movia, giancarlo - mignucci, mario (ed), hegel e aristotele - atti del convegno di cagliari, 1995

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EDIZIONI UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLI ARI Facoltà di Lettere e Filosofia e di Scienze dell'Educazione Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze Umane M. M IGNUCCI , A. M ORETTO, P. ZIZI , R. P ORCHEDDU, C. F ERRINI , L. SAMONÀ, A. F ERRARIN, C. M EAZZA, G. M OVIA H E GE L E ARI STOT E L E Atti del Convegno di Cagliari (11-15 Aprile 1994) a cura di GIANCARLO M OVIA A V CAGLI ARI - 1 9 9 7 VAI ALLA COPERTINA DI QUESTO VOLUME VAI ALL'ELENCO DELLE ANNATE

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EDIZIONI

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARIFacoltà di Lettere e Filosofia e di Scienze dell'Educazione

Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze Umane

M. M IGNUCCI, A. MORETTO, P. ZIZI, R. PORCHEDDU,C. FERRINI, L. SAMONÀ, A. FERRARIN, C. MEAZZA, G. MOVIA

HEGEL E ARISTOTELE

Atti del Convegno di Cagliari

(11-15 Aprile 1994)

a cura diGIANCARLO MOVIA

AV

CAGLIARI - 1997

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ANNALI DELLA FACOLTÀ

DI LETTERE E FILOSOFIADELL’UNIVERSITÀ DI CAGLIARI

NUOVA SERIE XIV (VOL. LI) - 1995

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI1995

HEGEL E ARISTOTELE

Atti del Convegno di Cagliari(11-15 Aprile 1994)

a cura diGIANCARLO MOVIA

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ELENCO DELLE ANNATE DISPONIBILI

Vol. XIV 

Vol. XXIV 

Vol. XXV 

Vol. XXI

Vol. XXII

Vol. XXIII

Vol. XX - IIª parte

Vol. XX - Iª parte

Vol. XIX 

Vol. XVIII

Vol. XVII (non disponibile)

Vol. XVI

Vol. XV 

Vol. XXVI

SELEZIONARE IL VOLUME CHE SI DESIDERA CONSULTARE

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ANNALI DELLA FACOLTÀ

DI LETTERE E FILOSOFIADELL’UNIVERSITÀ DI CAGLIARI

NUOVA SERIE XIV (VOL. LI) - 1995

SOMMARIO

Presentazione — Indirizzi di saluto — Relazioni: MARIO MIGNUCCI: L’ in-terpretazione hegeliana della logica di Aristotele — ANTONIO MORETTO: Sul problema della considerazione matematica dell’ infinito e del continuo in Aristo-tele e Hegel — PAOLO ZIZI: Il concetto metafisico di “ intero” in Aristotele e inHegel — RAIMONDO PORCHEDDU: L’ idea aristotelica di natura nell’ interpreta-zione di Hegel — CINZIA FERRINI: Tra etica e filosofia della natura: il significatodella Metafisica aristotelica per il problema delle grandezze del sistema solarenel primo Hegel — LEONARDO SAMONÀ: Atto puro e pensiero di pensiero nel-

l’ interpretazione di Hegel — ALFREDO FERRARIN: Riproduzione di forme e esibi-zione di concetti. Immaginazione e pensiero dalla phantasia aristotelica allaEinbildungskraft in Kant e Hegel  —  CARMELINO MEAZZA: Aristotele traHegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione — GIANCARLO MOVIA: L’ Uno ei molti. Sulla logica hegeliana dell’ Essere per sé — Appendice: G.W.F. HEGEL:Chi pensa astratto? — Indice dei nomi — Notizie sui relatori.

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1995

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A. FERRARIN, C. FERRINI, C. MEAZZA, M. MIGNUCCI

A. MORETTO, G. MOVIA, R. PORCHEDDU, L. SAMONÀ, P. ZIZI

HEGEL E ARISTOTELE

Atti del Convegno di Cagliari(11-15 Aprile 1994)

a cura diGIANCARLO MOVIA

CAGLIARI - 1997

EDIZIONI

AV

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DELLO STESSO EDITORE:

R. BODEI, F. CHIEREGHIN, P.L. LECIS, L. L UGARINI , N.C. M OLINU, G. MOVIA,A. PEPERZAK , F. VALENTINI, J .-L. VIEILLARD-BARON, La logica di H egel e la stor ia 

della fi losofia , Atti del Convegno di Cagliari (20-22 Aprile 1993), a cura di G.Movia, 292 pp. («Pubblicazioni del Dipartimento di Filosofia e Teoria delleScienze Umane dell’Università di Cagliari», 1).

EDIZIONI

VA© Cagliari - 1997

©EDIZIONI AV di Antonino Valveri - Via M. De Martis, 6 - 09121 Cagliari Tel. e fax 070/54 08 53

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PRESENTAZIONE

Con Platone incomincia, e con Aristotele si compie il lavoro

rivolto a elaborare la scienza filosofica come scienza, e piùprecisamente a conferire assetto scientifico al punto di vistasocratico: e quindi, se v’è chi meriti il nome di maestro delgenere umano, sono precisamente Platone e Aristotele.

G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia , II, p. 153

Nel 1992, dal 27 aprile al 2 maggio, nell’ambito dell’insegna-mento di Storia della filosofia antica, si svolse nella nostra Facoltà

un seminario su “Hegel e la filosofia eleatica”, guidato dal prof.

Renato Milan, dottore di ricerca dell’Università di Padova. Fu il

primo germe di un progetto assai ambizioso, e tuttora in corso di

realizzazione, che doveva portare a Cagliari, per iniziativa con-

giunta dell’Istituto ed ora Dipartimento di Filosofia e Teoria delle

Scienze Umane e della locale sezione della Società Filosofica Ita-

liana, docenti e studiosi interessati a ridiscutere la portata e laprofondità dell’influsso della filosofia greca sul pensiero hegelia-

no, tanto nella sua dimensione metodologico-dialettica quanto

nella costruzione effettiva del suo sistema speculativo. Il Conve-

gno internazionale di studi, tenutosi dal 20 al 22 aprile 1993, i cui

Atti sono stati pubblicati nel 1996 presso le Edizioni AV di Caglia-

ri, su “La logica di Hegel e la storia della filosofia”, intendeva, per

così dire, delineare i basilari quadri concettuali ed ermeneutici

del suddetto progetto di ricerca e di incontri. Il volume che qui

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8 HEGEL E ARISTOTELE

presento contiene gli Atti del Convegno svoltosi, sempre a Caglia-

ri, dall’11 al 15 aprile 1994 su “Hegel interprete di Aristotele”. Nei

giorni 3 e 4 aprile 1995 si è tenuto un Convegno su “Hegel e la filo-

sofia ellenistica”, cui hanno fatto seguito gli incontri internazionali

su “Hegel e il neoplatonismo” (16-17 aprile 1996) e su “Hegel e il

pensiero preplatonico” (8-9 aprile 1997). L’iniziativa si concluderà

nel 1998 con un Convegno internazionale su “Hegel e Platone”.

Si sa con quanta ammirazione Hegel abbia studiato e riflet-

tuto (sin dai primi anni della sua formazione) sul pensiero di Ari-stotele, maggiore di quella riservata ad ogni altro filosofo antico e

moderno, al punto da considerarlo, insieme con Platone, il “mae-

stro” per eccellenza del genere umano. Eppure è altrettanto noto

che, già per lo Hegel jenese, il «principio superiore dell’età mo-

derna», il «principio del Nord», la «soggettività», non era cono-

sciuta da Platone, anzi dagli antichi, o, meglio, non si era per essi

ancora “posta come tale”: nemmeno per Aristotele, il cui princi-

pio della enérgheia e della soggettività autoreferenziale Hegel purcoglie come la ultimativa struttura di fondo che anima il suo pen-

siero. L’unità immediata dell’universale e dell’individuale, pre-

sente nell’epoca antica, doveva passare attraverso la «scissione

più alta», perché si potesse restaurare, ad un più alto livello, la

totalità vivente.

I contributi di questo volume non hanno alcuna pretesa di

completezza esaustiva, pur affrontando alcuni nodi problematici

essenziali che riguardano i due autori e che interessano la logica“formale” e quella speculativa, la filosofia della matematica e

quella della natura, l’ontologia e la metafisica, la psicologia e l’eti-

ca, e pur coinvolgendo nelle loro analisi retrospettive e prospetti-

ve ampie sezioni della storia della filosofia, dai Pitagorici a Hei-

degger. I contributi sono dedicati fondamentalmente allo studio

del complesso intreccio di appropriazione e di alterità irriducibile

tra Aristotele e Hegel, di comunanza e anche di confutazione reci-

proca. Un intreccio e un gioco di rapporti che ha ai suoi punti

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9Presentazione

estremi da un lato lo sforzo hegeliano di assimilazione a sé del

pensiero dello Stagirita, anche attraverso alcune patenti violenze

interpretative, e dall’altro lato la funzione di criterio di giudizio e

misura di valore che la filosofia aristotelica è in grado di esercita-

re nei confronti della posizione hegeliana, che pure, a sua volta,

tenta l’“oltrepassamento” del pensatore greco.

Nella prima relazione al Convegno, su “L’interpretazione

hegeliana della logica di Aristotele”, Mario Mignucci esamina il

giudizio che Hegel dà,

nelle Lezioni sulla storia della filosofia ,

 dellalogica aristotelica contenuta nel cosiddetto Organon. Mignucci il-

lustra preliminarmente la nozione aristotelica di logica: Aristotele

è l’iniziatore consapevole della logica nel mondo occidentale,

giacché per primo mostra d’intendere la logica come teoria del-

l’inferenza. Più precisamente, per lo Stagirita, compito della logi-

ca è quello di distinguere le inferenze corrette da quelle scorrette,

e ciò in dipendenza non già dai contenuti, ma dalla struttura for-

male delle premesse. Ne deriva allora che, se è legittima l’ideache la logica sia la teoria dell’inferenza e che la logica aristotelica

sia la prima teoria dell’inferenza dell’Occidente, sembra altrettan-

to legittima, almeno in linea di principio, la prospettiva hegeliana

secondo cui la logica è la descrizione delle forme del pensiero e la

logica aristotelica è la teoria di alcune forme  finite del pensiero,

ovvero non collegate in una struttura generale e unificante. Mi-

gnucci rileva d’altro canto che l’assenza di sillogismi nella costru-

zione delle dottrine filosofiche di Aristotele non dipende, comecrede Hegel, da una questione di principio, ossia dall’incapacità

della logica aristotelica di adeguarsi alle movenze del pensiero in-

finito, ma soltanto da una questione di fatto, giacché lo Stagirita

riteneva di aver già provato l’adeguatezza della forma sillogistica

alle argomentazioni filosofiche.

Il secondo saggio del volume, di Antonio Moretto, si soffer-

ma “Sul problema della considerazione matematica dell’infinito e

del continuo in Aristotele e Hegel”. L’autore confronta i punti di

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10 HEGEL E ARISTOTELE

vista sull’infinito e il continuo di Aristotele e di Hegel, quali risul-

tano soprattutto dalla Fisica del primo e dalla Logica del secondo.

Le concezioni dell’infinito e del continuo di Aristotele sono per

Hegel adeguate alla matematica come scienza rigorosa dell’intel-

letto. Hegel riconosce che una matematica infinitesimale rigorosa,

adeguata al suo standard di scienza dell’intelletto, accoglie l’infini-

to sotto l’aspetto potenziale (Lagrange). Tuttavia egli trova che al-

tre proposte dei matematici moderni (Galilei, Cavalieri), riabili-

tando il concetto di infinito attuale,

intuiscono un concetto divera infinità che assorbe in sé l’infinità potenziale e il limite. Mo-

retto mostra che Hegel rinviene in Spinoza, ma anche già nel ge-

nere del “ misto” del Filebo platonico, il superamento della dicoto-

mia finito-infinito e, quindi, l’approdo al punto di vista della ra-

gione. Anche nel caso della nozione del continuo (e di quella “co-

appartente” del discreto), che Hegel ripensa anche attraverso una

fruttuosa Auseinandersetzung col logos zenoniano della dicotomia

e con l’antinomica kantiana, il superamento della concezione ari-stotelica della continuità come divisibilità all’infinito di ciò che è

esteso comporta, per Hegel, il passaggio dalla sfera dell’intelletto

a quella della ragione. Il continuo si ricompone come una infinità

attuale di indivisibili, e anche questa nozione favorirà successive

elaborazioni concettuali della teoria degli insiemi.

Paolo Zizi si occupa de “Il concetto metafisico di ‘intero’ in

Aristotele e in Hegel”. La nozione hegeliana di intero, come l’ele-

mento universale che racchiude in sé il particolare, è ispirata al-l’assioma aristotelico dell’anteriorità essenziale dell’intero rispetto

alle parti, che già il primo Hegel aveva verificato nelle nozioni

del vivente e della volontà generale. Zizi approfondisce partico-

larmente il nesso fra intero e dialettica, la quale, secondo Hegel, è

lo strumento conoscitivo piu idoneo per l’approccio all’intero e al

suo principio. Nella Fenomenologia Hegel si rifà al concetto di dia-

lettica “negativa” del Parmenide platonico e soprattutto dei Topici

aristotelici, smascherando l’inconsistenza di tutti i tentativi del

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11Presentazione

pensiero finito di esprimere l’assoluto. L’accezione “positiva” del-

la dialettica, come automovimento dei concetti, viene sviluppata

da Hegel nella Scienza della logica e nel sistema dell’Enciclopedia,

nelle quali il filosofo di Stoccarda valorizza la concezione aristo-

telica della metafisica come scienza dell’essere in quanto essere e

come teoria della verità dell’intero. Ad entrambi i filosofi resta in

comune il proposito di combattere ogni posizione che scambi una

certezza particolare con il sapere dell’intero. Hegel peraltro, ri-

spetto alla teoria aristotelica della plurivocità dei significati del-l’essere, privilegia la dottrina, pur essa aristotelica, dell’unità di

consecuzione dei termini che, a suo parere, autorizza una dialetti-

ca speculativa di tipo deduttivistico. Ne deriva che, mentre per lo

Stagirita, creatore (insieme con Platone) di una metafisica proble-

matica, l’intero è spiegato mediante una causa che trascende le fi-

nitezze, Hegel, sostenitore di una metafisica immanentistica, con-

clude all’assolutizzazione dell’esperienza e della storia.

“L’idea aristotelica di natura nell’interpretazione di Hegel” èil tema affrontato nel saggio di Raimondo Porcheddu. Si mostra

anzitutto che le Lezioni hegeliane sembrano far da contrappunto

alla polemica antimeccanicistica e antievoluzionistica condotta da

Aristotele nella Fisica. La presa di distanza di Hegel da Spinoza

passa attraverso la riscoperta della teleologia aristotelica, risco-

perta a sua volta mediata dal finalismo colto da Kant nel mondo

organico. La natura appare a Hegel dominata dalla finalità inter-

na, che egli peraltro interpreta secondo l’apparato dialettico dellapropria filosofia: la natura, per Hegel, è l’idea che realizza se stes-

sa. Di qui la propensione del filosofo di Stoccarda a identificare il

Motore immobile con la natura stessa, e il privilegiamento della

forma, dell’entelechìa e della soggettività autoriferentesi, col peri-

colo di minimizzare il ruolo del sostrato materiale sino a ridurlo a

pura idealità o a momento mediato dal concetto. A Porcheddu

sembra che Leibniz, meglio di Hegel, abbia colto la natura della

sostanza aristotelica e del suo finalismo. Egli mette anche in evi-

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12 HEGEL E ARISTOTELE

denza che, dal punto di vista aristotelico, non la natura è spirito,

ma piuttosto lo spirito è per natura. Non la dialettica, quindi, può

spiegare la natura, ma è essa stessa da spiegare perché anch’essa

rientra nella storicità della natura. A codesta storicità fa capo lo

stesso spirito finito dell’uomo, che è il luogo in cui la natura pren-

de coscienza di sé nell’apertura alla trascendenza.

La relazione di Cinzia Ferrini: “Tra etica e filosofia della na-

tura: il significato della Metafisica aristotelica per il problema del-

le grandezze del sistema solare nel primo Hegel”

rinviene le trac-ce dell’influsso della Metafisica di Aristotele sulla matematica del-

la natura nei primi scritti di Hegel, e in particolare nel De orbitis

 planetarum. Nella prima filosofia della natura hegeliana si può

rintracciare un richiamo al pensiero aristotelico, che assume un

ruolo prioritario rispetto alle dottrine pitagoriche e platoniche sul

numero. La Ferrini rileva altresì che l’origine della riflessione di

Hegel sul mondo fisico in generale e sui moti e la disposizione

del sistema solare in particolare è legata a una prospettiva etico-religiosa, che si riflette anche sull’approccio antikantiano (e antifi-

chtiano) di Hegel alla moralità. Si ha così una Naturphilosophie

“speculativa”, che intende conoscere in modo oggettivo, univer-

sale e necessario le leggi specifiche della natura, basandosi sulle

idee della ragione (e non sulle categorie dell’intelletto), e che svol-

ge una funzione critica sia nei confronti delle leggi della meccani-

ca “esterne” alla natura, sia, tramite la mediazione aristotelica e il

suo concetto di Dio come “sostanza attiva”, contro la stessa schel-linghiana filosofia dell’identità. Al tempo stesso, il riferimento di-

retto all’“attività” della virtù adempie un compito critico nei con-

fronti dell’artificialità e del formalismo della morale kantiana,

contraendo cosi Hegel un debito anche con l’Etica Nicomachea. Tut-

ti questi aspetti risultano peraltro pienamente comprensibili solo

alla luce delle Lezioni sulla storia deIla filosofia.

Leonardo Samonà, nel saggio su “Atto puro e pensiero di

pensiero nell’interpretazione di Hegel”, mostra che il tratto più

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13Presentazione

speculativo che Hegel indica nella filosofia di Aristotele è appun-

to “il pensiero di pensiero”, in cui, per il filosofo tedesco, sono

racchiuse tanto l’unità di soggettivo e oggettivo quanto la verità

concepita ed espressa non solo come sostanza, ma anche come

soggetto. La differenza innegabile tra le due filosofie è dovuta

alle implicazioni dirompenti sotto il profilo sistematico che Hegel

ha tratto dalla nozione di pensiero di pensiero. Tali implicazioni

sono state favorite, tra l’altro, dall’integrazione della prova “co-

smologica”

aristotelica col passaggio dal pensiero (il concetto,

ilprincipio finale) all’essere proprio della prova ontologica; o anche

dalla ripresa della dottrina neoplatonica della connessione tra Dio

e mondo, e del pensiero di sé come compendio del pensiero di

tutte le cose. Il nucleo del discorso resta tuttavia, per il filosofo te-

desco, insuperabilmente aristotelico. Hegel cerca infatti il filo

conduttore della dottrina aristotelica della sostanza e lo ritrova

nel principio dell’atto o attività, definito come l’autodeterminarsi,

ciò che realizza se stesso, ciò che muove. Hegel vede anzi nellasostanza dell’anima aristotelica, intesa dapprima come natura, e

poi soprattutto come spirito, un tipo di raccordo privilegiato per

l’accesso alla sostanza immobile. L’articolazione interna all’atto

puro è di fatto mediata attraverso i concetti di “vita” e di “pensie-

ro”. Samonà sottolinea che il punto teoricamente forse più delica-

to è quello in cui Hegel definisce il primo Motore immobile come

unità di potenza e atto e pensa l’atto puro come movimento che

ha come materia la propria essenza. Tuttavia Hegel mostra qui diintendere la potenza come il modo di essere della relazione ad al-

tro, tale da rimanere dentro l’atto stesso quale suo tratto “essen-

ziale”. La differenza è un modo d’essere che va ricondotto a quel-

la sostanza che coincide con l’atto. In questa maniera non viene

persa di vista la prospettiva dell’immobilità e dell’indivisibilità

dell’atto.

La relazione di Alfredo Ferrarin: “Riproduzione di forme e

esibizione di concetti. Immaginazione e pensiero dalla  phantasia

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14 HEGEL E ARISTOTELE

aristotelica alla Einbildungskraft in Kant e Hegel” rileva che pochi

tra i punti centrali della filosofia della natura aristotelica sono so-

pravvissuti indenni al tempo, ed in particolare alla rivoluzione

scientifica seicentesca, quanto la dottrina dell’immaginazione, nel

suo rapporto con la sensazione da un lato, col tempo, la memoria

e il “senso comune” dall’altro. La teoria dell’immaginazione è fon-

damentale per il concetto di sintesi a priori in Kant. Il ruolo me-

diatore tra intuizione e concetto svolto dall’immaginazione in

Kant ha ricordato a più di un interprete (ad es.,

a Heidegger)l’analoga funzione di raccordo tra senso ed intelletto asserita da

Aristotele. In realtà, il concetto di determinazione a priori delle

forme pure di spazio e tempo, lo schematismo, il rapporto tra

senso interno, contenuti dell’esperienza e tempo, in particolare il

concetto di “autoaffezione”: tutto questo definisce l’immaginazio-

ne trascendentale ed è un portato originale della rivoluzione co-

pernicana di Kant. Di fronte a questa, si può dire che Hegel prima

 facie ritorni ad una concezione aristotelica dell’immaginazione.Molti sono i punti in comune con Aristotele. Ad es., il principio

aristotelico per cui ogni forma del conoscere è materia per una

forma superiore fa sì che, nella hegeliana filosofia dello spirito teo-

retico, l’immaginazione sia concepita come un risultato e, insie-

me, come l’inizio delle forme soggettive generantisi l’una dall’al-

tra. Inoltre la descrizione di molti lati dell’immaginazione — che

per Kant sarebbero empirici, e non trascendentali — si possono

ricondurre ad Aristotele. Ancora: è grazie alla concezione dellospirito come hexis che è possibile l’“interiorizzazione” hegeliana.

Infine, il principio che Hegel ritrova in Aristotele e che fa valere

contro Kant, è quello per cui, per l’intelligenza, intuizione e con-

cetto non sono più due forme date come separate, ma si defini-

scono come i due poli della recettività apparente e dell ’attività,

nell’ambito del movimento immanente del pensiero. Ma proprio

questo principio mostra come Hegel si distacchi da Aristotele e

concepisca la filosofia della soggettività come il superamento tan-

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15Presentazione

to di Aristotele quanto di Kant (e Fichte). L’immaginazione, come

la memoria, non è, come in Aristotele, un’affezione del senso co-

mune, un residuo della sensazione, ma l’immediato presupposto

soggettivo del pensiero puro. Né è autoaffezione come in Kant,

ossia effetto dell’intelletto sull’intuizione spazio-temporale, ma —

conclude Ferrarin — momento essenziale dell’autodeterminazio-

ne e della finitizzazione del pensiero in noi.

Il saggio di Carmelino Meazza, su “Aristotele tra Hegel e

Heidegger: tracce per una ricostruzione”,

mira a ricostruire,

sullascorta di Hegel e Heidegger e col ricorso al vaglio critico di Levi-

nas, la nozione aristotelica di  physis. La prima definizione che

Aristotele dà della physis , secondo Heidegger, ha al suo centro la

questione del movimento o della motilità. L’ente che proviene

dalla physis , o tutto o una parte, è qualcosa di mosso, cioè di de-

terminato dalla motilità. Per Aristotele, secondo Heidegger, il

movimento non è una cosa tra le altre, ma, come esser mosso, è il

centro di una domanda essenziale: che cos’è l’ente in quanto ente?La seconda definizione aristotelica di physis pone invece la physis

come causa originaria. Come essere nel movimento non significa

essere necessariamente in movimento, così essere causati non si-

gnifica avere la causa come esterna a sé. Lo Stagirita , secondo

Heidegger, ci conduce alla definizione essenziale dell’ente: l’ente

è in quanto ha il suo essere come sostegno per il suo esser posto o

esser avviato. L’essenzialità di questo avvio è la motilità, che di-

venta il carattere fondamentale dell’ente; il movimento ha il carat-tere dell’“arrivare a presentarsi”. Ora c’è un punto in cui Heideg-

ger sembra avvicinarsi alla lettura hegeliana della  physis aristote-

lica: la pianta, ad es., che procede in avanti, è sempre più raccolta

nella propria origine: è l’origine che diviene. Hegel, nelle Lezioni ,

aveva detto: l’immoto che muove è l’idea che rimane identica a se

stessa e che, mentre muove, rimane in relazione a se stessa. E tut-

tavia in Heidegger la forma esegue, mentre in Hegel la forma at-

tua. Cionondimeno c’è una familiarità originaria tra Hegel e Hei-

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16 HEGEL E ARISTOTELE

degger nei seguenti punti essenziali: la concezione del “niente”

come ciò che avvia il movimento, la “totalità” del circolo erme-

neutico finito-infinito, la “ossessione” del metodo. Meazza mostra

che qui si innesta la lettura aristotelica di Levinas, il quale recu-

pera l’eccedenza di Aristotele rispetto alle tradizionali figure dei

“circoli”. Il “chi muove”, almeno per un istante, non può apparte-

nere al mosso; occorre che, per un attimo, l’eternità si sottragga al

movimento. Si tratta di un’eternità che nessuna storia può mutare

o trasformare: che attiva il tempo,

ma è“impassibile

”al consumodel tempo, e che, quindi, è garanzia dell’eternità stessa del tempo.

La relazione di chi scrive è un saggio di commento alla logi-

ca hegeliana dell’Essere per sé e quindi alla dottrina del rapporto

dialettico tra l’Uno e i molti. Hegel condivide il paradigma onto-

logico (primato dell’essere sull’uno) proposto dallo Stagirita in al-

ternativa a quello henologico di Platone. Per Hegel la prima cate-

goria della logica, fondamento di tutte le categorie successive,

non è l’Uno (che è già una nozione più complessa e concreta), mal’Essere, benché si tratti dell’Essere assolutamente indeterminato

e non già dell’ente in quanto ente, ossia dell’ente polivoco di Ari-

stotele. L’immediata, intriseca, originaria molteplicità dell’Uno è

affermata, poi, tanto da Aristotele quanto da Hegel, con la diffe-

renza essenziale che, per quest’ultimo, la molteplicità dell’Uno

non dà luogo ad una pluralità di significati: i termini a cui l’Uno

si riferisce nella sua “autoframmentazione” sono essi stessi, per

identità, degli uno, sicché in essi l’Uno si riferisce solo a se stesso.Infine le riflessioni hegeliane sulla dottrina aristotelica dell’istan-

te, del punto e del limite in generale, concepiti ciascuno sia come

“uno” sia come “molti”, mostrano che l’affermazione aristotelica

dell’identità reale e della differenza logica di due determinazioni

opposte (appunto l’unità e la molteplicità) è sufficiente a Hegel

per attribuire allo Stagirita il superamento del principio intellet-

tualistico d’identità e per ritrovare anche in lui (come già in Plato-

ne) la contraddizione dialettica.

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17Presentazione

In appendice al volume il lettore troverà una nuova traduzio-

ne italiana (con introduzione e commento), curata da Franca Ma-

stromatteo e Leonardo Paganelli, di un articolo di Hegel, risalente

al 1807, dal titolo: “Chi pensa astratto?”. Uno Hegel apparentemen-

te “minore”, ma in realtà meritevole di una rilettura critica.

Ringrazio cordialmente il prof. Paolo Cugusi, Preside della

Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, il Consiglio

di Facoltà e la commissione per le pubblicazioni della Facoltà stes-sa, composta dal Preside e dalle colleghe prof.sse Luisa D’Arienzo

e Maria Teresa Marcialis, per aver finanziato la pubblicazione del

volume e per averlo ospitato negli Annali della Facoltà. Ringrazio

anche il prof. Pasquale Mistretta, Rettore Magnifico dell’Università

di Cagliari, per la concessione di un ulteriore contributo finanzia-

rio. Il mio grazie affettuoso va infine all’Editore Antonino Valveri,

che ancora una volta ha dimostrato la sua ammirevole fiducia nella

cultura filosofica.GIANCARLOMOVIA

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INDIRIZZI DI SALUTO

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LUISA D’ARIENZO

PRESIDE DELLA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Diamo inizio a queste cinque giornate dedicate a “Hegel in-terprete di Aristotele”, ricordando che sono ormai tre anni chesiamo abituati a questa scadenza hegeliana. Ci si offre un altroconvegno di studi di grande interesse e di alto valore scientifico.Devo inoltre ricordare che l’Istituto di Filosofia della Facoltà diLettere dell’Università di Cagliari è presente in modo incisivo nel-

le iniziative culturali dell’Ateneo. Nel suo ambito, infatti, è moltoattiva anche la sezione cagliaritana della Società filosofica italia-na. Anche questa sezione ha al suo attivo un triennio di vita du-rante il quale sono stati svolti seminari e conferenze. La sezionepubblica un Bollettino informativo, e fanno parte di essa un centi-naio di soci, fra i quali molto numerosi sono i professori di Liceoe delle Scuole medie superiori, che s’impegnano soprattutto infunzione dei giovani e a favore della didattica della filosofia.

Vedo dal programma che anche la sezione locale della S.F.I. (oltreche l’Istituto di Filosofia) figura tra i patrocinatori di questo con-vegno che oggi inizia. Non posso che rallegrarmi per questa atti-vità e per questa collaborazione reciproca.

“Hegel interprete di Aristotele”: un tema quanto mai ampioe di indubbio fascino: un altro convegno cagliaritano su Hegel,un filosofo che visse ben radicato nella realtà del suo tempo, chefu a stretto contatto con i giovani dapprima come precettore pri-

vato a Berna e a Francoforte e poi come libero docente a Jena.

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22 HEGEL E ARISTOTELE

Ho notato che in questo convegno è stato lasciato molto

spazio a giovani relatori. Ci sono dei ricercatori, borsisti, dottoridi ricerca, anche se sappiamo che non sempre i ricercatori sonocosì giovani, perché, per ottenere un posto di ricercatore, al gior-no d’oggi bisogna mettersi in una lunga lista d ’attesa. Mi rallegroper questa scelta fatta a favore dei giovani; vedo che gli organiz-zatori hanno affidato loro dei temi non facili, degli argomentimolto complessi: come il concetto metafisico di intero, l’idea

aristotelica di natura in Hegel,

la metafisica aristotelica in relazio-ne ai moti celesti, atto puro e pensiero di pensiero, e altri temi an-cora.

Esprimo il mio compiacimento per l’affluenza di pubblicoche in prevalenza è costituito da giovani e ringrazio i convenuti ein modo particolare i relatori che ci accompagneranno in questegiornate. Alcuni conoscono già la Sardegna e sono sardi o inse-gnano o hanno insegnato in Sardegna; per loro Cagliari e la no-

stra isola non sono una novità. Ma ce n’è uno che viene da moltolontano, Mario Mignucci, che è professore ordinario in una sedeprestigiosa, il King’s College di Londra. Egli ci onora con la suapresenza e io lo ringrazio molto anche a nome dei miei colleghi edei nostri studenti. Essi, ritornando a casa, potranno dire di aversentito una lezione in diretta dal King’s College, che non è cosada poco. Il prof. Mignucci affronterà un tema molto importante emolto complesso: “Hegel e la logica aristotelica”. Ricordo che la

logica fu uno dei temi principali toccati da Hegel e uno degli sfor-zi più complessi che egli fece nella sua vita di filosofo. La logicafu veramente il cuore del suo sistema, e quindi ascolterò il prof.Mignucci con vivo interesse.

Rivolgo il benvenuto mio e della Facoltà di Lettere sia alpubblico che ai docenti, augurandovi un piacevole soggiorno. C’èstata una piccola capatina di sole; speriamo che continui e sia unsegno benaugurante per il lavoro di queste giornate.

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23Indirizzi di saluto

MARIA TERESA MARCIALIS

DIRETTORE DELL’ISTITUTO DI FILOSOFIA DELLA FACOLTÀ DI LETTERE

PRESIDENTE DELLA SEZIONE CAGLIARITANA DELLA S.F.I.

Rivolgo anch’io il mio benvenuto e un caloroso augurio di buon lavoro ai partecipanti al Convegno.

È la seconda volta che mi trovo a presentare un Convegnosu Hegel, questa volta su “Hegel interprete di Aristotele”. Il mioAristotele non è l’Aristotele hegeliano; il mio Aristotele è l’Aristo-

tele dei libertini, l’Aristotele di Giulio Cesare Vanini, l’Aristotelepanteista e spinoziano di Bayle, o anche quello empirista dellatradizione francese della Académie Royale des Sciences: è proprioun Aristotele quindi che non piaceva a Hegel. D’altra parte è unodegli Aristoteli che attraversano la storia della filosofia. Lo stessoHegel, nelle Lezioni sulla storia della filosofia , riconosceva la presen-za nella storia di almeno sei Aristoteli: l ’Aristotele “storico”, il“vero” Aristotele, anche se è molto difficile stabilire quale sia la

vera e autentica filosofia aristotelica; l’Aristotele ciceroniano;l’Aristotele neoplatonico; l’Aristotele scolastico, che Hegel nonamava; l’Aristotele rinascimentale; e infine un Aristotele più mo-derno, quello delle “strampalate interpretazioni” di Tennemann.A queste sei interpretazioni cui Hegel faceva riferimento, potrem-mo oggi aggiungerne molte altre: da quella di Heidegger, di cui siparlerà qui al Convegno, fino a quelle relative al neoaristoteli-smo, a quella di Riedel o a quella di MacIntyre. E potremmo ag-giungere anche quella di Hegel, che è evidentemente una inter-

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24 HEGEL E ARISTOTELE

pretazione molto particolare, e, se vogliamo usare questo termi-

ne, molto compromessa teoreticamente. L’Aristotele di Hegel se-gna certo un progresso rispetto all’Aristotele “platonico”; è peròl’Aristotele del concetto, della determinatezza delle cose colte nel-la loro individualità e non nei loro nessi, e soprattutto viste indi-pendentemente da qualunque unità sintetica.

