-te cambiato nel corso dell´ultimo decennio. Nuovi paesi si affacciano con forza sullo scenario delle relazioni interna-zionali, ne cambiano le dinamiche e le regole.

Sta dunque alle forze di sini-stra, ai socialisti europei porsi la questione di come elaborare un nuovo pensiero e nuove norme che rendano l’approccio al com-mercio internazionale piu attuale. Non dovrebbe essere piu´un vago concetto mercantile a dominare le scelte, ma piuttosto bisognerebbe dare spazio all´idea dello sviluppo possibile. La cultura del “libero scambio” nei rapporti economici internazionali deve lasciare il posto a quella del rispetto dell’ambiente e dello sviluppo, per permettere di dare il giusto riconoscimento all’evoluzione storica e attenuare gli effetti negativi dell’economia mondiale.

Ma di cosa parliamo? Come l’Unione europea porta avanti la sua politica commerciale co-mune?

La politica commerciale del-l’Unione europea esiste da molti anni ed offre numerosi vantaggi che le fanno assumere un ruolo di par-ticolare importanza nel panorama delle politiche comunitarie.

Nei trattati di Roma del 1957 la Comunità europea codifica l’obiet-tivo della creazione di un’unione doganale, con l’abolizione dei di-ritti di dogana all’interno dei paesi della Cee e con lo stabilimento di una tariffa doganale comune per i prodotti importati dai paesi terzi. La realizzazione dell’unione doganale in questi termini fa nascere pratica-mente la Comunità europea, e la politica commerciale le permetterà, nel corso del tempo, di raccogliere i frutti positivi di questa scelta

iniziale, facendo dell’attuale UE il blocco commerciale più importan-te al mondo.

Per arrivare a questo gli Stati membri hanno dovuto cedere una parte della loro sovranità. Oramai la Commissione europea è in grado

di negoziare nell’ambito dell’Or-ganizzazione mondiale del Com-mercio a nome degli Stati membri dell’Unione europea.

È per questo motivo, per l’im-portanza del ruolo che l’UE gioca nello scacchiere mondiale degli

scambi, che deve assumersi anche la responsabilità di garantire la giusta rappresentanza e il giusto ruolo a tutte le aree geografiche che partecipano all’economia mondiale.

La politica commerciale comu-ne offre tutta una serie di opportuni-tà. Come principale mercato mon-diale l’Unione europea è un partner commerciale molto interessante. La posizione negoziale europea dovrebbe, perciò, adoperarsi per promuovere le norme ambientali e di rispetto del lavoro in maniera adeguata, sia a livello multilaterale che a livello bilaterale e regionale.

Non che questo non si faccia già. L’UE, per esempio, prevede un sistema di preferenze genera-lizzate supplementari per i paesi in via di sviluppo particolarmente vulnerabili (come el Salvador, cui recentemente è stato applicato questo regime). Inoltre l’Unione europea sostiene con chiarezza gli accordi che tengono in dovuta considerazione aspetti ‘non com-merciali’ come, per esempio, gli standard sociali ed ambientali. Il gruppo socialista è molto attivo su questa questione.

D’altra parte resta aperta la questione del controllo demo-cratico e della trasparenza degli accordi commerciali conclusi a livello europeo, posto che in questa materia il Parlamento europeo ha, ancora oggi, un potere meramente consultivo. L’evoluzione costituzio-nale dell’Unione europea dovrebbe includere disposizioni tali da per-mettere all’organo democratico dell’Unione di partecipare ai ne-goziati commerciali internazionali, e di rappresentare, cosi, la volontà della società civile.

E però in seno all’OMC che si registrano, ancora, le maggiori disparità. I negoziati non sempre tengono conto delle esigenze dei

La politica commerciale

europeaMarina Santarelli

europa

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2�diversi partners, dei diversi pae-si, dei diversi gradi di sviluppo. L’Unione europea dovrebbe farsi carico dell’esigenza di riconoscere e rispettare le diverse richieste. I membri dell’OMC provenienti dai paesi in via di sviluppo devono poter decidere del loro ritmo e delle tappe della liberalizzazione degli scambi e non dovrebbero subire alcuna pressione per fare di più di quello che possono fare al loro grado di sviluppo.

Oltre a prevedere un sistema speciale e differenziato, altri mec-canismi per facilitare gli scambi dovrebbero essere elaborati. In particolare per i negoziati relativi all’agricoltura nell’ambito del-l’OMC si dovrebbe riflettere su norme che permettano ai paesi in via di sviluppo di realizzare la sicu-rezza alimentare e salvaguardare il lavoro agricolo, che rappresentano due degli elementi più importanti per sconfiggere la povertà.

Resta da valutare se esiste una volontà politica, da parte dell’Unio-ne, di creare queste opportunità, per permettere a paesi poveri di giocare un ruolo più importante nell’econo-mia e nell’ordine mondiale.

Nel mondo di oggi il commer-cio può dunque essere considerato ‘secondario’ rispetto a realtà più importanti che s’impongono allo sguardo dei cittadini, come la pro-mozione delle norme ambientali e quelle della dignità umana. Vedre-mo, poi, nel prossimo futuro, come avremo cura delle risorse naturali, e come si potrà tenere sotto con-trollo il flusso degli investimenti e il cambiamento radicale dei regimi della proprietà intellettuale.

E gli elementi di cambiamento, i fattori di rivoluzione certa delle relazioni internazionali non si limitano a quanto detto.

Nei prossimi anni assisteremo ad una serie di fenomeni che do-

vranno, necessariamente, essere presi in considerazione perché ci sia un corretto sviluppo delle rela-zioni commerciali mondiali.

Si tratta innanzitutto dell’entra-ta prepotente di paesi emergenti, come il Brasile, l’India, la Cina, la Russia e il Sudafrica, che sono già da considerare come attori econo-

mici rilevanti sia a livello regionale che a livello mondiale.

Si tratta, anche, di tenere in debita considerazione il nuovo dina-mismo politico dei paesi dell’Ame-rica Latina, le loro iniziative per un’integrazione regionale, le loro proposte per l’utilizzo delle risorse. Pensiamo all’interessante sviluppo dei biocarburanti in Brasile e quello che questo può voler dire per lo sviluppo di queste popolazioni.

Il sistema di preferenze gene-ralizzate tra il Nord e il Sud del mondo promette grandi sviluppi. E Il fallimento del cosiddetto “con-senso di Washington”, rimette in discussione la teoria neoliberale dello sviluppo e mette in luce il grave deficit di legittimità delle isti-tuzioni del sistema erede di Bretton

Woods. Non possiamo però giurare che tutti questi fattori di straordina-ria importanza siano stati compresi, o semplicemente analizzati con attenzione a livello delle istituzioni economiche mondiali.

Eppure le relazioni commercia-li internazionali sono di fronte ad un bivio, di fronte alla storia che

marcia rapida verso un passaggio in rapida evoluzione. I negoziati in seno all’Organizzazione mondiale del Commercio si confrontano ad una crisi di vasta portata. Il mondo organizza i propri scambi secondo i rapporti di forza che si vanno via, via formando.

Le forze di sinistra, di progres-so, i socialisti europei devono, perciò, prendersi l’impegno di agire per cambiare lo stato delle cose e per incidere nei processi futuri. Attraverso un dibattito che si spinga al di là del commercio in-ternazionale classico, che abbia lo sviluppo di vaste aree del mondo come uno dei propri obiettivi. Per permettere che, nel tempo, anche paesi in grave ritardo di sviluppo, come quelli africani, possano par-

tecipare dei benefici degli scambi internazionali. Anche la società civile, le ONG possono essere coinvolte in questo cambiamento. Sono loro, infatti, che, spesso, han-no una visione realista della dina-mica dei cambiamenti piu rilevanti del commercio mondiale.

L’approccio mercantile mostra tutti i suoi limiti. Nel mondo globa-lizzato è necessario saper governare il sistema, trovare la via di uno sviluppo alternativo che permetta di sconfiggere la povertà e che renda possibile la partecipazione ampia delle popolazioni di tutte le aree del pianeta.

Lo sviluppo nel Sud del mondo non è solo una scelta, è una neces-sità irrinunciabile. Molti conflitti di oggi sono dovuti al sottosviluppo delle popolazioni, nascono nella povertà delle popolazioni sotto-messe a sfruttamento economico.

L’emergenza di fenomeni come l’emigrazione illegale, il traffico di esseri umani e, non ultimo il terrorismo sono legati al persistere dello sfruttamento delle risorse e al sottosviluppo costante. Il man-tenimento della pace dipende da come saranno governati questi fenomeni, da come i cambiamenti saranno gestiti.

È necessario tenere presente, infatti, che ottenere lo sviluppo at-traverso una revisione delle relazio-ni commerciali mondiali, significa far crescere paesi emergenti, dare loro un ruolo e permettere ad altri, più poveri, di avere una speranza ed una possibilità concreta di avanzare in futuro.

Il futuro è di tutti e il futuro di tutti è legato a questa sfida. Avre-mo la pace soltanto attraverso lo sviluppo del Sud del mondo, si avrà sicurezza nei paesi sviluppati del Nord se le nuove relazioni interna-zionali saranno basate sulla giustizia sociale e sulla solidarietà.

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investiamo su di te

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Andrea Geremicca comincia chiedendo l’opinione di Rober‑to De Simone sul momento di crisi che vive la città di Napoli, denunciata con preoccupazione anche da intellettuali ed artisti come Ermanno Rea e Mario Mar‑tone. “Ma questi qui fanno parte della rocchia di Bassolino…” dice De Simone. “Quindi a te non pare che esprimano autentico disagio e delusione!?” osserva Geremicca. “Si, va bene, ma è una delusione molto tenue” chiosa De Simone.

Inizia così la conversazione tra i due, ed è subito chiaro che il Maestro non farà sconti a nessuno.

De Simone: Napoli sta viven-

do una situazione di grave degra-do civico, civile ed istituzionale, che si cerca di nascondere dietro la “verniciatura” della natura della città: rigogliosa di idee e di fantasia. Ma posta così, si tratta di una comoda strumen-talizzazione, che sminuisce la portata della creatività di Napoli,

riducendola a folclore e luogo comune. Per avere un’idea chia-ra dello stato della città, basta vedere a quale punto di audacia è giunta la malavita locale, che ormai quotidianamente ammaz-za per le strade provocando un gravissimo malessere sociale. Questa situazione era largamen-te prevedibile già quindici o venti anni fa, ma da allora non si è fatto abbastanza per promuovere la formazione dei giovani, che è il nodo principale di questo malessere. Un giovane delle nostre periferie, anche qualora riesca a studiare e finanche a conseguire una laurea, non trova poi alcuna possibilità reale di riscatto. In questa città ancora vige il privilegio di pochi, come tratto culturale dominante della borghesia locale, e impera la pra-tica dell’intrallazzo, che qui da noi è politicamente trasversale. Quest’idea, questa concezione distorta delle relazioni sociali, permea anche gli strati popolari, e tutti danno per scontato che si

IL RAPPORTOTRA SPETTACoLo

PoLITICA E ISTITUzIoNI Andrea Geremicca

ne discute conRobeRto De Simone e RobeRta CaRlotto

a cura di Cetti Capuano

Per riflettere sullo “stato dell’arte” a Napoli, insie‑me a due articoli, rigorosi e documentati, di Sergio Lambiase e Luciana Libero, abbiamo voluto racco‑gliere in una conversazione con Andrea Geremicca due punti di vista diversi. Molto diversi. Polemico (scrivilo pure:sono arrabbiatissimo), appassionato, estremo quello del Maestro Roberto De Simone, una vita per l’arte, riconosciuto e apprezzato nel mondo, reduce da due applauditissime rappresentazioni nei massimi teatri di Milano e Roma. Pacato, riflessivo, animato da un pensiero sostanzialmente positivo e fiducioso quello di Roberta Carlotto, Direttore del Teatro Stabile il Mercadante, all’indomani di un impegnativo e riuscito evento: il “Prologo” del Festival Teatro Italia, con decine di rappresentazio‑ni e interventi, una vera e propria prova generale della manifestazione che a partire dal 2008 si terrà annualmente a Napoli. Si parla d’arte. Ma il punto di partenza non può non essere la fase storica, nel suo insieme, che sta vivendo Napoli, una città in straordinaria difficol‑tà,” inguaribilmente ferita”, per usare le parole di Mario Martone, “che si attrezza culturalmente alla perdita di speranza”, nella quale “emerge una rete di complicità con cui i napoletani si tengono fra di loro per non morire, per sopravvivere in questa città purgatoriale” – , che tuttavia “può farcela”, pensa Andrea Geremicca, a condizione che ritrovi fiducia in se stessa e nel suo futuro. Insomma, non è affi‑dandosi “ai santi in paradiso”, ai potenti di turno che Napoli risolverà i suoi problemi. Deve rimboccarsi le maniche e fare affidamento sulle proprie forze, che esistono e sono tante. E allora, perchè non partire proprio dalle sue straordinarie risorse storiche e cul‑turali, dal suo prestigio internazionale (a Parigi, per esempio, quando si parla dell’Istituto per gli Studi Filosofici di Gerardo Marotta, si parla di un gioiello, di un punto di riferimento di valore universale, ed il San Carlo – al di là delle attuali traversìe – è consi‑derato all’estero il Teatro per eccellenza), dalle sue potenzialità e da quello che c’è già oggi in campo artistico (Napoli in questi anni ha prodotto un grande numero di validissimi giovani scrittori, che proseguo‑no e rinnovano una consolidata tradizione, e lo stesso può dirsi per le arti figurative), perchè non partire da tutto questo per guardare in avanti criticamente e con grande preoccupazione, certo, ma anche con razionale e fondata fiducia?

