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longevità, vecchiaia, salute neodemos a cura di Silvana Salvini

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longevità,vecchiaia,

salute

neodemos

a cura di Silvana Salvini

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ISBN 978-88-941008-8-4

Realizzazione grafica Caterina Livi Bacci, Giovanni Mattioli

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Longevità, vecchiaia,

salute

A cura di Silvana Salvini

Associazione Neodemos 2015

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con il contributo di

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Indice

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Silvana SalviniLongevità, vecchiaia e salute ................................................................................7

I Demografia, sopravvivenza, salute ....................................................................12

Massimo Livi BacciVivere a lungo, ma quanto a lungo? ..................................................................14Steve S. MorganEbola, la tragedia dell’arretratezza ...................................................................20Elena PiraniUomini e donne, diversi alla nascita. Una questione ancora irrisolta. ...........24di Gavino MacioccoLe conseguenze dell’obesità sulla salute della popolazione .............................30Massimo Livi BacciLa differenza di genere nella longevità: si attenua il vantaggio delle donne ......34Massimo Livi BacciLongevità: non tutto è progresso .......................................................................39

II Sistemi sanitari e servizi alla salute ...................................................................42

Alessio CangianoLavoratori immigrati nella cura degli anziani: un fenomeno non solo italiano ...........................................................................44Redazione NeodemosÈ sostenibile il Sistema Sanitario Nazionale? .................................................48Caterina Francesca Guidi e Laura BartoliniAssistenza sanitaria in Italia: l’immigrazione indispensabile .........................50Gustavo De SantisDecisioni mediche sulla fine della vita. In Francia. ..........................................55Gustavo De SantisFMI: vivere più a lungo? Dio non voglia! ........................................................59

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Indice

IIICondizione di vita e di salute degli anziani .......................................................63

Valeria BordoneChi ben comincia… non sempre è a metà dell’opera ......................................65Gustavo De SantisInvecchiamento (c)attivo ....................................................................................69Francesco Acciai, M.Letizia Tanturri e Daniele VignoliCasa dolce casa: la proprietà dell’abitazione tra gli europei over 50 .............74Mauro TibaldiInvecchiamento attivo e transizione verso la pensione ....................................79Cecilia Reynaud, Sara Miccoli, Sara BassoStiamo perdendo la “sfida dell’invecchiamento”? ...........................................83Diego Vezzuto Ageing e disuguaglianze: tappe di transizione all’età anziana .......................87

IVLe disuguaglianze ...............................................................................................92

Elena PiraniIl lavoro precario fa male alla salute? ...............................................................94Michele BelloniLa mortalità differenziale per reddito fra gli anziani in Italia: 1980-2000 ...99Virginia ZarulliDisuguaglianze socioeconomiche di mortalità in Italia: una stima difficile ......103Redazione NeodemosSalute, mortalità e ambiente: il caso dell’ILVA di Taranto ...........................108Francesco Acciai, Aggie J. Noah, and Glenn FirebaughBlack-White Mortality Differentials in the United States ...................................112

VNonni e rapporti intergenerazionali ................................................................ 118

Emiliano MandroneRoma, 23 Febbraio 2105, Liceo “Lorenzo Cherubini” ..................................120Jessica Zamberletti, Cecilia Tomassini e Giulia CavriniQuando mamma e papà lavorano ... ci sono i nonni ......................................128Bruno Arpino e Chiara PronzatoNonni e nipoti: una relazione benefica per entrambi (a parole) ...................133

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Longevità, vecchiaia, salute

Longevità, vecchiaia e salute

Silvana Salvini1

Il mondo si trova sulla soglia di una trasformazione demografica senza precedenti in tema di invecchiamento della popolazione. Le cause si

sostanziano nel fortissimo declino della natalità e nell’aumento altrettanto sostenuto della sopravvivenza anche alle età anziane. Tra il 1887 e il 2014 in Italia, infatti, la durata media della vita (o speranza di vita alla nascita) è passata da 36 a 80 anni per gli uomini e da 36 a 85 anni per le donne, con un aumento di 44 e 49 anni, rispettivamente, in entrambi i casi più di 4 mesi all’anno. Il nostro paese ha valori della speranza di vita tra i più alti d’Europa, superiori anche a quelli di paesi più ricchi del nostro, o nei quali la crisi economica ha avuto un impatto minore.

I differenziali di genere, un argomento ricorrente negli articoli di Ne-odemos, sono andati progressivamente aumentando fino al 1980 (quasi 7 anni di vantaggio per le donne, all’epoca) ma riducendosi oggi (2014) a meno di 5 perché gli uomini hanno da allora beneficiato di progressi più marcati. Sotto il profilo geografico, per le donne si osserva una sostanzia-le stabilità delle differenze territoriali che, invece, sono leggermene au-mentate per gli uomini in conseguenza del più lento miglioramento della sopravvivenza tra gli uomini del Mezzogiorno rispetto al resto del paese.

Secondo le previsioni dell’Istat, sempre molto prudenti, a metà di que-sto secolo, la speranza di vita potrebbe arrivare a 85 anni per gli uomini e a 90 per le donne. Visti in termini di probabilità di sopravvivenza, i pro-gressi sono ancora più impressionanti: alla fine dell’ottocento meno di 1 persona su 3 arrivava al 65esimo compleanno; oggi questo vale per 9 per-sone su 10 e circa la metà arriva all’80esimo compleanno. Entro la metà del secolo, il 25 per cento della popolazione del mondo sviluppato avrà un età superiore a 65 anni, e questo è solo il valore medio mondiale: in alcuni paesi europei il processo di invecchiamento già avanzato potrebbe portare la quota degli ultrasessantacinquenni al 35 per cento con una punta del 40 per cento in Giappone.

Il mondo emergente, nel suo complesso, è ancora molto giovane, anche se sta invecchiando. Entro il 2040, le popolazioni del Brasile e del Messi-

1 Università di Firenze

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co avranno un struttura per età simile a quella degli Stati Uniti, e la Cina avrà una quota di anziani molto elevata, come conseguenza della rapidis-sima caduta della fecondità. Nel frattempo, la Corea del Sud sarà in lizza con la Germania, il Giappone e l’Italia per il titolo di paese con la maggior quota di anziani del mondo.

Diversamente dalla maggior parte delle previsioni a lungo termine, ca-ratterizzate da un alto livello di incertezza, la previsione del numero di anziani è assai più affidabile: si tratta infatti di persone già presenti nella popolazione la cui sopravvivenza può essere stimata con relativa sicurez-za, stante la buona stabilità delle tendenze – al netto di eventi disastrosi o catastrofici sempre possibili ma di norma esclusi negli esercizi esplorativi del futuro.

In realtà alcuni problemi potrebbero sorgere dalle cosiddette ma-lattie infettive emergenti e da quelle, date per scomparse, riemergenti. Con la locuzione emerging infectious diseases, un rapporto dello sta-tunitense Institute of Medicine of the National Academies (2003) ha definito le patologie infettive la cui incidenza è andata aumentando, nell’ultimo ventennio del 20° secolo, non solo in aree circoscritte ma anche a livello globale. A livello planetario, solo l’AIDS ha avuto l’ef-fetto di fare arretrare sensibilmente la sopravvivenza in vaste aree del mondo (l’Africa Sub-Sahariana), mentre altre pandemie hanno avuto effetti in aree circoscritte come è avvenuto per la recentissima epide-mia del virus Ebola nell’Africa occidentale. Problematiche irrisolte so-no poi rappresentate dalle disuguaglianze esistenti fra il Nord e il Sud del mondo, oltre che fra Europa occidentale e Europa orientale, dove i paesi dell’ex-Unione Sovietica hanno sperimentato un calo nettissimo di speranza di vita dopo il crollo del sistema e il recupero successivo è ancora lontano dall’aver colmato le distanze.

La maggior parte delle conseguenze dirette dell’invecchiamento so-no altrettanto certe delle previsioni della popolazione anziana. I bilanci pubblici verranno messi sotto forte pressione dalle crescenti spese per le pensioni e per l’assistenza sanitaria. La forza lavoro ristagnerà o arre-trerà, con probabili effetti negativi sugli investimenti e sulla crescita eco-nomica. Le imprese dovranno far fronte a un deficit di giovani lavoratori, mentre le famiglie dovranno fare i conti con un surplus di anziani fragili. Malgrado queste evidenze, è possibile fronteggiare l’invecchiamento globale. Con buone politiche, i costi possono essere ridotti e molte sfide superate. La pressione fiscale dell’invecchiamento può essere contenu-

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ta da sagge riforme del sistema pensionistico e di quello sanitario. La crescita economica può essere sostenuta migliorando il capitale umano e allungando la vita lavorativa. Infine i processi di invecchiamento posso-no essere contrastati da una ripresa della natalità sostenuta da politiche sociali che permettano alle coppie di realizzare le loro preferenze ripro-duttive, oggi frustrate nei paesi europei da cause non esclusivamente economiche. Analogo effetto di freno all’invecchiamento è quello pro-dotto dall’immigrazione, che va guidata da politiche orientate ad una visione di lungo periodo. Mentre la sfida dell’invecchiamento globale richiederà un’azione concertata su molti fronti, la risposta più importan-te consiste nella promozione di un “’invecchiamento produttivo”, volto a prolungare la vita attiva, socialmente od economicamente impegnata. Gli anziani, a parità di età, sono oggi assai meno afflitti da disabilità, e in condizioni di salute assai migliori, di quanto non lo fossero nei decenni passati, e suscettibili di dispiegare quelle risorse di conoscenza ed espe-rienza troppo spesso riposte in quiescenza.

********

Gli aspetti sopra brevemente descritti, che legano longevità, invecchia-mento e salute, costituiscono il filo rosso di questo volume che racchiude gli articoli sul tema pubblicati da Neodemos negli ultimi anni.

La buona salute (nella Costituzione dell’OMS definita come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”) è in primo luogo la mancanza di patologie. L’evoluzione durante gli ultimi cento anni si può brevemente riassumere nei seguenti mutamenti del quadro nosologico nel mondo occidentale: il tracollo del-le malattie infettive, il contenimento delle malattie cardiovascolari (ma con ripresa delle ischemie), l’aumento delle neoplasie, la scomparsa dei decessi per carenze e disordini alimentari (pur se il diabete persiste e si diffonde), il ritorno di psicosi alcoliche e cirrosi epatiche, il calo delle ano-malie congenite e delle lesioni perinatali, e la stabilità delle morti violente, nonostante l’aumento delle morti per incidenti dovuti al traffico.

All’inizio della svolta farmacologica degli anni ’30 del ‘900, le malat-tie circolatorie causavano il 15-20% delle morti in Europa, le neoplasie il 5-10%. A fine secolo, le due cause coprono insieme il 70% delle morti in Italia. Nell’ultimo quarto di secolo è cresciuta progressivamente l’im-portanza relativa dei tumori, che sono ormai la prima causa di morte. Dal

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1950 in poi, infatti, c’è stato un miglioramento contenuto della mortalità per cancro tra le donne, per quasi tutte le tipologie, mentre i tassi di mor-talità sono cresciuti lievemente per gli uomini.

L’estensione della durata della vita non ha avuto un impatto negativo sulla qualità della vita alle età anziane, come molti temevano. L’inchie-sta periodica dell’Istat ha accertato che durante gli ultimi dodici anni la percentuale di persone che dichiarano di stare male o molto male risulta decrescente per tutte le ripartizioni geografiche, sia pure con livelli molto diversi. Tra il 2005 e il 2012 è migliorata la percezione delle condizioni di salute fisica ma è peggiorata quella relativa allo stato psicologico, soprat-tutto tra i giovani e tra gli adulti.

Per la popolazione anziana le condizioni di salute sono correlate forte-mente con la presenza/assenza di disabilità e le differenze di genere rap-presentano, a questo proposito, un tema di primaria importanza, viste le diversità nel processo di invecchiamento di donne e uomini: le donne, che vivono più a lungo degli uomini, continuano però a essere affette da mag-giori problemi di salute, a tutte le età.

La crisi economica che negli ultimi anni ha corroso il nostro sistema sociale si è abbattuta anche sui consumi sanitari. Tuttavia, secondo l’ulti-ma indagine sulle condizioni di salute svolta dall’ISTAT (2012-2013), la rinuncia a prestazioni sanitarie o all’acquisto di farmaci non ha riguardato le fasce più “vulnerabili” della nostra società: i bambini e gli anziani. Su questo fronte, pare che il sistema sanitario italiano abbia in qualche modo tamponato gli effetti della crisi in termini di salute. Segnali di disagio ven-gono dall’evidente svantaggio del Mezzogiorno.

Il libro, costituito da un insieme di articoli che affrontano i temi qui accennati, consta di cinque sezioni. La prima raccoglie i contributi che in maniera generale riguardano salute e sopravvivenza, con un parti-colare sguardo all’evoluzione della longevità; la seconda si incentra su articoli relativi alle strutture che sovraintendono alla cura della salute, in sostanza ai sistemi sanitari e ai servizi alla salute, ultimamente posti in discussione dalla crisi economica; la terza sezione riguarda la condi-zione di vita e di salute degli anziani mentre la quarta sezione ospita le riflessioni sugli aspetti differenziali della salute. Infine, un’ultima sezio-ne affronta la descrizione dei rapporti fra le generazioni, focalizzandosi sulle relazioni affettive e di cura fra nonni e nipoti. Il panorama offerto è quello di un generale miglioramento delle condizioni di salute espres-se in particolare dall’evoluzione positiva della sopravvivenza, ma non

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si può negare che in questo quadro positivo alberghino zone d’ombra. Preoccupa l’approfondirsi delle disuguaglianze avvenuto all’interno dei paesi ricchi negli ultimi due decenni che si traduce in forti disugua-glianze nell’accesso ai servizi sanitari, nella qualità della nutrizione, negli stili di vita e, infine, nella sopravvivenza. Tutte sollecitazioni che i nostri Autori hanno sollevato e affrontato con rigore ma anche con una esposizione semplice e incisiva.

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I Premessa

Demografia, sopravvivenza, salute

Sembrava che la transizione demografica, e cioè il passaggio da un regi-me demografico caratterizzato da alta fecondità e alta mortalità a uno

con bassi livelli di entrambi, dovesse costituire un percorso irreversibile verso la modernità e il progresso, ma la realtà, in qualche caso, ha delu-so queste aspettativa. Negli anni ’90, dopo il crollo del muro di Berlino, l’Europa dell’Est, in particolare la Russia e alcuni paesi satelliti dell’ex Unione Sovietica, hanno subito una recrudescenza di mortalità e, quasi nello stesso periodo, svariati paesi dell’Africa sub-Sahariana, a comincia-re dal Botswana, hanno visto la speranza di vita diminuire anche di 20 an-ni a causa dell’AIDS. Insomma niente è scontato e la transizione sanitaria sembra percorrere un difficile cammino in molti paesi poveri, rafforzando la contrapposizione fra Nord e Sud del mondo e, in Europa, fra paesi oc-cidentali e orientali.

Gli articoli raccolti in questa sezione spaziano sulle tematiche che ri-guardano salute e longevità, ma si soffermano su aspetti particolari, come il caso del virus Ebola nell’Africa centrale, o il genericidio, che minaccia bambine e donne in alcuni paesi caucasici. Nel primo caso è la situazione di miseria e di arretratezza ambientale che mette in condizione di vulne-rabilità la popolazione di fronte a una virus aggressivo che solo nel ricco occidente (dove i servizi sanitari sono generalmente ottimi e la presenza medica capillare) si può combattere con qualche probabilità di guarigione e che invece nei paesi poveri africani non lascia scampo.

Nel secondo caso sono i fattori culturali dominanti – in sostanza la diffusa preferenza per il figlio maschio – che determinano rapporti fra i sessi alla nascita fortemente distorti a favore dei maschi, come risultato di aborti selettivi, favoriti dalla recente diagnostica prenatale.

L’articolo sulle relazioni fra obesità e salute è una sorta di campanello d’allarme che parte dall’America ma si fa sentire in tutto il mondo, dato che anche nei paesi emergenti obesità e diabete si vanno diffondendo as-sieme al benessere e al mutamento degli stili di vita. Ma sono gli USA che

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più degli altri sembrano, al momento, colpiti, e le conseguenze si avver-tono nel peggioramento della sopravvivenza per alcuni gruppi di popola-zione, in particolare quella meno istruita. L’aumento della longevità che caratterizza la maggior parte delle donne europee qui vive un momento di stasi, anzi di lieve declino, proprio a causa della diffusione dell’obesità, del fumo e dell’assunzione indiscriminata di farmaci: fenomeni diffusi, e quindi difficili da combattere, ma che è ormai impossibile ignorare.

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Vivere a lungo, ma quanto a lungo?

MaSSiMo livi Bacci

Non ebbe una vita “brutale e breve” – tale venne definita da Hobbes la vita umana - Jeanne Calment, agiata negoziante, morta a Arles il 4

agosto 1997. Il fatto, in sé, non sarebbe di grande interesse, se non fosse che Jeanne era nata, sempre ad Arles, il 21 febbraio del 1875 ed è stata la persona che ha vissuto più a lungo al mondo, la cui longevità è inconfuta-bilmente documentata. Centoventidue anni rappresentano una lunga vita, ma si può pensare che resti un fatto eccezionale, dovuto a una coincidenza straordinaria di eventi, con scarsa rilevanza per la società. Le cose, tutta-via, non stanno esattamente così.

AumentA l’età mAssimA Al decesso

In tutti i paesi che hanno sistemi di registro delle nascite affidabili, si nota un fatto assai interessante. Anno dopo anno, pur con oscillazioni dovute al caso, l’età «massima» alla morte (cioè, l’età della persona più vecchia deceduta in ciascun anno) si è spostata in avanti. Ciò è in parte dovuto a un fatto meramente statistico: la platea dei concorrenti è cresciu-ta, un po’ perché molte più persone sopravvivono a 90, 100 o più anni, e un po’ perché le popolazioni sono aumentate di numero. È quindi più facile che il caso, operando invece che su 100 persone, su 1.000, 10.000 o 100.000, determini circostanze eccezionali che innalzano il record. Ma questo fatto suggerisce anche che una durata «limite» della vita umana non può essere identificata, e che l’età massima alla morte si sposta in funzione del miglioramento del grado di salute della popolazione. Il caso della Svezia – con statistiche secolari affidabili e precise – è stato stu-diato con accuratezza: negli anni Sessanta dell’Ottocento, l’età massima al decesso fluttuava, anno dopo anno, attorno a 101 anni; questi valori sono andati gradualmente aumentando, fino a toccare 109 anni (circa 108 per gli uomini e 110 per le donne) all’inizio di questo secolo (Figura 1)1. L’aumento più forte si è toccato negli ultimi tre decenni: l’età massima alla morte si è accresciuta ad una media di circa 1,1 anni ogni decennio; si

1 John Wilmoth, Increase of Human Longevity: Past, Present and Future, The Japanese Journal of Population, Vol. IX, n. 1, Marzo 2011

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potrebbe ipotizzare che – mantenendo questo ritmo –il «tetto» record dei 122 anni eccezionalmente toccato da Jeanne Calment potrebbe diventare l’estremo limite (con un ossimoro: l’estremo «normale» limite) della vita nei paesi ricchi verso la fine di questo secolo.

Figura 1 - Età massima al decesso in Svezia, 1860-2005

esiste un limite biologico AllA durAtA dellA vitA?La massima durata di vita, comunque, riguarda una persona, e non una

parte significativa della collettività, e che essa si innalzi sembrerebbe fatto di poca rilevanza. Ma non è così, perché assieme alla crescita della durata massima della vita, si verifica anche un aumento molto forte dei sopravvi-venti a età molto anziane – i 90 o i 100 anni, per esempio. Nella esperienza italiana, fino agli anni ’50 del secolo scorso, di diecimila neonate ne so-pravvivevano meno di dieci all’età di 100 anni; oggi ne sopravvivono 300. In Giappone, attorno al 1950, su diecimila neonate ne sopravvivevano, come in Italia, meno di dieci, oggi ne sopravvivono più di 600. La tavola di mortalità dell’Italia del 2013 indica che più di un terzo delle neonate arriva a compiere 90 anni, ed è nel novantesimo anno che avvengono i decessi più numerosi in una generazione di donne (in Giappone i rispettivi

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valori sono 47% e 92)2. Fino a quando, e con quale gradiente, continuerà ad aumentare la lon-

gevità? Se appare prossima, per le donne, una durata media della vita di 90 anni (gli uomini restano qualche anno indietro, ma anche loro hanno progredito di buon passo), cosa dobbiamo attenderci per il resto del seco-lo? Molti studiosi si sono impegnati nell’indagare quale possa essere la speranza di vita media “limite” per una popolazione non selezionata, una nozione che può servire da guida per formulare possibili scenari futuri. Ma i limiti estremi individuati sono stati via via superati nella realtà a poca distanza di tempo: Per Dublin, nel 1928, il limite era di 65 anni (già supe-rato all’epoca dalla Nuova Zelanda); Bourgeois Pichat, nel 1951, poneva i limiti a 76 per gli uomini e 78 per le donne (raggiunti in Italia nel 1999 dai primi e nel 1982 dalle seconde); per Olshansky (1990) il limite si poneva a 85 anni (raggiunto dalle donne italiane nel 2013 e da quelle giapponesi nel 2002)3.

continuA il declino dellA mortAlità Alle età molto AnziAne. Esistono seri studiosi che ritengono che le conoscenze genetiche, bio-

logiche, mediche e farmacologiche, permetteranno in futuro di arriva-re a durate di vita oggi impensabili (del resto, mezzo secolo fa, nessuno avrebbe ritenuti possibili i livelli oggi raggiunti). Del resto se si osservano i tassi di mortalità alle varie età anziane, troviamo che questi sono andati diminuendo nel tempo, fino ad oggi. La Figura 2 riporta l’andamento dei tassi di mortalità maschili e femminili a 80-84 e 90-94 anni e, per le sole donne, 100-104 anni, tra il 1950 e il 2012: nel corso del sessantennio i tas-si si sono ridotti tra la metà ed un terzo. Si tratta di andamenti discendenti rettilinei, e non ci sono (per ora) indizi di un rallentamento della discesa. La speranza di vita a 90 anni, nella media dei paesi con più alta sopravvi-venza (Giappone, Francia, Italia, Spagna, Svezia), era pari a 2,8 anni per gli uomini e a 3,2 per le donne nel 1950-54; trent’anni dopo, nel 1980-84, era cresciuta a 3,3 e 3,8, e nel 2012-13 era pari 4,0 e 4,9, con un aumento del 50% circa rispetto al dopoguerra.

2 La fonte migliore di dati omogenei comparativi sulla mortalità è lo Human Mortality Database, disponibile in rete all’indirizzo http://www.mortality.org/, oltre alla base dati delle Nazioni Unite, all’indirizzo http://esa.un.org/wpp/Excel-Data/mortality.htm. dati per l’Italia sono disponibili anche nel sito dell’Istat, all’indirizzo http://demo.istat.it/unitav2012/index.html?lingua=ita, 3 J. Oeppen e J. Vaupel, “Broken Limits for Life Expectancy”, Science, 10 May 2002, Vol. 296, n. 5570

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Longevità, vecchiaia, salute

Figura 2 - Tassi di mortalità alle età di 80-84, 90-94 e 100-104 per donne e uomini, Italia, dal 1950-54 al 2005-09

0

0,1

0,2

0,3

0,4

0,5

0,6

1955-59 1960-64 1965-69 1970-74 1975-79 1980-84 1985-89 1990-94 1995-99 2000-04 2005-09

Donne 100-104

Uomini 90-94

Donne 90-94

Uomini 80-84

Donne 80-84

teorie sullA longevità

Semplificando al massimo linee di pensiero molto complesse, si ritie-ne che le principali malattie che conducono alla morte siano strettamente dipendenti da fattori di rischio che possono essere modificati, ridotti o addirittura eliminati cosicché – con modi di vita adeguati e una disponi-bilità ottima di conoscenze, tecnologie, farmaci e servizi medici – i pro-gressi possano continuare a lungo. Una speranza di vita di 100 anni (o più) potrebbe essere alla portata di molte popolazioni nel corso del secolo. Questa ipotesi sarebbe in linea con la longevità propria di taluni gruppi selezionati, con stili di vita impeccabili sotto il profilo della salute (buona alimentazione, esercizio fisico, niente fumo, poco alcol, accurati controlli medici e ottime cure).

Lasciamo fuori discussione le dichiarazioni dei ciarlatani di turno che vedono a portata di mano una longevità di 120, 150 anni o più, in genere senza fondamento scientifico alcuno.

C’è una linea di pensiero diversa, assai più cauta, e che parte da un ragionamento di natura evoluzionista. La selezione naturale avrebbe ope-

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rato con efficienza per potenziare la riproduzione, affinando le capacità di mantenimento e di riparazione dell’organismo. In contesti favorevoli tutti, o quasi tutti, sopravvivono fino al termine del periodo riproduttivo (in Italia il 98% delle neonate sopravvive fino a 50 anni, contro appena un terzo delle nate all’epoca dell’Unità d’Italia e la metà per le nate nel 1900). Oltre l’età riproduttiva la selezione naturale non avrebbe operato con altrettanta efficienza: come se la Natura non abbia interesse ad evitare il decadimento, la senescenza, la morte. Questa teoria riposa più su un astratto ragionamento che su prove concrete, ma ha una sua logica forza, anche se occorre ricordare che la cooperazione tra generazioni è un fattore importante per sostenere la sopravvivenza di bambini ed adulti. Natural-mente il controllo dei fattori di rischio associati alle varie patologie ha potuto migliorare considerevolmente la sopravvivenza anche alle età an-ziane, rinviando l’insorgere delle malattie proprie della senescenza. Ma nel frattempo malattie nuove o poco frequenti si affermano, e non esisten-do un programma genetico per una vita molto estesa, è da attendersi che la lotta alle malattie della vecchiaia divenga più difficile e con rendimenti decrescenti man mano che la mortalità si abbassa. Chi segue queste linee di ragionamento non esclude ulteriori progressi della longevità, ma ritiene che ci si stia avvicinando ai limiti naturali della vita.

unA posizione prAgmAticA

Un’opinione più pragmatica ritiene che l’aumento della longevità sia avvenuto a causa di una molteplicità di fattori che hanno agito simultanea-mente o in sequenza, nessuno dei quali è stato singolarmente determinan-te, come si evince dal progresso (quasi) lineare e continuo della speranza di vita durante l’ultimo secolo e mezzo nelle popolazioni con maggior benessere. Nemmeno le scoperte biomediche rivoluzionarie, come la con-ferma della teoria microbica delle malattie infettive a fine ‘800, la scoperta di farmaci antibatterici negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso o lo sviluppo di nuove terapie per le malattie cardiovascolari nell’ultimo mezzo secolo, hanno impresso accelerazioni visibili alla longevità. Ed è presumibile che nessuna nuova scoperta “rivoluzionaria” sia capace di farlo nel futuro. Ed è proprio a causa della molteplicità di fattori (alimentazione, stili di vita, risorse economiche e materiali, condizioni ambientali, disponibilità di farmaci, tecnologie, accesso alle cure) della longevità, che gli esperti incaricati di “prevedere” il futuro preferiscono innestare sulle tendenze passate modelli matematici estrapolativi che incorporano fattori frenanti

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man mano che la mortalità decresce. Le proiezioni demografiche delle Nazioni Unite ipotizzano che la speranza di vita alla nascita del Giappone, paese più longevo, passerebbe da 83 anni (maschi e femmine) nel 2013 a 89 nel 2050 e a 94 nel 2100, con incrementi decrescenti.

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Ebola, la tragedia dell’arretratezza

Steve S. Morgan

L’epidemia di Ebola – una tragedia per i paesi colpiti, una grave minac-cia per quelli vicini – ricorda al mondo con le sue orrende immagini

tre verità spesso rimosse. La prima è che nulla è scontato o fisso nel mondo delle patologie: microbi e virus subiscono imprevedibili mutazioni, e la loro complessa interazione con i loro vettori, gli umani e l’ambiente è mutevole ed anch’essa imprevedibile. La seconda è che l’arretratezza è un tremendo brodo di coltura delle nuove patologie; l’ignoranza, la contaminazione, la precarietà del cibo, la densità abitativa e la stretta convivenza con gli anima-li sono fattori che determinano il sorgere o risorgere delle patologie, il loro diffondersi, la loro aggressività. La terza verità è che il mondo, in particolare quello ricco che ne ha i mezzi, dimentica i suoi doveri di “guardiano” della salute pubblica, e le sue sentinelle sono poche e qualche volta addormentate. Così le nuove patologie colgono di sorpresa, e impreparati, i sistemi sanitari preposti a guardia della salute collettiva nei paesi più poveri.

ebolA, nAscitA e diffusione

Il virus Ebola provoca febbre, vomito, diarrea e diffuse emorragie in-terne e se non contrastato determina la morte di quattro ammalati su cin-que. Portatori del virus sono pipistrelli di grandi dimensioni (“volpi volan-ti”) che si nutrono di frutta, e il passaggio agli umani avviene attraverso il contatto diretto con le secrezioni di questi animali; oppure per l’ingestione di carni infette (per esempio, quelle del gorilla). Anche altri animali – go-rilla, scimpanzé, scimmie di altre specie, porcospini e antilopi – vengono contagiati da simili meccanismi. Ma c’è anche un insidiosissimo passag-gio tra umani per contatto diretto (via mucose o ferite superficiali) con le secrezioni (feci, orina, sperma, sangue, saliva) della persona infetta. Que-sto pone a rischio la promiscuità con persone infette (c’è un periodo di in-cubazione che dura tra i 2 e i 21 giorni, prima della comparsa dei sintomi), e rende le operazioni di soccorso e di cura molto pericolose se fatte senza le dovute e complesse precauzioni. Il virus non si trasmette per via aerea.

La prima riconosciuta epidemia di Ebola avvenne in Sudan e nella Re-pubblica Democratica del Congo nel 1976 (431 decessi), ancora nella R.D.

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del Congo nel 1995 (254); in Uganda nel 2000 (224); nella R.D. del Congo, in Congo e in Uganda nel 2007 (308). Tuttavia sono rari gli anni, nell’ultimo quarantennio, nei quali non si siano registrati decessi nella regione.

l’epidemiA più grAve degli ultimi quArAnt’Anni

L’epidemia in corso in Guinea, Liberia e Sierra Leone è di gran lunga la più grave nella storia (quella conosciuta) di Ebola (Figura 1). I casi ac-certati di contagio fino al 10 Ottobre sono stati 8.376, dei quali 4.026, poco meno della metà, conclusi con la morte dell’ammalato. Le vittime sono circa 10 volte più numerose di quelle del 1976, l’epidemia che fino ad og-gi aveva mietuto il numero più alto di decessi. Si tenga tuttavia conto che l’attuale epidemia è in corso; che la curva dei decessi è tuttora in ascesa; e che non viene scartata la possibilità di scenari disastrosi. Va inoltre sotto-lineato il fatto che il lento insorgere dell’epidemia è stato sottovalutato per molti mesi dai governi locali e dalla comunità internazionale, e solo nel giugno scorso hanno cominciato ad attivarsi consistenti flussi di aiuti e ad attivarsi politiche sanitarie volte a circoscrivere l’incendio.

