n. 3 - dicembre 2010 forzata - ristretti · 2015. 10. 28. · n. 3 - dicembre 2010 la speranza in...

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Giornale della Casa Circondariale di Piacenza n. 3 - dicembre 2010 La speranza in carcere è anche un po’ pericolosa. Quando riempie di sogni la testa delle persone ristrette, quando carica di attese insensate i figli, le compagne, le mamme. Quando semplifica i problemi e fa chiudere gli occhi davanti alle difficoltà future. La libertà subito e poi non c’è bisogno d’altro. Purtroppo non funziona così, non è vero: la libertà da sola non basta. Fuori c’è un mondo reale che corre e tende a lasciare indietro chi ha perso tempo; ci sono i figli non più qualche ora al mese ma tutti i giorni per tante ore. Le mogli, le fidan- zate che hanno a lungo aspettato e hanno un po’ perso la pazienza. Il lavoro non è quasi mai quello che avresti voluto e la fiducia degli altri è molto difficile da riconquistare. Le insicurezze, le paure, le ambizioni, le fragilità. Il carcere non le ha curate, le ha solo congelate per un po’. La speranza in carcere deve poggiare su spalle robuste. Non è una questione di fantasia ma piuttosto di maturità, di consape- volezza, di realismo.Tu sei dentro e stai pagando – Dio sa quanto – ma fuori la gente non saprà mai fino in fondo. Neanche le persone più care perché tu, per amore, affetto o dignità, cominci a prepararti per il col- loquio due o tre ore prima.Ti fai bello, ti profumi, pensi a cosa dirai, sor- ridi, nascondi tutto il resto. E quando torni in sezione ancora nascondi tutto; la tristezza, il dolore, la paura. Per un’infinità di buoni motivi. Per dignità, forse. Ma anche per rispetto, per non caricare di altro dolore i tuoi compagni già sofferenti; o per autodifesa, per non aprire spiragli alle cattiverie altrui. Magari per te stesso, perché se fai finta di star bene, forse un po’ ci credi anche tu. Per una forma di resistenza al sistema. La speranza in carcere deve camminare su progetti intelligenti e ragionevoli Su molta umiltà, sulla capacità di chiedere aiuto, sull’onestà del cuore. Rara, preziosa e tanto difficile. Sulla pazienza che non è repressione ma impegno lento e faticoso. Sulla capacità di scendere fino all’interno di sé, per poi risalire e prendere in mano la propria vita. E ripartire. Il proble- ma è che il carcere non è attrezzato per questo. La negazione di qual- siasi responsabilità blocca lo sviluppo delle persone, produce assuefa- zione e adattamento. Poca onestà e grande capacità di fingere. Una pra- tica che è l’esatto contrario della piena maturità. Per me la speranza in carcere sono dodici teste chine, dodici uomini inten- ti a scrivere in silenzio su fogli di carta riciclati con le biro nere del volon- tariato. Per me la speranza dentro e fuori dal carcere sono le tante persone impe- gnate a ricostruire e a sostenere le vite degli altri quando le vedono sospe- se su un filo troppo leggero. Per me la speranza è Angela che ha preparato un pensiero natalizio per i ragazzi della redazione. È venuta a trovarci l’anno scorso e ha sommer- so di speranza la nostra aula spoglia e sempre un po’ fredda Per me la speranza più alta è nella profezia Il lupo abiterà con l’agnello... Il problema è, a volte, capire chi è l’uno e chi è l’altro. BUON NATALE! Carla Chiappini S osta F or zata Si aggira ansiosa tra le celle, fa brillare per un attimo gli occhi azzurri di Alessandro, veglia sui progetti di Stefano, sostiene i momenti di affetto nella giornata dei colloqui, si spegne nella tristezza di chi ha perso troppe volte e forse sa già come andrà a finire. La speranza in carcere è un pò disperata

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Page 1: n. 3 - dicembre 2010 Forzata - Ristretti · 2015. 10. 28. · n. 3 - dicembre 2010 La speranza in carcere è anche un po’ pericolosa. Quando riempie di sogni la testa delle persone

Giornale della Casa Circondariale di Piacenzan. 3 - dicembre 2010

La speranza in carcere è anche un po’ pericolosa.Quando riempie di sogni la testa delle persone ristrette, quando caricadi attese insensate i figli, le compagne, le mamme. Quando semplifica iproblemi e fa chiudere gli occhi davanti alle difficoltà future. La libertàsubito e poi non c’è bisogno d’altro. Purtroppo non funziona così, nonè vero: la libertà da sola non basta. Fuori c’è un mondo reale che corree tende a lasciare indietro chi ha perso tempo; ci sono i figli non piùqualche ora al mese ma tutti i giorni per tante ore. Le mogli, le fidan-zate che hanno a lungo aspettato e hanno un po’ perso la pazienza. Illavoro non è quasi mai quello che avresti voluto e la fiducia degli altri èmolto difficile da riconquistare. Le insicurezze, le paure, le ambizioni, lefragilità. Il carcere non le ha curate, le ha solo congelate per un po’.

La speranza in carcere deve poggiare su spalle robuste.Non è una questione di fantasia ma piuttosto di maturità, di consape-volezza, di realismo. Tu sei dentro e stai pagando – Dio sa quanto – mafuori la gente non saprà mai fino in fondo. Neanche le persone più careperché tu, per amore, affetto o dignità, cominci a prepararti per il col-loquio due o tre ore prima. Ti fai bello, ti profumi, pensi a cosa dirai, sor-ridi, nascondi tutto il resto. E quando torni in sezione ancora nasconditutto; la tristezza, il dolore, la paura. Per un’infinità di buoni motivi. Perdignità, forse. Ma anche per rispetto, per non caricare di altro dolore ituoi compagni già sofferenti; o per autodifesa, per non aprire spiragli allecattiverie altrui. Magari per te stesso, perché se fai finta di star bene,forse un po’ ci credi anche tu. Per una forma di resistenza al sistema.

La speranza in carcere deve camminare su progettiintelligenti e ragionevoliSu molta umiltà, sulla capacità di chiedere aiuto, sull’onestà del cuore.Rara, preziosa e tanto difficile. Sulla pazienza che non è repressione maimpegno lento e faticoso. Sulla capacità di scendere fino all’interno di sé,per poi risalire e prendere in mano la propria vita. E ripartire. Il proble-ma è che il carcere non è attrezzato per questo. La negazione di qual-siasi responsabilità blocca lo sviluppo delle persone, produce assuefa-zione e adattamento. Poca onestà e grande capacità di fingere. Una pra-tica che è l’esatto contrario della piena maturità.

Per me la speranza in carcere sono dodici teste chine, dodici uomini inten-ti a scrivere in silenzio su fogli di carta riciclati con le biro nere del volon-tariato. Per me la speranza dentro e fuori dal carcere sono le tante persone impe-gnate a ricostruire e a sostenere le vite degli altri quando le vedono sospe-se su un filo troppo leggero.Per me la speranza è Angela che ha preparato un pensiero natalizio peri ragazzi della redazione. È venuta a trovarci l’anno scorso e ha sommer-so di speranza la nostra aula spoglia e sempre un po’ fredda

Per me la speranza più alta è nella profezia Il lupo abiterà con l’agnello...Il problema è, a volte, capire chi è l’uno e chi è l’altro.

BUON NATALE!Carla Chiappini

Sosta

Forzata

Si aggira ansiosa tra le celle,fa brillare per un attimo gliocchi azzurri di Alessandro,veglia sui progetti di Stefano,sostiene i momenti di affettonella giornata dei colloqui, sispegne nella tristezza di chi haperso troppe volte e forse sa giàcome andrà a finire.

La speranza in carcere è un pò disperata

Page 2: n. 3 - dicembre 2010 Forzata - Ristretti · 2015. 10. 28. · n. 3 - dicembre 2010 La speranza in carcere è anche un po’ pericolosa. Quando riempie di sogni la testa delle persone

Per raccontare questa storia, cioèquello che mi è capitato nell’anno1996, ci vorrebbero più di ventipagine ma io cercherò di restrin-gerla in poche righe. Cercherò…

Una notte sono partito con altritre ragazzi per commettere unreato, cioè rubare in una ditta diVicenza che produce abiti da uomo;per noi quella sera è andata male, siè acceso l’antifurto e siamo scappa-ti nei campi. Dopodiché abbiamoraggiunto la nostra macchina eabbiamo aspettato la mattina perpartire per Milano dove tutti abita-vamo. Verso le 6 di mattina ci siamomessi in viaggio e dopo quasi 80km, vicino al casello dell’autostra-da, abbiamo incrociato una pattugliadi carabinieri che ha fatto subitoinversione e ci ha fermato. Avevanole armi in pugno e ci hanno ordinatodi scendere dalla macchina, cihanno fatto sdraiare a terra in unfreddo mese di novembre e hannosubito chiamato i rinforzi. Nel girodi cinque minuti sono arrivate altredue macchine di carabinieri chehanno perquisito la nostra auto

senza trovare nien-te di irregolare.Poi ci hanno chie-sto perché aveva-mo le scarpe spor-che di terra e cihanno portato incaserma per quelloche sembrava unsemplice accerta-mento, visto cheeravamo lontanidal posto in cuiavevamo tentato dirubare e visto cheloro non avevanola minima idea diquel tentato furto.Noi siamo statizitti e tutto sem-brava tranquillo. Ad uno ad uno ciprendevano le impronte e ci fotogra-favano. Quando è arrivato mezzo-giorno, un maresciallo mi ha detto diseguirlo e mi ha portato fuori dalpalazzo, nel posto dove parcheggia-vano le loro auto; mi ha detto diandare fino al muro che era distantecirca 50 metri e di non voltarmiindietro. Mi ha fatto camminare così

due o tre volte mentre io con la codadell’occhio vedevo sette o otto per-sone che mi guardavano camminare. Questa cosa mi ha incuriosito e miha messo paura: - Ma chi sono que-sti qua? –