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possa raggiungere una stabilità e una sicurezza esistenziale solo attraverso “la maniglia”. Se un figlio di papà oggi vuole fare tea-tro, immediatamente la famiglia cerca la maniglia giusta e rende fattibile la cosa, a prescindere dai meriti del ragazzo, che non hanno più nessuna importanza. La borghesia napoletana è così! Il problema della disoccupazione è asfissiante, ed esiste il feno-meno della sottoccupazione, che è vastissimo. Oggi il popolo della sottoccupazione è forse la parte più esemplare e viva della realtà napoletana, vero e proprio baluardo della resistenza alla malavita e all’illecito. E la famiglia, dentro questa realtà, costituisce un elemento di forza e di sicurezza.

Geremicca: Perchè la fami-glia? Spiegati meglio.

De Simone: Si, c’è una parte residuale ma importante della realtà napoletana, che fa ancora capo ad un senso della famiglia ormai scomparso in altri ceti. Ne-gli strati sociali più modesti molto spesso i genitori hanno ancora il potere di esigere dai figli il ri-spetto dell’onestà e della legalità. In nome di questi valori solidi e “antichi”molti ragazzi si sottrag-gono alla delinquenza ed accet-tano anche la sottoccupazione, il lavoro non garantito purché sia un lavoro. Io credo che questo pro-letariato sottoccupato costituisca l’ultima spiaggia per Napoli. Una volta proposi pubblicamente alle istituzioni napoletane di istituire un premio annuale per i ragazzi che vivono di sottoccupazione, di precariato come si dice oggi, perché rappresentano la vera for-za morale della città. Poi ci sono ragazzi che escono fuori dalla famiglia, si sottraggono a questa tradizione di rispetto e accettano il compenso della camorra che consente di sopravvivere e ga-rantisce una propria rete di “pro-tezione”. Per questa situazione, purtroppo dilagante, poco o nulla

è stato fatto da decenni, mentre si continuano a gettare al vento i denari provenienti dall’Europa in manifestazioni autocelebrative. Non si è salvaguardato il prezioso materiale umano di cui Napoli era dotata, e così oggi la città subisce la prepotenza della camorra. Nella stessa borghesia non si ritrovano più i valori tradizionali di onestà e legalità. Molto spesso nelle classi borghesi i genitori si riconoscono nella trasgressività dei figli come espressione di un malinteso progressismo. Questo deriva da un travisamento della cultura di sinistra degli anni ’70 e ’80. Come una volta la borghesia esprimeva un modello “laurino” della napoletanità, così oggi la stessa borghesia, espressione di

una certa sinistra, finisce con l’esprimere qualcosa di molto si-mile al “laurismo” di un tempo.

Geremicca: Dunque tu indi-vidui nella famiglia tradizionale il nucleo fondante e garante della cultura della legalità…

De Simone: Certamente. Specialmente nella famiglia popo-lare. Oggi nelle famiglie borghesi troviamo dei genitori che invece di educare, ripeto, si ispirano ai disvalori dei figli. Invece un pa-dre sottoccupato, un lavoratore semplice, se un figlio dà segni di devianza, non lascia correre, interviene, procede ad atti de-cisi di critica e di accusa. C’è in questi ambienti un concetto

forte dell’autorità familiare, e il “ricatto materno”, chiamatelo come volete, è ancora salvifico per i ragazzi.

Geremicca: Francamente faccio fatica a seguirti. Se capisco bene tu ravvisi gli aspetti più positivi nel cuore antico della società napoletana, non nei pro-cessi di modernizzazione in atto, fortunatamente in atto, dico io, e purtroppo ancora troppo lenti.

De Simone: Ma diciamoci la verità: la modernità ha creato solo guai. In questa città si è affermato un senso sballato del progresso ed un arretramento dello sviluppo. Il fenomeno interessa un po’ tutto il Paese, ma a Napoli è più accentuato. Ad esempio, degli scippi si riten-gono responsabili sempre e co-munque i livelli sociali più bassi, mentre invece molto spesso avvengono al Vomero, ad opera dei figli della borghesia. Si sono rovesciati i ruoli, e la possibilità di salvaguardia è rappresentata dal ceto “resistente” al quale mi riferivo prima. Pensiamo a quella che è un po’ la somma manifestazione di questo ceto sociale, cioè al matrimonio. Per modeste che siano le condizio-ni economiche della famiglia, il matrimonio è un evento sul quale si investono risorse note-voli. Deve essere splendido ed esibire abbondanza di cibo, fiori e cantanti, a costo dell’indebi-tamento della famiglia. È chiaro che un matrimonio del genere non contempla neanche vaga-mente l’idea della separazione e del divorzio…. Bisognerebbe riflettere sulle canzoni napole-tane, che non sono quelle della moderna medialità. E neppure quelle cui fa riferimento anche il potere politico per rappre-sentare Napoli. C’è tutta una produzione “underground” di canzonette popolari, che ancora esprime in questi valori – come li tu: “antichi”? – il senso di una identità.

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�1Geremicca: Mario Merola,

per te, è espressione di questa cultura, di questa identità?

De Simone: Mario Merola rappresenta un grosso equivoco. È stato identificato con la sceneg-giata ma non è la sceneggiata. Il suo è piuttosto un revival della sceneggiata, che è morta negli anni tra il ’50 e il ’60. Quando Mario Merola ha ripreso questi prodotti, ha compiaciuto un pubblico che aveva vissuto la vera sceneggiata e ancora nostalgica-mente si rispecchiava in quel tipo di produzione ormai inesistente. Finito Merola, infatti, quel genere è morto.

Geremicca: Parliamo di tea-tro. La rivista Mezzogiorno Europa cerca di usare sempre il linguaggio della verità. Tende ad una lettura critica della realtà, ma tenta anche di cogliere gli aspetti positivi, le buone pratiche, per aprire finestre di fiducia sul futuro e mobilitare in avanti forze e intelligenze. Allora proviamo a esprimere un giudizio sul “Prologo” di questi giorni del Teatro Festival Italia.

De Simone: Ci sono due aspetti da tenere presenti. Uno è che il teatro napoletano è in maggioranza “istituzionale”, cioè garantito dalle istituzioni. Esso esprime al meglio il regime po-litico a cui la città è sottoposta. E lo esprime attraverso scelte fa-centi capo al sistema dominante, di privilegi e clientele, e ad una palese intolleranza verso qualun-que posizione di dissenso o di denuncia del malessere sociale dovuto a responsabilità delle isti-tuzioni locali. Fino all’isolamento e alla messa al bando. Purtroppo intorno al potere politico napo-letano si è formata una sorta di corte di consulenti, di “yes-man” che garantisce il consenso della stampa e la risonanza mediatica. L’altro aspetto è costituito da una accentuata propensione verso le forme della cosiddetta avanguar-dia e sperimentazione.

Geremicca: Hai riserve sulle avanguardia e la sperimentazio-ne in quanto tali, o sui criteri di selezione di queste espressioni artistiche, che a mio avviso sono del tutto “fisiologiche” e auspi-cabili?

De Simone: Ovviamente non sono contrario alla speri-mentazione e all’avanguardia, ma ai criteri vigenti di selezione. L’avanguardia nel corso del ’900 è stata sempre contestativa verso la tradizione, com’è nella sua natura. Ma – attenzione! – questo non vuol dire negare e uccidere la tradizione, vuol dire superarla e arricchirla con elementi di contemporaneità. Si parla di esperienze del post moderno, ma queste esperienze si possono leggere, come dice Umberto Eco, perfino nell’Iliade e nell’Odissea. Quando esiste solamente la sma-nia del nuovo e lo sfregio palese della tradizione si favorisce un potere ignorante e superficiale che manifesta così la propria ipo-crisia. Un’avanguardia che neghi la tradizione non è innovativa, è fine a se stessa e basta.

Sull’altro versante, del cosid-detto recupero della tradizione, si verificano contraddizioni al-trettanto grandi. Un esempio è fornito dalla scelta di omaggiare la tradizione attraverso il teatro di Eduardo, quando già negli anni ’80 era considerato superato da un giudizio storicamente acclara-to. In realtà questo eduardismo di ritorno non è che una copertura.

Oltretutto molti operatori che negli anni ’80 contestavano Eduar-do, oggi se lo vanno a riprendere e lo ripropongono. Questi sono dei veri e propri controsensi, soprattutto se si pensa all’espe-rienza di “Gatta Cenerentola” del ’76, che fu un atto assolutamente contestativo rispetto al teatro eduardiano. A questo va aggiunta una progressiva “liquidazione” della professionalità dell’attore. Oggi attori che abbiano una chiara dizione per il teatro, per l’artificio, per la fictio teatrale,

non se ne trovano più. Abbiamo gente che biascica il dialetto o la lingua, come capita di sentire in televisione. Questo avviene per una malintesa interpretazione del naturalismo e del realismo eduardiano. E perché non ci sono più scuole di recitazione.

Geremicca: Insomma, il re-cupero della tradizione come riproduzione meccanica e non rivisitata di produzioni del passato non porta a nulla.

De Simone: Esatto. Un altro esempio dell’equivoco che si inge-nera quando si va a riprendere la tradizione fine a se stessa è questo infilare tamborre, tamburelli e ta-rantelle da tutte le parti. Nel corso degli anni ’60, ’70 e ’80, abbiamo condotto una ricerca per stabilire i reali valori di questa tradizione. Oggi invece queste cose vengono riprese come materiale completa-mente avulso da ciò che è stato, e inserite in un giro di ipocrisia culturale che fa capo ahimè ad un sessantottismo disfatto. Cose, che nell’ambito dei movimenti e delle trasformazioni del ’68 avevano la loro ragion d’essere, oggi vengono riprese in un revival insensato che non produce nulla. Ecco: questo calderone di intrugli fine a se stes-so rappresenta la variegata realtà napoletana che viene spacciata in giro come essenza culturale della città. Io dico, ben vengano le avanguardie a fare le loro speri-mentazioni, ma dall’altro lato mi si deve dare una vera, seria, grande scuola di recitazione.

Geremicca: Perchè “il nuovo” ha bisogno di una formazione di base e di una motivazione stori-co-culturale forte.

De Simone: Il nuovo non può significare prendere il “Don Gio-vanni” e ambientarlo in una di-scoteca. Sono cose velleitarie, che non significano niente e allontano il pubblico dalle manifestazioni. Questo tipo di produzioni serve solo alle elucubrazioni mentali

di politici che non sanno nulla di arte e di teatro, come se ne trova-no anche nel Comune di Napoli e nella Regione Campania.

Geremicca: Va bè… Qui però si pone una questione seria. Stabilito che nessuno pensa alla politica culturale in chiave sda-noviana, per cui sarebbe il potere a dover dare “la linea”, secondo te un Ente pubblico come si deve orientare e comportare per stimolare la vita culturale di una città? Personalmente, credo che un amministratore debba limitarsi a favorire “le condizioni” per una crescita culturale, senza interve-nire sulle scelte di merito e senza pretendere di dover essere lui a stabilire i promossi e i bocciati.. Però vorrei ragionare con te su questo punto.

De Simone: È semplice: bisogna muoversi come già si fa altrove. Le scelte culturali non devono essere determinate da persone che stanno all’interno delle produzioni locali di teatro finanziate da soldi pubblici. Altrimenti diventa una gestione privata, privilegiata e clientelare. Io ho fatto parte delle Commis-sioni della Biennale di Venezia, ma ero fuori dalla realtà culturale veneziana. Per fare queste cose ci vogliono persone di cultura che siano indipendenti dal po-tere politico. Questo fenomeno si verificò già negli anni ’50, quando il povero Eduardo venne tagliato fuori dalla vita culturale cittadina perché politicamente non era in linea né con Lauro, né con la Democrazia Cristiana. Oggi si fa la stessa cosa con me. Il potere napoletano è rimasto tale e quale, esercita se stesso sempre e comunque attraverso le forme del “laurismo”.

Geremicca: Facciamo un esempio concreto. Se fossi io ad amministrare il Comune e la Re-gione, chi dovrei scegliere come consulenti per la promozione di iniziative culturali?

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De Simone: Innanzitutto le persone che non facciano capo ai giudizi di quei giorna-listi che si ergono a storici del teatro. Persone colte che si in-teressino anzitutto ai linguaggi. Oggi l’aspetto più interessante della cultura teatrale è l’analisi e la competenza dei linguaggi. Quando vado a vedere uno spet-tacolo, io mi concentro anzitutto sul linguaggio. In uno spettacolo di avanguardia andrò a leggere il suono da un altro punto di vista, perché il testo viene maciullato e frantumato, ma ciò non toglie che se ci sono spettacoli dove il testo viene privilegiato, io vada a vederli. Se vado a vedere uno spettacolo in cui tutto è incentrato sull’immagine – io lo chiamo teatro moderno – ciò non esclude che vada a sentirmi anche il teatro da camera, in cui mi parla Carmelo Bene o un altro grande attore, del quale io possa apprezzare la perizia dei fiati, dell’articolazione della sillaba-zione, della koinè formale del fonema. Qui invece mi viene det-to che questo non è teatro…Non si può fare riferimento al teatro napoletano facendo capo a scrit-tori che non pongono l’accento sul linguaggio e si beano di un linguaggio naturalistico e reali-stico. Io posso esprimere qualche giudizio positivo su certo teatro di Ruccello, per quanto riguarda un certo uso dell’ironia, ma il linguaggio lo trovo assolutamen-te antieducativo. Il linguaggio, se viene elaborato come koinè locale in riferimento ad una storia del rapporto tra vernacolo e letteratura, mi può stare bene; ma se produce solamente della rappresentazione di un realismo ampiamente superato, per me è un segnale di retrocessione. Non si può considerare teatro solo quello fatto da un gruppo di stu-denti che si esprime liberamente senza l’ingombro rappresentato dalla tradizione.

Geremicca: Qualche giorno fa Luciana Libero mi diceva una

cosa che fa riflettere. Secondo lei il fatto che l’attuale classe dirigente non faccia a sufficienza una politica per la crescita di forze teatrali autentiche e nuove è dovuto anche a certe norma-tive, come quella che stabilisce che non si possono concedere finanziamenti a chi non abbia svolto almeno due anni di attività teatrale…e allora come si aiuta a far emergere il nuovo?

De Simone: Una volta esi-stevano delle compagnie teatrali che agivano sulla realtà del teatro stesso. Il teatro non si impara sui libri, si impara facendolo. Oggi non esistono più compagnie dove si possa imparare. L’ultima generazione di attori professio-nisti napoletani si è formata con Eduardo. Il capocomico oggi è molto spesso un attore fallito, che diviene capocomico perché ha trovato aderenze e finanziamenti. Prende un po’ di gente, la mette insieme e produce una comme-dia. Ma il giovane che è dentro quella compagnia non ha nulla da imparare da quel capocomi-co. I maestri non esistono più, questa è la cosa grave. Il potere attuale non solo ha distrutto la possibilità di creare scuole e vivai che sostituiscano le vecchie compagnie, ma ha combinato un guaio culturale le cui conse-guenze sono largamente impre-viste. Quando andrà via l’allegra combriccola che governa Napoli e la Regione, la struttura resterà comunque in piedi e preserverà se stessa, adattandosi al nuovo potere che verrà e impedendo che vengano fuori manifestazioni altre del teatro e della cultura. Questa affermazione è tanto più grave e dolorosa se si pensa che chi vi parla non è certo un uomo di destra. Lo ripeto ancora una volta: questa vecchia classe di ex sessantottini ha riprodotto gli stessi tic culturali del laurismo.

Geremicca: Diciamo pure che l’attuale classe dirigente (non solo quella politica, beninteso) è

autoreferenziale, diciamo che il suo consenso è anche (anche, non solo) costruito su un certo modo e una certa qualità della spesa pubblica, diciamolo, ma non possiamo non dire anche che un’egemonia culturale in questi hanno ha saputo co-struirla.

De Simone: E vorrei vedere! Il Principe convoca nel salotto le persone che gli vanno bene, e delle quali può fidarsi, perché diranno bene di lui. Il principe, che è un asino calzato, si adegua all’immagine della persona di cultura determinata da quegli stessi che egli convoca, e lo fa in modo arrogante. A ciò aggiungiamo la moltiplicazione di fenomeni culturali basati su cose che non hanno più senso. Tipo quella dell’attore che non sta sul palcoscenico, ma che vaga per la sala. Cose a ampia-mente superate, ad esempio, in America, dove l’impostazione culturale è molto diversa. Qui si sta uccidendo la possibilità di produrre un’identità locale di teatro. Se facciamo un’analisi della situazione negli altri paesi d’Europa, vediamo che la Francia mantiene ancora un’identità di Teatro nazionale come l’Opera Comique; l’Inghilterra ancora produce il teatro scecspiriano secondo la tradizione e non lo abbandona, sebbene poi pro-duca anche altro. La Germania invece oggi non ha una maniera identitaria per rappresentare Shiller. L’Italia che aveva una identità teatrale sia a livello di attori che di registi, un nome su tutti Giorgio Strelher, ormai si sta adeguando ai livelli tedeschi, promuovendo un’avanguardia che non riesce poi a diventare a sua volta tradizione.

Geremicca: A questo punto indica una via di uscita…

De Simone: In questi casi i grandi rivolgimenti storici sono sempre “catastrofici”. Occorre

azzerare tutto, perché sono con-vinto che anche se lo volesse, lo stesso Bassolino non riuscirebbe più a mettere la situazione sotto controllo.

Geremicca: Che cosa dà oggi De Simone a Napoli? E che cosa fanno le istituzioni per utilizzare la “risorsa De Simone”?

De Simone: Nel sud vi è il più alto tasso di studenti universitari che presentano tesi di laurea o su la “Gatta Cenerentola” o sulla mia attività. Il che vuol dire che c’è una larga attenzione giova-nile al problema del linguaggio. Tuttavia non posso produrre spettacoli, perché mi viene impe-dito dalle attuali leggi sul teatro e dalla estromissione cui sono soggetto da parte dell’apparato politico.

Geremicca: Strutture e leggi che non lo consentono? Ne abbiamo già parlato prima. In questo caso a cosa ti riferisci?

De Simone: Al fatto che in Italia esistono delle leggi che as-segnano dei premi ministeriali in egual modo a persone che pro-ducano un teatro d’arte e a perso-ne che non solo non producono teatro d’arte, ma addirittura non producono un bel nulla. Inoltre lo Stato valuta uno spettacolo in base al numero di repliche fatte. Quello che lo Stato può darmi in base a questo criterio, a me non basta neanche a coprire le spese di allestimento e le spese di prove. I criteri di produzione non coincidono con i criteri di finanziamento. Si riserva la stessa cifra a chi produce, come me, spettacoli in cui si impiega un’orchestra, e spettacoli in cui lavorano quattro personaggi. In questo modo si privilegiano alcune produzioni rispetto ad altre. Noi, per esempio, abbiamo prodotto “Là ci darem la mano” con il teatro Mercadante, con un afflusso di pubblico straordinario (ma questo non si può e non si

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��deve dire), mentre nello stesso teatro si rappresentano spetta-coli, prodotti dai soliti due – tre personaggi, che vanno vuoti e sono superpagati.

Per quanto mi riguarda. io sono e rimango fedele alla mia indipendenza di artista. Con il mio lavoro i ho dato tanto a que-sta città. Ho fatto una rivoluzione fuori della città di Napoli, facendo conoscere in tanti luoghi i reali valori della cultura napoletana. Ma non è questo che io discuto, non mi serve il loro riconoscimen-to. Quello che io discuto è la fine dell’indipendenza dell’artista.

•••••Conversazione con RobeRta CaRlotto

Per recuperare slancio e fiducia in se stessa Napoli può ripartire proprio dalla cultura e dalla potenziale finestra che la cultura può aprirle nel mondo. Perchè una città vive anche per come è guardata e giudicata dagli altri, per l’immagine di se che gli altri le restituiscono. E oggi purtroppo Napoli è “guardata” e descritta malissimo dappertutto, al contrario di quanto avveniva negli anni del cosiddetto “rinasci-mento”, reale o virtuale che fosse, l’importante è che allora Napoli godeva di una buona stampa nel mondo, e questo di riflesso le dava una carica positiva. Andrea Geremicca ne ha discusso col Maestro De Simone, e ora vuol conoscere il parere del Direttore Roberta Carlotto.

Carlotto: È un po’ difficile per me esprimere un giudizio, anche perché io non sono napoletana. Il mio legame con Napoli nasce dal rapporto con Mario Martone, con il quale ho condiviso l’esperienza del Comitato Artistico del teatro Mercadante, ma anche di alcune cose che abbiamo fatto insieme per la radio; e poi da un mio vec-chissimo rapporto con Goffredo

Fofi, che nasce addirittura quando ero ancora ragazzina, in Sicilia. Napoli è una città complessa. Nelle altre città può capitare di avere difficoltà ad incrociare i di-versi strati sociali, e per chi come me vive l’ambiente del teatro, che presenta elementi di “rottura” ma resta essenzialmente un ambiente borghese, l’ambiente popolare re-sta un po’ estraneo. Napoli invece è un’eccezione, perché tutto il mondo del teatro è caratterizzato da questa mescolanza tra mondo intellettuale e ceti popolari.

Geremicca: Il teatro,quindi, come un punto d’incontro tra le diverse realtà di Napoli.

Carlotto: Il teatro ma anche la lingua rappresentano per Napoli un tratto di originalità. Non dico che sia naturale per i ragazzi di Scampìa venire al Mercadante, né che gli intellettuali legati al mondo del teatro siano di casa a Scampìa, ma secondo me esiste un tessuto che non si è rotto del tutto. Da non – napoletana sono rimasta molto colpita dall’aspet-to rappresentato dalla lingua napoletana. Anche nell’ambito del “Prologo” al Festival del prossimo anno, in alcune delle operazioni – come ad esempio il Falstaff in lingua napoletana prodotto da Martone, oppure “Chiove” di Saponaro, o ancora il nostro “Arrevuoto”, realizzato con i ragazzi di Scampa – l’uso della lingua napoletana costituisce un tramite tra i diversi strati sociali. Una sorta di terreno comune dove ci si può incontrare per lavorare e condividere esperienze. E Mosca-to, devo dire, è stato un maestro nel lavorare su questo terreno comune. La lingua napoletana, continuamente reinventata, e magari anche “pasticciata”, so-prattutto da parte dei più giovani, costituisce un terreno comune in cui ciascun napoletano si ritrova, si sente a casa, si fida e sente che può lavorare e contribuire ad un progetto condiviso. Grazie a que-sto elemento abbiamo potuto rea-

lizzare “Arrevuoto” con i ragazzi di Scampìa, e precedentemente anche la Pace di Aristofane, un esperimento in cui Martinelli leggeva a ragazzi delle scuole dei quartieri a rischio, oppure a ragaz-zi ROM, brani dell’autore greco, chiedendo poi loro di darne una traduzione in napoletano.

Geremicca: Secondo te questo sforzo teso ad allargare la partecipa-zione al teatro e alla vita culturale è affidato solo o essenzialmente alla lingua napoletana, anche se si tratta di una lingua “teatrale”, o esistono spazi altri e vie alternative?

Carlotto: Non sono in grado di valutare e giudicare le altre esperienze. Non le conosco a sufficienza. Tieni presente che le scuole di teatro sono molto legate ai singoli teatri, non c’è una Scuola di Teatro nel vero senso del termine. Su questo fronte, comunque, si sconta una crisi dappertutto, anche dove le scuole di teatro ci sono. Probabilmente si fa troppo poco per sostenere una domanda di formazione, che invece c’è. Con Luca Ronconi abbiamo creato un’associazione che organizza una scuola di Alta Formazione in una modestissima struttura da lui appositamente riattata, in Umbria, e che è aperta a giovani già formati nelle scuole di teatro. Alla prima edizione, pensa!, ab-biamo raccolto qualcosa come 800 domande. Questo dato ci dice che se viene fuori una proposta, una possibilità reale, la risposta è ampia e immediata. Allora quello che emerge è un difetto italiano, una tendenza a non valorizzare il campo artistico come risorsa per il progresso del-la società e del paese. Quando si è insediato il nuovo governo, da più parti si coltivava la speranza di una nuova partenza, magari a cominciare dall’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, che conosce una crisi da lungo tempo. Questo però non c’è stato ancora. Speriamo bene…

Geremicca: De Simone sol-leva il problema di una frattura tra passato e presente, e di una incapacità, soprattutto da parte della televisione, di assumere e innovare la tradizione. Nel so-stenere questa idea, fa l’esempio della fiction televisiva, nella quale recitano attori totalmente privi di dizione e di perizia dell’uso del linguaggio. In particolare stig-matizza il ricorso indiscriminato al linguaggio “parlato” in tutta la produzione artistica.

Carlotto: Questo certamente è vero, ma non credo si possa accollare alla televisione tutta la responsabilità della decadenza del teatro. Io penso che il teatro dovrebbe trovare per conto suo la maniera di recuperare un livello più alto di qualità. Questo è un discorso diverso da quello della funzione “pedagogica” del teatro, come strumento di inclusione di ragazzi che altrimenti andrebbero persi. Su questo fronte, credo che quello che abbiamo fatto a Scampìa possa rappresentare un modello. Tra l’altro, l’intero progetto è stato condotto da una personalità che non è napoletana, e cioè Marco Martinelli, che viene da un’esperienza cooperativistica. (Marco Martinelli è fondatore della Compagnia Teatrale le Albe, che ha ideato i cosiddetti labo‑ratori della “non scuola” e negli ultimi dieci anni ha ottenuto un enorme riscontro con i ragazzi degli Istituti medi e superiori del‑l’Emilia Romagna, sia in termini di partecipazione, sia per i risultati teatrali conseguiti. Fenomeno di grande successo, fuori e dentro i confini italiani, la non‑scuola consiste in un ciclo di laboratori teatrali tenuti in orario extracurri‑culare dagli operatori delle Albe e da un insegnante‑mediatore con il gruppo dei ragazzi che ha deciso di partecipare. Il ciclo di laboratori prevede un intenso lavoro con‑clusivo finalizzato alla messa in scena di un spettacolo. Da questa esperienza è nato il progetto che ha portato alla realizzazione di

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Arrevuoto con il Teatro Mercadan‑te, NdR). Nel caso di Arrevuoto credo che la nostra intelligen-za reciproca sia stata quella di non “importare” direttamente Martinelli, ma di partire dalla conoscenza del tessuto sociale di Scampia. In questo devo dire mi sono avvalsa dei miei antichi rapporti con Goffredo Fofi, i cui collaboratori hanno realizzato un’inchiesta, poi pubblicata da “L’Ancora del Mediterraneo” nel 2005, dal titolo “Napoli comincia a Scampia”. Sulla scorta di questa inchiesta abbiamo poi avviato il nostro lavoro, nel quale non viene preso in considerazione un riferimento unico (scuola o altre agenzie di socializzazione), ma l’intero tessuto sociale del quartie-re nelle sue diverse articolazioni. Delle diverse realtà (scuola, par-rocchie, gruppi di volontariato ecc.) abbiamo poi coinvolto un “rappresentante” in quanto entità direttamente impegnata nell’azio-ne sul territorio, e non in quanto rappresentante della Municipalità, oppure del Distretto Scolastico o di altre istituzioni. In pratica ab-biamo selezionato un gruppo di persone che già lavorava là, e che ci ha consentito di selezionare nel migliore dei modi i ragazzi, sulla scorta di un rapporto preesistente con questi.

Geremicca: Se interpreto bene, avete scelto la strada della “non – istituzionalizzazione” di questo campo di azione.

Carlotto: Esatto.

Geremicca: E questa per te può essere la formula giusta per approcciare realtà difficili come quella di Scampìa?

Carlotto: Certamente non è facile, perché hai bisogno sempre e comunque di un “filtrante” che ti accompagni e ti consenta di ca-pire questa realtà, però credo che il vantaggio di operazioni come quella che abbiamo condotto stia nel fatto che complessivamente

nella loro diversità si mettono insieme persone che hanno una unitarietà di intenti e che sono legate da un rapporto di fiducia già esistente.

Geremicca: Sarebbe invece molto complicato, per le istitu-zioni, dirigere un’operazione di questo tipo.

Carlotto: Certo. E anche ri-schioso. Noi siamo stati molto fortunati. La capacità del regista è stata determinante. Ciascuno dei gruppi coinvolti aveva la sua figura sociale di riferimento (parro-co, insegnante od altro operatore sociale), una figura “teatrale” na-poletana che gli faceva in un certo senso da “guida” sotto il profilo artistico, e la supervisione di uno degli appartenenti al gruppo di Martinelli. Infine Martinelli, che ha una sua genialità artistica, raccor-dava tutti questi elementi.

Geremicca: Ma secondo te, ai fini della promozione di una cultura e una formazione tea-trale diffusa, esistono a Napoli strutture sufficienti, o è più una questione di organizzazione dei luoghi, che a detta di qualcuno sono addirittura troppi?

Carlotto: I teatri ci sono, ma la maggior parte di questi sono teatri cosiddetti “all’italiana”, con una produzione tradizionale rivolta per lo più ad un pubblico borghese. C’è invece penuria di luoghi alter-nativi, e questo penalizza un po’ la rappresentazione del teatro con-temporaneo, molta parte del quale non è fatta per essere realizzata in strutture teatrali tradizionali. I teatri napoletani, andando a vedere la loro storia, sono nati per lo più per l’opera lirica o per il cosiddetto “teatro borghese”. Non dico che sia una regola generale, perché esiste anche una produzione contemporanea rappresentabile in spazi teatrali tradizionali.

Geremicca: Non vorrei co-stringerti ad esprimere un giudizio

“tranchant”, che non mi sem-bra appartenere al tuo stile, ma credo di capire che tu individui negli spazi di formazione una insufficienza, un problema ancora aperto. E così?

Carlotto: In parte si, ma non credo si tratti di una arretratezza specificamente napoletana. È una situazione che esiste un po’ in tutta Italia. Ed è un problema legato anche allo stato della scuola nel nostro paese. Più ingenerale, penso che questo paese dovrebbe ripartire proprio dalla scuola. Da là dovrebbe partire il vero cam-biamento.

Geremicca: Per quanto riguar-da il problema della sperimenta-zione, la vedi come un’esperienza positiva?

Carlotto: Certamente dal-la sperimentazione può venire molto, ma non la vedo come l’elemento risolutivo del problema del teatro nel suo insieme. Credo che ogni teatro stabile dovrebbe riservare un certo spazio al teatro di avanguardia. Da questo punto

di vista la novità napoletana di un teatro stabile nazionale, rappresentata dal Mercadante, costituisce una garanzia rispetto all’apertura verso le avanguardie.

Geremicca: Spieghiamo bene, per tanti che non lo sanno, che cos’è un teatro stabile…

Carlotto: Il teatro stabile per eccellenza è il “Piccolo” di Mi-lano. Si tratta di un teatro che ha un contributo statale e che dovrebbe avere una funzione innovativa, ma essere anche, rispetto al territorio, un punto di confronto e di riferimento. Una sorta di volano, insomma, rispetto alle potenzialità del territorio. Un ente catalizzatore ed innovatore ad un livello di eccellenza. Teatri stabili ci sono in alcune, ma non in tutte le città italiane. Il modello, come dicevo, è quello del Piccolo di Strehler e Paolo Grassi, con una forte impronta sociale ed innova-tiva. Naturalmente ci sono alcuni standard che un teatro deve avere per potere aspirare ad essere un Teatro stabile. In questo senso è stata molto brava Rachele Furfaro

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ad individuare nel Mercadante il luogo adatto a diventare uno Stabile, dopodiché il teatro ha par-tecipato ad un regolare concorso, ed ha vinto.

Geremicca: Per essere chiari: stai dicendo che la designazione del Mercadante come Teatro Stabile non è stata una scelta politica.

Carlotto: Assolutamente no. È un riconoscimento che è stato attribuito al Teatro perchè aveva dei requisiti.

Geremicca: Dunque adesso il Teatro Stabile Mercadante rap-presenta un punto di riferimento anche istituzionale, nell’ambito del Festival Teatro Italia.

Carlotto: Si, certo. Il Festival era in realtà un concorso naziona-le, al quale Napoli ha partecipato attraverso la presentazione di una candidatura, fortemente voluta dalla Regione e dal Comune. C’è stata l’elaborazione di un progetto da parte di un gruppo, che ha incluso me, Igina Di Napoli del

teatro Nuovo ed altri, e questo progetto ha vinto un regolare con-corso. Alla fine erano rimaste in gara Genova e Napoli. Il concorso prevedeva una quota di parteci-pazione da parte della regione, ed una quota resa disponibile dal Ministero. Credo che la Regione Liguria si fosse resa disponibile ad aumentare la propria parteci-pazione, per cui il ministro Rutelli ha chiesto a Bassolino se anche la Campania era disposta a fare al-trettanto. Bassolino teneva molto a questa opportunità per Napoli ed ha dato il suo assenso. Dopo di ché il Ministero ha designato Napoli come sede del Festival.

Geremicca: Ti ringrazio per la puntuale (starei per dire pun-tigliosa) ricostruzione di una procedura che lascia pochi spazi alla discrezionalità, per non dire altro…E cosa sarà il Festival?

Carlotto: Il Festival è una manifestazione di carattere e di livello nazionale. Certamente il “Prologo” ha visto impegnate in prima linea, e con molta gene-rosità, risorse napoletane. Ma è una manifestazione nazionale, che vedrà la partecipazione di teatri, compagnie ed artisti da tutta Italia, e anche dall’estero. Già nell’anteprima di quest’an-no c’è stata qualche presenza dall’estero

Geremicca: Come saprai, c’è un certo pregiudizio, un sospetto, direi, intorno a questa iniziativa, che da molti è vista come ope-razione voluta dal “palazzo” e tendente a promuovere solo realtà artistiche considerate a torto o a ragione vicine alle classi dirigenti locali. In altre parole, magari un pò brutali, da alcune parti si indi-vidua la volontà politica di adope-rare il Festival, e più in generale il settore dell’arte e della cultura, per allargare il sistema del consenso e della gestione del potere.

Carlotto: Conosco la questio-ne. Si è molto dibattuto, anche sui

giornali, circa la pretesa esclu-sione di alcuni da parte di altri. Intanto, come dicevo, il Festival ha l’ambizione di avere un respiro nazionale e internazionale. Dopo di ché, che il gruppo che abbia posto la pietra angolare di questo festival fosse quello del Teatro Stabile, mi sembra formalmente ineccepibile. Che poi si sia pro-ceduto individuando solo alcune delle realtà napoletane, magari può non essere ineccepibile, ma è un criterio che, come tutti i criteri, necessariamente doveva includere alcuni e lasciare fuori degli altri. Sono scelte che hanno una logica, che può essere con-divisa o non condivisa, ma certa-mente non potevamo tenere tutto insieme, indiscriminatamente. Tra l’altro nella serata finale, nella quale tutti i teatri napoletani sono stati tenuti aperti, abbiamo dato a tutti la possibilità di mostrarsi. Da questo punto di vista il “Prologo” è stato corretto e coerente.

Geremicca: In definitiva, con la prima edizione del Festival, Napoli diverrà finalmente sede di una rassegna, praticamente permanente, nazionale ed inter-nazionale del teatro…

Carlotto: E vi sarà la possibili-tà di un confronto sul campo, per il teatro napoletano, con il teatro italiano e internazionale.

Geremicca: State già lavo-rando alla prima edizione del Festival?

Carlotto: La manifestazione delle scorse settimane si è defi-nita “Prologo” ed era in effetti una prova generale, una sorta di rassegna delle potenzialità. In questa fase iniziale abbiamo lavorato senza un direttore, sotto la guida del presidente della Fondazione Festival Tea-tro Italia, all’uopo istituita. Dal prossimo anno, con il Festival vero e proprio, la manifestazio-ne avrà un direttore, che sarà Renato Quaglia, che individuerà

i teatri da invitare, le produzioni da proporre, i confronti con altre esperienze e così via. È un lavoro delicato. Un tempo le novità nel teatro avevano una circolazione ed una assimilazio-ne piuttosto lenta. Adesso, con la globalizzazione, il pubblico è un po’ disincantato. Ad ogni modo adesso comincia il lavoro vero, nel quale tutti potranno essere inclusi, anche quelli che oggi lamentano una scarsa at-tenzione. Anche De Simone, ovviamente, su questo non avrei dubbi … Tornando al Prologo, un interlocutore decisivo è stato il MADRE, con il quale abbiamo fatto la mostra su Bob Wilson, un grande regista teatrale che ha realizzato dei video – ritratti che si muovono impercettibilmente, e che costituiscono un oggetto assolutamente artistico ma non teatrale. Tuttavia, essendo ritratti “in movimento” ed essendo l’opera di un regista teatrale, ab-biamo ritenuto che queste opere avessero una attinenza con il Fe-stival, e avere uno spazio come il MADRE, che potesse esporli, è stata una bela cosa.

Geremicca: Come può es-sere utile il Festival a Napoli? Sarà uno stimolo, un banco di prova, un’opportunità, che cosa, secondo te?

Carlotto: Sicuramente sarà uno stimolo. Sarà una vetrina in-ternazionale che metterà Napoli in bella mostra. Già il Prologo, con l’idea di concentrare tutto nell’area del Porto ed accogliere i partecipanti in una nave all’in-terno del Porto stesso, è stata una scelta che, nata dalle oggettive difficoltà logistiche e di percor-renza della città, si è rivelata poi indovinata anche sotto il profilo del dare una sua centralità all’evento. (L’idea è stata della stessa Carlotto n.d.r.) Insomma, sicuramente sarà un’opportuni-tà, intorno alla quale occorrerà lavorare sodo, perchè nulla ci è dovuto a priori.

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1817. Stendhal arriva a Napoli non solo per gustare i babà al rhum ma per ascoltare le opere di Rossini al Teatro San Carlo, tornato al suo primitivo splendore dopo l’incen-dio devastante dell’anno prece-dente. La vita musicale in città è più viva che mai, con Domenico Barbaja che guida le sorti del San Carlo con mano di ferro. Barbaja è considerato ormai il più grande impresario del mondo e il pubbli-co elegante che affolla i palchi gli rende merito, anche se non sono cadute in disuso alcune pessime abitudini, come quella di ascoltare a volte la musica chiacchierando e gustando il sorbetto (sono le famose “arie del sorbetto”).

2007. La crisi finanziaria e di gestione che colpisce il San Carlo (affidato in regime commissaria-le a Salvatore Nastasi) rivela in controluce la cattiva conduzione della cultura a Napoli, almeno nella sue forme più istituzionaliz-zate. Gioacchino Lanza Tomasi se ne è andato sbattendo la porta, nonostante un accorato appello di intellettuali – tra cui Silvia Croce, Nicola Spinosa, Gerardo Marot-ta – perché restasse al suo posto di comando. Ma il sovrintendente ha tenuto duro: “Qui oggi non c’è nessun rappresentante degli enti territoriali. La condizione napole-tana non è di solidarietà, e dunque lascio. Auspico che il commissario straordinario possa trovare i fondi per il prosieguo dell’attività”.

È la cultura che finisce sulle secche della politica, tra l’ammi-nistrazione disinvolta di un bene pubblico e la pervicace sindaca-lizzazione del fare artistico (vedi orchestrali spesso sul piede di guerra) lasciando che le cose s’in-cancreniscano per poi trovare sfogo

nei cahiers de doléance, ultimo rifugio dello spirito impotente. In realtà in tutte le istituzioni musi-cali italiane serpeggia la crisi. Alla domanda di un giornalista del “Ta-gesspiegel” se si possa risolvere la crisi del Teatro dell’Opera di Roma (dunque anche la Capitale ha le sue gatte da pelare), Cecilia Bartoli ha risposto tempo fa che “per farlo non basterebbe una sola persona, ma ci vorrebbe un intero esercito”. Per poi aggiungere: “I teatri d’opera in Italia, e lo dico con dolore, sono quasi tutti in condizioni disastrose. Prendiamo il San Carlo di Napoli: è uno dei più bei teatri del mondo, ma le rappresentazioni per ogni stagione sono forse solo una ven-tina, per il resto del tempo il teatro rimane vuoto. È una catastrofe! Il sistema culturale in Italia è sul-l’orlo del collasso”. Per fortuna la stagione operistica e sinfonica del San Carlo è per il momento salva, sia pure col sacrificio di qualche allestimento troppo costoso o la rinuncia a qualche bacchetta di richiamo internazionale. Resta di buon auspicio per le sorti future

della musica a Napoli, ad onta di tutti i guai odierni, il fatto che l’11 giugno scorso una gru ha sistemato nuovamente sulla sommità del teatro il gruppo allegorico della “Partenope” in forma di divinità protettrice.

La crisi della cultura a Napoli o meglio delle sue istituzioni più celebri e osannate (il teatro lirico in questo caso) è dunque parte di una crisi più generale che riguarda l’in-tero Paese, anche se solo a Napoli ogni cosa diventa psicodramma, “vittimismo”, senso della fine. Ciò mentre altre nazioni mostrano un dinamismo e una capacità di far sistema (culturale) che supera baldanzosamente incrostazioni amministrative o insolvenze della politica. Nella Russia di oggi il Bolshoi di Mosca e il Mariinskij di San Pietroburgo, tempi del balletto, sono tornati a nuova vita. Berlino è un crocevia della musica, dai Berliner Philharmoniker (una straordinaria impresa economica, come è noto) ai concerti nella Schauspielhaus, il grande teatro neoclassico ricostruito da Karl

Friedrich Schinkel all’indomani dell’incendio divoratore del 1817 (un po’ come per il San Carlo!). Vo-gliamo essere cattivi sino in fondo citando l’intensa stagione di opere e di concerti del Teatro San Carlo di Lisbona o i concerti, affollatissimi, che si tengono nell’auditorio del centro culturale di Belem, sempre a Lisbona?

Napoli è stata una delle capitali della civiltà musicale d’Europa. Di-menticarselo è delittuoso. Il rilancio del San Carlo è una questione imprescindibile per assegnarle un ruolo culturale anche in vista di possibili adempimenti di portata internazionale, come il Forum universale delle culture che si po-trebbe tenere a Napoli nel 2013 (ma l’esperienza del Forum di Barcello-na del 2004 non è stata scevra di ombre; la città allestì un sontuoso, ma inutile scenario architettonico, costruendo sul mare nuovi edifici fuori scala e avanzando con la ruspa tra le strade e i palazzi di un antico quartiere operaio, quello di Poble Nou, una sorta di Bagnoli catalana).

LA RIgENERAzIONE CULTURALE DI NAPoLI

Sergio Lambiase

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��È difficile restituire un quadro

complessivo della cultura a Na-poli. Perché, ad onta della crisi che investe il San Carlo, la città è punteggiata di eventi (nel campo delle arti figurative, delle, scienze filosofiche, del teatro, del cinema) spesso di grande rilievo nazionale. Penso alle grandi mostre di Capo-dimonte o del Museo Archeologico o del Madre, ai seminari dell’Istituto Italiano per gli studi filosofici, al Teatro Festival Italia che ha preso avvio nel 2007, sia pure con qual-che impaccio organizzativo, alla rassegna Artecinema, ai convegni organizzati dalle università napole-tane, al ruolo delle gallerie private, al peso culturale che hanno assunto negli ultimi tempi la Fondazione Premio Napoli, l’Istituto Cervantes, il Goethe Institut. Ciò che manca è un tessuto connettivo che sappia legare gli eventi l’uno all’altro o che trasformi la molteplicità delle iniziative in sistema culturale, così come è debole o intermittente la committenza pubblica (a volte per mancanza di fondi o per suo uso inappropriato delle risorse, quelle che si definiscono “a pioggia”).

Oggi una partita decisiva si gio-ca sul piano del rinnovamento urba-nistico, spesso affidato al glamour di architetti di fama internazionale. Qui Napoli sconta un grave ritardo, laddove le altre grandi città italiane sono investite da una grande voglia di rinnovamento, dopo anni di sta-gnazione. Nei paesi anglosassoni questa metamorfosi dell’idea di città ha un nome: “gentrificazione”. In passato “gentrificare” (italia-nizzazione di to gentrify: rendere signorile) voleva dire risanare i vecchi quartieri e cacciarne gli abitanti a reddito basso. Adesso, depurata dai veleni classisti, vuol alludere a una intenzione meno spuria: rinnovare le città storiche per arginarne il declino, ma senza creare nuovi ghetti in periferia. Un raffronto tra la “gentrificazione” in atto in alcune città italiane può aiutarci a capire meglio, di volta in volta, la situazione napoletana.

Roma. Nella Capitale stanno sorgendo (o sono sorte di recente) quelle che sono state chiamate, con un po’ di enfasi, le nuove cattedrali della modernità. Dall’edificio (sia pure ferocemente criticato) di Ri-chard Meier che sul lungotevere in-globa l’Ara Pacis al Macro (Museo d’Arte Contemporanea Roma) che Odile Decq ha ricavato dagli stabilimenti dell’ex Birra Peroni, dal MAXXI (il centro per le arti contem-poranee), affidato a Zaha Hadid, ai due nuovi ponti sul Tevere: quello della Musica, che unirà piazza Gentile da Fabriano al lungotevere Cadorna, e quello della Scienza che collegherà la nuova casa dello studente alla futura città della Scienza sulla via Ostiense. Intanto è già una robusta realtà l’auditorium Parco della Musica costruito da Renzo Piano a ridosso dell’ex villaggio olimpico.

Va detto subito che il pro-getto dell’Ostiense ricorda da vicino la situazione di Napoli Est, caratterizzata da vecchi corpi di fabbrica (la Cirio, la Corradini, la centrale termoe-lettrica del Vigliena) e dai larghi spazi inutilizzati sul mare (per il momento affastellati depositi di container cinesi). Purtroppo a Napoli Est è tutto fermo o quasi fermo, a differenza di Roma dove la ex centrale elet-trica Montemartini, sulla via Ostiense, è stata trasformata già da anni in un interessantissimo museo d’arte antica nel quale le statue romane sottratte ai depositi polverosi dei Musei Ca-pitolini hanno acquistato nuova dignità tra le grandi macchine demodè degli anni Trenta. Di fronte all’ingresso della centrale Montemartini si aprono oggi i larghi spazi inutilizzati dei vec-chi mercati generali di Roma, ma qui sta per nascere la Città dei giovani (il progetto è firmato dall’olandese Rem Koolhaas) che prevede al suo interno una delle più grandi librerie d’Europa, su

una superficie di oltre 4 mila metri quadrati.

Purtroppo a Napoli Est, al di là dei ritardi storici, la polemica sulla centrale termoelettrica paralizza le decisioni. È giusto aver voluto convertire il vecchio impianto (con il gas al posto degli oli lubrificanti) o la centrale andava eliminata e basta, come chiede l’assise di Palazzo Marigliano, giacché le polveri sottili della nuova centrale sarebbero an-cora più nocivi della antica nuvola di smog della vecchia centrale che gravava su Napoli? A San Giovanni a Teduccio dovrebbero impiantarsi nuovi edifici universitari (conver-tendo la ex Corradini ad esempio), così come avrebbe dovuto sorgervi un grande acquario sul modello di quello realizzato da Renzo Piano nel porto di Genova. Ma i progetti restano nel cassetto, e intanto l’antico forte del Vigliena dove i rivoluzionari napoletani del 1799 si lasciarono morire per non cadere nelle mani dei sanfedisti, è ridotto a un immondezzaio!.

Genova. L’acquario di Piano fu inaugurato nel 1992 in occasione dei cinquecento anni della scoperta dell’America. Da allora il fronte del porto ha subito un grande processo di trasformazione disegnando il nuovo profilo della città vista dal mare. Ultimo adempimento il 29 marzo di quest’anno, quando è stato varato il piano triennale delle opere per il periodo 2007-2009, nell’ambito di un rinnovamento urbanistico o di restauro che coin-volge anche il centro storico.

Milano. Dopo anni di stasi, la stagione della nuova architettura è in pieno rigoglio: dalla Scala rinno-vata da Mario Botta al Quartiere Bicocca dello Studio Gregotti Associati, dal Palazzo del “Sole 24 Ore” del sempiterno Renzo Piano ai grandi progetti per le aree dimesse, col disegno affidato a star dell’architettura, da Zaha Hadid ad Arata Isozaki. Intanto è già realtà la vela di vetro di Massimiliano

Fuksas costruita per la nuova Fiera di Milano.

Torino. A dare una spinta al rin-novamento è arrivata la grande oc-casione delle Olimpiadi della neve (dunque flusso di denaro, spinta alla progettazione, al rinnovamento, come se a Napoli fosse arrivata la Coppa America), ma la città della Fiat aveva da tempo imparato a convivere con il cambiamento e la riconversione industriale (basti pensare a quello straordinario con-tenitore culturale che è il Lingotto, dove si svolge annualmente la Fiera del Libro). Anche qui grandi firme internazionali al lavoro, come il giapponese Arata Isozaki, che ha realizzato il Palahockey, un grande edificio di 183 metri di lunghezza e 100 di larghezza, che con il suo ri-vestimento in acciaio scandisce con prepotenza lo scenario urbano.

Ora molti dei grandi interventi urbanistici che stanno ridisegnando le principali città europee, prima che italiane, si fondano su un elemento comune: la dismissione di interi bacini industriali, la riconversione, la trasformazione delle città da luoghi della produzione materiale a centri di scambio (di merci, di servizi, di informazioni). Tutto ciò invece di penalizzare lo sviluppo, finisce per invogliarlo. In Germania, Francia, In-ghilterra, Spagna, è stata soprattutto la produzione culturale a sostituire la vecchia industria manifatturiera. Nel bacino della Ruhr, è sorto, lì dove c’erano le acciaierie Meiderich della società Tyssen, il Landschaftspark di Duisburg Nord. Lasciando al loro posto tantissimi reperti di archeo-logia industriale, dalle imponenti torri della fonderia agli impianti di cokeria, oggi Duisburg Nord è un grande parco tematico che ingloba anche la miniera Thyssen, in una straordinaria sintesi di “sacro” (la sacralità dell’industria, dell’antico, duro lavoro operaio) e di “profano” (gli usi turistici, culturali, di intratte-nimento). Il risultato è che il vecchio bacino della Ruhr è oggi meta cultu-

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L’arte a NapoLi

rale e di svago per l’intera Germania, non solo per le città vicine come Dortmund o Düsseldorf. Ci siamo attardati a parlare di Duisburg, per-ché la città tedesca rappresenta con plastica evidenza ciò che potrebbe diventare Bagnoli domani, se si riu-scisse a smetterla una buona volta con la politica dei rinvii tra le infinite querelle su cosa fare e come farlo, nonché i veti incrociati dei partiti. Gli impianti di Duisburg smettono di funzionare nel 1985. Nel 1991, ad opera dell’architetto Peter Latz, è già pronto il progetto di recupero dell’aerea che viene completato nel 1999, un tempo incredibilmente breve per noi, tenuto conto che è stata necessaria la depurazione preventiva del fiume Emscher e dei suoli fortemente contaminati dagli usi industriali. All’indomani del-l’inaugurazione, il Landschaftpark vince il primo premio – alla Bien-nale del paesaggio di Barcellona del 1999 – quale migliore realizzazione europea di progetto nel verde.

È un punto centrale. Se le dismis‑sioni aziendali si sono trasformate

in tutta Europa in un’opportunità urbanistica, la cosa è tanto più vera per Napoli, investita com’è da un rapido processo di deindustrializza‑zione che ha riguardato vastissime aree della città, a est (come la zona di San Giovanni a Teduccio di cui si è detto) che a ovest (Bagnoli, ma anche Pozzuoli).

L’ex bacino industriale di Bagno-li interessato ai progetti futuri è di circa 300 ettari (contro i 250 ettari del Landschaftpark). A chi scrive è capitato più volte di percorrerlo, grazie all’ospitalità di Bagnolifu-tura. L’enorme spianata interrotta dai manufatti lasciati quali esempi notevoli di archeologia industriale (tra cui l’altoforno) racconta dav-vero il passato recente come il futuro della città. Certo qualcosa di irreparabile è scomparso: la grande fabbrica e con essa ottanta anni di lotte e di tradizioni operaie (è salvo comunque il grande archi-vio Italsider che ne custodisce le memorie; quell’archivio su cui ha lavorato proficuamente Ermanno Rea per scrivere il suo romanzo

La dismissione), ma qualcos’altro s’intravede che lascia sperare in una rigenerazione ambientale e cultura-le che possa far da volano all’intera città. A differenza di Napoli Est, a Bagnoli infatti sta emergendo il disegno della Coroglio del futuro. Si sono aperti infatti i primi cantieri: da quello della Porta del Parco e quello dell’acquario scientifico delle tartarughe marine che sarà ospitato in un curioso edificio che serviva un tempo per il trattamento delle acque (gli operai lo chiamavano “6 bicchieri”; nel contiguo edificio detto “3 bicchieri” troverà invece spazio il museo del mare), mentre sono ormai prossimi i lavori per la Cinecittà partenopea (la Napoli Stu-dios) nel capannone dove una volta era allocata l’officina dell’Italsider. Anche il progetto per il Parco dello Sport sotto la collina di Posillipo è in corso di realizzazione. I cantieri do-vrebbero chiudersi nel 2008. Certo non è moltissimo, tenuto conto che da più di un decennio si discute sul da farsi, ma non è neanche poco, o per lo meno quel poco o quel tanto

che sta nascendo lascia intravedere le linee di un restyling complessivo non solo di Bagnoli, ma di tutto il quartiere di Fuorigrotta, con ricadu-te su tutta la città.

La rigenerazione culturale di Napoli, il suo consolidamento volto a incanalare in un circolo virtuoso tutto il pulviscolo di iniziative che la città di continuo sollecita, non può che partire dunque dalla sua rigenerazione urbanistica. Ad onta della retorica patria che le vede connaturata la bellezza, è invece la “bruttezza” che continua a cor-rodere la metropoli: intendo dire la sciatteria edilizia, l’assenza di decoro urbano (ma non esiste un assessorato adibito allo scopo?), l’alterazione quotidiana di ciò che dovrebbe essere difeso armi un pugno. Penso al centro storico entrato nel novero dei beni Unesco, eppure preda di continui scempi: sopraelevazioni, finestre e balconi modificati per sostituire le vecchie persiane con le serrande, negozi orribili, eccetera. Salvaguardarlo

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��dall’incuria non dovrebbe essere compito prioritario della cultura? Se usciamo dal perimetro daziario il panorama è ancora più desolante: casacce, discariche, obbrobriosi villini abusivi, svincoli, soprae-levate, serre di plastica, e mai una pausa significativa di verde a porre argine alla metastasi urbana mentre la “litoralizzazione” (della fascia vesuviana ad esempio) ov-vero l’accumulo di insediamenti sul mare, toglie ogni identità storica e antropologica alla costa, in un con-tinuum edilizio che è la caricatura del paesaggio caro ai viaggiatori dell’Ottocento.

Ha osservato di recente l’archi-tetto svizzero Mario Botta (quello del rifacimento della Scala o del nuovo museo di Rovereto): “Le no-stre periferie sono brutte e ostili alla vita dell’uomo, perché riflettono la cattiva città sociale che le ha pro-dotte”. In Francia esiste l’“architetto condotto” che impone alle nuove costruzioni (l’abusivismo vi è scono-sciuto) tipologie costruttive, uso sa-piente di materiali, colori adeguati.

La stessa grazia di periferie e borghi magnificamente edificati la ritro-viamo in Olanda, in Germania, in Danimarca e via cantando. Sembra un altro universo, ma la bruttezza e la barbarie si sconfiggono a forza di cultura e di buoni regolamenti, nonché di una sapiente ammini-strazione della cosa pubblica. È così arduo immaginarlo per l’Italia e in particolare per le nostre tormen-tate plaghe? La bruttezza ci rende brutti. Nel senso che abituandoci alla disarmonia dilagante, non ci permette più di percepire i grandi e piccoli cedimenti verso il basso che l’ambiente esterno incessantemente sollecita, anche per la latitanza di chi dovrebbe esercitare una fun-zione di controllo e di dissuasione (vogliamo perdere definitivamente il velo protettivo dell’Unesco sul centro storico di Napoli?).

Non sembri peregrino far cenno qui al metrò dell’arte, oggetto spes-so tra noi di malevoli commenti e infinite polemiche; si è parlato di inutile spreco di risorse in favore della decorazione, di committen-

ze che hanno privilegiato alcuni artisti a discapito di altri, di opere indecifrabili o inutilmente elitarie (come quella di Kossuth nella sta-zione di Piazza Dante o quella di Mario Merz nel caveau di Piazza Vanvitelli). Certo, qualche artista o architetto locale sarebbe stato ben felice di essere associato all’impresa e forse qualche esclusione è stata troppo severa. Ma ciò che conta, al di là dei discorsi contro la “cupola artistica” che dominerebbe Napoli (quella dei Bonito Oliva, dei Cycelin eccetera) è l’idea sottesa al progetto delle metrò dell’arte che va colta nella sua potenzialità, quella di voler coniugare, sia pure con un azzardo, la fruizione artistica con il concetto di “transito”, anche se i viaggiatori a stento dedicheranno un’occhiata (distratta ma qualche volta ironica, il che è già una forma aurorale di giudizio) a Sol Lewitt o a Jannis Kounellis.

Il metrò dell’arte, anche se troppo enfatizzato dal committente (nel senso che spesso è servito a far dimenticare ciò che è rimasto inadempiuto in altri settori della pubblica amministrazione), va in ogni caso proprio nella direzione che auspicavamo: quella di voler restituire vivibilità (anche artistica, oltre che funzionale) alla città cercando nel contempo di porre un argine alla bruttezza e alla tra-scuratezza dilaganti.

Anche la nascita del Madre, il Museo d’arte Donna Regina, è stata accompagnata da polemiche a non finire: museo di tendenza ovvero “tendenzioso”, scelta elitaria che ha tenuto lontano gli artisti locali (anche quelli la cui fama aveva superato da tempo la cinta daziaria), corteggiamento delle mode artisti-che e così via. Certo nelle scelte del Madre vi è molto di “tendenzioso”, ma un museo di arte moderna non può essere una congerie indistinta di manufatti artistici, non è il de-posito polveroso della creatività, deve operare delle scelte, discuti-bili o meno che siano, deve poter seguire un ragionamento critico,

persino operare delle forzature se è necessario. Si vedano in proposito le scelte dell’Hamburger Bahnhof Museum di Berlino (lo splendido contenitore inaugurato nel 1996 riadattando la vecchia stazione che univa Berlino ad Amburgo). Mugugno da parte di molti berlinesi per la “tendenziosità” delle scelte in favore delle avanguardie, ma l’idea di coniugare il glamour dell’arte contemporanea con le architetture di un ex luogo di “transito” ha fatto scuola.

Tempo fa Mario Martone, par-lando della città come luogo “pur-gatoriale” ha aggiunto: “Napoli si attrezza culturalmente alla perdita di speranza”. Ma affermazioni come queste, sia pure nella loro elusività, servono solo a convin-cerci, in un cupio dissolvi, che ogni sforzo della cultura di fare argine alla crisi sociale, politica, di identità della città è destinata al fallimento. Proprio nel suo film Un amore molesto Martone ci ha dato un’immagine cruda di Napoli: disarmonica, piovosa, cacofonica, ma anche dotata di una irriducibi-le vitalità. Ora proprio da questa vitalità – che è anche e soprattutto vitalità culturale – bisogna ripartire per costruire un progetto di futuro, pur nella coscienza delle difficoltà in sui si dibatte la metropoli, dalla disoccupazione alla cattiva politica, ai riti sanguinari della criminalità. Il “purgatorio” in fondo è una premes-sa di riscatto.

Ciò che colpisce di Napoli è questo: che vi sono tutti i prerequi-siti per dare forma (culturale) a una nuova idea di città, ma è come se la metropoli offrisse resistenza alla ne-cessità del cambiamento e al rinno-vamento (da città “dimessa” a città delle arti e delle nuove economie). Il disordine può essere imbrigliato. Ma forse la colpa maggiore di chi ha nelle mani le sorti di Napoli, prima che la cattiva gestione della cosa pubblica, è il “misoneismo”, ovvero la paura del nuovo, del salto inevitabile nella modernità.

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Venti anni fa, agli inizi degli anni ’80, un carnevale veneziano fu dedicato da Maurizio Scaparro a Napoli. Sotto lo slogan di “Mille Pulcinella nei campielli”, giunsero nella città lagunare tutti o quasi i gruppi e gli artisti napoletani. Anche allora cominciò a entrare in fibrillazione con tam tam sot-terranei ma anche espliciti, quella nutritissima compagine di teatranti napoletani che giustamente lot-tavano per non essere esclusi da un’occasione di lavoro e visibilità. Scaparro, che è sempre stato un operatore abile ed ecumenico, riuscì ad accontentare tutti e in ac-cordo con la Giunta Valenzi portò l’intero Vesuvio sulla laguna.

Da allora molta acqua è passa-ta sotto i ponti della politica cul-turale cittadina da sempre segnata, come in altre parti del paese, da uno strettissimo rapporto tra gruppi politici della sinistra e il teatro. Di-ciamo che almeno dagli anni ’70, quando Vanda Monaco organizzò i gruppi di base per un’ipotesi di tea-tro pubblico al Mercadante, il tea-tro è sempre stato uno strumento non indifferente e indubbiamente egemonico nella linea del Partito Comunista Italiano. Da Gramsci in poi, fino al tentativo di riforma per la prosa del ’73, il Pci leggeva nel teatro uno strumento utile di aggregazione sociale e anche di consenso politico. Del resto dal teatro venivano fuori in quegli anni, oltre che le migliori generazioni creative (si pensi all’intera stagione nelle cantine e ai grandi epigoni del teatro sperimentale come Carmelo Bene o Leo De Berardinis) anche le più forti capacità di resistenza sia all’egemonia democristiana che già sovrintendeva all’emittenza pubblica, sia ai nascenti interventi

di area socialista che ad esempio nel Piccolo di Milano di Giorgio Strehler e Paolo Grassi aveva dei cavalli di razza e indubbi maestri.

Tuttavia se la generazione del ’68 ha creduto fortemente – e in parte illusoriamente – nella capacità del teatro di cambiare i linguaggi e quindi il mondo; c’è anche da dire che già negli anni ’70, tra la base creativa degli ap-passionati e gli interlocutori politici esistevano delle alquanto ambigue discrepanze: mentre infatti gli ope-ratori discutevano animatamente nei convegni e nei dibattiti allora numerosi, sul teatro immagine,

sulle avanguardie, sulla distruzione del testo, sul rapporto tra conven-zione, tradizione e innovazione; dietro le quinte si organizzavano organigrammi e nuove categorie ministeriali, spartizioni di posti e di finanziamenti che pur con poco spazio per la sinistra allora non al potere, di fatto già inquinavano pe-santemente il teatro italiano di un rapporto interdipendente e in gran pare subalterno alla politica.

Trenta anni dopo, nel 2007, a bocce ferme e con il centro sini-stra al potere, dopo sei anni dalla trasformazione del Titolo V della Costituzione (passaggio di funzioni

dallo Stato alle Regioni) arriva il Patto Stato Regioni e la trasfor-mazione in parte del FUS, Fondo Unico per lo Spettacolo nei FUSR, Fondi unici di Spettacolo Regionale con una mutazione profonda di an-tropologia politica. Se il rapporto tra artisti e organizzatori e i Partiti socialisti e comunisti è sempre sta-to di contiguità e di consenso ma in ogni caso nettamente separato quanto alle rispettive specificità e competenze (cioè gli operatori facevano cultura e i politici face-vano politica); negli anni 2000 si salta definitivamente ogni corretta mediazione tra amministratori e operatori, con la determinazione di un Festival internazionale per volontà ministeriale e l’emissione di bandi per finanziamenti di cospi-cuo importo, i cui unici destinatari sono gli enti locali stessi.

Il passaggio di competenze de-terminato dalla modifica del Titolo V della Costituzione che avrebbe dovuto segnare una seria istanza di decentramento di funzioni e un rapporto più organico tra Stato e Regioni dà luogo ad un Patto per lo Spettacolo firmato da Ministero, Conferenza delle Regioni, Unione delle Province, UPI, e Anci, per una “programmazione concertata degli interventi; valorizzazione delle identità territoriali, contem-poraneità, nuovi linguaggi e nuovi talenti, creazione di reti e monito-raggio degli interventi”: tutte belle parole che nei fatti però segnano un travaso intercomunicante di risorse dallo Stato agli Enti pubblici e il diretto controllo delle stesse in una sempre più chiusa e compatta “governance” tra Stato/Enti locali, nella quale appare difficile farsi largo per le nuove generazioni e per quanti di tale sistema non beneficiano affatto.

I bandi infatti, prevedendo la presenza di un coordinatore in-dicato dagli Enti e scavalcando la possibilità che siano gli operatori a presentare i progetti, hanno finito col subordinare, istituzionalmen-te, gli stessi agli organi politici.

TEATRO. IL RISCHIODI UN “PENSIERo UNICo”

Luciana Libero

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�1Poiché inoltre, pur in presenza di un coordinatore di progetto, la gestione delle risorse (ministeriali, regionali, etc) resta strettamente in mano ai politici, essa finisce necessariamente con il condizio-nare la qualità e la natura stessa degli eventi.

Napoli in questo si è sempre distinta per essere in qualche modo all’avanguardia e capofila di nuove stagioni. Il caso ultimo del “Teatrofestivalitalia” di Napoli con-quistato dalla città nell’ambito del Patto stesso, ne è fulgido esempio con la formazione di un comitato di “tecnici” poi trasformato in una Fondazione, presieduto dalla con-sulente del governatore Bassolino, Rachele Furfaro, già Assessore, da altri due politici, da un giornalista, Giancarlo Santalmassi e dal critico Goffredo Fofi.

In altre parole lo Stato e la Pub-blica Amministrazione avocano a sé la gestione diretta delle risorse; organizzano gruppi di controllo dei flussi finanziari cooptando al-l’interno di organigrammi di diretta emanazione politica operatori e/o critici quali figure di coordinatori, e gestiscono il pacchetto comples-sivo delle proposte; con il risultato di un controllo ferreo delle risorse economiche, di una cogestione culturale e di una inevitabile coop-tazione di fedelissimi disponibili a tale cogestione dell’attività.

Questo tipo di “cogestione” ha già trovato forma, per certi aspetti, nell’organigramma del Mercadante che vede alla direzione una signora già responsabile di Radiotre Rai, la presenza di molti operatori napoletani (la Galleria Toledo, Renato Carpentieri, Enzo Moscato). Così il Festival di Napoli riflette le medesime linee operative sia nell’organizzazione di un Comitato poi trasformato in Fondazione di diretta emanazione del governato-re Bassolino, di una partecipazione del Teatro Nuovo che ha orga-nizzato all’interno del Prologo le Nuove sensibilità e nella presenza di un iniziale coordinatore come

Gianfranco Capitta, giornalista del Manifesto e che aveva già lavorato a RadioTreRai.

Quello che sconcerta maggior-mente, è che appare vincente ed egemonica – diciamo un “pensiero unico” – la linea di una particolare area della sinistra che vede solo nel teatro di sperimentazione e di ricerca (sia pure con punte di eccellenza quali le ospitalità internazionali di Thomas Oster-meier e gli indiani incantatori di serpenti, come ineccepibile appare la scelta di Renato Quaglia pros-simo direttore che da quell’area deriva) la tendenza del nuovo e del “politicamente corretto”. Certamente il Teatro di ricerca ha svolto e continua a svolgere in Italia una importantissima funzio-ne. Artisti napoletani come Toni Servillo e Mario Martone che in quella esperienza si sono formati sono oggi i fiori all’occhiello della città; lo stesso Marco Martinelli del Teatro delle Albe chiamato dalla Carlotto a Scampìa per il progetto “Arrevuoto”, è un artista di enorme interesse che ha lavorato sulle etnie, sulle lingue con all’attivo spettacoli, attori, drammaturgie di eccellente profilo. Così come altre figure della città da Renato Carpen-tieri a Enzo Moscato e i tanti gruppi della ricerca anche nuovissimi che la animano, sono tutti meritevoli di coinvolgimenti, aperture, sostegno che in anni e anni di fatica hanno conquistato.

Ma l’esclusione di un artista come Roberto de Simone, solo perchè figura scomoda nell’orga-nizzazione del consenso cittadi-no, è sintomatica di grave e non perdonabile cecità politica. Non solo perché esclude da un Festival internazionale un artista di enorme profilo europeo ma un intero lavoro di scavo e di ricerca sulla tradizione musicale, interpretativa, gestuale, antropologica, drammaturgia, della città viene abbandonato.

Ora in molti in Italia, nell’am-biente teatrale, hanno criticato non solo la scelta di Napoli come sede

di un festival internazionale sul modello di Avignone o Salisburgo, per il fatto che tale scelta non sia stata, come i Festival di Avignone e Salisburgo, determinata da un lavoro annoso e dal basso di opera-tori che nel tempo hanno costruito un percorso territoriale di attività fino a diventare un prestigioso riferimento culturale internazio-nale, bensì dall’alto del Ministero Rutelli; e qualcuno ha potuto anche maliziosamente intravedere in tale scelta il peso specifico di un gover-natore come Bassolino all’interno dei rapporti del neonato Partito Democratico; quello che piuttosto appare davvero discutibile è un malinteso sentimento del nuovo da parte di tale area della sinistra di un teatro che nuovo non è più, intanto perché i suoi esponenti hanno ormai trenta anni di attività alle spalle; ma anche perché la città ha espresso nei secoli numerose e molteplici linee di ricerca che andrebbero ugualmente esplorate: dalla tradizione del racconto e della narrazione di un Giambattista Basile (su cui anche De Simone ha lavorato); all’opera buffa; alla tradizione di un teatro popolare di Scarpetta e Petito; al teatro musi-cale e sociale di Raffaele Viviani; alle drammaturgie degli anni ’50 di Gennaro Pistilli e di Patroni Griffi; al teatro di varietà e al comico; fino ovviamente ai De Filippo e agli autori del “Dopo Eduardo”; e infine alla massa di attori della tradizione (quegli stessi che ha usato ad esempio un autore come Martone in alcuni suoi films); linee tutte che costituiscono un “corpus” ponderoso che l’occasione di un Festival internazionale dovrebbe accogliere e rilanciare con mostre, eventi, convegni di studio, non solo portando le produzioni di impor-tanti istituzioni europee a Napoli ma facendo di Napoli e della sua imponente tradizione teatrale un luogo europeo.

Certamente occorrerà aspet-tare i prossimi capitoli di questo Festival. Quaglia è operatore

competente e avvertito ma qual-che dubbio si può nutrire sulla sua reale conoscenza di tale ricchezza napoletana. Ed è questo l’equivoco di fondo del Festival: escludere la tradizione in quanto “vecchia” per un malinteso senso del nuovo; esprimere le linee di politica cultu-rale degli anni ’70 o andare ancora più indietro, quasi all’idea del Mini-stero della Cultura popolare di uno Stato che in quanto finanziatore delle cultura ne diventa il control-lore intervenendo nel merito delle scelte estetiche.

A Napoli permangono que-stioni insanabili di fondo di una politica centrale e locale che da una parte stimola un Festival e dall’altra consente il commissa-riamento di un’istituzione come il San Carlo; cerca di rilanciare in termini turistici e di immagine il proprio patrimonio creando nuovi luoghi come il Madre e il Pan ma dall’altra non riesce a garantisce sicurezza e accoglienza ai propri visitatori; mette Napoli in cima ai suoi pensieri e spreca fiumi di denaro nel resto della regione in manifestazioni provinciali in luoghi notevoli come Pompei o Paestum che restano le maggiori attrazioni del turismo internazionale.

Contraddizioni e problemati-che di una città “bella e impos-sibile” che forse richiederebbero una capacità di revisione seria e profonda proprio all’interno di quella stessa sinistra che da venti anni l’amministra: con piglio po-tente eppure debole perché teme il dissenso di un artista e coopta solo appartenenti e fedelissimi; incapace di rischiare e di guardare al di là delle proprie consolidate certezze; convinta di esprimere il nuovo ma in realtà conformista e ancora ferma alle rivoluzioni culturali degli anni ’70.

Il Festival e le sue future con-nessioni potrebbero essere, per una volta, questa occasione, con uno sguardo davvero europeo, più audace, più fuori dai soliti percorsi.

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L’autobus�da�15�metri�impiegato�nei�collegamenti “Napoli – Mondragone” e “Napoli – Caserta”

L’IMPEGNO�SOCIALE

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-�L’abbattimento�delle�barriere�architettoniche�--�L’integrazione�socio/culturale�delle�etnie�presenti�sul�territorio�-

Da�qualche�anno�l’azienda�stainoltre�portando�avanti�un�progetto

di�inclusione�sociale�per�gliextracomunitari�residenti�sul

territorio,�denominato�Contact.

Tale progetto introduce la figura delmediatore culturale a bordo busponendo tra gli obiettivi primari lar i d u z i o n e d e i c o n f l i t t i econseguente senso di insicurezza,consolidamento del rapporto traimmigrati e clienti autoctoni e lacreazione di una f i t ta reted’intercultura per la comunità.

Marketing�e�Comunicazione�CTP

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��

Carlo Lizzani ha presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Ve-nezia, il film Hotel Meina sull’eccidio di

ebrei avvenuto nel settembre ’43 a Meina, sul Lago Maggiore. L’episo-dio, che si distinse per abiezione, si inquadra nelle vicende che tra il ’43 ed il ’45 interessarono le valli del-l’Ossola, il Cusio ed il Verbano, il principale teatro di guerra partigia-na che ebbe, per gli scenari dei luo-ghi, l’atmosfera della città-frontiera di Domo, la straordinaria avventura della Repubblica dell’Ossola e dei ragazzi partigiani, un sembiante cinematografico non riconosciuto salvo per lo sceneggiato di Lean-dro Castellani, “Quaranta giorni di libertà”, trasmesso dalla RAI nel ’74, trent’anni dopo la Repubblica partigiana.

La Repubblica, la più nota, forse per vari aspetti la maggiore tra le “grandi repubbliche” parti-giane dell’estate-autunno del 1944 (G.Bocca), comprendeva l’Ossola e le sue convalli. Durò, col suo fascino di impresa utopica, dal 10 settembre, il giorno che le Divisioni partigiane “Valdossola” e “Valtoce” occuparono Domo in festa, alla se-conda metà di ottobre segnata dal ritorno di tedeschi e fascisti nella città deserta, il 14 ottobre, dal-l’esodo dei civili in Svizzera tra le interminabili piogge ed i primi nevi-schi, e dagli sporadici scontri degli ultimi giorni del mese. Le sue storie sono narrate in numerosi libri, tra i quali memorabili Una repubblica partigiana di Giorgio Bocca e Sere in Valdossola di Franco Fortini, ma il suo messaggio è racchiuso in una frase incandescente di Gianfranco Contini: “chi è stato nell’Ossola fra il settembre e l’ottobre ’44 ha veramente respirato l’aria esilarante della libertà”.

L’armistizio dell’otto settembre ’43 ci colse a Domo col sollievo per la fine della guerra, sopraffatto

però dal senso di morte della patria e dalla profonda inquietudine per il timore dei tedeschi e l’incombente ritorno dei fascisti con l’annuncio da radio Monaco, la stessa notte della resa, della costituzione di un governo nazionale fascista ad opera di fuorusciti. Poi, tra l’undici

e il tredici, la città fu invasa da una quantità di sbandati del disfatto esercito: a Domo stettero qualche giorno, subito riconoscibili dal precario abbigliamento borghese, per sparire alle prime voci di deportazioni in Germania, taluni salendo in montagna a formare,

secondo la vulgata partigiana, le prime bande ribelli, altri partendo per avventurosi viaggi verso casa o verso grandi città dove confondersi tra la gente.

Altri eventi immediatamente successivi all’armistizio che alimen-tarono l’apprensione cancellando le superstiti speranze di pace, furono l’ordinanza di Kesserling del 12 settembre che asserví l’Italia dichiarandola territorio di guerra, la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, lo stesso giorno, e i fatti che ne seguirono: il suo incontro con Hitler al Quartier Generale di Ra-stenburg, il discorso del 18 da radio Monaco, l’irriconoscibile voce che, persi i famosi timbri, annunciava la costituzione della Repubblica fascista, il suo ritorno in Italia il 25 e l’assunzione delle funzioni di capo del nuovo stato fascista, dopo il Consiglio dei Ministri alla Rocca delle Caminate. Invece, nessun effetto memorabile fece, poco dopo, la dichiarazione di guerra del governo regio alla Ger-mania (non accettata dai tedeschi che consideravano solo governo legittimo la RSI), tant’é che io ne smarrii il ricordo, ritrovandone la data, il 13 ottobre ’43, nelle letture di anni dopo.

Dunque, all’incontro di Ra-stenburg seguí la nascita del nuovo governo fascista, che Mussolini avrebbe decisa su pressione di Hitler per salvare l’Italia dalla sorte polacca minacciata dall’antico alleato (R.De Felice) o perché era il suo solo modo per tornare al potere, fidando nella possibilità della vittoria tedesca (A.Lepre) o, forse, per entrambe le ragioni. Però l’evento più traumatico dopo l’armi-stizio fu l’occupazione tedesca di Domo, il pomeriggio del 20 settem-bre, da parte di un distaccamento di militari della SS Leibstandarte “Adolf Hitler”, una formazione generata da una sorta di originaria guardia del corpo di Hitler (1933), assurta, tra il ’38 ed il ’41, alla consi-stenza di un reggimento di fanteria motorizzata, di una brigata dopo la

TesTiMoniAnzA

MeinA: la più dimenticata delle stragi naziste

Almerico Realfonzo

memoria

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��campagna di Polonia, poi di una divisione; nell’ottobre ’43 venne trasformata nella Prima Divisione corazzata SS. Preceduta dalla fama di spietatezza conquistata dalle SS sui campi di Europa, trasferita nel ’43 da Charkov al nostro confine, scese in Italia in agosto a disarmare grosse unità italiane dislocate tra Milano, Torino e Como, per poi acquartierarsi temporaneamente sui laghi ed a fine ottobre muovere nuovamente verso la Russia con la forza di 300 carri armati (H.Eberle, M.Uhl).

L’occupazione di Domo debut-tò con le buone maniere che talora adottano gli oppressori: i tedeschi arrivati col contingente del 20 set-tembre “erano allegri e sembravano gli uomini più tranquilli del mon-do”; radunati davanti la farmacia Bogani in piazza Cavour, lasciava-no persino che i ragazzi “salissero vicino a loro a prendere pane, cioccolato e sigarette” (L.Pellanda). Io non vidi l’arrivo delle SS, quel pomeriggio, ma ricordo gli insoliti traffici di mezzi tedeschi a fine set-tembre e le proterve esibizioni dei famosi sidecars sulla breve salita di via Marconi e in piazza Cavour, ciascuno con due o tre militi in assetto di guerra, le doppie rune sui baveri, i simboli di invincibilità che credevo folgori.

Nello stesso periodo, con la prima riunione del Governo fascista del 27 settembre, presero a circola-re voci di imminenti chiamate alle armi ed in breve conflissero, nel piccolo mondo ossolano, il cre-scendo della propaganda fascista, col corredo di bandi e minacce di morte per disertori e renitenti, il ritorno dei fascisti restituiti, sem-brava, allo squadrismo delle origini, e, con le notizie sulle prime forma-zioni ribelli e gli albori di attività politica antifascista, sconosciuta alla mia generazione, i prodromi del mito resistenziale. Cominciam-mo a sentire di fughe in Svizzera di ebrei e antifascisti compromessi nel periodo badogliano, che scon-finavano con l’esoso aiuto dei

passatori, di retate e deportazioni di ebrei e militari fuggiaschi, di bru-tali violenze come comuni pratiche della polizia politica, di pubbliche o segrete uccisioni, insomma gli inizi del nefando repertorio di guerra che i nazisti, ma qui anche i fascisti, spiegavano nelle terre di conquista d’Europa.

Nella fase nativa di questa temperie si collocano gli efferati episodi che si verificarono tra il 15 e il 24 settembre sulla sponda occidentale del Lago Maggiore nei giorni in cui nasceva il governo della Repubblica Sociale Italiana, con l’uccisione di cinquantaquat-tro ebrei ad opera delle SS della Leibstandarte. A Meina gli uccisi furono tredici ebrei di Salonicco ed un turco, tutti cittadini italiani, e due altri, un’ebrea tedesca ed un italiano. Dopo i cenni di Pellanda e Bocca, Marco Nozza nel libro Hotel Meina, pubblicato cinquan-tadue anni dopo, ricostruì l’episo-dio, dall’arrivo delle SS nel quieto albergo di Meina dove alloggiavano gli ebrei, alla segregazione delle famiglie nelle camere, sette giorni in angosciosa attesa della sorte, alle truci uccisioni.

Il 22 settembre le SS preleva-rono gli ebrei a piccoli gruppi, con l’inganno di internarli per invece ucciderli in riva al lago, appena dopo l’abitato. Gli uccisi,

gettati nel lago legati a grosse pietre, riemersi furono ripescati e sventrati perché affondassero; anzi, secondo taluni residenti nelle ville rivierasche, fallite quelle macabre manovre i corpi sarebbero stati bruciati con i lanciafiamme: un’ipotesi forse dovuta ai bagliori notturni degli spari sulle rive del lago. Ad esasperare la turpitudine dell’episodio, le esecuzioni sul lago vennero completate, la notte tra il 23 e il 24 settembre, dall’uccisione del vecchio Fernandez Diaz e dei suoi tre nipoti, un ragazzo dicias-settenne, Jeannot, e due bambini disperati, Robert tredicenne e Blanchette undicenne.

L’aspetto incredibile della stra-ge di Meina, come degli altri ec-cidi compiuti con varie aberranti modalità tra Arona e Baveno, fu che, malgrado la loro violenza, non se n’ebbero che vaghe noti-zie, le SS riuscendo ad occultare gli episodi, riemersi venticinque anni dopo col farsesco processo

di Osnabrück apertosi il 9 gennaio 1968 dopo vani e sporadici ten-tativi di denuncia nei molti anni trascorsi. Peraltro, l’occultamento della violenza, quando non se ne volle l’ostentazione terroristica (C. Pavone), fu una pratica politica che investí l’intero periodo ’43-45, fin oltre la Liberazione, seppellendo in un lungo oblio le aberrazioni delle fazioni, quasi che le nebbie dell’epoca avessero pervaso il terri-torio morale della storia, relegando gli eventi nel limbo delle memorie individuali.

Il processo di Osnabrück sulla più dimenticata delle stragi, si concluse il 20-21 giugno ’68 con la richiesta di ergastolo per tre ex ufficiali della Leibstandarte e dieci anni per due imputati minori. Gli ergastoli furono confermati dalla Corte di Assise il 4 luglio e le pene minori ridotte a tre anni; ma il 2 aprile ’70, la Corte di Appello di Berlino annullò la sentenza dichia-rando prescritti i reati e mandò liberi i condannati.

memoria

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��Un nUovo trattato

Certo, un panorama istituzionale non può prescindere dalla decisione formale del Consiglio europeo del 18 e 19 ottobre di approvare il progetto di (due) trattati sull’Unione europea e sul suo fun-zionamento, anche se questo tema tiene banco ormai da molto, troppo tempo. Il fatto: in seguito al Consiglio europeo di giugno che ha fissato i criteri per la redazione dei trattati che devono sostituire il progetto costituzionale, un gruppo di giuristi ha messo in bella il testo ed ha integrato le modi-fiche discusse fra i ministri degli esteri successivamente. Il progetto, portato a buon termine il 5 ottobre, è stato approvato, d o p o altri ritocchi, dal Consiglio europeo di ottobre. Difficile dare a caldo un giudizio tecnico preciso sul testo, complesso, complesso, veramente complesso. Alcune questioni meritano di essere però discusse. Il progetto rimpiazza la costituzione, caduta in due referendum e sepolta perché, fondamentalmente, incontrava un favore politico decrescente, nonostante l’approvazione da parte di un gran numero di Stati. Nessuno era disposto a sacrificare tempo e costo politico per salvare davvero la costituzione. Come ho già sostenuto più volte, il no alla costituzione è stato una chiara sconfitta politica per chi desidera veder progredire la costruzio-ne europea. Questo è vero anche perché il suo “profumo” di superstato e le sue pretese di “eternità” erano sparite via via che la convenzione aveva sviluppato i propri lavori. Il superstato era stato accantonato per affermare la piena sovranità degli Stati nelle materie non delegate all’Unione; l’eternità era venuta meno con l’acceso dibattito sulle modalità di modifica della costituzione stessa. Restava il progresso della costruzione europea, ivi com-presa una simbologia consolidata che non aveva minimamente assimilato l’Unione ad uno Stato. Restava quella parola “costitu-zione”, evocatrice, ma, soprattutto, garanzia di stabilità di fronte al resto del mondo. I trattati di oggi riprendono quasi del tutto il progetto del testo di costituzione, ma vi aggiungono alcuni elementi. Una parte di essi rafforza il sistema di opt out (cioè la possibilità permanente di chiamarsi fuori da alcune politiche) per la Gran Bretagna, in parte la Polonia (specie sulla carta dei diritti

fondamentali!) e l’Irlanda, in partico-lare. Sommando tutti gli opt out, la Gran Bretagna rischia addirittura di mettersi fuori dell’Unione, tanto sono numerosi e su materie importanti. Fra le numerosissime modifiche introdotte dal testo, dal punto di vista istituzionale, vi è un

notevole rafforzamento del campo di applicazione della codecisione

(cioè dei settori nei quali il Parlamento europeo legifera insieme al Consiglio,

ivi compresi certi settori dell’agricoltura, la creazione dell’Alto rappresentante per

la politica estera che, al tempo stesso è vice presidente della Commissione ed unifica in questo

modo i servizi diplomatici dell’Unione, il rafforza-mento del Comitato delle Regioni, una nuova procedura

di bilancio, che rafforza il ruolo del Parlamento europeo.Sul piano delle politiche, vanno notate, in particolare le

nuove disposizioni in materia militare che consentono una “coo-perazione strutturata” fra gli Stati membri che lo desiderano per mettere a disposizione dell’Unione certe forze armate, nonché la clausola di assistenza reciproca in caso di aggressione, ivi compreso di carattere terroristico e, di non poca importanza, le disposizioni che dovrebbero permettere di fare una politica co-mune dell’immigrazione. Vanno poi notati due aspetti di non poca importanza. Il primo riguarda un ruolo decisamente accresciuto dei parlamenti nazionali ed un certo riconoscimento del ruolo delle regioni; questo fa pensare ad un modello istituzionale di tipo “cooperativo”, con una minore separazione fra istituzioni nazio-nali e istituzioni comunitarie: problema da seguire. Il secondo, riguarda la questione della riforma dei trattati per il futuro. Proprio tenendo conto di questo aspetto e continuando la linea istaurata dalla risoluzione di Spinelli del gennaio del 1986, con la quale il Parlamento europeo lanciava l’idea delle riforme periodiche dei trattati, sia la convenzione costituzionale, sia la Conferenza intergovernativa se ne sono preoccupati ed hanno creato due modalità di cambiamento, una relativa ai cambiamenti minori ed una complessa, che comprende la convocazione di una con-venzione di tipo parlamentare (Parlamenti europeo e nazionali) e, ovviamente, le ratifiche nazionali. Ma la cosa più interessante è che il Parlamento europeo ottiene un potere d’iniziativa in materia di riforme dei trattati. Utilizzato con accortezza, questa possibilità rischia di accrescere il prestigio ed il peso politico dell’istituzione.

Euronotedi Andrea Pierucci

INFO

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��Un ordine del giorno molto carico per le istitUzioni

Il panorama istituzionale va al di là di questo aspetto, che resta comunque centrale. Le istituzioni continuano a funzionare e non sono certo sospese al verdetto sul nuovo trattato. In parti-colare, merita notare l’attenzione delle istituzioni alle questioni legate all’immigrazione. La Commissione, per bocca di Frattini e di Spidla, i due commissari che dispongono di competenze, giuridiche e di sicurezza l’uno e sociali l’altro, annuncia nella sua programmazione iniziative di grande importanza, tanto in termini d’immigrazione legale, di lotta all’immigrazione illegale, di controllo delle frontiere “Frontex”, quanto di integrazione degli immigrati e di libertà di circolazione nello spazio europeo. Il Parlamento europeo, nella sessione dal 24 al 27 settembre, ha tenuto un dibattito importante sull’insieme delle disposizioni in materia commentando un piano globale di azione proposto dalla Commissione, propriamente fondato sui filoni indicati in precedenza. Il Comitato delle Regioni nella sua riunione del 10 e 11 ottobre ha ripreso questi temi in ben due pareri, uno del Maltese Micaleff sull’insieme della questione e l’altro di Sonia Masini, presidente della provincia di Reggio Emilia, che si è in particolare soffermata sui problemi, ma anche sul ruolo integra-tore, delle donne migranti. Quest’ultimo parere, molto mirato, si è avvalso nella sua preparazione di un impressionante lavoro accademico e di analisi delle diverse situazioni, in almeno otto punti critici, in questo contesto, in diversi Stati membri.

Il Parlamento europeo, nella stessa sessione ha approvato una domanda specifica per rilanciare al livello delle Nazioni Unite la moratoria sulla pena di morte, mostrando, per la dimen-sione del voto, un certo consenso in Europa su questa materia, a prescindere dagli orientamenti politici diversi. Ugualmente – e la questione potrebbe avere sviluppi importanti, soprattutto se la Commissione europea ed il suo presidente che è all’origine della proposta terranno duro – il Parlamento europeo si è finalmente espresso sulla creazione di un Istituto europeo di tecnologia, che dovrebbe contribuire a frenare l’esodo dei “cervelli” (che se ne vanno a centinaia di migliaia specie verso gli Stati Uniti) ed a rilanciare la ricerca tecnologica. Devo dire che, a pelle, non certo con prove provate, ho sentito il senso della pressione del mondo accademico più conservatore che è quasi riuscito a far cadere questa proposta.

E, in sintonia con le priorità della Commissione, il Parla-mento europeo ha anche discusso di energia, in particolare di energie alternative, sostenendo gli orientamenti dell’esecutivo. Si ricorderà che la questione energetica trova un’Unione che dispone di competenze insufficienti per aiutare gli Stati membri a far fronte alla crisi in corso, tant’è vero che il nuovo Trattato le conferisce nuove responsabilità. Peraltro, lo stesso Comitato economico e sociale europeo si prepara ad entrare nei temi centrali proposti dalla Commissione, tenendo nel corso della sua plenaria del 24 e 25 ottobre, un’audizione di alcuni scienziati sui cambiamenti climatici; si ricorderà che anche la lotta ai cambiamenti climatici rientrerà pienamente nelle competenze dell’Unione dopo la ratifica del nuovo Trattato.

Infine, vorrei ricordare l’iniziativa del Comitato delle Regioni nota con il nome di Open Days, che ha avuto luogo la settimana dall’8 al 12 ottobre e che ha visto partecipare alle oltre 150 iniziative tenutesi circa 5.000 persone per la maggior parte amministratori locali e regionali. Vorrei segnalare l’ini-ziativa di UNIONCAMERE con la presenza di PRODI e quella dell’ANCI sulle questioni d’immigrazione, animata, fra gli altri, da Lilli GRUBER.

polonia: Una liberazione

La sconfitta elettorale dei gemelli terribili e di Radio Marija, l’emittente conservatrice e tante volte accusata di raz-zismo e xenofobia, è un’eccellente notizia. Non è chiaro se i vincitori saranno tanto pro europei (forse si, forse meno, ma il futuro Primo Ministro, Donald Tusk, ha dichiarato che Bruxelles non è all’estero!), ma almeno è finita l’anomalia di un governo assai lontano dai concetti di libertà, democrazia e stato di diritto che si sono sviluppati nel secondo dopoguerra in Europa. La situazione polacca resta complessa, poiché il partito vincente, la Piattaforma civica dovrà allearsi con un piccolo partito con-tadino, più o meno di sinistra e non antieuropeo, per governare. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che un veto del Presidente della Repubblica (si ricorderà che resta Presidente uno dei due “gemelli”) su una legge può essere superato da un voto a particolare maggioranza dal Parlamento. Tale maggioranza può essere raggiunta solo con l’accordo con la sinistra.

INFO

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Mezzogiorno EuropaPeriodico della Fondazione

Mezzogiorno Europa – onlusN. 5 – Anno VIII – Settembre/ottobre 2007

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