Sono molto lontani i tempi della polemica antiidealistica, quelliin cui la Introduzione alle Lezioni sulla storia della filosofia e le stesse

Lezioni venivano considerate come un obiettivo polemico principe.Sono lontani i tempi in cui Franco Lombardi parlava della storiadella filosofia hegeliana come di una teoria di “salmodianti begrif-fi”. Ora l’atteggiamento è più pacato, non si utilizzano più formulecosì pittoresche ed efficaci come quella di Franco Lombardi; è purvero tuttavia che l’interpretazione hegeliana è fortemente connota-ta teoreticamente, e questo rende problematica l’impostazione sto-riografica hegeliana. D’altra parte è proprio questa compromissio-

ne (assumendo questo termine senza nessuna carica valutativa) te-oretica di Hegel a rendere suggestive le sue letture aristoteliche.‘Suggestivo’ è un termine molto estetico e poco filosofico;

esso però mette in evidenza certamente la ricchezza e la comples-sità del rapporto effettivo che si è istituito tra Hegel e Aristotele,

un rapporto tale per cui Hegel si accosta ad Aristotele quasi comead un contemporaneo, cioè come a un filosofo “aperto” del qualesi può ancora utilizzare la lezione e il cui apporto è ancora estre-

mamente importante. È proprio questa sorta di dibattito per cosìdire intemporale tra Hegel e Aristotele a rendere significativa eimportante la visione hegeliana di Aristotele, sia pure con tutti ilimiti storiografici di cui prima parlavamo, tanto nelle Lezioni sul-

la storia della filosofia quanto nel corso di tutto il suo pensiero.Di questi tre livelli dell’approccio di Hegel ad Aristotele: il

livello interpretativo, il livello teso a individuare l’apporto cheAristotele può aver dato alla filosofia hegeliana, e il livello, piùspecificatamente teoretico, che tiene conto del dialogo, del dibat-

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25Indirizzi di saluto

tito che si è stabilito tra Hegel e Aristotele, abbiamo nel program-

ma del Convegno delle significative testimonianze. Si parlerà in-fatti dell’idea aristotelica della natura nell’interpretazione hege-liana, si parlerà delle dottrine dell’atto puro e del pensiero di pen-siero nell’interpretazione di Hegel, ma si terrà anche conto del-l’apporto di Aristotele al problema dell’intero in Hegel, e dell’inci-denza del pensiero dello Stagirita nella formazione culturale delgiovane Hegel. Mi pare che proprio questi diversi livelli di lettura

non possano che costituire un elemento di grande interesse perquesto Convegno.

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RELAZIONI

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MARIO MIGNUCCI

L’INTERPRETAZIONE HEGELIANA

DELLA LOGICA DI ARISTOTELE

I

Esaminare l’interpretazione che Hegel dà della logica diAristotele non è facile, non solo perché il tema è difficile e richie-derebbe acume e competenze che probabilmente mi mancano, maanche per motivi, diciamo così, oggettivi. Se leggiamo le pochepagine che Hegel dedica alla logica di Aristotele nelle Vorlesungen

über die Geschichte der Philosophie (1) possiamo notare immediata-mente come egli non si diffonda molto sui dettagli della teoriaaristotelica e faccia piuttosto prevalere una valutazione comples-siva di essa. È vero che egli analizza partitamente le singole opereche compongono l’ Organon , ma, a parte alcune pagine riservatealle Categorie , poco o nulla è detto degli Analitici , l’opera che inve-ce oggigiorno attira di più l’interesse degli storici della logica, e lacomplicata costruzione dei Topici è liquidata con poche battute.

(1) Com’è ben noto, delle Vorlesungen esistono due edizioni curate daMichelet. La prima edizione è quella che ritroviamo nell’edizione delle opere diHegel curata da H. GLOCKNER (Sämtliche Werke , Stuttgart-Bad Cannstatt: From-mann, 19654, XVIII 1 e 2 [Il volume 2 = VGPh1] e i quaderni che ne costituiscono lafonte sono stati recentemente ripubblicati nell’edizione curata da W. Jaeschke e P.Garniron (Frankfurt: Meiner, 1991). La seconda edizione è quella ripubblicata daBolland (G.W.F. HEGEL,Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie , ed. by G.J.P.J.BOLLAND, Leiden: A.H. Adriani, 1908, pp. 522, 532 [=WGPh2] e su questa è basata la

traduzione italiana (G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia

 ,trad. a cura di E.CODIGNOLA e G. SANNA, 4 voll., 19812 (il secondo volume =LSF).

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30 HEGEL E ARISTOTELE

Considereremo in seguito il giudizio complessivo di Hegel.

Per il momento conviene soffermarsi su un’osservazione metodo-logica preliminare che può essere utile per organizzare la nostraricerca e, al tempo stesso, per apprezzare meglio il punto di vistadi Hegel. È chiaro che una valutazione globale della logica di Ari-stotele coinvolge una presa di posizione sulla nozione generale dilogica. Non possiamo dire quale sia il posto che la logica occupanella filosofia aristotelica, né cercare di determinare con ragione-

vole approssimazione quale sia il suo peso speculativo senza averprima chiarito che cosa si debba intendere per logica. Più esatta-mente l’obiettività storica richiede che si debba evidenziare checosa Aristotele intende per logica. Il compito che questa osserva-zione metodologica ci pone di fronte è dunque quello di esamina-re la nozione aristotelica di logica.

II

Il progetto di indagine è chiaro e semplice, ma non è altret-tanto chiaro e semplice indicare come si debba realizzare. In effet-ti non appena ci accostiamo agli scritti aristotelici ci troviamo inuna curiosa situazione. Aristotele, da un lato, sembra consapevo-le della dimensione profondamente innovativa che le sue ricerchelogiche hanno rispetto alla tradizione filosofica precedente. Unpasso famoso alla fine degli Elenchi Sofistici lo testimonia:

(A) Per quanto riguarda la retorica c’era molto che esisteva da tempo,

mentre per quel che riguarda l’inferenza (peri; de; tou` sullogivzesqai) nonavevamo assolutamente nient’altro cui fare riferimento se non al fatto cheabbiamo passato lungo tempo in logoranti ricerche (2).

(2) SE 34, 184a8- b3: kai; peri; me;n tw`n rJhtorikw`n uJphrce polla; kai; palaia; ta;

legovmena, peri; de; tou§ sullogivzesqai pantelw§~ oujde;n ei[comen provteron levgein h]

tribh§/ zhtou§nte~ polu;n cro;non ejponou§men. Dato il significato di ‘tribh§/’ un’altra tra-

duzione potrebbe essere:“abbiamo passato lungo tempo in ricerche pratiche

,sulcampo”.

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31M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

Qui di sicuro l’espressione ‘peri; de; tou` sullogivzesqai’ si ri-

ferisce non ai sillogismi, ma in generale alle inferenze, secondoun uso ben documentato di ‘sullogismov~’ e ‘sullogivzesqai’ (3).Aristotele è dunque pienamente cosciente del fatto che egli ha in-trodotto una teoria dell’inferenza o della deduzione che primanon c’era. Se pensiamo che una dottrina dell’inferenza è una parteimportante, se non addirittura fondamentale, della logica, possia-mo concludere che egli si rendeva conto di aver posto le basi di

una nuova disciplina filosofica.Da un lato dunque abbiamo la consapevolezza di Aristoteledi battere una strada nuova e di tracciare un nuovo indirizzo diricerca. Dall’altro, curiosamente, non troviamo nessuna teorizza-zione da parte dello Stagirita della logica come scienza. Per esem-pio in Metaph. E 1, dove la diavnoia , il pensiero, è diviso in pratico,

produttivo e teorico (4), le scienze teoretiche, dove appunto ci siaspetterebbe di veder collocata la logica, sono divise a loro volta

in matematica, fisica e teologia e nessuna menzione è fatta delladisciplina che ci sta a cuore (5). Dunque la logica non entra nellaclassificazione aristotelica delle scienze.

È dubbio che Aristotele avesse addirittura un nome per ladisciplina di cui si proclama, in un certo senso a buon diritto, l’in-ventore. Sarebbe un errore tradurre l’aggettivo ‘logikov~’ con ‘logi-co ’. In espressioni come ‘logiko;~ lovgo~’ (6) o anche ‘logikov~

sullogismov~’, quest’ultimo opposto talvolta ad ajpovdeixi~, dimo-

(3) Cfr. ad es. APr. I 23, 40 b20. Jonathan Barnes (Proof and the Syllogism , inAristotle on Science. The “ Posterior Analytics” . Proceeding of the Eight SymposiumAristotelicum held in Padua from September 7 to 15 , 1978 , a cura di E. BERTI, Padova:Antenore, 1981, pp. 17-59) è arrivato addirittura a sostenere che ‘sullogismov~’ e‘oullogivzesqai’ in Aristotele non hanno mai il significato di ‘sillogismo ’ e‘sillogizzare’. Ma forse quest’ipotesi è un po’ troppo audace.

(4) Metaph. E 1, 1025 b25. Cfr. anche Top. VI 6, 145a15-16; VIII 1, 157a10-11.

(5) Metaph. E 1, 1026a18-19.

(6) Top. VIII 12, 162 b2.

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32 HEGEL E ARISTOTELE

strazione (7), ‘logikov~’ significa ‘dialettico’, dove ‘dialettico’,

‘dialektikov~’, in Aristotele non ha certamente lo stesso significatoche assumerà presso gli Stoici, quando divideranno la filosofia indialettica, la logica appunto, fisica ed etica (8). Per Aristotele ladialettica non coincide con la logica, essendo piuttosto lo studiodi certi tipi particolari di argomentazioni contraddistinte dal fattoche le loro premesse sono e[ndoxa, opinioni accettate. In questosenso le inferenze dialettiche per Aristotele sono un tipo partico-

lare di inferenze,

quelle appunto che procedono sulla base di untipo particolare di premesse (9). Per costruire un’inferenza, po-tremmo dire un’inferenza logica, è sufficiente che le premesse ab-

 biano alcuni requisiti formali, siano cioè universali o particolari eaffermative o negative; per ottenere un’inferenza dialettica dob-

 biamo poter disporre di premesse che, oltre ai requisiti formali,soddisfino al requisito di essere e[ndoxa, accettate dal pubblico difronte al quale l’argomentazione è svolta (10).

Un altro candidato per esprimere l’ambito entro il quale sisvolge quella che oggigiorno non esiteremmo a chiamare una ri-cerca logica potrebbe apparire ‘ajnalutikov~’. Dovrebbe tuttavia es-sere subito chiaro che quest’ipotesi non può dipendere dal fattoche ‘ jAnalutikav’ è il titolo dato all’opera logica maggiore di Ari-stotele. Com’è ben noto, i titoli tradizionali degli scritti aristotelicisono stati aggiunti dopo, anche se quello di ‘Ta; ajnalutikav’ dovet-te essere assegnato abbastanza presto, come è provato dal fatto

che compare nella lista degli scritti aristotelici trasmessa da Dio-

(7) Cfr. p. es. APo. II 8, 93a14-15.

(8) Cfr. ad es. FDS 15 (=SVF II 35). Anche nel passo di Top. I 14, 105 b19-25,

dove si parla di ‘protavsei~ logikaiv’, opposte a quelle ϕusikaiv ed a quelle ejqikaiv,

e dove ‘logikov~’ non può essere certamente reso con ‘dialettico’, il termine nonsignifica ‘logico’, ma piuttosto ‘generale’. Ne fa fede l’esempio di premessa “logi-ca” citata da Aristotele: se sia unica la scienza dei contrari.

(9) Cfr. Top. I 1, 100a25-30.

(10) APr. I 1, 24a16 ss. (v. testo (C)).

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33M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

gene Laerzio, che, secondo alcuni studiosi, risale addirittura ad

Aristone, lo scolarca del Liceo vissuto nell’ultimo quarto del terzosecolo a.C. (11). Né è d’altro canto probante il fatto che talvolta tro-viamo riferimenti a passi contenuti negli Analitici con espressionidel tipo di: w{sper ejn toi`~ jAnalutikoi`~ levgetai (12). L’affidabilitàdei rinvii interni alle varie opere del Corpus Aristotelicum è contro-versa, dato che non è del tutto chiaro come e quando esso si siacostituito nella forma che ci è oggi nota, per cui non si può facil-

mente considerare destituito di fondamento il sospetto che essi sia-no il risultato dell’attività editoriale di Andronico di Rodi, testi-moniata da Porfirio (13).

Piuttosto sono passi come il seguente che potrebbero indur-re a pensare che ‘ajnalutikov~’ sia talvolta equivalente a ‘logico’:

(B) Come abbiamo già avuto occasione di dire, è evidente che la retorica èuna combinazione della scienza analitica (th~ ajnalutikh`~ ejpisthvmh~) e diquella riguardante i costumi ed è simile per un verso alla dialettica (th/`

dialektikh/  ) e per un verso alle argomentazioni sofistiche (toi~ sofistikoi~

lovgoi~) (14).

Si potrebbe essere tentati di distinguere la dialettica di cui sifa menzione qui dalla ajnalutikh; ejpisthvmh e identificare quest’ulti-ma con la logica. Tuttavia quest’ipotesi di lettura sembra messa indubbio dal rimando a 1356a25-27, dove la stessa idea è ripetutasenza però che ci sia alcuna distinzione fra ajnalutikh; ejpisthvmh e

(11) Cf. D.L. V 22 (nr. 49 e 50 nella lista di Rose). Su tutta la questione cfr.P. MORAUX, Les listes anciennes des ouvrages d ’ Aristote , Louvain: Éditionsuniversitaires de Louvain, 1951, pp. 87-88; 237-247.

(12) Int. 10 , 19 b31. Cfr. anche H. BONITZ, Index Aristotelicus ,  Graz:Akademische Druk- u. Verlagsanstalt, 19552, 102a30-40.

(13) PORPH.,Vita Plotini 24.6-11.

(14

) Rh. I 4,

1359 b

8-12. Seguo Kassel nell’espungere politikh§~

,un

’evidenteglossa.

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34 HEGEL E ARISTOTELE

dialektikhv, talché diviene plausibile supporre che le due espres-

sioni siano usate come sinonimi (15).La conclusione è dunque che Aristotele non ha nemmeno la

parola per indicare la disciplina da lui fondata, la logica. Comepossiamo allora pretendere di enucleare la sua nozione di logica?La risposta potrebbe essere la seguente. È vero che in Aristotelenon c’è una teoria della logica. Tuttavia egli espone alcune dottri-ne logiche. Esaminiamole e cerchiamo di evidenziare la nozione

di logica che egli usa,

se non teorizza. In altri termini,

consideria-mo l’ Organon , il corpus delle opere logiche di Aristotele, e dal tipodi teorie in esso contenute cerchiamo di ricavare quale fosse lasua idea di logica.

Il progetto è buono solo in apparenza. Un’elementare rifles-sione ci fa subito avvertiti che il nostro punto di partenza è pre-giudicato. Com’è ben noto, il complesso delle cosiddette opere lo-giche di Aristotele è una costruzione tarda, non certamente volu-

ta dal suo autore. Lo stesso nome di ‘  [Organon ’ che le è stato attri- buito rispecchia un’idea di logica che troviamo presente nei com-mentatori di Aristotele a partire da Alessandro, ma di cui non v’ètraccia nel maestro. Essi riportano la polemica peripatetica controgli Stoici: la logica non è parte della filosofia, come volevano que-sti ultimi, ma appunto o[rganon, strumento della filosofia, che vie-ne prima di questa e ne è un’introduzione, senza tuttavia poterneessere una parte (16). Come non credere che il nome dato agli

scritti aristotelici non sia il riflesso di una tale presa di posizioneteorica della quale non c’è menzione in Aristotele?

La stessa composizione della silloge tradisce un intento si-stematico che non abbiamo motivo di credere sia aristotelico. Siincomincia con le Categorie ,  intese come un trattato sui termini,

(15) Rh. I 2, 1356 b25-27.

(16

) Cfr. ALEX

., in APr. 1.9 ss.

; PS

-AMM

., in APr. 6.19 ss.

;P

HLP

.,

in APr. 8.20ss.

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35M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

per passare al De interpretatione , un’analisi delle proposizioni, per

giungere agli Analitici Primi , una teoria dell’inferenza, di cui Ana-

litici secondi e Topici (con il corollario degli Elenchi sofistici) costitui-scono due possibili applicazioni, rispettivamente nel campo dellascienza e della dialettica. Abbiamo dunque un andamento dalsemplice al complesso (termini, proposizioni, inferenze) e dal-l’astratto al concreto (sillogismi, dimostrazioni, argomentazionidialettiche). Di una simile sistemazione non c’è evidentemente

traccia in Aristotele,

né si trova in lui indicazione dei suoi presup-posti teorici.Insomma dovrebbe essere chiaro che il confezionamento

dell’Organon corrisponde nel nome e nel contenuto ad una benprecisa idea di logica che non è di Aristotele e che, se fosse cam-

 biata, darebbe adito ad un diverso raggruppamento degli scritti.In effetti se il lavoro di editore delle opere logiche di Aristotelenon fosse spettato a Andronico di Rodi (o a chi per lui), ma per

esempio ad un logico moderno, nella raccolta tradizionale sicura-mente non avremmo trovato un’opera come gli Analitici secondi ,

un trattato che oggi preferiremmo classificare come teoria dellascienza, e forse nemmeno gran parte delle Categorie. Il fatto chequeste opere siano incluse nell’Organon prova forse che Aristoteleaveva un’idea di logica diversa da quella degli autori moderni?Sicuramente no. Tutto quello che possiamo ricavare da questeconsiderazioni è che coloro i quali hanno organizzato l’ Organon

avevano un’idea di logica diversa da quella attuale. Ma con ciò laposizione di Aristotele resta sempre avvolta nel mistero.

III

L’oscurità in cui ci muoviamo circa la nozione aristotelica dilogica condiziona e relativizza il senso dell’indagine storica inmodo rilevante. Mi sia consentito fare un esempio. Si è a lungo

discusso di quando cominci la logica e le opinioni sono natural-

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36 HEGEL E ARISTOTELE

mente divise. Non è un caso che la famosa Geschichte der Logik im

Abendlande di Carl Prantl cominci con gli Eleati e che quella piùrecente di Guido Calogero addirittura con Talete (17). Ma si po-trebbe anche sostenere che la logica greca inizia con Aristotele,

qualora si accettassero i seguenti punti teorici:

(i) Bisognerebbe innanzitutto distinguere l’uso dalla teorialogica. Altro è usare della logica, per esempio argomentare corret-tamente, ed altro è teorizzare la correttezza di un’argomentazio-

ne. È più o meno la differenza che passa fra parlare grammatical-mente, usare bene la grammatica, e teorizzare le regole che con-sentono di dire che un certo uso linguistico è grammaticalmentecorretto.

(ii) In secondo luogo dovremmo ammettere che il compitodella teoria logica è quello di fornire indicazioni e criteri formaliper distinguere le inferenze corrette da quelle scorrette.

(iii) Infine dovremmo accettare che la correttezza o meno diun’inferenza non dipende dai suoi contenuti, da quello di cui l’in-ferenza parla, ma da certe caratteristiche (chiamiamole formali)delle proposizioni che le costituiscono e dal modo in cui tali ca-ratteristiche sono intese e definite.

Di questi tre punti quello che a me sembra più problematicoè il secondo. Il primo mi sembra ovvio. Del resto la sua incontro-

(17) C. PRANTL, Geschichte der Logik im Abendlande , 3 voll., Leipzig: GustavFock , 19272; Cfr. G. CALOGERO, Storia della logica antica. I: L’ età arcaica , Roma-Bari:Laterza, 1967. La posizione di quest’ultimo è ben espressa dal seguente passotratto dall’Introduzione del suo lavoro: “Storia della logica antica è quindi nonpiù, soltanto, la storia della sillogistica e dei suoi precedenti e susseguenti (né inquello, più proprio, dell’autentica apodittica classica, né in quello, meno pro-prio, dell’odierna logica simbolica), bensí storia di tutti quei problemi attraverso cuisi vennero man mano sviluppando le molteplici concezioni greche della forma intelligibi-le del reale, e dai quali sorsero, tra le altre, in situazioni storiche ben determinate

e limitate,

anche le varie dottrine costituenti la logica aristotelica”

(p. 7;

il corsi-vo è mio).

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37M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

vertibilità appare palese non appena si costruiscano indagini sto-

riche che non lo rispettano. Mi sia consentito ricordare che Ritternon moltissimi anni fa aveva preteso di dimostrare che tutta lasillogistica di Aristotele era già in Platone, dato che nei dialoghidi quest’ultimo si trovano usati più o meno tutti i sillogismi teo-rizzati dal primo (18). Altrettanto chiaro mi sembra l’ultimo punto:la correttezza di un’inferenza non può dipendere dal suo conte-nuto, altrimenti il logico, nella misura in cui tende a tracciare una

linea di demarcazione fra inferenze corrette e scorrette,

dovrebbeessere onnisciente, dato che le inferenze possono essere applicatea qualunque contenuto.

Il punto delicato è il secondo, quello nel quale si demarcal’ambito della logica. Infatti dire che il compito precipuo del logi-co è quello di distinguere le inferenze corrette da quelle scorrettesignifica in sostanza ridurre la logica a teoria dell’inferenza e ciònon è banale. Se ci mettiamo in questa prospettiva, possiamo fa-

cilmente mostrare che la prima teoria dell’inferenza a noi perve-nuta è quella di Aristotele e che egli aveva ragione nel considerar-si il creatore di una nuova disciplina. In effetti né in Platone, népresso i Sofisti né presso i Megarici, a quello che ci è dato di sape-re, possiamo trovare una teoria generale dell’inferenza basata sul-le proprietà formali delle proposizioni. È con Aristotele, a quelche ci consta, che quest’idea si affaccia chiaramente. Per renderse-ne conto basta leggere l’inizio degli Analitici primi , il trattato che

contiene la sua teoria del sillogismo, ossia appunto dell’inferenza.Qui Aristotele distingue le premesse delle dimostrazioni da quel-le dialettiche e da quelle sillogistiche. Il passo è il seguente:

(C) La premessa dimostrativa (hJ ajpodeiktikh; provtasi~) differisce da quel-la dialettica (th`~ dialektikh`~), perché quella dimostrativa consiste nell’as-sunzione di uno dei due membri di una contraddizione (infatti chi dimo-

(18) C. RITTER, Platons Logik , “Philologus”, 75 (1919), pp. 1-67; 304-22.

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38 HEGEL E ARISTOTELE

stra non domanda, ma assume), mentre la premessa dialettica consiste

nella domanda circa una contraddizione. Ciò non comporta alcuna diffe-renza per l’effettuazione dell’inferenza relativa a ciascuno dei due casi.Infatti tanto chi dimostra quanto chi domanda produce un’inferenza as-sumendo che un termine appartiene o non appartiene ad un altro termi-ne. Di conseguenza la premessa inferenziale (sullogistikh; me;n provtasi~)sarà semplicemente l’affermazione o la negazione di un termine rispettoad un altro termine nel modo detto e sarà dimostrativa, qualora sia vera eassunta in virtù delle presupposizioni iniziali, mentre per chi interroga lapremessa dialettica sarà la domanda circa una contraddizione e per chiinferisce sarà l’assunzione di ciò che appare ed è nell’opinione comune,

come è detto nei Topici (19).

Per capire la differenza fra premesse dimostrative e premes-se dialettiche è necessario por mente al diverso contesto e alle di-verse finalità cui i due tipi di premesse fanno riferimento. Le pre-messe dimostrative sono le premesse delle argomentazioni scien-tifiche e la scienza ha di mira l’acquisizione di informazioni certe

sul mondo. Non c’è quindi da stupirsi che Aristotele richieda perle premesse dimostrative la condizione che siano vere: solo a par-

tire da proposizioni vere abbiamo la sicurezza di derivare propo-sizioni vere.

Diversa è la situazione delle premesse dialettiche. Qui loscopo non è quello di ottenere conoscenze certe e sicure sul mon-do , ma di raggiungere il successo nella discussione con uninterlocutore. La situazione tipica che Aristotele ha in mente è la

seguente: due interlocutori X e Y si propongono uno di difenderela tesi T e l’altro di attaccarla. Supponiamo che X sia l’attaccante eY il difensore. Lo scopo di X sarà quello di mostrare che l’accetta-zione di T da parte di Y comporta la negazione di altre assunzioniche Y condivide con X e che normalmente fanno parte delbackground di credenze ammesse dalla comunità di cui X e Y fan-no parte. In questo senso infatti tali premesse sono dette da Ari-

(19) Cfr. APr. I 1, 24a23-24 b1.

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39M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

stotele e[ndoxa. Perciò il primo compito di X nel suo tentativo di

distruggere T sarà quello di delimitare il campo delle assunzionirilevanti ammesse da Y in modo da poterle sfruttare per la suaconfutazione. Viceversa, se le parti sono invertite ed è Y che devedifendere T rispetto a X, allora egli dovrà mostrare che T è unaconseguenza delle credenze ammesse da X e da lui condivise conla comunità cui entrambi appartengono. Ciò spiega perché Ari-stotele dice che la premessa dialettica è, ad un tempo, una do-

manda circa un’

alternativa contraddittoria e l’

assunzione di unadelle due parti della contraddizione. È una domanda del tipo di:“è cosí o non cosí?”, dato che una proposizione, per poter entrarenel gioco della confutazione o della difesa, deve essere prelimi-narmente accettata dall’interlocutore. È l’assunzione di una delledue parti della contraddizione, perché dopo essere stata accettatadall’avversario diviene punto di partenza di un’inferenza.

Ma quello che interessa soprattutto sottolineare è che Ari-

stotele contrappone alle premesse dimostrative e dialettiche lepremesse sillogistiche dicendo che per queste ultime non bisognarichiedere né che siano vere né che siano accettate dall’interlocu-tore. Egli aggiunge che per svolgere la loro funzione nelle inferen-ze è sufficiente che abbiano forma affermativa o negativa o, piùesattamente, siano proposizioni universali o particolari, afferma-tive o negative del tipo di quelle che egli ha descritto immediata-mente prima (20). Non ci interessa analizzare ora le implicazioni

di questa presa di posizione aristotelica riguardo al tipo di propo-sizioni che sono chiamate a far parte delle inferenze. Preme piut-tosto sottolineare che le premesse sillogistiche, a differenza diquel che avviene per quelle dimostrative e dialettiche, non entra-no in una deduzione perché siano vere o accettate, ma per il loroessere affermative o negative (o universali o particolari). A deter-minare un’inferenza non giocano quindi un ruolo i contenuti del-

(20) Cfr. APr. I 1, 24a16-22.

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40 HEGEL E ARISTOTELE

le premesse, ma la loro struttura formale. Questo è dunque l’atto

di nascita della logica o, per essere più precisi, di quella logica lacui idea è descritta dai punti teorici (i)-(iii) esposti sopra.

IV

Forti di queste considerazioni torniamo ad Hegel ed al suogiudizio sulla logica di Aristotele. In che cosa consiste tale giudi-zio? Anzitutto conviene ricordare quella che potremmo con un

po ’ di buona volontà considerare una descrizione in terminihegeliani del lavoro compiuto da Aristotele:

(D) Da Aristotele derivano le forme logiche cosí del concetto come delgiudizio e del sillogismo. Come nella storia naturale si prendono in con-siderazione i vari animali, per esempio il liocorno, il mammuth, gli inset-ti, i molluschi, ecc. e si descrive com’è fatto ciascuno di essi, cosí Aristote-le è in un certo modo il naturalista delle forme spirituali del pensiero; main questa deduzione di una forma dall ’altra, Aristotele si è limitato aesporre in modo determinato il pensiero nella sua applicazione finita, sic-ché la sua logica è una storia naturale del pensiero finito. Poiché essaconsiste nell’acquistar coscienza dell’attività astratta del puro intelletto,

non è la scienza di questo o di quel concreto , ma pura forma: questa co-scienza di fatto è mirabile, e ancor più mirabile è l’ampiezza con cui que-sta coscienza è stata esplicata: la logica aristotelica dunque è un’opera cheonora sommamente la profondità e la vigoria d ’astrazione del suo

scopritore (21).

In questo passo è chiaro l’intento laudatorio di Hegel. Ari-stotele è colui il quale ha indagato con profondità ed acutezza “leforme logiche del concetto, del giudizio e del sillogismo” e per ilsuo aver saputo distaccare l’analisi di queste forme logiche dallamateria, egli ha saputo “acquistare coscienza dell’attività astrattadel puro intelletto” e la scienza che egli ha teorizzato “non è lascienza di questo o quel concreto, ma pura forma”.

(21) LSF II p. 374. Cfr. VGPh2 pp. 522-523 (=VGPh1 p. 402).

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41M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

Tuttavia Aristotele è come il naturalista delle forme spirituali

del pensiero. Su questo paragone con il naturalista Hegel torna piùavanti con una pagina piuttosto divertente in cui si dice che Aristo-tele è sí un naturalista, ma per lo meno delle “svariate forme e deivari atteggiamenti” del pensiero:

(E) Per quanto arida e vuota ci possa sembrare l’enumerazione delle diver-se specie di giudizi e sillogismi e dei loro vari incrocicchiamenti , e perquanto neanche la possiamo ritenere buona a farci scoprire la verità, per lomeno però in suo confronto non si può dare il vanto di una maggiore eccel-lenza a un’altra scienza. Oggi, per esempio, passa per fatica meritoria losforzarsi di conoscere le innumerevoli moltitudini di animali, per esempiole centosessantasette specie di cuculi, o il sapere dove una di esse ha sullatesta un ciuffo formato in maniera diversa, o una nuova miserabile varietàdi una miserabile specie di muschio, che è niente più di una crosta, oppurenella entomologia scientifica si dà importanza a un insetto, a un verme, auna cimice, ecc.: orbene è molto più importante conoscere le varie specie di

movimenti del pensiero che non questi parassiti (22).

Dunque Aristotele è sí un naturalista, ma per lo meno ha ilmerito di occuparsi delle forme del pensiero e non di vermi, cimicie licheni, oggetti tanto apprezzati dai moderni scienziati. Ma per-ché un naturalista, sia pure nobilitato dalla materia di cui si occu-pa? Perché secondo Hegel l’indagine di Aristotele è un’indagineempirica non nel senso che essa si rivolga ad oggetti empirici (leforme del pensiero, ancorché finito, non sono empiriche), ma nelsenso che essa procede per enumerazione delle diverse forme sen-za collegarle in una struttura generale e unificante, la sola che pos-sa far divenire la logica conoscenza. Hegel è molto esplicito al ri-guardo:

(F) Sennonché a questo punto riappare, e in sommo grado, il difetto ditutta la maniera aristotelica — nonché di tutta la logica posteriore: nelpensiero e nel movimento del pensiero come pensiero i singoli momenti

(22) LSF II p. 383. Cfr. VGPh2 p. 529 (=VGPh1 p. 411).

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42 HEGEL E ARISTOTELE

cadono l’uno fuori dell’altro. Si hanno cioè innumerevoli specie di giudizi

e di sillogismi, ciascuna delle quali ha valore per sé, e ha verità in sé e persé, come tale (23).

La struttura unificante che Aristotele non ha descritto e acui allude qui Hegel quando dice che i momenti del pensiero “ca-dono l’uno fuori dell’altro” è quella struttura che Hegel tratteggiacon sobrietà e potenza nell’Enciclopedia , e precisamente nella terzasezione della logica, quella concernente la dottrina del concetto,

là dove mostra che dall’unità indifferenziata del concetto si passaattraverso il giudizio all’opposizione di soggetto e predicato, diindividuale e generale, per poi ritornare attraverso il sillogismo arecuperare l’unità del concetto e insieme la differenza delle deter-minazioni del giudizio (24).

Da questo punto di vista si capisce come Hegel possa con-trapporre il sillogismo aristotelico al “vero sillogismo raziona-le” (25). Il primo è puramente meccanico (26), nel senso che l’unità

fra soggetto e predicato data attraverso il medio è concepita inmodo del tutto estrinseco come pura relazione fra determinazionio concetti. Il secondo invece è parte della dinamica del pensiero,

nel senso che:

(G) Nel sillogismo razionale il fondamento del contenuto speculativo èdato dall’identità degli estremi, che combaciano l’uno con l’altro; per cuiil soggetto rappresentato nel termine medio è un certo contenuto , chenon si limita a unirsi con un altro, ma attraverso l’altro e con l’altro si

conclude con se stesso (27).

(23) LSF II p. 385. Cfr. VGPh2 pp. 530-531 (=VGPh1 pp. 412-413).

(24) Cfr. Enz. § 129.

(25) LSF II p. 386. Cfr. VGPh2 p. 531 (=VGPh1 p. 414): “EigentlicherVernuftsschluss”.