Figura 1

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Quanto all’arretratezza, nelle classifiche del Fondo Monetario in base al reddito pro-capite i tre paesi si pongono (2013) agli ultimi posti, tra poco meno di 200 paesi, con meno di due dollari al giorno a testa. Lo svi-luppo demografico è ancora velocissimo, e la loro popolazione attuale di 21 milioni dovrebbe crescere di due volte e mezzo prima della metà del secolo; la speranza di vita alla nascita è inferiore ai 55 anni (45 in Sierra Leone), e il controllo delle nascite ha fatto, fino ad oggi, scarsissima presa (5 figli per donna in media).

L’impatto sociale ed economico di Ebola sta andando ben oltre gli ef-fetti, pur tragici, delle vittime del virus. Del resto, nei tre paesi, altre pan-demie determinano un numero di decessi incomparabilmente più elevato: trenta volte di più la malaria, quaranta volte di più l’AIDS. Ma Ebola colpisce ed uccide rapidamente, in forma crudele e degradante; genera terrore e panico; è un simbolo di morte e di degenerazione. E determina anche problemi economici, per l’isolamento di intere comunità, l’arresto di traffici e commerci, la chiusura dei paesi confinanti, il costo stesso degli interventi sanitari. La Banca Mondiale si è anche avventurata in calcoli concreti sul possibile impatto economico nei paesi in questione, che nel 2015 dovrebbe valere svariati punti di PIL nell’ipotesi del (possibile) con-tenimento dell’epidemia.

come lA peste, mA non è lA peste

Le modalità di diffusione del virus – attraverso il contatto diretto con i fluidi corporei della persona infetta, ma non per via aerea – rendono re-mota la possibilità che Ebola possa diventare una catastrofe di massa. La similitudine della peste vale solo per l’aspetto simbolico, la rapidità del decorso, le modalità della degenerazione vitale, l’altissima letalità (quat-tro infetti su cinque muoiono se privi di cure). Ma finisce qui: la peste veniva ovunque diffusa dai topi, reservoir del bacillo, e dalle pulci com-pagne assidue della vita quotidiana di uomini e donne del passato. Topi e pulci che si infischiavano di controlli, divieti e isolamenti. Ma il contatto diretto tra malato di Ebola e popolazione sana può essere facilmente evita-to con adeguate misure: l’ammalato può essere isolato (ed eventualmente curato), i suoi contatti possono essere individuati e monitorati e il rischio di diffusione può venire circoscritto e ridotto al minimo. Certo, occorrono efficienti sistemi sanitari, controllo dell’ambiente e capacità organizzative adeguate. Nei paesi poverissimi dell’Africa sub-sahariana i rischi di con-tagio sono molto maggiori per ragioni fin troppo evidenti.

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La ricerca può fare molto e individuare i vaccini, o i farmaci, capaci di prevenire e curare. Ma prima di allora, e in attesa che lo sviluppo sociale ed economico sollevi le popolazioni dal loro degrado, che è la causa prima dell’alta mortalità, occorrerà potenziare, e non disarmare, le sentinelle che sorvegliano ed allertano circa l’insorgere di nuove patologie, e permettano di intervenire rapidamente. Per Ebola si è agito tardi.

Per saperne di piùWHO, Ebola Response Roadmap update, 10 October 2014, http://apps.who.int/iris/bit-stream/10665/136161/1/roadmapupdate10Oct14_eng.pdf?ua=1WHO, Global Alert and Response (GAR), http://www.who.int/csr/disease/ebola/en/

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Uomini e donne, diversi alla nascita. Una questione ancora irrisolta.

di elena Pirani

In condizioni naturali nascono mediamente più maschi che femmine: il rapporto tra i sessi alla nascita è di circa 105 maschi ogni 100 femmine.

Piccole variazioni biologiche tra le popolazioni possono sussistere, ma si tratta di valori intorno a 104-106. Invece, fin dagli anni ’80, in paesi come la Cina, l’India e la Repubblica di Corea si sono osservati profon-di sbilanciamenti tra i sessi alla nascita, ben oltre il livello fisiologico di 105, e il ruolo primario dell’aborto selettivo sulla base del sesso in questa distorsione è stato ampiamente documentato (Attané e Guilmoto 2007, Banister 2004, Miller 2001). A tutt’oggi la Cina rimane uno dei paesi in cui lo squilibrio tra i generi alla nascita è più alto: nonostante un leggero decremento negli ultimi 5 anni, nel 2012 in Cina si registravano ancora 113 nati maschi ogni 100 nate femmine, mentre in India e Vietnam il rap-porto era di 112 a 100. Tuttavia, la mascolinizzazione delle nascite sembra essere oggi un problema di portata globale, con tracce osservate in diverse aree del mondo (Guilmoto e Duthé 2013, UNFPA 2012).

Nei primi anni ’90, valori superiori a 110 hanno cominciato ad essere registrati in Albania e Montenegro, oltre a Kosovo e parte della Macedo-nia, così come in Armenia, Azerbaijan e Georgia (Figura 1). Negli anni 2000, secondo le statistiche ufficiali, i livelli si sono stabilizzati intorno a 115-117 in Azerbaijan; dopo il picco di 120 sembrano essere leggermen-te scesi in Armenia (114 nel 2005); sono intorno a 111 in Georgia dopo forti fluttuazioni (106 nel 2005 contro 115 l’anno successivo). Nel 2010 il numero di nate femmine nell’area del sud est del Caucaso era il 10% più basso di quello che si sarebbe dovuto registrare in condizioni “naturali”.

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Figura 1 – Tendenze nel rapporto tra i sessi alla nascita in Armenia, Azerbaijan, and Georgia, 1985-2010.

Fonte: Elaborazioni dell’autore su dati United Nations (data.un.org/) e World Bank (http://data.worldbank.org/).

genericidio nel cAucAso

Genericidio nel Caucaso è il titolo di un recente articolo dell’Econo-mist (settembre 2013). Genericidio è un termine sempre più spesso uti-lizzato per identificare questa anomalia demografica: esso indica l’ucci-sione sistematica, deliberata e selettiva rispetto al genere, mediante l’in-dividuazione prenatale del sesso e l’aborto selettivo, o a seguito del parto con l’infanticidio o l’abbandono. Questa selezione è talvolta utilizzata per scopi di bilanciamento familiare, ma avviene più spesso come preferenza sistematica per i maschi perché in alcune culture le figlie femmine sono considerate un peso.

In Armenia, Azerbaijan e Georgia l’indicatore del rapporto tra i sessi alla nascita ha cominciato ad aumentare repentinamente e bruscamente dal 1991, in coincidenza con il collasso dell’Unione Sovietica. Le statisti-che sono spesso imperfette in questi paesi, dove la transizione ha prodotto disordini e problemi anche per quanto riguarda gli strumenti amministra-tivi e statistici, ma l’esistenza di squilibri di genere emerge chiaramente, al di là delle incertezze sui dati (Brainerd 2010, Duthé et al. 2011, Meslè et al. 2007).

Il fenomeno è tanto più sorprendente in quanto si è verificato contem-poraneamente in tutti e tre i paesi dell’area Caucasica, in chiaro contrasto con i paesi confinanti. Da un lato, Armenia, Azerbaijan e Georgia hanno caratteristiche comuni, prime tra tutte la vicinanza geografica e la comu-nanza storica legata all’influenza sovietica e alla successiva indipendenza; dall’altro essi presentano ovvie differenze linguistiche, religiose ed etni-che tra le loro popolazioni. D’altra parte, nazioni vicine come la Federa-

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zione Russa, la Turchia o l’Iran, hanno condiviso una lunga storia con i paesi del sud del Caucaso influenzandone fortemente il sistema sociale e politico, ma nessuna di esse mostra significativi allontanamenti dall’usua-le e biologica distribuzione delle nascite per sesso (Duthé et al. 2011).

quAli sono le cAuse? Si possono individuare tre specifiche condizioni per una “moderna”

selezione del sesso (Guilmoto 2009).1) la selezione del sesso deve essere vantaggiosa: la pratica del generi-

cidio è più spesso radicata in culture caratterizzate da una “preferenza per il figlio maschio”, dalla disuguaglianza di genere e da stereotipi contro le figlie femmine. I genitori ricorrono alla selezione del sesso solo quando percepiscono evidenti vantaggi dall’avere figli maschi piuttosto che fem-mine.

2) la selezione del sesso deve essere fattibile: è richiesto l’accesso ad accettabili ed efficienti metodi che alterino la distribuzione casuale e bio-logica del sesso tra i nascituri. L’introduzione di nuove tecnologie ripro-duttive sul finire degli anni ‘70, la diffusione di una contraccezione effica-ce e la liberalizzazione dell’aborto rappresentano pietre miliari di questa evoluzione.

3) la selezione del sesso deve essere necessaria: la riduzione della fe-condità e la tendenza a favore della famiglia poco numerosa aumentano il rischio di non avere figli maschi, in condizioni naturali. La selezione del sesso del nascituro rappresenta una strategia efficace per soddisfare sia limitazioni della fecondità che obiettivi di composizione di genere del nucleo familiare: meno figli, ma almeno un figlio (erede) maschio.

Queste tre condizioni si realizzano simultaneamente nei paesi caucasici dei primi anni ’90 (Guilmoto 2013, Meslé et al. 2007, UNFPA 2012), e an-cora oggi non sembrano essere superate. A dispetto di importanti progressi nell’equità di genere durante il regime sovietico –in particolare in termini di accesso delle donne all’istruzione e al lavoro – l’influenza dei valori tradizionali è rimasta al centro delle attitudini di genere e delle percezioni. La tradizionale famiglia patriarcale e patrilineare è diventata un’istituzio-ne ancora più forte in un periodo caratterizzato da un indebolimento delle istituzioni governative e dei servizi pubblici, e di diffusione del sistema di mercato. I figli maschi sono una fonte di protezione e sostegno, la cui utilità è stata rafforzata dalle incertezze del contesto economico e sociale

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in seguito all’uscita dal comunismo. In quegli anni, la sempre maggiore disponibilità e diffusione delle tec-

nologie di diagnosi prenatali, raramente accessibili sotto il regime, insie-me alla “cultura dell’aborto” ereditata dal periodo sovietico, hanno fornito nuove vie alle coppie per evitare la nascita di femmine non volute. Le nuo-ve tecniche o i farmaci abortivi sono un modo più “efficiente” di selezione del sesso del nascituro, una più “moderna” procedura medica, con costi che diminuiscono nel tempo e una più limitata visibilità sociale, e sono ancora oggi molto diffusi nell’area caucasica.

Infine, i tassi di fecondità hanno subito un rapido tuffo dalla fine degli anni ’80; da una media di 2,5 figli per donna, i tre paesi caucasici sono ora scesi a 1,5 figli per donna, e quindi ben sotto il livello di rimpiazzo. La dimensione media della famiglia è precipitata, e avere gravidanze ripetute non è certamente la soluzione preferita per assicurare la nascita di un figlio maschio. Le famiglie caucasiche sembrano programmare la composizione familiare, non solo la dimensione.

un futuro problemAtico

Il fenomeno degli aborti selettivi non è immune da conseguenze sul piano demografico, sociale ed economico. Sbilanciamenti oggi rilevati in aree della Cina, dell’India e del Sud Est europeo sono destinati a far senti-re i propri effetti tra una decina d’anni, dal 2025 in poi.

Un rapporto tra i sessi alla nascita troppo sbilanciato può provocare un “eccesso” di uomini, i quali rimarranno più numerosi delle donne anche alle età future (Guilmoto 2013), determinando così ritardi nei matrimoni, un aumento della competizione tra gli uomini non sposati a discapito di quelli più vulnerabili, ovvero i più poveri, meno istruiti o provenienti da aree remote, e infine un rapido incremento del surplus di uomini non spo-sati (si stima che il 10-15% degli uomini rimarrà forzosamente celibe).

Un simile scenario può portare ad un aumento delle violenze di genere e dello sfruttamento sulla donna, tra cui una maggiore pressione su di essa a sposarsi e avere figli (Banister 2004). Il ricorso alla selezione del sesso del nascituro deriva da, e allo stesso tempo rinforza, società patriarcali fondate su una disparità pervasiva nei confronti di ragazze e donne, inten-sificando le carenze di democrazia e le disuguaglianze di genere, e provo-cando in ultima istanza discriminazioni contro le donne in tutti gli ambiti della vita (occupazione, istruzione, salute, politica, ecc.).

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Una massiccia emigrazione maschile potrebbe essere l’unico fattore in grado di alleviare lo squilibrio sessuale tra gli adulti, tuttavia, la partenza di migliaia di giovani uomini fuori dal paese non rappresenta certamente lo scenario demografico più desiderabile.

Cosa può fare la politica?Il genericidio è determinato da un insieme di fattori diversi, ma la

preferenza verso il figlio maschio è probabilmente quello centrale. Nella maggior parte dei paesi industrializzati, i bassi tassi di fecondità e l’ampio accesso alle tecnologie riproduttive moderne non hanno portato ad alcuna distorsione nel rapporto tra i sessi, semplicemente perché non c’è una forte preferenza di genere.

Come ha recentemente esortato anche la Commissione per i diritti del-la donna e l’uguaglianza di genere dell’UE (Stump 2011), è necessaria la creazione di un ambiente educativo e sociale in cui donne e uomini, ragazze e ragazzi, siano trattati allo stesso modo, e in cui si promuovano immagini non stereotipate di donne e uomini. Per contrastare la mentalità di preferenza per il figlio maschio, occorre implementare politiche di sus-sidio delle giovani donne, offrendo, ad esempio, sostegno alle ragazze e ai loro genitori attraverso uno schema di trasferimenti monetari condizio-nati, di borse di studio o di benefit. Si dovrebbero superare i pregiudizi di genere nelle istituzioni tradizionali e nei diversi ambiti di vita, ad esempio elaborando leggi e riforme nei settori del diritto di proprietà, di successio-ne, della dote, e della protezione finanziaria e sociale per gli anziani, ma anche riguardo l’accesso al mondo del lavoro e all’istruzione. Azioni di sostegno, misure politiche e buone pratiche come la campagna Care for Girls in Cina (che mira a sensibilizzare sul valore delle ragazze) e il si-stema Balika Samriddhi Yojana in India (che fornisce incentivi economici per l’istruzione delle ragazze provenienti da famiglie povere) sono essen-ziali per cambiare le tendenze comportamentali nei confronti delle donne.

L’esperienza della Repubblica di Corea è emblematica in questa inver-sione di tendenza (fig. 2). Qui, accanto ad un allentamento delle regola-mentazioni di controllo delle nascite, la preferenza per il figlio maschio è diminuita sotto la spinta di una crescente irrilevanza del patriarcato grazie a nuovi schemi che supportano le bambine e le giovani donne, e ad un so-stegno alla parità di genere da parte dello Stato, portando in pochi anni ad una flessione della tendenza di selezione del sesso alla nascita.

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Figura 2 – Andamento del rapporto tra i sessi alla nascita, Repubblica di Corea, 1985-2010

Fonte: Elaborazioni dell’autore su dati United Nations (data.un.org/) e World Bank (http://data.worldbank.org/).

Per saperne di piùAttané I. e Guilmoto C.Z. (2007), Fertility Watering the Neighbour’s Garden. The Growing Female Deficit in Asia, CICRED, Paris. Banister J. (2004), Shortage of girls in China today. Journal of Population Research, vol. 21, n. 1, pp. 19-45Brainerd E. (2010), The demographic transformation of post-socialist counties. Causes, consequenc-es and questions. Working paper N. 2010/15, Wider, HelsinkiDuthé G., Meslé F., Vallin J., Badurashvili I. and Kuyumjyan K. (2011), High level of sex ratio at birth in the Caucasus. A persistent phenomenon?, paper presented at the PAA Conference - Wash-ington D.C. March 31 – April 2 2011 Guilmoto C.Z., Duthé G. (2013), Masculinization of births in Eastern Europe, Population & Soci-eties, n. 506Guilmoto C.Z. (2009), The sex ratio transition in Asia, Population and Development Review, vol. 35, n.3, pp. 519-549Guilmoto, C.Z. (2013), Sex imbalances at birth in Armenia Demographic evidence and analysis, IRD/CEPED Paris, Report of UNFPA Armenia Country OfficeMeslé F., Vallin J., Badurashvili I. (2007), A sharp increase in sex ratio at birth in the Caucasus. Why? How?, in Attané I. and Guilmoto C. (éd.), Watering the neighbour’s garden: the growing de-mographic female deficit in Asia, pp. 73-88, Paris, CICRED Miller B: (2001), Female-selective abortion in Asia: patterns, policies, and debate. American An-thropologist, vol. 103, n. 4, pp. 1082-1095Stump D. (2011), Prenatal sex selection. Report, Committee on Equal Opportunities for women and men, Council of Europe UNFPA (2012), Sex Imbalances at Birth. Current trends, consequences and policy implications. UNFPA – Asian and the Pacific Regional Office, August 2012

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Le conseguenze dell’obesità sulla salute della popolazione

di gavino Maciocco

Per la prima volta nella storia degli ultimi due secoli in alcune aree degli USA la speranza di vita alla nascita mostra un arresto della crescita o

una regressione, a causa dell’obesità e delle sue conseguenze sulla salute. In Europa non è certo che agli anni di speranza di vita guadagnati corrisponda un proporzionale aumento degli anni vissuti in buona salute. “Le disegua-glianze nella salute, tra paesi e all’interno dei paesi, non sono mai state così grandi nella storia recente. Noi viviamo in un mondo di paesi ricchi pieni di gente povera e malata. La crescita delle malattie croniche minaccia di allar-gare ancora di più questo gap. Gli sforzi per prevenire queste malattie vanno contro l’interesse commerciale di operatori economici molto potenti e que-sta è una delle sfide più grandi da affrontare nella promozione della salute”1.

unA previsione che si AvverA?Nel marzo 2005 la rivista The New England Journal of Medicine pub-

blicò un articolo dal titolo “A potential decline in life expectancy in the United States in 21st century” che si concludeva con questa previsione2:

“From our analysis of the effect of obesity on longevity, we conclude that the steady rise in life expectancy during the past two centuries may soon come to an end”.

A distanza di pochi anni tale fosca previsione si è avverata: per la pri-ma volta nella storia degli ultimi due secoli in USA la speranza di vita alla nascita mostra un arresto della crescita o una regressione, a causa dell’obesità e delle sue conseguenze sulla salute. Non si tratta dell’intera popolazione americana, ma di una parte di essa: secondo l‘Institute for Health Metrics and Evaluation in 661 contee del paese la speranza di vita alla nascita delle donne ha smesso di crescere o è tornata indietro; lo

1 M. Chan, Discorso di apertura, VIII Conference on the Promotion of Global Health, Helsinki, 25 Giugno 20132 Olshansky SJ et al, A potential decline in life expectancy in the United States in 21st century,” New England Journal of Medicine” 2005; 352: 1138-45.

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stesso fenomeno si è verificato negli uomini, in 166 contee3. Questo trend preoccupante si registra nell’84% delle contee dell’Oklahoma, nel 58% delle contee del Tennessee e nel 33% delle contee della Georgia (punti arancioni e rossi nella Figura 1). In queste contee – afferma il rapporto – “le bambine nate nel 2009 vivranno meno delle loro madri”. Nella Figura 2 è riportata la mappa dell’obesità nei vari stati USA.

Figura 1 - USA. Mappa delle contee in cui la speranza di vita alla nascita mostra uno stop nella crescita o una regressione (punti arancioni e rossi).

Figura 2 - USA. Mappa della prevalenza dell’obesità negli Stati (in rosso scuro la prevalenza è uguale o superiore al 30%).

3 The Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME). Girls born in 2009 will live shorter lives than their mothers in hundreds of US counties. IHME, 19.04. 2012.

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l’Aumento delle disuguAgliAnze

Se in alcune aree degli USA diminuisce la speranza di vita, aumentano le diseguaglianze nella salute tra abitanti che vivono in differenti aree del paese: in Florida (Contea Collier) le donne vivono in media 85,8 anni, in West Virginia (McDowell) 74,1 anni: una differenza di 11,7 anni. Per gli uomini lo scarto arriva fino a 15,5 anni: 81,6 anni di speranza di vita alla nascita in California (Marin), 66,1 anni in Mississippi (Quitman e Tuni-ca).

Negli ultimi due secoli la crescita della speranza di vita è stata costan-te e inarrestabile in tutto il mondo, con alcune eccezioni legate ad eventi catastrofici: nelle due guerre mondiali (nella prima agli eventi bellici si aggiunse l’effetto letale della “Spagnola”), in Russia nel periodo imme-diatamente successivo al collasso dell’Unione Sovietica (1989 – 1994) con la regressione di 6 anni per gli uomini (da 64 a 58 anni), in Africa sub-sahariana (negli anni 80 e 90) per l’effetto combinato dell’epidemia di HIV/AIDS e delle politiche di aggiustamento strutturale: in alcuni paesi, come il Botswana, la regressione fu di 20 anni.

Cosa segnalano quei punti rossi nella mappa USA? Certamente non si tratta di evento catastrofico come una guerra, il crollo di un regime o un’e-pidemia infettiva. Ma di catastrofe certamente si tratta. Lenta, silenziosa, mortale . Non fa notizia perché (per ora) si verifica in una manciata di aree povere degli Stati Uniti.

Nel frattempo su Lancet recentemente si poteva leggere:“Sebbene la speranza di vita alla nascita nell’Unione Europea sia cre-

sciuta di circa 1 anno ogni 4 anni fino al 2009, la speranza di vita in buona salute è rimasta la stessa. Questa espansione della morbosità, in cui le persone vivono più a lungo in cattiva salute, fa crescere la spesa sanitaria e fa diminuire il benessere della popolazione”4.

Tutto ciò spiega il tono allarmato delle dichiarazioni del direttore gene-rale dell’OMS, Margaret Chan che alla VIII Conferenza globale della pro-mozione della salute, tenutasi a Helsinki lo scorso giugno, ha affermato:

“Le diseguaglianze nella salute, tra paesi e all’interno dei paesi, non sono mai state così grandi nella storia recente. Noi viviamo in un mondo di paesi ricchi pieni di gente povera e malata. La crescita delle malattie croniche minaccia di allargare ancora di più questo gap. Gli sforzi per pre-

4 Editorial. How to cope with an ageing population. “Lancet” 2013; 382: 1225.

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Longevità, vecchiaia, salute

venire queste malattie vanno contro l’interesse commerciale di operatori economici molto potenti e questa è una delle sfide più grandi da affrontare nella promozione della salute”. Ed ha aggiunto:

“Non c’è solo Big Tobacco da combattere. La sanità pubblica deve af-frontare anche Big Food, Big Soda e Big Alcohol. (…) Il potere del merca-to si traduce in potere politico. Pochi governi danno la priorità alla salute rispetto agli affari. Come abbiamo imparato dall’esperienza dell’industria del tabacco, una grande azienda è in grado di vendere al pubblico qualsi-asi cosa. Permettetemi di ricordare questo punto. Nessun paese è stato in grado di invertire la tendenza dell’epidemia di obesità. Questo non è il fallimento della volontà individuale. Questo è il fallimento della volontà politica nell’affrontare il potere del mercato”5.

5 M. Chan, Discorso, cit.

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La differenza di genere nella longevità: si attenua il vantaggio delle donne

MaSSiMo livi Bacci

Nelle ultime decadi dell’Ottocento, e nelle prime del Novecento, don-ne e uomini, in Italia, avevano una speranza di vita alla nascita bassa

– intorno ai 30 anni nel 1870 e ai 45 nel 1920 - e pressoché uguale. Ma a partire dagli anni ’20, il vantaggio delle donne – che nel mezzo secolo precedente era stato inferiore ad un anno - è andato gradualmente allar-gandosi, fino a sfiorare i 7 anni. Negli ultimi trent’anni, però, il divario è andato restringendosi, scendendo a 5 anni nel 2010. Questa tendenza appare ben stabilita, e se continuasse senza cambio di ritmo, riporterebbe uomini e donne in parità – almeno sul piano della longevità - nel giro di una cinquantina d’anni.

Naturalmente i fattori che incidono sulla sopravvivenza sono una ga-lassia, e per di più si influenzano a vicenda, cosicché le analisi, anche raffinate, possono solo incidere la dura corazza a difesa delle cause ul-time di questa peculiare differenza di genere. Alla quale contribuiscono fattori bio-genetici (gli uomini mancano di un cromosoma x e gli appa-rati riproduttivi sono diversi), bio-psicologici (aggressività, propensione al rischio), sociali (ambiente di vita, attività, risorse materiali) e compor-tamentali (alimentazione, fumo, alcol, esercizio fisico), tanto per citare alcune grandi categorie, a loro volta scomponibili in plurime sottocatego-rie. Limitiamoci dunque ad una rapida analisi delle tendenze ed a qualche considerazione generale.

unA tendenzA comune Ai pAesi sviluppAti

Nelle popolazioni ad alta mortalità – come nell’Europa dell’Ottocento, con una speranza di vita inferiore ai 40 anni – la longevità dei due gene-ri era generalmente molto simile: all’alta mortalità femminile per gravi-danza corrispondeva una più alta mortalità maschile per cause legate al lavoro, ai traumatismi accidentali, a cause violente. Si moriva soprattutto per malattie infettive e trasmissibili che avevano un ruolo negativamente “egualitario”, perché colpivano e uccidevano ugualmente (o quasi) ambo i sessi. Queste patologie, però, sono state gradualmente contenute od eli-

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Longevità, vecchiaia, salute

minate durante il Novecento, mentre altre cause di morte – quali quelle circolatorie o tumorali – sono diventate prevalenti. Si tratta di patologie variamente legate all’alimentazione, all’ambiente di vita e di lavoro, al fumo, all’abuso di alcolici, alla mancanza di esercizio fisico. Sono emerse così le differenze legate a fattori sociali e comportamentali, prima occul-tate dalla prevalenza delle malattie infettive.

1979-1980: lA differenzA trA generi rAggiunge il suo mAssimo in itAliA

Quasi ovunque, nel mondo ricco, la divergenza tra i due sessi ha rag-giunto il suo massimo – tra i 4 e gli 8 anni - tra gli anni ’70 e gli anni ’90 – per poi iniziare un processo di avvicinamento. Negli ultimi decenni i progressi della sopravvivenza – soprattutto alle età anziane – sono stati maggiori tra gli uomini che tra le donne, e la speranza di vita dei primi ha iniziato la sua marcia di avvicinamento a quella delle donne.

Considerando i paesi dell’OCSE1, la massima divergenza tra donne e uomini si colloca tra il 1970 e il 1980 in Australia, Canada, Finlandia, Irlanda, Italia, Nuova Zelanda, Portogallo, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti; tra il 1980 e il 1990 in Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Ger-mania, Corea del Sud, Messico, Olanda e Norvegia; tra il 1990 e il 2000 in Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Spagna e Svizzera. In Italia, stando alle elaborazioni fornite dallo HMD (Human Mortality Database)2, la massima divergenza è stata toccata nel 1979 e nel 1980, con 6,75 anni.

La Figura 1 riporta l’andamento del differenziale per l’Italia e cinque maggiori paesi Europei, dal 1970 al 2010 (per la Spagna: dal 1920), ad in-tervalli di 10 anni3: risulta chiara l’inversione di tendenza negli ultimi de-cenni, anticipata in Inghilterra e Galles, ritardata in Spagna. Un andamen-to analogo si osserva considerando la divergenza di genere nella speranza di vita a 65 anni, con curve temporali più appiattite, ma simili a quelle presentate nella Figura 1. In Italia, a questa età, la divergenza massima si situa nel 1996, ed è pari a 4,1 (speranza di vita delle donne pari a 20,0 e degli uomini pari a 15,9), riducendosi a 3,5 nel 2010 (21,7 e 17,2).

1 Yan Liu e alii, Gender gaps in life expectancy: generalized trends and negative associations with development indices in OECD countries, “The European Journal of Public Health”, April 28, 2012 2 Human Mortality Database (HMD), http://www.mortality.org/3 Per Inghilterra e Galles e Francia – che nel 1940 avevano subito appieno gli effetti distruttivi della guerra – è stato considerato, nella Figura 1, il dato del 1939 invece di quello del 1940.

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La Figura 2 riporta il divario di genere per le 5 ripartizioni geografiche dell’Italia nel 1980 e nel 2010; la tendenza alla sua riduzione ha un netto gradiente geografico ed è massimo a Nord, intermedio al Centro, minimo al Sud, quasi nullo nelle isole. La riduzione è stata massima – nel Nord-Est – dove il divario di genere era più alto, e pari a 8 anni, nel 1980; è stata nulla – nelle Isole – dove, nel 1980, il divario era minimo e pari a 5 anni. Questo andamento ha cancellato le disparità tra aree geografiche, il vantaggio delle donne situandosi ovunque – nel 2010 – attorno ai 5 anni.

Figura 1 - Differenza in anni tra la speranza di vita delle donne e quella degli uomini, 1870-2010-

Figura 2 - Differenza (anni) nella speranza di vita di femmine e maschi, 1980 e 2010.

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riuscirAnno i nostri eroi… A rAggiungere le donne?La risposta alla domanda non può che essere congetturale e dipende

dall’evolversi di quei complessi fattori che hanno determinato, nel passato secolo, il vantaggio femminile nella sopravvivenza. Una parte del van-taggio è probabilmente collegato alle particolarità genetiche e biologiche, ma non è chiaro in che misura. Il cromosoma sessuale maschile y è assai più piccolo del cromosoma x, contiene meno geni e potrebbe avere effetti protettivi meno efficienti a fronte di determinate patologie. La biologia riproduttiva può generare patologie specifiche (tumori al seno e all’utero, ad esempio), con svantaggio per la donna. Controverso è anche l’effetto ormonale: il testosterone avrebbe effetti sfavorevoli sulle patologie car-diovascolari degli uomini. Ma forse l’effetto più sfavorevole alla soprav-vivenza è il contributo che il testosterone dà ad atteggiamenti aggressivi ed a comportamenti rischiosi propri dei maschi. Da qui deriverebbe la maggior mortalità degli uomini per suicidi, omicidi, violenze e accidenti: è tuttavia chiaro che la biologia si lega indissolubilmente a fattori sociali e comportamentali che gradualmente possono essere posti sotto controllo. Altrimenti non si spiegherebbero le forti differenze di mortalità per queste cause che si riscontrano in paesi con analoghi livelli di sviluppo ma con-testi sociali diversi.

Oltre a quelli rischiosi, aggressivi e violenti, altri comportamenti hanno un notevole impatto. Tra questi emergono il fumo, il consumo di alcol e l’abuso di droghe, che riguardano assai più gli uomini delle donne. È, in particolare, sul fumo e sui suoi effetti negativi per molteplici patologie (cominciando da quelle tumorali e cardiovascolari) che si è appuntata l’at-tenzione degli epidemiologi per spiegare il crescente divario di sopravvi-venza tra generi nel corso del Novecento. Il fumo, fino a secolo inoltrato, fu comportamento essenzialmente maschile, e solo dopo la metà del seco-lo si è diffuso tra le donne, ma con un’incidenza generalmente minore. In Italia, secondo le indagini della Doxa4, la percentuale dei fumatori nella popolazione con più di 15 anni, era pari nel 1957 al 60% per gli uomini e al 6% per le donne; nel 1990 la percentuale era scesa al 38% tra gli uomini e salita al 26% tra le donne. Nel 2012, ambedue i sessi fumavano meno che nel 1990: il 25% degli uomini e il 17% delle donne. Poiché gli effetti del fumo, nel ciclo di vita, sono “dilazionati” nel tempo, è da ritenere che la riduzione del fumo continuerà a produrre effetti positivi nel futuro, al-

4 Istituto Superiore di Sanità e DOXA, Il fumo in Italia nel 2012, http://www.iss.it/fumo/doxa/index.php?lang=1&tipo=18&anno=2012

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leggerendo ulteriormente – senza cancellarlo – il differenziale tra i generi. I fattori sociali, infine – l’ambiente di vita e di lavoro; l’istruzione e la

conoscenza del proprio corpo; la capacità di riconoscere i sintomi nega-tivi; l’accesso al sistema sanitario e l’appropriatezza delle cure; la qualità dell’alimentazione; la possibilità di un adeguato esercizio fisico – influen-zano l’insieme delle cause di morte e possono tradursi in impatti specifici differenziati tra generi. In che modo e in che misura è però difficile da comprendere e da prevedere.

Forse i nostri eroi non raggiungeranno le loro compagne, ma nei pros-simi decenni dovrebbero essere in grado di ridurre il loro storico distacco.

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Longevità: non tutto è progresso

MaSSiMo livi Bacci

Pur immersi in una grave crisi, i cittadini dei paesi ricchi sono convinti che l’allungamento della vita sia un progresso acquisito ed irreversi-

bile. E ciò nonostante esempi clamorosi, come l’inversione di tendenza avvenuta in Russia – e in minor misura in altri paesi satelliti – dove la speranza di vita è clamorosamente caduta negli anni ’90. In Italia (2011) questa sfiora oramai gli 85 anni per le donne e gli 80 per gli uomini, ai primissimi posti nel mondo. Ma nulla è irreversibile, e anche la buona longevità può essere mesa in crisi per motivi economici, politici e anche biologici. Il costo della salute sta rapidamente crescendo ovunque: è oggi (2010) dell’ordine del 9-12 per cento nei maggiori paesi Europei e supera addirittura il 17 per cento negli Stati Uniti1. La spinta alla moderazione dei costi può compromettere la qualità e l’accesso – universale in Europa – alle cure mediche. Né è da escludere l’insorgere (o il risorgere) di nuove pandemie, come avvenne per l’influenza nel 1918-19 o per l’AIDS negli anni ’80. Infine l’approfondirsi delle disuguaglianze avvenuto nei paesi ricchi negli ultimi due decenni si riflette in forti disuguaglianze nella so-pravvivenza.

longevità negli stAti uniti: non i primi dellA clAsse.Gli Stati Uniti non brillano nelle graduatorie mondiali della salute, no-

nostante l’alta spesa sanitaria, gli eccellenti livelli della ricerca, i centri avanzatissimi di cura. Se si assume come indicatore la speranza di vita alla nascita, oggi si situano in coda alla graduatoria dei paesi sviluppati: i 75,4 anni per gli uomini e gli 80, 4 delle donne, nel 2010, sono oltre 4 anni in meno di quanto non raggiungano uomini e donne in Italia. Un distacco davvero notevole. Va aggiunto anche che le differenze nella sopravviven-za – tra gruppi etnici e, all’interno di questi, secondo il reddito o il grado di istruzione – sono assai più forti di quanto non avvenga in Europa. Stime riferite al 2008 indicano che le donne bianche (non hispanic , cioè non di origine latino-americana) che non hanno un’istruzione superiore (high school) hanno una speranza di vita di 73,5 anni, contro 83,9 per quelle

1 OECD, Health at a Glance 2011, Paris, 2012

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con un diploma universitario. Le differenze sono ancora più ampie per gli uomini: 67,5 e 80,42. Stili di vita, modelli di nutrizione, e differenziato accesso alle cure mediche (si ponga mente al fatto che tra i 40 e i 50 milio-ni di americani sono privi di assicurazione) sono le cause più citate della particolarità americana.

lA regressione delle donne biAnche poco istruite

La ricerca – da cui abbiamo tratto i dati sopra riportati – è stata finan-ziata dalla MacArthur Foundation ed è stata accolta con un certo clamore, e non solo per i forti divari sopra riportati. Infatti, questi si sono fortemen-te allargati tra il 1990 e il 2008: le donne (bianche non hispanic) con meno di 12 anni di istruzione hanno perso 5 anni di speranza di vita, gli uomini 3 anni. In parte questo processo è dovuto al fatto che la proporzione di donne ed uomini in questa categoria poco istruita si è quasi dimezzata in questi due decenni e questo ha implicato un processo di selezione. Tutta-via il dato è preoccupante perché la marcia indietro contrasta con quanto avvenuto tra i neri e gli hispanics con lo stesso grado di istruzione tra i quali, nello stesso intervallo, la speranza di vita si è allungata, sia pur di poco. Ma anche per questi gruppi si è allargato il divario rispetto alle donne e agli uomini con maggiore grado di istruzione. Il direttore della ricerca, Jay Olshansky, della University of Illinois di Chicago, ha com-mentato i risultati dicendo che “ci sono due Americhe” divise, oggi, più dalla barriera socio-economica che da quella razziale.

Le ragioni del peggioramento della sopravvivenza dei meno istruiti debbono essere meglio analizzate, per poter mettere in piedi adeguate po-litiche per contrastare e allentare i divari che hanno pericolose implicazio-ni sociali. È un argomento oramai prioritario per la ricerca e all’attenzio-ne dell’opinione pubblica. Tra le cause prime della pessima performance della sopravvivenza vengono costantemente citate l’eccesso di assunzione di farmaci; l’obesità crescente; l’alta proporzione delle fumatrici tra le donne meno istruite; l’aumento delle persone sprovviste di assicurazione sanitaria tra le persone con minori mezzi finanziari. Nello stesso giorno, un giornale americano a larga diffusione3 riportava in grande evidenza

2 Jay Olshansky et al., Differences in Life Expectancy Due to Race and Educational Differences are Widening, and Many May not Catch Up, “Health Affairs”, vol. 31, n. 8, Agosto 2012. I risultati sono stati ripresi – e rilanciati dai media – dal New York Times, del 20 settembre, con un articolo di Sabrina Tavernise, Life Spans Shrink for Least- Educated Whites in the U.S.3 Si tratta di USA Today, 3 ottobre 2012.

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due articoli. Il primo con i risultati di un’indagine, pubblicata sullo Inter-national Journal of Obesity, secondo la quale la proporzione dei “grandi obesi” (coloro che pesano 100 libbre – 45 chili – più del peso normale) è aumentata tra gli adulti dal 3,9% nel 2000 al 6,6% nel 2010 (15,5 milioni di persone). Il secondo articolo aveva i risultati di un’indagine del Bureau of the Census, secondo la quale il numero medio di visite annuali (tra gli adulti tra i 15 e i 64 anni) ad un medico o ad un ospedale, sono diminuite da 5 a 4, in parte per ragioni economiche e in parte per la difficoltà di tro-vare un medico disponibile.

Dietro le possibili cause sopra citate, ce ne sono altre più profonde: non a caso le ricerche mettono sull’avviso che la buona sopravvivenza richie-de una maggiore coesione sociale e una istruzione migliore, più diffusa, e continua nel ciclo di vita.

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II Premessa

Sistemi sanitari e servizi alla salute

I fenomeni demografici sono fortemente interrelati con quelli sociali e sanitari, oltre che con quelli economici, e questo intreccio di relazioni

emerge anche nel campo della sopravvivenza e della salute. Parte del pro-blema deriva dalla stessa rapidità e intensità dell’invecchiamento, il che chiama in causa, tra le altre cose, la fecondità e i flussi di immigrazione: come prendersi cura di tanti anziani, che continuano a crescere rapidamen-te di età, di numero e in quota percentuale sulla popolazione? La soluzione italiana, centrata in gran parte sulla famiglia, sempre più sembra dipendere dalla presenza degli immigrati, o meglio delle immigrate, colf, assistenti e badanti. Al contrario dei paesi nord-europei, infatti, in Italia è raro che gli anziani vivano presso istituzioni o case di riposo, cui nel nostro paese si ricorre solo quando malattie gravemente invalidanti (come l’Alzheimer) rendono la convivenza impraticabile. L’immigrazione femminile, soprat-tutto dalle zone est-europee, deriva sia da fattori di spinta, e cioè la ricerca di un’opportunità di lavoro (che scarseggia in patria, in particolare per le donne in età matura che provengono da paesi quali Romania o Ucraina), sia da fattori di attrazione, e cioè il bisogno di servizi alla persona che si avverte in Italia. Negli articoli pubblicati da Neodemos l’argomento è ripreso e analizzato, illustrando altresì come le cure sanitarie necessitino della presenza degli stranieri anche negli istituti ospedalieri e nei ruoli di infermiere e di medico. Insomma, l’immigrazione è davvero indispensa-bile per sostenere i servizi socio-sanitari, e questa affermazione – lo si capisce – riveste forti connotati politici.

Ovunque nel mondo occidentale è vivissima la discussione sulle nor-mative riguardante il “fine vita”. In Francia la legge consente di rifiutare trattamenti ritenuti inutili, così come consente di assumere farmaci che, se da un lato possono alleviare il dolore, dall’altro rischiano di abbreviare la durata di vita. Le indagini compiute su campioni di medici in Italia e in Francia, e ricordate su Neodemos, evidenziano che mai si ricorre all’eu-tanasia, ma solo a pratiche che si prefiggono di migliorare la qualità della

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Longevità, vecchiaia, salute

fase finale della vita dei pazienti, pur se si è consapevoli che, così facendo, si corre talvolta anche il rischio di accorciarla.

Le influenze dell’allungamento della vita sulla situazione economica si sostanziano negli effetti sul sistema previdenziale e pensionistico, aggra-vato pesantemente dal processo di invecchiamento. E allora ecco il “siste-ma De Santis”, descritto più volte in libri e articoli dall’Autore e ricordato anche in un articolo incluso in questa raccolta: il sistema ideato si articola su più piani e sul punto specifico della longevità l’idea è semplicemente quella di fissare a un livello ritenuto socialmente accettabile il rapporto tra la durata della vita adulta (che per semplicità si può identificare con la vita lavorativa) e la durata della vita totale. Ammettiamo, per semplicità, che la scelta cada sul valore “50%”: questo significa che scegliamo di lavora-re, in media, per metà della nostra vita. Se la durata media della vita è 80 anni, se ne lavorano 40; se la durata sale a 82, se ne lavorano 41; ecc. Un esempio, tra i tanti, di come gli articoli pubblicati su Neodemos si prefig-gano non solo di descrivere la realtà, ma anche, ove possibile, di avanzare proposte per migliorarla.

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Lavoratori immigrati nella cura degli anziani: un fenomeno non solo italiano

aleSSio cangiano1

Negli ultimi due decenni l’impiego di lavoratori immigrati presso le famiglie italiane con anziani ha rappresentato la principale risposta

al considerevole aumento del fabbisogno di cure non-specialistiche asso-ciato con l’invecchiamento demografico, il cambiamento dei ruoli fami-liari e di genere e l’inadeguatezza dei servizi socio-assistenziali. Pur con i limiti legati alle difficoltà di rilevazione della popolazione immigrata con indagini campionarie, le stime generate utilizzando l’Indagine Europea sulle Forze di Lavoro dimostrano che si tratta di un fenomeno che, con ca-ratteristiche parzialmente diverse, è ugualmente diffuso in vari altri paesi europei. Tali dati consentono anche di mettere in luce alcune importanti regolarità demografiche del fenomeno.

non solo ‘bAdAnti’ per i nostri AnziAni

Utilizzando una definizione ampia di forza lavoro nel settore di cura che include infermiere, personale ausiliario impiegato in ospedali, case di cura e agenzie per l’assistenza domiciliare, e lavoratori direttamente im-piegati dalle famiglie è possibile tracciare un quadro comparativo sull’im-piego di lavoratori di cura immigrati nell’Europa dei 15 (figura 1). I paesi dell’Europa meridionale spiccano per il ricorso massiccio alla manodope-ra immigrata (oltre il 40% dell’occupazione nel settore di cura in Italia, oltre il 30% in Grecia e Spagna). Il fenomeno è tuttavia molto diffuso anche in altri paesi UE come l’Austria, l’Irlanda e la Germania. Il grafico mostra che in tutti i paesi dell’Europa dei 15 i lavoratori immigrati sono più rappresentati (in alcuni casi largamente) nel lavoro di cura rispetto all’insieme degli altri settori lavorativi. Dalla fine degli anni Novanta il ricorso a manodopera immigrata in tutti i paesi è anche cresciuto più rapi-damente nella cura degli anziani che nell’insieme delle altre occupazioni.

1 Senior Lecturer e Coordinator of the Population Studies and Demography Program, The Univer-sity of the South Pacific. Research Associate, Centre on Migration Policy and Society (COMPAS), University of Oxford

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Longevità, vecchiaia, salute

Figura 1 - Confronto tra la percentuale di immigrati nel lavoro di cura e nell’insieme degli altri settori occupazionali. Paesi UE15, 1999 e variazione 1999-2012.

0%

10%

20%

30%

40%

Por Ola Fra Dan Bel UK Sve Ger Irl Spa Aus Gre Ita

var. 1999-2012

1999

UE15

Colonne di sinistra: lavoratori di curaColonne di destra: altre occupazioni

Fonte: Elaborazioni proprie sull’indagine europea sulle forze di lavoro.

fAttori demogrAfici e commerciAlizzAzione del lAvoro di curA

Un’analisi delle correlazioni con alcuni indicatori demografici e del mercato del lavoro fornisce indicazioni sulle cause strutturali del fenome-no. Come prevedibile il ricorso alla manodopera immigrata si è svilup-pato maggiormente in alcuni dei paesi a più rapido invecchiamento – ad esempio Italia, Grecia e Germania sono i tre paesi demograficamente più vecchi con percentuali di popolazione anziana (65+) intorno al 20%. Nei paesi dell’Europa meridionale la domanda di lavoro di cura immigrato è aumentata anche mano a mano che la tradizionale base di assistenza in-formale fornita dai figli è venuta meno. Questo è accaduto sia a seguito di trasformazioni demografiche – un significativo declino del potenziale di supporto intergenerazionale espresso come rapporto tra la popolazione in età 50–64 (approssimando, i figli adulti con genitori anziani) e la popo-lazione in età 75+ (il gruppo di età con più elevato fabbisogno di cure di lungo periodo) – sia a causa dall’aumento della partecipazione lavorativa delle donne di mezza età (il gruppo demografico con maggiore probabilità di fornire aiuto agli anziani).

Un aspetto su cui raramente si sofferma l’attenzione è la relazione in-versa tra dimensione del mercato interno del lavoro di cura e ricorso alla manodopera immigrata (figura 2). In altre parole, nei paesi in cui il settore di cura assorbe una frazione minore dell’occupazione nativa (un risultato

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che sottintende sia una dimensione più ridotta del settore di cura formale sia una minore attrattività del lavoro di cura per la manodopera locale) la domanda di lavoro immigrato si è sviluppata in misura maggiore. Non è dunque un caso che i paesi mediterranei in cui la cura degli anziani dipen-de maggiormente da lavoratori immigrati siano anche quelli dove abbia prevalso la modalità d’impiego diretto presso le famiglie.

Figura 2 - Relazione tra sovrarappresentazione degli immigrati nei lavori di cura(a) e quota dell’oc-cupazione nativa totale impiegata nel settore di cura. Paesi UE15, 2012.

Aus

Bel

Ger

Dan

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SveUK

0%

10%

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0% 2% 4% 6% 8% 10% 12%

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enta

zion

e im

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(%)

% dell 'occupazione nativa totale impiegata nel settore di cura

r = -0.81

Nota: Differenza tra la percentuale di immigrati nei lavori di cura e percentuale di immigrati nel totale delle altre occupazioniFonte: Elaborazioni proprie sull’indagine europea sulle forze di lavoro.

quAli prospettive per il futuro?L’inarrestabile processo di invecchiamento che caratterizzerà i paesi

Europei nei decenni a venire porterà con sé un prevedibile aumento della domanda di cura per la popolazione anziana. Il rapido declino del po-tenziale di cura intergenerazionale, accompagnato da altri fattori quali la maggiore divorzialità e l’auspicabile allungamento della vita lavorativa, produrrà un ulteriore assottigliamento della disponibilità di cure informa-li. C’è dunque da chiedersi se la fornitura di servizi socio-assistenziali potrà fornire le giuste risposte, attingendo ad una forza lavoro sufficiente e con le necessarie qualifiche. Gli scenari per il nostro paese non appaiono tra i più rosei. Volendo mantenere il rapporto tra forza lavoro nel settore

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di cura e popolazione anziana costante (cioè ad un livello tra i più bassi nell’Europa dei 15) al 2050 ci sarebbe bisogno di 900 mila lavoratori di cura in più. Se immaginassimo di voler raggiungere a metà secolo il livel-lo di cura formale oggi disponibile in Francia (uno dei sistemi di cura più autosufficienti in termini di manodopera) bisognerebbe più che triplicare la forza lavoro impiegata nel settore di cura italiano. La natura un po’ sem-plicistica di queste proiezioni non toglie che il nostro paese difficilmente potrà fare a meno di considerare il reclutamento di lavoratori immigrati tra il bagaglio di possibili soluzioni.

Tabella 1 - Proiezioni della forza lavoro necessaria nel settore di cura. Francia e Italia, 2012-2050. Francia Italia

2012Lavoratori di cura (000) 2 253 1 185(per 100 anziani 65+) 20.5 9.4(% dell’occupazione totale) 8.8% 5.3%

2050 Scenario costante(a) Scenario costante(a) Scenario espansione(b)

Lavoratori di cura necessari (000) 3 913 1 961 4 266(% dell’occupazione totale) (c) 14.8% 9.6% 21.0%var. 2012-50 (totale, %) 73.7% 65.4% 260.0%

Note: (a) il rapporto tra lavoratori di cura e anziani resta ai livelli del 2012; (b) L’Italia raggiunge nel 2050 lo stesso rapporto tra lavoratori di cura e anziani prevalente in Francia nel 2012; (c) assumendo tassi di occupazione costanti.Fonte: Elaborazioni proprie dati Eurostat online.

Per saperne di piùCangiano A. (2014) “Elder Care and Migrant Labor in Europe: A Demographic Outlook”, Popula-tion and Development Review, 40(1): 131–154.

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È sostenibile il Sistema Sanitario Nazionale?

redazione neodeMoS

Lo scorso 19 Novembre si è tenuto, su iniziativa di Neodemos e con il sostegno delle Fondazione Niels Stensen e Cesifin, l’incontro “Salute,

sopravvivenza e sostenibilità dei sistemi sanitari”. Con il sottotitolo si-gnificativo “La sfida dell’invecchiamento demografico”. All’incontro, in-trodotto da Attilio Maseri, Presidente della “Fondazione per il tuo cuore”, hanno partecipato con tre relazioni Viviana Egidi, della Sapienza di Roma, Cesare Cislaghi, di Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Re-gionali) e Sabina Nuti, del Sant’Anna di Pisa, e il Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, in dialogo con Massimo Livi Bacci.

Neodemos pubblica oggi gli atti dell’incontro, disponibili sia nel PDF scaricabile dal nostro sito, sia in volume cartaceo. I sette anni di guai pro-dotti dalla crisi economica, il rapido invecchiamento demografico, la compressione dei bilanci pubblici, il dissesto dei sistemi sanitari di alcune importanti regioni, alimentano fondate preoccupazioni. Ma dalla lettura del volume emerge un cauto ma concorde ottimismo, che potremmo così sintetizzare: il Sistema Sanitario Nazionale è sostenibile a condizione di introdurre una serie di radicali adattamenti e riforme che conservandone i principi di equità e accessibilità, ne migliorino l’efficienza contrastando l’onerosità crescente dovuta anche a motivi demografici. Insomma, se pi-lotiamo bene la politica sanitaria, ce la possiamo fare a mantenere l’Italia nelle primissime posizioni mondiali quanto al grado di salute della popo-lazione e alla sua longevità, che è arrivata a 80 anni di speranza di vita alla nascita per gli uomini e a 85 per le donne.

Dagli interventi sono emersi numerosi spunti di grande interesse. Tra questi, ne citiamo tre. In primo luogo, il processo d’invecchiamento misu-rato considerando l’età biologica equivalente, anziché limiti fissi crono-logici, risulta in crescita relativamente moderata. In secondo luogo, si rav-visano spazi considerevoli per una riduzione relativa dei costi e per un au-mento dell’efficienza del sistema, per mezzo, soprattutto, di una maggiore appropriatezza delle cure, della riallocazione delle risorse, della riduzione della variabilità “evitabile” della performance delle varie aree territoriali.

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In terzo luogo, è possibile, e necessario, ridisegnare in modo equilibrato gli spazi di azione della politica, distinguendoli nettamente da quelli pro-pri dei professionisti della sanità e dei manager. Va perseguita, insomma, una virtuosa alleanza che abbia al centro l’interesse dei cittadini, e non l’allargamento dell’area d’influenza e di potere dei diversi attori in scena.

Con questo volume intendiamo rafforzare la vocazione di Neodemos, volta ad offrire ai propri colti e curiosi lettori – oltreché agli studiosi, ai ricercatori, agli amministratori – un’alta, affidabile e buona divulgazione. Occupando quell’ampio “spazio di mezzo” tra l’informazione dei media, spesso frettolosa se non superficiale, e quella scientifica, difficilmente ac-cessibile e fruibile dai non specialisti.

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Assistenza sanitaria in Italia: l’immigrazione indispensabile

di caterina FranceSca guidi1 e laura Bartolini2

La domanda di assistenza sanitaria a livello globale è in crescita. Nei paesi in via di sviluppo e emergenti la domanda di assistenza cresce

con il miglioramento delle condizioni socio-economiche e con l’allarga-mento della copertura sanitaria a fasce più ampie della popolazione. Nei paesi più avanzati l’aumento e la trasformazione della domanda sono do-vuti all’invecchiamento della popolazione, per cui cresce il numero di cit-tadini affetti da malattie croniche e bisognosi d’assistenza.

Questi cambiamenti non sono però bilanciati da un’adeguata offerta di personale. Secondo stime dell’Organizzazione mondiale della Sanità a livello mondiale mancano circa 4,3 milioni di unità nel settore sanitario e, sebbene i deficit più acuti siano rilevati nei PVS, il problema riguarda anche i paesi più avanzati, soprattutto quelli europei (WHO, 2011). Per l’UE, la Commissione Europea ha stimato nel 2010 che la mancanza di personale sanitario potrebbe raggiungere la cifra di un milione di operatori entro il 2020, sebbene con rimarchevoli differenze tra gli Stati Membri.

Per colmare questa lacuna, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha adottato il Codice di Condotta per il Reclutamento Internazionale di Personale Sanitario nel 2010. Il Codice detta le linee guida da seguire per agevolare l’assunzione di personale sanitario straniero, riconoscendo condizioni lavorative adeguate e un salario equo e promuovendo la migra-zione circolare degli operatori.

lA situAzione itAliAnA e il bisogno di medici strAnieri

In questo contesto l’Italia vive una duplice emergenza, che mette seria-mente a rischio la garanzia di accesso a un livello uniforme di assistenza ai propri cittadini, pilone fondante del Sistema Sanitario Nazionale (SSN). Dal 1999 (Legge 264 del 2 agosto 1999) è stato introdotto il “numero chiuso” alle Facoltà di Medicina (e anche a altre): una decisione contrasta-

1 European University Institute e Università degli Studi di Siena.2 European University Institute e Laboratorio Revelli.

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ta, sia nella logica generale sia nelle sue applicazioni pratiche (tra brogli, ricorsi al TAR, differenze di criteri tra Atenei, domande “originali” nei test, ...), determinata soprattutto dall’eccessivo numero di medici presenti allora in Italia rispetto agli standard e alle raccomandazioni dell’Europa (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/05/25/medicina-perche-il-numero-chiuso.html) e dal troppo elevato numero di matricole. L’effetto della legge è stato un drastico calo delle immatrico-lazioni (da oltre 100 mila a circa 10 mila), con forte riduzione, a qualche anno di distanza, del numero di laureati in Medicina, come desiderato, ma con effetti anche sulla distribuzione per età dei medici in servizio: oggi, più del 40% dei medici in Italia ha un’età superiore ai 55 anni. Si stima che in questo decennio il numero di medici che abbandonano la professione per raggiunti limiti di età supererà il numero dei nuovi assunti (OECD, 2012), e questo nonostante il progressivo innalzamento dell’età pensionabile (da 65 anni nel 2012 a 68 anni nel 2018, in crescita di 6 mesi ogni anno). Il deficit di personale è inoltre aggravato dall’emigrazione di medici, infermieri e veterinari verso altri Stati UE: tra il 2009 e 2012 si è registrato un aumento del 40% delle richieste di trasferimento, da 1017 a 1413 unità (Adnkronos Salute).

Si tratta di numeri importanti se confrontati con il totale del personale sanitario che lavora per il SSN (Fig. 1) e soprattutto con i dati sul numero annuale di laureati in medicina e nelle professioni sanitarie, che si attesta tra le 10 e le 11 mila unità dal 2001 ad oggi (Fig. 2).

Figura 1 - Composizione del personale medico-sanitario in Italia nel 2010

Fonte: SSN, Ministero della Salute, 2010

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Figura 2 - Laureati in professioni sanitarie in Italia, 1997-2011.

Fonte: OECD Health Dataset, 2013.

mAncAno Anche gli infermieri

Il quadro non migliora se si considera anche il personale infermieri-stico. Secondo l’IPASVI3, alla fine del 2009 gli infermieri professionali erano circa 365 mila. Ogni anno circa 17.000 infermieri cessano di lavo-rare per pensionamento, mentre ne subentrano soltanto 8.000. Qualunque stima si consideri, nessuna colloca la carenza di personale al di sotto delle 50.000 unità. Nonostante l’aumento di laureati in scienze infermieristiche (cfr. Fig. 2), i posti resi disponibili per la formazione non sono sufficienti a coprire la domanda.

In questo quadro, la presenza straniera gioca un ruolo sempre più im-portante. Nel 2011 i medici stranieri abilitati in Italia erano meno di 15 mila, il 4,4% dei circa 370.000 professionisti iscritti (FNOMCeO4). I più numerosi sono i tedeschi (1.070), seguiti da svizzeri (868), greci (864), iraniani (756), francesi (646), venezuelani (630) rumeni (627), statunitensi (617), sauditi (590) e albanesi (552) (ENPAM5).

3 Federazione nazionale Collegi infermieri professionali, assistenti sanitari, vigilatrici d’infanzia.4 Federazione degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri.5 Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza Medici ed Odontoiatri.

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Tabella 1 - Medici e Infermieri iscritti agli Albi.

Medici Iscritti Infermieri Iscritti

Totale Stranieri Totale Stranieri

370 000 14 737 (4,4%) 375 185 38 315 (10,2%)

% donne % uomini % donne % uomini

44.2 55.7 84.5 15.5

Fonte: FNOMCeO, 2011 e IPASVI, 2010.

Allo stesso tempo il numero degli infermieri stranieri in Italia è aumen-tato di quasi quindici volte tra il 2002 e il 2010, arrivando a rappresentare oltre il 10% del totale. Alla fine del 2010, gli infermieri stranieri iscritti agli albi provinciali IPASVI erano più di 38.000, in maggioranza donne (84,5% del totale).

Merita però segnalare il sensibile calo delle iscrizioni all’Albo negli anni più recenti: mentre nel 2007 gli stranieri rappresentavano il 35,3% dei nuovi iscritti, nel 2012 sono soltanto il 15,3% (IPASVI, 2013). Tra le nuove iscrizioni, gli stranieri più rappresentati sono i rumeni (44%), segui-ti da indiani (10,2%), albanesi e peruviani (6-7%).

I dati fin qui presentati, inoltre, non considerano il milione e 655 mila badanti (CENSIS e ISMU, 2013), anche se a non pochi tra questi è deman-data l’assistenza sanitaria domiciliare degli anziani. Rimane comunque confermato anche in Italia il trend dei Paesi OCSE, dove il personale sani-tario straniero ricopre in media il 20% della forza lavoro.

Dal 2002 gli infermieri possono entrare in Italia al di fuori dei limiti previsti attraverso il meccanismo delle quote inserite nel decreto flussi, grazie all’ottenimento di permesso di soggiorno legato alla propria pro-fessione. Nonostante le indicazioni della Direttiva Blue Card 2009/50/CE6 sull’ingresso di cittadini stranieri per lavori altamente qualificati, entro cui rientrano diverse categorie del personale sanitario, l’iter di riconoscimento dei titoli di studio risulta ancora lungo e difficile e l’accesso ai concorsi pubblici ristretto ai soli cittadini UE fino a settembre scorso7.

Insomma: di fronte a una domanda di assistenza sanitaria in presumi-bile forte crescita, il personale qualificato, medico e infermieristico, è e ancor più sarà in diminuzione nel prossimo futuro. È forse il caso di cam-

6 Recepita con il D.Lgs. 108/2012.7 Dal 4 Settembre 2013, con l’entrata in vigore della Legge europea 2013, i cittadini extracomu-nitari potranno partecipare ai concorsi della pubblica amministrazione, anche nel settore sanitario. Fino ad oggi, la partecipazione era ristretta ai soli cittadini dell’Unione Europea.

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biare rotta, cominciando, magari, da una maggior apertura delle frontiere all’immigrazione qualificata in questo campo.

Per saperne di piùCENSIS e Fondazione ISMU (2013), Servizi alla persona ed occupazione nel welfare che cambia, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Roma.Fortunato E. (2012), Gli infermieri stranieri in Italia: quanti sono, da dove vengono e come sono distribuiti, Rivista L’Infermiere N°1 - 2012.IPASVI (2013), Albo IP – Analisi Nuovi Iscritti. Cosa è cambiato negli ultimi cinque anni - Rappor-to 2012, Federazione Nazionale Collegi IPASVI.OECD (2012), Health at a glance 2012: Europe 2012.WHO (2011), The Second Global Forum on Human Resources for Health, 25-29 January 2011, Bangkok, Thailand.

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Decisioni mediche sulla fine della vita. In Francia.

di guStavo de SantiS

La legislatura volge al termine, la politica è in subbuglio, e la crisi eco-nomica morde: chi si preoccupa più delle decisioni cruciali che medici

e familiari, quando non gli stessi interessati, devono prendere nelle fasi terminali della vita? Eppure anche da noi il dibattito si è acceso, a intermit-tenza, in un recente passato: nel 2006 (per la morte prima di Luca Coscioni http://it.wikipedia.org/wiki/Luca_Coscioni e poi di Piergiorgio Welby ht-tp://it.wikipedia.org/wiki/Piergiorgio_Welby, entrambi affetti da SLA. In questo secondo caso, l’anestesista che lo aveva sedato e poi aveva stacca-to la spina alla macchina che lo teneva in vita è stato persino imputato per “omicidio del consenziente”, ma definitivamente prosciolto poco dopo); nel 2009 (morte di Eluana Englaro, per 17 anni in coma dopo un incidente automobilistico http://it.wikipedia.org/wiki/Eluana_Englaro); e di nuovo, sia pur meno, nel 2012, per la morte del cardinale Martini, che affetto dal morbo di Parkinson per gli ultimi 16 anni della sua vita, rifiutò infine quel-le cure che lui stesso definì di accanimento terapeutico.

dA dove nAsce il problemA

“Nel corso del XX sec., in particolare nella seconda metà, gli straordi-nari progressi della medicina ne hanno potenziato le capacità di prolun-gare la vita e rianimare pazienti clinicamente morti, imponendo però il confronto con la constatazione che, in talune circostanze, la vita aggiunta o restituita al malato è caratterizzata da intense sofferenze fisiche e psico-logiche o da gravi condizioni di invalidità. A partire dagli anni Settanta l’emergere di un nuovo modo di affrontare le dimensioni etiche delle scel-te mediche parallelamente al declino del paternalismo medico e al ricono-scimento dell’autonomia decisionale del paziente, ha acceso un importan-te confronto sulle decisioni inerenti la fine della vita.” (Corbellini, 2007)

È a partire da questi problemi che nel 2008 Neodemos ha pubblicato due articoli con i risultati di indagini su questo tema, in Italia e in altri paesi: come si regolano i medici quando si trovano a dover prendere deci-sioni estremi su pazienti che si trovano al limite estremo della vita (Guido

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Miccinesi e Eugenio Paci, “Le decisioni mediche di fine vita”, Neode-mos, prima parte pubblicata il 21/02/2008 http://www.neodemos.it/index.php?file=onenews&form_id_notizia=182 e seconda parte pubblicata il 26/02/2008 http://www.neodemos.it/index.php?file=onenews&form_id_notizia=184; ma v. anche Miccinesi, Puliti e Paci, 2011).

il contesto

Il tema è stato recentemente ripreso da Pennec et al (2012), che hanno reso pubblici i risultati di un’indagine del 2010, svolta presso un campio-ne rappresentativo di 5200 medici che hanno seguito i decessi avvenuti in Francia nel dicembre 2009. In verità i questionari inviati erano più nu-merosi (quasi 12 mila), ma un tasso di risposta del 40% non è una cattiva percentuale in questo genere di indagini. Data la delicatezza dell’argo-mento, come si può capire, è stato garantito il più assoluto anonimato ai rispondenti.

Nel confrontare i risultati francesi con quelli italiani citati sopra, si tenga però anche presente il diverso contesto normativo. In Francia vige, dall’aprile del 2005 la cd. Legge Leonetti, i cui punti cardine sono i se-guenti:

• il malato ha il diritto di rifiutare un trattamento da lui ritenuto “irra-gionevole” in rapporto ai presumibili benefici e il medico ha il diritto di sospendere o di non iniziare trattamenti inutili, o sproporzionati, o con l’unico obiettivo di un artificiale mantenimento in vita;

• tutti coloro le cui condizioni lo richiedono hanno diritto a cure pallia-tive, anche se queste possono avere come effetto secondario l’accor-ciamento della vita residua del paziente;

• il principio di autonomia del malato è rafforzato. Il malato può ri-fiutare certe cure, e il medico si deve conformare a questa volontà. Se il malato non è in grado di esprimere una volontà, il medico pren-de la sua decisione, eventualmente anche di sospensione del tratta-mento, dopo aver tenuto conto dell’eventuale testamento biologico (o dichiarazione anticipata di trattamento http://it.wikipedia.org/wiki/Dichiarazione_anticipata_di_trattamento), e del parere della persona di fiducia (se questa era stata nominata) o, in mancanza di questa, del parere della famiglia, del parere dell’equipe di medici che segue il caso e del parere di un medico “terzo”.

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i principAli risultAti dell’indAgine

I risultati principali dell’indagine, ripresi con enfasi dalla stam-pa francese (v. ad esempio Le Monde http://www.lemonde.fr/sante/article/2012/12/04/fin-de-vie-les-demandes-d-euthanasie-restent-ra-res_1799501_1651302.html?xtmc=decisions_medicales&xtcr=4), sono riassunti nella tabella 1.

Tabella 1 - Decisioni mediche in fine di vita in Francia, nel 2010Val. ass %

Decisioni prese correndo coscientemente il rischio di anticipare la morte del paziente 2 252 47.7di cui: - astensione da un trattamento finalizzato a prolungare la vita 688 14.6 - cessazione di un trattamento finalizzato a prolungare la vita 199 4.2 - intensificazione della terapia del dolore 1 327 28.1 - sommistrazione di farmaci per accorciare la vita 38 0.8

Decisioni prese senza considerare il rischio di anticipare la morte del paziente 1 097 23.2Decisioni prese nel tentativo di prolungare la vita a qualunque costo 576 12.2Morte improvvisa 798 16.9

Totale 4 723 100Fonte: Enquête La fin de vie en France, Ined, 2010.

Circa la metà dei decessi esaminati è stata accompagnata da decisioni mediche prese correndo coscientemente il rischio di accorciare la vita del paziente. Anzi, a guardar bene, più di metà: conviene infatti probabilmen-te escludere dal denominatore i 798 decessi improvvisi, relativamente ai quali non vi sono state decisioni mediche da prendere.

Nei restanti 3925 casi, 2252 (il 57%) hanno comportato decisioni di questo tipo. Ma non si tratta quasi mai di eutanasia, vietata in Francia co-me quasi dappertutto nel mondo (Per una sintesi della legislazione vigente in alcuni altri paesi che hanno affrontato il tema, v. Mancino e Pilello, 2012).

Si tratta invece di decisioni prese con lo scopo di migliorare la qualità della fase finale della vita del paziente, che potrebbero aver avuto come effetto collaterale il rischio, non voluto ma coscientemente corso dal me-dico, di accorciare la vita del malato, e che sono quindi pienamente nello spirito e nella lettera della legge Leonetti attualmente in vigore in Francia. Nella maggior parte dei casi (1327) si è trattato di cure volte a eliminare o almeno ridurre le sofferenze del malato.

Comparativamente rari (12%) sono stati invece gli interventi che mira-

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vano a prolungare il più possibile la vita del paziente, a qualunque costo, e tra questi, non è escluso che ce ne siano anche alcuni presi sotto l’impulso di una degenerazione improvvisa delle condizioni di salute del malato, ma che, se avessero avuto successo e avessero creato quelle condizioni di vita “caratterizzata da intense sofferenze fisiche e psicologiche o da gravi con-dizioni di invalidità” come dice Corbellini (2007), avrebbero poi anche potuto portare a un ripensamento, e andare quindi a incrementare i casi di quelle scelte che la legge Leonetti rende oggi possibili in Francia.

Per saperne di più bisogna però entrare più nei dettagli dei risultati dell’indagine, che conteneva un centinaio di domande. Questi risultati so-no pubblicati, sia pur in forma per il momento solo provvisoria in Pennec et al (2012b).

Per saperne di piùCorbellini Gilberto (2007) “La fine della vita”, Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, Trec-cani.it - L’enciclopedia italiana (http://www.treccani.it/enciclopedia/la-fine-della-vita_(Enciclope-dia_della_Scienza_e_della_Tecnica)/).Mancino Davide e Pilello Antonio (2012) “Fine vita, le leggi negli altri paesi”, MicroMega, 6 sett. http://temi.repubblica.it/micromega-online/fine-vita-le-leggi-negli-altri-paesi/Miccinesi Guido, Puliti Donella, Paci Eugenio (2011) “Cure di fine vita e decisioni mediche: lo stu-dio ITAELD”, Epidemiologia e Prevenzione, 35(3-4): 178-187 http://www.epiprev.it/articolo_sci-entifico/cure-di-fine-vita-e-decisioni-mediche-lo-studio-itaeldPennec Sophie, Monnier Alain, Pontone Silvia, Régis Aubry (2012a) “Les décisions médicales en fin de vie en France”, Population et sociétés, n. 492. (http://www.ined.fr/fr/ressources_documenta-tion/publications/pop_soc/bdd/publication/1618/o http://www.ined.fr/en/resources_documentation/publications/pop_soc/bdd/publication/1618/ per la versione inglese) Pennec Sophie, Monnier Alain, Pontone Silvia, Régis Aubry (2012b) “End-of-life medical decisions in France: a death certificate follow-up survey 5 years after the 2005 Act of Parliament on Pa-tients’ Rights and End of Life”, BMC Palliative Care, 11:25 (http://www.biomedcentral.com/1472-684X/11/25/abstract)

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Longevità, vecchiaia, salute

FMI: vivere più a lungo? Dio non voglia!

di guStavo de SantiS

Da pochi giorni, nell’aprile 2012, è uscito il Global Financial Stability Report (http://www.imf.org/External/Pubs/FT/GFSR/2012/01/index.

htm) del FMI (Fondo Monetario Internazionale), il cui capitolo 4 si inti-tola “The financial impact of longevity risk” (http://www.imf.org/exter-nal/pubs/ft/gfsr/2012/01/pdf/c4.pdf). L’allarme contenuto nel rapporto è stato ripreso da diversi media, tra cui, ad esempio, il Corriere della Sera (http://www.corriere.it/economia/12_aprile_11/fmi-allarme-longevita_e9458e42-83df-11e1-8bd9-25a08dbe0046.shtml).

Il messaggio, in sintesi, è il seguente: se si vive più a lungo, chi pagherà il maggior carico previdenziale? In alcuni casi, un certo allungamento della durata media della vita è già inglobato nel sistema di calcolo, ma allora qui la domanda diventa: che succede se la durata effettiva della vita si allunga più del previsto? Senza le necessarie contromisure, molti paesi si troveran-no in seria difficoltà - persino gli Stati Uniti, che pure, in pensioni, spen-dono molto meno di noi: loro circa il 10% del PIL, tra pubblico e privato, e noi il 13% e passa, secondo l’OECD (Pensions at a Glance 2011 http://www.oecdbookshop.org/oecd/display.asp?k=5KM4SJTZNWS6&lan-g=en), se non addirittura il 16%, secondo Eurostat (http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/setupModifyTableLayout.do).

un sistemA incAsinAto (e mAl fAtto)Certo, è un po’ paradossale che l’allungamento della durata della vita, da

una parte sia desiderato da tutti noi e faccia ben figurare i paesi nelle clas-sifiche internazionali (ad esempio in quella dell’Indice di Sviluppo Umano http://hdr.undp.org/en/statistics/, in cui l’Italia risulta 24^ nel mondo, su 187 paesi considerati), e dall’altra, invece, ci metta in crisi. È segno, si potrebbe pensare, di cattiva impostazione del sistema previdenziale.

Il FMI è un convinto assertore della bontà della capitalizzazione, quel sistema per cui ogni anno si mette qualcosa da parte (sotto forma di contri-buti) e si accumula un capitale, che poi cresce anche grazie agli interessi. Quando si va in pensione, si ritira un pochino ogni anno (veramente sarebbe ogni mese - ma ragioniamo in termini di anni, che è più facile), fino a che, se

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si è stati bravi, si muore proprio il giorno in cui il capitale è esaurito.Il meccanismo è ripreso anche nel nostro sistema previdenziale, quello

cosiddetto Dini, che abbiamo dal 1996 (ma che abbiamo già modificato spesso, e su cui ancora dovremo tornare), che è a capitalizzazione virtuale, il che significa che si fanno i calcoli come se ci fossero dei soldi messi da parte, solo che questi soldi da parte non ci sono, perché i contributi versati dai lavoratori di oggi vengono utilizzati immediatamente per pagare le pensioni di oggi. In realtà, quindi, il nostro è un sistema a ripartizione - e per giunta fatto male, perché i contributi correnti (222 miliardi di euro), non bastano a coprire le uscite (284 miliardi) e questo genera un masto-dontico deficit (di 62 miliardi, pari a circa il 3.5% del PIL), coperto, ogni anno, dai trasferimenti pubblici - altro che manovre di Monti!1

Ma, in buona parte, le storture del nostro sistema previdenziale sono dovute non tanto alla riforma Dini e a suoi successivi (frequenti) aggiusta-menti, quanto al sistema precedente: quello che prometteva pensioni ric-che e precoci a tutti, incurante della mancata quadratura dei conti e fonte di ingiustificate aspettative di benessere facile per tutti; quello che la rifor-ma Dini ha in parte salvaguardato, perché si è deciso che il rigore valesse solo per i giovani e non anche per i vecchi2; quello che non cura concetti di equità attuariale (ti restituisco in pensioni tanto quanto hai versato in con-tributi) né di perequazione (togliamo ai ricchi per dare ai poveri); quello infine di cui beneficerebbero (beneficeranno) gli “esodati”, di cui tanto si parla in questi giorni, che (come tutti quelli che sono andati in pensione prima di loro, beninteso) difendono a spada tratta i loro “diritti acquisiti”, senza curarsi se questi “diritti” sono veri e propri furti legalizzati, ai danni delle generazioni più giovani.

Ma anche con il sistema Dini, che pure costituisce un enorme passo avanti rispetto al passato, i problemi non sono tutti risolti. Vi è intanto il caos che deriva dal passaggio dal vecchio al nuovo, con, ad esempio, la

1 Cifre riferite al 2009, ultimo anno disponibile, e relative alla sola parte previdenziale (esclusa quindi quella assistenziale) degli enti previdenziali italiani. I dati Istat, usciti il 30 agosto 2011, ma senza il tradizionale testo di accompagnamento, si trovano qui: http://www.istat.it/it/archivio/37154. Le tabelle da considerare sono, in particolare, la 2.1.1 e la 2.6.1. La sbilancio esiste da sempre ed è sempre stato molto rilevante: i dati della tab. 2.6.1 risalgono fino al 1999, ma il fenomeno è di gran lunga antecedente. Anche Neodemos ne ha già parlato: ad es. Gustavo De Santis, “Pensioni: dati freschi per un tema ancora caldo”, Neodemos, 05/02/2009).2 E sì: sindacati e partiti hanno protetto prima se stessi e i propri referenti; e anche i severi rifor-matori del sistema, tutti, hanno prima blindato il proprio futuro, e poi pensato a quello del resto del paese, v. Report http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-247967ce-8498-4847-b3bb-83961ad92e31.html.

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fine dei privilegi dei parlamentari (solo di quelli futuri, però!, e a decorrere non dal 1996, ma dal 2013), il difficile ricongiungimento all’INPS delle molte casse di categoria e altri problemi minori (v. ancora Report - http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-247967ce-8498-4847-b3bb-83961ad92e31.html).

E poi vi è una difficoltà di base, che qui semplifico all’estremo, tra-lasciando aspetti pur non secondari quali interessi composti, variabilità dei rendimenti, costi di gestione, ecc. Se Tizio lavora per 40 anni (da 20 a 60 anni) e versa 1.000 in contributi tutti gli anni, accumula un capitale di 40.000. Se muore a 80 anni, e passa quindi 20 anni da pensionato, può “attingere” 2.000 di pensione ogni anno: al momento della morte, avrà esaurito il capitale, e i conti tornano. Se anche non tornano alla virgola per Tizio, ma tornano in media per un gruppo di persone di cui Tizio fa parte, va ancora bene, perché alcuni campano più a lungo e usano, per le loro pensioni, i soldi non sfruttati da quelli che muoiono prima: nell’ag-gregato, il bilancio INPS tra entrate e uscite è ancora in pareggio. Se però, sistematicamente, i vari “Tizio” per cui si sono fatti i calcoli non muoiono a 80 anni ma, per esempio, a 82, il problema c’è. Al compimento dell’80° anno, il “loro” capitale è ormai esaurito, ma può l’INPS smettere di pagare la pensione e lasciarli morire di fame? E se la risposta è no, chi paga?

che fAre?Il “che fare?” è un problema antico, che molti si sono già posti in pas-

sato, magari in contesti diversi (tra cui Lenin - http://it.wikipedia.org/wiki/Che_fare%3F_(Lenin), e, prima di lui, Černyševskij - http://it.wikipedia.org/wiki/Nikolaj_Gavrilovi%C4%8D_%C4%8Cerny%C5%A1evskij), e che, per la parte previdenziale, riemerge periodicamente in discussioni che sanno moltissimo di déjà-vu.

Io la soluzione ce l’ho, e l’ho già proposta: la prima volta nel 1994 (“Popolazione, trasferimenti e generazioni”, relazione invitata alla 35^ Ri-unione Scientifica della Società Italiana degli Economisti, Milano, 28-29 ottobre 1994, con Massimo Livi Bacci), e poi di nuovo, a più riprese, fino alla nausea, anche su Neodemos, oltre che in articoli e libri (es. Previden-za: a ciascuno il suo?, Bologna, Il Mulino, 2006)3.

3 “ ... uno dei testi che lui riteneva tra i più significativi usciti negli ultimi anni ... Un testo che altri non avevano ritenuto nemmeno degno di confutazione.” (Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, Bompiani, 1996, p. 127 - 1^ ed. 1991).

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Il sistema che ho ideato si articola su più piani, e sarebbe qui trop-po lungo riprenderli tutti. Ma sul punto specifico della longevità, l’idea è semplicemente quella di fissare a un livello ritenuto socialmente accetta-bile il rapporto tra la durata della vita adulta (=in principio, lavorativa) e la durata della vita totale. Ammettiamo, per semplicità, che la scelta cada sul valore “50%”: questo significa che scegliamo di lavorare, in media, per metà della nostra vita. Se la durata media della vita è 80 anni, se ne lavorano 40; se la durata sale a 82, se ne lavorano 41; ecc.

Questo sistema avrebbe due notevoli vantaggi sul sistema corrente (e anche, a quanto mi risulta, sui sistemi in vigore in tutto il resto del mondo). Il primo è che l’aggiustamento sarebbe automatico, e avverrebbe ogni an-no, e senza bisogno di comitati, esperti, consultazioni e gruppi di studio. Si tratterebbe di un semplice sottoprodotto dell’attività routinaria dell’Istat, che annualmente produce le tavole di mortalità per l’Italia (http://demo.istat.it/) e che potrebbe molto facilmente affiancare a queste le età, dinami-che, di inizio e fine dell’età adulta, tali per cui il rapporto collettivamente scelto rimanga costante nel tempo - per sempre.

Il secondo vantaggio è che questa soluzione non richiede previsioni, con i costi e i rischi che esse comportano, e che il Fondo Monetario (pe-riodicamente) richiama: basarsi su ciò che si è osservato e aggiustare ra-pidamente il tiro è operazione assai meno rischiosa che non scommettere - e scommettere montagne di soldi! - su un futuro a lungo termine che nessuno conosce.

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Longevità, vecchiaia, salute

IIIPremessa

Condizione di vita e di salute degli anziani

In età anziana tre sono i punti di riferimento della vita quotidiana: la casa, la pensione e la famiglia. L’abitazione rappresenta un rifugio importante

per gli anziani: sia dal punto di vista economico (è una delle loro forme di investimento preferite) sia dal punto di vista psicologico, particolarmente importante per chi, avendo smesso di lavorare, passa molto tempo nella propria casa.

La pensione ha una valenza ambigua. Da un lato è come un traguardo agognato, dopo decenni di lavoro: e il reddito che essa garantisce, spesso il solo di cui beneficia l’anziano, consente la continuazione di una vita di-gnitosa. Ma la brusca cessazione dei ritmi di lavoro e della vita sociale che ad essi si accompagna è un momento di rottura nel corso della vita, che può anche portare all’isolamento e alla depressione, e può incidere nega-tivamente sulle capacità (fisiche e mentali) dei pensionati. Ecco perché si potrebbe prendere in seria considerazione la possibilità di un’uscita lenta e progressiva dal mercato del lavoro, una soluzione potenzialmente gradita agli individui e utile alla collettività, per favorire un ingresso guidato dei giovani sul posto di lavoro e per ridurre un poco l’onere previdenziale. Negli articoli pubblicati in questa sezione questa soluzione emerge con chiarezza, assieme all’auspicio di politiche che favoriscano una vita attiva anche dopo la cessazione del lavoro.

Il 2012 è stato proclamato, in modo un po’ roboante, l’anno europeo per l’invecchiamento attivo e, d’altra parte, se non si trovano modi per riempire le giornate svuotate di compiti produttivi, educativi o sociali, il peso della vecchiaia può diventare insostenibile sia per l’individuo sia per la famiglia che lo circonda. Se l’anziano non ha patologie invalidanti (e gli studi evidenziano che all’allungamento della vita corrisponde di norma anche una maggiore durata di vita in buona salute), non si capisce perché non debba svolgere anche attività lavorative, rallentandone progressiva-mente i ritmi. Il prolungamento della vita lavorativa è uno dei punti car-dine dell’approccio all’invecchiamento attivo. Niente osterebbe a questo

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percorso innovativo, ma il contesto legislativo e istituzionale (in sintonia con la mentalità prevalente tra gli operatori economici privati) non sembra sufficientemente flessibile, sotto questo profilo.

La vecchiaia non si riassume solo nell’età avanzata: il passaggio dalla maturità alla senilità deve tenere conto anche dello stato mentale. Un buon livello cognitivo e una mente sveglia sono potenti antidoti della vecchia-ia, con benefici per la persona e per la collettività. Purtroppo nei paesi dell’Europa meridionale (che hanno proporzioni assai elevate di persone molto anziane), i test specializzati – come quelli sulla memoria – danno risultati meno favorevoli rispetto ad altre realtà europee.

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Chi ben comincia… non sempre è a metà dell’opera

valeria Bordone

In Europa sempre più persone raggiungono l’età avanzata ed è fonda-mentale far sì che mantengano anche la capacità di condurre una vita

socialmente ed economicamente attiva (De Santis, 2014). Il programma di “active ageing”, o invecchiamento attivo appunto, promosso dall’Or-ganizzazione Mondiale della Sanità promuove una visione dell’invecchia-mento con politiche finalizzate alla massima realizzazione delle potenzia-lità fisiche, mentali, sociali ed economiche degli anziani. In quest’ottica, le capacità cognitive sono di fondamentale importanza (Skirbekk, Bordone and Weber, 2014).

mAntenere le cApAcità cognitive A livello individuAle e A livello di società

Diversi studi hanno mostrato che una persona con buone capacità co-gnitive in età scolare tendenzialmente avrà buone capacità cognitive an-che in età adulta (si veda, per esempio, Zimprich and Mascherek, 2010). Questo è dovuto ad una serie di caratteristiche individuali tra cui i tratti genetici, ma anche alla condizione socio-economica in cui si cresce e al livello di istruzione e partecipazione in attività stimolanti per la mente.

Tuttavia, non è detto che questo valga anche a livello macro, cioè per la società. Facciamo un esempio. Consideriamo Smartlandia e Cleverlandia, due diversi paesi, e immaginiamo che gli studenti di Smartlandia avessero risultati migliori degli studenti di Cleverlandia nei test cognitivi svolti 40 anni fa. Se guardiamo oggi queste due popolazioni, saranno gli adulti di Smartlandia ad avere prestazioni migliori? Per rispondere a questa do-manda bisognerebbe disporre di dati su una serie di variabili che influen-zano il livello cognitivo di un paese (es. istruzione, disoccupazione, età al pensionamento, inquinamento, ecc.) per i diversi paesi dove individui appartenenti ad una stessa coorte di nascita vengono seguiti lungo il corso di vita (o almeno per i 40 anni di questo esempio).

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chi ben cominciA è A metà dell’operA?Usando un approccio quasi-longitudinale, si può tuttavia esplorare la

variazione nel tempo delle capacità cognitive dei nati in una certa coorte confrontando diversi paesi. Per fare questo, è sufficiente avere a dispo-sizione i risultati di test cognitivi su un campione rappresentativo ad età giovane ed un campione rappresentativo ad età adulta di nati nella stessa coorte in diversi paesi. In un recente studio (Skirbekk, Bordone and We-ber 2014) abbiamo provato a “misurare” la variazione delle prestazioni cognitive su un arco temporale di 40 anni, dall’età scolare a 50 anni e più in diversi paesi Europei (Belgio, Francia, Germania, Olanda, e Svezia).

In particolare, abbiamo usato i dati del First International Mathematics Study per costruire una classifica dei paesi sulla base dei risultati di pro-ve di matematica svolte attorno ai 13 anni nel 1964. Abbiamo poi creato altre quattro classifiche degli stessi paesi, basate sui risultati di altrettanti test cognitivi svolti nell´ambito della Survey of Health, Ageing and Re-tirement in Europe nel 2004 da un campione rappresentativo di nati nel 1949-1952, appartenenti cioè alla stessa coorte di nascita del campione esaminato 40 anni prima. Poiché diverse capacità cognitive si sviluppano e si evolvono in maniera diversa, ne abbiamo considerate quattro che mi-surano rispettivamente la sfera della memoria in due aspetti, le capacità verbali e le capacità numeriche.

La Figura 1 riporta cinque piramidi che indicano i primi tre paesi clas-sificati (sui cinque paesi considerati) nelle varie classifiche prodotte. La piramide in alto si riferisce alle prestazioni degli studenti nel 1964. I mi-gliori risultati sono degli studenti in Belgio, seguiti dai Tedeschi e dagli Olandesi. Sono questi paesi i migliori anche 40 anni dopo? Questa doman-da corrisponde a chiederci se questi paesi sono stati in grado di mantenere le capacità cognitive sviluppate nei giovani, ma riflette allo stesso tempo la potenzialità di altri paesi di sviluppare le capacità cognitive della pro-pria popolazione più tardi nel corso di vita degli individui. Le piramidi in basso mostrano un chiaro riordinamento. La Svezia, per esempio, non appariva tra i primi tre classificati nel 1964, ma mostra alti punteggi per i cinquantenni, posizionandosi al primo o secondo posto in tutti i test cogni-tivi nel 2004. Al contrario, il Belgio aveva punteggi alti tra i tredicenni nel 1964, ma nel 2004 i suoi cinquantenni raggiungono al massimo un terzo posto in classifica. La Germania occupa costantemente una delle prime due posizioni.

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Figura 1 - Primi tre paesi classificati nella prova di matematica per gli studenti, 1964 (piramide in alto) e nei test cognitivi, 2004, nati nel 1949-1952.

Fonte: elaborazione grafica delle Tabelle 3 e 4 in [1].

I fattori che spiegano gli spostamenti dei paesi (verso l’alto o verso il basso) nelle classifiche riportate in Figura 1 possono essere molteplici. Da un lato può essere che una serie di fattori (ad es., dieta con eccesso di grassi, sale e zuccheri, inquinamento atmosferico, mancanza di opportu-nità per attività fisiche e mentali, ecc.) non abbiano aiutato alcuni paesi a mantenere le capacità cognitive dei propri individui. Dall’altro, può anche essere che in altri paesi siano intervenuti dei fattori che hanno contribu-ito a migliorare le capacità cognitive dei propri adulti, sebbene avessero capacità relativamente basse da giovani (ad es., corsi di aggiornamento, attività promosse in diverse fasce d’età, rialzo dell’età pensionabile, ecc.). L’obbligo scolastico, per esempio, è stato determinante per le generazioni considerate in questo studio. Inoltre, cambiamenti nella partecipazione al mercato del lavoro hanno probabilmente giocato un ruolo chiave, soprat-tutto per le donne che oggi partecipano molto di più al mercato del lavoro in tutti i paesi Europei, ma il cui sviluppo ha preso piede in tempi diver-si nei vari paesi considerati da questo studio. Riteniamo che tutti questi aspetti siano associati ad una vita più “attiva”, nel senso enfatizzato dal programma di “active ageing” e quindi possano informare lo sviluppo di politiche volte alla promozione della salute della popolazione.

Questo studio da solo non può dare una risposta completa ai motivi per cui un paese è in grado, meglio di un altro, di sviluppare e di mantenere le

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capacità cognitive fino ad età avanzata, ma i risultati mostrati suggerisco-no la necessità di considerare le diverse realtà, scolastiche, economiche, sociali, culturali e politiche, intervenute nel periodo di tempo e nei paesi che si confrontano, che possono contribuire a modificare il rapporto delle capacità cognitive dei soggetti esaminati.

Riferimenti bibliograficiDe Santis, G. (2014) Invecchiamento (c)attivo, Neodemos, 25/06/2014Skirbekk, V., Bordone, V. and Weber, D. (2014) A cross-country comparison of math achievement at teen age and cognitive performance 40 years later. Demographic Research 31(4):105-118.Zimprich, D. and Mascherek, A. (2010) Five views of a secret: Does cognition change during middle adulthood? European Journal of Ageing 7(3):135‒146.

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Invecchiamento (c)attivo

di guStavo de SantiS

La popolazione del mondo è sempre più vecchia (l’età mediana è oggi circa 30 anni, da 22 che era nel 1975), soprattutto nei paesi sviluppati (41 anni),

e in particolare in alcuni di questi, tra cui Italia (45 anni) e Germania (46). Si possono guardare anche altri indicatori, naturalmente, ma il risultato

non cambia molto: ad esempio, la quota di anziani (65+ anni) sugli adulti (15-64 anni) è oggi del 13% nel mondo, del 26% nei paesi più sviluppati e del 33/34% in Italia e Germania, ed è ovunque in crescita.

E l’invecchiamento è normalmente percepito come una cosa cattiva: maggior peso degli improduttivi, dei malati, dei non autosufficienti, dei consumatori di medicinali, ...

questione di punti di vistA

Ma il quadro non è del tutto negativo. Intanto, per i diretti interessati, l’alternativa all’invecchiamento è solitamente considerata peggiore. Poi si può provare a cambiare il punto di vista e, ad esempio, anziché conside-rare gli anni già trascorsi, si può guardare invece agli anni che, in media, restano ancora da vivere. Il confronto tra le figure 1 e 2 è abbastanza chia-ro a questo riguardo: la scala è la stessa, le aree a confronto sono le stesse e il periodo è lo stesso (1950-2100) ma l’immagine è un poco diversa, in termini sia di livello sia di tendenze.

Figura. 1 - Quota di anziani (criterio 1) Figura 2 - Quota di anziani (criterio 2)

Criterio 1: Quota di popolazione di 65 anni o più (sul totale)Criterio 2: Quota di popolazione cui restano, in media, meno di 15 anni da vivere (sul totale)P.Svil. = Paesi sviluppati; PVS = Paesi in via di sviluppo; P.Poveri = Paesi poveriFonte: UN (2012)

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Come mai? Perché nel caso della fig. 2 si è data una diversa definizione di anziano: è tale colui (o colei) cui restano, in media, meno di 15 anni da vivere. E siccome la durata media della vita si allunga nel tempo, questa seconda definizione “dinamizza” la soglia per l’età anziana, spostandola verso l’alto. Ad es. in Italia, con questo criterio dei 15 anni “residui”, nel 1950 si diventava anziani a 63 anni, ma nel 2000 solo a 70 anni, che nel 2009 (ultimo anno disponibile) erano già saliti a oltre 71 (fonte: HMD).

Si tratta di un criterio perfettamente sensato: se essere anziani significa non aver più tempo davanti a sé (es, per imparare cose nuove, fare pro-grammi, investimenti, ecc.) allora è giusto comparare contesti diversi a parità di “prospettiva residua di vita”.

Oppure si può guardare a quanto è “sveglia” la mente, cosa non facile da misurare, ma di cui si può pervenire a qualche valutazione indicativa. La figura 3, ad es., riporta il punteggio di memoria a breve termine (imme-diate recall score) all’inizio di questo millennio in vari paesi del mondo. Come si vede, i paesi strutturalmente più vecchi (Nord e Centro Europa, Stati Uniti) ottengono risultati mediamente migliori di altri, e forse ci si può spingere fino a pensare che “in certi paesi gli abitanti sembrano vec-chi, ma in realtà sono più svegli (=più giovani di mente) dei residenti nei paesi giovani” (grazie all’istruzione di massa, suggeriscono gli autori). Purtroppo, si notano qui anche alcune aree, come l’Europa del Sud, in cui l’invecchiamento è rapido (questo non si vede in figura), ma i punteggi di memoria a breve termine sono bassini ... (ahi, ahi!)

Figura 3 - Punteggio di memoria a breve termine

Nota. A persone di varie età, in vari paesi, si leggono i nomi di 10 animali, e poi si chiede loro di ripetere quanti più animali ricordano. Un valore di 0.4, ad es., indica che il rispondente ricorda cor-rettamente 4 animali su 10. Periodo 2000-2005 (dipende dai paesi)Fonte: Skirbekk V., Loichinger E., Weber D. (2012)

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Active Ageing

In un mondo di slogan non poteva mancare un’etichetta da appiccicare al tentativo di mantenere attive le persone che, in passato, sarebbero state considerate vecchie: invecchiamento attivo, appunto, o active ageing. Il 2012, addirittura, è stato pomposamente definito l’anno europeo per l’in-vecchiamento attivo (e per la solidarietà tra le generazioni - http://europa.eu/ey2012/). D’altra parte, se si muore sempre più tardi (ormai oltre gli 80 anni nei paesi ricchi - soprattutto le donne), la fase terminale della vita rischia di diventare un peso insostenibile - per i diretti interessati, per le famiglie, per la società - se non la si arricchisce di iniziative, viaggi, at-tività varie ... e lavoro. Notiamo intanto che non è solo un allungamento quantitativo della vita: le condizioni di salute in generale progrediscono anch’esse e quindi (in media, e senza pretendere di tirare troppo la corda) gli anziani di oggi stanno meglio degli anziani di ieri (Robine, Cambois 2013). Pertanto possono ... dare, e fare, di più (https://www.youtube.com/watch?v=cAhg7c9EYYA).

Ma lo fanno effettivamente? Beh non sempre il contesto istituzionale favorisce: non in Italia, ad esempio (Tibaldi 2014), dove anzi il nuovo go-verno si sforza di mandare a casa i lavoratori che potrebbero ancora restare in servizio, introducendo la pessima norma del pensionamento obbliga-torio al raggiungimento di una certa soglia di età - in questo appoggiato, del resto (erroneamente, a mio modo di vedere), dalla maggior parte degli italiani (figura 4).

Figura 4 - Favorevoli e contrari a un’età obbligatoria di pensione in Europa nel 2012

Fonte: http://www.keepeek.com/Digital-Asset-Management/oecd/social-issues-migration-health/ageing-and-employment-policies-netherlands-2014/attitudes-towards-a-compulsory-retire-ment-age-european-countries-2012_9789264208155-graph23-en#page1

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Gli effetti di questo atteggiamento, contrario allo spirito dell’invec-chiamento attivo, si notano nelle graduatorie internazionali. Per esempio, a cura dell’UNECE (United Nations Economic Commission for Europe), è da poco nato l’indice dell’invecchiamento attivo, che si basa su vari indi-catori: occupazione, partecipazione politica, attività di volontariato, aiuto e assistenza prestati ai familiari, attività fisica, ... (http://www1.unece.org/stat/platform/display/AAI/Active+Ageing+Index+Home).

Ci sono naturalmente le graduatorie (http://www1.unece.org/stat/pla-tform/display/AAI/II.+Ranking): sui 27 paesi europei esaminati (EU, ma senza la Croazia, l’ultima entrata), l’Italia è piazzata benissimo come par-tecipazione sociale (2° posto, dopo l’Irlanda), ma è messa malino sugli altri indicatori e malissimo - indovina un po’? - sul fronte lavoro: solo 22^.

Complessivamente, pur se le sintesi di indicatori eterogenei sono sempre as-sai discutibili, siamo al 15° posto, ma se si distingue per sesso (vi ho mai parlato della mia avversione per il termine “genere”?) si scopre che siamo al 13° posto tra i maschi e al 18° tra le femmine, essenzialmente perché le donne, in Italia, lavorano poco per il mercato - soprattutto quelle un po’ anziane (figura 5).

Figura 5 - Graduatoria di 27 paesi Europei rispetto all’indice di invecchiamento attivo, per sesso

Fonte: http://www1.unece.org/stat/platform/download/attachments/76287841/AAI%2027%20gen-der%20breakdown.jpg?version=1&modificationDate=1396436550385&api=v2

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Famiglie flessibili. L’arte di arrangiarsi ai tempi della crisi

buchi di bilAncio

Ma non è solo una questione di graduatorie internazionali e di preferenze individuali. C’è anche un serio problema di carico previdenziale: da noi se ne parla solo a sprazzi (ad es. con la confluenza di Enpals e Inpdap nell’INPS - dic. 2011, decreto “Salva Italia” del governo Monti), ma è perché non vo-gliamo vedere la realtà. Da molti anni l’Istat pubblica il bilancio consolidato degli enti previdenziali (con dati ora anche, in forma ridotta, nel sito http://se-riestoriche.istat.it/), dal quale, da molti anni, si vede che le uscite superano le entrate, e le superano di molto: anche limitandosi alla sola parte previdenziale si parla di qualcosa vicino al 3% del PIL. Ogni anno. E questo nonostante che da noi le aliquote contributive siano tra le più alte del mondo.

Un rapporto, in teoria confidenziale, di un gruppo di esperti al governo di Angela Merkel avverte che il futuro della Germania è grigio (appunto), e che il mantenimento delle prestazioni attuali richiederebbe un forte innalza-mento dell’età pensionistica, fino a 76 anni, oltre che un continuo e robusto afflusso di immigrati (circa 400 mila all’anno - http://www.repubblica.it/economia/2014/06/17/news/pensioni_lavoro_crisi_eurozona-89216990/).

Le prospettive sono preoccupanti anche da noi, naturalmente, più che non in Germania: ma noi preferiamo parlare invece di chiusura delle fron-tiere agli immigrati e di introduzione dell’età obbligatoria di pensione.

Più che all’invecchiamento attivo, sembriamo interessati a attivare l’invecchiamento.

Per saperne di piùHMD - Human Mortality Database (http://www.mortality.org/)Istat (2013) I bilanci consuntivi degli enti previdenziali (http://www.istat.it/it/archivio/97648)Skirbekk V., Loichinger E., Weber D. (2012) Variation in cognitive functioning as a refined approach to comparing aging across countries, Proceedings of the National Academy of Sciences of the Unit-ed States of America, 109 (3): 770-774 (http://www.pnas.org/content/109/3/770.full).Robine J.-M., Cambois E. (2013) Les espérances de vie en bonne santé des Européens, Population et Sociétés, N°499, avril, http://www.ined.fr/fr/ressources_documentation/publications/pop_soc/bdd/publication/1639/Tibaldi M. (2014) “Invecchiamento attivo e transizione verso la pensione”, Neodemos, 05/02/2014.UN - DIESA (2012) World Population Prospects: The 2012 Revision, http://esa.un.org/unpd/wpp/index.htm.

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Casa dolce casa: la proprietà dell’abitazione tra gli europei over 50

FranceSco acciai, M.letizia tanturri e daniele vignoli

La casa è senza dubbio il più importante bene di investimento per la popolazione over 50 e il suo valore costituisce più della metà della

ricchezza degli anziani in Europa. Ci sono Paesi – come la Svezia, la Da-nimarca e la Svizzera - in cui gli anziani diversificano maggiormente gli investimenti e la casa costituisce solo il 60-65% della ricchezza. Ma ce ne sono altri come il nostro, con la Spagna, la Slovenia e la Polonia, in cui la proprietà immobiliare ammonta a più dei 4/5 della ricchezza posseduta (figura 1).

I vantaggi per i proprietari sono molti: prima di tutto, a parità di entrate, chi ha una casa ha a disposizione una maggiore liquidità rispetto a chi deve pagare un affitto; non solo, ma la casa è un bene che può essere rivenduto in futuro in caso di necessità, come nei momenti di difficoltà economica o nelle fasi della vita in cui il reddito diminuisce. Un altro aspetto importan-te, non trascurabile per gli anziani, è la possibilità di lasciare l’abitazione in eredità così che anche i posteri possano goderne i benefici.

Nei paesi dove le pensioni sono basse, diventare proprietari rappre-senta una strategia efficace contro il rischio di cadere in povertà. Tra gli anziani le necessità in termini di dimensione abitativa tendono di solito a ridursi in genere, ad esempio quando i figli lasciano la casa dei genitori o l’anziano rimane vedovo. Dunque, vendere questa “ecceden-za abitativa” per acquistare una casa più piccola potrebbe garantire agli anziani un certo reddito e migliorarne il benessere. Non è raro, però, che le persone “ricche in termini di proprietà immobiliare”, siano rilut-tanti a vendere la propria abitazione nel caso di difficoltà economiche, semplicemente perché la casa è molto di più di un bene di investimen-to: qualcuno dice che è un vero e proprio “contenitore degli affetti”, dal grande significato simbolico.

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Longevità, vecchiaia, salute

Figura 1 - Percentuale della ricchezza totale costituita dal valore della casa in alcuni Paesi Europei (dati Share 4).

lA cAsA “contenitore degli Affetti” Abitare una casa di proprietà è una scelta maggioritaria per i cittadini

europei over 50. I dati SHARE1 (Survey of Health, Aging and Retirement in Europe) mostrano tassi di proprietà superiori al 55% in tutti i Paesi esa-minati, con punte massime che superano l’80% in alcuni Paesi nell’Euro-pa mediterranea ed orientale (figura. 2).

Questa preferenza non è immotivata: secondo alcuni studi infatti la casa non rappresenta solo un bene di investimento, ma anche una sorta di bene di consumo da cui è possibile trarre immediato godimento. La qualità di vita, in generale, aumenta quando si diventa proprietari; le case di pro-prietà sono mediamente più grandi e accessoriate, posizionate in quartieri migliori, e più adatte ai bisogni degli inquilini, rispetto alle case abitate da affittuari. Essere proprietari rappresenta in alcuni casi anche una sorta di status symbol.

1 SHARE è un’indagine multiscopo di livello europeo, incentrata sulla popolazione ultracinquan-tenne. Il nostro campione è basato sulla rilevazione più recente (2011/2012) e comprende circa 56,000 persone residenti in 16 diversi paesi: Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Esto-nia, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna, Svezia, e Svizzera.

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Figura 2 - Tasso di proprietà della casa per tra gli Europei over 50 e differenze di genere (dati Share 4).

Indubbio – come già ricordato - è anche il valore affettivo e simbolico che la casa rappresenta per molte persone, e questo aspetto è ancora più importante per gli anziani, che trascorrono una gran parte del tempo nella propria abitazione, specialmente dopo il pensionamento, o nel caso di di-sabilità. La casa rappresenta dunque un ambiente sicuro, ricco di ricordi, che può diventare una vero e proprio rifugio nelle fasi finali del ciclo di vita, anche perché permette agli anziani di restare ben radicati nella loro comunità di appartenenza.

le donne “regine dellA cAsA” … in Affitto

Nella maggior parte dei paesi del nostro campione - con l’eccezione di Italia e Spagna - tra i proprietari c’è una proporzione maggiore di uomini che non di donne (77% contro il 73%) che hanno meno accesso alla pro-prietà dell’abitazione (la linea in Fig. 2 rappresenta le differenze di genere nei vari paesi). Non è difficile comprenderne le ragioni: nel corso della vita le donne hanno redditi più bassi e minore accesso al credito, specie se sono in situazioni lavorative precarie e/o familiari non-standard (ad esem-pio, le donne più spesso degli uomini si trovano a vivere sole con i figli minori).

Anche le modalità di accesso alla proprietà sono diverse: le donne in molti casi sono proprietarie solo perché hanno ereditato la casa dalla fami-

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Longevità, vecchiaia, salute

glia di origine o dal marito defunto. Anche quando sono in coppia le loro risorse sono meno determinanti per l’acquisto dell’abitazione.

Tutto questo si ripercuote alle età anziane. Prendiamo ad esempio il caso dei single, per cui il proprietario effettivo dell’abitazione è riconosci-bile in modo inequivocabile: i tassi di proprietà di chi vive solo sono più contenuti della media delle famiglie (rappresentata dalla linea continua nella figura 3). Se confrontiamo uomini e donne, però, si nota come le differenze di genere siano in alcuni paesi trascurabili, mentre in altri sono marcate (20 punti percentuali) come in Danimarca e Portogallo.

Non sorprende che le famiglie povere siano più spesso escluse dalla proprietà rispetto alla media delle famiglie in tutti i Paesi, tuttavia le dif-ferenze sono contenute dove la proprietà è più diffusa, e più ampie dove è meno comune. Se confrontiamo uomini e donne poveri, però, non emer-gono differenze di genere sistematiche a svantaggio delle donne: la situa-zione varia da contesto a contesto.

Figura 3 - Tasso di proprietà della casa per tra gli Europei over 50: confronto tra la media delle famiglie e uomini e donne single (dati Share 4).

il genere contA per essere proprietAri e non AffittuAri?Un nostro studio recente con i dati Share ha tracciato i profili di pro-

prietari e affittuari nella popolazione europea over 50, prestando partico-lare attenzione alle differenze di genere tra i due gruppi. A parità di altre caratteristiche le donne over 50 hanno una minore probabilità di essere proprietarie, così come le persone con un basso livello di istruzione, i di-

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soccupati o i disabili, e inaspettatamente persone nella fascia di età 50-59 anni. Questo si spiega verosimilmente con il fatto che i più giovani appar-tengono a generazioni in cui i tassi di proprietà sono più ridotti, mentre sembra meno plausibile un effetto vero e proprio dell’età, visto che la casa difficilmente si riesce ad acquistare dopo il pensionamento.

Tra chi è a maggior rischio di esclusione dalla proprietà, troviamo an-cora le famiglie numerose (4 o più figli) e quelle al di sotto della soglia di povertà, così come i residenti di aree urbane, che evidentemente trovano condizioni meno favorevoli nel mercato immobiliare.

È interessante notare come le differenze di genere che abbiamo osser-vato nelle figure 2 e 3 persistano anche dopo aver controllato per le diffe-renze socio-economiche fra uomini e donne. In altre parole, anche quando paragoniamo donne e uomini con le stesse caratteristiche (stesso reddito, stesso livello di istruzione, stessa situazione lavorativa, ecc.) le donne ri-sultano ancora svantaggiate in termini di accesso alla proprietà della casa.

il nucleo fA lA differenzA

Fino a qui, i nostri risultati sono piuttosto in linea con le aspettative; tuttavia, una volta presa in considerazione la composizione del nucleo fa-miliare, le differenze di genere scompaiono. Le donne, dunque, non sono escluse dalla proprietà della casa di per sé rispetto agli uomini, ma solo perché fanno più spesso parte di quelle tipologie familiari con un mino-re accesso alla proprietà: ad esempio, le famiglie numerose e soprattutto quelle unipersonali, che per oltre il 70% sono costituite da donne.

In altre parole, quando confrontiamo donne e uomini appartenenti alla stessa tipologia familiare (donne che vivono da sole con uomini che vivo-no da soli, donne che vivono in coppia con uomini che vivono in coppia, etc.) le differenze di genere scompaiono.

Per saperne di più Vignoli D., Tanturri M.L. e Acciai F. (2014), Home Bitter Home? Gender, Living Arrangements, and the Exclusion from Home Ownership among Older Europeans, FamiliesAndSocieties Working Paper Series 10 (2014).http://www.familiesandsocieties.eu/wp-content/uploads/2014/05/WP10VignoliEtal2014.pdf

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Invecchiamento attivo e transizione verso la pensione

Mauro tiBaldi1

Il progressivo invecchiamento della popolazione, un fenomeno che inte-ressa in modo particolare l’Italia, sta mutando sia la struttura generale

della popolazione sia quella della forza lavoro, facendo emergere questioni importanti che investono i riassetti del mercato del lavoro e la sostenibilità dei sistemi pensionistici e assistenziali. L’Unione europea ha dichiarato il 2012 Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni, per accrescere la consapevolezza generale e l’attenzione dei policy maker sulle principali sfide poste dai cambiamenti demografici.

Riguardo alle conseguenze nel mercato del lavoro, l’Istat ha inseri-to nel secondo trimestre 2012 all’interno della rilevazione sulle Forze di lavoro il modulo ad hoc europeo “Conclusione dell’attività lavorativa e transizione verso la pensione” con l’obiettivo di ampliare, in riferimento alla popolazione di 50-69 anni, il patrimonio informativo disponibile ri-guardo a percorsi, tempi e modalità di ritiro dall’attività lavorativa per mo-nitorare la partecipazione al mercato del lavoro della popolazione anzia-na. Attraverso l’analisi dei dati del modulo ad hoc saranno esaminati due aspetti, che risultano cruciali all’interno delle politiche di active ageing: la transizione graduale verso il pensionamento e il prolungamento della vita lavorativa.

dAl lAvoro AllA pensione: un pAssAggio senzA trAnsizioni

L’Italia si caratterizza sia per un intenso invecchiamento della popola-zione, sia per la bassa partecipazione al mercato del lavoro delle persone in età matura. L’indice di vecchiaia nel 2011 è pari al 147,2%, il secondo nell’Unione europea dopo la Germania, il tasso di occupazione nella fa-scia dei 50-64enni - seppure in crescita - nel 2012 si attesta al 51,3%, oltre sette punti sotto la media dei paesi Ue27. La coesistenza dei due fenomeni da un lato mette a rischio la tenuta del sistema previdenziale, dall’altro evidenzia che le politiche di invecchiamento attivo nell’ambito del merca-

1 Istat, Direzione centrale delle statistiche socio-economiche

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to del lavoro sono insufficienti.Il passaggio dalla vita lavorativa alla pensione rappresenta una svolta

fondamentale nell’esistenza degli individui. Pur essendo un traguardo da raggiungere, la pensione può portare con sé una crisi d’identità connessa alla perdita di relazioni e di riconoscimento sociale, cui si accompagna la necessità di ristrutturare e adeguare i tempi di vita alla nuova condizione esistenziale. Per tali ragioni sarebbe opportuno compiere una transizione graduale verso il pensionamento, introducendo misure di riduzione del tempo di lavoro nella fase conclusiva dell’impiego. Le forme di transizio-ne graduale verso il pensionamento, tuttavia, non sono ancora diffuse nel nostro Paese.

Nel 2012 tra gli occupati di 55-69 anni solamente il 3,5% (116 mila unità) ha ridotto l’orario di lavoro in vista della pensione. Tale scelta è più frequente al crescere dell’età e tra i lavoratori autonomi rispetto ai dipendenti. Il confronto con i dati del 2006, anno della prima edizione del modulo ad hoc, evidenzia un calo di questa quota (era il 4,3%), nonostante le raccomandazioni internazionali che sottolineano da tempo l’importanza di un passaggio graduale dalla vita lavorativa al pensionamento.

un futuro grigio per il prolungAmento dell’Attività lAvorAtivA

Il prolungamento dell’attività lavorativa è uno dei punti cardine delle politiche di invecchiamento attivo, sia da un punto di vista soggettivo, sia in un’ottica di sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale nel suo complesso. I dati raccolti sulle intenzioni future degli occupati di 50-69 anni che ancora non beneficiano di una pensione da lavoro (6 milioni e 253 mila unità), non mostrano risultati incoraggianti. Una volta iniziata a percepire la pensione, il 62% degli intervistati intende smettere di la-vorare, quasi un quarto non ha preso ancora una decisione e poco meno del 15% intende restare in attività (Tab.1), con le donne maggiormente propense a uscire subito dal lavoro. I lavoratori autonomi rispetto ai di-pendenti sono più inclini a proseguire l’attività (il 28,6% contro il 10,1%) e più incerti sul futuro, con una percentuale molto superiore alla media di persone che imputano il proseguimento a motivi non economici, presumi-bilmente perché più soddisfatti dei contenuti e della maggiore autonomia del proprio lavoro.

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occupati di 50-69 anni. II trimestre 2012, valori percentuali

Maschi 11,2 5,9 58,2 24,7 100,0Femmine 8,4 3,0 67,6 21,0 100,0

Nord 9,4 4,8 63,7 22,1 100,0Centro 12,4 5,6 58,1 23,9 100,0Mezzogiorno 9,3 4,0 62,1 24,5 100,0

Dipendenti 7,2 2,9 68,7 21,1 100,0Indipendenti 18,5 10,2 42,1 29,3 100,0Totale 10,0 4,8 62,0 23,2 100,0

Sesso, ripartizione geografica e posizione nella professione

Tab.1. Intenzione di continuare a lavorare dopo aver ricevuto la pensione da lavoro degli

Si per motivi economici

Si per altri motivi Non sa TotaleNo

Le motivazioni sottostanti la scelta di continuare a lavorare dopo la pensione variano in funzione del livello d’istruzione. Chi possiede al mas-simo la licenza media sarebbe incentivato a proseguire l’attività lavorativa più per motivi economici (il 12,6%, contro il 3,1% per motivi non econo-mici), mentre l’incidenza di chi proseguirebbe per motivi legati alla sod-disfazione del lavoro è sensibilmente più alta tra i laureati (10,3%), ancora di più se uomini.

Di particolare interesse i dati retrospettivi riferiti alle esperienze lavo-rative degli inattivi di 50-69 anni che beneficiano già di una pensione da lavoro. La durata media delle carriere lavorative è in lieve aumento rispet-to al 2006 (36,2 anni contro 35,1 anni), ancora mediamente più lunghe per la componente maschile. Si allungano anche le carriere contributive, da 34,0 a 35,4 anni, con periodi di contribuzione mediamente inferiori per le donne e i pensionati del Mezzogiorno. A sintesi di tali percorsi l’età media in cui i ritirati dal lavoro di 50-69 anni hanno dichiarato di aver iniziato a ricevere la pensione passa da 57,1 anni del 2006 a 58 anni nel 2012.

il rischio dell’Active Ageing senzA misure di sostegno

Tali evidenze confermano che, seppur lentamente, i percorsi lavorati-vi si stanno allungando anche nel nostro Paese, nonostante che circa tre quarti dei ritirati dal lavoro di 50-69 anni sia andato in pensione in ma-niera anticipata rispetto all’età prevista per la pensione di vecchiaia, con una quota ancora più elevata per la componente maschile (oltre il 90%). Tale fenomeno, oltre che alle scelte individuali, è ascrivibile alle politiche industriali attuate negli ultimi trent’anni nei diversi processi di ristruttu-razione aziendale, allorché le imprese hanno utilizzato il pensionamen-

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to anticipato come strumento per favorire il ricambio generazionale e di competenze, espellendo dal processo produttivo i lavoratori maturi.

La recente riforma delle pensioni (legge n. 214/2011) non solo ha abo-lito la pensione di anzianità (o anticipata), ma con l’innalzamento repen-tino dell’età pensionabile e l’introduzione del sistema di calcolo contribu-tivo per tutti ha di fatto chiuso un’epoca. Il prolungamento della carriera lavorativa, attuato in modo stringente per via normativa senza prevedere forme flessibili di transizione verso il pensionamento, ha però aperto un fronte che le imprese e le istituzioni sono chiamate ad affrontare, prima che si trasformi in un problema sociale. Da una parte si tratta di supportare la capacità di partecipare al lavoro in età relativamente avanzata in termini di organizzazione del lavoro e mansioni adatte a questa fascia di occupati, dall’altra di sostenere e accompagnare verso il pensionamento i lavoratori maturi espulsi dal processo produttivo, in presenza di un traguardo (la pensione) che è stato spostato in avanti in un mercato del lavoro rimasto sostanzialmente immobile.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle degli autori ma non coinvolgono le istituzioni di appartenenza

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Longevità, vecchiaia, salute

Stiamo perdendo la “sfida dell’invecchiamento”?

cecilia reynaud*, Sara Miccoli*, Sara BaSSo**

La Commissione Europea, il 12 ottobre 2006, proponeva le sue linee guida su “Il futuro demografico dell’Europa, trasformare una sfida in un’oppor-

tunità” (http://europa.eu/legislation_summaries/employment_and_social_po-licy/situation_in_europe/c10160_it.htm), con l’obiettivo di delineare le rispo-ste politiche da dare alle tendenze della popolazione europea e, in particolare, alle problematiche connesse all’invecchiamento.

le linee guidA dellA commissione europeA

A tal fine, si delineavano le strategie che gli stati membri avrebbero dovuto perseguire per affrontare le numerose sfide connesse all’invecchia-mento. Si affermava, tra l’altro, la necessità di adottare delle politiche tese a prevenire il declino demografico e a contrastare il calo della fecondità. La Commissione sottolineava la necessità di politiche finalizzate a ridurre le difficoltà incontrate dai giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e politiche di parità tra i generi in grado di facilitare la possibilità di avere figli. In linea con quanto stabilito nella strategia di Lisbona, si auspicava-no interventi per favorire un aumento del tasso di occupazione. Si sottoli-neava, inoltre, la necessità di aumentare il tasso di attività femminile e di elaborare delle linee guida per attuare la cosiddetta flexecurity favorendo quindi, accanto alla flessibilità dei mercati del lavoro, l’elaborazione di provvedimenti relativi alla protezione sociale1.

l’invecchiAmento e lA crisi in itAliA

La popolazione italiana, tra quelle europee, presenta, da diversi anni, il livello più elevato di invecchiamento, facendo registrare una percentuale di persone con più di 65 anni del 19,6%; poco distante è la Germania con

* Università Roma Tre** Istat1 Commission of the European Communities (2006) Commission communication “The demo-graphic future of Europe – from challenge to opportunity”

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il 19,3%, mentre la media dei 27 paesi appartenenti oggi alla UE è pari al 16,8%2.

Nonostante ciò, la politica italiana da allora non sembra aver voluto affrontare il problema della sostenibilità dell’invecchiamento della po-polazione, né puntare alla ripresa della fecondità, così come “suggerito” dalla Commissione. E la crisi economica ha accentuato le difficoltà, con-tribuendo all’ulteriore caduta della disoccupazione giovanile e femminile, e anche allo stallo della fecondità. Dal 2008 ad oggi si sono persi più di 800.000 posti di lavoro e le assunzioni (prevalentemente di giovani) han-no subìto un calo del 20%, in particolare quelle a tempo indeterminato3.

Dal 2007 a oggi, il reddito lordo a disposizione delle famiglie italiane ha perso il 4,7% del suo potere d’acquisto acuendo le situazioni di povertà, che colpiscono soprattutto le donne: nel 2010, ad esempio, il 57,5% delle famiglie più povere ha un capofamiglia donna4.

Le istituzioni continuano ad essere assenti in questi difficili anni, e so-no le famiglie stesse, quando possono, a dover sopperire a tale mancanza di aiuti e sostegno. Negli anni della crisi sono infatti aumentate le famiglie che hanno effettuato delle donazioni a parenti ed amici in difficoltà5.

Le misure per assicurare una maggiore protezione ai periodi di disoc-cupazione e precarietà sono essenziali per i giovani, ma anche per molte donne, vittime, ancor più degli uomini, di un mondo del lavoro fortemente precario, e più fragili nel momento in cui decidono di diventare madri, anche a causa dell’insufficienza delle misure di conciliazione tra lavoro e famiglia.

Purtroppo, nel nostro paese, tali questioni non sono mai state al centro del dibattito politico e continuano a non esserlo oggi. Le spese per questo tipo di politiche sono sempre state viste più come un costo che come un investimento, e, stante la crisi di bilancio, sono state tagliate6.

2 Dati Eurostat, 20133 Confindustria, 20124 Montella M., Mostacci F., Roberti P. (2012) “I costi della crisi pagati dai più deboli” in www.lavoce.info5 Scrutinio V. (2012) “Un welfare all’italiana: il sostegno delle famiglie durante la crisi” in www.neodemos.it6 Mencarini L. (2011) “Famiglia e fecondità in Italia, tutto cambia perché nulla cambi?” in www.neodemos.it

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gli effetti

Ma gli effetti si sentono. Ad esempio, il TFT nel 2011 è stato pari a 1,39, invece di 1,42, come stimato nelle previsioni Istat calcolate solo un anno fa. Rispetto alle previsioni, pur non particolarmente ottimistiche, si sono registrate oltre 10.400 nascite in meno che, fermi restando gli altri parametri demografici, dovrebbero aver provocato già nello stesso 2011 un aumento dell’indice di vecchiaia (100*P65+/P0-14), pari allo 0,18% (tab. 1). Inoltre andando a confrontare il saldo migratorio previsto per il 2012, pari a circa 325.000, con quello che risulta dai dati provvisori, circa 241.000, si nota come questa differenza abbia prodotto una mancata immissione di popolazione presumibilmente più concentrata nelle classi di età centrali e lavorative. Da questi semplici calcoli, solo relativi al 2011, possiamo af-fermare che, proprio a causa della crisi economica, la popolazione italiana al 1.1.2012 risulta più invecchiata rispetto alle ultime previsioni, con una percentuale di anziani pari a 20,64 contro il 20,61 e con un indice di vec-chiaia pari a 147,0 invece di 146,8.

Tabella 1 - Bilancio demografico in Italia - Anno 2011

Saldo Naturale Nati Saldo Migratorio Iscritti

Effettivo -46.818 546.609 241.072* 385.793

Previsto -35.507 557.014 324.857 408.664

* provvisorioFonte: ns elaborazione dati Istat

Figura 1 - Popolazione 65 anni e più. Italia, anni 2005-12. valori percentuali

19,5

19,7

19,9

20,1

20,3

20,5

20,7

2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

%65+ stima

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Se questi valori sembrano adesso poco divergenti, è certo che, con il passare del tempo, si accentueranno poiché le circa 10.400 nascite in me-no produrranno in prospettiva circa 5000 donne in meno in età feconda e, analogamente, le donne immigrate che non sono arrivate, non metteranno al mondo i figli che si erano previsti. Reiterando il ragionamento e pre-vedendo che il TFT, in fase di stallo dal 2009, difficilmente ritornerà ai livelli ipotizzati precedentemente, questa situazione complicata tenderà ad accentuarsi con gli anni.

Se anche, come si spera, la crisi economica dovesse passare in tempi “relativamente brevi”, le conseguenze che questa crisi avrà portato sul piano demografico non saranno così facilmente recuperabili neanche nel lungo periodo: l’inerzia dei comportamenti demografici lascerà una lunga traccia sulla struttura per età degli anni a venire.

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Ageing e disuguaglianze: tappe di transizione all’età anziana

di diego vezzuto

I recenti fenomeni demografici ed economici, i cambiamenti politico-so-ciali ed i progressi sanitari che stanno investendo l’intera popolazio-

ne mondiale, e in particolar modo l’Italia, stanno modificando l’intero processo di invecchiamento. Con l’allungamento della speranza di vita e con la bassa fecondità, nelle società attuali la presenza degli anziani è in continua crescita sempre più preponderante. Ma come si diventa anzia-ni? Analogamente agli studi sulla transizione all’età adulta1, è possibile intravedere alcune “tappe” diffuse, socialmente rilevanti, che implicano un cambiamento di ruolo e/o di status: l’uscita dal mercato del lavoro, l’uscita dell’ultimo figlio dalla casa d’origine, la nascita del primo nipote, la perdita del coniuge e il peggioramento delle condizioni di salute. Tali eventi sono interdipendenti e si combinano con fattori istituzionali, collet-tivi e di natura biologica; non sono strettamente necessari ma abbastanza frequenti da giustificare il loro uso come criteri definitori.

tAppe verso lA condizione di AnziAno

Utilizzando i dati dell’indagine share2 è stato possibile operare su un campione di over 50enni (oltre 113mila soggetti) sul quale osservare di-versi modelli di ageing nel quadro europeo (14 paesi). Grazie ad una certa omogeneità dei sottocampioni per quanto riguarda determinate caratteri-stiche (tipologia e numerosità delle unioni e matrimoni, partecipazione femminile al mercato del lavoro, etc.) è stato possibile confrontare i diver-si paesi per le tappe stabilite.

Si elencano, di seguito, le modalità di osservazione delle tappe di in-vecchiamento (Tabella 1):• Età mediana di uscita dell’ultimo figlio dalla casa d’origine: limitata-

mente a un sottocampione formato da individui che hanno avuto alme-

1 C. Buzzi, A. Cavalli, A. De Lillo (a cura di) Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, 2007.2 http://www.share-project.org

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no un figlio (NdA: se in Italia, l’età mediana dell’uscita dell’ultimo fi-glio è di 58 anni, ciò sta a significare che a quell’età il 50% dei soggetti con almeno un figlio si trova ormai senza più figli in casa).

• Nascita del primo nipote: la tappa mostra l’età mediana in cui tutti i soggetti (con almeno un figlio) diventano nonni per la prima volta.

• Uscita dal mercato del lavoro: nel sottocampione rientrano tutti gli individui che almeno una volta sono entrati nel mercato del lavoro; questa tappa (distintamente per sesso) riporta l’età mediana in cui i soggetti escono definitivamente dal mercato del lavoro.

• Peggioramento delle condizioni di salute: creato l’indice Health (0-16, dove 0 indica l’assenza di disfunzioni/malattie e 16 il grado massimo di morbosità), si considera il superamento di questa tappa se un sog-getto riporta un indice Health maggiore o uguale ad 1. Qualora ci sia la presenza di più disfunzioni/malattie, si considera l’età più giovane alla quale inizia a peggiorare lo stato di salute. A differenza delle tappe precedenti, però, questa tappa è osservata su un sottocampione relati-vamente piccolo, pari al 30% del totale. Ciò dipende dal fatto che gli individui con indice Health pari a zero rappresentano oltre la metà del campione, evidenziando lo stato di buona salute in cui complessiva-mente versano gli over 50enni.

• Perdita del coniuge: nel sottocampione si includono gli sposati, le con-vivenze more uxorio e, naturalmente, i vedovi e le vedove. Anche in questo caso, non è stato possibile osservare l’età mediana poiché la vedovanza rappresenta un fenomeno relativamente marginale: la soglia è dunque posta, convenzionalmente, al momento in cui il 10% degli individui osservati subisce la perdita del coniuge. Inoltre, si differenzia il risultato per i due sessi in quanto le donne sperimentano in misura anticipata questa tappa grazie ad una maggiore longevità.

Il processo di “invecchiamento” (così come è stato inteso in questa sede) rappresenta un fenomeno diffuso, dove l’inizio della transizione av-viene tra i 50 ed i 60 anni (in seguito alle scelte dei propri figli di auto-nomia residenziale e responsabilità genitoriale), termina con le tappe di peggioramento delle condizioni di salute o la perdita del coniuge, ed ha una durata media di 13 anni. Cercando di raggruppare i paesi con carat-teristiche simili, si osservano cinque modelli di ageing: prolungato, me-dio-lungo, intermedio, breve e posticipato (Figure. 1 e 2).

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Longevità, vecchiaia, salute

• Prolungato (Svezia, Paesi Bassi e Svizzera): l’inizio del processo è si-mile a quel che avviene altrove, ma il termine è posticipato grazie alla tarda età alla quale si sperimenta la perdita del coniuge. La durata tota-le del processo è la più estesa, con una durata media di oltre 20 anni.

• Medio-lungo (Danimarca, Germania ed Estonia): inizio del processo piuttosto precoce; durata media più alta della media, pur se inferiore a quella del primo modello.

• Intermedio (Belgio, Francia): è il modello che meglio si avvicina all’andamento generale dei paesi considerati, sia per quanto riguarda l’ordine delle tappe sia per la durata del processo di ageing.

• Breve (Austria, R. Ceca e Polonia): caratterizzato da una veloce suc-cessione delle tappe, è un modello segnato dalla breve durata del pro-cesso di transizione all’età anziana; inoltre, si sottolinea il precoce peg-gioramento delle condizioni di salute.

• Posticipato (Italia, Spagna e Grecia): il processo di invecchiamento si intraprende con notevole ritardo e con tappe differenti.

come si invecchiA? dipende dA dove si èIl processo di invecchiamento inteso in questa sede può apparire forse

un po’ schematico, ma questa griglia ci aiuta a definire il fenomeno e a compararlo tra realtà diverse. Non si pretende qui di essere esaustivi né di ricondurre il tutto ad un’unica ratio: tuttavia, considerando queste tappe, è possibile osservare particolari differenze tra paesi e tra modelli di in-vecchiamento che suggeriscono cause e processi distinti, di natura econo-mica, di welfare e culturale. Attraverso quest’approccio multidisciplinare è probabilmente possibile contestualizzare, e quindi anche interpretare meglio il fenomeno diell’ “invecchiamento della popolazione” nelle sue implicazioni demografiche, economiche, politiche e sociali.

Tabella 1 - elenco indici della tappe di ageing

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indice evento note

Child Out Uscita dell’ultimo figlio dalla casa d’origine Valore mediano (50% del sottocampione che ha effettuato la tappa)

Grand Ch Nascita del primo nipote Valore mediano (50% del sottocampione che ha effettuato la tappa)

Out mdl Uscita dal mercato del lavoro Valore mediano (50% del sottocampione che ha effettuato la tappa)

Wid_M Perdita del coniuge (per gli uomini) Valore osservato sul 10% del sottocampio-ne (dati non presenti, in quanto gli uomini sperimentano meno la vedovanza rispetto alle donne)

Wid_F Perdita del coniuge (per le donne) Valore osservato sul 10% del sottocampione

Wid_Tot Perdita del coniuge (total average) Valore osservato sul 10% del sottocampione

Health_M Peggioramento delle condizioni di salute (per gli uomini)

Valore osservato sul 30% del campione

Health_F Peggioramento delle condizioni di salute (per le donne)

Valore osservato sul 10% del sottocampione

Health_Tot Peggioramento delle condizioni di salute (total average)

Valore osservato sul 10% del sottocampione

Figura 1 - Ageing process: 5 modelli – mappa

Prolungato Medio-lungo Intermedio Breve Posticipato

Figura 2 - Ageing process: 5 modelli

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Longevità, vecchiaia, salute

Legenda:

Child Out Grand Ch Wid_F Wid_Tot Out mdl F Out mdl M Out mdl Tot Health_F Health_M Health_Tot

Andamento generale (Average)50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79

Prolungato50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79

Svez

iaPa

esi

Bas

siSv

izze

ra

Medio-lungo50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79

Dan

imar

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Esto

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Intermedio50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79

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Breve50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79

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Posticipato50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79

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IVPremessa

Le disuguaglianze

Le disuguaglianze nei confronti della salute riguardano sia i fattori cau-sali delle patologie, sia l’accesso alle risorse e ai servizi sanitari ne-

cessari per prevenire i problemi, o curarli dopo che si sono manifestati. E se un certo grado di differenziazione nella società appare inevitabile, è compito delle moderne democrazie far sì che, soprattutto nel campo della salute, queste disuguaglianze restino contenute. Ad esempio rappresenta un problema sociale il fatto che i pensionati più ricchi sono anche i più longevi. Una caratteristica comune ai gruppi che più soffrono della man-canza di equità nell’accesso alle risorse (i poveri e gli emarginati, le mi-noranze razziali ed etniche e le donne, laddove sussistono discriminazioni di genere) è la mancanza di potere politico, sociale o economico. Così, per essere efficaci e sostenibili, gli interventi che mirano a correggere le disu-guaglianze devono potenziare i gruppi disagiati attraverso cambiamenti di sistema, inerenti la normativa, i rapporti di potere, le relazioni economiche e sociali.

Ma i differenziali di salute non sono esclusivi delle età anziane. Mol-te ricerche, ad esempio, dimostrano che il tipo di lavoro influenza salute percepita e salute mentale. I giovani e gli adulti occupati in lavori a tempo determinato sono sensibili a molti aspetti della precarietà lavorativa, con rischi di depressione da un lato e con vita affettiva e familiare anch’essa incerta. Ricordando una parola chiave del sociologo Bauman, vivono una “vita liquida”, in cui l’incertezza comporta stress e condizioni di salute soggettive meno buone rispetto a chi ha una posizione lavorativa sicura.

Studi comparativi a livello europeo mostrano che le differenze socio-e-conomiche della mortalità sono inferiori in Italia rispetto ai paesi nordici e dell’Europa continentale. Se in Italia i lavoratori manuali della fine degli anni Novanta avevano un rischio di morte maggiore del 35% rispetto ai lavoratori non manuali, in Finlandia la differenza era del 76%, in Svezia e in Svizzera di oltre il 45%. Purtroppo non sono possibili riflessioni su dati più aggiornati perché la serie storica si è interrotta dato che l’Istat non ha

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più fatto il linkage tra i dati individuai rilevati al Censimento e quelli con-tenuti nei certificati di morte, necessario per calcolare la mortalità dei vari gruppi. Di conseguenza, tutte le informazioni successive sono basate su dati parziali, settoriali o geograficamente limitati. Ma anche di questi non si deve comunque sottovalutare l’importanza, come mostra, ad esempio, il caso dell’ILVA di Taranto, e della maggiore mortalità della popolazione prossima alle fonti di inquinamento.

Un altro contributo raccolto in questa sezione illustra i differenziali razziali negli Stati Uniti, non limitandosi a descrivere la super-mortalità dei neri, ma cercando di andare a fondo sui fattori esplicativi delle diffe-renze. Per avere una comprensione più completa della disparità razziale, è indispensabile infatti studiare i meccanismi che generano la disparità della speranza di vita. Utilizzando due nuovi metodi di scomposizione, gli Autori analizzano i fattori che generano queste disparità. Il risultato è che esistono meccanismi complessi, a volte di compensazione, che perpetuano le disparità di mortalità fra bianchi e neri. Sono questi meccanismi speci-fici che forniscono la base per la progettazione di politiche pubbliche di prevenzione più efficace e mirata e di intervento per raggiungere l’obietti-vo di eliminare le disparità razziali in materia di salute.

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Il lavoro precario fa male alla salute?

di elena Pirani

Negli ultimi anni in Italia, come del resto in molti altri paesi ricchi, il “posto fisso”, caratterizzato da sicurezza lavorativa e stabilità del sa-

lario, è stato progressivamente affiancato da contratti di lavoro a termine, di apprendistato, di collaborazione occasionale e co.co.co. La diffusio-ne di queste forme contrattuali ha cambiato radicalmente le condizioni di entrata e uscita nel mercato del lavoro, aumentandone la flessibilità (o l’instabilità).

Con il 14-16% di lavoratori temporanei, l’Italia è oggi in linea con la maggioranza dei paesi dell’Europa continentale, ma a livelli più bassi di spagnoli e portoghesi (che superano il 20%; Figg. 1 e 2)

Figura 1 - Quota di lavoratori temporanei sul totale in alcuni paesi europei selezionati

Fonte: Eurostat, 1987-2012. Nota: La media EU-15 è disponibile solo dal 1995. Il 2003 (linea verticale), è l’anno dell’introduz-ione della legge Biagi in Italia.

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Longevità, vecchiaia, salute

Fig. 2 – Quota % di lavoratori temporanei per genere e per età (Italia, 2010)

Fonte elaborazione su dati EU-SILC

Questi cambiamenti hanno acceso l’interesse sulle conseguenze che la diffusione dei contratti atipici può avere a livello individuale, in termini di incertezza economica, prospettive di carriera e di vita, benessere. Da quest’ultimo punto di vista, molti ricercatori hanno recentemente indagato la relazione tra condizioni lavorative e salute, considerando diversi paesi, diversi indicatori, e utilizzando diversi metodi di analisi. I risultati di que-sti studi sono concordi: dal Nord America all’Europa Centrale e del Sud, i lavoratori temporanei riportano peggiori condizioni di salute rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato, soprattutto in termini di salute percepi-ta, salute psicologica, stress, ansia e depressione (ad es., Quesnel-Vallée et al. 2010; Laszlo et al. 2010). Il legame lavoro-salute è più o meno forte in relazione al contesto istituzionale e socio-economico di riferimento (siste-ma di welfare o caratteristiche del mercato del lavoro, ad esempio), e gli unici ad emergere da questo pattern negativo sembrano essere i lavoratori precari scandinavi e, in misura minore, quelli del Regno Unito (Virtanen et al. 2005).

uno studio su precArietà e sAlute

E in Italia, il lavoro precario, rispetto al posto fisso, ha conseguenze negative sulla salute?

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Per rispondere a questa domanda, una semplice tabellina di spoglio sui dati del panel Eu-Silc 2007-2010 (tab. 1) può indurre a conclusioni opposte a quelle corrette, perché non tiene conto della (molto) diversa composizione per sesso e per età dei due gruppi di lavoratori, permanenti e temporanei, e della diversa probabilità di accedere a un tipo di lavoro o all’altro.

Tabella 1 - Salute percepita per tipo di contratto (Italia, 2010)

Lavoro

Salute permanentea tempo

determinato Totale

buona 82.75 85.07 83.06

non buona 17.25 14.93 16.94

Totale 100.0 100.0 100.0

Fonte: Elaborazioni su dati EU-SILC

Per superare entrambe le difficoltà, occorrono metodi di analisi più so-fisticati, come ad esempio i modelli di inferenza causale, che consentono di stimare non solo l’associazione tra tipo di contratto e salute, ma anche un eventuale effetto causale1 del primo sulla seconda (Pirani e Salvini, 2014).

I risultati mostrano l’esistenza di un legame negativo tra lavoro tem-poraneo e salute percepita, con i lavoratori temporanei che riportano un rischio 3 volte più alto di percepire le loro condizioni di salute come non buone2. Tuttavia, un’analisi differenziata per genere mostra come questo effetto complessivo sia in realtà trainato dalle lavoratrici donne: solo la salute delle donne è compromessa dalle condizioni lavorative, mentre per gli uomini non ci sono effetti significativi.

Sebbene questi risultati siano coerenti con la letteratura internazionale, anche da un punto di vista delle differenze di genere, il fatto di essere in

1 Lo studio utilizza il metodo dell’inverse-probability-of-treatment weights, che consente di con-trollare l’effetto di selezione. Infatti, se da un lato è possibile che il lavoro precario porti a un peg-gioramento delle condizioni di salute (ipotesi causale), è altrettanto vero che precarie condizioni di salute possono ostacolare l’accesso a migliori condizioni lavorative, inclusi lavori più stabili (ipotesi di selezione).2 La salute percepita è misurata dalla domanda “Come va in generale la sua salute?”. Tra le ris-poste possibili (molto bene, bene, discretamente, male, molto male), le ultime due sono state qui considerate come indicatrici di una condizione non buona.

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Longevità, vecchiaia, salute

buona compagnia non può consolarci. Perché le italiane con contratto a tempo determinato danno valutazioni peggiori del proprio stato di salute? Abbiamo provato ad avanzare alcune interpretazioni.

precAri e precArie

Nonostante recenti cambiamenti, la partecipazione femminile al mer-cato del lavoro in Italia rimane ancora oggi tra le più basse in Europa (intorno al 50%), e anche quando una donna è occupata la segregazione verticale (le donne non riescono a accedere ai livelli superiori, di gerarchia e di reddito) e orizzontale (le donne sono scarsamente presenti nei settori “migliori” dell’economia, quelli più dinamici e con più possibilità di cre-scita) che caratterizza il mercato del lavoro italiano (Commissione Euro-pea 2013) la imprigiona spesso in occupazioni a più bassa qualifica, con ridotte prospettive di carriera e condizioni contrattuali più svantaggiose (contratti temporanei, appunto). Se l’insoddisfazione e l’insicurezza lavo-rativa e le peggiori condizioni contrattuali sono generalmente identificate come fattori intermedi nella relazione lavoro temporaneo-salute (Ferrie et al. 2005), le caratteristiche del mercato del lavoro italiano probabilmen-te amplificano le conseguenze negative per le donne. Inoltre, le ragazze italiane hanno un maggiore rischio di rimanere intrappolate nel circolo vizioso del lavoro temporaneo (Commissione Europea 2013) rispetto ai loro coetanei, e quindi di soffrirne maggiormente le conseguenze negati-ve, anche in termini di salute.

La società italiana si caratterizza poi per la presenza di un rilevante dif-ferenziale di genere nella divisione delle attività di cura della casa e della famiglia (Mencarini, Del Boca e Pasqua 2012). Indipendentemente dal lo-ro status occupazionale le donne italiane spesso portano il peso maggiore del lavoro domestico. Questo doppio ruolo, spesso unito a preoccupazioni riguardanti l’insicurezza del lavoro, può avere conseguenze negative sulla loro salute psicologica e fisica.

Infine, l’incertezza lavorativa è spesso legata a insicurezza economica, e questo può ripercuotersi sulle scelte del corso di vita, come uscire dalla famiglia d’origine, sposarsi o convivere, avere figli (Vignoli et al. 2012). La maggior parte dei lavoratori precari sono giovani (in particolare giova-ni donne) e questa precarietà rende la loro transizione verso lo stato adulto ancora più ardua e problematica. L’impatto negativo della precarietà sulla gestione di lavoro, famiglia, vita privata può generare insoddisfazione e stress emozionale, se non depressione (Quesnel-Vallée et al. 2010). Anco-

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ra una volta, queste conseguenze appaiono più pronunciate nelle donne, soprattutto in paesi, come l’Italia, in cui le politiche di conciliazione sono ancora insoddisfacenti.

in conclusione…… il lavoro precario fa male alla salute? Tendenzialmente sì, ma pro-

babilmente non (solo) a causa del tipo di contratto di per sé. Il senso d’in-sicurezza che deriva dal lavoro temporaneo porta con sé il bisogno di un continuo adattamento a diverse condizioni lavorative, relazioni sociali, tempi e aspettative. Se mancano garanzie e supporto al di là del contratto di lavoro, la precarietà lavorativa allora rischia di trasformarsi in preca-rietà in altri settori della vita, con conseguenze sul benessere e sulla salute individuali.

Per saperne di piùCommissione Europea (2013), Progress on equality between women and men in 2012. A Europe 2020 initiative, Publications Office of the European Union, Luxembourg.Ferrie J., Shipley M.J., Newman K., Stansfeld S.A., Michael Marmot M. (2005), Self-reported job insecurity and health in the Whitehall II study: potential explanations of the relationship, Social Science & Medicine, 60.Laszlo K.D., Pikhart H., Kopp M.S., Bobak M., Pajak A., Malyutina S., et al., (2010), Job insecurity and health: A study of 16 European countries, Social Science & Medicine, 70.Mencarini L., Del Boca D., Pasqua S. (2012) Valorizzare le donne conviene, Neodemos, 08/03/2012. http://www.neodemos.it/index.php?file=onenews&form_id_notizia=583Pirani E., Salvini S. (2014), Is temporary employment damaging to health? A longitudinal study on Italian workers, DiSIA Working Paper, 2014/08, Dipartimento di Statistica, Informatica, Applicazi-oni, DiSIA, University of Florence. http://local.disia.unifi.it/wp_disia/2014/wp_disia_2014_08.pdfQuesnel-Vallée A., DeHaney S., Ciampi A., (2010), Temporary work and depressive symptoms: A propensity score analysis, Social Science & Medicine, 70.Vignoli D., Drefahl S., De Santis G. (2012), Whose job instability affects the likelihood of becoming a parent in Italy? A tale of two partners, Demographic Research, 26(2). http://www.demographic-re-search.org/volumes/vol26/2/26-2.pdfVirtanen M., Kivimäki M., Joensuu M., Virtanen P., Elovainio M., Vahtera J. (2005), Temporary employment and health: a review, International Journal of Epidemiology, 34.

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La mortalità differenziale per reddito fra gli anziani in Italia: 1980-2000

Michele Belloni

Il problema delle disparità socioeconomiche nei rischi di morte, il cosid-detto gradiente di mortalità per status socioeconomico (SES), riguarda

anche gli anziani, pur se l’evidenza empirica su questo tema è limitata e discordante, sia per il contesto europeo sia per quello statunitense. Per l’I-talia, un recente studio di Belloni et al. (2013) fra gli anziani fornisce un primo interessante quadro del fenomeno.

pensionAto ricco, pensionAto longevo

Belloni et al (2013) utilizzano dati amministrativi INPS relativi ai de-cessi avvenuti nel ventennio 1980-2000 fra i titolari di pensioni pagate dal Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti, e considerano l’importo della pensione come indicatore dello status socioeconomico. Lo studio si foca-lizza sugli uomini, ancora in vita a 65 anni. Precedenti studi erano stati condotti soltanto a livello locale – meritano menzione in particolare quelli effettuati dal Servizio di Epidemiologia della regione Piemonte e per la città di Torino - e si basavano su altri indicatori del SES, quali il livello di istruzione. L’importo della pensione degli ex-lavoratori dipendenti è un indicatore del SES degli anziani particolarmente efficace, in quanto rias-sume in un unico numero i dati salienti dell’intera carriera lavorativa (anni lavorati e reddito “medio”).

Alcuni risultati dello studio sopra citato sono riportati nella Tabella 1. Durante il ventennio considerato si è assistito ad un aumento sensibile della sopravvivenza (mediana) degli over-65; la tabella mostra come essa sia cresciuta da poco meno di 15 a 17 anni per il campione di ex-lavoratori selezionato. Nella prima parte della Tabella, si riportano – separatamente per gli anni ’80 e ’90 - i differenziali di mortalità per quintili di reddito pensionistico (status socioeconomico). Negli anni ’80, si rileva come i più ricchi (quintile 5, con reddito pensionistico maggiore di 1.172 euro) vivessero decisamente più a lungo - 2,1 anni o il 14% in più - di quanto vivessero i più poveri (quintile 1, con reddito pensionistico inferiore a 328 euro). Tale gradiente appare inoltre essersi ampliato negli anni ’90: in tale

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periodo la differenza fra la sopravvivenza dei più ricchi e dei più poveri è risultata pari a 3,6 anni (23%). Analizzeremo in modo più approfondito l’evoluzione temporale del gradiente mortalità alle età anziane-reddito nel paragrafo successivo. Si noti come, a fronte di sensibili differenze nella sopravvivenza fra i più poveri e più ricchi (cf. quintili 1 e 5), si riscontra una sostanziale assenza di differenze nella sopravvivenza fra i soggetti appartenenti ai quintili dal primo al quarto. Il gradiente appare cioè qua-si interamente concentrato fra i soggetti più ricchi, quelli appartenenti al quinto quintile di reddito pensionistico.

il mezzogiorno non è più un’AreA di AltA soprAvvivenzA

La parte inferiore della Tabella 1 mostra le differenze nella soprav-vivenza degli ultrasessantacinquenni per area geografica. Come si vede, negli anni ’80, gli anziani nati e che hanno lavorato nel sud del Paese hanno vissuto decisamente più a lungo (2,3 anni in più) di quelli nati e che hanno lavorato nell’industrializzato Nord. Ma il gradiente nord-sud si è decisamente ridotto nel corso degli anni ’90, poiché in questo decennio l’aspettativa di vita è cresciuta in modo molto più ridotto al sud che non al nord. Sulla base di questi risultati per area geografica, occorre rivaluta-re l’ampliamento temporale del gradiente mortalità-reddito indicato pre-cedentemente: i pensionati più ricchi (e quindi più longevi) erano infatti tipicamente anche residenti al nord (e quindi meno longevi a parità di red-dito). I risultati di una analisi “bivariata” - si rimanda il lettore allo studio di Belloni et al. (2013) per approfondimenti - mostrano come il gradiente fra mortalità over-65 e reddito sia rimasto pressoché invariato nel corso del ventennio 1980-2000.

Tabella 1 – statistiche sui differenziali di mortalità per reddito pensionistico e area geografica

1980-1990 1991-2000

Sopravvivenza a 65 anni (mediana, in anni): 14.9 17.0

Reddito pensionistico mensile: (€, prezzi costanti 2009):

Media 1029 1198

Deviazione Standard 2173 1952

Quintili: 1 328 444

2 454 653

3 694 1013

4 1172 1531

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Longevità, vecchiaia, salute

Sopravvivenza a 65 anni (mediana, in anni), per quintili di reddito pensionistico:

Quintili: 1 14.4 15.5

2 14.8 16.8

3 14.3 16.6

4 14.3 16.8

5 16.5 19.1

Reddito mediano per area di nascita

Nordovest 772 1119

Nordest 605 908

Centro 519 805

Sud e Isole 433 615

Sopravvivenza a 65 anni (mediana, in anni), per area di nascita:

Nordovest 13.8 16.3

Nordest 14.4 16.9

Centro 15.1 17.7

Sud e Isole 16.1 17.2

Per riassumere, i risultati dello studio mostrano che in Italia i differen-ziali di mortalità per reddito hanno riguardato soltanto una parte limitata della popolazione over-65, i più ricchi; inoltre, essi sono rimasti invariati nel corso degli ultimi due decenni del secolo scorso. Altri studi riportano gradienti molto più marcati e in ampliamento per la maggior parte dei paesi dell’Europa continentale (per la Germania, si vedano Shkolnikov et al., 2007 e Kibele et al., 2013; per l’Olanda Kalwij, Alessie, and Knoef, 2013) e per i paesi del nord Europa (Kunst et al., 2004). Gli epidemiologi italiani possono quindi esultare? Purtroppo no. Molti studi mostrano come una parte rilevante del gradiente fra mortalità e SES riguardi le cause di morte cardiovascolari (in particolare ictus, si veda Mackenbach, 2006). È noto come la morbidità (e mortalità) cardiovascolare sia strettamente cor-relata agli stili di vita, in primis alle abitudini alimentari e al consumo di sigarette. L’Italia si trovava (e si trova) in una fase precedente, soprattutto rispetto ai paesi del nord Europa, nel cosiddetto modello di “diffusione epidemica del fumo” (per una descrizione informale del modello si veda il box 5 in Mackenbach, 2006). Secondo tale modello, le abitudini di consu-mo di sigarette sono determinate dal comportamento dei soggetti con SES più elevato, che fungono da leader; il resto della popolazione (followers) imita il loro comportamento adeguandosi nel tempo al loro. Nei paesi Eu-

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ropei nordici e continentali, alla fine del secolo scorso, i ricchi avevano già iniziato a modificare i loro stili di vita riducendo drasticamente il consumo di sigarette, la prevalenza di fumatori rimaneva invece alta fra i più poveri (Cavelaars et al. 2000); di conseguenza – come detto sopra – in questi pa-esi si sono osservati gradienti mortalità-SES elevati e in crescita rispetto ai decenni precedenti. In Italia, invece, in tale periodo non si osservava-no ancora cambiamenti nel consumo di sigarette fra i leader (Federico et al. 2004). Studi recenti (Gorini et al. 2013) mostrano però una riduzione dell’incidenza del fumo fra le classi sociali più elevate a partire dagli inizi di questo secolo. Nessuna analisi dell’evoluzione temporale del gradiente fra mortalità over-65 e reddito che incorpori il trend dell’ultimo decennio è ancora disponibile.

Per saperne di piùBelloni M., R. Alessie, A. Kalwij, C. Marinacci (2013), Lifetime Income and Old Age Mortality Risk in Italy Over Two Decades, Demographic Research, 29(45), pp. 1261-1298.Cavelaars A.E., Kunst, A.E., Geurts, J.J., Crialesi, R., Grötvedt, L., Helmert, U., Lahelma, E., Lund-berg, O., Matheson, J., Mielck, A., Rasmussen, N.K., Regidor, E., do Rosário-Giraldes, M., Spuhler, T., and Mackenbach, J.P. (2000). Educational differences in smoking: international comparison. BMJ 320(7242): 1102–1107. doi:10.1136/bmj.320.7242.1102.Federico, B., Kunst, A.E., Vannoni, F., Damiani, G., and Costa G., (2004). Trends in educational inequalities in smoking in northern, mid and southern Italy, 1980-2000. Preventive Medicine 39(5): 919–926. doi:10.1016/j.ypmed.2004.03.029. Gorini, G., Carreras, G., Allara, E., and Faggiano, F. (2103). Decennial trends of social differences in smoking habits in Italy: a 30-year update. Cancer Causes Control 24(7): 1385–1391. doi:10.1007/s10552-013-0218-9. Kalwij, A., Alessie, R., and Knoef, M. (2013). The association between individual income and remaining life expectancy at the age of 65 in the Netherlands. Demography 50(1): 181–206. doi:10.1007/s13524-012-0139-3. Kibele, E.U.B., Jasilionis, D., and Shkolnikov, V.M. (2013). Widening socioeconomic differences in mortality among men aged 65 years and older in Germany. Journal of Epidemiology and Community Health 67(5): 453–457. doi:10.1136/ jech-2012-201761.Kunst, A.E., Bos, V., Andersen, O., Cardano, M., Costa, G., Harding, S., Hemström, Ö., Layte, R., Regidor, E., Reid, A., Santana, P., Valkonen, T., and Mackenbach, J.P. (2004). Monitoring of trends in socioeconomic inequalities in mortality: Experiences from a European project. Demographic Research Special Collection 2(9): 229–254. doi:10.4054/DemRes.2004.S2.9.Mackenbach, J.P. (2006). Health Inequalities: Europe in Profile. An independent expert report com-missioned by the UK Presidency of the EU. Shkolnikov, V.M., Scholz, R., Jdanov, D.A., Stegmann, M., and von Gaudecker, H.M. (2007). Length of life and pensions of five million retired German men. European Journal of Public Health 18(3): 264–269. doi:10.1093/eurpub/ckm102.

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Disuguaglianze socioeconomiche di mortalità in Italia: una stima difficile

di virginia zarulli1

Il primo report nazionale sulle disuguaglianze di mortalità per condizio-ne socioeconomica fu pubblicato in Italia dall’Istat nel 1990. Lo studio

era basato sul collegamento nominativo (record linkage) tra il censimento del 1981 e i certificati di morte nel 1981-1982 [1]. Dieci anni dopo lo stu-dio fu ripetuto [2]. Dall’analisi emersero cambiamenti inaspettati nelle di-suguaglianze di mortalità per livello di istruzione che, nel periodo tra i due studi, erano aumentate tra gli uomini di età 18-74, mentre erano diminuite tra le donne. In particolare, era scomparso il vantaggio di sopravvivenza delle donne laureate sulle donne diplomate.

lA peculiArità itAliAnA

Tra le principali cause di questo peculiare andamento si ipotizzano fattori legati al fumo [3]. In Italia, infatti, negli anni ‘80 e ‘90 – e con-trariamente agli uomini - la quota di fumatrici era maggiore tra le donne con istruzione elevata rispetto alle donne con istruzione bassa. [4]. Studi successivi mostrarono che l’associazione tra alto livello di istruzione e abitudine al fumo tendeva ad affievolirsi nelle generazioni più giovani, man mano che l’abitudine di fumare si diffondeva tra le donne di istruzio-ne bassa [5].

Studi comparativi internazionali nello stesso periodo rivelarono anche altre peculiarità del caso italiano, dove le disuguaglianze socioeconomi-che in mortalità tendevano ad essere più piccole di quelle registrate nei paesi nordici e dell’Europa continentale. Uno studio alla fine degli anni ’90 mostrava come in Italia, tra gli uomini di età 30-44, il rischio di mor-talità tra i lavoratori manuali fosse del 35% più alto di quello dei lavoratori non manuali, mentre in altri paesi tale differenza risultava più marcata: per esempio era del 76% in Finlandia, del 46% in Inghilterra e del 45% in Svizzera [6].

1 Max Planck Odense Center on the Biodemography of Aging e Institute of Public Health, Univer-sity of Southern Denmark - [email protected]

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Riguardo le cause di morte, l’Italia, sorprendentemente, mostrava di-suguaglianze socioeconomiche molto piccole nella mortalità cardiovasco-lare, gruppo di cause a cui oggi viene attribuita la maggiore componen-te della disuguaglianza socioeconomica totale in mortalità. Al contrario, l’Italia si caratterizzava per più ampie differenze sociali nella mortalità dovuta ai tumori, con l’ eccezione del tumore al polmone [7].

l’interruzione dellA serie storicA

Sfortunatamente a partire dal censimento del 2001 l’Istat ha smesso di effettuare il linkage tra i dati censuari e quelli dei certificati di morte, cosi che la più importante fonte di informazione per l’analisi di questo fenome-no a livello nazionale è venuta a mancare. Tutte le successive analisi, dun-que, hanno dovuto basarsi su dataset territoriali o settoriali e trovare altri modi per stimare in qualche modo la mortalità per classe sociale in Italia.

Da un’analisi dei dati del Work Histories Italian Panel è emerso un si-gnificativo differenziale nella speranza di vita a 35 anni2 secondo la classe occupazionale [8], come mostrato in figura 1. Per esempio tra gli uomini, se gli imprenditori a 35 anni vivono, in media, altri 46,2 anni (cioè 81,2 anni in totale), la classe operaia non specializzata invece, vivrà in media solo fino a 78,6 anni, e cioè 2,6 in meno. Differenze esistono anche tra le donne ma sono meno marcate. Tuttavia, questo tipo di dati soffre di pro-blemi di incompletezza di informazione sulle storie lavorative [9]. Inoltre i risultati, riferiti solo ai segmenti di popolazione ufficialmente attivi, non si possono generalizzare alla popolazione totale.

Figura 1 - Differenze nella speranza di vita a 35 anni secondo la classe sociale in Italia, anni 2000-2005

Fonte: Leombruni R., Richiardi M., Costa G., 2008. Aspettative di vita, lavoro usuranti e equità

2 Numero atteso di anni che restano ancora da vivere all’età di 35 anni.

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del sistema previdenziale. Prime evidenze dal Work Hiestories Italian Panel. Laboratorio Ravelli, Collegio Carlo Alberto, Working Papre 75.

Altri studi si basano su dati di linkage anonimo tra censimento e ana-grafe per popolazioni locali, come ad esempio lo Studio Longitudinale Torinese e lo Studio Longitudinale Toscano. Dato che il record-linkage a livello nazionale è stato interrotto dopo il 1991, la maggior parte degli stu-di comparativi internazionali sul fenomeno delle disuguaglianze in morta-lità da quel momento in poi fa riferimento a questo tipo di fonti per quanto riguarda l’Italia. Per esempio, negli anni ‘90, contrariamente a quello che succedeva nei paesi nordici e in Inghilterra, a Torino la mortalità per cause cardiovascolari diminuiva più velocemente tra le classi occupazionali ma-nuali che tra quelle non manuali [10], come mostrato in tabella 1.

Tabella 1 - Tassi maschili di mortalità cardiovascolare per classe lavorativa alle età 30-59.Paese Classe lavorativa Tasso di mortalità (per 100 000)* Riduzione percentuale

1993-19831981-1985 1991-1995Finlandia non-manuale 238 131 -45 %

manuale 344 246 -28 %Svezia non-manuale 146 84 -42 %

manuale 213 143 -33 %Norvegia non-manuale 164 91 -45 %

manuale 220 149 -32 %Danimarca non-manuale 135 110 -33 %

manuale 223 160 -28 %Inghilterra e Galles non-manuale 179 116 -35 %

manuale 264 196 -26 %Italia (Torino) non-manuale 136 90 -34 %

manuale 166 105 -37 %Fonte: Mackenbach J., Bos o., Andersen M. et al., 2003. Widening socioeconomic inequalities in mortality in six Western European countries. International Journal of Epidemiology.*tassi espressi per persone-anno, ovvero per l’ammontare medio della popolazione residente (per 100 000).

Dando un’occhiata con la lente d’ingrandimento, si scopre che le dispa-rità per classe sociale sembrano essere più marcate nei tassi di mortalità che nella incidenza effettiva delle malattie cardiovascolari, evidenziando un possibile problema legato alle disparità nell’accesso a cure appropriate e tempestive [11], anche se il sistema sanitario italiano offre una copertura che in teoria dovrebbe essere universale.

Differenze significative per classe sociale vengono rilevate anche nei tassi di sopravvivenza al cancro in entrambi i sessi [12], mentre le dispa-

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rità sociali per quanto riguarda l’incidenza, per lo meno tra le donne, sono meno marcate [13].

il bisogno di dAti nAzionAli

Seppure molto dettagliati e di ottima qualità, questi dati offrono solo una fotografia parziale della situazione italiana che è notoriamente carat-terizzata da ampia eterogeneità territoriale, mentre in altri paesi europei, in particolare nei paesi scandinavi, i dati disponibili permettono analisi approfondite a livello nazionale e di lungo periodo.

Dopo i due studi Istat del 1981 e del 1991, purtroppo il linkage censi-mento-certificati di morte è stato interrotto e con esso si è persa la possibi-lità di monitorare l’andamento delle disuguaglianze di mortalità a livello nazionale. Eppure i risultati provenienti dai vari studi condotti tramite re-gistri di patologia, indagini campionarie e dati relativi a popolazioni loca-li, parlano di un fenomeno che esiste e che si evolve con dinamiche speci-fiche e peculiari rispetto ad altri paesi europei. Sarebbe interessante essere in grado di continuare ad analizzarne le caratteristiche e i trend temporali su base nazionale, in modo da approfondirne la conoscenza.

Per saperne di più[1] Istat, 1990. La mortalità differenziale secondo alcuni fattori socio-demografici, anni 1981-1982. Istituto Nazionale di Statistica, Roma.[2] Istat, 2001. La mortalità differenziale secondo alcuni fattori socio-demografici, anni 1991-1992. Istituto Nazionale di Statistica, Roma.[3] Luy M., Di Giulio P., Caselli G., 2011. Differences in life expectancy by education and occu-pation in Italy, 1980-1994: Indirect estimates from maternal and paternal orphanhood. Population Studies 65(2): 137-155.[4] Faggiano F., Versino E., Lemma P., 2001. Decennial trends of social differentials in smoking habits in Italy. Cancer Causes and Control 12(7):665-671.[5] Cavelaars A., Kunst A., Geurts R. et al., 2000. Educational differences in smoking: international comparison. BMJ: British Medical Journal 320(7242):1102.[6] Mackenbach J., Kunst A., Cavelaars A. et al., 1997. Socioeconomic inequalities in morbidity and mortality in Western Europe. The Lancet 349(9066):1655-1659.[7] Kunst A., Groenhof J., Mackenbach J. et al., 1998. Occupational class and cause specific mor-tality in middle aged men in 11 European countries: comparison of population based studies. Com-mentary: Unequal inequalities across Europe. BMJ: British Medical Journal 316(7145):1636-1642.[8] Leombruni R., Richiardi M., Costa G., 2008. Aspettative di vita, lavori usuranti e equità del sistema previdenziale. Prime evidenze dal Work Histories Italian Panel. Laboratorio Ravelli, Colle-gio Carlo Alberto, Working Paper 75.

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[9] d’ Errico A., Filippi M., Demaria M. et al., 2005. Mortalità per settore produttivo in Italia nel 1992 secondo le storie lavorative INPS. Medicina del Lavoro 96:52-65.[10] Mackenbach J., Bos o., Andersen M. et al., 2003. Widening socioeconomic inequalities in mor-tality in six Western European countries. International Journal of Epidemiology 32(5):830.[11] Petrelli A., Gnavi R., Marinacci C. et al., 2006. Socioeconomic inequalities in coronary heart diseases in Italy: a multilevel population-based study. Social Science & Medicine 63(2):446-456.[12] Rosso S., Faggiano F., Zanetti R. et al., 1997. Social class and cancer survival in Turin, Italy. Journal of Epidemiology and Community Health 51(1):30-34.[13] Spadea T., Zengarini N., Kunst A. et al., 2010. Cancer risk in relationship to different indica-tors of adult socioeconomic positions in Turin, Italy. Cancer Causes and Control 21(7):1117-1130.

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Salute, mortalità e ambiente: il caso dell’ILVA di Taranto

redazione neodeMoS

Nello scorso mese di Ottobre, l’Istituto Superiore di Sanità ha reso noto il Rapporto1 sulla salute e la mortalità della popolazione nel

polo industriale di Taranto. Dal Rapporto emerge un quadro “critico” per quanto riguarda la mortalità che supera largamente quella della regione Puglia per quasi tutte le cause di morte, con un divario crescente negli ul-timi anni. Il tema delle relazioni tra salute ed ambiente preoccupa sempre di più un’opinione pubblica oggi più avvertita e sensibile che in passato. Se da un lato essa è rassicurata dai costanti progressi delle scienze bio-me-diche e dalle positive ricadute per la salute e la sopravvivenza, dall’altra è resa inquieta dalle complesse conseguenze delle modificazioni ambien-tali sulle quali non ha alcun controllo. Il caso di Taranto è esemplare: un gigantesco complesso industriale che col suo indotto produce ricchezza e lavoro per 12.000 dipendenti (e molte migliaia di lavoratori dell’indotto) e le loro famiglie, costruito mezzo secolo fa per generare sviluppo, ma che nel suo giornaliero funzionamento genera rischi concreti per la salute della popolazione. Nel caso di Taranto non ci sono stati incidenti catastrofici come quelli di Bophal, di Chernobyl o Fukushima; non scelte criminali (consentire insediamenti sulle falde di vulcani o nei letti dei fiumi); non catastrofi imprevedibili. Semmai una improvvida urbanizzazione (quar-tieri a ridosso degli impianti), tecnologie inadeguate, controlli tardivi: ma sotto gli occhi di tutti e col consenso di tecnici, amministratori, governi, forze sociali (pur se con numerose controversie).

Nel caso ILVA si confrontano due fondamentali esigenze: la tutela del-la salute e la salvaguardia di una fonte di reddito per qualche decina di migliaia di persone. Riportando qualche stralcio del Rapporto, i lettori di Neodemos possono informarsi sull’aspetto salute. E possono anche do-mandarsi quale sarebbe l’effetto – sempre sulla salute – di un drastico taglio dell’occupazione, di una caduta di reddito con l’impoverimento di

1 Ambiente e salute a Taranto: evidenze disponibili e indicazioni di sanità pubblicaA cura di: Pietro Comba, Susanna Conti, Ivano Iavarone, Giovanni Marsili, LoredanaMusmeci, Roberta Pirastu, http://www.iss.it/pres/prim/cont.php?id=1290&lang=1&tipo=6

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Longevità, vecchiaia, salute

migliaia di persone, e del deterioramento del tessuto sociale che questo comporterebbe.

lA mortAlità A tArAnto è nettAmente superiore A quellA pugliese e itAliAnA

Una prima analisi è stata compiuta sulla mortalità generale e per causa (tassi standardizzati) comparando l’andamento nel SIN (sito d’interesse nazionale)2 di Taranto, con l’intera Puglia e l’Italia nel periodo 1980-2008. Per la popolazione di Taranto “si osservano tassi di mortalità significati-vamente superiori alla media regionale per la quasi totalità del periodo e delle cause esaminate, in entrambi i generi e superiori anche alla media nazionale per ampi periodi e per cause molto rilevanti, in particolare tra gli uomini. Merita particolare attenzione il fatto che i livelli di mortalità maschile di Taranto si siano mantenuti nell’intero arco temporale conside-rato sempre molto superiori non solo a quelli pugliesi, ma anche a quelli italiani, per importanti patologie come il tumore del polmone (figure 1 e 2) e le malattie del sistema respiratorio nel loro complesso e croniche in particolare.

Anche tra le donne si osservano segnali di criticità, quali un marcato aumento nel trentennio della mortalità per tumori polmonari e valori signi-ficativamente più elevati, rispetto alla media nazionale, della mortalità per malattie ischemiche del cuore a partire dalla fine degli anni 90”.

Per quantificare: nel triennio 2006-08, il tasso di mortalità generale standardizzato (per 100.000 abitanti), per gli uomini, è stato pari a 1092 in Puglia e a 1258 a Taranto (+15,2%); per le donne, rispettivamente a 702 e 782 (+11,3%). Tra gli uomini la supermortalità a Taranto è particolarmen-te accentuata per i tumori al polmone (+36%) e per le malattie ischemiche del cuore (+23%), tra le donne per tutte le forme tumorali (+23%) e le ischemie del cuore (+20%). Con dati più dettagliati si potrebbero calcolare anche gli anni di vita “perduti” per la collocazione ambientale della popo-lazione tarantina: si tratta di assai più di una manciata di anni.

2 SIN, o Sito di Interesse Nazionale per le bonifiche ( come definito dal D.M. 10 gennaio 2000). L’indagine fa parte del progetto SENTIERI (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento) che ha analizzato la mortalità a livello comunale per 63 cause singole o gruppi di cause in 44 dei 57 Siti di Interesse Nazionale per le bonifiche (SIN) riconosciuti alla data del giugno 2010.

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lA supermortAlità tArAntinA riguArdA quAsi tutte le cAuse di morte

Un’analisi più dettagliata per 54 cause di morte singole (o raggruppate), standardizzate per età, con indicatori corretti per tener conto della diver-sità di condizioni economiche, per i due periodi 1996-2002 e 2003-2009, conferma quanto sopra. I risultati della mortalità per gli uomini mostrano, in entrambi i periodi, “eccessi per tutte le cause, tutti i tumori (fra questi tumore del polmone e della pleura), le demenze, le malattie del sistema circolatorio (fra queste la malattia ipertensiva e la malattia ischemica), le malattie dell’apparato respiratorio (e tra queste le malattie respiratorie acute) e le malattie dell’apparato digerente (tra queste la cirrosi epatica)”; nel periodo di osservazione più recente, 2003-2009, si osservano eccessi per il melanoma, i linfomi non Hodgkin e la leucemia mieloide.

Ma anche per le donne si osservano, eccessi per tutte le cause: “per tutti i tumori (tra questi il tumore del fegato, del polmone, della pleura e i linfomi non Hodgkin), le malattie del sistema circolatorio (fra queste la malattia ipertensiva e la malattia ischemica), le malattie dell’apparato re-spiratorio (e tra queste le malattie respiratorie acute) e le malattie dell’ap-parato digerente (tra queste la cirrosi epatica)”.

le conferme del registro dei tumori

Le analisi del sito di Taranto sono completate anche dall’indagine sul registro dei tumori, relativo alle insorgenze delle patologie (indipendente-mente dal loro esito) negli anni 2006-07. Ebbene la frequenza relativa di tali patologie, a Taranto, è assai superiore che non nel resto della provin-cia: l’eccedenza è pari al 30% per gli uomini e al 20% per le donne. Tra i primi, l’eccedenza è superiore del 100% per il mesotelioma e per i tumori maligni del rene e delle altre vie urinarie (escluso la vescica); del 90% per il melanoma cutaneo; del 60% per il linfoma non Hodgkin; del 50% per il tumore maligno del polmone. Tra le donne, l’eccedenza è superiore al 100% per le forme tumorali allo stomaco; all’80% per il corpo superiore dell’utero; al 75% per il fegato; del 43% per il linfomi non Hodgkin.

che fAre?Il risanamento ambientale, e principalmente l’abbattimento dell’emis-

sione del particolato nell’atmosfera – maggiore responsabile delle malat-tie tumorali e respiratorie – è, naturalmente, la via maestra per la soluzione

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Longevità, vecchiaia, salute

dei gravi problemi sanitari della popolazione di Taranto, e particolarmente dei residenti nei quartieri più esposti (Tamburi, Paolo VI, Borgo, Statte). Gli interventi sono tecnicamente complessi e costosi, e sono al centro dei contrasti recenti tra magistratura, governo e azienda. Anche qualora le so-luzioni fossero rapide e radicali, ciò non risolverebbe la crisi sanitaria e i problemi di salute di popolazioni esposte da decenni all’inquinamento ambientale.

Facciamo parlare il Rapporto, che così conclude: “Le patologie onco-logiche, circolatorie e respiratorie che mostrano eccessi nei quartieri di Taranto più compromessi sul piano della qualità ambientale, hanno un’e-ziologia multifattoriale, ed un’efficace strategia di contrasto deve preve-dere, oltre al risanamento ambientale, tutti gli altri interventi preventivi di provata efficacia quali la cessazione del fumo, l’educazione alimentare, la riduzione del rischio cardiovascolare e la conduzione di screening per i tu-mori della mammella e del collo dell’utero. Tutte queste azioni dovranno essere oggetto di processi di comunicazione, obiettiva e trasparente, al fine di stabilire un clima di fiducia fra cittadini e istituzioni, e soprattutto di non lasciare abbandonata a se stessa una popolazione provata, oltre che da un ambiente insalubre, anche da una grave crisi economica e occupazionale; le ripercussioni in termini di salute di ognuno di questi fattori, e della loro interazione, devono essere individuate e contrastate in modo incisivo”.

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Black-White Mortality Differentials in the United States

FranceSco acciai, aggie J. noah, and glenn FireBaugh

In the United States, mortality rates differ across racial and ethnic groups. Although the gap in life expectancy between non-Hispanic blacks and

non-Hispanic whites (blacks and whites, hereafter) has been declining, whites still lived on average 3.8 years longer than blacks (78.1 vs. 74.3 years) in 2010. The mortality regime of blacks and whites does not differ only in terms of life expectancy, but also in terms of lifespan variability. In fact, lifespans are both shorter and more variable for blacks than for whites. Such greater lifespan variability translates to greater uncertainty about age at death, which can induce individuals to discount their future more, for instance by reducing the value of investments in education and in health, or by undermining incentives for retirement planning.

Even though the black-white difference in life expectancy is more commonly studied, it is the smaller of the two disparities: about 5%, as opposed to the roughly 20% difference in lifespan variance. Furthermore, it is important to note that factors accounting for differences in lifespan variability differ from those accounting for differences in life expectancy. Both disparities deserve careful examinations, as eliminating racial dis-parities has been identified as one of the principal goals of public policy in the United States (U.S. Department of Health and Human Services 2011). In our study, we analyze both disparities in life expectancy and in lifespan variability between blacks and whites in the United States. In doing so, our goal is to shed light on the processes that create the black-white mortality differentials.

gAp in life expectAncy

We first start by looking at the black-white gap in life expectancy using the new age-incidence decomposition method (Firebaugh et al. 2014a). Lower life expectancy for blacks can be generated by two different mech-anisms: one, blacks can be more likely to die of causes that tend to strike at younger ages such as homicide or traffic accidents; two, blacks can die of the same causes as whites, but their average age at death is lower.

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Longevità, vecchiaia, salute

We call these two mechanisms incidence component and age component, respectively. We find that in 2010 nearly 84% of the 3.8 year black-white life expectancy gap is accounted for by the age component. That is, blacks and whites die of the same causes, but blacks do so at younger ages. The other 16% is accounted for by the incidence component where blacks are more likely to die of causes that strike on average at younger ages. Despite the fact that blacks are disproportionally more likely to die of homicides, the incident component is relatively small because some youthful causes of deaths are more common among whites (e.g., suicide and accidental poisoning) and they offset the effect of homicide among blacks.

Figure 1 - Components of the racial gap in life expectancy, by cause category (United States, 2010)

Source: adapted from Firebaugh et al. 2014a.

Figure 1 illustrates the age and incidence components for five major causes of death. The age effect is preponderant for chronic diseases, exter-nal causes, and minor causes. On the other hand, communicable diseases and infant deaths contribute to the racial gap in life expectancy mainly through the incidence component, with blacks being more likely to die of these causes than whites.

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Including almost 70% of all deaths, chronic diseases such as heart dis-eases, cancers, and cerebrovascular diseases are the most common causes of death. Therefore, it is of no surprise that they account for most of the black-white gap in life expectancy, about 56%. However, there are also some rare causes of death that contribute more to the racial gap than some common causes of death. For example, homicide accounts for more of the racial gap in life expectancy than cancer, even though blacks are about 17 times more likely, and whites about 120 times more likely, to be cancer victims than homicide victims. Other causes that “over-contribute” to the racial gap are HIV/AIDS, perinatal deaths, and Alzheimer’s. Differently from all other causes of death, suicide and accidental poisoning stand out because they narrow the racial gap. Even though most of the black-white gap in life expectancy is generated by differences in age at death (age component), the incidence component is prevalent for the major over-con-tributors (i.e., homicide, HIV/AIDS, perinatal deaths, and Alzheimer’s) as well as for the causes that narrow the gap (i.e., suicide and accidental poisoning). In fact, for these (relatively minor) causes of death, blacks and whites do not differ much in terms of average age at death, but they do differ significantly in terms of incidence, or probability of dying of these causes.

gAp in lifespAn vAriAbility

Two populations with similar mean age at death can exhibit very dif-ferent variability around that mean. This lifespan variability can be de-composed using the new spread-allocation-timing decomposition meth-od (Nau and Firebaugh 2012), which reveals which causes of death, and which variance components of those causes, are most important for pro-ducing differences in lifespan variance between two populations. In the United States, as mentioned earlier, lifespans are more variables for blacks than for whites. This can occur through three different mechanisms: (1) because age at death varies more for blacks than for whites within the same cause of death (spread effect); (2) because blacks die of different causes than whites (allocation effect); (3) because the average age at death varies more across causes for blacks than for whites (timing effect). These mechanisms are visualized in Figure 2.

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Longevità, vecchiaia, salute

Figure 2 - A visual representation of Spread, Allocation, and Timing effects

Source: Firebaugh et al. 2014b.

In 2010, the black-white difference in adult lifespan variance was 244.0 - 199.1 = 44.9. Figure 3 displays the all-cause components of that difference, where all-cause is the sum of the cause-specific components. The all-cause spread component accounts for 87.2% of the black-white lifespan disparity, indicating that lifespans are more variable for blacks largely because age at death varies more for blacks than for whites among

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those who succumb to the same cause. The all-cause allocation component is about 12.4%, indicating that only about 12% of the disparity in lifespan variance would persist if blacks and whites differed only with regard to cause-specific death rates. The all-cause allocation component is small because of offsetting cause-specific allocation effects, as we show below (see Figure 3). The all-cause timing component is even smaller, and neg-ative (-4.7%), indicating that lifespans would vary less for blacks than for whites if blacks and whites differed only with respect to variance in the average age at death across causes. The all-cause joint component1 is also small (about 5%).

Figure 3 - Components of the black-white disparity in lifespan variance (United States, 2010)

Source: Firebaugh et al. 2014b.

conclusions Reducing and eliminating racial disparities in health is one of the prin-

cipal goals of public policy in the United States. To achieve these goals,

1 The joint component captures the part of the racial difference in lifespan variance that is attrib-utable to simultaneous racial differences in incidence and in cause-specific variances.

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Longevità, vecchiaia, salute

most previous studies have focused on the black-white racial disparity in life expectancy, yet there has been scant research investigating the black-white racial disparity in lifespan variability. However, to have more comprehensive understanding of the black-white racial disparity, it is im-perative to investigate the mechanisms generating both disparities in life expectancy and lifespan variability. Using two new decomposition meth-ods, we have analyzed the factors generating these disparities. We find that there are complex, sometimes offsetting, mechanisms that perpetuate the black-white mortality disparities. By highlighting these specific mech-anisms, we provide evidence for designing more effective and targeted public policy prevention and intervention to achieve the goal of eliminat-ing racial disparities in health in the United States.

ReferencesFirebaugh G., Acciai F., Noah A.J., Prather C., and Nau C. 2014a. Why the racial gap in life expec-tancy is declining in the United States Demographic Research 31(32): 975-1006.Firebaugh G., Acciai F., Noah A.J., Prather C., and Nau C. 2014b. Why lifespans are more variable for blacks than of whites in the United States Demography 51(6): 2025-2045.Nau C. and Firebaugh G. 2012. A new method for determining why length of life is more unequal in some populations than in others. Demography 49(4): 1207-1230.US Department of Health and Human Services. 2000. Healthy People 2010 Health Objectives. Washington, D.C.

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VPremessa

Nonni e rapporti intergenerazionali

Ogni persona, nel corso della vita, assume, in ambito familiare e socia-le, diversi ruoli a seconda delle diverse esperienze ed attività in cui si

trova coinvolta. Tra i molteplici eventi che spingono un individuo a ricer-care nuovi ruoli vi è la nascita di un nipote, che rivoluziona le dinamiche relazionali nell’ambito familiare. Si instaurano, infatti, rapporti trigenera-zionali, con forti implicazioni affettive ed emotive, poiché i nonni danno vita con i nipoti ad un rapporto diretto, a volte in armonia coi genitori, a volte in contrasto con loro. La “nonnità” dunque richiede una ridefinizione di ruoli, competenze e funzioni, suscita nuove energie e soddisfazioni, ma può far nascere anche conflittualità. Essa viene vissuta diversamente, in base alle caratteristiche individuali di ogni persona: alcuni assumono posi-tivamente il ruolo di nonno, considerandolo un’esperienza gratificante, un nuovo motivo di vita che permette loro di mantenersi giovani; per altri – al contrario – essere nonni significa essere diventati vecchi e inutili, e questo li porta a rifiutare il ruolo stesso.

Il modello mediterraneo di famiglia possiede due principali caratteri-stiche: l’impegno morale a sostenere i membri più deboli e la regola della reciprocità tra genitori e figli. Questa potente camera di compensazione tra le risorse e le fragilità dei figli e dei genitori è uno strumento prezioso per spiegare le peculiarità della situazione demografica e del sistema di welfare nel Sud dell’Europa.

Il supporto intergenerazionale è tipico dei sistemi familiari dell’Europa meridionale, dove la consanguineità è frequentemente accompagnata da prossimità abitativa. I nonni danno aiuto ai genitori nella cura dei figli, quando entrambi i genitori lavorano, in un contesto come quello italiano dove gli asili nido pubblici scarseggiano e quelli privati sono cari. Il ruo-lo di nonni care-giver si scontra con l’auspicato allungamento della vita lavorativa. Quanto più a lungo viene rimandata l’età pensionabile tanti meno anni restano a disposizione perché gli anziani possano fornire aiuto ai figli nella gestione dei nipoti. Non sempre si tratta di un compito facile,

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Longevità, vecchiaia, salute

perché (sebbene rispetto alla responsabilità parentale quella dei nonni sia più leggera) un parziale ruolo educativo è comunque presente nel legame nonni-nipoti e può essere diverso da quello dei genitori. Rispetto a questi ultimi, i nonni tendono ad essere più permissivi, con comportamenti mar-catamente diversi rispetto a quelli che a loro volta hanno avuto con i propri figli, che in questo non riconoscono i propri genitori, con discrasie pesanti fra i due ruoli: genitori degli attuali genitori, nonni dei loro figli.

Occuparsi dei nipoti sembra fare bene ai nonni (e soprattutto alle non-ne, in questo più impegnate), perché li mantiene attivi, e migliora la loro salute mentale, o almeno ne rallenta il decadimento. Il livello cognitivo degli anziani si giova della vicinanza dei nipoti, sia quando sono richiesti aiuti per i compiti, sia per il forzato contatto (indiretto) con le moderne tecnologie, dalle quali i nonni resterebbero presumibilmente esclusi.

Gli articoli di questa sezione mettono in luce il ruolo benefico dei lega-mi intergenerazionali, ma anche la contraddittorietà della destinazione dei tempi della popolazione anziana: prolungamento dell’attività lavorativo o cure familiari? Questo il dilemma “politico”, che trova in queste pagine elementi di riflessione ma non certo una risposta.

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Roma, 23 Febbraio 2105, Liceo “Lorenzo Cherubini”elAborAto in clAsse: l’estinzione dei nonni

eMiliano Mandrone1

Il Nonno. Figura mitologica antropomorfa, per metà uomo e per metà candito, cardine della società italiana a cavallo del XX secolo, appare

sovente nelle foto ingiallite degli album di famiglia, tipicamente seduto in poltrona, in ”libertà vigilata” (dai figli), infinita la sua disponibilità, pro-digo di attenzioni, causa principale della dieta ipercalorica italiana. Inizia a perdere il proprio ruolo sociale a partire dalla seconda metà del XXI secolo, quando a causa del protrarsi dell’attività lavorativa, era divenuto fragile e di modesto aiuto se non addirittura di vero e proprio intralcio.

Ancora incerta la causa principale dell’estinzione: tra le teorie più ac-creditate un cambio repentino del clima (sociale) provocato da alcune ri-forme che ne hanno reso impossibile la sopravvivenza, in quanto solo un precoce ritiro dal lavoro consentiva di vivere attivamente una decina di anni nella condizione di liberto a disposizione della famiglia.

Altri studiosi, invece, sostengono che il nonno, come era inteso nel tardo XX secolo, è stata una fugace apparizione, una discontinuità nella storia frutto di una congiuntura favorevole. Una sorta di Isola Ferdinan-dea che fa fugaci comparse e poi scompare.

La datazione più accreditata fa risalire la scomparsa intorno al 2070. Altri anticipano la datazione legandola al Gran Rifiuto di Benedetto XVI al ministero petrino per ingravescente aetate, scelta da molti indicata co-me paradigmatica della necessità di non avere impegni oltre una certa età. Alcuni di questi sopravvissero all’estinzione, i c.d. benestanti, ma di scar-sa consistenza numerica tanto da venire derubricati a vera e propria ecce-zione.

Da notare come sia asimmetrico il loro ruolo sociale: il nonno maschio, iper-prostatico, solitamente svolgeva più che altro mansioni di redistri-

1 Pronipote ed omonimo

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Longevità, vecchiaia, salute

buzione economica, quali la socializzazione dell’assegno pensionistico e generiche attività di cambusa. Era spesso sbeffeggiato e irriso, ritenuto un pessimo retore, sovente audioleso e ipovedente. La nonna femmina, invece, aveva concentrate in sé una nutrita serie di responsabilità e rappre-sentava il vero fulcro della famiglia. Da citare il caso della super-nonna ovvero della madre della madre (momsquare o m2), una vera e propria ma-ter familiae, dotata addirittura di poteri taumaturgici. Val la pena precisare che il nonno è tale solo se è un anziano abbiente con progenie, altrimenti è un “povero vecchio”.

Molti di essi erano bipedi, altri erano umanoidi (con parti meccaniche) grazie a molteplici ausili domotici, quali carrozzelle, stampelle, bastoni. Caricaturale nell’aspetto era non privo di un certo fascino. Le canute genti soffrivano di incoerenza e irrazionalità ed erano afflitte da un morbo ende-mico, l’herpes da contrappasso, per cui se ai propri figli avevano negato qualcosa (giocattoli insani, bibite gassate, tempo libero, denaro in cambio di false effusioni e dimostrazioni d’affetto) con i propri nipoti perdevano i freni inibitori e concedevano tutto, ebbri dell’eternità che quel “25% di patrimonio genetico” conferiva loro.

Numerose ricerche hanno indicato che i nonnidi erano generalmente attivi e con numerose interazioni sociali, tant’è che si sono rinvenute an-che indicazioni terapeutiche per i pochi che venivano presi da apatia da mancanza di impegni. Come possiamo comprendere da numerose inci-sioni ed immagini ritrovate, erano tra i più intelligenti organismi del loro periodo, in quanto la relazione tra gli “anni lavorati” e quelli “non lavora-ti” era quasi pari a 1, rapporto mai raggiunto prima e andato rapidamente peggiorando negli anni successivi. Ovvero si sono concessi una “seconda giovinezza” oziosa e abbiente, ma forse non economicamente sostenibile.

Curiosa l’assonanza tra il termine “nonnidi” e la locuzione “no-nidi”, una sorta di sintesi linguistica della concorrenza tra i servizi familiari e quelli di cura. Atti pubblici sono stati rinvenuti recanti deliranti visioni di compartecipazione tra generazioni ai ruoli sociali e lavorativi. Alcuni genitori ricorrevano ai nonni come baby sitter per poter finire qualche atti-vità lavorativa, per essere confermati in ruolo, per reggere la concorrenza sul mercato del lavoro. Particolarmente anomala la situazione nei primi lustri del secolo: i giovani iniziavano a lavorare molto tardi, quasi a 40 anni, per restare però sul posto di lavoro fino alla fine dei propri giorni.

Solo chi aveva vicino i nonni poteva lavorare di più, uscire la sera, fa-re figli, far fare 3 mesi di mare ai piccoli, o anche, semplicemente, avere

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una casa. Questa pratica, contro-intuitivamente, ha rappresentano una non equa organizzazione sociale: pensate che non avere i nonni voleva dire avere vincoli economici e di tempo libero notevoli, in quanto raramente c’erano servizi di cura pubblici o convenzionati ed elastici in funzione delle esigenze delle famiglie. Quello che oggi appare ovvio e acquisito - come l’assistenza del figlio da parte di entrambi i genitori (alternativa-mente) fino al 10° anno di età in caso di malattia, il diritto al reddito di sussistenza indipendentemente dalla condizione occupazionale, la possi-bilità di comporre gran parte dell’offerta formativa tra opzioni scelte dai genitori (sport, musica, lingua, arte, cultura, religione, logopedia, ecc.) - a quei tempi era di là da venire. Addirittura si guardava al Nord Europa, con welfare inclusivo e servizi universali, come “gli ateniesi guardavano gli spartani”: simboli di relazioni carnali deboli, rudi e spicci nei modi, poco inclini alla “protezione preventiva” e all’indulgenza verso i “propri” figli e quindi, per banale deduzione, peggiori, cattivi, infelici.

La figura del nonno è stata per lo più episodica e presente in pochi paesi a cavallo del XX secolo. L’idea di un periodo di “non lavoro retri-buito” in tarda età a titolo risarcitorio dei servizi resi venne a Bismarck solo alla fine dell’ottocento. Disse: “A che età mediamente muore un sud-dito dell’Imperatore … bene tutti quelli che superano quella età possono godere di una pensione sociale”. La previdenza, non ancora associata ai diritti individuali, era una concessione. Inutile dire che non si vedevano molti pensionati in giro. Solo cinquant’anni più tardi, in una Inghilterra sotto le bombe naziste, Lord Beveridge disegnò un sistema di assicurazio-ne sociale, universale nella copertura e obbligatorio nella contribuzione, embrione dei sistemi di sicurezza sociale che si diffusero nei paesi occi-dentali nella seconda metà del XX secolo. Ma queste conquiste sociali sono state il frutto di tempi e uomini straordinari? Alcuni sostengono che siano semplicemente il risultato di maldestre applicazioni delle ideologie del ‘900. Successivamente, questo “spazio di risulta” nella vita dell’uomo, sconosciuto sia ai suoi predecessori che ai suoi posteri, tra l’età matura e la vecchiaia, è stato riempito da una funzione di solidarismo di prossimità. Individualismo o familismo allo stato puro, il contrario del fine cui ambiva l’assicurazione sociale che, peraltro, ha reso possibili quegli “anni liberi dal lavoro”.

A quei tempi la cortina di protezione familiare era senza soluzione di continuità e si esplicava fino alle soglie del lavoro, in cui le opportunità erano molto spesso dettate dalle conoscenze (dal network familiare) e i

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percorsi risultavano tanto più protetti e facilitati per i propri figli quanto maggiore era il ruolo economico e sociale della famiglia d’appartenenza. Punti di partenza così diseguali avevano portato alla inibizione degli stru-menti di emancipazione e, conseguentemente, ad una crisi economica.

Forse ci si sente un po’ più soli oggi, forse i nostri figli hanno desiderato qualche volta una presenza familiare quando avevano paura di “non impa-rare una poesia”, forse non hanno sempre mangiato il “minestrone fresco tutti i giorni”, ma almeno siamo artefici della nostra esistenza, senza dover combattere con natali più o meno felici, senza dover avere rimorsi per aver scelto il tempo pieno a scuola, più socialisti e liberisti di quanto le forze politiche socialiste e liberiste siano riuscite a renderci.

Io non ho fatto né il militare né il nonno, … passi per il militare.

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Il segreto per non perdere la testa? Fare la nonna!

Bruno Arpino e Valeria Bordone

Si parla molto dell’importanza dei nonni. Finanche lo Stato, almeno for-malmente, con la legge istitutiva della festa dei nonni (legge 159 del

31 luglio 2005), ha riconosciuto “l’importanza del ruolo svolto dai nonni all’interno delle famiglie e della società in generale”. Ma prendersi cura dei nipoti ha effetti positivi anche sui nonni?

l’importAnzA dei nonni per le giovAni generAzioni

Molti lavori accademici mostrano gli effetti positivi che i nonni produ-cono per il fatto di prendersi cura dei nipoti. Sembrano esserci vantaggi per tutti. I nipoti, oltre a farsi viziare dai nonni, beneficiano del rapporto con questi in termini di migliori risultati scolastici e abilità cognitive (Arpino e Bordone, 2012). Le generazioni intermedie “approfittano” dell’aiuto dei nonni nella cura dei propri figli per conciliare più facilmente famiglia e lavoro (vedasi Arpino, Figli e nipoti sono piezze e’core) e decidere con piu serenità di avere un figlio in più (vedasi Meroni, Nonni in Europa). Infine, anche l’economia nel suo complesso beneficia dei nonni che guardano i nipoti perché ciò permette una maggiore partecipazione delle giovani donne al mercato del lavoro. In pochi, però, si sono interessati agli effetti del “fare i nonni” sui nonni stessi.

fAre lA nonnA fA mAle AllA sAlute?La scarsa letteratura esistente si è focalizzata sulle nonne, poichè so-

no loro a farsi carico della cura dei nipoti nella maggior parte dei casi. L’evidenza mostra quasi sempre un effetto negativo di “fare la nonna” su diversi aspetti legati a salute e benessere. Tuttavia, questi lavori hanno per lo piú dato attenzione a casi di nonne a cui è affidata la piena custodia dei nipoti. Ma in prevalenza le nonne sono complementari ai genitori e in tale ambito il nostro lavoro analizza l’effetto del prendersi cura dei nipoti sulle capacità cognitive delle nonne.

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use-it-or-lose-it

In un contesto di invecchiamento della popolazione, diventa sempre più importante identificare i fattori che possano aiutare il mantenimento delle abilità cognitive in età avanzate. La cosiddetta teoria “use-it-or-lose-it” (traducibile come “se non lo usi lo perdi”) suggerisce che il cervello umano mantiene le proprie capacità cognitive se queste vengono usate, mentre una mancanza di stimoli può accelerarne il processo degenerativo.

Diversi studi (per esempio Engelhardt et alii, 2010) hanno mostrato co-me una vita attiva (nel senso di partecipazione al mercato del lavoro, coin-volgimento in attività quali volontariato, gruppi religiosi o politici, circoli ricreativi, corsi per la terza età) abbia un effetto positivo sulle capacità cognitive degli anziani in rapporto ai loro coetanei non (o meno) attivi.

Seguendo questo filone di ricerca, consideriamo il prendersi cura dei nipoti tra le attività stimolanti per il cervello. Molti nonni, infatti, sono soliti aiutare i nipoti nello studio; altri leggono favole, raccontano sto-rie, o giocano con i nipoti, magari anche utilizzando le nuove tecnologie. Ipotizziamo, quindi, che prendersi cura dei nipoti con una certa regolarità (seppure senza sostituirsi ai genitori) possa aiutare il mantenimento delle capacità cognitive.

unA selezione negAtivA delle nonne?I dati della Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe (SHA-

RE - http://www.share-project.org/) sembrano suggerire che prendersi cura dei nipoti, lungi dall’essere positivo per le capacità cognitive delle nonne, sia al contrario negativo. Infatti, la Figura 1 mostra che le nonne che si prendono cura quotidianamente (o quasi) dei nipoti riportano livelli più bassi nei vari test considerati (peggiori prestazioni cognitive).

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Figura 1 - Risultati medi in vari test cognitivi (e intervallo di confidenza al 95%) per frequenza di cura dei nipoti Note: La linea orizzontale rappresenta la media totale; “daily”, “weekly” and “less” indicano, rispettiamente, la cura dei nipoti con frequenza quotidiana (o quasi), settimanale o inferi-ore (incluso mai); “no gc” = no nipoti.

1718

1920

verb

al fl

uenc

y

no gc less weekly dailygrandparenting

33.

13.

23.

33.

43.

5nu

mer

acy

no gc less weekly dailygrandparenting

4.8

55.

25.

45.

6im

med

iate

reca

ll

no gc less weekly dailygrandparenting

3.2

3.4

3.6

3.8

44.

2de

laye

d re

call

no gc less weekly dailygrandparenting

Fonte: analisi descrittive su dati SHARE (Arpino e Bordone, 2012).

Questi risultati, però, non sono dovuti ad un effetto negativo di fare la nonna per sé ma piuttosto ad una “selezione negativa” di queste. Vale a dire, le nonne che si prendono cura frequentemente dei nipoti hanno al-tre caratteristiche associate negativamente alle capacità cognitive: sono in media più anziane, meno istruite e meno coinvolte in attività lavorative e sociali.

La figura 2 mostra i risultati di un modello a variabili strumentali sugli stessi dati. Controllando in questo modo per l’effetto selezione (e cioè depurando i risultati dell’azione delle altre variabili di cui si diceva), pren-dersi cura dei nipoti risulta avere un chiaro impatto positivo su almeno uno dei test cognitivi considerati (abilità verbale). Per le altre dimensioni, comunque, non troviamo differenze significative tra le donne che curano i nipoti quotidianamente e le altre.

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Longevità, vecchiaia, salute

Figura 2 - Differenza (e intervallo di confidenza al 95%) tra i risultati ai test cognitivi delle donne che curano i nipoti quotidianamente (o quasi) e le altre.

01

23

4gr

andp

aren

ting

effe

ct

verbal numeracy immediate recall delayedcognitive measures

Fonte: Coefficienti stimati di un modello a variabili strumentali su dati SHARE (si veda [1] per maggiori deattgli e riferimenti bibliografici sull’indagine SHARE).

Data l’elevata partecipazione delle nonne alla cura dei nipoti in molti paesi, i nostri risultati sono incoraggianti: fare la nonna non fa male. Anzi, quando vi è un effetto statisticamente significativo, questo è positivo! Per-tanto, i nonni che non lavorano, né partecipano ad attività sociali possono compensare (probabilmente solo in parte) gli scarsi stimoli cognitivi pren-dendosi cura dei propri nipoti.

Per saperne di piùArpino B., Bordone V. (2012) Does Grandparenting Pay Off? The Effect of Childcare on Grandpar-ents´ Cognitive Functioning. European Demographic Research Papers, 4. Vienna: Vienna Institute of Demography of the Austrian Academy of Sciences. Disponibile on-line: http://www.oeaw.ac.at/vid/publications/p_demographicresearchpapers.shtmlEngelhardt H., Buber I., Skirbekk V., Prskawetz A. (2010). Social involvement, behavioural risks and cognitive functioning among older people. Ageing & Society, 30 (5), 779-809.

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Indice

Quando mamma e papà lavorano ... ci sono i nonni

JeSSica zaMBerletti, cecilia toMaSSini e giulia cavrini

Sempre più bambini crescono oggi con i nonni che rivestono un ruo-lo importante nel prendersi cura dei nipoti soprattutto in Paesi, come

l’Italia, dove i servizi pubblici per l’infanzia sono insufficienti, e in futu-ro potrebbero persino diminuire, o diventare più cari, a seguito dei tagli nella spesa pubblica e nei servizi offerti dai comuni (vedi anche Rosina e Albertini 2015). Le mamme, invece, sono sempre più presenti nel mondo del lavoro, sia perché a questo incoraggiate dalle politiche europee, sia a causa della crisi economica che spinge le famiglie a cercare di avere più fonti di reddito. Tutti questi elementi suggeriscono che il ruolo dei nonni nella vita familiare e nella cura dei nipoti potrebbe diventare ancora più importante. La soluzione dei nonni baby-sitter è tuttavia ostacolata dalle politiche europee che vogliono incrementare la partecipazione lavorati-va degli anziani (e delle anziane) ritardandone il pensionamento. Il qua-dro è ulteriormente complicato dal fatto che divorzi e separazioni sono in aumento anche tra gli anziani e sappiamo che, per l’indebolimento delle relazioni intergenerazionali, la propensione a prendersi cura dei nipoti di-minuisce quando i nonni non stanno più insieme.

l’occAsione fA il nonno bAbysitter L’Istituto Nazionale di Statistica effettua con cadenza quinquennale

un’indagine sulle famiglie italiane allo scopo di studiare, fra le altre cose, la composizione, le relazioni e il supporto intergenerazionale. L’indagine prevede anche una sezione dedicata alle occasioni in cui i nonni si pren-dono cura dei nipoti più piccoli (con meno di 14 anni di età). Emerge che mentre solamente il 17,7% circa dei nipoti non viene mai affidato ai nonni, il 30,6% lo è in modo intenso (ad es. quando i genitori lavorano e in di-verse altre circostanze più o meno sistematiche), e il 42,6% lo è in modo almeno occasionale, ad esempio se i genitori escono per fare commissioni o per altri impegni non lavorativi, oppure in altre situazioni di emergen-za. Inoltre, il 9,1% dei bambini passa con i nonni i periodi di vacanza, ed eventualmente viene accudito da loro anche in altre situazioni occasionali

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nel resto dell’anno, dunque per un arco di tempo limitato, ma durante il quale l’impegno da parte dei nonni è probabilmente consistente.

si fA presto A dire nonni Il forte supporto intergenerazionale che caratterizza le famiglie italia-

ne, e in particolare l’asse genitori/figli/nipoti, è agevolato dalla diffusa tendenza a vivere vicini: fra i nonni il 43% vive a meno di un chilometro di distanza dal nipote più vicino (escludendo i coresidenti), il 40% fra uno e sedici chilometri di distanza e solo il 17% a più di sedici chilometri dal nipote più vicino. Inoltre, i nonni tendono a essere maggiormente coin-volti nel proprio ruolo quando hanno più nipoti giovani: la proporzione di coloro che si occupano dei nipoti senza la presenza dei genitori in maniera intensiva, pari al 25,2% per i nonni con un solo nipote, cresce al 34,6% per i nonni con tre nipoti (Fig. 1).

Figura 1 – Frequenza con cui i nonni si prendono cura dei propri nipoti per numero di nipoti

Fonte: elaborazione degli autori sui dati dell’indagine multiscopo “Famiglie e soggetti sociali” con-dotta dall’Istat, anno 2009

Come ci si può aspettare, le nonne hanno una maggiore probabilità di essere coinvolte nella cura dei nipoti, ma le differenze con i maschi sono in questo caso limitate: 87% (nonne che si prendono cura di almeno un nipote) contro 82% (nonni). Anche l’età influisce fortemente, sebbene sia

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condizionata dalla cadenza della fecondità dei nonni e dei loro figli, dal lo-ro stato di salute e dall’età dei nipoti: la massima partecipazione nella cura dei nipoti è quella dei nonni con età compresa fra i 60 ed i 64 anni, che si occupano con elevata frequenza di almeno un nipote nel 39,4% dei casi, contro il 18,9% di nonni con 80 anni o più. Il coinvolgimento di coloro che hanno raggiunto almeno il diploma come titolo di studio è maggiore (36% contro il 32,5% di nonni con titolo di studio inferiore si prendono cura in modo intensivo di almeno un nipote), così come quello dei non occupati (34,2% contro il 27,6% degli occupati), di chi ha maggiori risorse econo-miche (35,9% contro il 28,8% di chi ha risorse economiche scarse o insuf-ficienti), e migliori condizioni di salute (35,3% per chi non ha problemi di salute che limitano l’autonomia nelle attività abituali contro il 30,2% e 27,9% di chi ha problemi non gravi o gravi). Infine, lo stato civile si rivela un fattore associato in modo significativo alla probabilità di prendersi cura in modo intensivo di almeno un nipote, con una maggiore propensione da parte dei nonni coniugati (35,1%) piuttosto che vedovi (26,3%) o separati, divorziati, celibi/nubili (26,7%) (Tab. 1).

Tabella 1 - nonni che si prendono cura dei nipoti sul numero dei nonni con stesse caratteristiche socio-demografiche (%)

Intensiva (almeno un nipote) Nessuna per nessun nipote

GenereMaschi 31,6 19,3

Femmine 34,6 13,9

Classe di età

50-59 anni 30,2 15,9

60-64 anni 39,4 12,4

65-69 anni 38,7 13,0

70-74 anni 34,4 14,8

75-79 anni 24,7 21,8

80 anni o più 18,9 34,5

Titolo di studioAlto 36,0 14,0

Basso 32,5 16,9

Condizione lavorativa

Occupato/a 27,6 17,5

Non occupato/a 34,2 16,1

Risorse economicheAlmeno adeguate 35,9 14,1

Inadeguate 28,8 19,9

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Longevità, vecchiaia, salute

Stato civile

Sposato/a 35,1 14,3

Vedovo/a 26,3 22,0

Separato/a o divorziato/a o celibe/nubile

26,7 28,5

Problemi di salute

Gravi 27,9 27,0

Non gravi 30,2 17,4

Nessuno 35,3 14,1

Fonte: elaborazione degli autori sui dati dell’indagine multiscopo “Famiglie e soggetti sociali” con-dotta dall’Istat, anno 2009

Per meglio comprendere come l’insieme di questi fattori influenzi la probabilità che i nonni si occupino dei nipoti in modo intensivo, occasio-nale, o saltuario (solo in certi periodi dell’anno, ad es. durante le vacanze), si è fatto ricorso all’analisi multivariata. I risultati confermano, a parità di altre condizioni, il significativo effetto negativo delle inadeguate risorse economiche, della vedovanza o dell’essere separati, divorziati, celibi/nu-bili, delle cattive condizioni di salute, della possibilità di essere occupati e dell’avere basso titolo di studio sulla probabilità di occuparsi dei nipoti in modo intensivo. Vi è poi minore propensione per nonni che vivono al sud, o i cui nipoti abitano lontano o sono molto piccoli (primo anno di vita), mentre il coinvolgimento è significativamente maggiore per chi ha nipoti di età compresa fra i 3 e i 10 anni.

non diAmo i nonni per scontAti

Il contributo dei nonni come figura di supporto familiare nella cura dei nipoti è quindi molto importante nel nostro Paese, ma la crescente propor-zione di divorziati fra gli anziani, e il ritardo nell’età al pensionamento, potrebbero impedire un loro così pieno coinvolgimento in futuro. Inoltre - visto che oggi i nonni sono mediamente più anziani di qualche decennio fa - anche un peggioramento delle condizioni di salute potrebbe minare la loro capacità di svolgere appieno il loro ruolo. Il contributo della popola-zione anziana nella cura dei nipoti dovrebbe essere riconosciuto, tutelato e valorizzato (vedi anche Arpino e Pronzato 2015): se non ci fossero i non-ni, le madri (e i padri) avrebbero ancora più difficoltà a conciliare famiglia e lavoro, e questo potrebbe addirittura deprimere ulteriormente il tasso di fecondità delle giovani coppie. I nonni hanno supplito egregiamente alla carenza dell’offerta dei servizi pubblici per l’infanzia così come di quel-

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li privati i cui costi sono eccessivi per economie familiari fragili. I dati mostrano, tuttavia, che né le famiglie né il sistema di welfare devono (e possono) più darli per scontati.

Per saperne di piùArpino B., Pronzato C., 2015. Nonni e nipoti: una relazione benefica per entrambi (a parole). Neo-demos, 23 gennaio (http://www.neodemos.info/?p=3936)Attias-Donfut C., Segalen M., 2005. Il secolo dei nonni – la rivalutazione di un ruolo. Armando editoreDel Boca D., Locatelli M., Vuri D., 2004. Childcare Choices by Italian Households, IZA DP No. 983Glaser K., Price D., Di Gessa G., Ribe E., Stuchbury R., Tinker A., 2013. Grandparentng in Europe: family policy and grandparents’ role in providing childcare. Grandparents plusISTAT, Rapporto sulla situazione del Paese 2010 Rosina A. Albertini M., 2015. L’Italia salvata dai nonni (finché regge la salute), Neodemos 6 feb-braio (http://www.neodemos.info/litalia-salvata-dai-nonni-finche-regge-la-salute/)Saraceno C., 2011. “Nonni e nipoti”, in Il secolo degli anziani (a cura di Golini A., Rosina A.). Il Mulino, BolognaSarti R., 2010. Who cares for me? Grandparents, nannies and babysitters caring for children in con-temporary Italy. Paedagog Hist. 2010;46(6):789-802Zanatta A.L. (2013), I nuovi nonni. Il Mulino, Bologna

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Longevità, vecchiaia, salute

Nonni e nipoti: una relazione benefica per entrambi (a parole)

Bruno arPino e chiara Pronzato

L’importanza del ruolo dei nonni è sempre maggiore in Italia, come in molti altri paesi. Sempre più genitori ricorrono ai nonni come fonti

di cura dei propri figli, specialmente nei casi in cui i servizi di childcare offerti dallo Stato e dal mercato sono carenti o troppo costosi. Molti stu-di evidenziano i benefici dell’intervento dei nonni in termini di aumento della fecondità delle più giovani generazioni e facilitazione della parte-cipazione femminile al mercato del lavoro (v. Arpino, Figli e nipoti sono piezze e’core e Meroni, Nonni in Europa).

relAzione nonni-nipoti: effetti sulle cApAcità cognitive dei nipoti

Qual è l’effetto della cura dei nonni sugli esiti cognitivi dei bambini? Daniela Del Boca, Daniela Piazzalunga e Chiara Pronzato (2014) provano a rispondere alla domanda utilizzando dati sui bambini inglesi raccolti dall’Indagine “Millennium Cohort Study”. L’indagine raccoglie infor-mazioni su un campione di quasi 19.000 famiglie con bambini nati nel 2000/2001. I genitori, i bambini, i loro fratelli, le insegnanti sono intervi-stati quando il bambino “della coorte” ha circa 9 mesi, 3 anni, 5 anni, e 7 anni. Le autrici confrontano gli esiti dei bambini (a 3, 5, 7 anni) seguiti principalmente dai nonni con quelli dei bambini che vanno all’asilo nido (a un anno e mezzo di età), controllando per il tempo che i bambini pas-sano con altri parenti, baby-sitter, e genitori stessi. Nonostante le autrici controllino per un gran numero di variabili (caratteristiche del bambino, della madre, del padre, e della famiglia), esiste il rischio che la scelta delle persone alle quali affidare il bambino dipenda da caratteristiche a noi non osservabili che influenzano anche lo sviluppo cognitivo del bambino. Per ridurre questo rischio, le autrici sfruttano la struttura longitudinale dei dati e utilizzano variabili strumentali. Tra i diversi modelli, i risultati che appa-iono più robusti sono quelli relativi agli indicatori di “School readiness” e “Naming ability” (misurati a 3 anni) e “Picture similarity” (misurato a 5 anni), tre test che vengono somministrati direttamente dagli intervistatori ai bambini. Le autrici trovano che i bambini che vanno al nido sono più

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bravi nel riconoscere colori, forme, lettere, quantità (“School readiness”) e ad abbinare figure simili (“Picture similarity”, che misura la capacità di problem-solving del bambino). I bambini che sono seguiti dai nonni inve-ce conoscono un numero più grande di parole (“Naming ability”): dato un libretto con figure colorate, sono in grado di dire il nome corretto dell’og-getto più frequentemente che non i bambini che vanno all’asilo.

relAzione nonni-nipoti: effetti sulle cApAcità cognitive dei nonni

Chiediamoci ora, invece, se prendersi cura dei nipoti ha effetti sulle ca-pacità cognitive dei nonni. L’attività di cura dei nipoti può comportare un aumento dell’attività fisica e intellettuale dei nonni. Basti pensare all’aiuto che i nonni possono offrire ai nipoti nel fare i compiti o, nel caso di nipo-ti più piccoli, all’attività di lettura o narrazione di storie. Avere rapporti con i nipoti può anche stimolare l’uso delle nuove tecnologie da parte dei nonni. Ci sono, quindi, ragioni teoriche per pensare che l’attività di cura dei nipoti possa aiutare il mantenimento di buone capacità cognitive in età avanzate.

Questa ipotesi è confermata da uno studio di Bruno Arpino e Valeria Bordone (2014). Utilizzando dati dell’indagine SHARE (Survey of Heal-th, Ageing and Retirement in Europe) su diversi paesi Europei, gli autori comparano le capacità cognitive dei nonni che si prendono cura dei nipoti con frequenza almeno settimanale con quelle di coloro che non si prendo-no cura dei nipoti o lo fanno raramente. Similmente allo studio di Del Bo-ca e colleghi, si utilizza un modello a variabili strumentali per tener conto della possibile presenza di fattori non osservabili e dell’eventualità che la relazione tra le variabili studiate funzioni nella direzione opposta (i nipoti si affidano solo ai nonni “più svegli”). Si sono impiegate quattro misure di abilità cognitive: due di memoria e due relative ad abilità numeriche e verbali. Mentre non si trova nessuna differenza statisticamente rilevante per le prime tre misure, si scopre invece che i nonni che curano i nipoti almeno settimanalmente hanno migliori abilità verbali (numero di animali che l’intervistato riesce ad elencare in un minuto) rispetto agli altri sogget-ti intervistati. E non c’è differenza di genere: a parità di tempo trascorso insieme ai nipoti, gli effetti sono simili per nonne e nonni.

È interessante notare che i due lavori menzionati trovano effetti simi-li della relazione nonni-nipoti per entrambe le generazioni. Da un lato i nipoti curati dai nonni hanno abilità cognitive verbali migliori di quelle dei bambini che frequentano l’asilo. Dall’altro i nonni che curano i nipoti

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hanno abilità cognitive verbali migliori di chi ha contatti più sporadici con i nipoti o non ne ha affatto.

Per saperne di piùArpino, B. and Bordone, V. (2014) Does Grandparenting Pay Off? The Effect of Childcare on Grandparents´ Cognitive Functioning, Journal of Marriage and Family, 76, 337–351.Del Boca, Daniela & Piazzalunga, Daniela & Pronzato, Chiara D. (2014)“Early Child Care and Child Outcomes: The Role of Grandparents,”IZA Discussion Papers 8565, Institute for the Study of Labor (IZA).