Dopo 20 minuti sono venuti doveeravamo seduti tutti e quattro,hanno preso me e un altro ragaz-zo, ci hanno portato nelle celle della

caserma e hanno comin-ciato a picchiarci chie-dendoci: - Dove sono learmi? E la cassaforte cheavete rapinato? –Sono andati avanti così perun paio di ore; botte a nonfinire ma quando si sonoaccorti che stavamo malehanno smesso di picchiar-ci e ci hanno chiesto seavevamo un avvocato. Iosono riuscito, tutto gonfiocom’ero, a chiedere: -Perché ci serve l’avvoca-to? – e lì ci è stato dettoche eravamo accusati, anziche noi avevamo rapinatoun supermercato in quellazona e che avevamo porta-

to via una cassaforte con le armi inpugno. Mi spiego meglio: quellanotte qualcuno aveva rapinato unsupermercato e aveva portato via ‘stabenedetta cassaforte. Di fronte alsupermercato, al terzo piano era usci-ta una donna anziana e, sentendo irumori, si era messa a gridare; unodei rapinatori ha puntato verso di leiil fucile dicendole : - Fila via!.-

lessandro Bergonzoni solosul palco del TeatroMunicipale – per fortuna cheè imponente altrimenti fati-cheremmo a vederlo tra que-

sta folla di teste - cammina avanti eindietro, si piega su un lungo tavoloche forse non è un tavolo, si rinchiu-de in una simbolica prigione che dicerto non è una prigione, ci trascinanella sua dirompente spirale di voci,immagini e affascinanti assurdità.La lingua italiana si frantuma e siricompone infinite volte. Una parolachiave in apertura: vastità.

VA-STI-TÀ. Solo tre sillabe e unsuono che non è un granché.

Ma si installa nella mia testa e miprovoca: vastità. Apre spazi mentali,stappa le orecchie, ripulisce le lenti,suscita altri sguardi. È una sfida,forza ce la puoi fare. Carcere e vasti-tà.

Ora, se c’è un ambiente angusto,grigio, ossessivo nei gesti, nelleparole e nei pensieri, quello è il car-cere. Persino il vocabolario in galerasi rattrappisce, si omologa. A voltesenti certi ragazzi dell’est o del nordAfrica che sembrano nati allaComasina. Più che integrazione sem-bra disintegrazione.

Ma la vastità lavora nell’ombra, si

muove nei ricordi e nelle storie, siapre nelle narrazioni.

Sposta certezze e sfida il pensierorigido, abbatte i confini mentali,pretende attenzione.

In questi miei primi dieci anni dicarcere ho ascoltato storie di tutti igeneri che hanno scosso parecchie

convinzioni, ma i valori no, quellicredo di averli tratti in salvo.

Ricordo la confusione dei primianni; la desolazione ad alta voce: -Oddio, non sono più sicura di niente!– e un ragazzo giovane molto preoc-cupato: - Per carità resta come sei! -

Non c’è viaggio più istruttivo di

quello che si compie tra gli esseriumani.

Queste storie mescolano le carte;posso solo garantirne l’autenticità.

Conosco le persone, sono certa chenon abbiano mentito.

Buon viaggio.Carla Chiappini

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A

Écoute, ascolta - Haenry Miller

CARCERE E

SE L’APPARENZA INGANNAIl testimone si ravvede

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Accidenti! Mi trovai in quelmomento a realizzare che ero inanticipo di un’ora nella prenotazio-ne di una visita in ospedale. Mimancava una fermata alla discesa dal-l’autobus. Decisi di prenotare ugual-mente la fermata. Avrei ingannato iltempo in un bar, leggendo il giornalee cercando un tabaccaio per le siga-rette. Non mi garbava di aspettareun’ora nella squallida sala d’attesadell’ospedale. E così fu. Passai circa

mezz’ora in un bar leggendo il gior-nale e bevendo una bibita, poi mirecai dal tabaccaio. Tutto secondoprogramma. Nonostante ciò manca-vano ancora venti minuti all’appunta-mento. Rassegnato mi avviai versol’ospedale ma venni attratto da unnegozio di Hi-Fi di alta qualità.Decisi di perdere ancora cinqueminuti osservando la vetrina.

Dopo due – tre minuti sentii una

mano sulla spalla: due uomini diaspetto normale. Fino a quando nonmi chiesero i documenti. Li pregai diidentificarsi: squadra volante dellaquestura. Rimasi sbigottito e, non-ostante tutto, fornii le mie generalità.Mi dissero che dovevo seguirli in que-stura. Non ne volevo sapere finchénon mi fosse fornita una spiegazione.Eccola: a 200 metri da me era statarinvenuta una macchina rubata, unaschifosa Fiat di colore grigio. Unasignora aveva dichiarato di aver vistoscendere dall’auto una persona coimiei connotati. Mostrai loro lo scon-trino del bar dove ero stato, il bigliet-to del bus con cui avevo raggiunto

quel posto e quello del tabaccaio doveavevo acquistato anche le caramelle e,per finire, anche la prenotazione dellavisita medica che avrei dovuto fareesattamente dopo 10 minuti. Tuttoinutile.

Fecero il terminale da cui risulta-vano numerosi precedenti di furtod’auto. Venni condotto in questura efoto segnalato e ne uscì una denunciaa piede libero per ricettazione. Lasignora mi riconobbe nelle fotosegnaletiche. Da notare che nel par-cheggio in cui fu rinvenuta l’auto ioneppure c’ero passato e la signora, dalbalcone davanti al parcheggio, non

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La stessa notte i carabinieri hannoraggiunto in autostrada l’auto deirapinatori – un’Audi A6 – ma quel-li hanno buttato dei chiodi per buca-re le gomme e così è successo chedue macchine dei carabinieri hannoforato e si sono capovolte e hannofatto un brutto incidente. Per fortunanessuno di loro è rimasto gravemen-te ferito e più tardi alcune pattugliedella stradale hanno trovato la mac-china dei fuggitivi abbandonatavicino a un casello dell’autostradasenza alcuna traccia dei rapinatori edella cassaforte.

Comunque io e il mio amicosiamo stati portati in carcere equel giorno è uscita la notizia sututti i giornali e i telegiornali cheavevano catturato due rapinatorislavi. C’erano pure le nostre foto. Ioho provato a dire e ammettere che inrealtà quella notte sì, avevo com-messo un reato, però un tentatofurto ma non una rapina a manoarmata con tutti ‘sti carabinieri feri-ti. Ma nessuno mi ascoltava, anzi,appena aprivo la bocca, giù botte.Il secondo giorno di carcere sonostato interrogato dal giudice per laconvalida e lì mi è stato detto che ladonna del terzo piano mi aveva rico-nosciuto e aveva dichiarato che eroio che puntavo il fucile. Tutte cosenon vere. Mentre io cercavo di spie-gare al giudice che cosa avevo vera-mente fatto quella notte lui, ridendoe senza nemmeno chiedermi comestavo visto che ero pieno di lividi,mi ha convalidato l’arresto. C’erapure il mio avvocato ma non potevafare niente; anzi dopo è venuto atrovarmi da solo per dirmi che erainutile negare, che c’erano dei testi-moni, che bisognava ammettere efare il patteggiamento: - …Cosìprendi di meno; se vai al dibatti-mento ti rovinano! –

Potete immaginare come mi senti-vo; certo che ero in giro quellanotte ma non era vero nulla di ciòdi cui mi accusavano. Non avevofatto niente e dovevo ammettere epatteggiare. Visto che avevo dei

precedenti, me la sarei potutacavare con 5 o 6 anni e tutte lebotte! Ma siamo matti!

Solo dopo due mesi e mezzo sonostato di nuovo interrogato dalP.M. e lì sono stato ascoltato un po’di più; così ho potuto spiegargli neidettagli di quel tentato furto; gli hodetto tutti gli orari, quando era par-tito l’antifurto, le nostre impronte

lasciate dappertutto, insomma hodetto la verità e il P.M. mi ha ascol-tato con pazienza per quasi 2 ore.Alla fine mi ha chiesto: - Perché nonl’hai detto subito? –Gli ho spiegato che avevo tentato diparlare più volte ma che nessuno miascoltava. Lui mi ha dato una picco-la speranza promettendo che avreb-be fatto degli accertamenti. – Però –ha aggiunto – tu comunque vai con-

fronto coi testimoni tra due settima-ne. – E così è successo ma la cosa piùbuffa e assurda è che mi hannoportato in tribunale in mezzo auna folla di fotografi e giornalisticome se avessero catturato TotòRiina; poi mi hanno messo in unastanza con tre sedie e uno specchio.In teoria vicino a me dovevano met-tere due persone sconosciute aitestimoni ma che mi assomigliavanoun po’; invece mi mettono sedutotra due marescialli dei carabinieridella stessa caserma dove mi aveva-no arrestato, due marescialli di quel-lo stesso piccolo paese dove tutti siconoscono e magari sono pureamici. Ma che giustizia è questa?Sono venuti tutti; il giudice, il P.M.,il mio avvocato, i testimoni e, unoad uno, hanno confermato: - Sì, èquello in mezzo!-

Però, grazie a Dio, il testimone-chiave, la donna anziana hacominciato ad avere dei dubbi, adire che non era più tanto sicura,che quello aveva i capelli neri men-tre i miei sono castani. Due volte ilgiudice le ha chiesto se era sicura edue volte lei ha ripetuto di nonesserne più certa.

Poi hanno fatto le verifiche, hannotrovato le nostre impronte nel postodove avevamo tentato di rubare ecosì, dopo tre mesi di incubo psico-logico e fisico, ci hanno liberato.

Ma se non trovavano le nostreimpronte? E se quella donna dice-va un sì secco come doveva vistoche seduti vicino a me c’erano duepersone che conosceva bene? Iosicuramente finivo in galera permolti anni per niente, sicuramenteseguivo il consiglio del mio avvoca-to e accettavo il famoso patteggia-mento “così prendi meno anni”.E quanti ne ho conosciuti in gale-ra con storie come questa mia;qualcuno deve pur pagare!A me è andata bene, ad altri no.

Anonimo Straniero

VASTITÀ…

Il testimone insiste

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avrebbe assolutamente potuto vedermi. E, caso raro,quella volta ero davvero innocente.

La morale fu che, dopo due anni, venni rinviato agiudizio. L’avvocato mi disse che se la testimone miaveva riconosciuto nelle segnaletiche, sicuramentenon si sarebbe smentita in aula. Andare a un dibatti-mento sarebbe stato impensabile, secondo lui. Il giu-dice si sarebbe sentito preso in giro e, alla luce deimiei precedenti, avrei rischiato anche due anni. Siaccordò, dunque, con il PM per una pena di un meseche tempo dopo scontai. Questo per una macchinavetusta e scassata che non avrei accettato nemmenocome regalo. E, parola mia, ero del tutto innocente.

Se questa è giustizia! L’unico conforto che cercaidi darmi durante l’espiazione della pena fu che, sep-pure innocente di quel reato, stavo pagando il fio peraltri reati che la giustizia non era riuscita a perse-guire nei miei confronti.

Tuttavia mi chiedo: - Se fosse stata una rapina,una violenza, un omicidio, le cose sarebbero anda-te diversamente? Non lo so ma temo di no.

Stefano

La società non si fida più delle persone che hanno sbagliato, magari inmodo grave e reiterato. E questo è del tutto comprensibileLe persone che hanno sbagliato, purtroppo, molto spesso hanno buoni moti-vi per non fidarsi più della società che li ha giudicati e rinchiusi senza alcu-na attenzione.E anche questo è del tutto comprensibile.

Quando sentono queste storie i redattori ristretti, controllano a fatica la rabbia.Contro i testimoni superficiali e incoscienti, contro giudici e avvocati. Controi giornalisti. Contro se stessi. Contro tutti.Come ricostruire una fiducia reciproca?

Si può pensare a una mediazione sociale così come da qualche anno propon-gono criminologi e intellettuali. Così come sostiene la redazione di RistrettiOrizzonti. Forse. Forse si potrebbe spendere un po’ più di creatività. Forse questa potrebbe esse-re una sfida interessante anche per il volontariato.

“La mediazione accoglie il disordine. E’ un momento, un luogo, in cui è pos-sibile esprimere le nostre differenze e riconoscere quelle degli altri. E’ unincontro nel quale si scopre che i nostri conflitti non sono necessariamentedistruttivi, ma possono essere anche generatori di un nuovo rapporto”

Jacqueline Morineau

Era l’anno 2006, la primavera alleporte e io ero ristretto presso laCasa Circondariale Le Vallette diTorino; stavo scontando un residuo dipena, pochi mesi e sarei uscito. Fu inquei giorni che mi chiamò la matrico-la del carcere per comunicarmi unacustodia cautelare per una rapinaavvenuta anni prima. Non sarei piùuscito, questo era il mio pensiero.

L’assurdità: io quella rapina nonl’avevo commessa. Come dimostrarela mia estraneità con un curriculumcriminale come il mio? Tutto sembra-va darmi contro, persino il mio avvo-cato era titubante nel credere alla miainnocenza, dopo aver visto le fotoestrapolate dal cd della banca. Fuiinterrogato dal Giudice delle indagini

preliminari che mi fece intendere divoler chiudere in fretta e furia il caso,offrendomi una pena mite se mi fossiaddossato la responsabilità di quellarapina.

Era la prima volta che subivo delleaccuse da innocente e nessuno micredeva. Rifiutai ogni forma di pat-teggiamento o il rito abbreviato echiesi con ostinazione di andare aldibattimento per affermare la mia piùcompleta estraneità a quanto mi veni-va contestato.

Dopo circa un anno di attesa, fissa-rono il processo che si prolungò perdiversi mesi tra udienze e rinvii. Inuna di queste udienze in cui i peritidella polizia scientifica e quello mio

di parte diedero esiti discordanti, ilPresidente si pronunciò per una terzaperizia, affidando l’incarico al RIS diParma. In attesa che si svolgesse laperizia, nelle seguenti udienze, feci iconfronti visivi con il Direttore dellabanca – che giurava che il rapinatoreero io al 100% - con le cassiere e iclienti.

Passava il tempo, finalmente arrivòil giorno della sentenza e il RIS portòil suo esito, documentando ampia-mente che, sì, il rapinatore era verosi-milmente uguale a me ma non potevoassolutamente essere stato io dentroquella banca.

La sentenza fu di assoluzione conformula piena per non aver com-

messo il fatto.

Ma oggi mi chiedo: se non avessiavuto la possibilità economica perpoter far fronte al costo di un peritodi parte, sarei stato sicuramente con-dannato. È la fortuna che devo rin-graziare?

Aggiungo una breve pensiero: l’uomoche convive con la propria pena,coglie il senso di ciò che si porta den-tro, il peso e il dramma in un modoche è difficile immaginare. Chi sba-glia e paga il proprio debito con annidi carcere attraversa davvero i tempie i luoghi di un lungo viaggio fino adiventare sconosciuto anche a se stes-so. Per questo penso di poter dire lamia su una giustizia che, a volte,cerca di risolvere i suoi problemi,appoggiandosi sulle spalle di personeche, come me, purtroppo sono recidi-ve.

Enzino

Giustizia : nonostante i testimoni

LA VASTITÀ È L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

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UN LETTO PER DORMIRE, UN PASTO CALDO, UN POSTO DOVE STARE DURANTE IL GIORNO

Cosa offre la nostra città a chi si trova in difficoltà

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SostaForzata

RIFUGIO SEGADELLIDove: presso Stazione Ferroviaria, Piazzale Marconi a PiacenzaAccoglie: uomini italiani e stranieri se muniti di permesso di soggiornoCome si accede: presentandosi direttamente davanti al cancello la sera alle 19,30 o attraver-so il Centro d’Ascolto della CaritasCosa offre: Doccia calda, cena, un letto per dormire, informazioni e orientamentoOrari: apertura ore 19,30 e chiusura la mattina alle 8Quanti posti: 8

Il Rifugio Segadelli è una struttura Comunale gestita dalla Rondadella Carità

CASA DI PRIMA ACCOGLIENZA “GIOVAN BATTISTA SCALABRINI” Dove: in Via Giordani, 21 a Piacenza - telefono: 0523 332750Accoglie: uomini italianiCome si accede: attraverso un colloquio al Centro di Ascolto della CaritasCosa offre: Doccia calda, cena, un letto per dormire e la colazioneOrari: apertura ore 18,30 e chiusura la mattina alle 8 Quanti posti: 10

Il dormitorio “Giovan Battista Scalabrini” è una struttura gestitadalla Caritas con la collaborazione dei volontari dell’associazione“Carmen Cammi”

MENSA DELLA FRATERNITÀ E SERVIZIO DOCCEDove: in Via San Vincenzo, 9 a Piacenza - telefono: 0523 314087Accoglie: donne e uomini muniti di documenti di identitàCome si accede: attraverso un colloquio al Centro di Ascolto della CaritasCosa offre: servizio docce, pranzo, cena e sacchetto spesaOrari: pranzo ore 12 (ritiro biglietto ore 11,30); cena ore 19 (ritiro biglietto ore 18,30) Quanti posti:massimo 48 persone

La Mensa della Fraternità e il Servizio Docce sono servizi gestitidalla Caritas con la collaborazione dei volontari dell’associazione“Carmen Cammi”

CENTRO DIURNO “IL QUADRIFOGLIO” Dove: in Via Beati,25 a Piacenza - telefono: 3312960873 Accoglie: uomini e donne, italiani e stranieri, dai 18 ai 65 anniCome si accede: presentandosi direttamenteCosa offre: ascolto, mensa, doccia, lavanderia, generi di conforto, attività ludico-ricreative,servizio guardaroba, sportello sociale (Ser.T), informazioni sociali, orientamento verso i ser-vizi territoriali, accompagnamento.Orari: dal lunedì al venerdì dalle 11,30 alle17,30Quanti posti: circa 25

Il Centro Diurno “Il Quadrifoglio” è un progetto del Comune diPiacenza, gestito dalla Fondazione Autonoma Caritas Diocesana diPiacenza-Bobbio in collaborazione con il Ser.T di Piacenza e laL.I.L.A.

CENTRO DI ASCOLTO CARITAS Dove: : in Via Giordani, 21 a Piacenza - telefono: 0523 330812Accoglie: donne e uomini muniti di documenti di identitàCome si accede: presentandosi direttamente in orario di apertura Cosa offre: ascolto, possibilità di ingresso ai dormitori maschile e femminile, alla mensa e alguardaroba Orari: dal lunedì al venerdì dalle ore 9,30 alle 12,30

Il Centro di Ascolto è gestito dalla Caritas

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Ci sono i Servizi e ci sono lepersone che danno senso ecalore ai Servizi. I Servizi

non sono, dunque, solo muri,orari e regole ma sono anche sto-rie, speranze, fatiche e delusioni.Noi abbiamo invitato nella reda-zione di “Sosta Forzata” alcuniprotagonisti della Piacenza cheaccoglie, che cerca soluzioni, cheascolta il mondo con antenne sen-sibili. Che offre un letto per dor-mire, un pasto caldo e, quando èpossibile, un lavoro per progetta-re il futuro.Ad accompagnarci in questeinterviste, Brunello Buonocoreche ha scelto come professione illavoro sociale; dal carcere alladisabilità, all’emarginazione.Obiettore di coscienza in Caritasal tempo dei capelli scuri, è anco-ra oggi volontario del nuovo dor-mitorio di Via Giordani.

La redazione è attenta, le manialzate, tante domande si susse-guono, tante rimangono negliocchi: i tempi in carcere nonammettono deroghe.

Redazione, mercoledì 17 novembre

PIERO BERTOLAZZI E GIANNI BONADÉComincia Gianni, si presenta breve-mente e racconta il rifugio Segadellialla stazione che accoglie uomini ita-liani e stranieri con permesso di sog-giorno; è una struttura de Comunepromossa da Gianni e dall’associa-zione di cui è presidente: la “Rondadella Carità”. Aggiungo un ricordopersonale di circa dieci anni fa. Eroda poco tornata a Piacenza dopo unalunga lontananza e osservavo la miacittà con occhi più attenti. Un giornonoto una curiosa comunicazione, unfoglietto attaccato al palo di unsemaforo che proponeva un volonta-riato di frontiera di sera in stazione;stava nascendo la Ronda.Gianni non ha ancora finito di parla-re e già le domande si arrampicanosulle mani dei redattori.

D. Come si può accedere al rifugio?

Gianni Bonadé: La struttura apreogni giorno alle 19,30 e da quelmomento possono accedere le perso-ne che hanno bisogno di un letto per

dormire; le notti dis-ponibili variano datre per chi non è resi-dente a Piacenza aqualcuna in più perchi è residente. Se uno arriva per laprima volta è possibile fermarsianche per sei notti. Per gli italiani

che usufruiscono delRifugio si aprono duepossibilità: accedereattraverso la Caritas -ma bisogna tener pre-

sente che l’ufficio è aperto solo lamattina -, oppure presentarsi da noiin stazione alle 19,30. È importante

Brunello Buonocore

Non solo è molto facile finire in carcere, è anchefacilissimo tornare dentro. In Italia la recidiva,uno dei modi per indicare una ricaduta, è tra il

settanta e l’ottanta per cento. E questo quasi sempre per-ché chi esce, esce “da disperato”, senza riferimenti senon quelli che lo portano a commettere un nuovo reato.Questo numero di Sosta Forzata è realizzato grazie alcontributo dell’A.S.P Azienda Servizi alla Persona Cittàdi Piacenza. L’ASP è nata dalla trasformazione e fusionedi tre Ipab: “Pensionato e Casa Protetta VittorioEmanuele II”, “Ospizi Civili di Piacenza”, “Pio RitiroSanta Chiara” e ha come socio di maggioranza ilComune di Piacenza. L’ASP Città di Piacenza opera nelcampo sociale, avendo come finalità statutarie l’assisten-za sociale e socio - sanitaria a persone anziane o comun-que svantaggiate, ai disabili, ai minori senza famiglia oappartenenti a famiglie in difficoltà, a donne in disagiatecondizioni socio – economiche. Come è logico, l’ASPCittà di Piacenza si occupa anche di persone detenute edex detenute. E collabora con le realtà che si fanno caricodi coloro che sono a rischio di emarginazione.

Come sanno tutti gli operatori e i volontari che agi-

scono nell’area della “bassa soglia”, avere chiaripunti di riferimento è decisivo; sapere dove andare amangiare o a dormire stanotte fa veramente la differen-za. “Se il numero di telefono non è più valido, se l’indi-rizzo è sbagliato, se il tesserino andava fatto un’orafa...la rabbia e la disperazione aumentano”Ma occorre che le informazioni non solo esistano, masiano realmente disponibili. Per questo in alcune cittàsono stati realizzati dei kit (così li hanno chiamati). Unkit è un equipaggiamento assortito , destinato ad una spe-cifica funzione (esempi: kit di pronto soccorso, kit diattrezzi, ecc...) Il kit di chi esce dal carcere deve esseresemplicemente un primo sostegno, a volte un modo perspostare i problemi più avanti di qualche giorno, maforse anche per fermarsi un attimo per organizzarsi, perprendere contatti, per chiedere aiuto a chi può o devedare una mano. Le pagine di questo numero di SostaForzata che parlano di dove andare per trovare sostegno– per avere un pasto caldo, per dormire gratis, per racco-gliere informazioni, per cercare lavoro, ecc. - e di comefare perché ciò sia pratico, concreto, immediato sono unprimo contributo contro la recidiva e contro la dispera-zione.

Ho accompagnato in redazione un’assistente sociale

del Comune diPiacenza, il fon-datore del dor-mitorio vicinoalla stazione, ilresponsabile deicentri di primaaccoglienza dellaCaritas, il diret-tore di una dellec o o p e r a t i v esociali che assu-mono al lavoropersone svantag-giate: tutti hanno parlato con molto calore, rendendosiconto di avere davanti delle persone che avevano benpresenti le ansie e le preoccupazioni di chi sa che la penafinisce e dopo la galera la vita non è per niente sempli-ce. Insieme a loro chiedo a chi legge questo giornale difar rimbalzare le informazioni, di trasferirle e trasmetter-le con la massima precisione possibile, perché uno deglierrori più frequenti e talvolta drammatici è fidarsi di chi,in buona o cattiva fede, ci racconta cose non vere.

Grazie.

SE SEI SOLO NEL MOMENTODELLA LIBERTÀ

INCONTRI IN REDAZIONE

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precisare che al Rifugio si entra solocoi documenti; per gli italiani è pos-sibile presentare anche un documen-to scaduto o una denuncia di smarri-mento.La mattina alle 8 la porta delRifugio si chiude e le persone devo-no lasciarlo libero perché durante lagiornata non c’è nessuno mentre lanotte è sempre garantita una presen-za di operatori e volontari.

D. Ma le persone che dormono davoi come fanno a sapere comemuoversi in città: dove possonotrovare da mangiare o un postocaldo dove stare durante il giorno?

Gianni Bonadé: Da noi possonofare una doccia e mangiare prima diandare a letto ma poi facciamoanche orientamento e diamo infor-mazioni, tenendo presente che diver-se sono le opportunità tra chi è resi-dente a Piacenza e chi non lo è. A talproposito si può anche valutare lapossibilità di prendere la residenzapresso la casa circondariale.

D. Se penso di uscire dal carcere ericostruirmi una vita qui aPiacenza, come posso trovare unlavoro?

Piero Bertolazzi: Le risposte nonsono belle, fuori c’è una realtà moltopesante, quasi tragica. LaCooperativa Futura è nata per illavoro in carcere e per costruireopportunità in funzione delle misurealternative. Ma la cooperativasociale è comunque una realtà eco-nomica; può dare lavoro se ce l’ha,altrimenti i giochi si fermano. Setrovi occupazione in una strutturache promuove soprattutto il transitodal carcere alla libertà, una voltache hai finito la pena, devi trovartiun’alternativa. Se noi mantenessimotutti gli ex detenuti in carico, nonavremmo più spazio per nessuno e ilnostro principale obiettivo verrebbea cadere; cioè potremmo funzionaredal punto di vista economico maperderemmo la funzione di traghet-

tare dal dentro al fuori. Poi è chiaroche ci sono alcune persone cherimangono ma il quadro generale èpreoccupante. All’esterno lavorano22 persone; per occuparne di piùoccorrerebbero più commesse. Quando possiamo, cerchiamo didare una mano anche a chi cerca inaltre città ma noi non siamo un entestatale e, comunque, i tempi sonodifficili dappertutto. Se Sparta pian-ge, Atene non ride.

D. Ma noi cosa possiamo fare daqui dentro?

Piero Bertolazzi: Come giornale,intanto, potete portare avanti un’ini-ziativa di promozione del lavorodelle cooperative sociali. Il temadella detenzione e della recidiva èun tema che riguarda la città e lasocietà tutta; quando una personacade nuovamente nel reato, si pro-duce un danno per tutti. Non è diffi-cile capire queste cose. Sarebbeimportante scegliere di investire isoldi nel modo più produttivo possi-bile; per esempio prevedere sgravifiscali per le aziende che esternaliz-zano alcune attività, offrendo lavoroalle cooperative.

D. Non si può pensare a un finan-ziamento dalla Cassa delleAmmende?

Piero Bertolazzi: È molto difficileattingere alla Cassa delle Ammende:occorre avere molta credibilità, unbuon progetto e un forte sostegnoistituzionale

D. Una domanda per tutti e due:perché avete scelto di fare questaattività?

Piero Bertolazzi: Ho fatto anche iotanti anni di carcere e, alla fine dellapena, non mi sentivo di lavoraresotto padrone; quindi ho pensato difare qualcosa per chi si trova in unasituazione che conosco bene.

Gianni Bonadé: Ho sempre fatto

tanto volontariato; verso i 50 annimi sono posto delle domande sulsenso del mio lavoro (ndr a queltempo Gianni gestiva un’agenzia diassicurazioni) e ho deciso di fareun’associazione dedicata all’assi-stenza delle persone senza fissadimora. Mi ci sono dedicato, insie-me a un’altra persona quasi a tempopieno. È nata la Ronda della Caritàe, in quei primi tempi, andavamo dinotte in stazione a portare il tè caldoe i panini ma capivo che non era suf-ficiente. A quel punto ho trovato unacascina disabitata vicino alla città,ho tirato una catenella e ho apertola prima casa. Per allacciare il con-tatore della luce sono andato a chie-dere aiuto in Caritas e ho ricevuto500.000 lire. A quel punto siamodiventati visibili, qualcosa hacominciato a muoversi, anche sunostra sollecitazione il Comune haristrutturato alcuni locali adiacentila stazione con il fondamentale con-tributo dell’Associazione Alpini;così è nato il “Rifugio Segadelli”.

D. Un’altra domanda per entram-bi: cosa vi piace e cosa non vi piacedel vostro lavoro?

Gianni Bonadé: A me di questolavoro piace proprio tutto; la partemeno bella sono i fallimenti ma l’im-portante è essere lì, pronti a riparti-re, la prossima volta senza giudicare

Piero Bertolazzi: È una domandadifficile; il mio lavoro mi dà dellerisposte e mi piace. Dove trovo ladifficoltà? Per esempio nel fatto chenon sempre sei in grado di dare lerisposte che vorresti dare, seicostretto a lasciare tante personedietro di te e spesso ti senti impoten-te. La realtà del carcere è la realtà diun mondo fatto di individui che nonhanno una cultura del lavoro; spes-so le persone arrivano da noi conidee impraticabili e bisogna aiutarlia capire. Infine sono complessianche i rapporti con le istituzioni

Enzo: (intervenendo nella discus-sione) Io ho fatto tanti anni di carce-

re e ho conosciuto molte realtà peni-tenziarie so bene che per fare unprogetto serio occorrono tante per-sone: a Torino c’era un direttorecome Buffa ma c’erano anche diver-se cooperative disposte a lavorare inistituto e poi una città che risponde-va (e risponde) bene. Ma so che nonè semplice.

D. Per concludere: siete soddisfat-ti di quello che state facendo?

Piero Bertolazzi: Sì, anche se mirendo conto che quello che faccio èinsufficiente. Come ho detto all’ini-zio, la nostra cooperativa traghettale persone fuori dal carcere ma nonriesce a dare stabili prospettive dilavoro dopo la fine della pena. Pernoi è già una grande soddisfazioneche alcuni siano diventati bravi arti-giani e si siano messi a lavorare inproprio col cartongesso.

Gianni Bonadé: Se devo fare unbilancio di quello che abbiamo fattocome associazione e come persone,direi che potremmo essere contentima c’è comunque qualcosa che midà fastidio e non è certo il fatto chealcuni di quelli che abbiamo aiutatoci hanno poi deluso, succede ed èanche un loro diritto quello di nonessere come li vorremmo. Quello chemi dà fastidio sono piuttosto le rigi-dità delle istituzioni, dei benpensan-ti. Ci sono ancora tante cose da faree soprattutto occorre un cambio dimentalità: troppo spesso i pregiudizimarchiano le persone a vita e rendo-no più difficile il cammino verso unreale reinserimento.

Redazione, mercoledì 24 novembre FRANCESCO ARGIRÒ Responsabile Area PromozioneUmana della Caritas Diocesana diPiacenza e Bobbio, Francesco èsicuramente tra le persone che, nellanostra città, meglio conoscono ilmondo dell’emarginazione e del dis-

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agio. Di carattere piuttostoriservato, ha grande passioneper il suo lavoro. Arriva inredazione accompagnato daBrunello ed è subito evidenteche il carcere non gli procuranessuna forma di imbarazzo.Si siede tra noi e presenta leattività di accoglienza dellaCaritas.

Prima di presentare le varieopportunità che offre laCaritas piacentina alle perso-ne in difficoltà, vorrei premet-tere che tutti i servizi rappre-sentano non solo una rispostaa un bisogno ma anche unsegnale di speranza, unsegnale per evidenziare cheuna società fatta di buonerelazioni va bene per tutti.Dopodiché, vi parlo subitodell’accoglienza notturna cheha sede nel nuovo edificiodella Caritas in Via Giordani,21 a Piacenza. È una Casa diII° Accoglienza riservata asoli uomini di nazionalità ita-liana che poggia su due rego-le: il rispetto reciproco e ilrispetto dei luoghi. Si accedea questo servizio dopo un col-loquio di ascolto e orienta-mento con l’assistente sociale dellaCaritas. Con ogni persona si cercadi costruire un possibile percorso;senza la responsabile decisione diciascuno, non si dà niente.Dopo aver fatto un pezzo di strada,si può anche decidere di offrire allapersona che ne faccia richiesta, l’o-spitalità in un appartamento. Ma,come vi ho anticipato, non c’è mainiente di scontato; la filosofia èquella di camminare insieme.

D. Quante persone riescono ariprendere una vita normale equante persone riescono a usciredal bisogno senza commetterereati? Noi aiutiamo circa 100 personeall’anno e siamo molto soddisfattiquando almeno dieci di loro riesco-no, nel tempo, a riacquistare la pro-pria autonomia. Questo in generale;per quanto riguarda il carcere, inve-ce, stiamo pensando a nuovi proget-ti anche lavorativi per mediare ilpassaggio - che è sempre molto deli-cato – dalla reclusione alla libertà.Ci piacerebbe organizzare unacooperativa per riciclare i mobilivecchi, magari anche i vecchi vesti-ti; è un’idea impegnativa ma noi cicrediamo molto. (Ndr proprio inquesti giorni la Caritas ha festeg-giato l’avvio dei lavori di recuperodello stabile appartenente all’excaserma Cantore). Noi, comunque,non siamo e non vogliamo essere unente socio – assistenziale, siamoparte della Chiesa di Piacenza eBobbio e la nostra più grande risor-sa sono i circa 500 volontari che ciaiutano a gestire i servizi. Gli ope-ratori stessi svolgono questo lavoroper scelta e, se sbagliano, so per

certo che sono, comunque in buonafede.

Redazione, mercoledì 1dicembre DANIELA SARTORI

Assistente sociale, nel 1996 passadalla Caritas Diocesana al Comunedi Piacenza – assessorato ai servizisociali e proprio di questo suo lavo-ro viene a parlarci in redazione.

Il Comune è, per legge, l’ente pub-blico più vicino ai cittadini e gesti-sce tanti servizi tra cui il ServizioAdulti e Immigrazione in cui lavoro.Dunque, come vi dicevo, il Comuneè vicino ai cittadini e la priorità diaccesso ai servizi è riservata ai cit-tadini residenti.

D. E per gli altri cosa fate? Li aiu-tate a trovare un lavoro?Il Comune garantisce sicuramenteuna prima accoglienza finanziandoil Rifugio Segadelli che è gestitodalla Ronda della Carità e poi siimpegna, coi Servizi, ad accompa-gnare e sostenere l’adulto in diffi-coltà nella costruzione di un proget-to condiviso; ci sono aiuti che pos-sono solo essere decisi insieme. Inpratica il lavoro dell’assistentesociale non consiste nell’aprire uncassetto per tirar fuori le soluzionia tutti i problemi; è piuttosto unentrare in dialogo e fare un cammi-no insieme. Per il lavoro, poi, l’entepredisposto alla formazione profes-sionale e al lavoro è la Provincia, ilcomune collabora con essa e mette

a disposizine alcuni strumenti, comele borse lavoro, alle persone seguite.

D. E per gli stranieri che non sonoin regola cosa potete fare? Il servi-zio dei minori può dare maggioraiuti perché il diritto del bambino èconsiderato con più attenzione.negli altri casi i servizi pubblici nonpossono intervenire perché chi èsenza documenti non potrebbe rima-nere nel nostro paese.

D. E se uno è residente ma senzaabitazione cosa succede?Se è residente ma non ha un’abita-zione, si parte dalla Caritas, dal-l’accoglienza notturna e dalla

mensa. Se poi esprime il desideriodi lavorare si cerca di conosceremeglio la sua situazione; se è tossi-codipendente o malato di mente sideve rivolgere ai Servizidell’Azienda Sanitaria Locale, alSert o al Dipartimento di saluteMentale. Per chi non ha mai lavora-to, comunque, si valutano alcunepossibilità; si comincia ad orientarela persona al lavoro, a volte si con-cedono anche contributi economicima mai a fondo perduto. Alla perso-na chiediamo di cominciare a pren-dere qualche impegno, di manteneregli orari, di essere responsabile. Quida noi non è come in Germania e inaltri Paesi d’Europa; noi non pos-siamo garantire un< reddito minimodi inserimento>. Non è proprio pre-visto.

D. E per chi esce dal carcere?Per noi una persona che esce dalcarcere non è differente da un qual-siasi altro adulto in difficoltà; non cisono percorsi differenziati.

D. Cosa fa il Comune di Piacenzaall’interno del carcere?Il nostro Comune dentro il carcereha due progetti sostenuti dallaRegione e co-finanziati dalla nostraAmministrazione: la cooperativaFutura e lo sportello di mediazioneculturale gestito dall’AssociazioneLa Ricerca.

Il tempo del nostro incontro è sca-duto; sul tema urgente e spinoso dellavoro all’interno dell’istituto, siconclude l’incontro con Daniela, tratante mani ancora alzate e domandeche restano senza risposta.

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Ogni volta che vuoi giudicare qual-cuno, cammina prima per tre lunenei suoi mocassini

Proverbio indiano

Non è stagione di mocassinie di certo nelle scarpe diUgo non riuscirei a cammi-nare; è alto alto, secco

secco e porterà almeno sei numeripiù di me. Ma Ugo mi fa riflettere; èuscito dal carcere da più di due mesie vuole uscire anche da una vita chepenso non gli vada più bene. Nientedi più lontano dalla mia storia, eppu-re a tratti lo sento molto vicino. Avolte credo che ce la farà, a volte hopaura delle sue delusioni, della stan-chezza. E poi a essere sinceri la viadella legalità è tanto impervia e con-torta che non so se io stessa ce lapotrei fare: Sert, Comune, Asl –Ufficio invalidi… Ma quando finiràla scarpinata istruttiva per gli ufficidella città? In questo periodo Ugo ha scrittomolto; ho scelto alcune riflessioni inun percorso a ritroso; dal foglio chemi ha consegnato l’altro giorno aiprimi pensieri in libertà. Vorrei chequalche giorno si affacciasse almenocon una buona notizia, che riuscissealmeno a incassare l’assegno chegli spetta per aver frequentato lascuola in carcere lo scorso anno.Vorrei che la burocrazia nonavesse un passo così tanto piùlento delle necessità fisiologichedegli esseri umani.

Istruzioni per il lettore:Ugo ha collezionato un’incredibi-le serie di sbagli, piccoli reati einutili sciocchezze. Non è certa-mente un angioletto e non sonemmeno cosa deciderà della suavita ma ritengo che valga in ognicaso la pena di ascoltarlo e dicamminare un po’ insieme a lui.

Piacenza, 14 dicembre 2010Penso sinceramente, tutti i gior-ni e per almeno 5 o 10 minuti algiorno di tornare a fare la vitac-cia che facevo prima. Voi direte“ma se è una vitaccia, qual è ilguadagno?”. Innanzitutto chenon ti devi aspettare niente danessuno perché, avendo sceltonuovamente quella vita, non vuoipiù rendere conto a nessuno e,cosa grave, nemmeno a te stessoperché se no ti sputeresti in fac-cia… Siamo a 11 giorni da Natalee l’unica prospettiva di guadagno,se così si può dire, è la prossimainvalidità che arriverà il 3 gennaio– magrissima consolazione –anche perché, dopo aver pagatol’affitto di dicembre e tolto qual-che piccolo debito, non ho più il

becco di un quattrino neanche perfare la spesa.

Poi, giustamente, esci di casa etutto il mondo è pronto ormai per ilNatale; strade, negozi, bancarelle,luminarie, persone – quasi tutte – chehanno il solo problema di cosa com-prare, cosa regalare o cosa mangiarenei prossimi giorni di festa.

Questa volta, come negli ultimi 3anni e 8 mesi, non voglio più rica-dere in comportamenti illegali queicomportamenti che, seppur rischiosi,ti possono però risolvere il problemaper qualche giorno - magari tutti que-sti giorni di festa - giusto per non sen-tirti almeno per una volta fuori dalcoro, giusto per passare il Natale intranquillità senza dover dipendere perforza dalla bontà o dalla pietà altrui.

Sono anche stufo di scrivere solodei miei stati d’animo, sarei conten-to di poter scrivere di altre cose, diproblematiche magari più interessan-ti. Di sicuro c’è che il mio attualestato d’animo va a infierire anchesulla voglia di usare la mia presenzamentale e fisica per darmi da fare peranche per gli altri.

Mi sono messo alla prova e tutt’og-gi tengo duro, resisto pure alle tenta-zioni di interrompere questo “fiorettoinfinito” che fino a qualche giorno fami faceva sentire un leone, un po’spelacchiato per via dell’età, dellasolitudine e dei problemi di saluteche non vuoi accettare perché ancorati prendi in giro e a parole “te la suonie te la canti”.

Già adesso, pur non lavorando, lasera quando torno a casa, ho legambe a pezzi come se avessi fattouna giornata piena di lavoro. Anzi,probabilmente sarei meno stanco sefacessi le mie 8 ore, invece girando,cercando una soluzione e ricevendodinieghi a nastro, è come se ognirisposta negativa pesasse su di mecome un enorme macigno. A casa lasera, poi, la stanchezza è amplificatadall’insofferenza per non aver combi-nato niente di buono; cerco do con-

trollarmi ma poi fatico a dor-mire e la testa inizia a elucu-brare tutti i pensieri, leggendo-li e rileggendoli, andando aosservare tutte le sfaccettature,buone o cattive…Buon Natale a tutti, me com-preso!

Piacenza, una settimanaprima

Mi meraviglio spesso ultima-mente nel vedermi cosìremissivo su tutti i dinieghiche sto ricevendo; è lo scottoche devo pagare; le motivazio-ni sono poche ma valide espero solo che il gioco – unavolta per tutte – valga la can-dela. Se questo fosse accadutoanche solo due anni fa, misarei già fiondato nelle “sto-rie” con la solita conclusione:in galera scoppiato come unabiglia a recriminare su comepersevero a usare male la miatesta.

Sono quasi sereno e fino aquando sto così va bene; hoanche delle persone sane cheforse credono in me e ciò, oltrea essere buona cosa, è anchemolto di aiuto per continuaresu questa strada che io ho defi-nito la via di Damasco ma,scusate, non passa neanche unautobus su questa strada? Apiedi devo farla?

Nel frattempo stoprendendo coscien-za di quanto èdiventata dura lavita; sì perché inquesti due primimesi di libertà ho

provato cosa vuol dire dormire neidormitori della Caritas o in casa diamici senza luce né riscaldamento,osservandoli così da vicino, senza piùvoglia di vivere, con l’idea di conti-nuare a farsi assistere da qualcuno,passando le giornate a bighellonareda un diurno alla biblioteca per cer-care riparo dal freddo. No, così non èvita, non si lotta più, si impara solo achiedere…

Piacenza, due giorni dopo l’uscita dal carcere

Dopo due ore e mezza di scritturacon un occhio chiuso perché si erastaccata la lente, ho trovato il mododi riparare momentaneamente gliocchiali perché non ho voglia di usci-re di qui e andarne a comprare unaltro paio.

Questo è il mio oggi: alzo la testa ele volte del soffitto della bibliotecasono parecchio distanti da me; l’am-piezza di questa sala è come un ser-batoio più ampio di energia, cioè lalibertà e lo spazio fisico nel verosenso della parola. Sono due giorni esei ore che ho ripreso ad essere un’a-nima in moto perpetuo, senza avernela forza fisica e senza quella caricastupefacente che prendevo prima;non voglio ricadere nella routine,sono troppo acceso verso l’esterno,del resto lo sono sempre stato.

Noto che evito alla grande le perso-ne; ieri ho visto quattro vecchi cono-scenti, con loro c’era un cucciolo dicane, non mi conosceva ma è statol’unico a venirmi incontro ed è statoanche l’unico con cui ho socializzatoqualche minuto. Gli altri? Un brevesaluto - anche loro sono esseri umani- ma il cucciolo, lui mi ha spezzato ilcuore…

Un passo alla volta, respiro l’am-piezza del mondo senza sbarre, nolimits, on the road! Preferirei at homema verrà anche questo! Ormai lagiornata volge al termine, sono stan-co fisicamente perché camminomolto, da un ufficio all’altro, felice dipotermi stancare forse perché sonostato costretto entro i limiti fisici ementali per parecchio tempo…

L’oggi, questo mio oggi che a que-st’ora è passato, mi ha regalato queltantino di gioia che forse mi faràdormire sereno.

A cura di Ugo Tassone

LA LIBERTA’E’ UNA SCALA IN SALITADiario di un cammino quotidiano

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AFFETTIVITÀQuanto è pertinente o riconducibilealla sfera degli affetti

Dizionario Devoto Oli

L’affettività in carcere è quanto maidifficile da vivere, se non impossibile.Tante volte con alcuni compagni hopensato di vivere un’affettività vera. Alungo andare, però, nel 99% dei casimi sono reso conto che non era amici-zia vera

Stefano

L'affettività in carcere va a momenti:per esempio quando faccio i colloquicon la mia famiglia, quando ricevo la

posta o un semplice telegramma dimia moglie

Samuel Affettività è abbattere barriere, èsguardo, è abbraccio, è tutto quelloche ti fa sentire importante

Alex Ogni persona ha bisogno dell’affettodi altre persone perché questo ti fasentire bene, amato, protetto. Se haipersone che ti vogliono bene, ti scri-vono e ti vengono a trovare non tisenti solo nei momenti difficili dellavita come quando ti trovi chiuso ingalera. Questo è molto importanteperché sai che, una volta uscito, trove-rai qualcuno che ti vuole bene e tiaspetta.

Erald

Per me provare affetto vuol dire avereun legame speciale con qualcuno. Incarcere ho un legame forte che vaoltre l’amicizia con il coimputatoforse perché lo conosco da fuori;abbiamo condiviso momenti belli emeno belli fuori

Rachid

Scrivere sull’affettività mi è difficileperché in questa parola includo senti-menti di un certo spessore; comeamore, rabbia, amicizia e dolore. Devoammettere; ho un grosso problema adandare a contatto con l’affettività.

Per spiegare questodovrei andare indietrocon il tempo fino aquando il mio ricordoha memoria; cioè alprincipio della miainfanzia e al fatto diessere cresciuto in unafamiglia patriarcale,dall’insegnamento rigido. Questo èstato molto determinante e mi ha con-dizionato crescendo fino a diventareuomo.La mancanza di affetto di mio padreha creato in me una certa corazza(anche se poi da uomo ho elaboratoche l’atteggiamento da forte di miopadre era solo dovuto al fattore di pro-tezione)Ho vissuto metà della mia vita in pri-gione e per farvi capire bene cos’è perme l’affettività posso dirvi che il miocompagno di cella era più di me stes-so; era mio fratello, mio padre e miamadre, era la mia famiglia. Sono sem-pre stato alla ricerca estrema di affet-to; non voglio abbellire ciò che storaccontando, ma la strada e il viveresituazioni estreme, mi ha permesso diconoscere parole come amicizia, leal-tà, affetto che io ho ricambiato a miavolta; crescere in un certo ambientenon mi ha inaridito come tanti potreb-bero pensare, ha solo elevato il mioistinto di sopravvivenza.

Oggi a questa parola affetto accosto laparola fuga, sì perché non vorrei sen-tire quel dolore antico (dell’infanzia)che non consente sordità o cadute dimemoria; perciò quando mi accorgodi sentire qualcosa per qualcuno – siaesso uomo o donna, amico – scappoproprio perché vivo qualcosa di anticoche mi ha fatto soffrire.

È la parte più intima e vera di me. Unqualcosa con cui devo fare i continelle notti della mia solitudine

Enzino

Parlare di affetto in questi luoghi nonè così facile.Perché qui l’affetto è la cosa piùimportante che ti viene a mancare epiano piano sparisce nel nulla e tunemmeno te ne accorgi. Io sono molto affezionato alla miafamiglia e ai miei nipoti tra cui unoche non ho mai conosciuto perché ènato quando stavo già qui. E sonomolto affezionato a mio fratello che,purtroppo, si trova in carcere anchelui. Con mio fratello ci sentiamo ognidue settimane per telefono. Lo chiamosempre di mercoledì e non vedo l’orache arrivi quel momento, che suoni iltelefono per sentire la sua voce per i10 minuti disponibili, per sapere come

stanno i miei genitori che sono moltoanziani e non in buona salute. Io nonli vedo e non li sento da più di quattroanni; comunico con loro solo tramitela posta. Ogni volta che ricevo la lorolettera mi sento più tranquillo e piùsollevato perché sento l’affetto dellamia famiglia. Faccio in fretta a rispon-dere per ricevere presto un’altra lette-ra da loro e per sentire quel po’ dicalore che qui manca tanto.

Ma la cosa strana è che piano pianol’affetto si perde in questi posti. Sequalche anno fa gli scrivevo quattro ocinque fogli, raccontavo le mie gior-nate, scherzavo per tirarli su di mora-le come facevo quando ero fuori e cisentivamo più volte al giorno, adessogli scrivo al massimo un foglio e fac-cio fatica perché non sento più quel-l’emozione di prima. Sono troppi anniche non li vedo, non li sento, non ridocon loro. Mi sento strano e questo mifa solo rabbia.

Ma spero tanto che ci sarà la possibi-lità e il tempo di recuperare l’affettodella mia famiglia prima che sia trop-po tardi

Eduart D

CONFINELinea costituita naturalmente o arti-ficialmente a delimitare l’estensionedi un territorio o di una proprietà…

Dizionario Devoto Oli

Il confine è la limitazione, la catenadella libertà; impedisce di sceglierema fa parte della realtà. Il confine puòessere anche un indice massimo dixenofobia, esprime soprattutto ilsenso di superiorità perché moltospesso è il più forte che mette il confi-ne per il più debole. Io penso che cisia un confine fisico ma non si posso-no imporre confini mentali. Si puòmettere un confine tra due personeche si amano ma le loro anime possofare un matrimonio mentale

Lebbi

Dipende dal punto di vista con cui losi percepisce. Ottimo sarebbe diriuscire a oltrepassarlo senza traumi osbandamenti per poi rientrare come senulla fosse. Riuscire a fare dei propriconfini una leva, un punto di forza enon un limite.

Senza limiti e confini ci allontaniamoe poi ci ritroviamo più vicini…”

Alex

La parola confine mi fa venire inmente l’espatrio perché, appunto, tiaccompagnano fino al confine dellostato, verso il paese di origine. Vuoldire attraversare il portone dell’uscitadel carcere. Ecco, quello è il mio con-fine per raggiungere la libertà.

Rachid

Confine è un limite oltre cui non puoiandare, come quando la porta dellacella è chiusa e non puoi essere dal-l’altra parte o come quando mi affac-cio alla finestra della cella e guardotutto il movimento del mondo fuoridal carcere; dalle macchine che simuovono, alle persone che lavorano enoi qui a stare fermi, a non fare nien-te mentre il mondo fuori è in movi-mento. Ecco queste sbarre sono ilnostro confine.

Erald

Confine: non amo questo recinto maho imparato a rispettarlo come mioinvolucro, a colorarlo con la poesia, laginnastica e la scrittura. Assenza diumanità, costrizione, rinuncia.

Enzino

COSCIENZALa facoltà immediata di avvertire,comprendere, valutare i fatti che siverificano nella sfera dell’esperienzaindividuale…

Dizionario Devoto Oli

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“Quando dirai una parola, sarai infinitamente in essa”Aldo Capitini filosofo, politico, educatore del ‘900

Ma una parola non detta, non scaldata da voce umana che cos’è? Una sola parola nudasulla lavagna nera, cos’è? Un segno, un ricordo, una convenzione linguistica, un richia-mo profondo, uno strumento sottile che scava dentro di noi? A queste domande non sorispondere.

Posso solo dire quello che succede ogni volta che nell’aula del carcere scrivo una paro-la sulla lavagna. C’è chi brontola, chi si lamenta, chi si illumina. Dopo qualche istante

quasi tutti scrivono; chi di getto senza quasi riflettere, chi lentamente per tutti i dieciminuti concessi. Quasi tutti scrivono. Ma c’è anche chi resiste, in particolar modo sulleparole più dense, più impegnative. Chi resiste a un contatto, a un momento di sincerità,chi è stanco o non si fida. Chi alza un muro.

Quello che so per certo è che c’è un silenzio bellissimo.carlach

LA VITA SEGRETA

Page 11: n. 3 - dicembre 2010 Forzata - Ristretti · 2015. 10. 28. · n. 3 - dicembre 2010 La speranza in carcere è anche un po’ pericolosa. Quando riempie di sogni la testa delle persone

La coscienza è espressa in tanti modi;ma per me è collegata a dei nostricomportamenti nei confronti di altrepersone che non sanno quello cheabbiamo fatto, che stiamo facendo ofaremo. E se una persona ha lacoscienza e ha fatto delle cose nongiuste, se le porterà sempre con sé

Erald

La coscienza è il valore autentico del-l’essere umano; praticamente control-la i suoi detti, i suoi fatti, i suoi pen-sieri. Con la coscienza martelliamo laporta della verità, la sincerità delleespressioni; la coscienza ci guidaverso la felicità vera. Direi che lacoscienza racchiude tutta l’esistenza

Lebbi A.

La parola coscienza mi evoca un luogoimpersonale e astratto che, tuttavia,racchiude tutte le fasi cruciali dellamia esistenza. È, forse, un castigo diDio perché non ti permette quasi maidi agire senza valutare e, in ognimomento, ti ricorda ciò che essa stes-sa, indipendentemente dalla tua volon-tà, decide sia il male e il bene

Stefano

È quella che dovevo avere quando hofatto questa scelta

Angelo

Dedicato a un determinato sentimentoSe chiudo gli occhi e penso a questaparola, mi viene in mente il buio tota-le spezzato da tante parole, che diven-tano frasi e poi discorsi

Ecco, discorsi su discorsi per capire eper capirmi…

Se penso alla mia coscienza, pensoagli errori che hanno alimentato queidiscorsi, penso che sono lontano dalconviverci senza che il confronto miindebolisca; forse non vincerò maisulla mia coscienza perché quel che èfatto, ormai è fatto. Posso solo lavarlama, non so perché, alla fine torna sem-pre sporca e questo mi fa male.Ripiombo sempre nel buio ma, infondo in fondo, so che la luce arriverà

Alex

Coscienza: è la bilancia dell’animadove la verità non ha segreti

Luigi

La coscienza è quella sensazione chemi fa sentire bene o male in base aquello che faccio e che mi guida adaffrontare le scelte della vita

Samuel

Coscienza: non saranno le botte, lecelle anguste, il carcere duro a mettereun uomo al cospetto della propriacoscienza; il male fatto sarà sempresulle mie spalle come un macigno. Orache senso avrebbe chiedere perdono;questo è il mio castigo e il mio dolore

Enzino

GABBIARecinto a sbarre nel quale sono rin-chiusi gli imputati durante i processiin tribunale…

Dizionario Devoto Oli

La mia gabbia la conoscete; corridoisenza fine, sbarre, mura alte. Nessunoche ti sorride, nessuno che ti ama,ognuno barricato nel suo dolorososilenzio. E poi le tonalità del grigio, ilrumore delle chiavi, l’odore del caffè.Questa è la mia gabbia. Visibile, con-creta, autentica. Io appartengo alnucleo di un mondo infelice. Unnucleo che non è fatto solo di sbarre diferro ma anche di gabbie invisibiliancora più strette e soffocanti che stri-tolano l’ambizione, la libertà, l’intelli-genza.

Ma chi di voi fuori non si è mai senti-to in gabbia? Chi può condividere lasensazione di prigionia, d’inadegua-tezza, d’infelicità?

Enzino

ILLEGALITÀLa mancata rispondenza alla lettera eallo spirito della norma giuridicavivente

Dizionario Devoto Oli

La parola illegalità ci turba e ci indi-gna. L’illegalità deve essere perseguitae punita con severità. Chi commetteillegalità è un delinquente e deve starein galera. Urla Marco Travaglio, urla-no sdegnati i suoi seguaci: tutti control’illegalità.E dell’illegalità di Stato chi se neoccupa? Di queste carceri che – trannerare e meritevoli eccezioni – soffronoda giorni, mesi, anni di una grave

“mancata rispondenza alla lettera eallo spirito della norma vigente”, diqueste carceri illegali cosa vogliamodire?

Carla

ISOLAMENTOEsclusione da rapporti o contatti conl’ambiente circostante perlopiù moti-vati da ragioni di sicurezza o incom-patibilità

Dizionario Devoto OliI

Isolamento: è una condizione comunea tutti i reclusi, non solo a chi è sog-getto a misure particolari di sicurezza;ma appartiene, seppur in misura diver-sa, a chiunque varchi le porte di uncarcere. L’isolamento non è la man-canza di rapporti con gli altri o la sepa-razione dai compagni; è un vuotomentale, una mancanza di affetti, unsenso d’impotenza, è la solitudine vis-suta in un posto affollato. È una condi-zione mentale che non ti permette diascoltare nulla se non te stesso

Paolo

Un luogo dove ti lasciano solo per farticapire il tuo sbaglio.

Oppure un luogo cercato per stare unpo’ con se stessi quando si è moltoconfusiUn luogo dove tornano i sentimentiche abbiamo nell’anima

Ervin

Isolamento. Luogo o stato d’animo? Qualunque cosa esso sia evoca unasorta di distacco, portando agi se volu-to e sofferenza se impostoPurtroppo in carcere regna solo l’im-posizione

Alex

RABBIAIrritazione violenta, spesso incontrol-lata provocata da gravi offese, con-trarietà o delusioni

Dizionario Devoto Oli

La rabbia è un carattere umano chedimostra la debolezza dell’anima; larabbia è perdere il controllo del cervel-lo, con la conseguenza di gesti danno-si per se e per gli altri

Lebbi Adil

È una delle cause di tanti anni di soli-tudine e sofferenza; è una parola che ame non piace perché dietro la rabbiac’è violenza e frustrazione. Considerola rabbia come il coperchio dei senti-menti

Enzino

Rabbia: questa parola la possiamo tro-vare nella vita di tutti i giorni anchefuori di qua dove la maggior partedelle persone ha una condizione di vitamigliore della nostra.

Pensa, invece, che noi stiamo chiusiqua dentro e non abbiamo nessun dirit-to di quelli che ci toccherebbero;abbiamo una rabbia che purtroppodobbiamo tenere dentro perché nonc’è nessuno che ci può sentire.

Erald

Per me è una reazione emotiva checopre un sentimento doloroso.Difficilmente la lascio scaturire perchéso che mi auto-danneggerei. Questoperché, quando mi è successo, stavocommettendo atti che – a pensarcidopo - mi hanno messo paura

Stefano

Rabbia: reazione collaterale a fronte diun malessere esistenziale, perdita dellarazionalità, sfogo al limite del nonritorno

Luigi

Un tempo, anni addietro, era un senti-mento molto presente nella mia quoti-dianità di recluso per tutte le stortureche mi circondavano. Con il passaredegli anni, il sentimento, forse, l’hoelaborato e i miei momenti di rabbia liho tradotti in impulsi momentanei aiquali riesco a tener testa mediante lun-ghi periodi di meditazione e rilassa-mento. Non mi faccio più accecaredalla rabbia

Vito

SostaForzata

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DELLE PAROLE

…Perché da qualche parte dentro disé ogni persona sa quando sta com-mettendo un torto, o collaborando aun torto. Da qualche parte in chiun-que sia dotato della facoltà d’inten-dere, in ogni persona sana di mente,c’è un punto in cui non gli è dato diilludersi su quel che fa e le conse-guenze di ciò che fa. L’angosciache crea il torto – anche se questoviene rimosso – esiste e ha un’in-fluenza e un prezzo.

David Grossman “Con gli occhidel nemico”

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Cella in piazza spaventa la gente Vivono in quattro in un buco così?Repubblica — 23 ottobre 2010

LE CARCERI italiane scoppiano, si sa. Quantisanno, però, com’ è fatta una cella e quanto pocospazio devono dividersi i detenuti? In Piazza ReEnzo, fino a domani, ce n’ è una vera: quattromaterassi di gommapiuma in 11 metri quadri scar-

si, un lavabo che butta solo acqua fredda,foto e santini appesi. Insieme a pacchettidi sigarette usati come mensole, quadrifatti con gli stuzzicadenti e un fornello dacampo, per chi è riuscito a comprarselo.«E’ una vergogna - dice una signora- stan-no davvero in quattro qui dentro?».Qualcun altro, invece, si lascia scapparequello che pensa. Cioè, che se uno ha ucci-

so o rubato, è giusto chepaghi. La “cella in piaz-za” è un’ iniziativa delDifensore civico dell’ EmiliaRomagna, della ConferenzaRegionale del VolontariatoGiustizia e del Garante delle per-sone private della libertà persona-le del Comune di Bologna, VannaMinardi, difensore civico cittadi-no che ha sostituito Desi Bruno.Volevano attirare, scatenare rea-zioni di commozione e d’ ira,scardinare qualche luogo comune.E ci sono riusciti. La cella chehanno allestito in pieno centro èuna riproduzione fedele, confer-mata da chi in carcere c’ è stato

davvero e l’ ha notata, passando per caso ieri inPiazza Re Enzo. Così, la giornata si è trasformataper molti cittadini in una chiacchierata con ex dete-nuti su come si fanno i quadri con fiammiferi o suiturni che devi fare per mangiare, perché si è introppi. Molti si fermano e se ne vanno senza dirnulla. Troppa violenza, forse. Qualcuno dice «cheschifo, come siamo ridotti», qualcun altro invecesostiene che, se uno ammazza, è bene che se ne stiaisolato dal mondo. A tutti i volontari spiegano che«quelli che fanno lavori socialmente utili - diceDaniele Lugli, difensore civico regionale - hannouna recidiva del 5%, mentre chi fa solo carcere cel’ha al 70-80%». Si fanno aiutare da Eduard, gio-catore di basket albanese ai domiciliari, e da dueex detenuti di Piacenza sotto misure alternative.

CELLAFreddo, intimità, il recinto che non amo,solitudine. Mi viene in mente la rugginequando penso alla mia cella. Il buio e l’as-senza di affettività

EnzinoLa cella per me è un posto dove sonoobbligato a vivere in condivisioneforzata con un’altra persona. La cellaper me è il ritrovo di tutti i miei pen-sieri, le mie riflessioni e i miei sva-ghi. Mi fa sentire come un animalechiuso in gabbia. La cella per me èsinonimo di depressione, di tristezzaperché ogni volta che la mattina aprogli occhi e vedo le sbarre mi sentoinfelice e allora cerco di stare il piùpossibile fuori.

SamuelCella, prigione, zona limitata, repres-sione, depressione, sopportazione,impotenza, vergogna, sofferenza

LuigiLa cella è un posto dove sei chiusogran parte della giornata. Ci sonocelle a due persone e celle a tre posticon due o tre brande dove dormi,leggi, senti la musica e dove pensi. Se haivissuti tanti anni in cella questa parola ti dàla nausea.

PinoLuogo, posto, situazione o più semplice-mente contenitore e non fa differenza se dicose o di persone.Quando ero piccolo aiutavo mio papà ametterci dentro frutta e verdura; ora chesono grande ci sto mettendo me stesso.Inquietante e soprattutto grave!

Alex

La cella è uno spazio molto stretto dovevengono messi i fuorilegge. È una gabbiaper il loro rimorso; praticamente ti spo-gliano di ogni sentimento umano, cercanodi aiutarti a condannare la passione persottometterla alla ragione. La cella è lavoce della coscienza dentro le sbarre della

disperazione.Lebbi Adil

La cella è lo spazio in cui ci hanno ristret-ti. Per rendere l’idea, rispetta la stesse pro-porzioni tra uomo e spazio che vengonoadottate per i polli in allevamento intensi-vo

StefanoCella è quella gabbia in cui sono rinchiusii nostri corpi ma, per fortuna, non sonochiusi i nostri sogni, i ricordi, i pensieri.Cella è anche il nostro quotidiano, la

nostra vita dietro le sbarre in cui qualcunoci ha messo - perché abbiamo sbagliato –nella speranza della rieducazione. Ma chiha preso questa decisione non fa niente peraiutarci nella nostra rieducazione

EraldCella; già la parola fa pensare a esserechiuso dentro. È una bruttissima esperien-za che non auguro a nessuno. In cella, setrovi una persona con cui vai d’accordo,puoi resistere ma se non trovi la personagiusta, la detenzione è doppia.

Angelo

UN OGGETTO NELLA MIA CELLANella mia cella i miei occhi ricadono sul

mio blocco notes e la miapenna due cose indispen-sabili da quando ho inizia-to ad affidare i miei pensie-ri a loro. La considero laparte più intima di me. Peranni è stato tutto quelloche avevo

EnzinoDa una vecchissima coper-tina di “Airone” degli anni80 trovata a scuola ho rita-gliato l’immagine di unaragazza. Il suo primo pianoe il suo sguardo mi hannocatalizzato dal primomomento che l’ho vista.Deve essere spagnola, par-ticolare che ho capito dallamaglietta stile “torero”.

Ogni volta che la guardo mi ipnotizza; mirivolgo a Lei come se fosse vera e mipotesse rispondere. Mi rivolgo a lei con lasperanza di sentire così mia anche quellapersona che vorrei fosse al posto suo…oforse anche solamente accanto. A volte èsperanza, a volte specchio

AlexRitengo che l’oggetto cui do più significa-to all’interno della mia cella sia la radio.Puoi far volare la fantasia ascoltando unamusica, puoi tenerti informato così come

puoi far sì che il tuo concellino non tirompa le scatole vedendoti con le cuffietteanche se poi magari la radio è spenta

StefanoI ricordi per chi riesce a sopportarli sonodelle cose stupende e tanti di questi ricor-di, oltre che nella memoria, le ho anchenelle foto e sono delle cose a cui tengomolto perché posso rivedere degli istantidella mia vita , insieme ai miei familiari ealle persone a cui voglio bene. Sono moltoimportanti perché molte di queste personenon le posso vedere quando voglio.

EraldNella mia cella l’oggetto che se non devemai mancare è la croce di Cristo sopra laporta. Per me non è solo una cosa simbo-lica ma un punto di forza per la mia fede eil mio credo. Poi una foto della mia fami-glia che non mi fa mai sentire solo.

Samuel

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Sosta ForzataPERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE

DI VOLONTARIATO“OLTRE IL MURO”

n. 3 - dicembre 2010Sped. in abb. post. 5% - art. 2

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CELLA IN PIAZZA A BOLOGNA

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