(26) In Enz. § 34 Hegel dice che la ricerca relativa alle figure sillogistiche èuna ricerca meccanica (eine bloß mechanische Untersuchung).

(27) LSF II p. 233. Cfr. VGPh2 pp. 523-524 (=VGPh1 p. 253).

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43M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

Insomma il “vero” sillogismo è quel raziocinio che pone

un’immediatezza non più ingenua e data, ma che è il risultato delsuperamento della mediazione.

Non posso dire che tutto quello che Hegel dice qui e che hocercato di riportare fedelmente mi sia perspicuo. Intravvedo peròcome due osservazioni che Hegel fa a proposito di Aristotele se-guano dalla sua posizione. Da un lato egli ribalta l’usuale rimpro-vero che veniva fatto alla logica aristotelica di essere formalistica

e astratta,

e quindi tale da essere vuota e opposta ad ogni conte-nuto. In realtà dal suo punto di vista la logica aristotelica non èsufficientemente formale. Essa è ancora troppo legata ai contenu-ti, proprio perché le sue parti non sono unificate in una strutturaunitaria, quella struttura che abbiamo cercato di descrivere sopra.

(H) Il peggio che se ne dica è che l’errore consista soltanto nel loro carat-tere formale [scil. delle forme logiche]: che tanto le leggi del pensierocome tale quanto le sue determinazioni, le categorie, siano o soltanto de-terminazioni nel giudizio o soltanto forme soggettive dell’intelletto, difronte alle quali la cosa in sé è ancora qualcos’altro... Il loro difetto nonconsiste nell’essere soltanto forme, ma anzi nel fatto che mancano di for-ma e sono troppo contenuto (28).

È abbastanza chiaro che Hegel non può accettare quellacontrapposizione astratto/concreto che gli veniva dalla tradizio-ne, quasi che le forme logiche fossero strutture che si applicano a

contenuti dati. La struttura deve essere tale da fondare il contenu-to e quelle messe in piedi da Aristotele non riescono a espletarequesto compito, proprio perché non connesse nella dinamica delpensiero.

Ma c’è un secondo punto nella posizione di Hegel che èpiuttosto interessante. Proprio perché non viste come parti del-l’intero le forme logiche analizzate da Aristotele non possono es-

(28) LSF II pp. 384 e 385. Cfr. VGPh2 pp. 530 e 531 (=VGPh1 pp. 412 e 413).

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44 HEGEL E ARISTOTELE

sere candidate ad essere giudicate vere o false. Vero è qualcosa

che spetta solo alle forme nella misura in cui sono parti dell’inte-ro. Prese in sé e per sé cosí come fa Aristotele esse possono esserevalutate solo in termini di esattezza.

(I) Come tutta la filosofia di Aristotele, cosí anche la sua logica ha bisognoessenzialmente d’essere rifusa, per modo che la serie delle sue determina-zioni vengano recate in un necessario complesso sistematico, non già uncomplesso sistematico che si limiti a ripartire ordinatamente, non dimenti-chi alcuna parte, ed esponga ogni parte nel suo ordine esatto; ma un siste-

ma che ne faccia un tutto vivo e organico, in cui ogni parte valga come par-te, e soltanto il tutto come tutto abbia verità (29).

In questo senso i sillogismi aristotelici sono esatti, ma a rigordi termini non possono essere detti veri, perché attraverso di essinon si attinge la realtà (30). Certo per capire queste parole equest’impostazione non si può certo ricorrere alla definizione diverità in termini di adaequatio intellectus et rei , che Hegel considera

“la consueta definizione di verità’’ (31). Bisogna piuttosto pensaread una concezione olistica della verità, quella concezione cheHegel espone con tanta forza quando dice che le forme logiche,

prese separatamente, non hanno verità, dato che solo la loro totali-tà costituisce la verità, essendo questa nient’altro che la realtà (32).

Se mi sono dilungato tanto a tratteggiare la valutazionehegeliana di Aristotele, benché essa sia largamente nota, è perchévorrei sottolineare che, nonostante le sue profonde differenze dalla

posizione aristotelica, essa mi pare sostanzialmente legittima, al-

(29) LSF II p. 387. Cfr. VGPh2 p. 532 (=VGPh1 p. 415).

(30) LSF II p. 384. Cfr. VGPh2 p. 530 (=VGPh1 p. 414).

(31) LSF II pp.. 310-311. Cfr. VGPh2 pp. 479-480 (=VGPh1 p. 333). V. ancheEnz. § 24 Z. 2.

(32) LSF II p. 385. Cfr. VGPh2 p. 531 (=VGPh1 p. 413). Sulla nozione

hegeliana di verità cfr. A. FERRARIN,

Hegel interprete di Aristotele ,

Pisa: ETS Editri-ce, 1990, pp. 201-207.

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45M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

meno in linea di principio. Se non troviamo nulla da ridire nell’ipo-

tesi consistente nel supporre che la logica di Aristotele sia una teo-ria dell’inferenza e nel derivare da ciò che essa costituisce l’iniziodella logica nel mondo occidentale, perché non dovremmo permet-tere una sua valutazione da un punto di vista differente? Certo laprospettiva hegeliana risulta a molti, fra i quali mi colloco, poco or-todossa e molto oscura. Tuttavia essa è una prospettiva che ha di-ritto di cittadinanza nella cultura filosofica e non si vede perché

non la si debba poter usare nel leggere Aristotele.Nell’esemplificazione fatta sopra a proposito del problemadel cominciamento della logica greca siamo partiti da un’assun-zione, dall’idea cioè che la logica per se stessa sia la teoria dell ’in-ferenza. Abbiamo poi cercato di mostrare, con l’aiuto di alcuniprincipi ausiliari, che la logica di Aristotele è la prima teoria del-l’inferenza nel mondo greco e quindi abbiamo concluso che Ari-stotele è il primo logico occidentale. Se volessimo schematizzare

in modo analogo la strategia hegeliana potremmo procedere nelmodo seguente. Hegel assume che

(i*) La logica è la descrizione di forme del pensiero

Da ciò egli ricava che

(ii*) la logica aristotelica è la teoria di alcune forme finite del

pensiero.

L’assunzione (i*) corrisponde, come abbiamo detto, più omeno all’assunzione (ii) nella nostra prospettiva, nel senso che inentrambi i casi abbiamo a che fare con una presa di posizione teo-rica su che cosa sia la logica. E se (ii) è legittima, non si vede per-ché non debba esserlo anche (i*).

Naturalmente sono necessarie alcune precisazioni. A primavista la posizione teorica di Hegel corrisponde a quella della tra-

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46 HEGEL E ARISTOTELE

dizione che lo precede, secondo la quale la logica consisterebbe

nello studio delle leggi del pensiero. Questa concezione della lo-gica, che da Frege in poi è stata battezzata come  psicologistica (33),non ha niente a che vedere con quella hegeliana, anche se la for-mulazione è apparentemente la stessa. Infatti il pensiero di cuiparla Hegel non è il pensiero umano e le leggi del pensiero diHegel non sono certo le forme secondo cui il pensiero umanopensa il mondo. Da questo punto di vista le usuali critiche che

vengono rivolte allo psicologismo logico non si applicano a Hegel.Non ha senso obiettare ad Hegel che il sillogismo non descrive ilmodo in cui la mente umana compie deduzioni o che i principilogici non sono le forme in cui la mente umana pensa la realtà.Anche il principio di non contraddizione, che pure secondo Ari-stotele non è soltanto un principio logico, ma anche epistemologi-co (34), non svolge il ruolo di esprimere un modo di funzionamen-to della mente. Dal fatto che una proposizione e la sua negazione

non possono essere insieme vere non segue che non si possa pen-sare una contraddizione e che talvolta non si mettano in atto con-traddizioni o che le nostre credenze non possano risultare con-traddittorie. Quello che Aristotele sostiene è soltanto che una con-traddizione riconosciuta come tale non può essere seriamente ri-tenuta vera.

In effetti la posizione di Hegel è compatibile, almeno entrocerti limiti, con l’idea che i sillogismi, per esempio, non siano al-

tro che strutture di controllo delle deduzioni che vengono com-piute in altre forme ed altri modi all ’interno delle diverse scienze.

(33) G. FREGE, Grundgesetze der Arithmetik , 2 voll., Darmstadt: Wissenschaf-tliche Buchgesellschaft, 19622, I, p. XIV ss.

(34) Cfr. Metaph. G 3, 1005 b19-34. Il passo contiene la ben nota prova dellatesi per cui il PNC è il principio più sicuro di tutti. Per l ’interpretazione di que-sto complicato testo v. J. BARNES,  The Law of Contradiction ,  “The Philosophical

Quarterly”,

19 (1969),

pp. 302-309 e M. MIGNUCCI,

Consistency and Contradiction inAristotle (in corso di stampa).

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47M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

Per dirla in un modo diverso, i sillogismi non sarebbero i modi in

cui l’effettivo procedere deduttivo delle scienze si articola, ma imodi con cui si può controllare se il suo procedere è corretto. Que-sta interpretazione emerge dall’impostazione generale della teoriadella deduzione di Aristotele. Egli innanzitutto pone i quattromodi della prima figura,  Barbara , Celarent , Darii , Ferio ,  come isillogismi perfetti, ossia quei modi che sono di per sé evidenti nellaloro validità (35). A questi quattro modi possono essere ridotti tutti i

modi della seconda e terza figura,

nel senso che questi sonoderivabili da quelli. Quindi se quelli sono validi, lo sono anchequesti. Infine Aristotele cerca di provare che tutte le altre possibilideduzioni, se sono corrette, sono riducibili a sillogismi. La tesi è

 ben sintetizzata dal seguente passo degli Analitici Primi:

(J) Che i sillogismi in queste figure siano resi perfetti grazie ai sillogismiuniversali della prima figura e che si riducano ad essi è chiaro dalle coseche abbiamo detto. Che in generale ogni sillogismo si comporti cosí sarà

ora chiaro quando si provi che ciascuno si produce grazie a qualcuna diqueste figure. (36).

Non ci interessa in questa sede né seguire nel dettaglio l ’ar-gomentazione di Aristotele né rilevare che la sua tesi è palese-mente falsa. Già nel secolo scorso De Morgan aveva osservato cheuna semplice inferenza come la seguente

ogni cavallo è un animale

ogni testa di cavallo è una testa di animalenon ha alcuna speranza di trovare una giustificazione all’internodella sillogistica di Aristotele. Quello che conta sottolineare è che

(35) Per quest’interpretazione della perfezione sillogistica in termini dievidenza cfr. G. PATZIG,  Die Aristotelische Syllogistik. Logisch-philologischeUntersuchungen über das Buch A der “ Ersten Analytiken”, Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 19693, pp. 51 ss.

(36) Cfr. APr. I, 23, 40 b17-22.

(1) _________________________________________

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48 HEGEL E ARISTOTELE

Aristotele credeva di poter ricondurre qualunque argomentazione

formalmente corretta ad uno degli schemi sillogistici. Questi quin-di sembrano assumere il ruolo di punto di riferimento nei confrontidella correttezza degli argomenti informali: se questi sono corretti,allora sono riducibili e, naturalmente, se non sono riducibili, nonsono corretti. In questo senso i sillogismi non descrivono il modoin cui di solito si argomenta, ma il modo in cui può essere control-lata la correttezza di un argomento naturale.

Se assumiamo che questo sia il punto di vista di Aristotele,

possiamo valutare un altro aspetto dell’interpretazione hegelianadella sua logica in termini forse un po’ meno positivi di quanto nonsia stato fatto per il suo approccio generale. Come si è visto, Hegelgiudica la logica di Aristotele una teoria che descrive le forme delpensiero finito:

(K) Aristotele adunque è il fondatore della logica intellettualistica, le cuiforme concernono soltanto i rapporti reciproci del finito, né possono co-

gliere la verità. Tuttavia va osservato che la filosofia di Aristotele non sifonda minimamente su questo rapporto intellettuale; non si deve dunquecredere che queste siano le forme di sillogismo mediante le quali ha pen-sato. Se egli le avesse seguite, non sarebbe quel filosofo speculativo chein lui abbiamo riconosciuto; non avrebbe potuto formulare nessuna dellesue dottrine, né fare alcun progresso, se si fosse attenuto alle forme diquesta logica consuetudinaria (37).

Dopo la lettura di questo passo qualcuno potrebbe forse pen-

sare che la nostra interpretazione della posizione hegeliana siatroppo generosa e che quest’ultima non sia affatto compatibile conla tesi secondo cui i sillogismi hanno soltanto una funzione di con-trollo nei confronti delle argomentazioni informali. Ma forse quiHegel vuole soltanto sottolineare il fatto, per altro rilevato da moltiinterpreti, che la filosofia aristotelica non è costruita sillogistica-

(37

) LSF II pp. 386-387. Cfr. VGPh

2

pp. 531-532 (=VGPh

1

p. 413). Un’osser-vazione analoga si trova anche in Enz. § 187.

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49M. MIGNUCCI - L’interpretazione hegeliana della logica di Aristotele

mente. Da questa osservazione egli ricava una conferma per la sua

posizione secondo cui la logica di Aristotele non è una logica spe-culativa, ossia tale da fornire una giustificazione delle movenze delpensiero infinito, ma soltanto una logica empirica. Inoltre il fatto dinon aver messo la sua logica al servizio della filosofia proverebbesecondo Hegel che Aristotele era entro certi limiti consapevole del-le inadempienze della sua teoria. Ciò è meno facile da accettare.Non è affatto detto che Aristotele ritenesse la sua teoria logica inca-

pace di dar conto dell’

andamento deduttivo della sua filosofia pri-ma. Anzi i passi che abbiamo menzionato sembrano provare il con-trario. Nella misura in cui la filosofia può essere sviluppata comeuna teoria deduttiva, il sillogismo dovrebbe essere in linea di prin-cipio in grado di esprimere la formalizzazione del suo procedere,

appunto perché ogni argomentazione corretta deve poter esseretradotta in sillogismi. Dal punto di vista di Aristotele sembra dun-que dipendere soltanto da una questione di fatto e non di principio

l’assenza di sillogismi nella sua filosofia. Cosí come, dopo aver pro-vato che un certo sistema logico è sufficientemente potente daesprimere la formalizzazione di una teoria matematica, non ha mol-to interesse procedere di fatto a tale formalizzazione, il sistema ari-stotelico non ha bisogno di confrontarsi in concreto con riduzio-ni in forma sillogistica delle argomentazioni filosofiche, dato cheAristotele ritiene di aver già provato in generale la sua adeguatez-za. In questa prospettiva l’interpretazione hegeliana va troppo ol-

tre, attribuendo ad Aristotele consapevolezze che egli non aveva.

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(1) Il presente saggio da un lato rappresenta il momento iniziale di unaricerca sulla filosofia della matematica di Aristotele, dall’altro costituisce unaelaborazione di una parte del saggio Il primato logico della matematica, in AA.VV,Filosofia e scienze filosofiche nella prima edizione dell ’” Enciclopedia”  hegeliana del

1817, a cura di F. Chiereghin, Trento 1995, 63-146. Ringrazio il prof. FrancoChiereghin, per avermi dato il permesso di pubblicare separatamente questo

ANTONIO MORETTO

SUL PROBLEMA DELLA CONSIDERAZIONE

MATEMATICA DELL’INFINITO E DEL CONTINUOIN ARISTOTELE E HEGEL

SOMMARIO: 1. Introduzione — PARTE I - LA CONCEZIONE MATEMATICA DELL’INFINITO E

DEL CONTINUO NELLA “FISICA” DI ARISTOTELE — 2. Il problema dell’infinito inAristotele — 3. La definizione dell’infinito — 3.1. Infinito in atto — 3.2.Infinito in potenza — 4. I procedimenti infiniti di calcolo con le grandez-ze — 5. La continuità secondo Aristotele — 6. Continuità e infinità — 7.

Sulla concezione aristotelica delle grandezze geometriche — PARTE II -HEGEL “INTERPRETE” DI ARISTOTELE SULL’INFINITO E SUL CONTINUO — 8. La mate-matica e la quantità. La quantità pura e il rapporto “continuo - discreto”— 9. L’interpretazione hegeliana della seconda antinomia cosmologica diKant — 10. Il quanto e il mutamento del quanto — 10.1. Il quanto — 10.2.Grandezza estensiva ed intensiva — 11. Progresso infinito quantitativo evera infinità del quanto — 12. Esempi matematici di cattiva e vera infini-tà — 13. Conclusione.

1. Introduzione — Il presente saggio (1) cerca di confrontare il puntodi vista sull’infinito e sul continuo di Aristotele e di Hegel, qualirisultano dai libri III, V e VI della Fisica e dalle considerazioni sulla

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HEGEL E ARISTOTELE52

grandezza della Scienza della logica e dell’Enciclopedia (2). Il confronto

si pone in modo non accidentale, perché Hegel, che considera il pen-

contributo. Ringrazio altresì il prof. Mario Mignucci per lo scambio di idee sullamatematica in Aristotele e per alcune indicazioni bibliografiche che mi ha fornito.

(2) Abbreviazioni usate per le opere di G.W.F. Hegel:GuW = G.W.F. HEGEL, Glauben und Wissen oder die Reflexionsphilosophie der

Subjectivität in der Vollständigkeit ihrer Formen , als Kantische  , Jakobische undFichtesche Philosophie, in Gesammelte Werke, Bd. IV,  Jenaer kritische Schriften, hrsg.von H. Buchner u. O. Pöggeler, Hamburg 1968, 315-414.

WdL I = G.W.F. HEGEL,  Wissenschaft der Logik. Erster Band. Die objektiveLogik (1812/13), hrsg. v. F. Hogemann u. W. Jaeschke, Gesammelte Werke, Band 11,Düsseldorf 1978.

WdL II = G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik. Zweiter Band. Die subjektiveLogik (1816), hrsg. v. F. Hogemann u. W. Jaeschke,  Gesammelte Werke, Band 11,Düsseldorf 1981.

WdL III = G.W.F. HEGEL,  Wissenschaft der Logik. Erster Teil. Die objektiveLogik. Erster Band. Die Lehre vom Sein (1832) , hrsg. v. F. Hogemann u. W.

 Jaeschke, Gesammelte Werke, Band 21, Düsseldorf 1985 (la trad. it. G.W.F. HEGEL,Scienza della logica, riv. da - e con Nota introduttiva di - C. Cesa, Introduzione di

L. Lugarini, Bari 1981, corrisponde alla Wissenschaft der Logik contenuta in WdLIII, nel 2. Buch, Die Lehre vom Wesen, di WdL I, e in WdL II).Enz. A = G.W.F. HEGEL, Encyclopädie der philosophischen Wissenschaften im

Grundrisse, Heidelberg 1817 (G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche incompendio, trad. it. a cura di F. Biasutti, L. Bignami, F. Chiereghin, G.F. Frigo, G.Granello, F. Menegoni, A. Moretto, Trento 1987).

Enz. B = G.W.F. HEGEL, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften imGrundrisse (1927), hrsg. v. W. Bonsiepen u. H.-C. Lucas,  Gesammelte Werke, Bd.19, Düsseldorf 1989.

Enz. C = G.W.F. HEGEL, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften imGrundrisse (1830) , hrsg. v. W. Bonsiepen u. H.-C. Lucas, u. Mitarbeit v. U. Rameil,

Gesammelte Werke, Bd. 20, Düsseldorf 1992 (G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scien-ze filosofiche in compendio, Traduzione it., Prefazione e Note di B. Croce, Glossarioe Indice dei nomi di N. Merker, Introduzione di C. Cesa, Bari 19784).

VGPh I-III = G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie,in Werke, auf der Grundlage der Werke von 1832 - 1845 neu edierte Ausgabe,Redaktion E. Moldenhauer und K.M. Michel, Frankfurt / M., 1971, B.de 18-20.

Con riferimento a I. Kant ricorriamo alla sigla:KrV  = I. KANT , Kritik der reinen Vernunft (2. Aufl. 1787), in Gesammelte

Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen [Deutschen] Akademie derWissenschaften, Berlin [Berlin u. Leipzig] 1902 ff., IV; (trad. it. Critica della ragion

 pura, a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riv. da - con una Introduzionedi - e un Glossario a cura di - V. Mathieu, Bari 19853).

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53A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

siero dello stagirita uno dei vertici più alti della speculazione filoso-

fica, si mostra particolarmente attento, come vedremo, alle conside-razioni sul tema dell’infinito e del continuo esposte nella Fisica. Ilconfronto può inoltre rivestire un particolare interesse ai nostri gior-ni, dal momento che i più recenti studi hegeliani hanno mostratoche, contrariamente a quanto si era generalmente ritenuto, le consi-derazioni di Hegel sulla matematica, oltre ad essere importanti nel-l’economia del suo sistema della filosofia, sono radicate nell’effettivo

dibattito che si svolgeva su questa scienza.Il saggio si articola in due parti: la prima cerca di evidenziareil contenuto matematico delle considerazioni di Aristotele nella Fi-sica sull’infinito e sul continuo (3), e la seconda si propone di esami-

Nel testo l’abbreviazione è seguita dai numeri delle pagine dell’edizionetedesca e, tra parentesi, da quelli delle pagine corrispondenti nella traduzioneitaliana.

(3

) Per un inquadramento del problema della matematica, dell’infinito edel continuo in Aristotele si veda: T. HEATH,  Mathematics in Aristotle, London:Oxford University Press, 1970 (first published 1949); I. MUELLER, Greek Mathematicsand Greek Logic, in Ancient Logic and its modern Interpretations, edited by J.Corcoran,Proceedings of the Buffalo Symposium on Modern Interpretation of Ancient Logic, 21 and 22 April, 1972, Dordrecht - Boston, 1974, 35-70; H.J.WASCHKIES, Von Eudoxos zu Aristoteles. Das Fortwirken der Eudoxischen Proportionen-theorie in der Aristotelischen Lehre vom Kontinuum, Amsterdam: Grüner, 1977;I. MUELLER,  Aristotle on Geometrical Objects, in J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabji(eds.), Articles on Aristotle. 3. Metaphysics, London: Duckworth, 1979, 96-107; J.HINTIKKA, Aristotelian Infinity, in J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabji (eds.), Articles

on Aristotle. 3. Metaphysics, cit., 125-139; I. MUELLER, Aristotle and the Quadrature of the Circle, in N. Kretzmann (ed. / Hrsg.),  Infinity and Continuity in Ancient and

 Medieval Thought, Ithaca and London, Cornell University Press, 1982, 146-64; R.SORABJI, Time , Creation and the Continuum: Theories in Antiquity and the Early MiddleAges, London: Duckworth, 1983; J. ANNAS,  Die Gegenstände der Mathematik beiAristoteles, in A. Graeser (ed./Hrsg).  Mathematics and Metaphysics in Aristotle.

 Mathematik und Metaphysik bei Aristoteles, Akten des X. Symposium Aristotelicum(Sigriswil, 6.-12. September 1984), Bern-Stuttgart: Haupt, 1987, 131-148; M.MIGNUCCI,  Aristotle’ s Arithmetic, in A. Graeser (ed./Hrsg).  Mathematics and

 Metaphysics in Aristotle , cit., 175-211; D.H. FOWLER,  The Mathematics of Plato’ s

Academy. A New Reconstruction,

Oxford: Clarendon Press,

1987;

L.M. NAPOLITANO

VALDITARA, Le idee , i numeri , l’ ordine. La dottrina della mathesis universalis dall’ Acca-

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HEGEL E ARISTOTELE54

nare la rilevanza matematica dello stesso argomento nella Logica

di Hegel confrontando il punto di vista hegeliano con quello aristo-telico (4).

demia antica al neoplatonismo, Napoli: Bibliopolis, 1988; R. SORABJI,  Matter , Space and Motion: Theories in Antiquity and their Sequel, Itacha, New York: Cornell UniversityPress, 1988; W. CHARLTON, Aristotle’ s Potential Infinites, in L. Judson (ed.), Aristotle’ sPhysics: A Collection of Essays, Oxford: Clarendon Press, 1991, 129-150; D. BOSTOCK,Aristotle on Continuity in Physics VI , in L. Judson (ed.), Aristotle’ s Physics, cit., 179-

212; E. HUSSEY, Aristotle’ s Mathematical Physics: A Reconstruction, in L. Judson (ed.),Aristotle’ s Physics, cit., 213-242; M.J. WHITE, The Continuous and the Discrete. AncientPhysical Theories from a Contemporary Perspective, Oxford: Clarendon Press, 1992.

(4) Sulla bibliografia su Hegel e la matematica, si veda W. NEUSER, Sekundär-literatur zu Hegels Naturphilosophie (1802-1985), in Hegel und die Naturwissen-schaften, hrsg. M.J. Petry, Stuttgart - Bad Cannstatt 1987, 501-542.

Per ulteriori indicazioni bibliografiche e per una introduzione — anche seincompleta — ai diversi aspetti del tema «Hegel e la matematica» si veda nellarecente letteratura: L.E. FLEISCHHACKER,  Over de grenzen van de kwantiteit, Diss.,Amsterdam 1982; A. MORETTO, Hegel e la “ matematica dell’ infinito” , Trento 1984; W.

BONSIEPEN, Hegels Raum-Zeit-Lehre. Dargestellt anhand zweier Vorlesungsnachschriften,in «Hegel-Studien» 20 (1985), 9-78; A. MORETTO, L’ influence de la “ mathématique del’ infini” dans la formation de la dialectique hégélienne, in Hegels Philosophie der Natur,hrsg. v. R.-P. Horstmann u. M.J. Petry, Stuttgart 1986, 175-196; M. WOLFF, Hegel undCauchy. Eine Untersuchung zur Philosophie und Geschichte der Mathematik, in HegelsPhilosophie der Natur, cit., 197-263; I. TOTH,  Mathematische Philosophie und hegelscheDialektik, in Hegel und die Naturwissenschaften, cit., 89-182; L.E. FLEISCHHACKER,Quantität , Mathematik , Naturphilosophie , cit., 183-203; P. VARDY,  Zur Dialektik der

 Metamathematik, in Hegel und die Naturwissenschaften, cit., 205-243; V. HÖSLE, Raum ,

Zeit , Bewegung, in Hegel und die Naturwissenschaften, cit., 247-292; A. MORETTO, Que-stioni di filosofia della matematica nella “ Scienza della logica” di Hegel. “ Die Lehre vom

Sein” del 1831, Trento 1988; A. MORETTO, Hegels Auseinandersetzung mit Cavalieri undihre Bedeutung für seine Philosophie der Mathematik, in Konzepte des mathematischUnendlichen im 19. Jahrhundert, hrsg. v. G. König, Göttingen 1990, 64-99; W.BONSIEPEN,  Hegels Theorie des qualitativen Quantitätsverhältnisses, in Konzepte desmathematisch Unendlichen im 19. Jahrhundert, cit., 100-129; A. KLAUCKE,  Hegel’ sLagrange-Rezeption, in Konzepte des mathematisch Unendlichen im 19. Jahrhundert, cit.,130-151.

Sul problema dell’infinito in Hegel si veda G. MOVIA,  Finito e infinito el’ idealismo della filosofia. La logica hegeliana dell’ Essere determinato , «Rivista di Filo-sofia neo-scolastica», 86 (1994), 110-33, 323-57, 623-64. Sulla logica hegeliana del-

la quantità cfr. ID,

 Scetticismo antico e antinomica kantiana. La logica hegeliana dellaquantità, ibidem, 87 (1995), 551-95.

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55A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

PARTE I

LA CONCEZIONE MATEMATICA DELL’INFINITO E DEL CONTINUO

NELLA “FISICA” DI ARISTOTELE

2. Il problema dell’ infinito in Aristotele — La problematica dell’infini-to e del continuo viene esaminata da Aristotele soprattutto nella Fi-sica (5), dove si trova inserita nel quadro di una esposizione dei

princìpi della filosofia naturale, in funzione propedeutica allatrattazione del movimento (6). Infatti, osserva Aristotele, poiché lascienza della natura deve prendere in esame il movimento (7), è ne-cessario dire in precedenza che cosa sono, oltre al luogo, al vuoto eal tempo, l’infinito e il continuo, dal momento che il movimentoviene inteso come continuo, e al concetto di continuo è necessariopremettere quello di infinito (8).

Aristotele si mostra consapevole dell’aporeticità dell’infini-

to, poiché seguono conclusioni assurde sia dalla sua negazione,

(5) La Fisica tratta dell’infinito nel libro III, del luogo, del vuoto e del tem-po nel IV, del continuo nel V e nel VI. In questa sede prenderò in considerazionel’infinito ed il continuo.

(6) L’analisi dell’infinito viene condotta da Aristotele anche in Metaph., XI10, riassumendo quanto detto in Phys., III 4 - 7. L’analisi del continuo viene svol-ta anche in Cat., 6, 4 b 20 - 5 a 14; Top., IV.2;  Metaph., V.6; De gener. et corr., I.2, I.6.Si veda anche De lin. insec.

(7) Secondo Aristotele «la natura è principio del movimento» (Phys., III,200 b 12), e il movimento si spiega come una transizione dalla potenza all ’atto :«movimento è l’atto di ciò che è in potenza, in quanto tale» (Phys., III, 201 a 10-11). Salvo diverso avviso per la Fisica ricorro alla traduzione italiana di A. Russoin ARISTOTELE, Opere , III, Roma-Bari 1973. Ma si consulti anche: ARISTOTELE , Fisica ,Saggio introduttivo, trad., note e apparati di L. Ruggiu, testo greco a fronte, Mi-lano 1995.

(8) Phys., III, 200 b 12-25; cfr. anche Phys., III, 202 b 30-36: «poiché la scien-za della natura studia le grandezze, il movimento e il tempo, ciascuno dei quali

necessariamente è infinito o finito ... converrà a chi si occupa della natura medi-tare sull’infinito, se esso è o non è; e se è, che cosa mai esso è».

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HEGEL E ARISTOTELE56

sia dalla sua ammissione. D’altra parte egli ritiene inaccettabili sia

per la fisica, sia per la matematica, le conseguenze che derivanodalla sua negazione. Infatti negando l’infinito il tempo sarebbe li-mitato, non si potrebbe dividere la grandezza a piacere e non sidisporrebbe della possibilità di contare indefinitamente: «deltempo, infatti, vi sarà un principio e una fine, e le grandezze nonsaranno divisibili in grandezze, e il numero non sarà infinito»

(Phys., III, 206 a 10-12). La valutazione delle conseguenze della

negazione dell’infinito

,severamente limitatrici delle scienze fisi-che e matematiche, lo inducono così ad accettare la nozione di in-

finito non incondizionatamente, ma in riferimento ad alcune spe-cifiche modalità (9).

Aristotele precisa che l’indagine sull’infinito condotta nellaFisica ha un carattere prevalentemente fisico. Infatti egli oltre adaffermare che «è ... dovere fondamentale del fisico esaminare sevi sia una grandezza sensibile infinita» (10), osserva che «questa

ricerca si estende a questioni generali se ci mettiamo a discuteresull’esistenza dell’infinito anche negli enti matematici e in quelliche sono intelligibili e non hanno grandezza», e ribadisce di stare«conducendo un esame sulle cose sensibili», e di indagare se tra

(9) Secondo Aristotele l’infinito si predica secondo queste accezioni: l’infi-nito è: ciò che non si può percorrere per sua stessa natura (come la voce da partedella visibilità); in altro senso ciò che presenta un percorso senza fine, o che a

malapena si può percorrere, oppure ciò che per sua natura presenta un percorsoe un limite che però è irraggiungibile (Phys., III, 204 a 3-8).

(10) (Phys., III, 204 a 1-2). Aristotele osserva che tutti i filosofi degni di talnome hanno posto l’infinito come principio, e che questo fatto (credenza nell’in-finito) potrebbe aver origine 1) dal tempo; 2) dalla divisione delle grandezze(come accade in matematica); 3) dalla necessità di spiegare la generazione e lacorruzione; 4) dalla trasformazione incessante delle cose che tendono sempre adun nuovo termine; 5) dalle difficoltà che esso suscita nel pensiero; esso non sipuò sopprimere, e così siamo portati a ritenere che siano infiniti il numero, lagrandezza matematica e ciò che è fuori dal cielo (Phys., III, 203 b 15-25). Aristo-

tele segnala l’aporeticità dell

’infinito

,sia che lo si assuma

,sia che lo si neghi(Phys., 203 b 30-32)

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57A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

queste ci sia «un corpo infinito per accrescimento» (Phys., III, 204

a 34 - b 4). Siamo pertanto in presenza di una distinzione tra entisensibili ed enti intelligibili, indagati secondo la categoria dellaquantità. Vi sono così, accanto ad enti intelligibili che non hannograndezza, enti intelligibili considerati secondo la quantità, deiquali si occupa la matematica, ed enti sensibili considerati secon-do la quantità, dei quali si occupa la fisica.

Ma anche se le considerazioni della Fisica riguardano la ri-

cerca sulla natura,

ciò non significa che il testo tratti esclusiva-mente la problematica fisica. Infatti la problematica matematica èpresente con grande rilievo, anche se il fine è l’indagine fisica, e lastessa considerazione dell’infinito e del continuo si svolge preva-lentemente in ambito matematico. È pertanto opportuno tenerpresente che il testo aristotelico contiene entrambi questi aspetti,matematico e fisico, e che le considerazioni matematiche sono dinotevole rilievo, anche se non sono condotte in modo sistematico

e non hanno pretese di completezza. In ogni caso sono in grado difornire importanti indicazioni sulla concezione aristotelica dellamatematica.

