numero 210 - maschietto editore · irettore simone siliani edazione gianni biagi, sara chiarello,...
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Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
210 27725 marzo 2017
«I paesi del Nord hanno dimostrato solidarietà con i partner più colpiti, ma non puoi spendere tutti i soldi per alcol e donne e poi chiedere aiuto»
Jeroen Dijssekboem, presidente dell’Eurogruppo, ministro delle finanze olandese, laburista
2017
«Ho speso molti soldi per alcool, ragazze e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato.»
George Best, calciatore nordirlandese
1974
Vogliamoanche le auto
Maschietto Editore
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
NY City, Agosto 1969
La prima
Siamo sempre
nella zona di
Spanish Harlem,
in un primo
pomeriggio. Sono
rimasto colpito
dallo sguardo
fisso di questa
giovane ragazza
che sembrava
guardarmi con due
occhi pieni
di malinconia.
Era già più grande
della sua vera età
e nel suo sguardo
c’era al tempo
stesso un misto
di rassegnazione
e di durezza.
In quel quartiere
bisognava
imparare presto a
crescere in fretta.
Non ho neppure
provato a parlarle
perché mi sentivo
imbarazzato
e ricordo ancora
di aver provato
un certo disagio
mentre scattavo
questa immagine.
Direttore
Simone SilianiRedazione
Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
www.culturacommestibile.com
www.facebook.com/cultura.commestibile
Editore
Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
210 27725 marzo 2017
In questo numeroDuprè a duecento anni della nascita
di Roberto Barzanti
Alle porte di Roma
racconto di Carlo Cuppini
Nynke, frisone e latina
di Alessandro Michelucci
Genetica e dintorni
di Mariangela Arvanas
Uno spazio per Bilenchi
di Cristina Pucci
Poesie-oggetto
di Laura Monaldi
I segni e la fotografia
di Danilo Cecchi
Stupore Abruzzo
di Rita Albera
NeoNato
di Claudio Cosma
La più antica casa di Parigi
di Simonetta Zanuccoli
Macron il candidato senza partito
di Michele Morrocchi
Zeffirelli for ever and ever
di Simone Siliani
Il velo è un simbolo religioso?
di Barbara Palla
e
Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Sara Chiarello, Abner Rossi, Gabriella Fiori....
Grandi uomini e grandi donne
Le Sorelle MarxL’intelligence piombinese
I Cugini Engels
Addattornà Eugenio
Lo Zio di TrotzkyI numeri dello stadio
Il massaggiatore di Jascin
Riunione di famiglia
Mandate i vostri [email protected]
PRIMA EDIZIONE 2017
premio letterario
Venghino signori,venghino
425 MARZO 2017
La targa apposta sulla facciata dell’abitazio-
ne della famiglia Duprè – nella Capitana
Contrada dell’Onda in Siena – rammenta
«ai figli del popolo a che riesca la potenza
del genio e della volontà». L’intento peda-
gogico – evidente nell’accoppiamento di ge-
nio e volontà – deriva da un’interpretazione
calzante della personalità di Giovanni Du-
prè, uomo geniale e sorretto da una capar-
bia volontà di riuscire. Fu lui stesso a
suggerire questa sorta di epitaffio,
scrivendo che Dio gli aveva dato
il talento e aggiungendo: «io ci
ho messo la volontà». Il miglior
modo per entrare nel mondo di
Duprè – se ne celebra il dugentesi-
mo dalla nascita – è leggere qualche pagina
almeno della sua autobiografia, il libro cui
affidò riflessioni che mischiano ritratti d’am-
biente con principi di poetica, spaziando da
Siena a Firenze, da Londra a Parigi. Uscito a
Firenze nel 1879 Ricordi autobiografici pro-
poneva anche riflessioni sull’arte, sugli indi-
rizzi prevalenti, sugli insegnamenti ricevuti.
Giovanni imparò fin da bambino dal padre
Francesco, fattosi intagliatore del legno dopo
non fortunate vicende economiche, l’amore
per un mestiere sostenuto da estro inven-
tivo e pazienza manuale. Duprè inizia
il suo zibaldone tratteggiando con de-
vota fierezza un quadro domestico e
un insieme di relazioni che furono
il fecondo terreno dal quale nacque
la sua vocazione. La famiglia dovette
trasferirsi a Firenze nel ’21, quando lui
aveva quattro anni, ma a Siena farà di tan-
to in tanto ritorno. È commovente il ricordo
di condizioni misere affrontate con sacrifici
e coraggio. La sera – dice Giovannino – il
babbo leggeva un librone latino che era per
lui fonte di insopportabile noia. La mamma,
Vittoria Lombardi, non di rado scoppiava in
lacrime, segnata per sempre dal dolore per
la perdita della figlia Clementina. La nascita
di Lorenzo e Maddalena avevano apportato
un po’di gioia, non certo più agio. Il padre
aveva preso a lavorare nella bottega di Paolo
Sani – ben apprezzata per le opere d’inta-
glio, ma per tirare avanti doveva fare la spola
tra Firenze, Pistoia, Prato e Siena. Giovanni
di Roberto Barzanti
Duprè a duecento anni della nascita
lo seguiva ubbidiente e curioso e se c’era bi-
sogno gli dava una mano. Per qualche tempo
Giovanni frequentò il corso d’ornato nell’I-
stituto d’arte di Siena e lì fece conoscenza
con altri intagliatori apprezzatissimi, quali
Antonio Manetti e Angelo Barbetti. Non
si capisce nulla dell’abilità dello scultore, se
non ci si sofferma sulle esperienze compiute
sotto la guida di questi maestri dimenticati,
detentori di una stupefacente sapienza arti-
giana. Proprio osservando le loro tecniche
sorse in Duprè la voglia di far qualcosa di
figurativo, che evitasse la ripetizione all’in-
finito dei soliti motivi vegetali.
L’opera rivelazione fu il famoso «Abele» che
suscitò un gran vespaio. Il modello in gesso
fu esposto nel 1842 all’Accademia fiorenti-
na e suscitò scalpore per il naturalismo con
cui il nudo era rappresentato: perfino i peli
sotto le ascelle! Alcuni altezzosi critici accu-
sarono l’autore di aver lavorato su un calco
dal vero. Così Duprè, che non sopportava le
chiacchiere maligne, fu costretto a far verifi-
care de visu in un pubblico confronto le for-
525 MARZO 2017
me della sua opera con quelle del modello
in carne e ossa che aveva posato per lui, un
certo Tonino Liverani, e smentì le perfide
osservazioni che gli erano state indirizzate
contro. A Siena fu promossa una sottoscri-
zione perché si eseguisse in marmo quella
statua già famosa: ma il marmo, appena
abbozzato, venne acquistato dalla duches-
sa Maria di Leuchtenberg, figlia dello zar
Nicola, che volle anche del ‘Caino’, portato
a termine nel 1847. Lo scandalo provocato
da queste due opere va messo in relazione
alle dispute sul naturalismo allora dilaganti.
Si disse che dentro le «scelte forme» natu-
rali si vedeva scorrere «un fremito di vita
calda,ardente», una virtuosistica sintesi tra
naturalismo e classicità. In effetti Duprè si
trovò spesso, anche personalmente, al cen-
tro di opposte tensioni. Nel periodo che va
dal 1852 al 1859 fu – forse per il tramite
dell’amico Luigi Mussini, molto influenza-
to dalle teorie francesi che esaltavano «l’art
pour l’art». Per un verso non aveva dimen-
ticato l’abbandonata lezione puristica, per
l’altro era attratto da un vigore plastico di
indubbia ascendenza classicistica, ma per-
vaso da un furore romantico e talvolta da
una delicata sensualità. Come oscillò in po-
litica, da liberale moderato filogranducale,
tra entusiasmi patriottici e ripulsa delle po-
sizioni estreme, così un certo sincretismo se-
gnò tutta la sua opera. Questa commistione
di stili evidenziava capacità tecniche non
comuni però non intessute con un’ispira-
zione unitaria. Talvolta egli stesso si mostra
autocritico dei suoi «sbandamenti», come
quando dichiara la sua insoddisfazione per
il Pio II collocato in ombra nella Chiesa di
Sant’Agostino: non era riuscito a combina-
re, confessa, arditezza e fedeltà. Uno dei
capolavori senesi è la «Pietà» della cappella
Bichi-Ruspoli alla Misericordia: lì Duprè
eccelle nella capacità di modulare in un’ori-
ginale sintassi di sapore classico un tema al-
tamente patetico, svolto però senza cedere a
effetti facili. Ma l’insuccesso del monumen-
to a Cavour, eseguito per Torino (1865-73)
è emblematico. L’uomo di Stato era ritratto
con acuto sguardo mentre l’Italia era rap-
presentata in forma di allegoria come una
donna derelitta che si prostra ai piedi del
diplomatico eroe. Quando mai una nazione
si affida alle virtù di un uomo? L’interroga-
tivo che accigliati critici gli scagliarono con-
tro coglieva sia la discutibile e apologetica
interpretazione politica che l’accostamento
di due chiavi – quella allegorica e quella
della ritrattistica – in conflitto tra loro. Ep-
pure, involontariamente, conteneva qualco-
sa di profetico. L’anno «Duprè duecento»,
orchestrato dall’Onda contribuirà di certo
a far meglio penetrare un’opera a volte li-
quidata come gelidamente mortuaria e ac-
cademica ed invece ricca di virtuosistiche
soluzioni, da scoprire con pazienza. Magari
soffermandosi su dettagli minimi, anche in
quella produzione alessandrina meno sog-
getta ai doveri imposti dalla committenza.
Non è forse inesatto notare una certa analo-
gia con la parabola artistica di un Carducci,
in vecchiaia approdato ad un’ufficialità pa-
ludata e solenne.
625 MARZO 2017
Lo Zio diTrotzky
In giorni di polemiche tra Stati Uniti ed Europa sul ruolo della
Nato, il nostro Paese ha deciso di dare l’ennesimo contributo
costruttivo. Non paghi di mandare un fior fiore di parlamenta-
re come Scilipoti un altro membro della delegazione italiana
all’alleanza atlantica si è fatto notare. Stiamo parlando del prode
Manciulli, che a cadenza più o meno regolare, ci racconta in una
newsletter gli sforzi suoi e dell’occidente per fermare il terrori-
smo internazionale. Intelligence, spionaggio, antiterrorismo i
temi dei suoi interventi. Verrebbe da pensare ad un esperto di
sicurezza. Ecco Andrea Manciulli lo scorso Natale ha deciso
di mandare i suoi auguri di Natale ad un gruppo whatsapp
costituito per l’occasione. Ha quindi selezionato i contatti dalla
rubrica e inviato i suoi auguri di buone feste. Fin qui niente di
male, peccato che abbia inserito nella lista, insieme immaginia-
mo agli amici delle elementari a Piombino, il premier Gentiloni,
l’ex premier Renzi, la sottosegretaria Boschi e mezzo governo.
Ecco l’esperto di antiterrorismo Manciulli non ha considerato
che i nomi e i numeri dei partecipanti al gruppo risultano visibili
a tutti gli altri. Difficile per una volta non concordare con Trump
sul bisogno di rivedere certi meccanismi alla Nato.
Le SorelleMarx
I CuginiEngels
Grandi uomini e grandi donne
L’intelligence piombinese
Addattornà Eugenio
Questa storia dimostra come dietro un grande
uomo c’è sempre una grande donna...
Il sole sta lentamente calando sulla prateria
del Texas. Una Range Rover arriva al ranch
Exhausted Oil sollevando una nuvola di
polvere. Scende un anziano signore con il
cappello da cowboy. Gli si fa incontro la
moglie Renda St Clair con una bella torta di
mele.
«Hello, my dear! Come è andata a Washin-
gton da quel mattacchione di Donald?»
«Ah Renda, ci siamo fatti delle gran risate:
voleva parlare del mondo, figurati! E poi ha
voluto sapere del petrolio, di come noi alla
Exxon abbiamo fregato l’Agenzia per l’Am-
biente e soprattutto come siamo riusciti ad
evitare di chiudere bottega dopo quel piccolo
incidente della Exxon Valdez del 1989».
Ah, ok Rex... ma tutto qui? Ti ha fatto fare un
lungo viaggio dal Texas a Washington per
parlare di queste stupidaggini? Non è che
mi nascondi qualcosa? Non so, qualche bella
bionda del tipo che frequenta lui?».
«No, Renda, giuro... In realtà alla fine mi ha
chiesto: Vuoi fare il Segretario di Stato per
me? Ma io gli ho risposto che sono troppo
vecchio e soprattutto che dopo aver fatto l’AD
della ExxonMobil non potevo certo accettare
un incarico così umile come quello di segreta-
rio. Ma poi, cosa è questo Segretario di stato?»
«Rex, ma sei rincoglionito? Ti ha chiesto di
fare il Ministro degli Esteri degli Stati Uniti
d’America e tu rifiuti? Ma sei suonato? Guar-
da, io te lo avevo detto che Dio non aveva
finito con te (cit.). Telefonagli subito e dirgli
che ci hai ripensato e che accetti!».
«Ma Renda, io ho da curare i miei cavalli qui
al ranch, devo andare a caccia, ho i nipotini
Quando c’era lui non sarebbe mai successo!
Signora mia, ma si tratta di un posto di lavoro?!? Di questi tempi…
Certo, cara signorina, ma quando c’era lui per giovani reporter era
una festa, un continuo ricevimento. Invece, adesso per fare un paio di
foto allo scoppio della colombina e ai ragazzi del Calcio storico? Due
biglietti omaggio per la fidanzata e l’amico, un posto in prima fila a
portata di cazzotto e poco più. Come farà a mangiare questo povero
fotografo professionista? Ma sarà un’esperienza che fa curriculum;
dopo tre anni, perché tanto dura il «contratto» potrà dire: io ho lavo-
rato con il Comune di Firenze che è stato retto da sua Maestà Matteo
e dal fido aiutante Dario. Farà parte, seppur di striscio, del giglio ma-
gico e magari… Vabbè, se la mettiamo così. Ma pensiamo al presente.
Ripeto, cara signorina, quando c’era lui almeno qualche tartina, un
prosecchino, due tramezzini si rimediavano, ora si muore d’inedia.
Addattornà Eugenio, senza di lui le Tradizioni popolari languono,
così come le pance degli addetti ai lavori.
Dialogo tra donne di strada dopo il bando del Comune di Firenze
per la ricerca di un fotografo da destinare agli eventi Tradizioni Po-
polari Fiorentine «senza alcun costo a carico dell’Amministrazione
Comunale». Bando poi ritirato, perché non era stato capito.
da seguire... Poi non ci capisco nulla di po-
litica estera: so come si fa a truffare il fisco o
ad estrarre petrolio, ma di politica estera... La
Nato? O cosa è?»
«Senti scemo, se Bush ha fatto il presidente,
anche tu puoi fare il Segretario di Stato! Per
la Nato non ti preoccupare: tanto non conta
nulla, pensa che quei mangiaspaghetti di ita-
liani ci hanno messo un deputato di Piombi-
no a guidare la loro delegazione! Vai, telefona
a Trump, senza tante storie!»
«Pronto Donald, senti mia moglie qui, Renda,
mi ha detto che dovrei accettare di farti da
Segretario e, sai com’è, a certe donne non puoi
proprio dire di no. Quindi sono pronto. Come
dici? Dobbiamo tagliare il budget di un terzo?
Va beh, che mi frega, se guardiamo ai conflitti
nel mondo, se accettiamo il fatto di continua-
re a non risolverne nessuno, allora il budget
può rimanere com’è (cit.), ma se per puro caso
se ne risolve qualcuno, allora si può anche
tagliare! Hai altre indicazioni da darmi? …
Sì, ho capito: gli europei bullshit, i Coreani
fuckoff, Putin great, Xi Jinping asshole. Per-
fetto, tutto chiaro.»
Così ha avuto inizio la folgorante carriera di
Rex Tillerson, nuovo Segretario di Stato di
Trump, già CEO della ExxonMobil.
725 MARZO 2017
disegno di Lido Contemorididascalia di Aldo FrangioniNel migliore
dei Lidipossibili
Toccata per sessant’anni di pace e per fuga britannica
Segnalidi fumo
Ai toscani piace l’automobile. Tanto che ogni
giorno l’80% la usa (insieme allo scooter) per
i propri spostamenti. E solo un modesto 13%
sale sul bus. Si arriva al 21% con i pendolari
del treno. Dati che emergono da un recente
sondaggio Ipsos sulla mobilità in Toscana. Di
certo ai noi non ci piace camminare: solo il
10% si sposta abitualmente a piedi; e ancora
meno (il 4%) in bici. Eppure, rispetto ai paesi
del Nord Europa, qui sarebbe ancora più facile,
se non altro per ragioni climatiche, anche se più
rischioso (ma qui si aprirebbe un altro discorso
sulla lungimiranza di chi ci governa). Fatto sta
che a salire sui bus sono le donne, gli studenti,
i pensionati e gli immigrati. Insomma, tutti co-
loro che non hanno un’alternativa. Sui perché
in così pochi usiamo il mezzo pubblico è facile
capirlo: è un servizio poco affidabile, si parte
quasi sempre ma senza sapere quando si arri-
va. Rispetto a Germania, Francia, Regno Unito
e Spagna, da noi il servizio pubblico funziona
peggio e costa di più. Abbiamo aziende troppe
piccole; un’ampia offerta rispetto ai pochi pas-
seggeri; una bassa produttività; lenta velocità
commerciale e alti costi operativi: 3,3 euro al
km. Mentre nel Regno Unito siamo ad un mo-
desto 1,8 euro/km e in Germania ai 2,8 euro.
Mediamente dalle nostre parti il servizio costa
il 16% in più. Da noi i ricavi coprono appena
il 30%, in Francia il 46%, in Spagna il 58% e
il 64% nel Regno Unito, per non parlare della
Germania dove si passa l’80%. Evidenti le con-
seguenze: per far viaggiare i bus le nostre casse
pubbliche devono sborsare 2,4 euro a km, ai
transalpini bastano 2,2 euro, agli spagnoli 1,7
euro, i tedeschi se la cavano con un modesto 0,9
euro/km, mentre nel Regno Unito i ricavi da
traffico coprono il 99% dei costi.
I toscani, interrogati da Ipsos, si dimostrano,
ancora una volta, gente di buon senso. E oltre
alle critiche - negli ultimi 2 anni, dicono, il
servizio è peggiorato – avanzano anche precise
proposte: migliorare la frequenza e soprattut-
to la puntualità, chiedono più informazioni e
con più tempestività (troppo lunghe le attese
alle fermate); un maggiore impegno nel con-
trasto l’evasione dei tanti che viaggiano senza
pagare. E, soprattutto, consigliano a gestori e
amministratori di farsi un giro in Europa per
imparare dalle migliori pratiche come gestire
in modo più efficiente questo servizio. Anche
perché, come abbiamo capito se funzionasse
meglio saremmo tutti più contenti. Facile a
dirsi, più difficile a farsi. Ma copiando forse si
può.
di Remo Fattorini
Il massag-giatoredi Jashin
I numeri del nuovo stadio3.111 giorni dalla presentazione al Four Season
il 17 settembre 2008;
3 sindaci;
2 plastici;
100 i giorni che servivano a Renzi per indivi-
duare l’area;
1 finale di Coppa Italia;
1 Patronno;
1 goal di El Tanque Silva su 12 presenze;
420.000.000 milioni di euro da trovare per
farlo;
5 allenatori;
1 i ricorsi al TAR presentati da Unipol Sai;
0 terzini destri comprati.
825 MARZO 2017
La Poesia Visiva saluta un altro grande pezzo
della sua storia: Mirella Bentivoglio si è spen-
ta all’età di 94 anni dopo una pluridecennale
attività di poetessa visiva e concreta, di critica,
di curatrice e di scrittrice, lasciando un segno
marcato nell’estetica contemporanea al femmi-
nile. Un’artista che ha saputo dominare l’opera
d’arte e la scena artistica con una profondità
intellettuale capace di travalicare i normali
modi di intendere la speculazione, riuscendo
a cogliere il presente nella propria intimità e
portando il fruitore a leggere la personalità
artistica al femminile come concretizzazione
di un percorso di ricerca specifico e lontano
da un Sistema dominato da dogmi e tautolo-
gie. Mirella Bentivoglio ha operato seguendo
i dettami dell’emancipazione e della trasgres-
sione, mettendo in risalto l’identità dell’artista.
Autrice, fin dalla prima giovinezza, di libri di
poesie in italiano e inglese a partire dal 1965 si
orientò verso una vivacissima sperimentazione
a metà strada fra il linguaggio verbale e l’im-
magine, legandosi ai movimenti poetico-visivi
delle neoavanguardie artistiche internaziona-
li, divenendone una protagonista indiscussa.
Dalle prime prove di Poesia Concreta ottenute
con l’uso del collage e delle tecniche grafiche,
passò alla Poesia Visiva e alla Scrittura Visuale
con fotomontaggi verbalizzati. Fin dagli anni
Sessanta elaborò una personale forma di poe-
sia-oggetto e, dagli anni Settanta, sperimentò la
performance, la poesia-azione e la poesia-envi-
ronment. Frequenti furono anche i suoi inter-
venti sul territorio, sempre di matrice linguisti-
ca, con grandi strutture simboliche inserite su
suolo pubblico, come l’Ovo di Gubbio, l’Albero
Capovolto, il Libro-campo. Nelle sue opere si
esprime il profondo interesse per le potenzia-
lità espressive del linguaggio e della scrittura,
tese allo svelamento di un codice che ritorna
a una purezza primigenia, a un senso primo
di esistenza e fondamento di ogni semantica,
ponendo il problema di alterare e moltiplica-
re i significati contemporanei, trasgredendo la
norma e mettendo in evidenza il netto divario
esistente fra significato e significante visuale,
ossia l’anello che non tiene fra due elementi
costruttivi che necessitano di una rivalutazio-
ne e di una lettura nuova e inedita. In tal senso
la poesia concreta le ha permesso di valoriz-
zare gli aspetti visivi della scrittura. Quella di
Mirella Bentivoglio è stata una vera e propria
celebrazione della cultura in senso antropolo-
gico, poiché pose al centro di tutto l’identità
del quotidiano con una prassi estetica decisiva
e dotata di una sensibilità unica.
di Laura Monaldi
AddioMirellaBentivoglio
Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
Poesie-oggetto
925 MARZO 2017
sman fiammingo Jan Willem Roy. Il succes-
sivo Alter (Fama, 2013) è prodotto da Javier
Limón, esponente autorevole del flamenco.
Artista sensibile e completa, Nynke si è dimo-
strata anche capace di spaziare altrove: per re-
alizzare Nomade (Fama, 2009) ha trascorso un
Il fado è una musica fatta di sentimenti intensi:
amore, passione, nostalgia. Le sue origini risal-
gono alla prima metà dell’Ottocento: secondo
alcuni sarebbe nato in Portogallo, secondo altri
in Brasile, ma comunque è strettamente legato
alla cultura lusofona. La voce è accompagna-
ta dalla guitarra portuguesa, che ha sei corde
doppie metalliche, e dalla viola do fado, una
chitarra classica che cura gli intrecci melodici
e ritmici.
Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo
scorso il fado ha guadagnato rilievo mondiale
grazie al talento di Amalia Rodrigues (1920-
1999), che rimane l’interprete più famosa.
Egemonizzato dalle figure femminili, il fado
viene oggi proposto da molte cantanti. Lo
documenta la bella antologia New Queens of
Fado (ARC, 2012), che propone brani eseguiti
da Mafalda Arnauth, Katia Guerreiro, Mariza
e altri. In tempi recenti questa forma espressi-
va ha attratto e ispirato anche numerosi musi-
cisti estranei alla cultura portoghese.
Pensiamo al chitarrista Marco Poeta, apprez-
zato anche dagli esperti più esigenti; al gruppo
Stockholm Lisboa Project, fondato da musici-
sti portoghesi e svedesi; a Natalia Juskiewicz,
violinista classica polacca, che ha registrato
l’insolito CD Um violino no fado (AIS, 2012).
Un caso particolare è quello di Nynke Laver-
man. La giovane cantante appartiene alla mi-
noranza frisone, stanziata nell’estremo nord dei
Paesi Bassi. Nata nel 1989 a Weidum, Nynke
compie gli studi a Leeuwarden. Il suo interesse
per la musica si manifesta molto presto. Dopo
aver vinto un premio regionale si trasferisce
ad Amsterdam, dove frequenta la Scuola di
arte drammatica. Dopo varie esperienze nei
media locali e nazionali pubblica il primo CD,
Sielesâlt (Fama, 2004). Il disco mette in luce il
suo interesse per il fado e per il flamenco, che
Nynke personalizza con testi in frisone: una
combinazione inedita e stimolante.
L’amore per il mondo latino viene confermato
negli anni successivi. In De Maisfrou (Fama,
2006) si apprezza il bandoneon di Walter
Hidalgo. Fado Blue (Rounder Europe, 2006)
è il frutto della collaborazione con Fernando
Lameirinhas, chitarrista portoghese, e col blue-
di Alessandro Michelucci
Nynke, frisone e latina
mese insieme a una famiglia di nomadi mongo-
li. L’influenza di questa cultura lontana è do-
cumentato dall’uso di strumenti a corda come
il doshpuluur e la yatga.
Ancora diverso è Wachter (Fama, 2016), il suo
lavoro più recente.
Qui l’ispirazione latina è sostituita da una mu-
sica più essenziale e più ritmata, ma non per
questo semplice né orecchiabile.
La strumentazione è scarna: affiancano l’artista
il marito Sytze Pruiksma, polistrumentista già
presente nei suoi lavori precedenti, e la violon-
cellista Geneviève Verhage. In «Jefte» la voce
si fonde con un ritmo incalzante, mentre nella
delicata «Ald mei dy» si apprezza il violoncel-
lo. Il testo di «Moarn», brano dissonante, è di
Tsjêbbe Hettinga (1949-2013), un importante
poeta frisone che aveva un forte interesse per
la musica. Hettinga era già comparso in Alter
poco tempo prima di morire.
L’elegante confezione in digipak, arricchita da
alcune foto, contiene i testi in frisone con tra-
duzione inglese a fronte. Questo permette di
notare le inattese somiglianze fra le due lingue.
A questo proposito, un chiarimento necessario.
Forse qualcuno si chiederà che senso abbia
cantare in una lingua che nessuno conosce al
di fuori del luogo di origine. Ma gli islandesi Si-
gur Rós sono diventati famosi in tutto il mondo
usando addirittura una lingua inventata; Ami-
ra Medunjanin (vedi n. 193) canta in bosniaco;
i Tinariwen cantano in tamashek, la lingua dei
Tuareg. Fortunatamente l’anglocentrismo non
ha contagiato tutto il pianeta.
MusicaMaestro
disegno di Massimo CavezzaliSCavezzacollo
1025 MARZO 2017
Hanno visto un animale alle porte di
Roma: un grosso felino, dicono, una pante-
ra. È stata avvistata da una dozzina di per-
sone in zone diverse della periferia. È scat-
tato l’allarme, hanno organizzato squadre
per trovarla. Non ci sono dichiarazioni
ufficiali, ma nemmeno smentite. C’è chi
minimizza, si dice già che sia una leggenda
urbana, non ci può essere una pantera alle
porte di Roma. Chi dice invece che c’è ec-
come, e la spiegazione sarebbe semplice:
scappata da uno zoo o da un circo, o forse
importata dai contrabbandieri per lo sfizio
di un miliardario eccentrico. In ogni caso
la pantera è stata avvistata, anzi il grosso
felino, anzi l’oscuro animale – perché, a
pensarci bene, ufficialmente nessuno ha
parlato di pantera, anche se questa è la
voce che circola – ma si sa come funziona-
no le voci, uno dice criceto e dopo mezz’o-
ra è un varano. Quel che è certo è che si
aggira di notte, ed è dello stesso colore
della notte, ed è silenzioso, ha passo felpa-
to, andatura elegante e sensuale; si tiene
alla larga dagli umani, però gira intorno
alle loro abitazioni e forse sta stringendo
un cerchio intorno a qualcosa. Forse ha
un pensiero, una strategia, dettata maga-
ri dalla fame; certamente dalla necessità
di divorare, distruggere, scardinare tutto
ciò che è stato edificato fin dalla notte dei
tempi, perché questa è la sua prerogativa
– perché sarebbe comparsa proprio nella
Città Eterna altrimenti? Sta battendo le
periferie di soppiatto, senza dare nell’oc-
chio, forse cercando un accesso invisibile
al cuore della città, per attentare selvag-
giamente al cuore della civiltà, per fare
una strage a colpi di artigli e di fauci in
pieno centro storico, sotto lo sguardo dei
turisti e dei bambini, dei finti centurioni,
all’ombra del Colosseo o in piazza Navo-
na, accanto alla fontana del Bernini – non
ci sarà artiglieria che tenga, né esercito né
carabinieri.
