n u m e r o 3 buratti l'incuria del centro storicola "dihiarazione sull'eliminazione...
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Quello che vorrei quindi è far ampliare la Zona a Traffico Limitato che, sebbe-ne ora protetta da varchi elettronici, è comunque poco ri-spettata; intensifica-re i controlli dei vi-gili per impedire la sosta selvaggia sulle strade del centro e soprattutto indire delle campagne di sensibilizzazione nelle scuole, in mo-do da far conoscere ad un maggior nu-mero di persone il vero valore di questa città . Federico M. Felici, IV A Classico
Viterbo. Capoluogo di provincia della regione Lazio, sede di un centro storico medievale degno di nota, uno storico pa-lazzo papale e mol-tissime nonché im-portanti chiese, ma anche della trascura-tezza dei luoghi di interesse appena ci-tati e di molti altri. Viterbo è quella città in cui non si fa caso alla macchina che passa in mezzo alla folla del quartiere medievale di sabato sera; in cui le stesse macchine possono raggiungere qualsia-si punto del centro storico e parcheggia-re dove meglio cre-dono; in cui si igno-ra l'enorme patrimo-nio artistico e cultu-
rale che la città pos-siede. Se solo si conosces-se anche solo la me-tà del valore di ciò che si ha, sicuramen-te la città verrebbe trattata con maggior rispetto dagli stessi cittadini. Il problema risiede nell'assenza di mezzi per diffondere la co-noscenza di tutto ciò: io, cittadino co-mune, non vengo informato né istruito sulla mia città, sulle sue origini e sulla sua importanza e quindi non sono por-tato a valorizzarla come merita. Le conseguenze so-no negative, e la gente non se ne ac-corge, o comunque finge di non farlo.
L'INCURIA DEL CENTRO STORICO
L I C E O
G I N N A S I O
S T AT A L E
M A R I A N O
B U R AT T I
M A R Z O 2 0 1 7
A N N O S C O L A S T I C O 2016-2017
N U M E R O 3
P A G I N A 2 Violenza di genere: Sono
veramente le donne il sesso debole?
Ci sono uomini che
credono che la don-
na sia un oggetto e
che pertanto posso-
no trattarla come
tale, a mio avviso chi
ragiona così, oltre a
non potersi definire
“uomo”, non può
neanche definirsi un
essere umano, per-
ché chiunque privi
un individuo della
sua libertà persona-
le, che sia un uomo o
una donna, in una
maniera o nell’altra,
evidentemente è
privo del valore dell’
humanitas!
La "Dichiarazione
sull'eliminazione del-
la violenza contro le
donne" del 1993
all'art.1, descrive la
violenza contro le
donne come:
« Qualsiasi atto di vio-
lenza per motivi di ge-
nere che provochi o
possa verosimilmente
provocare danno fisi-
co, sessuale o psicolo-
gico, comprese le mi-
nacce di violenza, la
coercizione o privazio-
ne arbitraria della li-
bertà personale, sia
nella vita pubblica che
privata. »
Ma le leggi sono suffi-
cienti a fermare questo
gravissimo fenomeno?
In questi ultimi anni pur-
troppo i casi di violenza
sulle donne sono au-
mentati, quindi oltre a
dover essere divulgate e
conosciute queste leggi
vanno condivise e fatte
proprie fino in fondo
affinché sortiscano gli
effetti desiderati!
Il 25 novembre è la gior-
nata mondiale contro la
violenza sulle donne.
Questa data fu scelta in
ricordo del brutale as-
sassinio nel 1960 delle
tre sorelle Mirabal con-
siderate esempio di
donne rivoluzionarie per
l'impegno con cui tenta-
rono di contrastare il
regime di Rafael Leoni-
das Trujillo (1930-1961),
il dittatore che tenne la
Repubblica Dominicana
nell'arretratezza e nel
caos per oltre 30 anni. Il
25 novembre 1960, in-
fatti, le sorelle Mirabal,
mentre si recavano a far
visita ai loro mariti in
prigione, furono blocca-
te sulla strada da agenti
del Servizio di informa-
zione militare. Condotte
in un luogo nascosto
nelle vicinanze, furono
torturate, massacrate a
colpi di bastone e stran-
golate, per poi essere
gettate in un precipizio,
a bordo della loro auto,
per simulare un inciden-
te. I primi Centri antivio-
lenza sono nati in Italia
solo alla fine degli anni
novanta ad opera di as-
sociazioni di donne pro-
venienti dal movimento
femminile. Ad oggi sono
vari i centri di supporto
psicologico per le donne
che hanno subito mal-
trattamenti, ma che
hanno avuto la forza di
sporgere denuncia e che
si sono così salvate da
un destino ancor più
terribile.