3. La definizione dell’ infinito — La definizione più ampia propostada Aristotele per l’infinito è: «infinito è ciò che è esteso senza li-miti» (Phys., III, 204 b 20-21), ed è applicabile non solo alla fisica,

ma anche alla matematica. Su questa definizione si innesta, comesi vedrà, la distinzione fondamentale tra un infinito in potenza(dunavmei a[peiron), ed un infinito in atto (ejnergeiva/ a[peiron,

ejnteleceiva/ a[peiron) (11). In base a questa distinzione l’infinito vie-ne definito,

(11) Sulla distinzione tra potenza e atto in Aristotele si veda E. BERTI, Gene-

si e sviluppo della dottrina della potenza e dell’ atto in Aristotele

, «

Studia Patavina»,

V(1958), 477-505.

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HEGEL E ARISTOTELE58

a) da un punto di vista potenziale, come un processo che

può andare oltre ogni limite;

 b) da un punto di vista attuale, invece, come ciò di cui nonvi è niente di più grande (altrimenti vi sarebbe un limi-te), quindi come estremo superiore della classe dellegrandezze (in particolare come grandezza massima).Questo infinito viene considerato pertanto come un infi-nito compiuto, l’infinito determinato (to; a[peiron wJı

ajjϕwrismevnon).A questa distinzione fondamentale tra infinito in potenza ed

infinito in atto si aggiungono le specificazioni tra un infinito per di-visione (diairevsei), per sottrazione o diminuzione (ajϕairevsei,

kaqairevsei), e per accrescimento (aujxhvsei, prosϑ evsei), legate alleoperazioni che vengono effettuate con le grandezze.

3.1. Infinito in atto — L’indagine preliminare sull’infinito riguardala possibilità dell’esistenza dell’infinità in atto, ossia consideratanella sua compiutezza, sia per le grandezze in generale, sia per ilnumero.

Nel caso del corpo (sw`ma) infinito non siamo di fronte ad unprocesso inesauribile, ma ad una determinata grandezza: si trattapertanto di pronunciarsi sull’esistenza o meno del corpo infinitoin atto. A questo proposito Aristotele osserva che il corpo, non

solo fisico, ma anche geometrico, non può essere infinito in atto,essendo limitato per definizione (12): se «si chiama corpo ciò che è

(12) Nella geometria classica greca gli enti geometrici fondamentali, linea,superficie e solido, sono concepiti come limitati: si vedano le definizionieuclidee negli Elementi,  «estremi di una linea sono punti» (EUCLIDES,  Elementa,

post I.L. Heiberg edidit E.S. Stamatis, 4 voll., Leipzig: Teubner, 1969-73, Libro I,Def. III; in italiano EUCLIDE, Gli Elementi, a cura di A. Frajese e L. Maccioni, Tori-

no: UTET, 1970); «estremi di una superficie sono linee» (ivi, Libro I, Def. VI), «li-mite di un solido è una superficie» (ivi, Libro XI, Def. II). Così la linea retta è

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limitato da una superficie, non potrebbe esserci un corpo infinito

né come intelligibile, né come sensibile»(Phys., III, 204 b 5-7). L’os-servazione è corretta dal momento che, secondo la definizionearistotelica, i corpi sono i solidi limitati da superfici e linee. Infattiin questo modo essi non possono essere infiniti (e di conseguenzaanche le linee e le superfici limitanti) perché ciò contrasta la defi-nizione di infinito come ciò che non ha limiti. Va però rilevato checon una diversa definizione di corpo potrebbe venir preso in con-

siderazione anche il corpo infinito.Per ciò che riguarda l’ammissibilità del numero infinito inatto Aristotele osserva che il numero infinito, in quanto separato,

non esiste: se infatti esistesse, sarebbe possibile contare l’infinito,

dal momento che il numero è numerabile (Phys., III, 204 b 7-10).Va rilevato che questo fatto è effettivamente possibile se si dispo-ne di un numero infinito; esso viene però escluso da Aristotelesulla base del comune consenso (oJmologoumevnwı) (13).

Più significativa è l’altra osservazione, alla base della qualestanno le difficoltà che sorgono estendendo le grandezze con legrandezze infinite: se esiste l’infinito in atto, l’infinito nella sommao nella differenza distruggerebbe il finito. Così nei contrari, nonpuò essere uno di essi infinito e l’altro finito, ad esempio l’aria ri-spetto al fuoco, altrimenti l’aria prevarrebbe su di esso (Phys., III,204 b 13-19). In altri termini, fermandoci al contenuto matematico,

∞ + a = ∞ - a = ∞. Questo fatto in realtà può accadere con le defini-

zioni di somma e differenza che hanno luogo nelle estensioni delcorpo dei numeri con il numero infinito. Queste ed analoghe situa-

definita come segmento (linea retta terminata), e l’infinità della linea si ottiene apartire da questa definizione col Postulato II del Libro I: «[Risulti postulato] cheuna retta terminata si possa prolungare continuamente in linea retta».

(13) Phys., VIII, 8, 263 a 4-11. Georg Cantor ritiene questa dimostrazione diAristotele una “petitio principii”: cfr. G. CANTOR,  Gesammelte Abhandlungen

mathematischen und philosophischen Inhalts, hrsg. v. E. Zermelo, nebst einemLebenslauf Cantors von A. Fränkel, Hildesheim: Olms, 1966, 174.

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HEGEL E ARISTOTELE60

zioni che hanno luogo con le altre operazioni hanno lo svantaggio di

far perdere alcune proprietà dei numeri. Va però notato che con gliordinali transfiniti, mentre da un lato si ha a + ω = w (l’infinito “di-strugge” il finito), dall’altro vale ω + a ≠ ω . In questo modo si ha unaestensione dei numeri con i numeri infiniti in cui l’infinito “non di-strugge” il finito, poiché l’infinito viene modificato dal finito (14).

La considerazione dei corpi infiniti in atto dà luogo anchead altre difficoltà, sia di carattere fisico, sia di carattere matemati-

co. In questo senso Aristotele non ammette il corpo sensibile infi-nito in atto in quanto incompatibile con il concetto di luogo natu-rale per i corpi. Infatti in quale luogo andrà l’infinito? In quellosuperiore o in quello inferiore? Oppure metà da una parte e metàdall’altra? E come dividere il corpo infinito a metà? Sulla base diconsiderazioni di questo genere egli conclude che non può esserciil corpo infinito in atto (Phys., III, 205 a 7 - 206 a 8).

3.2. Infinito in potenza — Aristotele afferma sinteticamente che,

mentre l’essere è in  potenza (dunavmei) o in entelechia (ejnteleceiva/),l’infinito è per aggiunzione (prosϑε  vsei) o per detrazione (ajϕairevsei).Inoltre la grandezza (mevgeϑ oı) in quanto in atto (kat’ejnevrgeian)non è infinita, ma è infinita per divisione (diairevsei), poiché nonpossono sussistere le linee indivisibili (Phys., III, 206 a 14-18) (15).

La distinzione tra l’infinito per aggiunzione e per detrazio-

ne e l’infinito per divisione viene illustrata da Aristotele in un se-condo momento, poiché egli è interessato per prima cosa a mo-

(14) Cfr. CANTOR, Gesammelte Abhandlungen, cit., 174.

(15) La dottrina delle linee indivisibili viene attribuita da Aristotele a Pla-tone. Su ciò si veda il trattato De lineis insecabilibus, da attribuire alla scuolaaristotelica. Per una introduzione all’argomento si veda M. TIMPANARO CARDINI,Introduzione, in PSEUDO-ARISTOTELE, De lineis insecabilibus, Introduzione, traduzio-

ne e commento a cura di M. Timpanaro Cardini,

Milano - Varese: Istituto Edito-riale Cisalpino: 1970 (data di stampa), 9-39.

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strare che dall’esclusione dell’infinito in atto e dall’ipotesi della

divisibilità della grandezza (che come si vedrà permette l’infinitoper aggiunzione e per detrazione) segue che l’infinito per le gran-dezze è solo in potenza, a patto che si precisi che non è in potenzanel senso che poi sarà un altro, come ciò che è in potenza una sta-tua diverrà poi una statua, ma è in potenza nel senso che esprimeun processo che sempre diviene, rappresentando sempre qualco-sa di diverso: «si deve intendere che l’infinito ‘è’ nel senso in cui si

dice:‘il giorno è

,la gara è

,perché questi diventano sempre qual-cosa di diverso». (Phys., III, 206 a 18-23). Commenta W.D. Ross:

«l’infinito, come il giorno o una battaglia, esiste mediante il gene-rarsi successivo delle sue parti; esiste, per usare il linguaggio disan Tommaso, non in actu permanente, in facto, ma successive, in fie-ri» (16). E poco dopo Aristotele osserva che «così è, infatti, l’infinitoin universale, perché si pone come sempre diverso, mentre ciò chesi assume da esso è sempre finito, benché ci sia sempre, poi, altro

ed ancora altro» (Phys., III, 206 a 27-29).In altri termini nell’infinito in potenza si ha un continuopassaggio dalla potenza all’atto: «negli esempi ora riferiti l’essereè in potenza ed anche in atto, perché i giochi olimpici sono sia inquanto possono diventar gara sia in quanto sono in atto» (Phys.,III, 206 a 23-25) (17).

Processi di questo tipo (“un processo che sempre diviene,

rappresentando sempre qualcosa di diverso”) vengono descritti in

aritmetica, ad esempio, con le funzioni generatrici di sempre nuovielementi, come succ(x) = x* nell’insieme N dei numeri naturali, ed

(16) W.D. ROSS,  Aristotle, London: Methuen, 1923; in italiano Aristotele,trad. di A. Spinelli rivista sulla 5ª ed. da C. Martelli, Milano: Feltrinelli, 19762; 86.

(17) Il fatto che nell’infinito potenziale si configuri un passaggio dalla po-tenza all’atto per gli enti coinvolti nel processo viene ribadito da Aristotele: l’in-finito «è pur anche in entelechia, ma nel senso in cui diciamo: ‘il giorno è’, o ‘la

gara è’»,

ed è anche«

in potenza,

come la materia,

e non è mai di per sé,

come èinvece il finito» (Phys., III, 206 a 13-16).

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HEGEL E ARISTOTELE62

in geometria, con il postulato di densità dei punti della retta, per cui

dati due punti A e B esiste sempre un terzo punto C compreso insenso stretto tra A e B. In effetti Aristotele si muove in questa dire-zione quando afferma che il numero (naturale) «è infinito in poten-za, ma non in atto; epperò sempre il numero assunto supera qualsia-si pluralità determinata. Tuttavia questo numero non è separabiledalla dicotomia, e l’infinità non permane, ma si genera, come anchesi generano il tempo e il numero del tempo» (Phys., III, 207 b 11-15).

Si noti che con questa caratterizzazione potenziale l’infinitoè ciò al di fuori del quale c’è sempre qualcosa. Perciò questo infi-

nito, che viene concepito come un processo inesauribile, è l’in-completo, e non è il perfetto: il perfetto è ciò che è completo(Phys., III, 207 a 7 - 10).

4. I procedimenti infiniti di calcolo con le grandezze — Per ciò che ri-

guarda la teoria generale delle grandezze, Aristotele presenta sin-teticamente le seguenti distinzioni sull’infinito: premesso che l’in-finito, non potendo essere in atto, può essere solo in potenza,

questo infinito in potenza viene esplicitato con il procedimento didivisione all’infinito della grandezza; a questo procedimento siallacciano l’infinito per aggiunzione e quello per detrazione(Phys., III, 206 a 14 - 206 b 20) (18).

Viene pertanto presupposta la proprieta di divisibilità delle

grandezze, nel senso che ogni grandezza si può ripartire in due parti

(18) Aristotele ritiene sussista l’alternativa tra due teorie, una delle qualiconsidera appunto le grandezze indefinitamente divisibili, e l’altra che considerale grandezze ordinarie composte di grandezze (in questo caso linee) indivisibili. Dalmomento che egli ritiene di poter contrastare l ’ipotesi dell’esistenza delle lineeindivisibili (cfr. infra), si dovrà assumere la divisibilità indefinita delle grandezze.

Su questo argomento egli si sofferma nella Metafisica, attribuendo la dottri-na delle linee indivisibili a Platone. Cfr. Metaph. I 992 a 20 sgg. L’importanza dedica-

ta in ambiente aristotelico alla confutazione di questa dottrina è documentata an-che dallo scritto, di incerta attribuzione, Sulle linee indivisibili.

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63A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

che sommate danno la grandezza precedente, e a questa proprietà

può corrispondere il citato postulato di densità della retta. Dueesempi di questa proprietà si hanno nelle proposizioni geometricheche stabiliscono la divisibilità di un angolo o di un segmento in dueparti congruenti (divisione mesotomica): negli Elementi di Euclidequeste proposizioni sono le proposizioni IX e X del I libro (19).

La proprietà di divisibilità delle grandezze conduce a diversiprocedimenti infiniti, dal momento che l’operazione è iterabile a

piacere. Infatti se dopo ogni divisione scegliamo una delle duegrandezze risultanti e ripetiamo l’operazione, otteniamo una suc-cessione di infiniti punti di divisione e di infinite grandezze. Som-mandole successivamente si è di fronte ad un particolare processoinfinito per aggiunzione; togliendole da quella iniziale si è di fron-te ad un particolare processo infinito per detrazione. Come si vedequesti procedimenti infiniti hanno uno schema analogo a quelloche viene utilizzato nel logos zenoniano della dicotomia: il mobile

non giungerà mai al telos perché prima deve giungere alla metà(Phys., VI, 239 b 11-14); tutte queste argomentazioni si basano infat-ti sulla circostanza che la proprietà assunta di divisibilità dellagrandezza dà luogo ad un processo iterabile.

Alcune difficoltà matematiche di calcolo con l’infinito coin-volte dal logos zenoniano della dicotomia cominciavano ad essere ri-solte dalla matematica greca preeuclidea. Anche Aristotele è parti-colarmente attento ad alcune circostanze connesse con i procedi-

menti infiniti per divisione, addizione e detrazione delle grandezzeassolute, e rileva che:

a1) nel procedimento di indefinita divisione di una grandezzasi possono ottenere grandezze assolute piccole a piacere (in-

 finito per divisione), come risulta dall’osservazione che lagrandezza variabile nell’infinito per divisione «supera [nelsenso di “è inferiore a”] ogni grandezza finita e rimane sem-

(19) EUCLIDES, Elementa cit., Libro I, Propp. IX, X.

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HEGEL E ARISTOTELE64

pre minore» (Phys., III, 6, 206 b 19-20). Sono in considera-

zione le successioni infinitesime , ossia convergenti verso lagrandezza nulla;

a2) vi sono somme infinite di grandezze assolute crescenti econvergenti, nel senso che approssimano per difetto unadeterminata grandezza con precisione grande a piacere(infinito per addizione): «l’infinito per aggiunzione è, poi,quasi la medesima cosa che l’infinito per divisione, giac-

ché esso si produce nel finito per aggiunta,

in modo con-trario all’altro. Invero, nella misura che una grandezzaviene divisa all’infinito, nella stessa misura la somma delleparti successivamente ottenute risulta tendere ad unagrandezza determinata» (Phys., III, 206 b 3 - 6) (20). In que-sto caso egli sta considerando le serie convergenti verso unadeterminata grandezza non nulla. Somme infinite di que-sto tipo, sottratte dalla grandezza iniziale, determinano

un resto piccolo a piacere (adopero un linguaggio non ri-goroso ma intuitivo). Le considerazioni sull’infinito per de-trazione corrispondono al seguente passo: «se noi da unagrandezza finita desumiamo una determinata grandezza epoi ne desumiamo ancora un’altra nel medesimo rappor-to, senza però portar via la grandezza stessa dell’intero,

non riusciremo a percorrere il finito» (Phys., III, 6, 206 b 5 -

(20) Modifico la traduzione italiana di A Russo, «l’infinito per aggiunzio-ne è, poi, quasi la medesima cosa che l’infinito per divisione, giacché esso si pro-duce nel finito per aggiunta, in modo contrario all’altro. Invero, nella misura cheuna grandezza viene divisa all’infinito, nella stessa misura essa risulta aggiuntaa quella finita», tenendo conto dell’indicazione di Heath, il quale propone per laparte finale della citazione la traduzione: «... so, in the same way, the sum of thesuccessive fractions when added to one another (continually) will be found totend toward a determinate limit»: cfr. HEATH,  Mathematics in Aristotle, cit., 106,108. Va rilevato che, anche se si seguono le traduzioni che concordano con quel-

la di Russo,

l’infinito per addizione risulterebbe contenuto nel passo successivoPhys., III, 6, 206 b 5 - 9.

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9). Va notato che a questo infinito per detrazione è con-

giunto l’infinito per addizione della somma delle infinitegrandezze che vengono tolte. In altri termini l’esempio ri-guarda sia le serie infinitesime, sia le serie convergentiverso una grandezza non nulla. A proposito di questo infi-nito (per aggiunzione (kata; provsqesin) e per detrazione(ajϕairevsei, kaqairevsei)) Aristotele specifica ancora cheesso è in potenza e che con esso non solo non si può rag-

giungere la grandezza infinita,

ma anche che le grandezzecosì ottenute portando avanti la somma ammettono unestremo superiore: «sempre, infatti, si potrà assumerequalcosa al di fuori di esso, ma, non di meno, esso non su-pererà ogni grandezza finita» (Phys., III, 6, 206 b 16-19);

 b) vi sono somme infinite di grandezze assolute che possonosuperare ogni grandezza prefissata per quanto grande. In-fatti egli osserva che «se ... accresceremo il rapporto in

modo da portar via progressivamente la grandezza stessa,allora riusciremo a percorrerla, perché tutto ciò che è finitosi toglie via mediante la sottrazione di un qualsivoglia fini-to» (Phys., III, 6, 206 b 9-12). In questo caso egli sta conside-rando le serie divergenti.

Oltre a questo la proposizione corrispondente ad a1) ha unaportata sia matematica, sia fisica, di estremo rilievo per la matema-tica e per la fisica aristotelica, poiché, mutatis mutandis, essa affer-

ma che tra le grandezze considerate in questa teoria delle grandez-ze non esistono grandezze minime, ossia non esistono indivisibiliestesi, poiché la proprietà di divisibilità può condurre a grandezzepiccole a piacere.

Queste osservazioni di Aristotele hanno a mio avviso unnotevole rilievo per la matematica (21), dal momento che, conside-

(21

) Cfr. A. MORETTO

, Sul concetto matematico dell’ infinito e del continuo nella“ Fisica” di Aristotele, «Verifiche» 24 (1995), 20 sgg.

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HEGEL E ARISTOTELE66

rando le grandezze assolute, esse attestano, con a1) l’esistenza di

successioni di grandezze che possono diventare minori di unagrandezza prefissata, per quanto piccola; con a2) l’esistenza di serieconvergenti, ossia di “somme” di grandezze che possono approssi-mare per difetto una data grandezza con precisione grande quantosi desidera; e con b) l’esistenza di serie divergenti, ossia di “som-me” di grandezze che possono superare qualsiasi grandezzaprefissata, per quanto grande essa sia.

5. La continuità secondo Aristotele — Nel V libro della Fisica Aristote-le presenta una interessante teoria topologica, che culmina con unadefinizione di continuo in base alla quale c’è continuità tra duecose quando i limiti con cui esse si toccano coincidono. Più precisa-mente, questa topologia si articola con le definizioni di sette con-cetti: Def. 1) - l’ assieme (to; a{ma): assieme nel luogo si dice per cose

che stanno nello stesso posto [=luogo]; Def. 2) - il separato (cwrivı):l’esser separato si dice per cose che non stanno nello stesso posto;

Def. 3) - l’ essere in contatto (to; a{ptesqai): si dice di cose le cui estre-mità (ta; a[kra) sono assieme; Def. 4) - l’ intermedio (to; metaxuv): è ciòche viene raggiunto dal moto continuo tra due contrari (i due estre-mi del movimento: la partenza e l’arrivo); Def. 5) - il consecutivo (to;

ejϕexhı): un termine è il consecutivo di un altro quando non c’è in-termedio dello stesso genere tra i due; due termini possono essere

consecutivi e separati, oppure consecutivi e non separati; Def. 6) - ilcontiguo (to; ejcovmenon): è ciò che è consecutivo e in contatto; Def. 7) -il continuo (to; sunecevı): è ciò che è contiguo quando i limiti (to;

eJkatevrou pevraı) delle cose che si toccano diventano un’unica cosa(Phys., V, 3, 226 b 18 - 227 a 17) (22).

Come si vede la definizione del continuo (Def. 7) presume leprecedenti, dal momento che il continuo è contiguo (Def. 6) e pre-

(22) Si veda WASCHKIES, Von Eudoxos zu Aristoteles, cit., 158 sgg.

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67A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

suppone il contatto (Def. 3); il contiguo è consecutivo (Def. 5); il

consecutivo rinvia all’intermedio (Def. 4) e al separato (Def. 2); ilcontatto rinvia all’assieme (Def. 1).

Lasciando da parte la problematica connessa con l’interpreta-zione delle altre definizioni, converrà limitarci alla definizione delcontinuo, osservando che la definizione esposta supra (Def. 7) nonè l’unica che troviamo nella Fisica.

Si hanno infatti tre definizioni di continuità:A) una prima definizione è di tipo globale e fisico (Def. A):movimento continuo è quello che non ha interruzioni nel tempo;

moto continuo è quello che non ha interruzione nel tempo, pur po-tendola avere nell’oggetto del moto; ad esempio due corde di unostrumento musicale, una delle quali si mette in vibrazione subitodopo che si è fermata la prima. Questa definizione viene espostacome un inciso nella definizione di intermedio (Phys., V, 3, 226 b 27-

30). Da questa sarebbe possibile estrapolare una definizione globa-le più ampia (Def. A *): continuo è ciò che non ha interruzioni. Mamentre l’interruzione doveva sembrare di agevole definizione nelriferimento di una grandezza ad una altra grandezza suppostacontinua (il tempo), non lo era altrettanto con riferimento ad ununico tipo di grandezza.

B) La seconda definizione, Def. B, coincide con la Def. 7, so-

pra riportata. In sostanza si ha continuità tra due cose quando i li-miti con cui si toccano coincidono.

Questa definizione riprende la discussione generale sulla ca-tegoria della quantità esposta nelle Categorie  (Cat., 6). Aristotele di-stingue la quantità (posovn) tra discreta (diwrismevnon), ad esempio ilnumero (ajriqmovı) e il discorso (lovgoı), e continua (sunecevı), adesempio la linea (grammhv), la superficie (ejpifavneia), il corpo (swma),il tempo (crovnoı) e il luogo (tovpoı). Le quantità discrete sono costi-tuite, a differenza di quelle continue, di parti (morivwn) dotate reci-

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HEGEL E ARISTOTELE68

procamente di una posizione (qevsin); l’elemento discriminante per

la proprietà della continuità sembra consistere nell’esistenza di unlimite comune (koino;ı o{roı) alle parti, in cui esse si “fondono”

(sunavptei). In questo senso la linea (segmento) è continua, perchéesiste un limite comune, il punto (stigmhv), in cui le parti si congiun-gono (due segmenti adiacenti si saldano in un segmento somma:AD = AB + CD, con B = C). Allo stesso modo è continua la superfi-cie, assumendo come limite la linea; ed è continuo il corpo solido,

assumendo come limite la linea o la superficie (Cat.,6,4 b 20 - 5 a 6).Questa nozione sembrerebbe orientata verso una definizio-

ne locale della continuità (continuità in un punto, B o C): ma ap-pare subito un lato problematico della questione. In questa “defi-nizione” di continuo si presuppone già che siano continui gli entiche entrano in contatto. Quindi in realtà si dà la condizione per-ché, partendo da due continui, si origini con l’operazione di som-ma un terzo pure continuo. In quest’ordine di idee alcuni autori

interpretano la continuità della definizione Def. 7) come una rela-zione binaria K2 (23). In realtà, a mio avviso, siamo invece in pre-senza di una operazione SC con due argomenti; quindi, semmai,ad una relazione C3, che a due grandezze continue associa ancoraun continuo, sotto la condizione della coincidenza dei limiti. Sot-to certi aspetti la definizione ha anche un carattere globale: conti-nuo è il composto ottenuto da n parti continue semplici, saldateper gli estremi. Essa però presuppone che esistano grandezze

continue, come accade in geometria euclidea, dove gli enti fonda-mentali della geometria sono i segmenti, grandezze continue.

C) Aristotele non riteneva sufficiente questa ricognizione delcontinuo, appunto perché, mentre da un lato essa dava indicazionisulla operazione della connessione dei continui tra loro, non davainformazioni sulla struttura del continuo, corrispondenti alla con-

(23) Cfr. WASCHKIES, Von Eudoxos zu Aristoteles, cit., 158 sgg.

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69A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

cezione intuitiva di Def. A*: il continuo è ciò che non ha interruzio-

ni.Egli ritiene però possibile un procedimento regressivo, che

partendo dalla Def. 7) possa caratterizzare la struttura fine del con-tinuo. La linea argomentativa di Aristotele sembrerebbe essere laseguente: 1) la somma di due grandezze dà un continuo se i loroestremi coincidono. Quindi, banalmente, la somma di due continuidà sotto certe condizioni un continuo; 2) le grandezze sono

divisibili o indivisibili;

3) il continuo non può risultare compostoda indivisibili; 4) il continuo risulta pertanto composto da divisibiliin parti sempre divisibili (altrimenti si arriverebbe all’indivisibilecome componente del continuo). Per far questo egli si serve delleconsiderazione che il continuo non può essere composto daindivisibili. Indivisibile è ciò che non può essere diviso, e può pre-sentarsi sotto diverse modalità: esso può essere della stessa dimen-sione del continuo, ed essere di estensione finita, com’è il caso delle

linee indivisibili rispetto alla linea; oppure possedere una dimen-sione minore di quella del continuo, com’è il caso del punto rispet-to alla linea, della linea rispetto alla superficie, e della superficie ri-spetto al solido.

Ora l’ipotesi che il continuo sia composto da indivisibili adesso omogenei per dimensione (com’è il caso delle lineee indivisi-

 bili rispetto alla linea) non è sostenibile nella teoria aristotelica del-le grandezze, poiché in essa, come si è detto, dividendo una gran-

dezza A, è possibile ottenere una grandezza B minore di una pre-fissata grandezza e, per quanto piccola (24).

Rimane così da considerare l’ipotesi che continuo sia compo-sto da indivisibili di dimensione inferiore, com’è il caso del puntonei confronti della linea. In questo caso Aristotele conduce una di-versa argomentazione contro la possibilità che il continuo sia com-posto da indivisibili. Infatti, se per assurdo fosse divisibile in parti

(24) Cfr. supra.

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HEGEL E ARISTOTELE70

indivisibili (nel caso della linea i punti), ci sarebbe contatto tra

indivisibile e indivisibile (Phys., VI, 1, 231 b 15 - 18). Pertanto nem-meno in questo caso il continuo è divisibile in parti sempre divisi-

 bili.Segue una nuova definizione (Def. C ) di continuo: continuo

è ciò che è divisibile in parti sempre divisibili (Phys., VI, 2, 232 b25).

In questa definizione la proprietà della continuità risulta dalla

congiunzione della proprietà di divisibilità (densità) e di quella diconvergenza di una successione di grandezze verso la grandezzanulla, come risulta sottolineato dall’uso di “sempre (ajeiv)”.

6. Continuità e infinità — Poiché il continuo è divisibile all’infinito,

in esso ci sono infiniti punti di divisione (metà), ma non in atto,

 bensì in potenza. Se fossero in atto il moto non sarebbe più conti-

nuo, ma ci sarebbero delle interruzioni del medesimo (Phys., VIII,8, 263 a 27-30) (25). Nel caso della divisione in atto, la spiegazionearistotelica consiste nel considerare effettivamente divisa in dueparti la grandezza, ad esempio il segmento AB in corrispondenzadel punto M (shmei`on) (26), in due segmenti che richiedono di es-sere entrambi completati con un estremo (segmento inteso comeun intervallo chiuso); pertanto, se M = M1 è l’estremo destro delprimo segmento, M2 ≠ M1 sarà l’estremo sinistro del secondo, in

modo che sono dati i due segmenti AM1 e M2B,. Ogni punto Mviene così contato due volte, la prima con M1 = M, e la secondacon M2 ≠ M1 e ciò creerebbe una interruzione di continuità (27).

(25) Cfr. Metaph., II 2. 994 b 23-25.

(26) Si noti la duplice denotazione del punto da parte di Aristotele, comestigmhv e come shmei`on. La seconda denotazione è quella cui ricorrerà Euclide.

(27

) Attesa la definizione “Def. B” del continuo, affinché ci sia continuità, idue punti non possono essere diversi.

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71A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

Si hanno così differenti divisioni del continuo: a) una divisio-

ne in potenza, che non altera la sua continuità e che permette lasuccessione potenziale di infiniti punti medi (più in generale inter-medi); b) una divisione in atto, che trasforma il continuo in unadiscontinua composizione di continui.

Si noti che Aristotele concorda con l’ipotesi matematica dellogos di Zenone sulla dicotomia: l’intero (il continuo) sia divisibilemediante un punto interno. Con questa premessa il continuo è

divisibile in parti sempre divisibili,

che possono diventare piccole apiacere, senza che si giunga mai al punto; nel continuo la divisionegenera infiniti punti di suddivisione. La tesi di Zenone ha però uncontenuto fisico paradossale, poiché su queste basi si nega che ilmovimento possa portare ad un qualsiasi telos , o abbia avuto inizioda qualche arché . Essendo infinite le metà, la completezza del mo-vimento richiederebbe che fosse numerato un numero infinito, laqual cosa è impossibile per comune consenso, (Phys., VIII, 8, 263 a

4-11). La soluzione aristotelica consiste nel dire che queste difficoltàsarebbero reali se la divisione fosse in atto, poiché in tal modo ri-guarderebbe la sostanza (hJ oujsiva) e l’essere (to; ei\nai) del continuo;

ma la divisione è in potenza, ed in tal modo il mobile percorre soloaccidentalmente (kata; sumbebhkovı) gli infiniti (Phys., VIII, 8, 263 b3-9).

7. Sulla concezione aristotelica delle grandezze geometriche — Riassu-mendo ora in sintesi la posizione di Aristotele sulle grandezze geo-metriche, ci sembra si possa dire che secondo Aristotele

1) la matematica dispone di classi di grandezze omogenee,

ad esempio la classe delle lunghezze dei segmenti, nelsenso che 1.1) esse si possono sommare e confrontare traloro secondo particolari assiomi (cfr. le nozioni comunidi Euclide). A questo punto è possibile definire il multi-plo della grandezza a secondo un numero naturale n, os-

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HEGEL E ARISTOTELE72

sia na. (28) 1.2) La classe di grandezze omogenee è archime-

dea, ossia, date due grandezze a e b, esiste un numero natu-rale n tale che na > b (si noti che secondo la concezione eu-clidea l’omogeneità contiene l’archimedeicità) (29).

2) Le grandezze di queste classi sono grandezze divisibili.Nel caso delle lunghezze dei segmenti, dato il segmentoAB esiste quindi un punto C interno ad AB, che divide ABin AC e CB. Il rapporto di queste due parti può essere ra-zionale o anche irrazionale. Questa proprietà di divisibili-tà corrisponde alla proprietà di densità di un insieme.

3) Aristotele, come i matematici della sua epoca, si rendeconto del fatto che la congiunzione dei postulati di archi-medeicità e di divisibilità conduce ad una proprietà diestremo interesse per le applicazioni al calcolo con l’infini-to, che consiste in sostanza nella possibilità di ottenereclassi di segmenti le cui lunghezze tendono a zero (ap-

prossimazione infinita allo zero), dal momento che si trat-ta anche il caso in cui questa divisibilità conduca ad unagrandezza minore di una prefissata grandezza. In sostan-za è questa la concezione della continuità di Aristotele, al-lorché chiama continue le grandezze divisibili in grandez-ze sempre divisibili (concezione che denoto come conti-nuità “debole”, rapportandola alla concezione “forte” del-la continuità secondo Dedekind e Cantor).

Questa proprietà sembra essere formulata con estrema sintesicon l’espressione: continuo è ciò che è divisibile in parti sempredivisibili. Con la parola sempre ritengo egli intenda indicare sial’iterabilità indefinita del procedimento di divisione, sia il fatto che

(28) Inversamente, se è dato il multiplo, b = na , è definito il sottomultiplodi b secondo n, ossia (1/n)b = a. L’esistenza del multiplo è garantita dalle pro-prietà precedenti.

(29

) Se l’insieme delle grandezze oltre ad essere archimedeo è divisibile(cfr. infra), vale anche (1/n)b < a.

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73A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

con esso si può ottenere una grandezza minore di una qualsiasi

grandezza prefissata. In questo modo Aristotele mostra di essereconsapevole dell’importanza della rappresentazione di una succes-sione infinitesima di grandezze.

Peraltro il concetto di continuità delle grandezze secondoAristotele è più debole di quello di Cantor e di Dedekind. Infattipossiamo dire che, disponendo del concetto aristotelico di conti-nuità, è conseguito il fatto che se due grandezze hanno un rappor-

to (razionale o irrazionale),

si possono porre in corrispondenza biunivoca le misure razionali per difetto e per eccesso di questorapporto in modo tale che le loro differenze tendano a zero. Quelloche manca è il passaggio inverso: se vi sono due classi siffatte dinumeri razionali che realizzano l’“avvicinamento infinito”, vi sonodue grandezze, razionali o irrazionali, che stanno nel rapporto chegenera quelle due classi di razionali. In quest’ordine di ideeDedekind e Cantor definiranno la continuità (continuità in senso

forte) con contributi pubblicati nel 1872 (30

).

Aristotele (in Phys., III, 6, 206 b 3 - 20) mostra, a mio avviso,

una notevole familiarità con procedimenti infiniti di calcolo con legrandezze, che nel presente saggio sono stati esposti con il lin-guaggio della teoria delle successioni e delle serie. Infatti il testodella Fisica ci illustra che è agevole costruire serie divergenti, e chela dicotomia genera successioni infinitesime di grandezze, con le

quali è possibile costruire serie convergenti verso una grandezza A.Emerge altresì il ruolo importante della dicotomia, la quale è

uno strumento essenziale 1) per garantire un riferimento geometri-co alla successione dei numeri naturali: il numero è il “contatore”

di un processo dicotomico; 2) per indagare sull’esistenza di serieconvergenti verso una grandezza data.

(

30

) Si veda A. FRAJESE,

  Attraverso la storia della matematica,

Firenze: LeMonnier, 1973, 353-59.

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HEGEL E ARISTOTELE74

Queste preoccupazioni per la convergenza delle serie potreb-

 bero essere connesse con lo scopo di disporre in fisica di grandezzesuperiormente limitate (dal “diametro” del cielo, considerando, adesempio, le grandezze lineari); esistono altresì serie infinitesime,

ossia aventi la grandezza nulla come estremo inferiore. In altri ter-mini le serie divergenti dovrebbero avere per Aristotele un interes-se soprattutto matematico, e quelle convergenti sarebbero le piùappropriate per l’indagine di un universo finito. Nella fisica

aristotelica verrebbe così escluso non solo l’infinito attuale dellegrandezze, ma anche, in alcuni casi, l’infinito potenziale, qualora la

somma della serie dei segmenti potesse oltrepassare la misura deldiametro del cielo.

PARTE II

HEGEL “INTERPRETE” DI ARISTOTELE

SULL’INFINITO E SUL CONTINUO

8. La matematica e la quantità. La quantità pura e il rapporto “ continuo -discreto”   — Le precedenti considerazioni sul pensiero di Aristotelenei riguardi del concetto matematico dell’ infinito e del continuopermettono un interessante confronto con il pensiero hegelianosulla stessa questione.

L’esposizione più completa del punto di vista hegeliano sul-l’infinito e sul continuo si trova nella Scienza della logica e nellaprima parte dell’Enciclopedia, che ha per titolo La scienza della logi-ca (31). Alla base delle considerazioni hegeliane sta il concetto dellaquantità pura, che si può definire come un “mare di oggetti”, le uni-tà, tra cui sussistono due relazioni, una di “repulsione” e l’altra di“attrazione”. Alla repulsione e all’attrazione sono dovuti, rispetti-

(31) WdL I, WdL II, WdL III, Enz. A, Enz. B, Enz. C.

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75A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

vamente, due aspetti della quantità, la discretezza e la continuità.

Secondo Hegel la quantità consiste nella compresenza di questimomenti, e non viene descritta in modo adeguato da nessuno diquesti, considerato isolatamente.

Hegel considera la quantità pura come la determinatezzaqualitativa tolta: «la determinatezza qualitativa, che ha raggiuntonell’uno il suo essere determinato in sé e per sé, è perciò trapassatanella determinatezza come tolta, cioè nell’essere come quantità» (32).

La sua definizione è«

il puro essere nel quale la determinatezzanon è più posta come tutt’uno con esso stesso, ma come tolta o in-differente» (33). La quantità pura viene distinta dal quanto, ossiadalla quantità limitata, esemplificato dalla grandezza matematica.Gli esempi della quantità pura addotti da Hegel sono lo spazio, iltempo, la luce, la materia e l’io (34).

Egli afferma che due sono i momenti della quantità: la discre-zione e la continuità (35). Questi due momenti appartengono alla

(32) Enz. A, § 51.

(33) Enz. A, § 52.

(34) WdL I, 113; WdL III, 178 (200). Cfr. Enz. B, § 99 A; Enz. C, § 99 A (conriferimento allo spazio, al tempo e alla materia). Hegel segue il primo Leibniznel considerare la materia come quantità. Infatti nella Scienza della logica Hegel siriferisce alla tesi esposta nella Dissertazione di Leibniz: Propositiones exdisputatione metaphysica de principio individui,  «Non omnino improbabile est,materiam et quantitatem esse realiter idem»: cfr. G.W. LEIBNIZ, Die philosophischen

Schriften, hrsg. C. I. Gerhardt, Hildesheim 1961, Bd. IV, 26. Di diverso avviso èLeibniz nei Nouveaux essais, libro II, cap. XIII, § 21 (Die philosophischen Schriften,Bd. V; trad. it. Nuovi saggi sull’intelletto umano , in G.W. LEIBNIZ , Scritti filosofici , acura di D.O. Bianca, II, Torino 1979, 275): «sebbene non ammetta il vuoto, distin-guo la materia dall’estensione». Nell’Enciclopedia del 1817 anche l’assoluto è unesempio di pura quantità: «l’assoluto è pura quantità ... il puro spazio, la luce,ecc. possono esser presi come esempi della quantità» (Enz. A, § 52 An.).

(35) Va ricordato che momento è termine tecnico in Hegel: i momenti nonhanno una determinazione assoluta, ma solo relativa, uno in relazione all’altro,e solo la loro relazione può essere una determinazione per la cosa, com’è il caso

del numeratore e del denominatore di una frazione (a / b = c ),

oppure del brac-cio e della intensità di una forza, la cui “efficacia” è misurata dal loro prodotto

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HEGEL E ARISTOTELE76

genesi stessa della quantità a partire dalla moltitudine degli uno:

il rapporto di repulsione corrisponde al momento della discrezio-ne, e quello di attrazione al momento della continuità: «I momen-ti della quantità sono tolti in essa, quindi essi sono come sue de-terminazioni, ma soltanto come determinazioni della sua unità;

nella determinazione dell’eguaglianza con se stessa posta me-diante l’attrazione essa è grandezza continua, nella determinazio-ne dell’uno essa è grandezza discreta»(36).

È opportuno ricordare a questo proposito che Spinoza nel-l’Ethica (pars I, prop. XV, schol.) ammette che vi siano due manieredi considerare la quantità: essa è finita, divisibile e composta diparti secondo l’immaginazione, e infinita, unica ed indivisibile se-condo l’intelletto. La quantità pura di Hegel corrisponde allacoesistenza come momenti di entrambi i modi spinoziani di inten-dere la quantità (37).

Hegel tiene conto in maniera particolare di Kant, il cui pun-

to di vista è alquanto complesso. Nell’Estetica trascendentale del-la Critica della ragion pura Kant considera lo spazio ed il tempocome forme pure dell’intuizione sensibile (in quanto tali spazio etempo non sono pertanto dei quanti). Kant afferma che, come in-tuizione pura, lo spazio è «unico, in esso la molteplicità, quindianche il concetto universale di spazio in generale, si forma esclu-sivamente su limitazioni»; oltre a ciò «lo spazio vien rappresenta-to come una grandezza infinita data» (38). Considerazioni analo-

(F b = M). Si noti che la terminologia cui Hegel ricorre - per cui F e b sono mo-menti - è diversa da quella contemporanea, in cui il momento è M.

(36) Enz. A, § 53.

(37) La quantità continua, secondo Spinoza, è concepita dall’intellettocome indivisibile; quella discreta è invece rappresentata dall’immaginazione co-me divisibile. Questo punto di vista non è condiviso da altri filosofi (Descartes,Leibniz, Kant, Hegel), che considerano la quantità continua divisibile all’infini-to.

(38) KrV , 53 (69-70).

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77A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

ghe valgono per il tempo. Viene così ribadito il carattere di unici-

tà, infinità ed indivisibilità dello spazio e del tempo. Quindi perKant lo spazio ed il tempo come intuizioni pure sono caratteriz-zate da “compattezza” nel senso di essere uniche ed infinite inatto. Dallo spazio e dal tempo intesi in questo modo si ottengonopoi i quanti (le parti) mediante limitazioni. In questo senso si par-la di divisibilità dello spazio e del tempo.

Come si afferma nell’Analitica trascendentale della Criticadella ragion pura, la proprietà di continuità per le grandezzespaziali e temporali consiste nel fatto che in esse non esiste parteche sia la più piccola possibile, cioè una parte semplice: «la pro-prietà delle quantità, per la quale in esse non c’è parte che sia lapiù piccola possibile (cioè una parte semplice), dicesi la continuitàdi esse». In questo modo Kant assume il concetto aristotelico del-la proprietà di continuità, intesa come l’infinita divisibilità dellegrandezze. Kant precisa che spazio e tempo (da intendere in que-

sto caso come grandezze spaziali o temporali limitate,  quanti)«sono quanta continua, perché non si può darne una parte senzachiuderla fra limiti (punti e istanti), e perciò solo in guisa che laparte data sia a sua volta uno spazio o un tempo. Lo spazio dun-que consta soltanto di spazi, il tempo di tempi. Punti e istantisono soltanto limiti, cioè semplici termini della delimitazione diquelli; ma i termini presuppongono sempre quelle intuizioni cheessi debbono limitare o determinare, e coi semplici termini, quasi

elementi costitutivi, che fossero pur dati innanzi allo spazio o altempo, non può formarsi lo spazio, né il tempo. Quantità di que-sto genere si possono chiamare anche fluenti [ fließende], poiché lasintesi (dell’immaginazione produttiva) è nella loro formazioneun processo nel tempo, la cui continuità si suole indicare col-l’espressione fluire (scorrere) [Fließens (Verfließens)]» (39).

(39) KrV , 154 (186). È opportuno segnalare l’uso non univoco in Kant dei

termini spazio e tempo: infatti spazio e tempo sono intesi a) come forme puredell’intuizione; b) come spazi e tempi concepiti mediante le categorie e i princìpi

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HEGEL E ARISTOTELE78

Lo spazio ed il tempo sono pertanto intesi in questo modo

come dei continui, e la continuità si presenta come la proprietà fon-damentale. La discrezione consiste nella aggregazione di quanticontinui. Il numero consiste nella produzione successiva di unitànel tempo. Ogni numero (diverso dall’unità) è pertanto discreto inquanto aggregato di unità, le quali per conto loro sono continue.

Le grandezze estensive ed intensive sono continue (cfr. infra).La continuità è la condizione prima riguardante la generazione della

grandezza,

la discretezza si ottiene mediante aggregazioni di gran-dezze continue di cui già si dispone, con una «sintesi interrotta» delmolteplice del fenomeno (40). La discretezza può venire intesa per-tanto come “interruzione” della continuità. Più in generale i feno-meni sono rappresentati da grandezze continue, estensive o intensi-ve.

Il punto come limite del segmento presuppone il segmento,

così pure l’istante presuppone l’intervallo temporale, ma punti ed

istanti non sono elementi costitutivi dello spazio e del tempo: unamoltitudine di punti o di istanti non può costituire un continuotemporale. Tuttavia la considerazione delle grandezze fluenti fa ve-dere che Kant non solo prestava attenzione alla concezione fluenti-sta delle grandezze, ma che addirittura la faceva propria (41).

9. L’ interpretazione hegeliana della seconda antinomia cosmologica di

Kant — Secondo Hegel la quantità pura contiene in sé entrambi i

matematici. Per inciso osservo che anche Leibniz considera i punti come limiti.Cfr. Nouveaux essais, cit., Libro II, cap. XIV, § 23 (Nuovi saggi, 276): «a rigore, ilpunto e l’istante non sono parti dello spazio, e neppure essi hanno parti. Sonosoltanto estremità».

(40) KrV , 154 (187).

(41) Sulla concezione fluentista delle grandezze in Kant cfr. A. MORETTO,

Sul concetto di‘  grandezza

’ secondo Kant. L

’’ analitica del sublime

’ della

‘ Critica del Giu-dizio’ e la grandezza infinita, «Verifiche» 19 (1990), 72-73.

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79A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

momenti, della continuità (divisibilità) e della discretezza (indivi-

sibilità). In questo modo si dà una nuova chiave di lettura dellaseconda antinomia cosmologica kantiana, che mostra la coimplica-zione della continuità e della indivisibilità, e si prospetta anche lasua soluzione nella presenza di entrambi questi aspetti, come mo-menti, nella quantità (42).

Hegel ritiene che appartenga al punto di vista dogmatico l’af-fermazione della legittimità di uno solo di questi due momenti

negando la validità dell’altro (

43

). Così,

se viene fatta valere unila-teralmente la discrezione si ha «l’infinito o assoluto esser diviso,

epperò per principio un indivisibile; all’incontro l’affermazioneunilaterale della continuità, dà l’infinita divisibilità» (44). In questaaffermazione risulta implicito il richiamo alla lezione della Fisicadi Aristotele, nella quale si esaminano le due ipotesi di costituzio-ne dell’intero, una delle quali sostiene la sua costituzione median-te gli indivisibili (ipotesi che verrà trovata inconsistente), e l’altra

la sua infinita divisibilità.Hegel condivide pertanto il punto di vista secondo il qualealla continuità corrisponde la proprietà di infinita divisibilità diun intero, e l’analisi della seconda antinomia cosmologica kantiana

(42) I concetti di continuità e di discrezione appaiono così ancorati allastessa definizione di quantità pura, di cui costituiscono uno dei momenti. Ilquanto risulta da una limitazione della quantità pura, pertanto anche in essosono presenti i due momenti della continuità e della discrezione.

(43) Questo è il senso che Hegel attribuisce al termine “dogmatismo”: cfr.Enz. A, § 21; Enz. B, § 32; Enz. C, § 32 . Si noti che Kant definisce dogmatismo «ilprocedimento dommatico della ragion pura,  senza una critica preliminare del suo

 proprio potere» (KrV , 21 ( 32)); nelle antinomie le tesi rappresentano «il dommati-smo della ragion pura», e le antitesi «il suo empirismo» (KrV , 324 (384)).

(44) WdL III,179 (202); cfr. WdL I, 114. Queste considerazioni si trovanonelle osservazioni preliminari alla “Nota” sull’antinomia kantiana dell’infinitadivisibilità della materia.

In realtà manca una definizione esplicita di divisibilità. Implicitamente

però la divisibilità consiste nel fatto che è possibile che dall’intero si forminodelle parti con il prevalere “locale” della repulsione.

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HEGEL E ARISTOTELE80

costituisce l’occasione per questa affermazione. Però, se da un

lato è vero che alla continuità corrisponde la proprietà di infinitadivisibilità, dall’altro secondo Hegel non è vero che la continuitàsi esaurisca con essa. Già nella complessità dell’argomentazionekantiana si rivela la presenza di un altra componente, laddove siricorre alla concezione “fluentista” della generazione delle gran-dezze per caratterizzare ulteriormente la continuità.

L’atomistica, sia nella fisica, sia nella metafisica, rimane anco-rata alla relazione estrinseca degli uno, pertanto non riesce a supe-rare quella che Hegel chiama l’«estrinsecità della continuità» (45).Molto più profonda, secondo Hegel, la posizione della matematica,

che «rigetta una metafisica che pretenderebbe far consistere il tem-po in punti temporali (o istanti), lo spazio in generale, oppurprimieramente la linea, in punti spaziali, e così la superficie in li-nee e l’intero spazio in superficie; essa non lascia valere simili unodiscontinui» (46). Anticipando quanto dirà più avanti nella III Nota

sull’infinito della matematica (47

) Hegel si oppone alla metafisicaatomistica del ricorso agli indivisibili in matematica, a meno cheessa non superi questa rappresentazione della discrezione conside-rando determinante il concetto che si instaura con l’infinita molti-tudine degli indivisibili di una figura limitata: «anche quando lamatematica determina per es. la grandezza di una superficie cosìda rappresentarla come la somma di un infinito numero delle linee,

pure questa discrezione non vale che come una rappresentazione

momentanea, e nell’infinita pluralità delle linee, mentre lo spazio,che debbon costituire, è nondimeno uno spazio limitato, sta giàl’esser tolta la loro discrezione» (48). In questo modo Hegel lasciaaperta una valutazione positiva sia per l’esempio di vero infinito di

(45) WdL III,178 (199). Cfr. WdL I,112.

(46) WdL III,178 (199).

(47) WdL III, 299-309 (337-349).

(48) WdL III,178 (199).

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81A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

Spinoza (cfr. infra), ottenuto a partire da una infinità di indivisibili

contenuti in uno spazio limitato, sia per il metodo degli indivisibilidi Cavalieri, che presta attenzione al rapporto tra gli indivisibilicorrispondenti di due figure per determinare il rapporto tra i corri-spondenti continui (49).

Al dogmatismo si deve pertanto l’affermazione di uno solo diquesti due momenti della grandezza, continuità e discretezza, con

l’esclusione dell

’altro. Però Kant

,che pure è sostenitore delladivisibilità all’infinito della grandezza matematica, con riferimento

alla categoria della sostanza trova antinomiche le proprietà di con-tinuità e di indivisibilità, come viene sostenuto nella secondaantinomia cosmologica che mostra la coimplicazione delle due pro-posizioni: a) ogni sostanza composta consta di parti semplici; b)nessuna sostanza composta consta di parti semplici. Di quil’antinomia, che si presenta pertanto a livello di sostanza, e non a

livello di quantità, dove, secondo Kant, le grandezze geometrichesono continue. A Kant si deve il merito di aver mostrato lacoimplicazione di questi due concetti opposti, quindi la posizionedella contraddizione.

Invece secondo Hegel questa è proprio la condizione defini-toria della stessa quantità: essa si può presentare sotto le forme del-la grandezza continua - se la pura quantità è vista nella determina-

zione dell’uguaglianza con sé dei molti uno (attrazione) -, oppuredella grandezza discreta, - se la pura quantità è vista nella determi-nazione dell’uno, come posizione dei molti uno (repulsione). Gran-dezza continua e discreta sono considerate come momenti dellagrandezza necessariamente congiunti. Quindi non solo ogni so-stanza composta nel mondo, come affermava Kant, ma la quantitàin generale, lo stesso spazio e lo stesso tempo, la materia, la luce,

(49) Cfr. MORETTO, Hegels Auseinandersetzung mit Cavalieri cit.

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HEGEL E ARISTOTELE82

l’Io, in quanto pura quantità, sono sia continui sia discreti. Hegel

sviluppa pertanto a livello di quantità pura le considerazioni kan-tiane sulla continuità e sulla discrezione.

Secondo Kant l’antinomia riguarda la sostanza composta nelmondo, poiché «la totalità assoluta della divisione di un tutto dato nel

 fenomeno» (50) è un’idea, «un concetto necessario della ragione», alquale però «non è dato trovare un oggetto adeguato nei sensi» (51).L’antinomia non riguarda pertanto l’intuizione pura, ma ha la sua

origine nel fatto che l’oggetto è separato dall

’intuizione sensibile.Invece Hegel fa cadere come inessenziale la separazione tra intui-

zione e concetto: per Hegel anche spazio e tempo sono soggetti aquesta antinomia, poiché anch’essi devono venire concepiti (52).Pertanto, se sotto il punto di vista della intuizione essi sono conti-nui, dal punto di vista del concetto essi possono venire intesi comecomposti di indivisibili.

La soluzione kantiana fa consistere la radice dell’antinomia

nell’uso dell’intelletto in modo indipendente dall’intuizione. Hegeltrova molto più interessante la soluzione data da Aristotele ai pro- blemi posti dagli esempi dialettici della scuola eleatica, in partico-lare dai logoi zenoniani sul moto, che si radicano sul concetto diquantità. La soluzione di Aristotele si basa sul concetto di continui-tà come divisibilità in potenza (cfr. supra), senza che si giunga mai inatto all’atomo. Quindi se è data la continuità è data anche la possi-

 bilità di avere una moltitudine potenzialmente infinita di “suddivi-

sioni” (limiti) del continuo. Ad esempio, dato un segmento orienta-to, si può considerare il suo punto medio, poi il punto medio della

(50) KrV , 287 (346); in questo modo Kant definisce la seconda ideacosmologica.

(51) KrV , 254 (308).

(52) «Qui non v’è altro da dire, se non che lo spazio, come anche l’intuizio-

ne stessa, debbon essere in pari tempo concepiti, se cioè in generale si vuol conce- pire»: WdL III, 185-6 (209). Cfr. WdL I, 119.

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83A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

seconda delle due parti ottenute, e così via. Siamo di fronte ad una

esemplificazione del logos zenoniano della dicotomia, ed in questomodo si è generata una infinità potenziale di punti di suddivisione.L’indivisibile, l’atomo è un ens rationis, una astrazione. Era quindiin errore Bayle, che criticando la soluzione di Aristotele come“pitoyable”, affermava che se qualcosa è infinitamente divisibile“en puissance”, allora deve essere anche realmente e attualmentediviso (53).

La soluzione di Aristotele però va dal continuo verso il di-screto: se è dato il continuo, allora in potenza è data anche l’infinitàdei discreti. Hegel fa anche il passaggio opposto: se è dato il discre-to, allora è dato in potenza anche il continuo: la linea è data comerapporto di punti: «la grandezza spaziale ha bensì nel punto ladeterminatezza corrispondente all’uno; ma il punto, in quanto vienfuori di sé, diventa una altro, diventa linea. Poiché essenzialmenteesso è soltanto come uno dello spazio, il punto diventa nella rela-

zione [Beziehung] una continuità, nella quale la puntualità, l’esseredeterminato per sé, l’uno, son tolti» (54). Questo punto di vista risa-le alle Geometrische Studien, in cui si sostiene che la linea “toglie[aufhebt]” il rapporto [Beziehung] spaziale dei punti - dove “toglie-re” ha in questo caso la valenza di “elevare” (55).

10. Il quanto e il mutamento del quanto.

10.1. Il quanto — Secondo Hegel il quanto è la quantità limitata. Alladefinizione del quanto è pertanto necessario il concetto di limite

(53) WdL III, 188 (212).

(54) WdL I, 128, WdL III, 196 (220).

(55) «In ogni oggetto matematico si deve precisarea) il suo aspetto positivo, in quanto esso toglie una limitazione (la linea

[toglie] il rapporto spaziale dei punti); come tolto propriamente rimane solo la

moltitudine [Menge] (dei punti)»:Geometrische Studien

, in Dokumente zu HegelsEntwicklung, hrsg. von J. Hoffmeister, Stuttgart 1936, 293-94.

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HEGEL E ARISTOTELE84

applicato alla quantità pura. Il quanto corrisponde in generale alla

grandezza matematica, ossia a «ciò che può essere aumentato o di-minuito» (56). Hegel si riferisce alle ordinarie definizioni di grandez-za dei manuali di matematica, rilevando la circolarità della defini-zione, poiché essa contiene ancora il definito (la grandezza è ciò dicui può aumentare o diminuire la grandezza). È così proponibileuna teoria generale delle grandezze, come oggetti per cui è possibi-le stabilire una relazione d’ordine ed una fondamentale operazionedi addizione. Il quanto, che ha la sua esemplificazione nella gran-dezza matematica, ha la sua compiuta determinatezza nel numero,

che consiste nella coppia dei suoi momenti: l’unità [Einheit] e le vol-te [Anzahl] (57). Stando alle precisazioni di Wissenschaft der Logik del1832, le fondamentali classi di grandezze considerate dalla mate-matica sono le grandezze spaziali e le grandezze numeriche. Lagrandezza numerica (numeri naturali) è discreta, mentre quellaspaziale è continua.

10.2. Grandezza estensiva ed intensiva — Una ulteriore distinzionetra  grandezza estensiva ed intensiva viene derivata immediatamen-te da Kant e sottoposta a critica. La distinzione kantiana è la se-guente: la quantità estensiva è «quella quantità, nella quale la rap-presentazione delle parti rende possibile la rappresentazione deltutto (e perciò necessariamente la precede)» (58), com’è il caso dei

segmenti in un monoide di grandezze. Diverso è il caso della grandezza intensiva, o  grado, che è quella quantità «che è appresasoltanto come unità, e in cui la molteplicità può essere rappresen-tata solo per approssimazione alla negazione = 0» (59).

(56) Enz. A, § 52 A.

(57) WdL III, 194 (218). Cfr. WdL I, 126.

(58) KrV , 149 (180).

(59) KrV , 153 (185-6).

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85A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

In Kant questa distinzione viene esposta in pagine alquanto

difficili (60), pertanto converrà illustrare la questione in terminigenerali, facendo ricorso ad una descrizione matematica dell’ar-gomento in questione mediante la nozione di funzione. In unacorrispondenza  y =  f(x), dove x e  f(x) sono grandezze assolute, econtinue in senso kantiano, se x è variabile su di un intervallo(grandezza estensiva), l’ordinata f(x) è la corrispondente grandez-za intensiva. Nella rappresentazione in questione di un grafico

estensione (x) - intensione (f(x)) ,

in cui sono in gioco i concetti di va-riabile (la x, variabile indipendente e la  f(x) , variabile dipenden-te), e di infinità di valori assunti dalle variabili, la superficie de-scritta dal segmento di ordinata variabile  f(x) al variare di x nel-l’intervallo è ancora un’estensione S.

Con questa premessa le considerazioni di Kant si possonocapire meglio se ci si riferisce in concreto all’esempio cinematico v=  v(t) , della velocità espressa come funzione del tempo in un

moto anche vario. L’ordinata alla fine ha descritto una superficiela cui misura è pari allo spazio percorso. Mentre lo spazio percor-so, grandezza estensiva, richiede per essere determinato il decor-

(60) Kant, confrontando il concetto di grandezza estensiva con quello digrandezza intensiva, segnalava la necessità di considerare accanto alle classi digrandezze omogenee e continue anche le corrispondenze tra due o più classi digrandezze (omogenee e continue), in poche parole, di elevarsi ad una matematicarelazionale, in cui entrano in gioco i concetti matematici di funzione e di relazione.

La difficoltà del testo kantiano è dovuta al fatto che Kant si serve per questo aspet-to non tanto delle nozioni matematiche di Leibniz, Bernoulli, Eulero, e delle loroesemplificazioni, ma delle considerazioni (e del vocabolario) della scolastica, sullaintensione e remissione delle qualità. Questo vocabolario è sì adoperato nella tardascolastica medievale (Bradwardine, Oresme) in questioni fisico-matematiche, ecosì pure in Galilei (intensione del moto); ma nella recezione di Leibniz e dellascolastica wolffiana (Wolff , Baumgarten) la terminologia entrava a far parte delvocabolario della metafisica, e l’astrattezza di questa riflessione allontana dal-l’esemplificazione matematica. Tuttavia gli esempi con cui Kant illustra questoconcetto (vale a dire la densità di massa, il grado di illuminazione) sono chiara-

mente ispirati alle problematiche fisico-matematiche sulle relazioni tra grandezze.Cfr. MORETTO, Sul concetto matematico di ‘  grandezza’ secondo Kant cit., 68-71.

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HEGEL E ARISTOTELE86

so del tempo, la velocità, grandezza intensiva, deve essere defini-

ta istante per istante. In un intervallo di tempo Dt piccolo, ma nonnullo, lo spazio percorso è f(t) Dt , e nell’istante t , essendo Dt = 0 ,lo spazio percorso è nullo.

Abbiamo visto che Hegel definisce il quanto come la quantitàlimitata. Egli precisa in questo modo la distinzione tra il quantoestensivo e quello intensivo: «questo limite come determinatezzain sé molteplice è la grandezza estensiva, mentre come determina-

tezza in sé semplice,

è la grandezza intensiva ovvero il grado»

(

61

).Hegel tiene pertanto conto in sede definitoria del punto di vistakantiano delle grandezze estensive e intensive.

Ciò non vuol però dire che egli sia incondizionatamented’accordo con Kant su questo punto. Infatti, differenziandosi daKant, Hegel osserva che la distinzione tra quanto estensivo ed in-tensivo non è assoluta, ma relativa: la grandezza estensiva in unarappresentazione può diventare intensiva in un altra (62). Banal-

mente, nella funzione y = f(x) , in ipotesi di biiettività e continuità,il segmento lungo x è un quanto estensivo, ed il segmento lungo yè un quanto intensivo. Ma la situazione si inverte nella corrispon-denza x = f  -1(y).

11. Progresso infinito quantitativo e vera infinità del quanto — Come siè visto, il quanto è la quantità limitata, un limite indifferente, una

determinatezza che è indifferente alla cosa, conformemente all’or-dinaria definizione di grandezza, come ciò che è suscettibile di au-mento o di diminuzione. Nella definizione del quanto sta anchel’origine della sua infinità. Ciò vale sia per il numero, sia per legrandezze in generale. Infatti, a partire dall’unità 1, si ottengono gliinfiniti numeri, 1+1, (1+1)+1, .. ., e a partire dalla grandezza

(61) Enz. A, § 56.

(62) WdL I, 134-137; WdL III, 212- 216 (238-243).

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87A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

estensiva A si ottengono le infinite grandezze A+A,  (A+A)+A ,  ...;

ogni volta viene posto un limite, che poi viene superato. Il progressoinfinito quantitativo è appunto la ripetizione della contraddizionecontenuta nel quanto, in modo particolare nel grado, che ha la suadeterminatezza in altre grandezze: «il progresso quantitativo infi-nito è parimenti di nuovo nient’altro che la ripetizione priva dipensiero di un’unica e medesima contraddizione, che è il quanto ingenerale e, posto nella sua determinatezza, il grado» (63).

Questo iterarsi della«

unica e medesima contraddizione»

èmirabilmente esemplificato dalla perentoria affermazione diZenone, che ciò che si verifica una volta si verificherà sempre:«dice giustamente Zenone in Aristotele: è lo stesso dire una cosauna volta e dirla sempre» (64). Hegel cita Aristotele inesattamente,

poiché si tratta del commento di Simplicio alla Fisica di Aristotele.Ma il riferimento a Zenone è illuminante: questa proprietà vieneinfatti applicata da Zenone ad es. nel logos della dicotomia, che può

corrispondere alle proposizioni, di tipo esistenziale, di densità o diillimitatezza (infinità) della retta: dati due punti A, B di una rettaorientata, con A < B (ossia A precede B) esiste un punto C, tale che A< C < B , ed esistono punti D, E, tali che D < A e B < E . Il procedi-mento è iterabile: se si può effettuare una volta, si può effettuaresempre, e questo garantisce l’infinità dei punti della retta, sia diquelli compresi nel segmento AB, sia di quelli esterni.

In generale l’infinità del quanto deriva dal fatto che «il

quanto è un limite che diviene» [eine werdende Grenze] (65). Si vede

(63) Enz. A, § 57 A.

(64) Enz. A, § 57 A.

(65) WdL I, 138;WdL III, 217 (245). Si può rilevare che la prima antinomiacosmologica di Kant mostra appunto l’opposizione tra il limite (il mondo è limi-tato rispetto al tempo passato o allo spazio) e il superamento del limite. La solu-zione kantiana sembra rifugiarsi in una concezione potenziale dell’infinito, o an-

cora più debole,

nell’indefinito

;cfr. M

ORETTO,  Sul concetto di

‘  grandezza

’ secondoKant cit., 97-98.

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HEGEL E ARISTOTELE88

così che quando Hegel parla di progresso infinito quantitativo (catti-

va infinità), ha ben presente la connotazione aristotelica dell’infi-nito potenziale, espresso da ciò che sempre diviene. Quest’infini-to potenziale non intende la potenza come lo stato “precedente”

l’atto, per cui ciò che è infinito in potenza sarà poi infinito anchein atto (così come ciò che in potenza è una statua, il blocco dimarmo, poi sarà una statua); ma nel senso in cui si enuncia unaforma aperta, suscettibile di determinazioni sempre diverse,

come la forma enunciativa “il giorno è x”, in cui al posto di x èpossibile porre sempre diverse determinazioni, con x = a1, a2, a3,

... (Phys., III 206 a 18-29).

L’infinità del progresso è rappresentata da qualcosa di in-completo, ed è una continua riproposizione del finito, l’espressio-ne della contraddizione del quanto, per cui dapprima il limiteviene posto, e poi questo limite viene tolto. Riferendosi al cattivoinfinito Hegel concorda con Aristotele, il quale osservava che,

mentre il finito è ciò che è completo, l’infinito è l’incompleto: «in-finito è, dunque, ciò al di fuori di cui, se si assume come quantità,

è sempre possibile assumere qualche altra cosa. Ciò, invece, al difuori di cui non c’è nulla, è perfetto ed intero ... L’intero è ciò al difuori del quale non c’è nulla; ma ciò al di fuori di cui c’è qualcosache ad esso manca, non è il tutto, qualunque cosa gli manchi»(Phys., 207 a 7-15). Secondo Hegel è del tutto fuori luogo l’entu-siasmo di filosofi e scienziati per il progresso infinito, poiché que-sta infinità è affetta sempre da un “al di là”, e rimane semprealcunché di incompleto (66).

Il punto di vista hegeliano sul passaggio dalla cattiva infinitàdel progresso infinito del quanto al vero infinito quantitativo vienedelineato da Hegel in questo modo. Il quanto è un limite indiffe-rente; in particolare come quanto intensivo ha la sua determinatez-

(66) Cfr. WdL I, 142-147;WdL III, 222-228 (250-256)

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89A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

za in altro, in altri quanti: di qui la cattiva infinità. Però questo non

essere del quanto è esso stesso limitato, dal momento che pur es-sendo variabile, non è arbitrario, ed è soggetto a limitazione, comesi comprende in modo particolarmente chiaro con le considerazio-ni relazionali legate al quanto intensivo. La vera infinità del quantosi ha in questa unità dialettica di opposti, che sono come momenti:il togliere del quanto e dell’al di là del quanto. In altri termini lavariabilità del quanto conduce all’al di là  [Jenseits] (67) del quanto

come alcunché di determinato;

ma questa variabilità è a sua voltalimitata, com’è il caso della legge con cui è assegnata una funzionecon dominio infinito, e questa doppia negazione del quanto e delsuo al di là, la variazione del quanto, conduce alla vera infinità delquanto (68).

Nell’Enciclopedia del 1817 si precisa che nella relazionequantitativa si supera la contraddizione del progresso infinito del

quanto: nella relazione (funzione) y = f(x) definita su di un interval-lo e continua, si comprende unitariamente la variabilità del quantointensivo, ed il risultato è un quanto determinato qualitativamente:«si sono unificati appunto l’esteriorità, cioè il quantitativo, e l’esse-re per sé, il qualitativo» (69).

(67) WdL I, 151;WdL III, 234 (261).

(68

) A questo proposito si possono fare alcune considerazioni:1) Con il concetto di quanto intensivo Hegel, seguendo Kant, si riferiscealla matematica relazionale, in cui si considerano dipendenze funzio-nali tra grandezze. D’altra parte Hegel considera coimplicantisi i con-cetti di quanto intensivo ed estensivo, per cui il problema dell’infinito èposto con generalità per ciò che riguarda il quanto.

2) È essenziale il concetto di “limitazione” per i quanti di un progresso in-finito affinché si possa parlare di vera infinità. In questo senso perHegel i punti di un segmento costituiscono un esempio di vera infinità(cfr. VGPh III, 171-72), mentre non lo costituiscono i punti di una retta,che per Hegel sono invece un’esemplificazione della cattiva infinità.

(69) Enz. A, § 58.

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HEGEL E ARISTOTELE90

Anche nelle altre redazioni dell’Enciclopedia le caratteristi-

che del superamento del progresso infinito quantitativo mediantela relazione quantitativa vengono esposte in modo estremamentescarno. Però le considerazioni dell’Enciclopedia del 1827 e di quel-la del 1830 concordano con il punto di vista già presente nella Lo-

 gica di Jena e nella Scienza della logica del 1812, e che verranno riba-diti nella “dottrina dell’essere” della Scienza della logica del 1832,

in base al quale la soluzione della contraddizione del progresso

infinito del quanto viene fatta consistere nel concetto di relazionequantitativa [quantitative Verhältniß] , corrispondente al concetto direlazione/ funzione della matematica moderna (si tengano presentiin particolar modo le delucidazioni di Euler e di Lagrange (70) sulconcetto di funzione). La Scienza della logica del 1812 (e poi quelladel 1832) connettono il concetto di funzione con quello di vero in-finito quantitativo, corrispondente all’infinitum actu di cui parlaSpinoza nell’Epistola XII (71).

L’opinione comune, rileva Spinoza, sostiene che «infinitumactu non datur». In questo modo essa non può spiegare come tra-scorra un’ora, poiché non riesce a superare le difficoltà poste dallogos zenoniano della dicotomia. Infatti - secondo una delle due in-terpretazioni standard (72) della dicotomia - prima che sia trascorsal’ora bisogna che sia trascorsa una sua parte (come caso particolarela sua metà), e perché sia trascorsa questa deve essere pure trascor-sa una sua parte, ecc. In questo modo l’intervallo temporale non

può mai aver avuto inizio. Secondo l’altra interpretazione standard,prima di giungere alla fine deve essere trascorsa una parte, ma perla parte restante vale lo stesso discorso, ecc. In questo caso l’inter-

(70) Cfr. L. EULER, Institutiones calculi differentialis, edidit G. Kowalewski, inOpera Omnia, edenda curaverunt F. Rudio, A. Krazer, P. Staeckel, ser. I, vol. X,Lipsiae et Berolini 1813, 4; J.L. LAGRANGE,  Théorie des fonctions analytiques, inOeuvres, publiées par les soins de J.-A. Serret, tome IX, Paris 1881, 15.

(71

) SPINOZA

,  Epistola XII , in Opera, hrsg. von C. Gebhardt, 4 voll.,Heidelberg s.d. (1924), qui vol. IV, 59-60.

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91A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

vallo temporale non può mai aver fine (73). L’esito paradossale con-

segue dal fatto che valgono le assunzioni del logos della dicotomia,

senza che si accetti l’infinito attuale.Spinoza osserva che inconvenienti di questo tipo capitano a

chi si affida solo all’infinito dell’immaginazione (infinito potenzia-le) (74). Ma i matematici non si curano delle obiezioni di coloroche si affidano al solo infinito dell’immaginazione, all’infinito del-la successione dei naturali che ad ogni n numero naturale associa

n + 1: l’infinito potenziale. Essi hanno infatti dimestichezza conconcetti di moltitudini che non sono numerate da nessun numero.

E, tuttavia, questi concetti sono ben definiti, sicché si può parlaredi un infinitum actu e non solo di un infinitum potentia. L’esempioaddotto da Spinoza è il seguente: dati due cerchi non concentrici econtenuti l’uno nell’altro, si considerano le intersezioni tra lesemirette aventi origine nel centro del cerchio minore e lo spaziocompreso tra i due cerchi (si veda la figura in nota) (75). In altri ter-

Am

xf(x)

M

(72) Assumo la terminologia di I. TOTH, I Paradossi di Zenone nel Parmenidedi Platone, trad. dal tedesco di A. Moretto, Napoli: Istituto Italiano per gli StudiFilosofici, 1994.

(73) Cfr. I. TOTH, Le problème de la mesure dans la perspective de l’ être et du nonêtre. in  Mathématique et philosophie de l’ antiquité à l’ âge classique. Hommage à JulesVuillemin, sous la direction de R. Rashed, Paris 1991.

(74) SPINOZA, Epistola XII cit., 58-59

(75

)

B

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HEGEL E ARISTOTELE92

mini si considera l’insieme dei segmenti del piano che godono del-

la proprietà descritta, concetto duale nel piano di quello di “luogogeometrico” dei punti che godono di una certa proprietà. Questisegmenti sono infiniti di numero, nel senso che ogni numero è in-sufficiente a numerarli, eppure costituiscono una moltitudine infi-nita in atto, ben definita per legge di costruzione, in questo casoanche superiormente ed inferiormente limitata, nel senso che que-sti segmenti ammettono sia un massimo, sia un minimo. Il concettoè quindi accettabile sul piano della logica tradizionale, godendodei requisiti di avere un corrispondente oggetto, e di essere defini-to con cura mediante una proprietà caratteristica. Con questo con-cetto di infinito è anche possibile dire che un infinito è maggiore diun altro (mediante un ordinamento per inclusione).

Hegel fa proprio il punto di vista di Spinoza: il cattivo infini-to secondo Hegel, l’infinito dell’intelletto, corrisponde all’infinitodell’immaginazione in Spinoza, ed il vero infinito della ragione al-

l’infinito dell’intelletto, all’infinitum actu spinoziano. Egli sviluppale indicazioni di Spinoza sull’infinitum actu, e sulla possibilità distabilire una relazione d’ordine tra infiniti, raccordandole con alcu-ni concetti della analisi matematica. In particolare è degno di notail riconoscimento dell’analogia tra il concetto di funzione e l’esem-pio di Spinoza (76) Osserva infatti Hegel che «l’incommensurabili-tà, che sta nell’esempio di Spinoza, racchiude in generale in sé lefunzioni delle linee curve, e conduce più precisamente a quell’infi-

nito che la matematica ha introdotto in tali funzioni, e in generalenelle funzioni delle grandezze variabili, e che è il vero infinito mate-matico, l’infinito quantitativo, al quale pensava anche Spinoza» (77).In effetti l’esempio di Spinoza è agevolmente suscettibile di una in-terpretazione con una funzione. Si stabilisca, ad esempio, un siste-ma di ascisse curvilinee sulla circonferenza interna, e si faccia cor-

(76) Si veda la figura precedente.

(77) WdL III, 248-49 (277); cfr. WdL I, 163.

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93A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

rispondere ad ogni ascissa x un’ordinata  y uguale alla misura del

segmento compreso tra i due cerchi, passante per l’estremità del-l’arco di ascissa x. Si ottiene allora una funzione y = f(x), i cui valorisono compresi tra un minimo assoluto m ed un massimo assoluto

 M, conformemente alle indicazioni di Spinoza (78).Per ciò che riguarda le funzioni e le relazioni, Hegel stabili-

sce una classificazione delle funzioni a seconda della forma as-sunta dal rapporto y

x— esponente del rapporto secondo la termi-

nologia adottata da Hegel —, che è indice di una scala di purezzadell’infinità che tanto più cresce qunto più il rapporto si allontanadall’espressione rappresentata mediante un quanto costante; inquesto senso al grado più basso stanno le funzioni della forma

y

x

= k , k costante; seguono le funzioni del tipo y

x= f(x) ≠ k , k co-

stante; infine al grado più alto le funzioni del tipo dy

dx= f(x), poi-

ché nel rapporto differenziale di sinistra i differenziali rappresen-tano il togliersi del quanto in una determinatezza di grandezza

puramente qualitativa (79

).

12. Esempi matematici di cattiva e vera infinità — La cattiva infinità ela vera infinità sono illustrate da Hegel con esempi tratti dallamatematica. In questo senso egli osserva che, prendendo in consi-derazione la frazione 2/7 (frazione non decimale), dalla divisionedi 2 con 7 si ottiene lo sviluppo decimale infinito 0,285714... = 0/1

+ 2/10 + 8/102

+ 5/103

+ 7/104

+ 1/105

+ 4/106

+ ...; questo per-

(78) Si veda la precedente figura. Il concetto di vero infinito quantitativo conriferimento alla dottrina spinoziana dell’infinitum actu viene trattato da Hegel inFede e sapere, nella Scienza della logica, e nelle Lezioni sulla storia della filosofia (cfr.GuW , 354-358 (175-179); VGPh III, 170-172 ; WdL I, 162-163; WdL III, 247-249 (275-277)). In questo caso sono in particolar modo importanti le considerazioni dellaScienza della logica che permettono di comprendere la rilevanza di questo concettonella speculazione hegeliana sulla natura della quantità.

(79

) In queste considerazioni Hegel negli esempi ricorre a funzioni algebri-che per esprimere f(x).

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HEGEL E ARISTOTELE94

mette le successive determinazioni approssimate di 2/7 con le

frazioni decimali 0/1, 2/10, 28/102  , 285/103, 2857/104, 28571/105, 285714/106, ..., che sono approssimazioni per difetto rispetti-vamente a meno di 1/1, 1/10, 1/102, 1/103, 1/104, 1/105, 1/106, ...In questo modo si origina la cattiva infinità. La relazione esatta è2/7 = D + R , dove D è la frazione decimale usata per l’approssi-mazione ed R è il resto. La vera infinità si ha quando si consideratutto lo sviluppo 2/7 = 0/1 + 2/10 + 8/102 + 5/103 + 7/104 + 1/

10

5

+ 4/10

6

+ ...,

anche se la matematica della fine del Settecento edell’inizio dell’Ottocento è in difficoltà nella giustificazione di si-mili espressioni. In effetti in quell’epoca non si disponeva ancoradella teoria e - d del limite, teoria che verrà elaborata più tardidall’analisi classica. Per questo motivo secondo Hegel l’infinità sitrova piuttosto nell’espressione finita 2/7 che nella serie infinita,

la cui somma deve essere sempre approssimata con una sommainfinita.

Considerando la questione con maggiore generalità, l’espres-sione 1/(1-a) ottiene lo sviluppo in serie di potenze 1 + a + a2 + a3 +... (sotto la condizione |a| < 1). Anche in questo caso Hegel consi-dera l’espressione completa 1/(1-a) = 1 + a + a2 + a3 + ... comeespressione della vera infinità, e la successione di polinomi 1, 1 + a,

1 + a + a2 , 1 + a + a2 + a3 , ..., come espressione della cattiva infinità.Sicché, paradossalmente, la vera infinità si ha nell’espressione fini-ta 1/(1-a) piuttosto che in quella 1 + a + a2 + a3 + ... Si noti che

Hegel nella Scienza della logica sta ricorrendo allo stesso esempiousato da Aristotele nella Fisica.

In modo analogo, considerando la frazione a

 bsi hanno esem-

plificazioni sia di cattiva, sia di vera infinità. Infatti, ad esempio,

 

2

7= 4

14= 6

21= ..., ed ogni sequenza finita di eguaglianze dà origine

alla cattiva infinità: 2

7= 4

14,  2

7= 4

14= 6

21,  2

7= 4

14= 6

21= 8

56, ...;

se invece consideriamo la totalità delle frazioni equivalenti a2

7,

concetto corrispondente a quello del numero razionale [  27   ] =

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95A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

p

q

| 7p = 2q , p ∈ Z, q ∈ Zo} , abbiamo nuovamente un esempio di

vera infinità.

Di grande interesse poi è l’osservazione delle Lezioni sullastoria della filosofia, che anche i punti di un segmento costituisconouna totalità infinita in atto (80). Si dispone così di un punto di vi-sta che unifica diversi aspetti della matematica: concetti geome-trici quali i luoghi geometrici, algebrici, quali il concetto di nume-ro razionale come collezione di infinite frazioni equivalenti, anali-tici, quali il concetto di funzione/relazione continua, esteso anchealle grandezze infinitesime (evanescenti).

In questo modo Hegel si spinge molto più in là di quanto nonavessero fatto altri filosofi e matematici nel riconoscere il ruolosvolto dall’infinito in atto in matematica. Resta però sempre anco-rato alla convinzione che il concetto di vero infinito non sia suscet-tibile di formalizzazione. Questo fatto è dovuto probabilmente alla

constatazione fatta da parte dei matematici, e condivisa da parte diHegel, che ampliando l’ambiente numerico con i “numeri infiniti”,

ammissibili in una concezione attuale dell’infinito, si perdevano al-cune proprietà delle operazioni con le grandezze numeriche, laqual cosa risultava difficilmente comprensibile al mondo scientifi-co di quell’epoca. Hegel è portato a estendere la portata di questacircostanza legata alle difficoltà algebriche del calcolo con i numeriinfiniti, affermando che in generale il vero infinito non è formaliz-

zabile; in questo modo però si presenta un momento aporetico del-la riflessione hegeliana sulla matematica, dal momento che eglistesso rappresenta l’infinito in atto con l’esempio geometrico spino-ziano o con il concetto di funzione, quindi ricorrendo alla rappre-sentazione anche formale dell’infinito attuale.

Risulta chiaro che, se da un lato è vero che Hegel tiene pre-sente il pensiero di Aristotele nella sua concezione della cattiva

(80) VGPh III, 171-172.

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HEGEL E ARISTOTELE96

infinità modellata sullo schema della concezione potenziale del-

l’infinito, è però anche vero che egli va oltre Aristotele accettandoanche una concezione attuale dell’infinito, per la quale aveva nel-l’età moderna gli esempi di Cavalieri, Spinoza, di Kant (tutto infi-nito), ed il concetto di funzione adoperato dai matematici (inmodo particolare le definizioni di funzione proposte da Euler eda Lagrange). Una delle fonti della riflessione hegeliana sul veroinfinito va però ricercata, a mio avviso, nella filosofia classica gre-

ca,

nel Filebo platonico,

in cui viene data una soluzione positivaall’opposizione tra i molti (gli infiniti molti) e l’uno.L’Enciclopedia del 1827 e quella del 1830 sviluppano nella

Anmerkung al § 95 la riflessione sulla vera infinità con l ’importan-tissimo riferimento al Filebo platonico. Hegel si sofferma sulla«nullità dell’antitesi intellettualistica di finito ed infinito» e osser-va che a questo proposito «è da consultare utilmente il Filebo pla-tonico» (81). Il tema si trova trattato anche nelle Lezioni sulla storia

della filosofia, nelle pagine dedicate appunto al Filebo (82

). Platoneaveva considerato in questo dialogo i quattro sommi generi dell’es-sere: l’in(de)finito, il limite, il genere misto e la causa (a[peiron, pevraı,

miktovn, aijtiva). Con riferimento ai primi tre generi, il terzo genere, ilmisto, deriva dalla commistione di infinito e limite, ed è il genereche rende conto della possibilità degli esseri determinati (83). L’in-terpretazione hegeliana di questo passo del Filebo avviene nellasfera qualitativa, ma lo schema dei primi tre generi del Filebo ver-

rà applicato anche a quella quantitativa (com’è del resto il casodel dialogo platonico). Osserviamo che l’a[peiron corrisponde all’es-sere della logica hegeliana nella sua indeterminatezza qualitativa,

(81) Enz. B, § 95 An.; Enz. C, § 95 An. A questo riguardo mi sia concesso dirinviare a MORETTO, Questioni di filosofia della matematica nella “ Scienza della logica” 

di Hegel, cit., 23-29.

(82) VGPh II, 77-79.

(83) Phileb. 23 c -27 d.

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97A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

quindi alla “infinità negativa”, il pevraı alla categoria del limite,

quindi alla finitezza. Il genere misto (miktovn) alla vera infinità, inte-sa come un’unione di finitezza ed infinitezza. Hegel fa suo il puntodi vista platonico (84); trova però terminologicamente inadeguato iltermine greco miktovn per indicare la vera unione di finito ed infinito,

poiché esso non rende conto della “dialetticità” con cui si configuratale unione. Si deve infatti esser cauti nel parlare di unità di finitoed infinito, osserva Hegel, poiché non si tratta né di un’unioneestrinseca dei due, né di una finitizzazione dell’infinito. La vera in-finità consiste invece, per ognuno dei due, il finito e l’infinito, nel«riferimento a se stesso, nel trapasso e nell’altro» (85).

Per ciò che riguarda poi il rapporto tra continuo e discreto -vero e proprio Leitmotiv della quantità, del quanto e della misura- Hegel pensava verosimilmente che con la vera infinità del quan-to si realizzasse a livello del quanto la sintesi di continuità e di-

screzione, come si può evincere dalle considerazioni della Scienzadella logica sull’esempio di Spinoza, le quali riguardano la nozionedi uno spazio finito, “esaurito” dalla totalità attualmente infinitadei segmenti che soddisfano alla condizione richiesta: «nello spa-zio dell’esempio l’infinito non sta al di là, ma è presente e com-piuto; questo spazio è uno spazio limitato ma infinito ‘perché lanatura della cosa supera ogni determinatezza’» (86). Anche se èvero che la strada percorsa dall’analisi matematica classica per la

definizione della continuità numerica ricorre all’infinito in atto,non è vero che una totalità infinita in atto densa, continua in sen-so aristotelico-kantiano, sia per ciò stesso una totalità continua,

(84) Sull’importanza del Filebo per la proposta hegeliana delle categoriedell’essere nella Logica di Jena, cfr. ROSENKRANZ,  Georg Wilhelm Friedrich HegelsLeben, Darmstadt 1972 (rist. anast. dell’ed. Berlin 1844), 105; trad. it. Vita di Hegel,introd., trad. e note a cura di R. Bodei, Milano 1974, 125.

(85) Cfr. Enz. B, § 95; Enz. C, § 95.

(86) WdL III, 248 (276); cfr. WdL I, 162.

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HEGEL E ARISTOTELE98

vale a dire priva di lacune (87). In effetti se si considerano i punti di

un intervallo [a, b] con ascissa razionale, essi costituiscono una to-talità infinita in atto densa, ma non continua. Per avere la continui-tà in un insieme ordinato e denso è necessario formulare anche unassioma specifico di continuità (ad es. nella forma di Dedekind o diCantor).

13. Conclusione — Da quanto è stato esposto emerge,

a mioavviso, il fatto che Hegel dedica grande attenzione al punto di vi-sta di Aristotele sull’infinito e sul continuo, e in questo senso sonogià stati segnalati alcuni aspetti di tale attenzione. Passando ad unaconsiderazione più ampia, mi pare si possa affermare che le conce-zioni dell’infinito e del continuo di Aristotele sono per Hegel ade-guate al modo di procedere della matematica come scienza rigoro-sa dell’intelletto.

In effetti la concezione hegeliana della cattiva infinità corri-sponde alla concezione aristotelica dell’infinito in potenza. La ne-gazione della possibilità dell’infinito attuale («infinitum actu nondatur») e la corrispondente scelta dell’infinito potenziale caratteriz-zano gran parte della matematica non solo antica, ma anche mo-derna e contemporanea. Le concezioni del calcolo infinitesimalenell’era moderna che venivano considerate rigorose adottavanoquesto punto di vista sull’infinito, e la stessa Théorie des fonctions

analytiques di Lagrange volendo proporre un livello di rigore pari aquello degli antichi si ispirava nei problemi di integrazione al me-todo di esaustione degli antichi, che esclude l’infinito attuale. Diquesto fatto tiene conto lo stesso Hegel, che ritiene che in questo

(87) Sugli insiemi continui si veda, ad es., I. BARSOTTI, Appunti di algebra,Bologna 1968, 15-18. Naturalmente Hegel non conosce la distinzione tra numeriinfiniti cardinali ed ordinali, né conosce la distinzione tra le cardinalità numera-

 bili e quelle continue,

concetti per i quali siamo debitori all’opera di Georg Can-tor.

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99A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

modo si possa fondare una matematica del calcolo infinitesimale

rigorosa, adeguata al suo standard di scienza dell’intelletto (88): unascienza delle determinazioni finite, che accoglie l’infinito solo sottol’aspetto potenziale, conformemente alla lezione di Aristotele.

Ma proprio la matematica dell’era moderna aveva riabilitatoil concetto di infinito attuale con la speculazione di Galilei e di Ca-valieri sugli indivisibili come componenti del continuo, in cui siconsidera il continuo come composto dai suoi infiniti indivisibili(Galilei) e si stabiliscono confronti tra i continui ponendo in corri-spondenza biunivoca i loro indivisibili (Galilei, Cavalieri). Oltre aquesto la matematica moderna aveva elaborato il concetto di fun-zione - relazione, in cui si ricorre a domini infiniti di enti che posso-no essere considerati anche da un punto di vista attuale.

Hegel trova che con queste proposte i matematici abbiano in-tuito la possibilità di un concetto di vera infinità, che assorbe in séla coppia di concetti dell’infinito potenziale e del limite. In questomodo egli stabilisce una corrispondenza tra l’esempio di infinitumactu proposto da Spinoza nell’Epistola XII e il concetto di funzione.Hegel aveva trovato un esempio di questo superamento delladicotomia finito-infinito nella concezione del genere misto delFilebo platonico, e il fatto che questa considerazione della Logicahegeliana si svolga nell’ambito della qualità e non della quantità,

non inficia a mio avviso la portata della considerazione di Hegel,sia perché la matematica abbisogna di entrambe queste categorie,

sia perché le considerazioni relazionali coinvolte dagli esempi ma-tematici appartengono più a una matematica qualitativa che aduna quantitativa.

Per ciò che riguarda il problema del continuo, Hegel annettegrande importanza alla caratterizzazione aristotelica della conti-

(88) A questo proposito mi sia concesso rinviare a A. MORETTO,  Hegel on

Greek Mathematics and Modern Calculus,

in Hegel and Newtonianism,

ed. by M.J.Petry, Dordrecht 1993, 149-165.

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HEGEL E ARISTOTELE100

nuità come divisibilità all’infinito di ciò che è esteso, in modo di ot-

tenere grandezze piccole a piacere. La concezione aristotelica origi-na una situazione asimmetrica nel rapporto tra i continui e gli indi-visibili inestesi di dimensione immediatamente inferiore che sonocontenuti in essi (ad esempio, nel caso del segmento, i suoi estremie l’infinità di punti che possono essere generati mediante divisionidel segmento). Infatti, mentre è vero che se è dato il continuo, allo-ra si possono ottenere in potenza gli infiniti punti di suddivisione

del continuo,

a partire da una concezione potenziale dell’infinitàdei punti non si può comporre il continuo.

Stando alle indicazioni della Scienza della logica sembra cheHegel ritenesse che con il concetto di vera infinità della moltitudi-ne si potesse superare questa asimmetria e ricomporre il continuocome una infinità attuale di indivisibili, che soddisfano alla conce-zione aristotelica della continuità. Pertanto anche in questo caso ilsuperamento della concezione aristotelica comporta il passaggio

dalla sfera dell’intelletto a quella della ragione. La considerazioneche si evince dal testo hegeliano è interessante: nell’intero (conti-nuo) sono contenuti in potenza infiniti elementi (punti). Se li consi-deriamo tutti in tutti i modi che si possono dare, secondo un puntodi vista attuale (secondo il vero infinito) si riottiene il continuo. Illogos zenoniano della dicotomia rivela però una conseguenza inatte-sa dopo tanti successi della matematica antica e moderna: dal di-screto non si può ottenere il continuo privo di lacune, se si dispone

di moltitudini infinite in cui valga la condizione aristotelico-kantiana di continuità “debole”.

In effetti una soluzione al problema del conseguimento delcontinuo a partire dal discreto viene trovata solo nella secondametà dell’Ottocento, in modo particolare con i contributi di R.Dedekind e G. Cantor. Dedekind propone il seguente principio(Stetigkeit und irrationale Zahlen (1872): se si dividono i punti dellaretta in due classi, tali che ciascun punto della prima classe sia allasinistra di ciascun punto della seconda classe, esiste uno ed un solo

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101A. MORETTO - Sul problema della considerazione matematica ...

punto che produce questo taglio (sezione, Schnitt) della retta in due

parti. Nella formulazione di G. Cantor (1872) il principio di conti-nuità stabilisce che non solo ad ogni punto P di una retta orientatar corrisponda uno ed un sol numero a, l’ascissa di P, uguale al rap-porto con segno del segmento orientato OP con un segmento u

unità di misura (numero razionale o irrazionale a seconda che isegmenti siano commensurabili o incommensurabili), ma che an-che, viceversa, ad ogni numero a, razionale o irrazionale, corri-

sponda uno ed un sol punto P sulla retta (

89

). In questo modo si ot-tiene un concetto di continuità più “forte” di quello aristotelico-kantiano, che non è in grado di assicurare l’assenza di lacune.

Ma sia per Aristotele, sia per Hegel non è possibile condizio-nare i giudizi sulla loro ricerca con i risultati che sono venuti inséguito. Piuttosto è il caso di riconoscere la grandezza della specu-lazione aristotelica sull’infinito e sul continuo, in cui si affrontanoproblemi di convergenza e di divergenza delle serie di grandezze,

e si raccorda il concetto di continuo con quello di successioneinfinitesima, e di quella hegeliana che, tenendo conto di alcuninuovi punti di vista della matematica moderna, rivaluta il concettodi infinito attuale.

(89) Si veda J.W.R. DEDEKIND,  Stetigkeit und irrationalen Zahlen, in Gesam-melte mathematische Werke, III, Braunschweig: Vieweg & Sohn, 1932, § 3; G.

CANTOR,

  Über die Ausdehnung eines Satzes aus der Theorie der trigonometrischenReihen, in Gesammelte Abhandlungen, cit., 96-97.

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(1) G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia , tr. di E. Codignola e G.Sanna, II, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 296 ss.

(2) E. BERTI, Le ragioni di Aristotele , Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 44 s.

PAOLO ZIZI

IL CONCETTO METAFISICO DI “INTERO”

IN ARISTOTELE E IN HEGEL

Hegel ha ravvisato nella metafisica di Aristotele lo stesso tipodi discorso che egli stesso aveva sviluppato nella propria logicanon formale, ma materiale, cioè esprimente la struttura stessa dellarealtà. Nella sua interpretazione di Aristotele proposta nelle Lezioni

sulla storia della filosofia (1), Hegel collocò la metafisica prima della

fisica. Ma per Aristotele è fuori dubbio che la fisica deve precederela metafisica, perché la fisica è la conoscenza dei principi e dellecause prime (cioè epistéme) della natura, vale a dire di quella realtàche per prima si presenta alla nostra indagine e che è più nota “pernoi”. Solo dopo aver portato a termine la fisica e aver scoperto, at-traverso la fisica stessa, l’esistenza di una realtà diversa dalla natu-ra, Aristotele ha ammesso una scienza dedicata allo studio di que-sta nuova realtà, cioè la metafisica (2).

«Nelle tranquille regioni del pensiero che è giunto a se stesso,ed è soltanto in sé, tacciono gli interessi che muovono la vita deipopoli e degli individui. “Da tanti lati — dice Aristotele [in  Me-

taph., I 2, 982 b 19 ss.]... — la natura dell’uomo è dipendente; maquesta scienza che non viene cercata per un vantaggio, è, sola, la

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104 HEGEL E ARISTOTELE

scienza libera in sé e per sé, che perciò non sembra essere un pos-

sesso umano”» (3). Metafisica è quindi ‘filosofia’ in quanto indivi-duazione delle proprietà e dei significati di ciò che costituisce l’og-getto di tale disciplina, cioè to on he on ; «c’è una scienza che consi-dera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono inquanto tale» (4). L’“essere in quanto essere” richiama uno degli as-siomi che Hegel riprende proprio dallo Stagirita: «l’intero è per na-tura prima delle parti» (5). Non solo, ma questo passo della Metafi-

sica evidenzia la considerazione dell’

ente in quanto tale,

ponendola differenza tra questa scienza e le altre; questa scienza non si limi-ta ad una o più determinazioni dell’ente considerato, ma assumequell’ente nella sua interezza, cioè in quanto esso “è”: appunto l’in-tero (6). Aristotele si riferisce anche alla sapienza (sophìa) , la quale èdetta dallo Stagirita anche theorìa perì tes alethéias , scienza della ve-rità dell’intero. Anche per Hegel non vi è esperienza fuori dell’uni-versale, ovvero dell’intero: «la filosofia è essenzialmente nell’ele-

mento dell’universalità, la quale include in sé il particolare» (7

). Lafilosofia tematizza ciò che è primo e originario; l’intero è il temaper eccellenza della filosofia (8).

(3) G.W.F. HEGEL,  Scienza della logica ,  tr. di A. Moni, Laterza, Roma-Bari1981, pp. 13 s.

(4) ARISTOTELE,  Metaph. , IV 1, 1003 a 20 s.; tr. di G. Reale, Vita e Pensiero,

Milano 1993, II, p. 131.

(5) G.W.F. HEGEL,  Filosofia dello spirito jenese ,  tr. di G. Cantillo, Laterza,

Roma-Bari 1984, p. 144 e n. 187. Nella discussione sulla mia relazione, RenatoMilan ha opportunamente ricordato che l’ispirazione aristotelica della nozionehegeliana dell’intero risulta già dal francofortese Frammento di sistema , mediante ilconcetto di ‘vivente’.

(6) G. R. BACCHIN,  Originarietà e mediazione nel discorso metafisico ,  JandiSapi, Perugia 1963, pp. 40 ss.

(7) G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito , tr. di E. De Negri, La NuovaItalia, Firenze 1979, I, p. 1.

(8) Vedi la n. 5.

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105P. ZIZI - Il concetto metafisico di “ intero”  in Aristotele e in Hegel

Inoltre Hegel, restaurando il concetto classico di filosofia, ini-

zialmente si rifà al concetto di dialettica ‘negativa’ di Platone e diAristotele (presente soprattutto nei Topici). La dialettica viene im-piegata nell’Introduzione alla Fenomenologia per designare il proces-so del sorgere di nuovi oggetti alla coscienza, il fare esperienza cheè oggetto della scienza fenomenologica. Dall’inizio della sezioneintitolata Ragione non si parla più (se non sporadicamente) di dia-lettica, perché la coscienza ha cessato di esperire nuovi oggetti, ma

è a se stessa il proprio contenuto (

9

). Com’

è noto,

l’

accezione‘

positi-va’ della dialettica come automovimento dei concetti verrà svilup-pata da Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia e, poi, soprattuttonella Scienza della logica e nel sistema dell’Enciclopedia.

Per Aristotele la dialettica è da un lato un’arte tesa al produr-re (pòiesis) ,  facoltà di argomentare, in grado di confutare katà to

 pragma, secondo la realtà, e cioè di smascherare, mediante la criti-ca, l’inconsistenza di ogni presunto sapere, ovvero di “annientare

per uno scopo” non immanente, ma esterno. Si differenzia inoltre,sul piano dell’arte, dalla saggezza che, come praxis ,  ha il fine in sestessa, e, sul piano conoscitivo, dalla scienza, che è ghnoristiké  , co-noscitiva, e non semplicemente peirastiké  , esaminativa, come la dia-lettica, che saggia la validità delle argomentazioni (10).

Un punto che accomuna la concezione hegeliana della dialet-tica (negativa) e quella di Aristotele riguarda precisamente gliéndoxa (ovvero gli argomenti o le premesse che sono in fama) (11);

la dialettica argomenta partendo non da qualsivoglia opinione, madalle opinioni più accreditate, da quelle concrezioni storiche in cuisi sedimentano le convinzioni degli uomini più sapienti e famosi oche raccolgono il consenso di larghi strati di opinione pubblica.

(9) F. CHIEREGHIN, Dialettica dell’ assoluto e ontologia della soggettività in Hegel ,Pubblicazioni di Verifiche, Trento 1980, p. 204.

(10) Ivi, pp. 204 s. Cfr. anche BERTI, Le ragioni di Aristotele , pp. 18 ss., 31 ss.

(11) ARISTOTELE, Top., I 1, 100 a 18-21; 100 b 21-23.

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106 HEGEL E ARISTOTELE

Anche la dialettica (ovvero la logica) jenese ha i propri éndoxa cui

applicarsi (12).Vi è però un elemento, nonostante le differenze, che collega

fra loro dialettica e filosofia: «i dialettici discutono di tutte le cose, ea tutte le cose è comune l’essere..., e discutono di queste nozioni,evidentemente, perché esse sono effettivamente oggetto propriodella filosofia» (13). È chiaro come Hegel intenda quest’affermazio-ne, quando sostiene che la logica espone «come un riflesso l’imma-

gine dell’

Assoluto»

(

14

).In effetti, c’è una perfetta coincidenza, secondo Aristotele, trala metafisica come scienza della totalità del reale, cioè dell’on he on

(ontologia), e la metafisica come scienza delle cause e dei principidell’essere (aitiologia) (15); e, si potrebbe dire, c’è coincidenza anchetra ontologia e teologia, o, meglio, l’ontologia è in funzione dellateologia (16); l’intero viene spiegato dallo Stagirita mediante unacausa trascendente, l’Atto puro. All’inizio di Metaph. , XII 1, egli af-

ferma, infatti, che l’oggetto della sua indagine è la sostanza e che èdelle sostanze che sta ricercando i principi e le cause (17). L’impiegohegeliano dell’affermazione di Metaph. , IV 2, 1004 b 19-22 determi-na che la vera conoscenza, per lo Hegel jenese, si realizza nella me-tafisica, la quale espone la vera conoscenza dell’Assoluto. Ciò che è

(12) CHIEREGHIN, Dialettica dell’ assoluto , pp. 205 s.

(13) ARISTOTELE,  Metaph. , IV 2, 1004 b 19-22; tr. Reale, II, p. 139.

(14) K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel ,  tr. di R. Bodei, Vallecchi, Firenze 1966,

p. 207. Cfr. CHIEREGHIN, Dialettica dell’ assoluto , p. 206.

(15) ARISTOTELE,  Metaph. , IV 1 per totum. Cfr. REALE, in ARISTOTELE,  Metafisi-ca , cit., I, pp. 53 ss.

(16) Ivi, I, pp. 60 ss. Per una diversa presa di posizione al riguardo , cheinterpreta la lezione aristotelica come una “metafisica dell’incompiutezza”, cfr. P.AUBENQUE,  Le  problème de l’ être chez Aristote ,  Presses Universitaires de France,

Paris 1962, pp. 193 ss., e A. FERRARIN, Hegel interprete di Aristotele , ETS Editrice,Fisa 1990, p. 50.

(17) ARISTOTELE,  Metaph. , XII 1, 1069 a 18 s.

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107P. ZIZI - Il concetto metafisico di “ intero”  in Aristotele e in Hegel

comune ad entrambe, alla logica e alla metafisica jenesi, è l’oriz-

zonte della totalità come possesso dell’intero (18), un orizzonte checi circonda e si sposta sempre con noi, di modo che non riusciamomai ad andare fuori, perché esso non è ‘definito’ (horizòmenon) , ma,appunto, definiente, circoscrivente (horìzon).

Sapere il tutto, ovvero l’intero, significa conoscere la ragione,il perché, la causa per cui il tutto è in un certo modo piuttosto chein un altro. Sapere il tutto è riconoscere di non conoscere ancora

questa ragione e dunque non scambiare nessuna certezza partico-lare, nessuna conoscenza che già abbiamo, con quel sapere che cer-chiamo. È necessario riconoscere che se la filosofia mette in que-stione tutto, essa non accetta nessuna stipulazione preliminare equindi, come dichiara Hegel (19), non ha il vantaggio, di cui di-spongono le altre scienze, di poter presupporre qualcosa, come av-viene per il procedimento deduttivo della matematica. L’intero è re-golato non da principi propri delle scienze, ma — sostiene Aristo-

tele — da principi comuni a tutte; ovvero i principi devono riferirsial tutto, cioè devono essere i principi comuni (trascendentali) a tut-te le scienze: il principio di non contraddizione e il principio delterzo escluso; essi non si riferiscono a, e da essi non si può dedurrealcunché di determinato, perché valgono per tutto e contengonotutto, o, meglio, sono coestensivi all’essere in quanto essere.

Nello Hegel jenese la dialettica è in grado di mediare il pas-saggio dalla logica alla metafisica proprio perché ha la capacità

peirastica di annientare tutti i modi difettivi di possedere la totali-tà (20). Analogamente la dialettica aristotelica annienta tutti i tenta-tivi di mettere in discussione il principio essenziale dell’intero: ilprincipio di non contraddizione, giacché chi nega questo principio

(18) CHIEREGHIN, Dialettica dell’ assoluto , p. 206.

(19) G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio , tr. di V.Verra, I, Utet, Torino 1981, § 1, p.123.

(20) CHIEREGHIN, Dialettica dell’ assoluto , p. 206.

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108 HEGEL E ARISTOTELE

deve negare anche l’ousìa ,  cioè, ad es., deve confutare che ci sia

qualcosa come “l’essenza dell’uomo” (21). L’inizio o cominciamentodel sapere coincide con l’esperienza filosofica che è il sapere di nonsapere. Dire questo è dire che non vi è esperienza fuori dell ’intero,

ovvero dell’essere, che in Hegel è l’universale (22).La logica di Jena mostra come Hegel si collochi sulla linea

della concezione strumentalistica della logica, che ha il suo caposti-pite in Aristotele stesso: nei Topici (I, 11) lo Stagirita dichiara che i

problemi logici non sono discussi per se stessi,

ma in ragione dellaloro utilità in vista della conoscenza morale e speculativa; sonoquindi strumenti grazie ai quali si opera mirando a realtà diverse e

superiori (23). Ora per Aristotele conoscere la realtà tutta quantavuol dire conoscerla alla luce dell’universale, e le cause e i principisono gli universali supremi (ta màlista kathòlou) (24). La dottrina del-le cause e dei principi primi ha per fondamento lo studio dell’esse-re in quanto essere, e questo studio ha per oggetto sia l’unità che

sussiste quando i diversi significati di un termine si dicono tutti inriferimento ad un’unica natura, sia l’unità di consecuzione, quandoi diversi termini costituiscono una serie in cui i termini anteriorisono la condizione dei termini posteriori. La differenza essenzialetra Hegel e Aristotele è che, per quest’ultimo, il tutto è spiegato me-diante una causa che trascende l’intera serie dei particolari finiti.

Per Hegel la vera forma della verità è il concetto; riguardo al-l’intero egli lo usa in due sensi: 1) il concetto come nozione iniziale

dell’intero; 2) il concetto come sistema o compiutezza cui l’intero,divenendo, perviene; si ha così la scienza, ovvero il pensare l’interoo l’universale. L’incontraddittorietà dell’intero si afferma come non

(21) ARISTOTELE,  Metaph. , IV 4, 1007 a 20 ss.; 1006 a 31-34.

(22) HEGEL, Fenomenologia dello spirito , I, pp. 1 e 15.

(23) CHIEREGHIN, Dialettica dell’ assoluto , p. 188.

(24) ARISTOTELE , Metaph. , I 2, 982 a 24-25.

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109P. ZIZI - Il concetto metafisico di “ intero”  in Aristotele e in Hegel

identità con gli enti. Il concetto metafisico è la teoresi della non

identità fra essere ed ente, tra intero e molteplice.Nella determinazione dell’intero è contenuta anche la distin-

zione fra doxa e scienza. Aristotele, in An. post. , I 33, 88 b 30-32, puòdire che la scienza è di ciò che è secondo il tutto e in forza del ne-cessario, e che ciò che può essere anche altrimenti non si costituiscecome oggetto di scienza. Ora l’opinione potrebbe affermare chel’intero può non essere, intendendo dire che esso non esiste neces-

sariamente. Aristotele potrebbe confutare l’

obiezione in questi ter-mini: l’affermazione che qualcosa non è necessario ha senso solocome affermazione che qualcosa è a certe condizioni. Allora esserea certe condizioni vuol dire non cogliere l’intero. In definitiva, laposizione genuinamente aristotelica, che, sino a un certo tratto,

coincide con quella hegeliana, sembra essere la seguente: porre ladomanda intorno all’intero, ovvero all’on, è domandare tutto, maquel tutto di cui si domanda è il ‘problematizzare il tutto’ che è ‘un

tutto domandare’. Ma domandare tutto è ammettere di sapere iltutto, ovvero — ripetiamolo — non scambiare nessuna certezzaparticolare, nessuna conoscenza che già abbiamo con quel sapereche cerchiamo (25).

(25

) Sul concetto di filosofia (metafisica) classica come problematicitàpura cfr. M. GENTILE, Filosofia e umanesimo , La Scuola, Brescia 1947.

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RAIMONDO PORCHEDDU

L’IDEA ARISTOTELICA DI NATURA

NELL’INTERPRETAZIONE DI HEGEL

L’interpretazione hegeliana di Aristotele ha la grandezza e laruvidezza propria di una ricostruzione “dialettica” in cui la logicasi coniuga con la cronologia e la speculazione con la filologia. Ispi-

randosi a una concezione che teorizza la coincidenza tra sviluppostorico e pensiero teoretico la storiografia hegeliana fa apparire tut-to irresistibilmente orientato verso una meta finale. Hegel sa di es-sere il punto di arrivo e la recapitulatio di tutto lo sviluppo filosoficoe può dal suo punto di osservazione rivolgere uno sguardo retro-spettivo alle singole tappe per misurarne le vicinanze e le lonta-nanze.

Non c’è dubbio che questa ricognizione riesce a conferire un

senso unitario al passato filosofico e una percezione che i conti tor-nino. La filosofia hegeliana appare la realizzazione di un finalismo,

di un telos, presente nella filosofia fin dalle sue origini.È sempre importante disporre di un preciso punto di vista

con cui guardare le cose. Chi non dispone di un proprio contenutospirituale denso e vivo non può vedere al di là della quotidianità.

Dalla grandezza del proprio sentire dipende anche la capaci-tà di percepire le cose in modo non convenzionale, innovativo eoriginale.

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112 HEGEL E ARISTOTELE

Perché questo avvenga la mente deve essere capace di riorga-

nizzare tutto il suo campo percettivo e cognitivo secondo una tota-lità anticipatrice.

Anche quando ci confrontiamo con gli antichi il metodo nonè detto che possa bastare. Nella prospettiva classicistica e in quellastoricistica con cui ordinariamente si guarda al pensiero antico,

quando ci si affida unicamente al metodo si ottiene un approccio

sterile. È quanto denuncia Enrico Berti in un suo intervento del1965 (1). Gli esiti possono essere o ripetizione pedissequa, o erudi-zione archeologica, o ricostruzione di una filosofia che non ha nul-la da dire all’uomo d’oggi.

A superamento della prospettiva storicistica Berti suggerisceuna prospettiva terminologicamente non nuova, ma rinnovabilenel concetto: quella umanistica. Secondo Berti può essere indicati-vo in questa direzione l’umanesimo di Jaeger e Stenzel, ma con la

riserva che «è stato troppo filologico e poco filosofico» (2

). Bertipensa ad un umanesimo che sappia «trarre dalla filosofia antica,

pur nella persuasione della sua classicità, precise indicazioni teore-tiche» (3).

Come si colloca Hegel rispetto a questa prospettiva? Per Bertinon può essere un modello da seguire (4), ed è un punto di vistache merita di essere discusso. In prima approssimazione mi sembradi poter affermare che l’unico approccio creativamente umanistico

al pensiero antico poteva essere per Hegel quello che effettivamen-te ha realizzato.

Per quanto riguarda Aristotele è sotto gli occhi di tutti che èstato un approccio fecondo e innovativo come solo un vero umane-

(1) Ristampato in E. BERTI, Studi aristotelici, L’Aquila 1975, p. 30.

(2) Ivi, p. 31.

(3) Ivi.

(4) Ivi, p. 29.

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113R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

simo poteva render possibile, Quello di Hegel è stato un ricongiun-

gersi con la filosofia di Aristotele come se fosse il passato ontologi-co della propria filosofia. È vero, come rileva Berti, che Hegel guar-da in generale al pensiero antico come ad una metafisica ingenuapriva di quella che costituisce la superiorità del pensiero moderno:la coscienza della differenza di soggettivo ed oggettivo (5). Questonon impedisce però ad Hegel di vedere nella filosofia aristotelicauna sorta di prefigurazione della propria filosofia. La filosofia ari-

stotelica che Hegel ricostruisce è tutt’

altro che povera e astratta.Quello che emerge è un Aristotele nuovo e inedito, non più quelloempirista della tradizione. L’Aristotele di Hegel non è più l’anti-Platone; al contrario è quello che «esprime la filosofia nel senso diPlatone, ma approfondendola e ampliandola e quindi facendolaprogredire» (6). «Di fatto» — aggiunge — «Aristotele ha superatoper profondità speculativa Platone, giacché conobbe la più profon-da delle speculazioni, l’idealismo, e vi si attenne, nonostante la

parte amplissima concessa all’empirismo» (7

).Pur avendo riconosciuto altrove ampi meriti a Platone, Hegelsembra identificarsi meglio in Aristotele, tanto da considerarlotraducibile nei termini della propria filosofia (8).

Non è chiaro in che misura questo genere di umanesimo ab- bia potuto far emergere l’elemento originario del pensiero antico.Per la prospettiva stessa in cui Hegel si collocava, di sentirsi il frut-to maturo di tutto lo sviluppo filosofico, era inevitabile che il “rico-

(5) Ivi.

(6) G.W.F. HEGEL, Lezioni di storia della filosofia , trad. it., Firenze 1973, II, p.278.

(7) Ivi, p. 277.

(8) Sul confronto Platone-Aristotele però Gadamer avverte: «Non ci si develasciare trarre in inganno dal fatto che Hegel riconosce in Aristotele più profondeverità speculative... In ogni caso Hegel non ha visto il vero e proprio prototipo del

concetto della dimostrazione filosofica in Aristotele,

ma nella dialettica eleatica eplatonica» (H.G. GADAMER, La dialettica di Hegel, trad. it., Torino 1973, p. 11).

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114 HEGEL E ARISTOTELE

noscere” prevalesse sul semplice “conoscere” (9). Ma era questo

l’unico possibile umanesimo per Hegel. La riscoperta del pensieroantico poteva avvenire per Hegel a condizione che muovesse dalproprio mondo e dal proprio orizzonte romantico-idealistico.

Per noi la prospettiva umanistica deve per la stessa ragionecambiare. Il nostro mondo e il nostro orizzonte culturale è profon-damente mutato rispetto a quello di Hegel. Già l’idea di poter trar-re indicazioni teoretiche profonde anche per i nostri giorni èpensabile solo a partire da questo contesto.

Considerato tutto ciò, che significa ritornare ad Aristoteledopo Hegel? Dopo Hegel il nostro sentimento delle cose è mutato.Non possiamo più riconoscerci nel suo idealismo, anche se nonpuò non essere nelle aspirazioni di tutti ristabilire la totalità del sa-pere su nuove basi, posto che sia ancora possibile. Non sarebberosufficienti peraltro dei piccoli aggiustamenti. Dopo Schopenhauere Kierkegaard, Marx e Freud, Nietzsche ed Heidegger, per citaresolo alcuni grandi, la filosofia è profondamente cambiata. Sonoistanze a cui il sistema hegeliano difficilmente può ancora rispon-dere. La filosofia di Hegel può però costituire un ordito razionaleche possa dare coerenza a quelle istanze. Questa possibilità esistese si considera che un po’ tutti i filosofi contemporanei in una for-ma o nell’altra si preoccupano di fare i loro conti con Hegel (10).Tutto questo fa pensare che al di là di una produzione filosofica fat-ta in larga misura di aforismi, di metafore e di un linguaggio poeti-

camente allusivo,

tanto da farla apparire più una letteratura cheuna scienza, si senta ancora l’esigenza di ripristinare una coerenzarazionale che metta fine alla confusione delle lingue e ristabilisca lacomunicazione filosofica.

(9) Questo può chiarire la particolarità di una interpretazione (come quellahegeliana) «oltre Aristotele» (vedi L. SAMONÀ, Dialettica e metafisica. Prospettiva suHegel e Aristotele, Palermo 1988, p. 18), dove le analisi non sono immuni da«forzature» e da «violenze interpretative» nonostante il proposito di «rispettare ledifferenze di tempi, di cultura, di filosofia» (ivi).

(10) Su questo tema vedi A. NEGRI, Hegel nel Novecento, Roma-Bari 1987.

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115R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

Se la filosofia attualmente si trova in questo estremo stato di

dispersione e di frammentazione, quale è stata la sua colpa di ori-gine? Ritornare ad Aristotele dopo Hegel può avere il significato diun “ricominciare da capo”, di un ritorno alle origini. Un ritorno adAristotele non può avvenire senza che si passi attraverso il suo rap-porto con Hegel. Umanesimo per noi ora significa ristabilire tra idue l’alterità ripristinando la giusta prospettiva storico-filologica.Può Aristotele sopravvivere al destino della filosofia hegeliana?

Credo che un confronto sul concetto di natura possa essere partico-larmente significativo per ristabilire le differenze e per consentireuna nuova riappropriazione di Aristotele.

Nel secondo libro della Fisica Aristotele chiarisce in una fittasequenza di concetti che cosa intende per natura. Leggiamo cosìche «sono per natura» tutte quelle cose che hanno in se stesse ilprincipio del movimento e della quiete (11). Ne consegue che «la

natura è principio e causa di movimento e di quiete» (12

). E poichévi è un fine del movimento stesso, la natura è fine e causa fina-le (13). «Sono secondo natura», pertanto, «tutte quelle cose che,mosse continuamente da un principio a loro immanente, giungonoad un fine» (14).

Hegel sottolinea soprattutto questo agire proprio della natu-ra in vista di un fine rilevando che per Aristotele «ciò che più im-porta è determinare il fine come interiore determinazione della

stessa cosa naturale» (15). Questo, secondo Hegel, l’aspetto che di-vide Aristotele dai moderni per i quali la fisica è divenuta una sem-plice scienza descrittiva da cui è esclusa ogni considerazione meta-

(11) Phys., 192 B 13-14.

(12) Ivi, 192 B 20-22.

(13) Ivi, 194 A 28-30.

(14) Ivi, 199 B 15-17. Cfr. la trad. di A. Russo, Roma-Bari 1983.

(15) Lezioni di storia della filosofia, cit., p. 318.

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116 HEGEL E ARISTOTELE

fisica (16). Le pagine di Hegel qui sembrano fare da contrappunto

alla polemica antimeccanicistica e antievoluzionistica che leggiamonella Fisica (17). «Nella natura» — scrive Hegel — «ordinariamentesi pensa alla necessità e si considera essenzialmente come naturaleciò che non è determinato dal fine. Da molto tempo si è creduto diavere così determinato la natura filosoficamente e veracemente li-mitandola alla necessità» (18). Non meno chiara è la presa di posi-zione contro l’indirizzo evoluzionistico della scienza e della filoso-fia moderna. Hegel registra quasi con sorpresa che nella contempo-ranea filosofia della natura» abbia fatto la sua comparsa «l’espres-sione sorgere (uno svolgersi scevro di pensiero)» secondo «una rap-presentazione ... della natura» che procede per «tentativi», tra i qua-li sopravvivono quelli che si mostrano rispondenti a un fine (19).

La sua replica suona come una parafrasi al testo di Aristotele:«la natura, in quanto entelechìa, è ciò che genera se stessa» (20). «Na-tura significa appunto che una cosa diviene ciò che era già in lei sinda principio. È questa interna universalità e finalità che si realizza;sicché causa ed effetto sono identici, in quanto tutti i singoli mem-

 bri sono relativi all’unità del fine» (21).

La concezione «della finalità interna e immanente» propriadella natura aristotelica non ha avuto una importanza qualsiasinello sviluppo della filosofia hegeliana, ma è stata di granderilevanza, se non proprio determinante (22). La sua portata può es-

(16) Ivi, p. 317. Hegel qui non tiene conto del punto di vista di Leibniz sulfinalismo (cfr. G. W. LEIBNIZ, Discorso di Metafisica, in Scritti filosofici, trad. it., Tori-no 1988, pp. 73, 74, 86).

(17) Phys., 195 B 35 ss. con probabile riferimento all’atomismo; 196 A 24 ss.

(18) Lezioni, cit., p. 319.

(19) Ivi, p. 320.

(20) Ivi.

(21) Ivi, p. 321.

(22) Cfr. Fenomenologia dello spirito, trad. it., Firenze l970, I, p. 17.

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117R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

sere misurata in riferimento allo spinozismo vissuto da Hegel ini-

zialmente e condiviso con altri esponenti della cultura romantica.La successiva presa di distanza da Spinoza dovette passare attra-verso la riscoperta della teleologia aristotelica. Fu questo elementoche dovette decidere in ultima istanza tra Spinoza e Aristotele, enon solo per Hegel (23). Hegel sembra alludere a questa svolta suae dei suoi contemporanei in un breve passaggio: «che i tempi piùrecenti» — scrive — «siano di nuovo ricorsi al razionale su questopunto, è puramente una conferma della fondatezza dell’ideaaristotelica» (24). Hegel dice: «di nuovo», dopo aver riconosciutoche già prima il solo Kant, tra i moderni, aveva colto il finalismolimitatamente al mondo organico (25).

Per la finalità interna Hegel intende la natura aristotelica«come vita, cioè come tale che è scopo in sé e unità con sé, non tra-passa in altro, ma grazie a questo principio dell’attività determina imutamenti conforme al suo particolare contenuto e così si conserva

in essi» (26

).La vita si estende per Hegel quanto la natura, giacché tutta lanatura gli appare dominata da una stessa finalità interna. Ma oraHegel reinterpreta questa finalità secondo l’apparato dialettico del-la sua filosofia. La natura, come il vivente, è per Hegel «l’idea cherealizza se stessa» (27). Fin dalle prime battute si avverte questotentativo hegeliano di tradurre la fisica aristotelica nei termini dellapropria filosofia attraverso l’identificazione successiva di Natura-

Vita-Idea.

(23) Sul rapporto Hegel-Spinoza cfr. A. FERRARIN, Hegel interprete di Aristo-tele, Pisa 1990, p. 219. Sull’antifinalismo di Spinoza cfr. M. MESSERI, L’ Epistemolo-

 gia di Spinoza, Milano 1990, pp. 171 ss. Sul rapporto Kant-Goethe-Spinoza cfr. G.DE FLAVIIS, Kant e Spinoza, Firenze 1986, pp. 197 ss.

(24) Lezioni, cit., p. 322.

(25) Ivi.

(26) Ivi, p. 319.

(27) Ivi, p. 321.

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118 HEGEL E ARISTOTELE

Per Aristotele queste relazioni non sono così lineari, giacché

la comprensione della natura deve passare attraverso la compren-sione della sostanza. La natura si realizza nella sostanza e la finali-tà esprime il dinamismo proprio della sostanza (28). La sostanzapresuppone un sostrato, e la natura è sempre in un sostrato (29). Laforma è più natura che la materia (30), ma è sempre in un sostratomateriale. La sostanza è il luogo dove la natura si media con la ma-teria e con la forma fissandosi in un composto o sinolo.

Se i contrari si generassero l’

uno dall’

altro,

come ad esempioil caldo dal freddo, si andrebbe incontro, per Aristotele, ad una con-traddizione. Il principio del caldo non può essere il principio delfreddo. Tutte le forme si identificherebbero in un’unica forma. Èquesta la contraddizione che Aristotele poteva rilevare anche neiFisici antichi. Non essendoci distinzione tra sostrato materiale e for-ma si presupponeva che la forma dell’acqua potesse diventare for-ma di tutto o che la forma degli atomi (come in Democrito) potesse

dare origine a tutte le altre forme, o che dalla semplice quantità de-rivasse l’infinita varietà delle qualità. Non era un modo adeguatoper spiegare il molteplice, e Parmenide poteva avere più di una ra-gione per ricondurre tutte le differenze ad un unico Essere (31).

Essendo i contrari inderivabili reciprocamente (32), si deveammettere che si alternano in un terzo principio: il sostrato (33). Ilsostrato permette la pensabilità del non essere e del molteplice.Senza il sostrato tutti i contrari, tutte le forme e le differenze si

identificherebbero nell’Uno di Parmenide.

(28) Phys., 192 B 32-33.

(29)Ivi, 192 B 34.

(30)Ivi, 193 B 6-7.

(31) Aristotele non considera valida neppure la soluzione di Anassagora (ilprincipio che “tutto è in tutto”). Cfr. Met., 1069 B 20-2; Phys., 187 A 26 ss.

(32) Phys., 188 A 28-30

(33) Phys., 189 A 35 ss.

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119R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

È nel composto che la natura diviene identificabile e pensabi-

le. «La natura» — scrive Aristotele — «intesa come generazione, èuna via verso la natura vera e propria» (34). La natura, da questopunto di vista, è un principio di movimento che mira a un risultatoproiettandosi fuori di sé in un mondo ordinato di forme. Ma al difuori del composto le forme sarebbero pura tautologia che gira avuoto. La natura vera e propria è quindi la forma, e la forma, comela natura, è fine e causa finale (35). Ma è la materia che scandisce il

prima e il dopo trasformando un puro principio di movimento inmovimento effettivo e nel tempo che lo misura. La natura divienecosi successione, ordine, regolarità.

La evidente circolarità della natura con materia e forma puòsuggerire qualche altra considerazione. Materia e forma sono natu-ra, ma non si identificano con la natura. Una è più natura dell’altra.La natura è il più o il meno della loro relazione. La natura si interpo-ne come elemento mediatore tra le due. La forma è il termine verso

cui la natura si muove a partire da quella materia che essa è giàsempre (36).La natura per Aristotele opera come l’arte utilizzando dei

materiali per realizzare i suoi prodotti. C’è da chiedersi se tuttoquesto implica una previsione, una intelligenza capace di progetta-re i suoi risultati. Per Aristotele non ci sono dubbi che la naturaopera in vista di fini. Non potrebbe essere da meno rispetto all’arti-sta. Dopo tutto l’artista non è un prodotto della natura? Ciò implica

che l’intenzionalità dell’artista non è che una delle possibili modali-tà in cui si esprime l’intenzionalità della natura (37). Essendo la na-tura portatrice della forma propria dell’uomo, è anche portatrice

(34) Ivi, 193 B 12-13.

(35) Ivi, 199 A 32-33; 194 A 28-29.

(36) Ivi, 193 B 5-18

(

37

) Ivi. Su questo cfr. Phys. II,

4,

196 A 25-196B 5;

II,

8,

199 A 8-29;

  Met.,

1065 A 27-28, 1065 B 1-5.

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120 HEGEL E ARISTOTELE

del suo modo particolare di operare. Non è possibile che la natura

abbia meno dell’uomo, che è pur sempre un suo prodotto. Se l’in-telligenza e il suo operare in vista di un fine non fosse già presentenella natura, in che modo avrebbe potuto venire al mondo?

Per Aristotele le alternative a sua conoscenza potevano esserericonducibili al meccanicismo democriteo o all’evoluzionismoempedocleo. Aristotele rivolge a Democrito e ad Empedocle lostesso rilievo che avrebbe potuto muovere Parmenide: in che modo

la qualità si sarebbe potuta realizzare dall’

incontro fortuito di ato-mi o di elementi, se non fosse stata già nelle previsioni della natu-ra? Mai l’essere avrebbe potuto nascere dal non-essere.

Questa ipotesi potrebbe suggerire l’idea che le forme siano inqualche modo separabili dalla materia. Aristotele ammette che sia-no separabili per noi «per logica astrazione» (38), ma ora la doman-da è se sono separabili anche nelle cose e quindi anche nell’ordineontologico, preesistendo per così dire al divenire. Proprio perché le

forme si riproducono con regolarità nonostante gli infiniti processidi mutamento occorre un principio che ne garantisca la persistenzae la continuità. Esclusi il caso e la necessità come principi di spiega-zione della realtà e attenendoci alla causa finale siamo ricondotti inultima istanza al concetto (39). Concetto è tutto ciò che è pensabile.Dobbiamo considerare le forme come dei pensabili senza che unamente li pensi? È vero che sono pensabili dall’intelletto umano eche solo delle forme si può avere scienza. Ma si può ottenere una

scienza solo a cose fatte? Sarebbe come dire che la scienza si costi-tuisce per caso.

Si potrebbe forse render meglio l’idea ricorrendo alla termi-nologia degli Scolastici medioevali, i quali distinguevano le essen-ze universali ante rem, in re,  post rem. Dobbiamo pensare che le es-senze siano presenti nelle cose, successivamente astraibili dall’in-

(38) Phys., 193 B 5-18; 193 B 3-5.

(39) Ivi; Phys., 200 A 14-15; 22-24.

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121R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

telletto umano, senza che la natura ne abbia pensiero alcuno “ante

rem”?Dove sta allora la causa finale in natura?Si potrebbero trovare risposte in alcune espressioni in cui

Aristotele dice che né Dio né la natura fanno niente invano (40) oche la natura agisce in vista del fine come il pensiero (41). Può essersignificativo anche il rilievo mosso ad Anassagora in modo moltosimile a quello del Fedone, di fare intervenire Dio nella natura come

un deus ex machina (

42

).Il senso di questa critica sembrerebbe essere che, posto che cisia un ordine nell’universo, e che tra le cose che sono c’è da inclu-dere anche l’intelletto, le due cose non possono considerarsi estra-nee.

Una risposta più esplicita potrebbe essere reperibile nellestesse pagine della Fisica, in cui Aristotele definisce «l’assolutamen-te immobile» «concetto e forma di tutto» (43). Come è da intendere

tutto questo? Le forme in continuo scambio con la materia sonoorientate a realizzare un loro modello separato nell’Atto puro? Tut-to questo richiederebbe una discussione sul complesso rapporto trail Motore immobile e la natura.

Non manca qualche passaggio in cui Aristotele sembrerebbepostulare un rapporto ontologico di modello e copia, di tipo plato-nico, anche per il Motore immobile e la natura.

Una delle principali ragioni per cui Aristotele respinge la

dottrina platonica delle idee è che non spiega il movimento. Qualesia per Aristotele l’importanza del principio del movimento ce lo facapire questo passaggio:

(40) Cfr. De gener. anim., 744 B 16, A 36; De coelo , 291 B 13, A 24; De part.anim., 686 A 22.

(41) Phys., 196 B 21-22.

(42) Met., I, 4, 985 A 18-21. Cfr. la trad. di G. Reale, Milano 1993, II, p. 23.

(43) Phys., 198 B 1-3.

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122 HEGEL E ARISTOTELE

«Appunto questo si afferma nel Fedone, che cioè le forme ideali sono causa

tanto dell’essere quanto del divenire; eppure anche a voler ammettere l’esi-stenza delle forme ideali, le cose che di queste partecipano non vengonotuttavia alla luce, qualora non intervenga una causa motrice, mentre, alcontrario, sono prodotte molte altre cose, quali, ad esempio, una casa o unanello, di cui neghiamo che esistano e vengano alla luce mediante causesimili a quelle degli oggetti sopra accennati» (44).

Aristotele qui rende appieno la misura del problema. Egli os-serva come determinati prodotti dell’arte (artefacta), di cui nell’Ac-

cademia si discuteva se si dessero delle forme, presuppongono daparte nostra una causa motrice o qualcosa, qualche forza, che abbiamesso in moto la materia. Altrettanto dovremmo esigere per lecose naturali. Il fatto che le cose naturali siano dotate di movimen-to non ci deve far pensare che un’altra causa motrice sia superflua,come se il movimento che è in natura potesse essersi generato da séo avesse in sé la sua spiegazione. La stessa forma che spiega l ’esse-re delle cose naturali, deve spiegare e deve contenere nel suo pro-getto di essere anche il movimento interno alle cose stesse. Ora, ilmovimento interno di cui la natura nella sua totalità è portatrice, inquale forma può avere la sua ragion d’essere? Può esserci una for-ma “ante rem” della natura, a cui sia inerente il principio esterno dimovimento? È in questo senso che Aristotele definisce il Motoreimmobile «forma di tutte le forme»?

Nelle trattazioni che si leggono nel libro XII della Metafisica e

nel libro VIII della Fisica il Motore immobile viene descritto comeprincipio del movimento che muove in quanto oggetto di deside-rio (45). Il movimento della natura è determinato dalla sua aspira-zione a realizzarsi. Il Motore immobile è il fine, la forma, l’entelechìa

verso cui la natura si muove. In queste indicazioni è difficile stabi-lire i confini netti tra la metafora e il discorso dialettico. La natura

(44) Met., I, 8, 991 B 3-9; trad. di A. Russo, Roma-Bari 1982.

(45) Met., XII, 7, 1072 A 26 ss.

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123R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

però non sembra essere oggetto dei pensieri di Dio. Dio ha come

oggetto di pensiero se stesso. Rimane dunque senza risposta l’inter-rogativo se una scienza delle forme (ante rem) preceda la realizza-zione delle forme stesse in natura: se la natura stessa, nella sua to-talità, sia realizzazione a sua volta di una forma oggetto di un pen-siero esterno, che ne spieghi il finalismo; oppure se siamo ancorasul terreno delle analogie o di una mitologia antropomorfica (46).

Ritengo che questa problematica sia imputabile e debba farsirisalire alla coesistenza in Aristotele di due diversi concetti di per-fezione e di eccellenza.

Tutto avviene come se la perfezione della natura sia tenutadistinta dalla perfezione dell’Atto puro: nel loro ordine sono perfet-ti sia la natura sia il Motore immobile. La separazione della fisicadalla filosofia prima non sembra essere solo una questionemetodologica. Aristotele tende a descrivere la natura come se fosse

autosufficiente anche sul piano ontologico. La natura è già in séprincipio di movimento, e il movimento da questo punto di vistanon appare affatto segno di imperfezione o di irrazionalità comenel ricettacolo platonico (47). Questo concetto di natura deve esseremesso in relazione con il rifiuto della teoria platonica delle idee. Lecose della natura non sono affatto copie imperfette di un modelloeterno. La natura è compiuta in se stessa e non ha bisogno di unmondo invisibile che la spieghi. L’eidos è interno alle cose e le cose

hanno in se stesse la loro spiegazione (48).

(46) Una discussione su questo tema si può trovare in D. R OSS, Aristotele,trad. it., Milano 1976, pp. 80 ss.; I. DÜRING, Aristotele, trad. it., Milano 1976, pp.241 ss.; W.K.C. GUTHRIE, A History of Greek Phylosophy, VI, Aristotle an Encounter,Cambridge 1981, pp. 106 ss.

(47) Tim., 51 A-B.

(48) Credo che Heidegger abbia colto questo modo originario aristotelico di

pensare la natura e il movimento (vedi M. HEIDEGGER,

 Sull’ essenza e sul concetto dellaPhysis. Aristotele , Fisica , B , 1 , in Segnavia, trad. it., Milano 1987, pp. 198 ss.): certo

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124 HEGEL E ARISTOTELE

Con questa perfezione della natura Aristotele lascia coesiste-

re quella del Motore immobile. La sua perfezione sta nel muoveretutte le cose, come oggetto di desiderio, senza esser mosso. La suaattività è una pura attività di pensiero, e l’oggetto di questo pensie-ro è se stesso.

Dio è la cosa più eccellente, ed Egli non può pensare se nonciò che è più eccellente (49). Dai pensieri di Dio è esclusa pertanto lanatura, in quanto ciò che ha materia e potenza è meno perfetto diciò che è immateriale e in atto (50). La natura dipende da Dio per-ché il passaggio dalla potenza all’atto avviene ad opera di un moto-re esterno già in atto (51). Per il resto la natura costituisce da sé unmondo autosufficiente di pensiero e di essere. Questa impenetrabi-lità tra la perfezione divina e quella della natura Aristotele sembraesprimerla in questi termini: «il Motore immobile è un principio dimovimento naturale che non rientra nell’ambito della fisica» (52).

Non è detto però che la presenza del Motore immobile sia ri-

solutiva col garantire il passaggio dalla potenza all’atto in tutti i

per Heidegger è molto più congeniale l’idea di una natura autosufficiente e princi-pio autonomo di movimento, ma Aristotele in realtà non ritiene che la forma pos-sa essere principio di movimento per se stesso: è questa l’accusa che rivolge a Pla-tone. Il movimento rimane pertanto un postulato, un dato di fatto, una realtà daspiegare. Il movimento interno alla natura infatti trova la sua spiegazione in unprincipio esterno di movimento: il Motore immobile. Heidegger condannerebbetutto questo come pensiero metafisico, come oblio dell’essere. Ma senza il pensie-ro metafisico, come ci si potrebbe porre la domanda sul senso dell’essere?

Heidegger, in realtà, può dare il bando alla metafisica solo perché dà unainterpretazione restrittiva dell’Esserci e della sua costituzione di essere già in par-tenza, pensando l’Esserci come essere nel mondo, e definendo il “mondo” dell’es-sere nel mondo come la totalità degli utilizzabili. Dovrebbe far parte invece del“mondo” dell’esser nel mondo anche la trascendenza, la stessa domanda della me-tafisica. È un bisogno di cui l’uomo non può fare a meno. La precomprensione èanche precomprensione della metafisica.

(49) Met., XII, 6, 1072 B 19.

(50) Ivi, XII, 6, 1071 B 12-22.

(51) Phys., VIII, 5 ss.;  Met., IX, 8.

(52) Ivi, 198 A 35 - 198 B 2.

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125R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

settori della natura. Non sempre la generazione è trasmissione di

una forma da un individuo all’altro (53). Che dire di quel divenireincessante in cui tutto sembra trasformarsi in tutto (54)? In questocaso che cosa può far sì che una determinata materia assuma unadeterminata forma dopo aver ceduto quella di prima? E come èpossibile che in questo divenire incessante ricompaiano con regola-rità le stesse forme? Si deve postulare quantomeno una regola ditutti questi scambi, un programma paragonabile al modello

informatico,

per cui a certe condizioni della materia corrispondanodeterminate forme. Ma una regola e un programma non possononon essere pensiero di una mente o comunque attività di pensiero.

Aristotele può pensare di aver garantito l’ordine della naturasemplicemente garantendo la regolarità del movimento. Le essenzesono già nelle cose e perché i cicli naturali si rinnovino secondo unregolare ricambio è sufficiente la regolarità e la continuità del mo-vimento. Rimane la discontinuità tra il principio da cui ha origine il

movimento e la causa formale. Tra le due causalità non sembra es-serci connessione. Mentre c’è un rapporto di dominio tra causa for-male e causa materiale, e un rapporto di quasi identità tra causaformale e causa finale, non si vede una precisa connessione, se nondi carattere congetturale, tra causa formale e causa motrice e non sivede il rapporto tra il pensiero interno alla natura attraverso l ’arti-colazione delle sue forme e il Pensiero di pensiero proprio del Mo-tore immobile.

Non può sorprendere allora che Hegel propenda a identifica-re il Motore immobile con la natura stessa e a fondere le due perfe-zioni in una.

Ad Hegel il Motore immobile appare una sovrapposizioneo uno sdoppiamento rispetto alla natura; perciò scrive che «in

(53) Met., XII, 1069 B 28-29; 1070 A 27-28.

(54) I termini della questione si possono leggere in I. DÜRING, cit., pp. 422-453.

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126 HEGEL E ARISTOTELE

Aristotele lo stesso uno assoluto, l’idea di Dio, appare come un

che di particolare nel suo posto accanto agli altri particolari, seb- bene essa sia tutta la verità. È quasi come se uno dicesse: ci sonopiante, animali, uomini e poi anche Dio, il più eccellente» (55). Es-sendo Dio tutta la verità, il pensiero in Dio è connesso in unacompiuta totalità e secondo una rigorosa necessità. La natura ari-stotelica, in virtù della sua teleologia, non può essere, per Hegel,cosa diversa da Dio, a meno di mantenere le sue contraddizio-

ni irrisolte. Posto che la natura è principio di movimento dota-to di un fine, e che, portate da questo movimento, le forme scom-paiono e riappaiono, non si vede nessuna necessità interna per-ché le cose siano così piuttosto che in un altro modo. Eppure c’èuna necessità dominata dal fine e il fine, afferma Hegel, è nellaragione (56). Si profila quindi per Hegel la necessità dialetticamen-te fondata di far cessare lo sdoppiamento tra il Motore immobilee la natura e di farne una unità. L’esposizione della Fisica segue

pertanto nelle Lezioni a quella della  Metafisica che per Hegel è laLogica (57). A questo dio visibile di Aristotele Hegel sembra ricon-durre la sua Idea nel suo essere altro come natura. Nel riservareampio spazio alla dottrina della sostanza Hegel richiama l’atten-zione sull’elemento della forma sottolineandone la determinazio-ne di atto (enérgheia, entelécheia) (58). «Soltanto l’“energia”» — di-chiara Hegel — «o più concretamente la soggettività, è la formaattuante, la negatività che si riferisce a sé» (59): «l’enérgheia è il

puro operare che si riferisce a sé» (60).

(55) Lezioni, cit., p. 295.

(56) Ivi, p. 324.

(57) Ivi, p. 296.

(58) Ivi, p. 297.

(59) Ivi.

(60) Ivi, p. 298.

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127R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

È questa soggettività che per Hegel costituisce l’elemento

comune a tutte le sostanze sia sensibili sia immateriali. Ma c’è unasostanza che è più sostanza, e pertanto più soggettività delle altre:«Il punto più alto è quello in cui sono congiunte potenza, attività eentelechìa, la sostanza assoluta, che Aristotele determina in generalecome l’in sé e per sé (aídion) che è immobile ma a un tempo muovee la cui essenza è pura attività senza materia» (61). Hegel riconosceche per Aristotele il pensiero non è tutta la verità, ma solo il più

potente e il più onorato,

ma puntualizza che «tuttavia in fondo ilmodo di vedere fondamentale è il medesimo: egli non parla di unaspeciale natura della ragione, ma della ragione universale» (62). In-fine conclude che la stessa «idea speculativa» osservata nella «ra-gione pensante» si dovrebbe vedere anche nella natura (63). È stabi-lita pertanto l’identità di idea hegeliana e natura aristotelica.

Per Aristotele, a differenza di Hegel, la natura non è intera-

mente risolvibile in termini di pensiero e di idea, e il pensiero non ètutta la verità. Tutto questo è implicito nell’enunciato che la fisicaassume come presupposto il movimento e che prescinde dalla esi-stenza di un essere uno e immobile (64). È per induzione che la fisi-ca ammette che le cose della natura siano mosse (65). Sarebbe peral-tro necessaria una fondazione rispetto a quanto semplicementepresupposto (66).

Aristotele parte da un dato inargomentabile e indimostrabi-

le (67). La sostanza non è il farsi concreto dell’universale, del con-

(61) Ivi, p. 302.

(62) Ivi, p. 310.

(63) Ivi, p. 313.

(64) Phys., 184 B 2-185 A 5.

(65) Ivi, 185 A 13-15.

(66) Ivi, 185 A 18-21.

(67) Ivi, 193 A 1-5.

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128 HEGEL E ARISTOTELE

cetto o dell’enérgheia: che questo avvenga è per natura, ed è natura

anche la materia o il sostrato. La natura è per così dire il pensieroche è nelle cose stesse, ma è un pensiero che si lega alla materia. Èun legame che si costituisce per natura e tutto ciò che avviene pernatura non avviene a caso o per necessità esteriore, ma secondo unfine. Potrebbe essere un fine anche che ora si realizzi una forma efra un istante un’altra, in modo che la prima non ricompaia e chetra l’una e l’altra non ci sia relazione. Ma allora si avrebbe l’abbozzo

di un mondo,

non un mondo dotato di significato,

ordinabile se-condo concetti, classificabile secondo un linguaggio e quindi deter-minabile e pensabile. Se quello della natura fosse un fine qualsiasi,sarebbe destinato ad ignorarsi e l’essere sarebbe pensabile quanto ilnulla. Sarebbe un passare da forma a forma destinate a rimanereirrelazionabili.

Il fine di cui Aristotele parla è di contro il bene o l’ottimo (68).Il bene è il fine che realizza un universo di essere e di pensiero in

cui ogni cosa abbia il suo preciso posto e la sua precisa destinazio-ne. Una natura così ordinata ha nel bene il suo fondamento e ilpensabile ha il suo fondamento nell’esser pensato. Ci deve essereun fondamento perché ci sia l’ordine piuttosto che il caos, il pensie-ro piuttosto che il non pensiero e, in generale, perché ci sia l’essere,o perché qualcosa esista piuttosto che il nulla.

Che ci sia il movimento e che ci siano le cose di natura è og-getto di constatazione perché la natura non ha il fondamento in se

stessa. Il fondamento è da cercare al di fuori: nel Motore immobilee nel Pensiero di pensiero. Quel che poteva apparire sovrapposi-zione di due perfezioni reciprocamente non comunicanti, può acqui-stare nuova luce e nuova possibilità di mediazione se ci collochia-mo, almeno sul piano delle ipotesi, in questa prospettiva. L’Attopuro non può essere per Aristotele identificabile con la natura stes-sa. È natura anche il sostrato materiale, e il sostrato non è pura idea-

(68) Ivi, 194 A 30-35; 195 A 20-25 ss.; 198 B 5-10; 198 B 15-20.

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129R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

lità o momento interamente mediato dal concetto. La presenza del

sostrato fa sì che l’essere non sia l’omologazione tautologica deicontrari tanto da coincidere con il nulla (69). Il sostrato attiva loscambio tra una forma e l’altra stabilendo la determinazione inmodo che l’essere non sia un puro nulla. Senza determinazione nonse ne avrebbe alcuna nozione (70): sarebbe impensabile come se lecose venissero meno al principio di contraddizione. È a partire dalsostrato che l’essere può distinguersi dal nulla ed è il sostrato che

rende pensabile la contraddizione. Hegel tende a minimizzare ilruolo del sostrato materiale identificando la sostanza con l’enér-

 gheia, tanto da affermare, con evidente allusione a Kant, che «conuna vuota astrazione come la cosa in sé Aristotele non ha nulla chefare» (71).

Può intanto essere istruttivo quanto Hegel afferma della cosa

in sé  kantiana nell’Enciclopedia: «La cosa in sé (e sotto la parola cosain sé è compreso anche lo spirito, Dio) esprime l’oggetto in quanto

si astrae da tutto ciò che esso è per la coscienza, da ogni determina-zione del sentimento come da ogni pensiero determinato. È facilevedere cosa resta: il pienamente astratto, l’interamente vuoto, de-terminato solo come un di là ...» (72). «Le categorie sono perciò in-capaci di essere determinazione dell’assoluto» (73). «Per conseguen-za la conoscenza per mezzo di esse non contiene in fatto niente dioggettivo, e l’oggettività ad esse attribuita è solo qualcosa di sog-gettivo» (74).

Quel vuoto che è la cosa in sé viene riempito, in altri termini,con la soggettività rappresentata dall’Io penso. La soggettività di-

(69) Ivi, 185 B 23-24; cfr. 186 B 5-10.

(70) Ivi, 187 A 8-10.

(71) Lezioni, cit., p. 297.

(72) Enciclopedia, § 44, annot. Cfr. la trad. di B. Croce, Roma-Bari 1989.

(73) Ivi.

(74) Ivi, § 46, annot.

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130 HEGEL E ARISTOTELE

viene la vera cosa in sé dell’oggetto. Quel che manca nella cosa in

sé kantiana è il finalismo della sostanza aristotelica, in cui il fine è il bene e il bene è il fondamento. Sull’Io penso Kant ritiene di fonda-re, più che sulla cosa in sé, la regolarità dell’esperienza (75). Più chefondarla però ne prende atto: la regolarità è semplicemente presup-posta. Ad una cosa in sé si è sostituita così un’altra cosa in sé. Del-l’Io penso si sa quanto si sa della cosa in sé e comunque non è unfondamento molto diverso di quanto poteva esserlo la cosa in sé.

Fondamento è ciò che fa sì che in natura tutto proceda conregolarità piuttosto che a caso. Per Aristotele la regolarità è impres-sa in una materia, per natura, secondo una fattualità indimostrabi-le (76). Tutto in natura si muove verso un fine che è l’ottimo, e il finestabilisce la regolarità per cui tutte le cose sono oggetti pensabili.Ciò che è pensabile non può avere il suo fondamento che nell’esserpensato e l’essere pensato rinvia alla trascendenza del Pensiero dipensiero (77).

Hegel ritiene di ristabilire il finalismo della sostanza aristote-lica interpretandola come soggettività, «puro operare da se stessa»e «negatività che si riferisce a sé» (78). Nella sostanza aristotelicaegli vede circolare la soggettività assoluta che nella sua filosofiaprende anche il nome di Idea o Spirito. Ma neanche Hegel, perquanto mi è dato giudicare, intende il finalismo della sostanza nel

(75) L’Io penso si colloca al culmine di un processo che caratterizza la filo-

sofia moderna, e che potrebbe definirsi come processo di «secolarizzazione dellatrascendenza». È in questa logica che Kant sostituisce al “trascendente” il “tra-scendentale”; e all’anamnesi platonica, come all’intelletto agente aristotelico, so-stituisce una versione secolarizzata, quella dell’Io penso.

(76) È questa fattualità che la filosofia moderna non vuole accettare. Dap-pertutto vede possibilità d’illusione e d’inganno. Ma già la ragione naturale èperfettamente equipaggiata per riconoscere l’errore e l’inganno. Ci può essere uninganno anche in questo?

(77) Ciò che fa orrore al pensiero moderno è proprio questa affermazionedi trascendenza: il trascendentale rappresenta le sue “colonne di Ercole”.

(78) Lezioni, cit., pp. 297-298.

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131R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

senso di Aristotele. Anche Hegel sembra cercare la spiegazione al-

l’interno di ciò che è da spiegare, nel chiuso mondo degli enti. Daquesto punto di vista mi sembra che, meglio di Hegel, colga la na-tura della sostanza aristotelica e del suo finalismo, Leibniz, comeanche mi sembra più rispondente al senso generale della filosofiaaristotelica la sua determinazione del fondamento (79).

L’impressione è che anche Hegel alla cosa in sé kantiana ab- bia sostituito un’altra cosa in sè. In Aristotele la linea di pensiero,

per quanto inconfessata,

è di tipo platonico: trovare il fondamentoin una pienezza di pensiero e di essere, un fondamento che è al dilà e al di fuori di ciò che è da fondare (80).

Rispetto a Kant, Hegel estende la regolarità dell’esperienzafenomenica al mondo umano: alla morale, al diritto, alla storia. Lospirito è il risultato di un faticoso processo dialettico di tutto l’esse-re. Se guarda al suo passato si riscopre raccolto nell’idea, fuori di sénella natura, per ritrovarsi infine come spirito a pensare se stesso

(79) Cfr. G.W. LEIBNIZ, Discorso di Metafisica, in Scritti filosofici, cit., pp. 73,74, 86; G.W. LEIBNIZ, Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, ivi, pp.278 ss.; M. HEIDEGGER, Dell’ essenza del fondamento, in Segnavia, cit., pp. 84 ss., 125;G.W.F. HEGEL, Scienza della Logica, II, sez. I, cap. III.

(80) C’è da chiedersi quanto ci sia di veramente immanente nella formaaristotelica. Per quanto Aristotele insista a considerare le forme presenti nelle cosee in perfetta identità con le cose stesse, sono in realtà altrettanto poco conoscibiliche le forme platoniche. Se se ne ha conoscenza, non è meno inspiegabile. Posto

che siano l’intelligibile e il soprasensibile, fa poca differenza che siano separate ointerne alle cose. Si tratta sempre di una realtà diversa da quella che noi vediamoo sperimentiamo con i sensi. Come tali sono sempre da considerarsi un “al di là”.La controversia medievale sugli universali ante rem, in re,  post rem sono da ricon-durre a questa difficoltà, donde il nominalismo. Le idee vengono interpretate daAristotele come semplici definizioni. Per Platone al contrario l’idea è principio cherende possibile la definizione. Analogamente, non è l’unità del molteplice, maprincipio che rende pensabile l’unità di un molteplice: è principio di unificazione,di conoscibilità, di essere delle cose. Se gli universali fossero mescolati alle cose,

come se ne potrebbero distinguere? In base a quale termine di confronto? Dove

starebbe la specificità della conoscenza intellettiva? E perchè Aristotele avrebbe ri-chiesto un intelletto agente oltre quello passivo?

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132 HEGEL E ARISTOTELE

come l’Atto puro aristotelico. La natura in questo processo è un

semplice momento.Dal punto di vista aristotelico non la natura è spirito, ma lo

spirito è per natura. La natura è il veicolo per cui il fondamentofonda qualcosa: è intermedia tra pensiero e non pensiero, tra vita enon vita, tra essere e nulla. È per natura che ci sia l’essere piuttostoche il nulla, che ci sia il pensiero piuttosto che il non pensiero, checi sia la vita piuttosto che la non vita. La natura è accadimento, sto-

ria,

evento. La natura è il luogo di tutto ciò che è stato fatto,

ma ilcui fondamento sta al di fuori. Tutto avrebbe potuto essere diversoda come è stato. La vita avrebbe potuto mai sorgere. Quale dialetti-ca può spiegare perché proprio la vita o perché proprio il pensiero?Su tutto ciò che è per natura la dialettica può solo produrre ragio-namenti verosimili, non più che nel Timeo platonico. Perchè pro-prio la civiltà occidentale, con la sua cultura e la sua filosofia, e nonpiuttosto società umane che si riproducessero sempre identiche a

se stesse come arnie o formicai?Forse può tornare a proposito il giudizio di Marcuse: «La vitasupera, per così dire, la sua propria storicità, innalzandosi alla for-ma essenzialmente non storica del ‘sapere assoluto’: essa trascendela sua propria storia» (81).

Non la dialettica quindi può spiegare la natura, ma è essastessa da spiegare perché è natura. Anch’essa rientra nella storicitàdella natura.

Nella storicità della natura è da includere anche il pensierofinito dell’uomo. Neanche la conoscenza umana può spiegarsi dasé. La spiegazione è per Aristotele nell’intelletto attivo, a partire dalquale tutto è pensabile ma che non può essere pensato a sua volta.

La conoscenza non può guardare dietro di sé così come nonpuò autocostituirsi da sé. Può essere tanto più conoscenza, di con-

(81

) H. MARCUSE,

  L’ Ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria dellastoricità, trad. it., Firenze 1969, p. 8.

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133R. PORCHEDDU - L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di Hegel

tro, se si riconosce come natura, divenendo il luogo in cui la stessa

natura prende coscienza di sé nell’apertura alla trascendenza.

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(1) Cf. VERRA (1993).

(2) Cf. KERN (1971); DÜSING (1976): pp. 305-312; FERRARIN (1990): pp. 132-137.

(3) Cf. MARX (1961).

CINZIA FERRINI

TRA ETICA E FILOSOFIA DELLA NATURA: IL

SIGNIFICATO DELLA METAFISICA ARISTOTELICA

PER IL PROBLEMA DELLE GRANDEZZE DEL

SISTEMA SOLARE NEL PRIMO HEGEL

Sommario: 1. Questioni di metodo — 2. Quale  Metafisica per il primo Hegel? —3. Aristotele e la prima Naturphilosophie hegeliana: la letteratura critica —4. Terminus a quo e ad quem — 5. I lineamenti della prima filosofia dellanatura di Hegel: la Dissertatio — 6. Etica e filosofia della natura: una “viaverso” la Metafisica aristotelica — 7. L’ipotesi di una influenza della Meta-

 fi si ca sull ’uso  dei numeri del Timeo nella Dissertatio — 8. Quid ... philosophia valeat.

1. Questioni di metodo — Scopo di questo contributo è di raccogliereelementi per una proposta interpretativa: rinvenire le tracce dellapossibile influenza di una lettura della  Metafisica aristotelica sullamatematica della natura nei primi scritti di Hegel. Vale a dire di untesto per il quale, in generale, l’interpretazione hegeliana è stata

prevalentemente esaminata in chiave logico-speculativa (1

), conparticolare attenzione alla corrispondenza tra attività autoponentedel nous e autocoscienza dell’assoluto (2), nonché secondo un signi-ficato soggettivo-spirituale notoriamente problematizzato dallaprospettiva heideggeriana (3). Ed a proposito di un argomento,

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137C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

sfavorevole, che per Hegel la Metafisica non sia mai stata fonte (al-

meno in senso stretto), bensì solo campo di conferme e di ricerca dinobili antenati. Ebbene, qualora nella sua prima filosofia della na-tura riuscissimo a rintracciare, in modo convincente, un richiamoimplicito al pensiero aristotelico, e proprio per l’aspetto che nemarca la differenza dalle dottrine pitagoriche e platoniche sul nu-mero, e ne mostrassimo la funzione non subordinata, ma priorita-ria rispetto a queste, in quanto capace di modificarle, ciò comun-

que parlerebbe per noi a favore della presenza di un influsso,

nongenerico, ma determinato, non superficiale, ma condizionante, del-lo Stagirita, per quanto indiretto esso possa risultare.

realizzazione di esso» (LSF, II, p. 297). Quando infine attribuisce dunamis al MotoreImmobile, Hegel potrebbe aver trovato dei supporti indiretti a questa interpretazionenell’ accezione aristotelica di “potenza” non come “possibilità di non essere” (impen-sabile in Dio come atto puro) ma come “potere” (di far passare all’atto), e quindi noncome “una possibiltà indeterminata” (LSF , II, p. 298). Un esempio di uso, in sensogenerale, di dunamis , come potenza dell’atto, si trova in Met. , IX 1, 1046a 14-20 (cf.

ROSS (1924), II, commento a 1045 b

25-1046a

4: pp. 240-241, e a 1046a

19-20: p. 241, chesottolinea come potenzialità di agire e di essere agiti siano aspetti complementari diun singolo fatto). Un passo successivo, in Met. , IX 5, 1048a 1-8 (cf. Bonitz, p. 207a 44-45) sostiene, relativamente a ciò che procede razionalmente ed è dotato di potenzerazionali, che quando ciò che agisce e ciò che patisce si incontrano secondo tale tipo didunamis conforme al logos , il primo “deve” agire (passando così necessariamente allarealtà effettuale, all’energeia) e l’altro essere agito. Può infine essere utile ricordare, allaluce di questi riferimenti alla Metafisica , un passo in De An. , III 5, 430a 15 sg., dove iltema sembra tornare a proposito del nous (umano), secondo il suo senso attivo e posi-tivo, analogo alla causa agente perché produce tutte le cose, «nello stesso modo in cuila luce ha il potere di far passare all’atto i colori che sono in potenza»: una transizione

necessaria all’energeia , avendo la luce, evidentemente, quella determinata potenzialitàdi agire, ed i colori di essere agiti. Per quanto invece riguarda il riferimento di Hegelalla Scolastica, per il significato generale di tale tradizione, vedi LOHR (1988), che cosìdistingue l’interpretazione secolare (Pomponazzi) di Aristotele (finitezza di Dio, eter-nità del mondo, mortalità dell’anima umana) da quella degli Scolastici: «Col definirel’oggetto della metafisica come l’essere in quanto diviso in essere finito e infinito [DunsScoto, Nicholas Bonet] o in essere creato e increato [S. Tommaso], o finanche comel’essere comune a Dio e alle creature, gli Scolastici avevano tacitamente introdottonella scienza aristotelica le nozioni, proprie della Scrittura, dell’infinità di Dio e dellacreazione del mondo, insieme alla loro propria concezione della realtà come gerarchi-

camente graduata,

come una catena dell’essere ascendente dalla materia a Dio

»(p.98).

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138 HEGEL E ARISTOTELE

Non è pertanto né come testimone né come storico della fi-

losofia antica che vogliamo qui interrogare Hegel, ma come inter-prete, appunto, inserito in una consolidata, e imprescindibile, tra-dizione di studi aristotelici sulla Metafisica (8). Certo, ci saremmoanche potuti limitare a mettere più semplicemente a confronto idue paradigmi, le due costruzioni concettuali, ma ci sarebbe par-so di non tenere nel debito conto il fatto che le tesi di Hegel, nellaloro stessa originalità, si sono definite anche attraverso l’esposizio-

ne storico-sistematica di Aristotele,

in una sorta di‘

contaminazio-ne’, non sterile, ma feconda, che «produce sempre qualcosa di nuo-vo» (9).

2. Quale Metafisica per il primo Hegel? — Secondo la testimonianzadi Schwegler, pubblicata in un articolo del 1839, un compagno distudi di Hegel a Tubinga (in ogni caso non Leutwein) gli avrebbe

raccontato che durante gli anni allo Stift questi avrebbe «di prefe-renza studiato Aristotele in una vecchia edizione di Basilea rosa daitarli» (10). Così Pozzo commenta tale indicazione: «Viene da chie-dersi: quale parte del Corpus può avere allora tanto affascinato

(8) Scrive DIJKSTERHUIS (tr. it.): «Una discussione delle opinioni di Aristotele inmateria di filosofia naturale o in materia scientifica comporta la difficoltàmetodologica fondamentale che il suo sistema non può più venir districato dalle

esposizioni e dalle aggiunte dovute ai suoi commentatori antichi e alla Scolastica.Nelle sue formulazioni è sempre estremamente conciso, e spesso oscuro; non dirado lo stesso termine viene usato per significare idee differenti. Le sue opere, per-tanto, avevano un grande bisogno di venire commentate, ma ciò portò a costantidifferenze di opinione circa il suo vero significato, col risultato che spesso questosignificato non può più essere dissociato dall’interpretazione» (p. 28). Per alcunevalenze interpretative della lettura hegeliana di Aristotele, in certa misura autoriz-zate dalla lezione erasmiana, vedi infra, nota 64.

(9) Così Aristotele ricorda un vecchio detto, in Hist. An., VIII 28, 606 b 20.

(10

) Cf. HENRICH

(1965): p. 58. A p. 74,viene sottolineata l

’importanza e novi-tà di questa testimonianza.

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139C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

Hegel da spingerlo ad includere Aristotele tra le sue letture priva-

te? Si trattava dell’Organon, della  Metafisica o del De anima? Nonabbiamo informazioni precise. Sappiamo però che diverse dottrinearistoteliche erano riportate con precisione nel Compendium logicae

del 1751 ed in quelli di Feder, Ploucquet e di Ulrich (tanto nelle se-zioni della logica, quanto nell’ontologia, nella cosmologia e nellapsicologia)» (11). È da ricordare inoltre che, secondo Kern, sulla

 base di un paio di riscontri testuali, la terza edizione di Basilea del

1550 avrebbe verosimilmente fornito ad Hegel il testo per la suatraduzione di un passo del De anima (12).Per quanto riguarda invece il soggiorno a Francoforte (1797-

1800), di particolare importanza per il nostro tema, dato che pre-cede immediatamente la stesura dei primi lavori di filosofla dellanatura, troviamo scritto nella Vita di Hegel: «Dai conti dei librai cheHegel pagava a Francoforte, e che casualmente possediamo tut-tora, risulta che egli comprava opere di Schelling e classici greci

nelle edizioni migliori e più recenti». E anche se Rosenkranz sotto-linea in particolare l’interesse per Platone e Sesto Empirico (13), èinteressante notare che il catalogo d’asta della biblioteca privatadi Hegel (14), ai numeri 402 e 403 registra due esemplari dellaSylburgiana pubblicata in 11 volumi in -4° a Francoforte (e trattan-dosi di pezzi sciolti di un’opera completa, non sarebbe improbabile

(11) Cf. POZZO (1989): pp. 116-117; sull’aristotelismo come corrente dominan-

te allo Stift di Tubinga, cf. pp. 50-51.(12) Cf. KERN (1961): p. 60. Nel catalogo d’asta della biblioteca privata di Hegel

troviamo anche, al n. 377 (pp. 17-18), l’edizione del 1590 dell’opera omnia di Aristote-le curata da Casaubon (II Tomi in I Volume in folio); al n. 378 (p. 18), quella curatada Erasmo e pubblicata a Basilea nel 1531 (apud Io. Beb [elium]: II Tomi in I Vol. infolio); al n. 432 (p. 21), un’edizione dell’Organon (Basilea, 1583) con la versione lati-na di Spondano.

(13) ROSENKRANZ (tr. it.): p. 120.

(14) Cf. Verzeichnis , p. 19. Per varie testimonianze sulla continuità dello stu-

dio dei classici greci da parte di Hegel (Norimberga,

Heidelberg),

e sulla sua prepa-razione filologica, cf. KERN (1961): p. 80.

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140 HEGEL E ARISTOTELE

che Hegel li avesse reperiti proprio sul mercato antiquario di quel-

la città, piuttosto che altrove), rispettivamente Aristotelis et Theo-

 phrasti metaphysica et alii libri Arist. lat. et graec. , 1585 (15) e Aristotelis

Physicae auscultationes , de coelo , de mundo , de anima & c. , 1584 (16).Oltre ai cinque volumi (contenenti solo l’Organon ,  la Retorica e laPoetica) dell’edizione Bipontina del 1791-anno VIII (1800: ilVerzeichnis , in realtà riporta, ai nn. 426-30: “781. An. 8”, ma si trattaevidentemente di un errore di stampa per “791”), con traduzione

latina e annotazioni di Johann Gottlieb [Theophilus] Buhle (

17

).Un’edizione ‘migliore e più recente’, il cui acquisto potrebbe bencollocarsi alla fine di quel periodo (18).

3. Aristotele e la prima Naturphilosophie hegeliana: la letteratura criti-

ca — A proposito della prima filosofia della natura hegeliana nelsuo complesso, che Rosenkranz erroneamente attribuiva al periodo

di Francoforte (19

), troviamo scritto nella Vita di Hegel: «Punti di vi-

(15) Aristotelis et Theophrasti Metaphysica ... