newsletter 02 marzo 2016
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Sat Lavis Piazza Loreto, 3
Ho usato il titolo del Gogna–Blog del 9 febbraio (qui il link
http://www.banff.it/la-colonizzazione-delle-vette/ ) Alessan-
dro, come d’abitudine, descrive con sagace ironia, velata di
amarezza, le “megalomanie” di Sölden , tanto decantate dai
media grazie anche alle ultime mirabolanti immagini del nuo-
vo 007. Purtroppo la montagna non è nuova a questo genere
di sfruttamento indiscriminato che, oltre ad essere estraneo
all’essenza “dell’andar per monti” è, naturalmente, deleterio
sia per l’ambiente che per la psicologia collettiva che tende a
minimizzare impegni e rischi di chi ama questo “volar per
monti” dove il sudore è un optional e l’unica vetta che si vuo-
le raggiungere (da parte dei distributori di beni e servizi dislo-
cati in zona) è quella grafica dell’andamento del conto cor-
rente. La polemica è ormai trita e ritrita; laddove c’è il “Dio-
soldo” non c’è posto per altri pantheon, non ci sono margini
per lo sfruttamento (brutta parola ma comprensibile da tutti)
sostenibile della “Dimensione montana”. Il riferimento è chia-
ro anche ad altri eventi, sintomatici di ciò che veramente con-
ta per chi potrebbe cambiare le cose sul pianeta:
-la conferenza sul clima di Parigi (solo i più ottimisti possono
credere che basti l’accordo formale sottoscritto da tutti i pae-
si del mondo se non suffragato da politiche idonee. Io pur-
troppo non sono tra questi, Rif. il protocollo di Kyoto che nes-
suno ricorda più è lì a dimostrarlo) articolo “Internazionale”
cliccando qui;
-il continuo tentativo, da parte di imprenditori miopi e senza
scrupoli di costruire impianti di risalita sempre più faraonici
(con soldi molto spesso pubblici) e sempre più impattanti in
aree ad alto valore ambientale e paesaggistico, a quote sem-
pre più basse, nonostante l’innalzamento progressivo della
temperatura globale (è un fatto ormai conclamato e dimo-
strato dalle bizze meteo che stanno colpendo un po’ tutto il
mondo ma che da molti viene archiviato come ciclico e non
influente sul divenire dell’ecosistema planetario) Rif. Dolomi-
ti, patrimonio Unesco ma fino a quando?;
-l’avallo dato da molti amministratori pubblici di zone turisti-
che che vedono nella montagna e nell’ambiente in generale
solo il fondale per speculazioni edilizie ed imprenditoriali che
giustificano con il fatto che portano lavoro e benessere Rif.
Sölden ;
-e via dicendo, a slalom tra eliski d’alta quota, reality show
assurdi per vendere l’immagine di una montagna facile ed
accessibile a tutti (l’ha fatto quello, perché non posso farlo
anch’io che sono più allenato di lui...), apertura ai motori su
sentieri che già faticano ad avere un loro equilibrio idrogeolo-
gico, prati e campi incolti che hanno visto spuntare, nella
stagione degli incentivi alle energie sostenibili, pannelli solari
e fotovoltaici. Ed ancora andando e spulciando tra gli articoli
dei giornali, spesso passati in sordina in trafiletti sulle pagine
periferiche.
Lungi da me voler fare il fustigatore di costumi altrui ma vor-
rei esternare queste considerazioni che, parlando con perso-
ne che come me hanno a cuore la montagna e l’ambiente,
sono da molti condivise. C’è solo da chiedersi se, dopo tutte
le traversie economico-finanziarie degli ultimi anni, ha senso
ricominciare da capo con lo stesso modello e parametro di
crescita, basato solo sul valore del denaro e mettendo in pri-
mo piano la crescita solo economica o non sia forse tempo di
cominciare a pensare in modo diverso l’economia e lo sfrutta-
mento delle risorse a nostra disposizione?
Febbraio 2016
Numero 1
La colonizzazione
(economica) delle vette
Dall’Enciclopedia delle Dolomiti –Protagonisti
Leo Aegerter, Le più belle carte
delle Dolomiti
(Parigi 1875-Zirl 1953) Car-tografo, è autore di una serie di carte delle Alpi orientali che verranno alle-gate alla Zeitschrift des DOAV; Sassolungo e Sella nel 1904, Marmolada nel 1905, Brenta nel 1908. Aegerter ebbe l’incarico di realizzare nel 1919 la carta ufficiale del nuovo confine del Brennero; per questo e per la drammatica situazio-ne della Germania nel pri-mo dopoguerra la carta delle Pale di San Martino, già pronta verso la fine del conflitto, fu pubblicata solo nel 1931. Le carte di Aeger-
1866-2015: la guerra delle croci La discussione iniziata nel 2015 sulla stampa in merito all'erezio-ne delle croci in memoria dei soli militari austroungarici caduti durante la prima guerra mondiale, ricorda quella che fu chiamata la “guerra delle lapidi” del 1866 (quasi centocinquant'anni orso-no) sorta al termine della battaglia di Bezzecca nella terza guerra d'indipendenza italiana: ma a parti invertite. Allora, al termine della battaglia che vide i garibaldini padroni del campo, un loro ufficiale volle fosse eretta sul colle di Santo Stefano a Bezzecca, una lapide in memoria dei volontari italiani, morti in quella batta-glia: “AI MORTI COMBATTENDO PER LA PATRIA I VO-LONTARI ITALIANI” riportava la lapide. Ma il famoso “Obbedisco” interruppe l'approntamento della stele e le truppe italiane si ritirarono in tutta fretta in Lombardia portando con sé anche i feriti per evitare fossero fatti prigionieri e passati per le armi (la Croce Rossa non era ancora riconosciuta da tutti i belli-geranti). Il piccolo monumento rimase incompiuto e, fra l'altro, non pagato all'artigiano scalpellino autore dello stesso; la lunga discussione che ne seguì fra l'autorità locale e quella austriaca, termino con l'ordine tassativo della sua distruzione. “L'erezione di un monumento in un luogo pubblico non può seguire se non dietro il permesso della competente autorità….deve essere dun-que demolito e ne ha l'obbligo chi lo eresse...” scrisse il 23 otto-bre 1866 il Conte Hohenwart. Trent'anni dopo, il 10 ottobre 1896,
"Quando fa galeta i perseghi no fa galeta i cavaleri” (da “Antica saggezza dei nostri nonni” di Umberto Raffaelli-2015 Ed. Programma)
Storie e Storia
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Continua da pag. 2
ter sono monumenti insuperati della cartografia delle Dolomiti. Il sistema delle curve di livello è estremamente preciso; grade-voli i colori, sul rosa pastello e grigio; i rilievi sono disegnati non solo con la precisione dello studioso, ma anche con la cu-riosità dell’alpinista e la passio-ne del naturalista, testimoniate anche dai disegni preparatori dal vero. Dai rilievi eseguiti Aegerter ricavò una serie di plastici per il Museo Alpino di Monaco, che andarono in buo-na parte distrutti nella seconda guerra mondiale. Il plastico del Brenta, donato dall’autore al geologo trentino Giovanni Battista Trener, è conservato al Museo di Scienze Naturali di Trento (attuale Muse).
in sostituzione della lapide
garibaldina contestata, fu eretto dall'amministrazione austroungarica il monumento tuttora esi-stente a Bezzecca sul Colle di Santo Stefano, monumento scolpito dall'I.R. Scuola Professiona-le di Trento con la doppia iscrizione in tedesco e in italiano: “DEN IM GEFECHTE VOM21 JULI 1866 GEFALLENEN OESTERREICHISCHEN UND ITALIENISCHEN KRIEGERN” “ALLA MEMORIA DEI GUERRIERI AUSTRIACI ED ITALIANI CADUTI NEL FATTO D'ARMI 21 LUGLIO 1866” Dopo la prima guerra mondiale, la vicenda ebbe successivi sviluppi e la stele garibaldina ritor-nò sul colle nel 1919 assieme a quella austroungarica. E' indubbiamente curioso che a distanza di quasi centocinquant'anni si propongono quasi le stesse discussioni: gli Schützen attuali sem-brano, infatti, interpretare, a riferimenti invertiti, la parte dei Garibaldini mentre l'Austria di al-lora sembra aver dimostrato molto maggior equilibrio nell'interpretare la sensibilità dell'intera popolazione. Ogni espressione di pensiero è indubbiamente legittima, ma ricordando le parole di Bertolt Brecht che titolano la stessa esposizione del MART sulla guerra: “La guerra che ver-rà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vin-ti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.” Vien da pensare che, qualora ve ne fosse bisogno, i monumenti dovrebbero esse-re fatti a tutta la povera gente, soldati e non, italiana e austroungarica. Bruno Santoni Da “Strenna Trentina 2016”
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Sopra: Carta topografica del XVIII° secolo sotto: il monumento sul colle S.Stefano
Dalla nostra biblioteca
FRÊNEY 1961, di Marco Albino Ferrari
Premessa
Alla fine, dopo mesi di attesa, la telefonata di con-
ferma arrivò. L’appuntamento veniva fissato per un
giorno dell’imminente autunno, alle 11.30 in punto,
nel palazzo della Commission des Lois, a Parigi. “Si
prega la cravatta” concludeva la voce. Quando la
porta dell’ufficio si aprì, lo vidi in fondo alla grande
sala affrescata. Il Presidente della Commission des
Lois (la Corte Costituzionale Francese) era immerso
nel suo lavoro alla scrivania. Entrai e mi avvicinai
lentamente. “Si accomodi” ordinò Pierre Mazeaud
senza neppure alzare lo sguardo dalle sue carte.
“Mi chiamo….” Iniziai, “sono qui per….” Avrei biso-
gno che mi raccontasse del Pilone Centrale del
Frêney…”. Cercavo di misurare le parole ripetendo il
discorso imparato a memoria davanti allo specchio.
Fin quando lo vidi alzare la mano per fermarmi. “Lei
aveva quindici minuti, ora gliene rimangono tredici.
Se vuole consumare il suo tempo così faccia pure…
Altrimenti lasci parlare me” disse con voce risoluta.
Mi zittii.
Pierre Mazeaud, il compagno di Bonatti durante i
fatti tragici del luglio 1961, iniziò il racconto. Partì
pacato, un po’ distratto. Ma già dopo poco il tono e
l’intensità del suo discorso iniziarono a farsi più
decisi. Era chiaro che in lui stava scattando qualco-
sa. Iniziò a gesticolare e a indicare in alto immagi-
nando la Chandelle del Pilone nella tempesta.
Mazeaud sembrava un fiume in piena. Poi prese la
cornetta del telefono e sottovoce ordinò di annulla-
re gli appuntamenti successivi. Parlò, parlò a lungo
quella mattina. Lo vidi piangere, ricordarsi i suoi
compagni morti: Vieille, Guillaume e l’amico Kohl-
mann. A un certo punto prese un foglio intestato
della Commission des Lois (che conservo come una
reliquia) e disegnò nel dettaglio la dinamica dell’ini-
zio della bufera, quando il fulmine li aveva colpiti e
la storia era cominciata. Lo salutai dopo un paio
d’ore. E mi ritrovai da solo nell’immensità di Parigi,
con quella voce, con quelle parole che non avrei più
dimenticato.
Erano i primi anni Novanta, e adesso, due decenni
dopo, mi ricordo ancora dei pensieri che si accaval-
lavano mentre vagavo senza meta per le strade
affollate di Parigi. Mi persi, rimuginando sulla storia
che avevo appena udito. E ripensavo anche a quella
montagna magnifica, rossa di granito luccicante, il
Pilone Centrale del Frêney, che avevo salito l’anno
prima. Mi ricordavo che quando ero passato nel
punto del bivacco dei sette alpinisti sotto la Chan-
delle avevo sentito un brivido lungo la schiena: lì si
era consumata la tragedia più impensabile e beffar-
da dell’intera storia dell’alpinismo: gli italiani, gui-
dati dal più forte alpinista del mondo, avevano in-
contrato una cordata di francesi che era diventata
l’altro filo di un cortocircuito. Mi ricordavo le
quattro successive lunghezze di corda, i passaggi
chiave della via vissuti con il mio compagno di allo-
ra, Marco Villa, l’uscita in cima al Pilone al tramon-
to, e i passi nel ghiaccio sulla calotta sommitale del
Bianco sotto il cielo ormai pieno di stelle.
Quel pomeriggio, vagando per ore prima di ripren-
dere il treno che alla sera partiva per l’Italia, avevo
capito: dovevo provare a scrivere la storia della
tragedia del Pilone. Il mio lavoro di redattore alla
rivista Alp mi lasciava qualche spazio e così avrei
potuto almeno arrischiare un tentativo. Iniziai ad
accumulare documenti, vecchi giornali e interviste
dei testimoni oculari, alle guide alpine, ai soccorri-
tori, alla gente di Courmayeur, ai familiari dei prota-
gonisti, ai giornalisti che trent’anni prima si erano
dedicati al caso. Passai molto tempo a parlare con
Walter Bonatti. Fui ospite per più giorni nella casa
di Dubino: lui e la sua compagna Rossana Podestà
mi avevano preparato una comoda sistemazione
per la notte.
La primissima edizione del libro uscì nel giugno del
1996. Bonatti, ricevuta la prima copia, mi scrisse
che approvava il risultato, ma che avrei
“assolutamente” dovuto apportare alcune correzio-
ni sulla prima ristampa: la “tenda” di cui avevo
scritto doveva essere sostituita con la dicitura più
corretta “sacco-tenda”. E aggiungeva qualche altro
irrinunciabile ritocco. Già dopo poche settimane ci
fu la prima ristampa. Il libro ebbe poi decine di ri-
stampe e venne pubblicato nel 2009 da Corbaccio.
Negli anni, il rapporto con Walter Bonatti, fitto fitto
prima dell’uscita del libro, si allentò: e ci perdemmo
di vista. Nel 2002 accettò di scrivere un articolo sul
tagne, nel quale esprimeva la sua indignazione per la riapertura del
Tunnel del Monte Bianco, e invitava a manifestare
fermo rifiuto, a fare insomma barriera civile
rivista a dar voce alle sue opinioni, sempre nette e decise. Morì il 13
settembre 2011, dopo una fulminante malattia.
Ripenso a tutto quanto con un po
riche per la nuova edizione del libro. Ripenso a Walter Bonatti, e lo ve-
do nei colori sbiaditi del Kodachrome, nel bianco e nero di un tempo
che non è il mio tempo
montagne non erano assediate dal turismo e serbavano ancora spazio
per nuove esplorazioni. Si sa, la nostalgia porta a rifugiarsi nell
nazione; e pensando a Bonatti immagino la montagna in un tempo più
ricco di ideali, più ingenuo, più incantato, che continua a farmi sognare.
A volte, d
Courmayeur si risale la strada che porta ad Entrèves, può capitare di
fermarsi a osservare la cima del Monte Bianco. Da est, i raggi del sole
illuminano la complessa bastionata superiore. E
sale di granito rosso: un caos di seracchi, di pareti, di creste, di pilastri
divisi tra loro da sottili strisce di ghiaccio azzurro e bianco. Là in mezzo,
tra rocce e neve, nel punto culminante dell
pilastro dalla forma davvero particolare, è il Pilone Centrale del Frêney.
Dritto come una candela e leggermente inclinato verso il vuoto. Non
tutti però riescono a vederlo: è, si, il pilastro più imponente, più im-
pressionante e lineare dell
Le dimensioni, il gioco delle ombre e le prospettive distorte delle alte
quote lo nascondono agli occhi di molti.
Quando il Pilone era entrato tra gli obbiettivi dell
giovani vivevano sulla prospettiva di un futuro carico di promesse. In
Italia si sentivano gli effetti del
in cambiamento, un mondo miracoloso e nevrotico: nelle case entrava-
no le lavastoviglie, gli oggetti di plastica, i settimanali e le schedine del
Totocalcio. Ma in quel mondo schizofrenico c
prima) aveva condannato alla residenza coatta Giulia Locatelli, la
“Dama Bianca
dell
Nord, le casalinghe leggevano le prime riviste femminili col mito della
“donna moderna
davano migliaia e migliaia di cartoline alla Rai perché, nell
televisivo, alle 18 di ogni giorno venisse recitato il Rosario. La televisio-
ne, nata nel 1954, entrava nelle case e nei bar ed era portavoce di un
talietta perbene e moralista. I giornali, in pochi anni, aumentarono vor-
ticosamente le tirature: era il trionfo della cronaca, della cronaca nera,
di quella rosa, del gusto per lo scandalo, dei titoli sbraitati. La
con le grandi fotografie e i titoloni, appassionava le masse e riempiva
grossi spazi nei quotidiani, appassionava le masse e riempiva grossi
spazi nei quotidiani, soprattutto quelli del pomeriggio e nei giornali
radio che detenevano il primato di ascolto e di rapidità nel dare infor-
mazione. L
chio di registrazione Nagra
e lì messo in scaletta per il primo radiogiornale. In quei giorni del luglio
1961, la radio, i giornali e la televisione dedicheranno amplissimi spazi
alla cronaca della tragedia del Monte Bianco: La Stampa di Torino riem-
pirà tutta la prima, la seconda e la terza pagina con gli articoli e le foto-
grafie del dramma.
Sono anni di nuovo benessere, nascono nuovi divi, nuovi miti, nuovi
modelli da imitare. E
zare i suoi sogni: ed è proprio in questo mondo onirico che Walter Bo-
tagne, nel quale esprimeva la sua indignazione per la riapertura del
Tunnel del Monte Bianco, e invitava a manifestare “un corretto ma
fermo rifiuto, a fare insomma barriera civile”. Poi tornò rare volte sulla
rivista a dar voce alle sue opinioni, sempre nette e decise. Morì il 13
settembre 2011, dopo una fulminante malattia.
Ripenso a tutto quanto con un po’ di nostalgia mentre scrivo queste
riche per la nuova edizione del libro. Ripenso a Walter Bonatti, e lo ve-
do nei colori sbiaditi del Kodachrome, nel bianco e nero di un tempo
che non è il mio tempo – gli anni Cinquanta e Sessanta – quando le
montagne non erano assediate dal turismo e serbavano ancora spazio
per nuove esplorazioni. Si sa, la nostalgia porta a rifugiarsi nell’immagi-
nazione; e pensando a Bonatti immagino la montagna in un tempo più
ricco di ideali, più ingenuo, più incantato, che continua a farmi sognare.
A volte, d’estate, in certe fortunate mattine senza nuvole, quando da
Courmayeur si risale la strada che porta ad Entrèves, può capitare di
fermarsi a osservare la cima del Monte Bianco. Da est, i raggi del sole
illuminano la complessa bastionata superiore. E’ una cattedrale colos-
sale di granito rosso: un caos di seracchi, di pareti, di creste, di pilastri
divisi tra loro da sottili strisce di ghiaccio azzurro e bianco. Là in mezzo,
tra rocce e neve, nel punto culminante dell’intera montagna spunta un
pilastro dalla forma davvero particolare, è il Pilone Centrale del Frêney.
Dritto come una candela e leggermente inclinato verso il vuoto. Non
tutti però riescono a vederlo: è, si, il pilastro più imponente, più im-
pressionante e lineare dell’intero versante, però è difficile da vedere.
Le dimensioni, il gioco delle ombre e le prospettive distorte delle alte
quote lo nascondono agli occhi di molti.
Quando il Pilone era entrato tra gli obbiettivi dell’alpinismo di punta, i
giovani vivevano sulla prospettiva di un futuro carico di promesse. In
Italia si sentivano gli effetti del “boom economico”, si viveva un mondo
in cambiamento, un mondo miracoloso e nevrotico: nelle case entrava-
no le lavastoviglie, gli oggetti di plastica, i settimanali e le schedine del
Totocalcio. Ma in quel mondo schizofrenico c’era chi (qualche anno
prima) aveva condannato alla residenza coatta Giulia Locatelli, la
“Dama Bianca”, colpevole di adulterio con Fausto Coppi. Nei termitai
dell’edilizia popolare, sorti come funghi nelle periferie delle città del
Nord, le casalinghe leggevano le prime riviste femminili col mito della
“donna moderna”: tutta casa, elettrodomestici e figli. E i cattolici man-
davano migliaia e migliaia di cartoline alla Rai perché, nell’unico canale
televisivo, alle 18 di ogni giorno venisse recitato il Rosario. La televisio-
ne, nata nel 1954, entrava nelle case e nei bar ed era portavoce di un’I-
talietta perbene e moralista. I giornali, in pochi anni, aumentarono vor-
ticosamente le tirature: era il trionfo della cronaca, della cronaca nera,
di quella rosa, del gusto per lo scandalo, dei titoli sbraitati. La “nera”,
con le grandi fotografie e i titoloni, appassionava le masse e riempiva
grossi spazi nei quotidiani, appassionava le masse e riempiva grossi
spazi nei quotidiani, soprattutto quelli del pomeriggio e nei giornali
radio che detenevano il primato di ascolto e di rapidità nel dare infor-
mazione. L’inviato componeva il suo pezzo (sul modernissimo apparec-
chio di registrazione Nagra-Kudelski) che poi veniva trasmesso a Roma
e lì messo in scaletta per il primo radiogiornale. In quei giorni del luglio
1961, la radio, i giornali e la televisione dedicheranno amplissimi spazi
alla cronaca della tragedia del Monte Bianco: La Stampa di Torino riem-
pirà tutta la prima, la seconda e la terza pagina con gli articoli e le foto-
grafie del dramma.
Sono anni di nuovo benessere, nascono nuovi divi, nuovi miti, nuovi
modelli da imitare. E’ un’Italia che ha bisogno di nuovi eroi per cataliz-
zare i suoi sogni: ed è proprio in questo mondo onirico che Walter Bo-
nando l’ideale positivo di un’inte-
ra epoca. L’uomo che conquista
spazi ancora sconosciuti, che sale
verso l’alto toccando cime mai
toccate in tutte le parti del mon-
do. L’uomo che contribuisce a
riscattare l’immagine dell’italiano
medio, ancora oppressa dall’ere-
dità della guerra e delle tragedie
del fascismo.
L’alpinismo ha un consenso socia-
le altissimo. Walter Bonatti è tra
gli uomini più invidiati. I suoi oc-
chi vedono cose che nessuno può
vedere. Gli alpinisti non sono dei
pazzi: Walter Bonatti non è un
pazzo, è un sognatore e fa sognare la gente. Quando rimane appeso
per sei giorni filati sui seicento metri strapiombanti di un picco di grani-
to sopra Chamonix, la gente sogna. Quando attraversa tutte le Alpi con
gli sci in sessanta giorni, riposandosi solo sei e avanzando nella tempe-
sta per ventitrè, la gente sogna.
Già negli anni Cinquanta, le cime delle Alpi erano state in gran parte
salite anche dai versanti più difficili: l’alpinismo cercava obiettivi diversi,
pilastri più remoti dall’accesso difficile, linee logiche ma nascoste e ri-
maste ancora territorio vergine. Il Pilone Centrale del Frêney era un
simbolo di questo alpinismo, una sfida formidabile, un pilastro dalla
struttura rettilinea, elegante. Era l’ultimo grande problema delle Alpi.
Negli ultimi otto anni avevo respinto diversi tentativi (compreso uno di
Bonatti), e la sua scalata avrebbe simboleggiato il compimento di un’e-
poca. I francesi, gli svizzeri, gli italiani, i tedeschi, gli inglesi, i polacchi,
gli americani, tutti volevano salire per primi il formidabile pilastro. Qui
di seguito si racconta di quelle pagine di storia che sconvolsero l’opinio-
ne pubblica, ma che fecero anche capire un po’ meglio – a dispetto del
pessimo lavoro dei giornalisti, eccetto quello di Andrea Boscione della
Radio Rai – lo spirito di quell’attività chiamata alpinismo.
Molti oggi a Courmayeur hanno ancora il ricordo del dramma di quei
giorni del luglio del 1961, ma pochi sanno spiegarsi il vero motivo che
portò alcuni uomini, i più forti alpinisti dell’epoca, a tendere la mano
alla morte in modo tanto assurdo. Questo libro narra la storia di un’im-
possibile follia, diventata uno dei fatti di cronaca più clamorosi di quegli
anni. E’ una storia di destini incrociati, un momento simbolico che rac-
chiude lo spirito di una grande epopea umana.
Proposte di cammino...
In collaborazione con “Itinerari e
Luoghi” una proposta per la visita (a
piedi) di un luogo particolare. Questo
mese due montagne che hanno
sempre avuto, e tuttora hanno, il
fascino discreto della leggenda.
CIVETTA E MARMOLADA
Scialpinistica Cima di Terento (2378 m.)
12 marzo
Itinerario poco frequentato e selvaggio sopra la Val di
Fundres. Si parte da Fundres e si sale nel vallone del Rio
Semanza fino alla Malga Pietrabianca (1768 m.), si con-
tinua nel bosco e poi in campo aperto sotto la cima di
Terento sino ad una sella a quota 1612 m. Da qui si
scende verso sud per 100 m. e si costeggia la cresta est
fino alla cima. Discesa: per l’itinerario di salita
Partenza: Loc. Fundres
Dislivello in salita: 1680 m.
Tempo complessivo: 5-6 ore
Difficoltà: BS
6
"Sul tompestà no val benedizion” (da “Antica saggezza dei nostri nonni” di Umberto Raffaelli-2015 Ed. Programma)
13 marzo
Comoda, facile e frequentata escursione invernale, aperta
anche agli scialpinisti nella prima valle a sx. del Passo del
Brennero in Austria, la Obernbergtal. La meta è la Cima
Sattelberg, situata sul confine italo-austriaco. Presso la
Malga Sattelberg (1600 m. un po’ discosta dall’itinerario)
vi è la possibilità di consumare un pasto caldo. Rientro sul-
lo stesso itinerario di salita, mentre gli scialpinisti possono
scendere su una ex pista dismessa.
Partenza: Passo del Brennero (1370 m.) Dislivello salita: 900 m. circa
Tempo complessivo: 4-5 ore circa Difficolta: EAI F
Mi padre me diceva
Mi’ padre me diceva: fa attenzione
a chi chiacchiera troppo; a chi pro-
mette
a chi dopo èsse entrato, fa:
“permette?”;
a chi arribarta spesso l’opinione
e a quello, co’ la testa da cojone,
che nu’ la cambia mai; a chi scom-
mette;
a chi le mano nu’ le strigne strette;
a quello che pìa ar volo ogni occa-
sione
pe’ di’ de sì e offrisse come
amico;
a chi te dice sempre “so’
d’accordo”;
a chi s’atteggia come er più
ber fico;
a chi parla e se move sotto-
traccia;
ma soprattutto a quello – er
più balordo –
che quanno parla, nun te guarda in
faccia.
Aldo Fabrizi ( 1905-1990)
7
Ciaspolata alla Cima Sattelberg (2113 m.)
Angolo della Poesia
Dal Lago di Carezza a Obereggen
Dal parcheggio del Lago di Carezza (1525) si scende per 350 m.
lungo la strada in direzione di Bolzano fino a incrociare una seconda
strada forestale sulla sinistra (indic. Geigerhof, segnavia 8). Questa
via, chiamata anche “Templweg”, si addentra nel solitario bosco
invernale ai piedi del leggendario Latemar offrendo continui e sug-
gestivi colpi d’occhio sulle torri dolomitiche: la Foresta di Carezza/
Karerforst costituisce uno dei boschi più belli e meglio conservati di
tutto l’Alto Adige. In neanche un’ora su strada forestale prevalente-
mente pianeggiante si giunge ai prati della Kölbistall (1487). Sem-
pre sul n°8, dopo 10’ di moderata salita si perviene a un’altura,
quindi per prati in direzione sudovest al Bewallerhof (1500 no bar
rist.). a questo punto si imbocca il sentiero n°9 a fianco della strada
carrozzabile, seguendolo fino alla Sella di Obereggen/Obereggen
Sattel. Poco più di 200 m. separano ora dal trambusto dell’area
sciistica di Obereggen (1550), dotata di impianti di risalita, alberghi
e vari punti di ristoro. Chi avesse raggiunto in autocorriera il punto
di partenza del Lago di Carezza, può rientrare da Obereggen a Bol-
zano sempre con i mezzi pubblici. Altrimenti ritorno al parcheggio
sulla via dell’andata.
Tempo 2.30’ ore totale Dislivello quasi nullo Diff. Facile
Proposte di Stagione—Ciaspole
Da “Escursioni con le Ciaspole in Dolo-miti” (Stimpfl-Oberrauch)
8
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I nostri Sponsor
Importante: Il Trofeo Caduti della Montagna, inizialmente previsto per il 28 febbraio si svolgerà il 6
marzo a Campo Carlo Magno. Iscrizioni in sede possibilmente entro la settimana entrante.