Nel 2006, l'ISTAT ha ese-
guito un'indagine per
via telefonica su tutto il
territorio nazionale, rac-
cogliendo i seguenti ri-
sultati:
Le donne tra i 16 e i 70
anni che dichiarano di
essere state vittime di
violenza, fisica o sessua-
le, almeno una volta
nella vita sono 6 milioni
e 743 000, cioè il 31,9%
della popolazione fem-
minile; considerando il
P A G I N A 3 A N N O S C O L A S T I C O 2 0 1 6 - 2 0 1 7
Il 14,3% delle donne affer-
ma di essere stata oggetto
di violenze da parte del
partner: per la precisione, il
12% di violenza fisica e il
6,1% di violenza sessuale.
Del rimanente 24,7%
(violenze provenienti da
conoscenti o estranei) si
contano 9,8% di violenze
fisiche e 20,4% di violenza
sessuale. Per quanto riguar-
da gli stupri, il 2,4% delle
donne afferma di essere
stata violentata dal partner
e il 2,9% da altre persone.
Il 93% delle donne che
afferma di aver subito vio-
lenze dal coniuge ha dichia-
rato di non aver denunciato
i fatti all'Autorità; la percen-
tuale sale al 96% se l'autore
della violenza non è il part-
ner.
La violenza assistita e gli
effetti sui bambini
In un contesto di continue
violenze subentrano mecca-
nismi di sottomissione per
la sopravvivenza che sono
anche esempi deleteri per
un corretto sviluppo psicofi-
sico dei figli, infatti un mino-
re che è vissuto in un am-
biente in cui ha visto usare
violenza; potenzialmente da
grande userà violenza a sua
volta.
« I bambini sono vittime
perché sono lì e non ac-
cettano di dissociarsi dal
genitore preso di mira. Te-
stimoni di un conflitto che
non li riguarda, incassano
tutta l'ostilità destinata
all'altro genitore. [...]. Si
tratta di un trasferimento
dell'odio e della distruttivi-
tà. Di fronte alla denigrazio-
ne permanente di uno dei
genitori da parte dell'altro,
ai bambini non resta che la
possibilità di isolarsi. Perde-
ranno così ogni possibilità di
individuazione o di pensiero
autonomo » (Marie-France
Hirigoyen)
Ai testimoni di violenza vie-ne negato quel tipo di vita familiare che favorisce un sano sviluppo. Essi convivo-no con paura e ansia, mista a rabbia, imbarazzo e umi-liazione. Sono sempre in guardia, in attesa che il prossimo evento si verifichi. Non avendo possibilità di prevederne i tempi, non si sentono mai al sicuro, si preoccupano per se stessi, per la loro madre, e per i fratelli e sorelle. La rabbia è rivolta non solo verso l'abu-sante ma anche verso la madre, colpevole di non essere in grado di prevenire la violenza. Si sentono inuti-li, impotenti e spesso re-sponsabili degli scontri fra i genitori. Quasi sempre sono tenuti a mantenere il segre-to di famiglia. Si sentono isolati e vulnerabili, abban-donati fisicamente ed emo-tivamente, sono in cerca di attenzione, affetto e appro-vazione; il loro attaccamen-to ? è danneggiato e sono
incapaci di provare fiducia. Se esposti a fonti di stress molto intense, possono svi-luppare un disturbo da stress post traumatico. Spesso presentano disturbi del sonno, mancanza di concentrazione con scarso rendimento scolastico, mal di stomaco e/o mal di testa, enuresi, tristezza, depres-sione e rabbia. Possono ve-rificarsi ritardi di sviluppo, riduzione delle capacità co-gnitive e la sindrome da deficit di attenzione e ipe-rattività.
Ilario Pasculini, III A Classico
le sorelle
Mirabal
dei suoi principali utilizzi è
quello funerario. Un nastro
particolarmente stretto strin-
ge dunque la maschera attor-
no al teschio della morte.
Quella di Sileno, ad esempio,
è un terribile memento mori.
Nella letteratura gotica e
grottesca è un topos ricorren-
te: emblematici in tal senso
sono racconti di Edgar Allan
Poe quali la Maschera della
Morte Rossa o Il barile di
Amontillado; in quest’ultimo
la trama di una macabra ven-
detta si dipana durante il car-
nevale veneziano.
Le maschere e la morte James Ensor ritrae la vanità,
l’ipocrisia e i vizi attraverso il
colorato mondo delle maschere
Eppure per millenni essa ha
avuto funzione divina e apo-
tropaica. Gli uomini primitivi
ritenevano che la sede dello
spirito fosse il volto e attra-
verso la maschera operavano
la propria trasfigurazione.
Nelle religioni antiche colui
che indossava la maschera
solo stupro, la percentuale è
del 4,8% (oltre un milione di
donne).
Si prenda una comune ma-
schera. Tutti ne abbiamo in
casa almeno una, veneziana
magari. La si prenda dunque
e la si guardi bene. Si potreb-
be ridurre ogni osservazione
ad un’unica considerazione:
non ha occhi. Ebbene, solo
due occhi lascia scoperti al
mondo. Rivela, celando il su-
perfluo, la reale essenza di
chi la indossa. E il superfluo
dell’uomo sono i tratti soma-
tici, le espressioni mutevoli,
le lacrime ed egualmente la
gioia. A questo punto il letto-
re, esaminando la maschera
che ha dinnanzi, potrebbe
obbiettare che la sua è farse-
sca, sorride, oppure che è un
Pierrot piangente. Ma quelle
non sono espressioni. Sono
sorrisi arcaici, ghigni sacri,
pianti coturnati. I Romani la
chiamavano “persona” forse
dal latino “per-sono”, perché
serviva ad amplificare la voce
dell’attore. Allo stesso modo
essa amplifica le realtà inte-
riori immutabili e imperiture.
Ma per comprendere ciò si
devono compiere alcuni passi
indietro, danzando.
La maschera è spesso asso-
ciata alla dissimulazione, a
sotterfugi e nefandezze. Lo
stesso termine “maschera”
derivante dal germanico
“maska” in latino medievale
assume il significato di
spettro, essere demoniaco e
strega. Da sempre poi uno
rituale perdeva la propria
identità per trasformarsi in
un tramite tra gli uomini e il
mondo soprannaturale. Alle
volte la maschera stessa era
epifania, cioè manifestazione
della divinità, come nei culti
dionisiaci.
Affascinante è dunque il dua-
lismo della maschera; la ten-
sione, la potenza che si prova
nell’indossarla è data da un
contrasto inesorabile di forze.
Una che spinge verso l’alto,
verso il cielo, verso le verità
ultime, e l’altra che àncora
alla nuda terra e fa sprofon-
dare al suo interno. È cava
da un lato, per accogliere e
proteggere l’incertezza uma-
na, ma è al contempo protesa
verso l’esterno, per imporsi
sul mondo.
Ma soprattutto la maschera è
ricerca, è verità. Grazie ad
essa si indaga il proprio io più
recondito e lo si esterna. La
maschera è protagonista del
romanzo novecentesco Dop-
pio sogno di Schnitzler. L’au-
tore, che incuteva rispetto e
timore allo stesso Freud, ana-
lizza con il tema della ma-
scherata l’ambiguità e l’infe-
deltà coniugale attraverso un
processo iniziatico che porta
all’acquisizione di consapevo-
lezze rinnovate.
“L'uomo è meno se stesso quando parla in prima perso-na. Dategli una maschera e vi dirà la verità” afferma a ra-gione Oscar Wilde. Consci di questo, adesso
prendete quella maschera
Su la maschera!
vostra per anni, comprata chis-sà dove e appesa per decorare la stanza. Ponderate i suoi vo-lumi, i suoi colori, sentite al tatto la sua consistenza. Bacia-tela addirittura, ricongiungetevi al vostro io profondo. Ora indossatela. Siate voi stessi. Maria Elena Carlomagno, III C
Classico
Datti all’ippica!
“Datti all’ippica” se non sai
fare altro, tanto è facile! Pren-
di una rivista di equitazione,
leggila attentamente: ora sì,
sai andare a cavallo e gli in-
gredienti per il successo non
sono più un segreto per te.
Hai visto manti lucidati, ani-
mali tranquilli, performance
perfette e stivali puliti. Sei
sicuro che funzioni davvero
cosi?