Un bambino che giocava a calcio accanto
alla sua baracca, nell’estrema propaggine
della città – dove nessun catasto ha mai
registrato il proliferare della miseria e dei
suoi moduli abitativi – all’ora del tramonto
ha visto la pantera a pochi metri da lui. È
sbucata all’improvviso, silenziosa e deci-
sa, da dietro un cumulo di rifiuti. Hanno
tenuto gli occhi negli occhi, il bambino e
l’animale, per lunghissimi istanti; il respi-
ro bloccato in mezzo alla gola, mentre la
palla rotolava lungo il pendio e si perdeva
nel fossato. Il bambino così immobile da
non riuscire neanche a pensare; la bestia
ferma allo stesso modo, il muso all’altezza
del suolo, lo sguardo protervo e scuro.
Dopo un tempo infinito gli sguardi sono
riemersi l’uno dalle profondità dell’altro.
Il bambino e l’animale hanno fatto un pas-
so indietro nello stesso istante. La pantera
lentamente s’è voltata. Il bambino è rima-
sto immobile a guardare il suo manto vio-
laceo che si allontanava piano.
Poi soltanto la notte è restata. E ancora è
lì che la guarda, quella notte, il bambino,
con gli occhi sgranati
di Carlo Cuppini
Alle portedi Roma
Il mondosenzagli atomiillustrazioni di Aldo Frangioni
Foto diPasqualeComegna
Il sole basso all’orizzonte
1125 MARZO 2017
del secondo tipo, che potrebbero sconfiggere
alcune malattie genetiche; certo ci sono rischi,
ad oggi, poco ponderabili; appunto per questo
sembra giusto parlarne perché è nel dialogo e
non nella censura che la specie umana evolve.
Interessante può essere anche l’applicazione sui
vegetali, dato che la mutazione genetica si pone
in questo caso, a differenza che per gli OGM
come semplice correzione e non come intro-
duzione di altre sequenze estranee di DNA e
poi perché si può operare sull’antagonista, sui
parassiti, come per esempio sulla zanzara por-
tatrice della malaria, modificandone appunto
questa caratteristica. Comunque l’intelligenza
umana e anche quella dei batteri, ad onore del
vero, ci sorprende felicemente in queste scoper-
te e certo non c’è niente di male se le migliori
«teste» si dedicano alla scienza in modo fecon-
do, però ce ne sarebbe bisogno almeno un po’ di
più anche sulla scena politica attuale.
Ripensando alla pessima campagna della mini-
stra Lorenzin a favore dell’ampliamento delle
nascite e alla constatazione statistica del forte
calo della fertilità maschile per diverse cause,
tra le quali spicca l’inquinamento, viene da
pensare che una fondamentale promozione
delle nascite, oltre all’eliminazione dei fattori
socioeconomici che ostacolano la procreazione,
sarebbe la messa in opera di un grande, profon-
do risanamento ambientale.
Insomma, si sente la necessità di un’intelligenza
politica all’altezza dell’attuale capacità di ricer-
ca e scoperta scientifica. Solo come auspicio, per
il bene comune.
Geneticae dintorni
Si chiama Crispr/CAS anche se il nome inte-
ro sarebbe molto più impegnativo (Clustered
Interspaced Short Palindromic Repeats) ed è
un sistema mirato e a basso costo finalizzato a
correggere il DNA; se ne contendono la mater-
nità due scienziate Jennifer Doudma, docente
di biochimica all’Università di Berkeley ed
Emmanuel Charpentier, che hanno pubblica-
to uno studio su Science nel 2012 e il giovane
ricercatore americano di origine cinese, legato
ad Harvard, Feng Zhang, anche se è doveroso
ricordare che già alcuni anni prima Daniel An-
derson, ingegnere chimico al MIT era riuscito
a correggere un gene difettoso nel fegato di un
topo adulto con questo sistema ed altri prima di
lui avevano individuato nei batteri analoga ca-
pacità di intervento sul DNA.
Si parla di questo metodo come di una forma di
editing genetico, ovvero di un sistema, basato
su enzimi che opera sul DNA come un effica-
ce correttore di bozze che va a ricercare in ogni
parola scritta l’errore individuato, lo elimina e
ripristina la forma corretta in modo semplice e
mirato. Con questo sistema potranno con ogni
probabilità essere combattute in un prossimo
futuro malattie come la distrofia muscolare,
forme tumorali, malattie genetiche come la be-
ta-talassemia, oltre a facilitare la possibilità di
trapianto di organi da animali.
È curioso che il sistema sia ispirato a quanto
già naturalmente riescono a fare alcuni batte-
ri ovvero, integrare, ad ogni attacco di virus,
frammenti del DNA del nemico in modo da
rendersi immuni successivamente; un sapiente
metodo di taglia, copia e incolla che migliora
sensibilmente le possibilità di sopravvivenza.
Tra i batteri capaci di tanta raffinatezza vi è
anche quell’Escherichia Coli che vive nell’in-
testino di diversi animali e dell’uomo, il quale
ne espelle notevoli quantità con le feci; proprio
vero quel che diceva Fabrizio De André «dai
diamanti non nasce niente, dal letame nascono i
fior» e anche molto di più.
È giusto ricordare che Crispr, che potrà arriva-
re ad essere utilizzato dalla medicina di base
probabilmente tra almeno una decina d’anni, è
utilizzabile sia per la prevenzione e cura delle
malattie su un singolo individuo e fino a qui non
ci si imbatte in particolari problematiche bioeti-
che, sia su embrioni fecondati e qui si apre in-
vece un terreno di difficoltà oggettive perché in
questo caso la correzione delle bozze va a finire
nell’evoluzione della specie senza che si sappia
con precisione quali possano essere tutte le rica-
dute e conseguenze. Si sa che in Cina e in Gran
Bretagna sono in atto sperimentazioni anche
di Mariangela Arnavas
Una selezione di quadri databili dal 1940 fino
ai primi anni novanta di Vinicio Berti è espo-
sta, fino al 7 aprile, alla Gallerie Zetaeffe (via
Maggio 47/r Firenze) La mostra rende omaggio
ad un grande artista e alla memoria della sua
compagna Liberia Pini, di cui sarà presente un
dipinto a testimonianza della sua figura umana
e professionale e della sua presenza, che in vita
ha da sempre sostenuto e tutelato il lavoro del
grande artista fiorentino.
Vinicio Berti dal realismo di guerra all’astrattismo classico
1225 MARZO 2017
nato a Colle ed aveva mantenuto un forte
legame con questa città e le persone che vi
conosceva, queste, a loro volta, lo ripagava-
no con altrettanto calore e grande stima.
Contini lo definì «il più grande narratore
orale»: amava accogliere, discutere con la
sua bella voce tonante e la sua ecceziona-
le arte affabulatoria, sentirsi circondato da
presenze ed affetti. L’altra nipote di Maria
ricorda come Romano avesse la capacità di
farti sentire al centro dell’attenzione, anche
se poi era sempre lui a parlare. Le due stan-
ze in angolo che espongono una parte dei
suoi tanti libri e tutti i quadri mantengono
il fascino dell’appartenenza, dell’essere stati
amati e «vissuti», essere stati scelti, sistema-
ti, sfogliati, anche un pò affumicati ed in-
trisi della nicotina delle tante sigarette che
Bilenchi fumava. In alcuni scaffali davanti
ai libri sono sistemati dei piccoli quadretti,
proprio, forse, come nella casa di via Bru-
netto Latini 11, a Firenze, in alto un ritrat-
to di Maria, opera di Grazzini, in mezzo a
due del marito, uno di Chiti, uno di Rosai.
Concludo con Platone «l’anima si cura con
certi incantesimi, e questi incantesimi sono
i discorsi belli», chi meglio dei nostri grandi
scrittori?
Dopo 20 anni di restauri apre il Museo di
San Pietro a Colle Val d’Elsa, ingloba Mu-
seo Civico e Diocesano, Collezione del
Conservatorio di S. Pietro e del Monastero
di S. Caterina e Maddalena, Biblioteca e
raccolta d’arte di Romano Bilenchi, di cui
parlerò, e quella dell’artista Walter Fusi.
Duemila metri quadri e più di duecento
opere raccontano la storia di questo bel pae-
se e della sua gente, dai Longobardi al Nove-
cento. Folla ovunque, un evento importante
evidentemente, fierezza e soddisfatta emo-
zione delle varie persone che vi hanno de-
dicato impegno e passione superando i tanti
momenti di scoraggiamento, inevitabili in
un lungo percorso. I ringraziamenti hanno
troppo poco sottolineato la generosità della
signora Maria Ferrara, rappresentata da due
nipoti presenti, che ha donato al Comune la
imponente Biblioteca del marito, Romano
Bilenchi, grande scrittore ed uomo dal po-
tente fascino dialettico, con manoscritti ed
epistolari, nonchè l’importante insieme di
disegni e quadri, frutto, come sottolinea una
delle nipoti della signora, non di passione
di collezionista ma dell’affetto costante e
sollecito dei suoi amici più cari che gliene
facevano dono, per l’appunto artisti del ca-
libro di Rosai, Maccari, Venturino Venturi,
Caponi, Chiti Batelli, Capocchini, Marcuc-
ci, Manfredi, Moses Levy. Oltre il valore e
la bellezza di questi lavori è bella la storia
che essi narrano, una storia di intellettuali
ricchi di vitalissime emozioni e pensieri, di
parole dette, scritte e raffigurate, di scambi
epistolari, di incontri, discussioni e, a volte,
sanguigni ed originali dibattiti. Oltre che
con gli amici pittori Bilenchi aveva stretti
e calorosamente vivi rapporti con gli amici
scrittori, primo fra tutti Vittorini. I volti e le
gesta sue e di questi amici famosi e di altri
meno noti, ma non meno importanti per lui,
sono narrati in uno dei suoi libri, «Amici»,
in esso il mondo intellettuale della Firenze
degli anni ‘30 con il fiorire di riviste lette-
rarie che entreranno nella Storia e, grazie
al racconto delle sue personali vicissitudini
di vita e politiche, il periodo storico in cui
avvengono. La professoressa Claudia Cor-
ti, presidentessa della Associazione «Amici
di Romano Bilenchi», mi dice che la parola
Amici nel loro nome vuole proprio sottoli-
neare come l’amicizia sia stata parola chiave
della vita e dell’opera di Bilenchi. Dice an-
che che la scelta di Maria Ferrara di donare
il tutto a Colle Val D’Elsa è stata, oltre che
generosa, molto intelligente, Romano era
di Cristina Pucci
Uno spazioper Bilenchi
Romano Bilenchi e Maria Ferrara
Ritratto di Romano Bilenchi di Mino Maccari
1325 MARZO 2017
line teramane. Avevo allora otto dieci anni
e la mia prima macchina fotografica era una
scatolina di plastica che quando scattava fa-
ceva «ssdang» come una trappola per topi.
Seguivo mio padre e desideravo sorpren-
derlo .Guardavo dove guardava lui, ma cer-
cavo anche altrove e ricordo che passando
sotto un maestoso cipresso mi misi sotto di
esso e alzai il naso all’insù. Ecco non avevo
mai visto un albero da quell’angolazione e
mi piaceva, mi piacevano quei rami a rag-
giera. Feci la foto, la mia foto . Da allora è
andata così tra padre e figlio, un percorso
parallelo ma autonomo. Se in Piero è la ri-
cerca di una tessuta armonia di cielo e terra,
Pasquale cerca la geometria che il paesag-
gio nasconde e rivela. Una linea, una o più
linee continue, rette o curve, comunque
nette, chiaramente catalizzatrici di armo-
nia, di bellezza. Geometria come misura
della terra ma anche della terra scrittura,
linguaggio arcano. E ancora dalla campa-
gna spostandosi alla città la geometria delle
ombre , l’incastro dei muri, l’astrattismo di
certe architetture viste da troppo lontano
o troppo vicino, le linee urbane,le rughe di
un vecchio o le pieghe di un infante. Per
entrambi, in modo diverso, ciò che conta è
l’autenticità dell’esperienza, la verità dell’e-
mozione. «Una foto –è sempre Pasquale a
parlare- è uno scatto di ciò che è visibile,
ma se ci si è posti in ascolto, se l’alchimia
tra ciò che si è ed il resto è buona, allora si
può riuscire a ritrarre ciò che non è visibile
eppure è».
Di Piero e Pasquale Angelini si ricordano i
molti contributi alla più importanti riviste
fotografiche e di viaggi come Touring club
e National Geografic Magazine, Airone,
Bell’Europa, Bell’Italia. Mostre tematiche
sono state ospitate a Berlino,Milano,Firen-
ze,Roma. Molti i libri fotografici di grande
formato come «Stupore Marche»,«Stupore
Abruzzo», «Gran Sasso,emozioni e immagi-
ni».
«La bellezza sta negli occhi di chi guarda»
sono le parole di Goethe che ti tornano in
mente mentre ammiri le immagini scattate
da Piero e Pasquale Angelini raccolte nel
volume» Stupore Abruzzo» che fa seguito
alla mostra esposta prima a Pescara e poi a
Teramo. Piero e Pasquale Angelini , padre
e figlio entrambi fotografi, entrambi giun-
ti alla fotografia per coincidenze affettive
come accade spesso nelle scelte più fortu-
nate e devote. Piero racconta che le prime
foto a destare il suo interesse erano state le
immagini in un bianco e nero sfocato dal
tempo scattate durante il viaggio di nozze
dei suoi genitori intorno agli anni trenta.
Foto maldestre che però tramandavano di
quel tempo attimi di giovane felicità. Dopo
per Piero seguirono le prime esperienze con
macchinette di poco conto fino a al prestito
di una prestigiosa Rolleicord con la quale
cominciò a provarsi in un linguaggio più
professionale discutendo di termini tecnici
come diaframmi, profondità di campo, ve-
locità di otturazione … Ma assai più dell’ac-
quisizione di una complessa formazione
tecnica seppure tutta autodidatta in Piero
ha contato una svolta sentimentale, l’inna-
moramento per un luogo, un’emozione, uno
stupore appunto . L’incontro con la maesto-
sa bellezza della grande montagna, il Gran
Sasso che domina con il suo alto profilo la
campagna teramana. Erano gli anni Sessan-
ta, gli anni del suo trasferimento dalla natia
Ascoli a Teramo per motivi di lavoro e Pie-
ro ricorda ancora con emozione come già la
prima mattina nella nuova città, la monta-
gna gli apparve in tutto il suo nitido splen-
dore Da allora divenne naturale da solo o
con amici, come lui cacciatori di immagini,
percorrere sentieri solitari, inoltrarsi nel
boschi, arrampicarsi per balze scoscese per
fermare in uno scatto quello che vedeva ma
forse sarebbe meglio dire quello che sapeva
vedere,intuire,afferrare. Verdi sinuose colli-
ne, casolari abbandonati, solitarie abbazie,
abbacinanti nevai, acque limpide e dovun-
que silenzi. E dovunque questo senso che
solo qui c’è di un paesaggio che corre, corre
dalla montagna alta verso il mare che quan-
do appare è sempre fotografato da lontano
come un miraggio
Ugualmente «romantico» il percorso del
figlio Pasquale, l’ammirazione emulazione
per il padre e il sentimento precoce della
bellezza. «I miei primi ricordi – racconta -
risalgono alle passeggiate di domenica mat-
tina con mio padre lungo i crinali delle col-
di Rita Albera
Stupore Abruzzo
Foto di Pasquale Angelini
Foto di Piero Angelini
1425 MARZO 2017
Macronil candidato senza partito
Ammesso che si possa ancora credere ai
sondaggi, per la prima volta il candidato
«indipendente» Macron appare in testa
alle rilevazioni statistiche e dunque favori-
to per l’Eliseo alle Presidenziali francesi di
quest’anno.
Ammettiamo dunque che i sondaggisti, per
questa volta, abbiano il polso di qualcosa di
più di un ristretto campione statistico in-
vecchiato e infedele, e ci azzecchino. Come
potrebbero andare le cose? Macron potreb-
be affrontare il doppio turno contro la Le
Pen, e complice la chiamata delle forze re-
pubblicane contro il populismo potrebbe
vincere. Non certo con le percentuali di
Chirac contro il vecchio Le Pen nel 2002
Ma comunque vincere e diventare presi-
dente della Repubblica. Cosa accadrebbe
però dopo?
Qui viene il bello, in Francia infatti la ri-
forma del 2002, ha, di fatto, impedito la
coabitazione tra presidente di un segno
politico ed esecutivo di un altro, facendo
coincidere il tempo della presidenza con
quello del parlamento. Le elezioni politiche
quindi seguiranno di pochi mesi l’elezione
di Macron all’Eliseo. Macron però non ha
un partito. Il suo vecchio partito, i socialisti,
lo considerano (lo hanno sempre conside-
rato) un corpo estraneo, non troppo a torto.
In Inghilterra starebbe tra i Liberali proba-
bilmente, in Francia, dove i liberali sono
rari quasi quanto da noi, sta in un limbo.
Ecco questo limbo quanti deputati avrà?
Ci potremmo quindi trovare nel caso di un
presidente votato proprio perché senza un
partito che avrà una difficoltà enorme a go-
vernare proprio perché senza un partito.
Va infatti ricordato che il modello elettorale
francese prevedendo il doppio turno di col-
legio, favorisce proprio i grossi raggruppa-
menti politici, i partiti organizzati. Dunque
Macron rischia, proprio per la natura della
sua candidatura, di essere un presidente
zoppo. Un argine immediato per il populi-
smo, un alleato di questi ultimi nel medio
lungo periodo. Cosa farebbe infatti un elet-
torato deluso prima dai conservatori, poi
dai socialisti ed infine dall’indipendente?
Per questo su queste colonne mesi fa ripor-
tammo un testo ed un dibattito tutto fran-
cese sul ritorno al proporzionale. Non tanto
per una passione per un sistema elettorale
rispetto ad un altro, ma per la necessità di
affrontare davvero il tema della rappresen-
tanza, dei corpi intermedi, dei partiti poli-
tici. La politica carismatica, il leaderismo,
l’uomo solo al comando hanno rappresen-
tato in questi anni la risposta che destra e
sinistra tradizionali hanno dato alla perdi-
ta di peso dei soggetti collettivi, alla man-
canza di ragionamento comune, di idee, di
modelli. Una risposta che ha determinato,
inevitabilmente, una reazione delle masse
che hanno esasperato il concetto affidan-
dosi sempre più a capopopoli, demagoghi e
reazionari fascistoidi.
Il problema non è soltanto europeo. Le ul-
time elezioni statunitensi hanno mostrato
come il limite maggiore di Obama sia stata
la non costruzione di una successione. Pre-
sentarsi 8 anni dopo con la candidata che
aveva perso le primarie proprio contro Oba-
ma, che in sovrappiù era anche la first lady
di un presidente dei primi anni ’90, non è
apparso all’elettorato USA un segnale di
forza. Il fatto che il suo principale sfidante,
all’interno dei Democratici, fosse un arzillo
settantenne non migliora le cose. Tanto che
oggi si fatica anche solo ad intravedere uno
o una sfidante a Trump.
La mancanza di una classe dirigente, di
un partito sono un limite che il consenso
personale, la legittimazione dal voto popo-
lare (episodico) non bastano a supplire. Si
possono vincere le elezioni con percentua-
li importanti ma senza un’azione politica
conseguente e radicata a quelle successive
si perde e si perde, molto spesso, a favore
delle forze populiste.
Il rischio, per tornare a Macron, appare
evidentissimo e una campagna elettorale
impostata, gioco forza, tutta contro l’establi-
shment non renderà semplice dover gover-
nare con l’appoggio di quei partiti, in par-
ticolare i socialisti, di cui oggi ci si è posti
come superatori.
Senza quindi rimpiangere i tempi in cui era
meglio avere torto col partito che ragione da
soli, anche il caso francese imporrebbe una
riflessione e una ricerca non tanto del lea-
der carismatico, ma di quel soggetto colletti-
vo, di quella casa comune, di quel moderno
principe (in tempi in cui tutti dicono di tor-
nare a Gramsci), che seppur non fine in sé,
non sia soltanto un mezzo per raggiungere
il potere.
di Michele Morrocchi
1525 MARZO 2017
cepiti come un insieme di stimoli che creano
l’effetto (illusorio) di essere di fronte all’oggetto,
ancora prima di essere percepiti come segno di
qualcos’altro. Le ipoicone rappresentano una
buona approssimazione della realtà, e perfi-
no dei miracoli di realismo, ma la loro natura
rimarrà sempre illusoria. La pretesa perfetta
somiglianza fra le «immagini fotografiche» e le
«immagini della realtà» impedisce di estrarre
significati propri dalle prime, perché si tratte-
rebbe della semplice «ripetizione» dei signi-
ficati già presenti nelle seconde. Le immagini
fotografiche non sarebbero quindi in grado di
costituirsi come «linguaggio» e di veicolare si-
gnificati propri, mentre ad esempio il cinema
si costituisce come linguaggio, ma ciò diventa
possibile solo grazie al montaggio ed alla acqui-
sizione di altri linguaggi come il sonoro. Nella
sua «Critica dell’Immagine» o dell’iconismo,
Eco individua ben dieci diversi «codici» relati-
vi alle immagini (percettivi, di ricognizione, di
trasmissione, tonali, retorici, stilistici, di gusto e
sensibilità, e perfino dell’inconscio, compresi i
«codici iconici» ed i «codici iconografici»). Ma
le immagini fotografiche sembrano non avere
accesso a tali codici. In uno dei suoi ultimi in-
terventi Eco conferma ancora una volta che, se-
condo lui, l’immagine fotografica non è affatto
«una forma di segno». Essa non è altro che ma-
teria di espressione, come la voce, con la quale
si possono costruire oggetti semiotici come le
parole. La voce (come la fotografia) non è una
categoria di segni, ma una materia che produce
sostanze e forme diverse. Anche Umberto Eco
(come Roland Barthes) rinuncia a porsi dalla
parte di chi produce le immagini fotografiche,
citando una sua disastrosa esperienza compiuta
all’inizio degli anni Sessanta, quando, alla fine
di un viaggio, dopo avere scattato numerose fo-
tografie, riuscite male, si rese conto di non avere
osservato e memorizzato praticamente niente,
concludendo «Ero troppo occupato a fotografa-
re e non ho guardato».
Naturalmente, in tutti i casi, si tratta esclusi-
vamente di convinzioni personali, non ancora
dimostrate.
Il segno e la fotografiaDal punto di vista della semantica l’oggetto
«fotografia» ha sempre costituito un dilem-
ma, fino dalla nascita della semantica stessa.
Charles Sanders Peirce (1839-1914) nasce,
per una strana coincidenza, nello stesso anno
in cui viene divulgata la scoperta di Daguerre,
e non ha dubbi sul fatto che le fotografie siano
da considerare dei «segni». Talvolta le chiama
«indici», considerandole una «traccia» degli og-
getti, ma conviene che funzionano altrettanto
bene come «icone» avendo con l’oggetto una
notevole «somiglianza», e che funzionano bene
perfino come «simboli». Tuttavia finisce per
incasellarle come «Sinsegni Indexicali Dicise-
gni», in quanto forniscono informazioni fattuali
circa ciò che raffigurano, anche se premette che
è sempre difficile incasellare un segno in ma-
niera definitiva.
Secondo Roland Barthes (1915-1980) invece
«La fotografia è un messaggio senza codice, poi-
ché anche se è vero che nel passaggio dall’ogget-
to all’immagine vi è una riduzione, di propor-
zione, di prospettiva e di colore, tuttavia questa
riduzione non è mai una trasformazione, ed i
segni che costuitiscono l’immagine fotografica
non differiscono sostanzialmente dall’oggetto
che essi offrono in lettura. Per questo fra l’og-
getto e la sua immagine fotografica non è affat-
to necessario disporre un collegamento, cioè un
codice.» Essendo le fotografie dei segni senza
codice, si tratterebbe quindi di falsi segni, ai
quali l’emittente (il fotografo) assegna un signi-
ficato, mentre il destinatario (l’osservatore) può
assegnare loro un significato diverso. E questo,
se vogliamo, non è un problema circoscritto alla
sola fotografia, ma a tutto il sistema della «co-
municazione» di tipo «artistico».
Umberto Eco (1932-2016) nega alle fotografie
lo statuto di «segni» considerando le immagini
fotografiche come dei segni-traccia che man-
tengono con il proprio oggetto un rapporto par-
ticolare, simile al rapporto di causa ed effetto.
Le immagini fotografiche essendo dei segni né
arbitrari né pienamente convenzionali, sareb-
bero da escludere dalla cerchia dei fenomeni
semiosici, collocandoli al confine fra il campo
semiotico e quello extra semiotico, a metà fra
segno e non segno. La modalità di approccio
alle immagini fotografiche avviene per semiosi
di base, non considerandole come significan-
ti di un segno, ma percependole per stimoli
surrogati, non riconoscendovi l’espressione di
una funzione segnica. A livello di segni le im-
magini fotografiche vengono definite da Eco,
a parità dei quadri o delle immagini filmiche,
come delle «ipoicone», segni che si pongono
all’attenzione come segni, ma che vengono per-
di Danilo Cecchi
1625 MARZO 2017
che entrano nella casa del Profeta di rivol-
gersi alle sue donne solo da dietro una corti-
na (hijab) in modo da preservare la purezza
dei cuori. In questo caso, come in molti altri,
hijab indica una divisione spaziale. Riguar-
do all’abbigliamento femminile i termini im-
piegati sono in realtà molteplici: oltre hijab
ci sono anche il khimar e jilbab ovvero delle
sciarpe già usate nel periodo pre-islamico
dalle donne di elevato status sociale per di-
stinguersi dalle schiave. Solo al versetto 53
della sura 33 si descrive un modo adeguato
di mostrarsi in società: «[…] E dì alla creden-
ti che abbassino gli sguardi e custodiscano le
loro vergogne e non mostrino troppo le loro
parti belle (zina), eccetto quel che di fuori
appare, e si coprano i seni d’un velo (khu-
mur) e non mostrino le loro grazie femminili
(‘awra) altro che ai loro mariti, ai loro padri,
[…] e non battano assieme i piedi affinché si
sappia ciò che esse nascondono delle loro
grazie».
Guardando poi alle raccolte degli hadith (gli
insegnamenti del Profeta tramandati in sei
raccolte ufficiali) un solo episodio fa riferi-
mento al modo di vestire. Si parla in questo
caso dell’incidente di Asma, la figlia di Abu
Bakr (il primo successore di Maometto alla
guida dei fedeli musulmani), che si presentò
al cospetto di Maometto con degli abiti ec-
cessivamente trasparenti. Il Profeta, si rac-
conta, la riprese dicendole che per le donne
in età matura non era consono mostrare il
proprio corpo eccetto «questo e questo».
La questione del velo, come si capisce, non
si risolve nel chiedersi se portarlo o meno.
Gira intorno al modo in cui è opportuno
portarlo e allo stesso tempo quali parti del
corpo femminile sia consono coprire. La
distinzione dipende dal senso conferito ai
termini zina e ‘awra (talvolta tradotto con
«vergogne femminili» invece di «grazie») e a
quanto intendesse Maometto rivolgendosi a
Asma, se includesse o meno il viso e le mani.
Le quattro scuole giuridiche sono d’accor-
do sul fatto che l’abbigliamento femminile
debba coprire il corpo della donna dal capo
alle caviglie, però quella malikita e hanafita
escludono il viso e le mani, mentre quella
hanbalita e quella sha’afita, più conservatri-
ci, ve li includono.
Nel Medio Evo, probabilmente in reazione
alla prima crisi di identità dovuta alla caduta
di Baghdad, capitale dell’impero abbaside,
per mano dell’impero mongolo, il teologo
Ibn Taymiyya scrisse un’esegesi coranica
particolarmente radicale. In essa dava una
definizione molto stretta di zina e ‘awra tan-
to da imporre l’obbligo di coprirle. Le donne,
vestite di nero coperte da capo a piedi, dove-
vano quasi sparire dalla sfera sociale.
Nel tempo poi, questa visione medievale è
stata abbandonata, ma con l’espandersi della
religione in aree sempre nuove, sono stati in-
tegrati nella cultura islamica in espansione
nuovi tipi di velo, come per esempio il cha-
dor tipico delle regioni iraniche. Per cui ol-
tre al hijab, al khimar, oggi ne esistono molti
altri più o meno coprenti la cui funzione,
però, è la stessa.
Per tutti questi motivi è difficile ritenere il
velo solo come un simbolo, equiparato ad
altri afferenti alle dimensioni politiche o fi-
losofiche. La decisione della Corte sembra
dunque non risolvere ma creare nuovi con-
trasti tra la possibilità di affermare la propria
identità in un contesto di libertà di religione,
espressione e pensiero tipico di un sistema
valoriale aperto ed inclusivo. Ammesso che
l’Europa sia ancora aperta ed inclusiva.
Lo scorso 14 marzo la Corte Europea di Giu-
stizia ha pubblicato due sentenze per due
casi distinti, accomunati dall’imposizione
di una limitazione dell’uso del velo islamico
sul luogo di lavoro. Entrambe si inseriscono
in un contesto più ampio di parità di tratta-
mento in materia di occupazione lavorativa
e di neutralità del luogo di lavoro in riferi-
mento all’esposizione di qualsiasi simbolo
possa ricondurre ad un determinato credo,
inclinazione politica o filosofica. La Corte
giunge a tre differenti conclusioni: la prima
riguarda il fatto che un datore di lavoro pri-
vato possa accogliere la richiesta di un clien-
te di non essere servito da una dipendente
che indossa il velo senza incombere in un
trattamento differenziale. La seconda, inve-
ce, permette a un datore di lavoro privato di
vietare l’uso del velo alle proprie dipenden-
ti in virtù della presenza di norme interne
all’azienda che impediscono l’affissione dei
simboli; anche in questo caso non ci sarebbe
una discriminazione diretta. Infine, la terza
conclusione individua una discriminazione
indiretta qualora la norma richiedente la
neutralità sul lavoro metta in una posizione
di effettivo svantaggio alcuni dipendenti; il
giudizio in merito a questa eventuale discri-
minazione diretta, però, è rimesso alle Corti
nazionali.
Anche nel caso in cui si condivida la ratio
sottostante alle due sentenze, queste presen-
tano un problema in relazione alla definizio-
ne del velo islamico. Quest’ultimo è infatti
considerato un «segno» dalla Corte, un ac-
cessorio che si può dunque esporre o toglie-
re a piacimento, ma a ben guardare non è
questo il caso. Il velo non è un obbligo impo-
sto alle donne, dipende da una scelta libera
derivante dall’interpretazione dell’Islam a
cui si aderisce, è dunque parte integrante
delle fede. È una scelta libera laddove si
è liberi di scegliere, non è escluso, infatti,
che in determinate società, o in determina-
te epoche, il velo sia stato usato come uno
strumento di controllo delle donne o che sia
stato (sia ancora) interpretato, condizionato,
sottoposto ad esigenze di affermazione cul-
turale, politica e religiosa particolarmente
radicali e ristrette.
Il termine hijab (oggi usato per indicare tutti
i veli, ma che in realtà non è che un modo di
portarlo) deriva dalla radice hjb. Essa è pre-
sente circa sette volte nel Corano in contesti
che hanno poco a che vedere con l’abbiglia-
mento femminile. Ad esempio nel versetto
31 della sura 24 si suggerisce agli uomini
di Barbara Palla
Il velo è un simbolo religioso?
1725 MARZO 2017
provvise fioriture, dando adito ad una nuova
specie, poi addomesticata e da allora abituata
a condividere la vita dell’uomo all’interno
delle proprie abitazioni.
Sono sculture da compagnia e da viaggio, per
non dire da riporto, in quanto difficili da per-
dersi e con attitudine ha tornare, da tenere
a portata di mano per dargli una strizzatina
affettuosa, di tanto in tanto, con un sicuro
effetto rilassante. Stanno volentieri con i
propri simili formando, insieme, dei grandi
ciuffi variopinti, che mantengono un pizzi-
co di inquietudine ricordando, ancora, sia le
urticanti propaggini danzanti degli anemoni
di mare, sia la scarmigliata capigliatura della
mitologica Medusa.
Il NeoNato in questione è ricoperto di lana
naturale bleu nel corpo principale e bor-
deaux nelle protuberanze o tentacoli, con
le punte verdi azzurre. È una lana, quella
NeoNato
Questa scultura «morbida» appartiene al
mondo di Manuela Mancioppi, fatta di un
materiale conducibile, malleabile e plasma-
bile, indeterminato prima di assumere la
sua forma definitiva, diventa stabile seppure
comprimibile e palpeggiabile una volta fini-
ta.
Da questo momento pur partecipe dell’uni-
verso dal quale proviene, è pronta ad assu-
mere i ruoli che che le verranno assegnati, da
quello modesto di cuscino a quello nobile di
oggetto d’arte, passando per una destinazio-
ne intermedia di giocattolo d’affezione.
La Mancioppi è un’artista relazionale e le
sue opere contribuiscono ad unire le perso-
ne che vengono a contatto con la sua arte, sia
metaforicamente sia realmente, attraverso
una serie di azioni tese al superamento del
linguaggio convenzionale, servendosi di tat-
tilismo e di appartenenza, del desiderio di
abbattere il concetto di distanza minima di
sicurezza, accomunandoci in un reciproco
sentire affettivo.
Le sue sculture più grandi sono indossabili
da più persone contemporaneamente, che
accettando la vicinanza fisica si trasformano
in «tableau vivant» attraverso l’empaticità
degli attori. Empatico significa sentire den-
tro, con-sentire, condividere una sensazione
emozionale o entrarci in contatto.
In questo caso la scultura agisce come un
medium facendo riflettere sulla condizione
particolare e difficilmente descrivibile di
quando si prova una simpatia guardando un
opera d’arte.
Accettandone la vicinanza le persone com-
piono un passo verso la comprensione dell’al-
tro, si mettono letteralmente nei reciproci
panni.
Il NeoNato nasce dall’accoppiamento biz-
zarro di una numerosa famiglia di ibridi, gli
abitatori vegetali/animali del Giardino delle
Meraviglie, attraversando una serie di pas-
saggi e gestazioni dove la Mancioppi assume
il ruolo di Grande Madre.
Questi, trasmutando lentamente dalla flora
fantastica del Giardino della delizie di Je-
ronimus Bosch, combinandosi con le speci-
fiche famiglie di quella fauna marina a cui
appartengono le stelle marine, i pomodori
di mare e gli immobili coralli, manterranno
sempre un qualcosa dei segreti delle profon-
dità marine.
Con la mediazione della fantasia dell’arti-
sta, le metamorfosi e gli innesti continuano,
unendosi con la varietà inesauribile delle
piante grasse con le loro travolgenti e im-
di Claudio Cosma
servita alla sua realizzazione, di recupero,
proveniente da una fabbrica di filati dove
ha lavorato la mamma dell’artista, fatto che
ne amplifica l’affettività nel contesto dalla
sua ideazione. La componente di scarto e
di riuso ne determina in modo strutturale la
formazione, infatti essendo capi già confezio-
nati quelli utilizzati come materia prima, il
lavoro di creazione è composto da combina-
zioni cromatiche e di accostamento di parti
compatibili.
Si può fare una similitudine con la creatura
costruita da Frankenstein, assemblata anzi-
ché con frammenti anatomici, più innocen-
temente con parti di abbigliamento come
gonne, maniche, colli e avanzi di ogni tipo,
che oramai inutilizzabili come vestiti si tra-
sformano in oggetti non più destinati a scal-
dare il corpo, ma compiendo un passaggio in-
tellettuale, si dispongono a scaldare l’anima.
1825 MARZO 2017
Mi piove dal cielo un libro: autrice Elena Tem-
pestini, «Quaranta donne in lotta per la cultura
civile, Edizioni dell’Assemblea - Luglio 2016.
Lo leggo avidamente, con grande piacere ri-
trovo volti noti per lunga consuetudine come
Marie Curie, Maria Montessori, Madre Teresa
di Calcutta, Grazia Deledda, altri per profonda
stima e simpatia in sfumature diverse come Rita
Borsellino, Margherita Hack, Anna Magnani.
Con accorata ammirazione guardo a Bennazir
Bhutto e a Mafalda di Savoia per me accomuna-
te dal tragico destino e vicine nel libro.
Ed ecco apparire le altre. La geniale Gae Au-
lenti dal vasto sorriso, per me tutt’uno con l’af-
fascinante Musée d’Orsay a Parigi e Oriana
Fallaci, la nostra toscanaccia parlachiaro che
mi ha stregata col messaggio postumo del suo
struggente rude romanzo-biografia di famiglia
«Un cappello pieno di ciliegie».
Rita Levi Montalcini, l’ho sentita parlare, e
qui ne trovo un motto alla base della fiducia in
sé che la donna può e deve avere: «Il capitale
umano è equamente distribuito fra i due sessi.
Solo, alle donne non era concesso di utilizzare
il proprio.» Tutte le donne di tutti i continenti
qui presentate hanno lottato contro i mali del
mondo, oppressione, crudeltà, ingiustizia nei
vari contesti del loro destino, improntando la
vita a «rettitudine e trasparenza. Umiliate e
aggredite, deluse e calpestate nel fisico e nello
spirito, hanno lottato con sacrifici e coerenza».
La coerenza della birmana Auug San Suu Kvi
(1945) agli arresti domiciliari gran parte della
vita per l’opposizione alla dittatura militare del
suo paese, o di Rosa Parks la nera dall’appassio-
nato sorriso considerata la «madre dei diritti ci-
vili» in USA, perché, esausta dopo una giornata
di lavoro (1.12.1955) rifiutò di cedere il posto
in autobus a un bianco in piedi, fu arrestata e
sostenuta poi da 381 giorni di boicottaggio dei
mezzi di trasporto, finché (1956) la Corte Su-
prema dichiarò incostituzionale ogni forma di
discriminazione. O l’americana Jody Williams
(1950) che ha dedicato la vita al bando delle
mine antiuomo, «mostruosi ordigni nascosti
sotto sembianze di giocattoli». Premio Nobel
per la pace 1997 ha fondato con Shirin Eba-
di, la prima donna musulmana premio Nobel
per la pace 2003 la Nobel Women’s Initiative
«per mettere in pratica tutte le sinergie di lavoro
per la giustizia» . Shirin, 1975-1979 presiden-
te come giudice tribunale sezione di Teheran,
con la rivoluzione islamica (1979) come tutte
le donne giudice dovette lasciare la magistra-
tura e, rifiutando poi un ruolo secondario come
«esperta di legge» si ritirò a scrivere libri e arti-
coli fino al 1992 in cui poté aprire uno studio
proprio come avvocato, occupandosi di casi di
liberali e dissidenti entrati in conflitto con il si-
stema giudiziario iraniano. «Oggi vive a Londra
da giugno in una sorta di esilio autoimposto per
sfuggire a un mandato d’arresto per presunta
evasione fiscale» in rapporto al Nobel, che le è
stato sequestrato. (93-94)
Fra gli altri Nobel per la Pace, scelgo Rigoberta
Menchú (1959) guatemalteca, bracciante agri-
cola dall’età di 5 anni «in condizioni talmente
difficili da causare la morte dei suoi fratelli e di
molti suoi amici».Costretta all’esilio dal 1981.
Nel 1991: prende parte alla stesura in seno alle
Nazioni Unite di una «dichiarazione dei diritti
dei popoli indigeni». Ha detto: «Non siamo miti
del passato, né rovine nella giungla o zoo. Siamo
persone e vogliamo essere rispettati, e non esse-
re vittime di intolleranza o razzismo». Premio
Nobel per la Pace 1992, nel 2002 nominata
cittadina onoraria di Caorle (Venezia).
Mi commuove Waris Diriie, somala bellissima
cresciuta in una tribù seminomade del deserto,
a 13 anni promessa sposa a un uomo che pote-
va esserne il nonno. Fugge, grazie alla bellezza
diviene una top model famosa, ma c’è un dolo-
re che la perseguita: l’infibulazione femminile
da lei stessa subita a 5 anni. La combatte come
ambasciatrice delle Nazioni Unite (1997). Tra-
sferitasi a
Vienna e divenuta cittadina austriaca, (2002)
fonda la Waris Diriie Fundation che si occupa
del problema, raccoglie fondi e promuove «cam-
pagne di consapevolezza». Suoi libri editi in Ita-
lia da Garzanti: «Alba nel deserto», «Figlie del
dolore», «Lettera a mia madre».
Devo fermarmi per ragioni di spazio, ma dico
solo arrivederci a tutte queste donne, con un
consiglio. Cliccate su e richiedete il libro.
Un dono inaspettatodi Gabriella Fiori
Abner Rossi nasce a Firenze il 24 novembre
del 1946. Autore e regista teatrale da circa qua-
rant’anni ha al suo attivo diverse sceneggiature
cinematografiche, opere teatrali e monologhi
adottati da molte scuole di teatro come testi di
studio e di esame nonché per le audizioni. Ha
pubblicato tre libri di poesie e non ha mai par-
tecipato, per scelta, a concorsi poetici. Ha scritto,
collaborato e poi diretto G. Albertazzi, Omero
Antonutti. Come dirigente dell’Arci di Firenze
ha partecipato alla grande stagione della nascita
della comicità toscana. Recentemente alcune sue
poesie sono state pubblicate sulla Enciclopedia
della Fondazione Mario Luzi,
Spiritidimateria
di Abner Rossi
Autoritratto
Rosso per le mie idee,
per il mio conto in banca,
per una sana vergogna
di bambino.
Per la mia famiglia di operai.
Sicuramente per le mie bandiere,
per il vino che non ho mai
annacquato.
Rosso per un’anima dannata
costretta nell’inchiostro di una penna.
Rosso anche quando il cielo tende al nero
E rosso per amore!
Sempre e ogni giorno
dalla prima ragazza conosciuta
ad oggi e qui…
sempre con te
e dietro le mie rughe
che sono quasi tutte di passione.
1925 MARZO 2017
sa e rocciosa.
«Un’astronave tipo quella che potrebbe gui-
dare Fred Flinstone, scolpita nella pietra?»
domanderete. No! Qualcosa di più solido, di
più semplice e di parecchio più grosso, dicia-
mo un’astronave grossa come un pianeta. Del
resto la Morte Nera (Star Wars) era appunto
grande come una piccola luna. Così non dob-
biamo neppure usare trucchi tipo mettere in
rotazione l’astronave per creare una falsa gra-
vità, come in 2001 Odissea Nello Spazio o in
Sopravvissuto (The Martian). Abbiamo la gra-
vità naturale!
Sappiamo che già per i viaggi su Marte la pro-
tezione contro i raggi cosmici sarà un proble-
ma di difficile soluzione. Ma con una astrona-
ve grossa come un pianeta la soluzione è facile:
usiamo un nucleo di ferro fuso in rotazione in
modo che il campo magnetico generato faccia
da schermo. Geniale! E poi ci mettiamo una
bella atmosfera, che oltre a dare protezione,
ci consente anche di evitare di dover usare le
tute spaziali.
Nello spazio è buio e freddo. Ma noi possia-
mo risolvere il problema facilmente, basta fare
il viaggio alla distanza giusta da una stella di
dimensione adeguate, non troppo grossa, che
si esaurisce troppo presto, non troppo piccola
che non ce la fa a accendersi. E per proteggerci
dai raggi ultravioletti un bello strato di ozono.
Dite che ci annoieremo presto dello spetta-
colo del cosmo che cambia troppo lentamen-
te? E allora scialiamo: circondiamoci da una
bella varietà di altri pianeti, piccoli e grandi,
rocciosi e gassosi, e magari anche di comete e
satelliti. Uno bello grosso lo mettiamo vicino
alla nostra astronave, così abbiamo qualcosa da
osservare di notte. E per renderci il viaggio più
piacevole, riempiamo l’astronave di piscine
grosse come oceani, e decoriamola con piante
ed animali. Ci mettiamo anche qualche deser-
to e un paio di calotte polari, tanto per variare,
e montagne e fiumi.
Che bella astronave! Semplice e robusta. E
anche veloce, considerando la sua massa: tutto
il marchingegno, che chiameremo convenzio-
nalmente «Sistema Solare» viaggia a 250km/s
(rispetto alla Via Lattea).
Ovviamente, dato che il viaggio sarà molto
lungo, dovremo avere una cura maniacale del-
la nostra astronave, stare attenti a non sporcar-
la o danneggiarla, e a non consumare le risorse
che non siano rinnovabili. Ma sono certo che
nessun astronauta sarà così scemo da rovinare
volontariamente l’astronave con cui sta viag-
giando nello spazio... O mi sbaglio?
Con la prospettiva di andare su Marte (e con i
film di fantascienza dell’anno scorso) la voglia
di fare viaggi su distanze galattiche è tornata
prepotente, anche se non magari come quan-
do ero piccolo e vedevo gli astronauti del pro-
gramma Apollo andare sulla Luna.
Purtroppo, non avendo a disposizione la possi-
bilità di effettuare viaggi più veloci della luce
usando l’iperspazio (Star Trek) o i wormhole
(Interstellar), dobbiamo prepararci a passare
migliaia, se non milioni o miliardi di anni nel
cosmo. Ma se la nave spaziale è abbastanza
confortevole, questo non sarà un grosso pro-
blema: vivremo le nostre vite lì, ammirando
il panorama mentre sorseggiamo un drink.
Sto parlando di viaggiare, non di raggiungere
un posto specifico nel minor tempo possibile,
senza stare nemmeno a guardare dove si sta
andando.
Il problema è costruire una astronave che con-
tinui a funzionare per migliaia di anni. Levia-
mo di mezzo tutta la tecnologia che usiamo
ogni giorno: i migliori telefonini è un miracolo
se durano due anni! Basta che cadano per ter-
ra per rompere lo schermo, o in acqua per gua-
starsi irrimediabilmente... Non viaggerei mai
nello spazio su una cosa così fragile!
Ma riducendo la tecnologia le cose durano
di più. Le auto degli anni ‘50 continuano a
funzionare, e se si rompono possono essere
riparate, anche ricostruendo i pezzi se serve.
Le sonde Voyager (roba degli anni ‘70, con un
computer di bordo di ben 70 kB di memoria!)
sono le navi spaziali più longeve che abbiamo
mai costruito. La Voyager 1 si trova ormai a 19
ore-luce dalla Terra (la stella più vicina è a 4,5
anni-luce) e sta incredibilmente continuando
a funzionare. Ma in ogni caso si prevede che
smetterà di funzionare nel 2025, a 25 miliardi
di chilometri dalla Terra, anche se le comu-
nicazioni si pensa che cesseranno quest’an-
no quando il giroscopio di bordo smetterà di
funzionare, impedendole di tenere l’antenna
puntata su di noi. In poche parole anche que-
ste sonde dureranno al massimo solo 45 anni,
e dopo essere appena uscite dal sistema solare
(in realtà sono uscite solo dalla zona influenza-
ta dal vento solare, la nube di Oort, il serbatoio
delle comete, è a 1,87 anni-luce di distanza,
ancora ben soggetta alla gravità solare). Dal
punto di vista dei viaggi interstellari, sono ri-
uscite ad arrivare solo sulla soglia di casa. Non
ci siamo.
Quali manufatti siamo riusciti a costruire che
sono durati migliaia di anni? Quelli grossi e
di pietra! Roba tipo le piramidi, o i menhir.
Quindi dobbiamo costruire un’astronave, gros-
di Franco Bagnoli
Viaggi interstellari
Le sonde gemelle Voyager 1 e 2
2025 MARZO 2017
incomprensibile ma un giorno vedrai in esso
ciò che nessuno saprà vedere. Si narrava che
anni dopo mentre cercava di allontanare un
uomo che voleva vendergli dei vecchi libri,
Flamel riconobbe tra questi quello sogna-
to. Dopo averlo comprato così lo descrisse:
con la legatura in solido ottone....era stato
scritto con una matita di piombo su fogli
di corteccia e era stranamente colorato. Ma
era scritto in una lingua sconosciuta, forse
ebraico antico, e nonostante che lui e la mo-
glie si impegnassero a interpretarlo anche
con l’aiuto di diversi studiosi (ma non ebrei
perchè espulsi in seguito alle persecuzioni)
il libro per loro rimaneva misterioso. E lo
fu per tanti anni fino a quando, nel 1378,
grazie agli insegnamenti di un medico ebreo
incontrato durante un pellegrinaggio a San-
tiago di Campostela, Flamel, al suo ritorno,
riuscì a decifrare il libro che si rivelò un
trattato alchemico. Dopo tre anni di studio
riuscì a trasformare una libra di piombo in
argento e dopo qualche mese di esercizi in
oro puro. Si narrava che la pietra filosofale
moltiplicò le sue fortune che lui continuava
a elargire per opere benefiche e rendesse lui
e sua moglie immortali. Per i saggi la Pietra
Filosofale era la metafora della trasforma-
zione della materia in spirito eterno e la
difficoltà incontrata rappresentava la perse-
veranza di lavorare su se stesso. Per tutti gli
altri era un fantastico mezzo per esaudire i
sogni d’infinita ricchezza e eternità. Per tro-
varne il segreto la tomba del buono Flamel
fu profanata più volte naturalmente senza
successo.
L’edificio in rue Francois Miron, quello in
rue Volta 3 e quello in rue de Montmoren-
cy 51 chiamato maison du Haut-Pignon si
sono contesi a lungo il primato di essere la
casa più antica di Parigi ma ormai è stato de-
finitamente stabilito che le prime due, nono-
stante l’apparente aspetto mediovale, risali-
vano a un’epoca più recente rispetto a quella
in rue Montmorency del 1407 che quindi si
aggiudica la contesa. Per tutta la facciata,
dichiarata monumento storico nel 1911 in
omaggio ai suoi originari proprietari, Nico-
las Flamel e sua moglie Pernelle, per il loro
intenso impegno filantropico, corre una lun-
ga scritta che dichiara la funzione che aveva
la casa: ospitare i poveri del quartiere, i con-
tadini dei campi attorno, gli studenti squat-
trinati e le donne sole. La scritta specifica
anche quale era il prezzo da pagare per un
letto: un Pater Nostro e una Ave Maria la
mattina al risveglio in onore dei defunti. Ma
più che la casa, oggi divenuta una locanda di
charme, quello che è interessante è la storia,
in parte ricca di mistero, del suo proprieta-
rio, Nicolas Flamel, sconosciuta a tanti ma
di grande importanza a chi si interessa di
studi di alchimia ermetica. Nato nel 1330,
Flamel esercitava la professione di scrivano,
copista e miniaturista in una piccola bottega
attaccata alla chiesa di Saint-Jacques-la bou-
cherie. Flamel non aveva preoccupazioni
economiche perchè, all’epoca, saper scrive-
re in un mondo di analfabeti rendeva molto
bene e poi aveva sposato Pernelle, di alcuni
anni più anziana di lui, che, vedova due vol-
te, aveva accumulato un notevole patrimo-
nio con le eredità dei suoi precedenti mariti.
Nonostante questa ricchezza, la coppia vi-
veva in maniera modesta devolvendo il loro
denaro ai poveri e a finanziare la costruzione
di ospedali, chiese, cappelle...Quando morì
Nicolas Flamel lasciò i suoi beni, compre-
so la casa in rue Montmorency, alla chiesa
di Saint-Jacques e lì volle farsi sotterrare in
una tomba la cui lastra di copertura era stata
disegnata da lui. Della chiesa, distrutta du-
rante la rivoluzione, rimane oggi solo la torre
e della tomba solo la lastra esposta al Hotel
de Cluny, il museo nazionale del medioevo
a Parigi. Dopo la morte cominciò a diffon-
dersi su di lui quella che per molti era verità
e per altri leggenda. Si narrava che avrebbe
scoperto la Pietra Filosofale che può trasfor-
mare il piombo in oro. Si narrava che una
notte ebbe un sogno rivelatore nel quale un
angelo gli apparve e gli mostrò un libro di-
cendogli guarda questo libro che per ora ti è
di Simonetta Zanuccoli
La più antica casa di Parigi
2125 MARZO 2017
Ha un’espressione serafica e sorride molto, Park
Chan-wook, regista sudcoreano pluripremiato,
arcinoto so-prattutto per essere l’autore di quel-
la che viene definita la Trilogia della Vendetta,
su tutti Old Boy. Che du-rante l’incontro stam-
pa al cinema La Compagnia dove è ospite del
15/o Korea Film Fest per presentare il suo nuo-
vo film (The Handmaiden, proiettato stasera
alle ore 20.30, dopo aver ricevuto l’onorificenza
de Le chiavi della città dal sindaco Dario Nar-
della), racconta essere sua croce e delizia. «Mi
dispiace che in Europa mi accostino sempre ai
soliti titoli, non posso dire infatti che Old Boy
sia il mio miglior film, è solo uno dei miei lavori,
ed esempio mi piacerebbe che si vedessero mie
opere quale Thirst, (horror del 2009 - ndr) o i
miei ultimi lavori. Invecchiando, mi sono accor-
to che mi dedico sempre di più a punti di vista
femminili, come in The Handmaiden, che è a
tutti gli effetti un film femminista. Penso che
chiunque dentro di sé abbia un lato maschile e
uno femminile, solo che gli uomini spesso non
vogliono vederlo e se ne vergognano». Sulle sue
passioni cinefile racconta «La folgorazione per
il cinema l’ho avuta mentre stavo guardando
Vertigo di Hitchcock, ho deciso così di fare il
regista. Non solo Hitchcock: mi sono cari an-
che tanti altri registi, tra tutti Luchi-no Viscon-
ti». Alla domanda se i cineasti europei prenda-
no spunto dal cinema coreano non risponde,
Chan-wook, probabilmente perché non si può
parlare di una vera ispirazione europea verso
l’Asia in tale ambito, ma si sofferma sul rap-
porto con l’America, dove nel 2013 ha diretto
Nicole Kidman nel suo primo film con cast in-
ternazionale, Stoker. Racconta così l’esperien-
za: «Non ero a mio agio, ma alla fine le persone
che fanno film hanno lo stesso linguaggio. An-
che le emozioni umane sono le stesse, quindi
creare l’atmosfera del film non è stato molto
difficile. I giovani registi americani sono molto
innamorati dai coreani, e mi strani-sce molto
vedere film americani che ricordano la Korea.
Per me, guardare il remake di Old Boy è stato
cu-rioso, è come se – ha spiegato il regista - io mi
vestissi e truccassi come se fossi un americano.
Anche in India non mi hanno chiesto il per-
messo ma hanno fatto un remake interessante
di Old boy». La vendetta è un tema che ritorna
spesso nei suoi film, a proposito della quale af-
ferma: «Sicuramente ci sono molti aspetti che
non sono esattamente piacevoli da vedere nei
miei film, chiedo scusa! (dice ridendo). Ma per
quanto noi vo-gliamo vivere in un modo pieno
di amore, in pace, tranquillo, alla fine per un
motivo o un altro non è detto che ciò si realiz-
zi. Tuttavia, se noi conosciamo bene gli aspetti
bui e nascosti e violenti dentro di noi forse pos-
siamo trovare il metodo per far fronte a questa
cosa e gestire questi sentimenti. Le persone nei
film lotta-no contro le cose che succedono, e per
me è spesso una metafora del lottare contro il
male che c’è dentro noi stessi. Credo che sia un
processo importante da rispettare».
Ristorante caffetteriaLa Loggia Piazzale Michelangelo, 1 Firenze – Italy
www.ristorantelaloggia.it
+39 055 2342832
La Loggia si sta preparando per una primave-
ra e un’estate speciale. Divertimento, cultura
e benessere è ciò che attende i nostri ospiti in
questa stagione che è appena arrivata.
Appuntamenti settimanali con il corso di Yoga
che si terrà sulla terrazza panoramica de La
Loggia, rilassarsi e prendersi cura del proprio
corpo e la propria psiche mentre si ammira un
panorama di ineguagliabile bellezza per poi
godersi un ottimo centrifugato che non solo è
delizioso, ma è anche squisito!
Non solo yoga, mostre d’arte , sfilate di moda
e concerti intratterranno le serate e le giornate
dei fiorentini con la partecipazioni di professio-
nisti il cui scopo è quello di regalare momenti di
emozioni e compagnia.
Degustazioni, show-cooking e corsi di cucina
per imparare l’arte del buon cibo, gustare un
ottimo vino da accompagnare una portata da
sogno che magari avrete imparato a cucinare.
Party esclusivi con temi divertenti dove musi-
ca, buon cibo e quel pizzico di magia condiran-
no le serate estive. Tra bollicine e acrobati, c’è
solo l’imbarazzo della scelta.
La Loggia, quest’anno, ha deciso di lasciare il
segno e regalare a Firenze un punto di incontro
in cui poter vivere e godersi la bella stagione
senza tralasciare niente.
Queste e molte altre sorprese vi attendono sia
nel look che nell’intrattenimento.
Restate sintonizzati per scoprire quali saranno
le emozionanti novità che stanno per arrivare!
di Sara Chiarello
Il ritorno di Park Chan-wook
2225 MARZO 2017
foto e abbracci. Ma, ebbe a scrivere allora
Nardella sul suo profilo Facebook, sarà «ne-
cessario l’apporto del ministro Franceschini
per individuare le risorse economiche per
la riqualificazione dello spazio. Ci auguria-
mo che faccia la sua parte, sul tema delle
risorse; certo è che dovremo anche trovare
risorse private» (su cui, sia detto per inci-
so, si era impegnata prima come assessore
alla cultura del sindaco Renzi e poi come
senatrice, Rosa Maria Di Giorgi: gli esiti al
momento non sono noti). Ma perché poi?
Se verrà concesso un immobile pubblico di
grande prestigio per 29 anni, ad un canone
abbattuto al 60% rispetto al suo valore di
mercato, a un soggetto privato che è titolato
dagli atti di concessione a svolgere anche
attività economica (bookshop, bar, risto-
rante, formazione, ecc.) di cui incasserà gli
introiti, per quale astruso motivo non gli si
dovrebbe almeno chiedere di investire nei
lavori di adeguamento della struttura? Su
«la Repubblica» del 28 aprile 2016 in ef-
fetti si diceva che la Fondazione oltre all’af-
fitto «si assumerà l’onere degli investimenti
Fu profeta (in patria) Franco Zeffirelli
quando, il 31 maggio 2013 durante uno
sketch a due con l’allora sindaco Matteo
Renzi ricevette il Fiorino d’Oro, ebbe a mi-
nacciare la città «Ora che sono cittadino di
Firenze mi avrete per un bel po’ tra le palle.
Dei Medici, s’intende». Augurando lunga
vita al Maestro, uno deve domandarsi per-
ché oltre ad avere lui tra le p... sia necessa-
rio, anzi imprescindibile, avere anche tutti
i suoi cimeli esposti in mostra permanente
nell’ex Tribunale di Piazza S.Firenze a po-
chi passi da Palazzo Vecchio. La vicenda è
lunga e non varrebbe neppure la pena sof-
fermarsi troppo sull’altalena che ha portato
prima ad individuare nella Galleria Carnie-
lo la sede adatta per «gli oltre 10.000 libri,
4.000 foto di scena, migliaia di litografie e
stampe, la raccolta completa dei bozzetti
realizzati per il cinema e le opere liriche,
pari al 60% dell’intero lascito zeffirelliano:
il restante 40% sarà collocato alla Pergola,
nell’ex Biblioteca Spadoni. Ma sarà anche
un centro internazionale per le arti del-
lo spettacolo con particolare attenzione
alla formazione» (la Repubblica 1 giugno
2013) e poi a scegliere piazza S.Firenze, se
non fosse che questa vicenda ci dice diver-
se cose sulle modalità e il contenuto delle
scelte pubbliche sul patrimonio storico-ar-
chitettonico, che sono più significative dei
diversi siparietti con la classe politica locale
che nel corso dei quattro anni hanno carat-
terizzato la vicenda. Cui pure occorre far
cenno, perché sono un contorno non mar-
ginale del tema centrale. Il 31 maggio 2013
Zeffirelli proclamava alla stampa parlando
di Renzi: «Questo ragazzo è diventato un
fenomeno politico senza tante smancerie»;
e lui di rimando a schernirsi. «Ovviamente
stiamo parlando di Alfano», ma vuoi met-
tere le foto a tutta pagina? Però il siparietto
serviva a ribadire che Renzi non era come
quei trinariciuti comunisti che prima di lui
avevano snobbato Zeffirelli; lui era buono
anche per la destra; e poi, basta con questa
storia di destra e sinistra, siamo tutti uguali,
la stessa cosa. Poi arriva a Palazzo Vecchio
un altro giovane fenomeno, Dario Nardella,
con il quale matura la scelta, a seguito di so-
pralluoghi con i tecnici del Comune e della
Fondazione Zeffirelli (che poi hanno lavo-
rato insieme «per stabilire la fattibilità del
progetto, i tempi e l’investimento» (il Cor-
riere Fiorentino, 28 gennaio 2015), oltre
che con il Maestro, di S.Firenze. E anche lì
di Simone Siliani
Zeffirellifor everand ever
Ovveroil regalodi S.Firenze
2325 MARZO 2017
necessari per l’adeguamento e la messa a
norma dei locali di San Firenze. Che sa-
ranno comunque scomputati dal canone».
Ma perché mai? L’Amministrazione si pri-
verebbe così anche del (basso) introito deri-
vante dall’affitto per diversi anni, mentre il
soggetto privato negli anni di gestione (che
verosimilmente andranno ben oltre la vita
terrena del Maestro) incasserà gli utili del-
la gestione dell’immobile di 3.600 mq. È il
modello che già Robert Reich su Newswe-
ek del 5 marzo scorso definiva di socialismo
per i ricchi e capitalismo per i poveri; cioè ai
soggetti più abbienti e noti vengono garanti-
te condizioni economiche di favore, mentre
alle persone normali si impongono compor-
tamenti rigorosi sotto il profilo economico.
Il fatto è che l’Amministrazione Comunale
si è dimostrata in questa occasione comple-
tamente prona alle volontà e interessi del
soggetto privato anche perché non aveva
un progetto per San Firenze, così come non
lo aveva per la Galleria Carnielo e analoga-
mente non lo ha per S.Maria Novella che
si sta liberando della funzione di Scuola
sottoufficiali dei Carabinieri. Quando il sog-
getto pubblico non è in grado di elaborare
un progetto per la città (o per parti di essa)
nell’ottica dell’interesse pubblico è ovvio
che sarà maggiormente disponibile ad acco-
gliere acriticamente le diverse pressioni da
parte dei portatori di interessi privati e di
quelli più forti in particolare (come ebbe a
dire Zeffirelli nel 2013 a Renzi: «e dire che
un tempo a Firenze se non si vociava non si
esisteva neppure»).
Nel caso di San Firenze possiamo dire, con
l’assoluta certezza di chi ha vissuto in prima
persona la vicenda, che l’Amministrazione
comunale guidata da Leonardo Domenici
aveva un progetto con una valenza di inte-
resse pubblico. Avendo investito 2,3 milioni
di euro per la messa a norma per antincen-
dio e barriere architettoniche, il palazzo di
San Firenze, oltre ad avere alcune sale mo-
numentali dedicate ad esposizioni tempora-
nee e auditorium musicale, avrebbe dovuto
ospitare gran parte degli uffici comunali
attualmente dislocati in Palazzo Vecchio in
modo da poter recuperare l’intero Palazzo
Vecchio alla funzione museale per poter
consentire ai fiorentini e ai visitatori di poter
«leggere» l’intera storia della città, dalle sue
origini romane (i resti del teatro nel sotto-
suolo) attraverso la parte medievale, quella
Rinascimentale, fino a quella moderna. Pa-
lazzo Vecchio, per aver costituito la sede del
potere civile e politico ininterrottamente
lungo i secoli, è uno dei pochi palazzi storici
che può «raccontare» questa storia: è il vero
museo della storia di Firenze. La condizio-
ne per rendere possibile questa lettura era
quella di liberare una gran parte del palazzo
dagli uffici (salvo quelli di rappresentanza
e dell’aula consiliare) per renderlo intera-
mente aperto al pubblico, scoprendo peral-
tro così spazi storici sconosciuti ai più e non
compresi nell’attuale ridotto percorso mu-
seale. Lo spostamento degli uffici in San Fi-
renze non avrebbe certamente comportato
alcun disagio, né al personale né ai cittadini
utenti, data la vicinanza dei due palazzi e
del resto avrebbe mantenuto una gran parte
di San Firenze alla funzione di sedi di uffi-
ci amministrativi che aveva rivestito come
sede del Tribunale. Naturalmente, come
ogni scelta, anche questa poteva essere di-
scussa, ma non si può dire che non avesse
al centro l’interesse pubblico. Invece, con
l’avvento di Renzi tutto è stato rottamato e
si è iniziato ad oscillare in balia delle onde
private più disparate; non si contano neppu-
re il numero di università private straniere
che si sono annunciate quali inquiline di
palazzo San Firenze, nella (vana) speranza
che queste arrivassero a Firenze risolven-
do l’assenza di idee dell’Amministrazione,
portando soldi da investire per utilizzare la
struttura e sognando ulteriori turisti e users
di un centro storico già sufficientemente in-
golfato di questo tipo di funzioni. Rivelatesi
fuochi fatui queste astronavi straniere (le
ultime erano cinesi), si è ben volentieri ac-
colto il «sogno» della Fondazione Zeffirelli
non avendo alcun concreto progetto per
«riempire» il prestigioso immobile. Peraltro,
per quanto importante possa essere il perso-
naggio (Zeffirelli lo è, ma esiterei a definire
la sua eredità artistica per Firenze e l’Italia
«ciò che mezzo millennio fa furono Brunel-
leschi e tutti i più grandi del Rinascimento»,
come invece non ha avuto alcuna remora di
fare Gianni Letta – presidente della Fonda-
zione Zeffirelli - in una intervista al Corriere
Fiorentino il 15 marzo scorso), un museo ad
personam è di difficile sostenibilità soprat-
tutto in una città che certamente di queste
istituzioni non fa difetto. Se proprio si do-
veva, forse la Galleria Carnielo era più che
sufficiente. Ma allora perché il «sogno» si di-
rige verso San Firenze? Certamente una di-
versa centralità rispetto al flusso turistico ha
giocato, ma forse tanto quanto la possibilità
di gestire servizi aggiuntivi (bar, ristorante,
bookshop, ecc.) da cui far discendere un
flusso di risorse sufficientemente continuo
e sicuro per rendere remunerativo (più che
sostenibile) il progetto.
Ecco, dunque, svelato l’arcano: non si può
dire di no ad un personaggio così in vista nel
mondo e quindi è naturale che l’Ammini-
strazione comunale debba soddisfare com-
pletamente le richieste della Fondazione
che gli sopravviverà (a fronte della donazio-
ne del patrimonio di cimeli, libri, foto, ecc.
che certamente hanno un valore ma che
richiedono di essere custoditi, valorizzati,
mantenuti con i relativi costi) e, se non può
garantirle un contributo congruo in cash per
poter operare (si sa che la finanza comuna-
le soffre...), allora deve darle in gestione un
proprio patrimonio da cui possa ricavare ri-
sorse per vivere e prosperare. Non si tratta
di «polemichette», come le ha prontamente
marchiate Gianni Letta, ma la constatazio-
ne che questo non è certamente il miglior
modo di presiedere alla formazione di de-
cisioni pubbliche che implicano l’utilizzo di
un patrimonio storico pubblico per finalità
latamente culturali e più propriamente pri-
vate di natura economica.
2425 MARZO 2017
Francesca Lussignoli, Nascita di Veneredifficoltà nella comunicazione/interazione
con gli altri ed essendo assai solitario, con-
centrato nel proprio lavoro e, in definitiva,
anaffettivo.
Il rapporto tra arte e disabilità di vario ge-
nere (psichiche/fisiche) è, del resto, fitto di
nomi importanti tra cui vale la pena di ci-
tare Van Gogh, Tolouse-Lautrec, Klee, Li-
gabue e la pittrice messicana Frida Kahlo.
Questa è la ragione per cui, mentre il pro-
getto internazionale è meritevole di atten-
zione e apprezzamento, la sfida è sempre
quella di oltrepassare la frontiera della ma-
lattia/disturbo quale elemento tipizzante/
unificante un gruppo di artisti, per acco-
starsi all’arte come espressione oggettiva,
apprezzare le opere in base alle loro qualità
intrinseche e formali, prodotti di talenti an-
che i più vari, con e senza – ovvero a pre-
scindere da – specifiche disabilità.
«L’arte risveglia l’anima». È una verità.
Ed è il titolo di una mostra itinerante che
tra pochi giorni sarà inaugurata a Firenze
(Palazzo Davanzati, 1 aprile, ore 16:00)
e a Fiesole (Comune, Sala del Basolato, 2
aprile, ore 11:00, nell’occasione della X°a
edizione della Giornata Mondiale della
Consapevolezza sull’Autismo), la prima
con un collegamento satellitare audio-vi-
deo che unirà Firenze all’Ermitage di San
Pietroburgo.
Partirà così un progetto internazionale di
inclusione culturale e sociale - promosso
da Associazione Autismo Firenze, Associa-
zione Culturale L’immaginario e Associa-
zione Amici del Museo Ermitage (Italia) e
patrocinato dal MIBAC, Regione Toscana
e Comune di Fiesole – che proseguirà nel
corso del 2017, approdando in altri musei
italiani. «Coloratissimi disegni, tratti essen-
ziali che giocano con lo spazio e le forme,
come pure figure sinuose e riconoscibilissi-
me ispirate ai capolavori della storia dell’ar-
te», come si legge nel comunicato ufficiale,
esprimeranno l’estro ignoto di 18 pittori e 6
ceramisti autistici provenienti da Toscana,
Piemonte, Lombardia, Lazio e Marche.
Per Anna Maria Kozarzewska, coordinatri-
ce del progetto (per il quale si rinvia anche
a www.larterisveglialanima.it), occorre an-
dare oltre la considerazione della patologia,
perché «queste persone hanno molti punti
di forza, talenti nascosti che a causa della
mancata vita sociale non vengono fuori. È il
momento di fare sapere al mondo cosa sono
in grado di fare».
Leggiamo nella enciclopedia del libero
accesso (Wikipedia) che l’autismo «è un
disturbo del neurosviluppo caratterizzato
dalla compromissione dell’interazione so-
ciale e da deficit della comunicazione ver-
bale e non verbale che provoca ristrettezza
d’interessi e comportamenti ripetitivi».
In questa definizione è la sintesi, la triade
fenomenica associata a questa condizione
che si esplica in molteplici forme, tanto che
gli studiosi hanno coniato la definizione di
«disturbi dello spettro autistico». Figura
tra essi la sindrome di Asperger, definita
disturbo ‘ad alto funzionamento’ perché
non presenta problemi legati allo sviluppo
psichico ma si distingue per una persisten-
te compromissione delle interazioni sociali,
per schemi di comportamento ripetitivi e
stereotipati, attività e interessi talora ristret-
ti. Secondo taluni lo stesso Michelangelo
Buonarroti ne sarebbe stato affetto, avendo
di Paolo Marini
Arteoltre i confini della disabilità
2525 MARZO 2017
Plautilla Nelli: Busto di giovane donna, Galleria
degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe
Plautilla Nelli: Santa Caterina da Siena, olio su tela
Convento di San Domenico, Siena
La mostra su Plautilla Nelli è la prima di un
progetto che catalizza l’attenzione sull’arte
femminile a partire dal Cinquecento: esso pre-
vede una lunga serie di esposizioni tempora-
nee che si terranno presso gli Uffizi a cadenza
annuale e che verranno inaugurate simbolica-
mente l’8 marzo, giornata internazionale della
donna. Una carrellata infinita, visto che sono
oltre duemila le opere delle tante artiste fioren-
tine obliate e nascoste nei depositi dei musei
cittadini.
Con questa monografica si rende omaggio ad
una donna ritenuta da Vasari la «prima pittrice
fiorentina» le cui opere erano «disseminate nei
conventi e nelle dimore dei gentiluomini» ed
erano talmente numerose che «sarebbe noioso
menzionarle tutte». Plautilla Nelli (Firenze
1524-1588) entrò poco più che bambina nel
convento domenicano di Santa Caterina in
Cafaggio (vicino al convento di San Marco) e in
seguito ne divenne più volte priora. Incline al
disegno apprese da autodidatta i rudimenti del-
la pittura e divenne ben presto una «stimatissi-
ma» pittrice che portò avanti, grazie numerose
allieve consorelle, un’intensa attività. Diresse
infatti una fiorente bottega artistica dotata di
tutta l’attrezzatura necessaria: un cospicuo nu-
mero di disegni di Fra’ Bartolomeo, modelli di
figure umane in cera e in gesso, arti e persino
un manichino in legno a grandezza naturale
servito presumibilmente per la pala del Com-
pianto. L’attività pittorica era ritenuta parte in-
tegrante del lavoro quotidiano delle suore e la
produzione della bottega garantiva una consi-
derevole fonte di reddito alla comunità di Santa
Caterina, in ottemperanza ai decreti tridentini
che proibivano di ricercare beneficenze fuori
della mura conventuali e con il placet del mo-
naco Savonarola che attraverso la pittura vede-
va «preservate queste donne dall’indolenza».
Plautilla con la sua capacità pittorica e impren-
ditoriale fu interprete della poetica figurativa
tridentina basata sui principi morali della sem-
plicità e della purezza. La prima testimonianza
della sua attività artistica è rintracciabile nelle
figure di angeli e santi che ornano i capilettera
di due corali risalenti al 1558 e custoditi pres-
so il Museo di San Marco (visibili in mostra).
Purtroppo la vasta produzione citata dal Vasari,
incentrata sulle immagini sacre e rivolta a sod-
disfare principalmente le richieste devozionali
private, risulta oggi dispersa nelle dimore dei
numerosi committenti. Inoltre quasi tutti i lavo-
ri documentati della Nelli andarono perduti o
dimenticati alla fine del Novecento, fatta ecce-
zione per il Compianto custodito nel Museo di
San Marco, L’ultima cena ora nel convento di
Santa Maria Novella e la pala della Pentecoste
in San Domenico a Perugia. Ma gli studi aperti
17 anni fa hanno permesso di attribuire a Plau-
tilla, o alla sua bottega, numerose opere disse-
minate fra Umbria e Toscana che preceden-
temente erano state ritenute di pittori maschi.
Tali opere, insieme a diversi disegni, costitui-
scono il nucleo centrale della mostra. Notevoli
i quattro dipinti che raffigurano l’immagine di
Santa Caterina ritratta di profilo; nella loro ri-
petibilità seriale si manifestano come strumen-
to di insistita divulgazione religiosa consacran-
do Plautilla missionaria di una predicazione
pittorica. Le sue opere infatti non presentano
originalità di stile o di composizione ma i volti
delle sante, rigati da lacrime silenti, risultano
apprezzabili per la loro efficacia devozionale
intrisa di pietas e profonda partecipazione al
dolore, prerogativa di un’arte tutta femminile.
Accanto alle opere di Plautilla Nelli vengono
presentati manufatti tessili e piccoli oggetti
devozionali che permettono di accendere i ri-
flettori sulle donne che all’interno delle mura
conventuali coltivarono il loro talento creativo
e padroneggiarono la tecnica pittorica da vere
professioniste.
Firenze,Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pit-
ture 9 marzo - 4 giugno 2017
di Luisa Moradei
Arte e devozione sulle orme di Savonarola
2625 MARZO 2017
43 pellicole che tratteggiano la società coreana,
la condizione attuale delle donne e dei diritti,
e il rapporto difficile con la Corea del Nord,
paese gemello eppure così lontano: è in corso
al cinema La Compagnia di Firenze la quindi-
cesima edizione del Korea Film Fest, festival
che propone il meglio della cinematografia sud
coreana contemporanea. Diretto da Riccardo
Gelli, coadiuvato dai critici Marco Luceri e
Caterina Liverani, fino al 31 marzo presenta
una vasta selezione di film premiati a festival
internazionali, alla presenza di registi e attori.
Tra tutti, primeggia la presenza del regista e
sceneggiatore Park Chan-wook, cineasta ama-
to da molti, tra cui Quentin Tarantino. Park
Chan-wook che ha portato sullo schermo i di-
lemmi del peccato e della redenzione declinati
attraverso storie percorse dal fil rouge della vio-
lenza, sarà a Firenze per incontrare il pubbli-
co e ricevere il premio alla carriera e le chiavi
della città sabato 25 marzo, occasione durante
la quale presenterà in anteprima italiana il suo
ultimo film The Handmaiden, sontuosa opera
in costume ambientata durante la dominazio-
ne nipponica in Corea, che lui stesso ha defi-
nito «una celebrazione del piacere femminile
e un grido di libertà contro l’oppressione degli
uomini». La mattina dello stesso giorno sarà
inoltre protagonista di una masterclass sul suo
cinema, i suoi maestri e il mondo violento e
stralunato di cui è interprete per antonomasia.
Nell’ambito della retrospettiva a lui dedicata
saranno proiettate alcune tra le sue opere più
significative: da Joint Security Area, in cui si
affronta il tema delle relazioni tra Corea del
Nord e Corea del Sud, alla Trilogia della Ven-
detta: il trittico composto da Mr Vendetta, Old
Boy (Gran Premio della Giuria al Festival di
Cannes) e Lady Vendetta (premio Cinema
Avvenire e Leoncino d’oro a Venezia) che ha
reso la sua inconfondibile marca autoriale
nota in tutto il mondo. Si continua con lavori
più recenti: la tenera e surreale storia d’amo-
re raccontata in I’m a Cyborg, but that’s ok,
il vampire movie Thirst, vincitore del Premio
della Giuria a Cannes nel 2009, e Stoker, re-
alizzato in lingua inglese con un cast interna-
zionale (tra cui l’attrice Nicole Kidman), oltre
a 5 cortometraggi. 4 le sezioni tematiche del
festival: Orizzonti Coreani, con film campioni
d’incassi in patria e vincitori di riconoscimenti
internazionali, tra cui Luckkey di Lee Gye-
byok (che sarà in sala il 26 alle 20), commedia
campione d’incassi in patria; Independent
Korea, i lavori dei più giovani e talentuosi re-
gisti esterni alla grande distribuzione; la Notte
Horror, selezione delle pellicole di genere più
originali dell’ultimo anno e Corto, Corti, spa-
zio dedicato al cortometraggio. Tra le novità il
focus K Woman, 5 titoli per esplorare il ruolo
della figura femminile sul grande schermo, dal
documentario al thriller. All’interno della se-
zione troviamo The Bacchus Lady di E Jyong
(ospite del festival), opera applaudita alla Berli-
nale che indaga il fenomeno delle prostitute di
mezza età e Mrs. B., a North Korean Woman
di Jero Yun, la storia vera presentata a Cannes
di una donna nordcoreana fuggita in Cina, che
per aiutare la famiglia lontana e guadagnarsi da
vivere si dedicherà al traffico di droga. In pro-
gramma anche Manshin di Park Chan-kyong
(fratello di Park Chan-wook) su una delle più
grandi sciamane coreane, il thriller The truth
beneath di Lee Kyoung-Mi, e Misbehavior di
Kim Tae-yong, sulla relazione tra un’insegnan-
te e un giovane allievo. La serata di chiusura, il
31, sarà dedicata a The Net, l’ultima pellicola
di Kim Ki-duk sulla relazione tra le due Coree,
presentata a Venezia 2016. Nel film si raccon-
ta di come, dopo un guasto accidentale al mo-
tore della sua barca, un pescatore nordcoreano
vada alla deriva giungendo in Corea del Sud,
dove viene sottoposto a una serie di indagini
brutali. Una volta rimandato a casa, tuttavia,
il trattamento da parte delle autorità del suo
paese sarà esattamente lo stesso, lasciando
all’uomo la sensazione di essere intrappolato
tra le ideologie repressive di due nazioni divise.
A completare il programma del Florence Ko-
rea Film Fest di quest’anno la prima edizione
della Korea Week, una settimana di eventi cit-
tadini per conoscere da vicino la danza, le arti
marziali, il cibo e le tradizioni della cultura su-
dcoreana. «Quest’anno il festival taglia un tra-
guardo importante. Sono passati quindici anni
dalla prima edizione, siamo cresciuti e siamo
diventati una delle realtà di riferimento per il
cinema coreano in Italia. Per festeggiare, abbia-
mo deciso di premiarci con la presenza di un
regista che in poco più di vent’anni di carriera è
diventato una vera e propria icona dell’univer-
so pop, quale Park Chan-wook. Ma la sua pre-
senza non è l’unico evento speciale dell’anno:
abbiamo voluto dedicare spazio alle donne nel
cinema di Corea con un focus dedicato, ospite-
remo gli ultimi lavori di maestri quali Kim Ki-
duk, Kim Jee-woon e Hong Sang-soo, abbiamo
in programma uno spettacolo di danze tradizio-
nali e mostre d’arte. Insomma, ci sono tutti gli
ingredienti per un’edizione da ricordare». Tut-
te le informazioni su www.koreafilmfest.com.
di Sara Chiarello
La Korea fiorentina
Maschietto editore Poesia
Titti Maschietto
Radicali LiberiTitti M
aschietto
7
Radicali Liberi
7
Poesie 1980-2101
Wikipedia definisce radicale (o radicalelibero) una specie chimicamolto reattivaaventevitamediadinormabrevissima,co-stituitadaunatomoounamolecolaforma-ta dapiù atomi chepresenta un elettronespaiato:taleelettronerendeilradicaleunaparticella estremamente reattiva, ingradodilegarsiadaltriradicaliodisottrarreunelettroneadaltremolecolevicine.èchiaropertantocheiradicaliliberisonoresponsa-bilidiqueglieffettinelcervellodiognunodinoicheprovocanol’uscitadellapoesia.
www.maschiettoeditore.com
Poli(blas)femo
All’occorrenza tremendo (facendoFinta) allo spropositare alQuanto d’un r’c’apaceCoordinatore-capo-testa di cazzoCome grande mela rosa fracidaSenz’occhi’orecchi’naso’boccaIn c’r’apace di altra gamma,Ritengo di dover panta gruellareDi idee sempre di più diA dire di fare sempre a meno a.
(senza titolo)
Amletofacciamo l’errore più grandedella nostra vitafacciamolo per una voltacon assoluta convinzioneper quello che ci riguardaandremo a rotolima c’è caso che il mondouscito fuori dai cardiniricominci a giraredavvero
Deposizione
Il braccio che cadeNon duoleA te il doloreÈ come un rumoreNel sordo rifugioChe accolse tua madre
Pur non possoChiudermiAl riparo del rosso di un mantoAl verso al cantoAll’ala che a volte in pieno naufragioIncontro
21 marzo 2017giornata mondiale della poesia
“Se non serve a farsi ammazzare, allora la poesia non serve a niente.
E comunque la poesia sta con la fronte attaccata a un muro di galera, come la libertà.”
Adriano Sofridalla prefazione al libro Militanza del fiore
Titti Maschietto Radicali Liberi368 pagine
Carlo CuppiniMilitanza del fiore 160 pagine
Sergio Risaliti Happy Birthday144 pagine
Che Cosa è la poesia?