Come succede in molti conte-
sti, anche nell’equitazione ciò
che comunemente si conosce
è solo la punta dell’iceberg.
Dietro ad un risultato, positi-
vo o negativo che sia, non ci
sono solo tanto lavoro e tanto
tempo, ma soprattutto la sin-
tonia che si crea tra un cava-
liere e il suo cavallo. Infatti i
requisiti fondamentali per
praticare bene questo sport
sono la pazienza e l’umiltà.
Un bravo cavaliere è colui che
riesce a pensare per due, che
mette da parte il suo punto di
vista per calarsi nei panni
dell’animale. Solo con l’abilità
di capire cosa passi per la te-
sta di un cavallo si può stabili-
re un rapporto positivo con
lui, con l’esperienza si acquisi-
sce la capacità di spiegare i
suoi comportamenti e preve-
nire le sue reazioni. L’equita-
zione si può sintetizzare in un
dialogo: un continuo alternar-
si di domande e risposte poi-
ché ad ogni azione del cavalie-
re corrisponde una reazione,
più o meno tempestiva e cor-
retta, in base all’esperienza
acquisita, da parte del cavallo.
Per questo è importante esse-
re sicuri di compiere le varie
azioni nel modo corretto: non
si può dare la colpa all’anima-
le se non risponde bene ad
una richiesta formulata male.
Così potrebbe quasi sembrare facile, ma non si può sempli-cemente prendere un cavallo e impartire ordini: la pazienza di ascoltare ciò che l’animale ha da dirci è uno degli ele-menti principali per la forma-zione di un binomio. Il cavallo, nella sua natura silenziosa, invia continui messaggi attra-verso minime azioni che solo un cavaliere esperto è in gra-do di percepire e comprende-re. Questi importanti scambi di informazioni sono alla base dell’equitazione, insieme alla costanza, indispensabile per ottenere dei risultati, e alla tecnica, che dalla costanza deriva. Perciò la famosa frase citata
precedentemente deve esse-
re completata: “datti all’ippi-
ca, se hai coraggio”! Perché a
cavallo non si sta con una te-
sta, ma con due.
Ludovica Rosella, III A Classi-
co
Piero e Raimondo D’Inzeo, i fratelli invincibili dell’equitazione
Il carnevale è una festa parti-colare. Si celebra in tutti i paesi di tradizioni cattolica. I festeggiamenti si svolgono molto spesso con delle para-te o delle sfilate di carri. L'e-lemento caratteristico di que-sta festa è l'uso delle masche-re: esempio più celebre è probabilmente il carnevale di Venezia, dove le stravaganti maschere caratterizzano que-sto periodo. La parola "carnevale" deriva dal latino "Carnem levare" (togliere la carne) , poiché indicava il banchetto che si teneva l'ulti-mo giorno di carnevale,
ovvero martedì grasso, prima del periodo di astinenza e digiuno della quaresima. I festeggiamenti maggiori av-vengono il giovedì grasso e il martedì grasso, ovvero l'ulti-mo giovedì e l'ultimo martedì prima della quaresima. Uno degli aspetti più caratte-ristici è sicuramente quello della cucina. A carnevale so-no molti i dolci che troviamo sulle tavole degli italiani. In ogni più remoto angolo del belpaese si nascondono mi-gliaia di delizie che non tutti conoscono. In questo articolo parleremo delle specialità
della Tuscia, zona sicuramen-te molto ricca in ambito culi-nario. A carnevale sono prin-cipalmente due i dolci che si possono trovare: le castagno-le, delle piccole palline di un impasto a base di farina, uova e zucchero, e le frappe, stri-sce di pasta dolce con zuc-chero, uova, limone e zucche-ro a velo. Un dolce che tutta-via in pochi conoscono ed è proprio tipico della Tuscia sono i frittelloni, volgarmente definiti fregnacce, che sono degli involtini arrotolati simili a delle crêpes, che si differen-ziano da quest'ultime per alcuni ingredienti. I frittelloni sono fatti con uova, farina, ovviamente acqua e un pizzi-co di pecorino, che aggiunge sapore al tutto. In conclusione, possiamo dire che nell'ambito culinario il periodo carnevalesco è ricco di soddisfazioni per gli amanti della tavola, che danno sfogo a tutti i loro peccati di gola in questo lasso di tempo prima della quaresima. Leonardo Santini, III A Classico
Carnevale a tavola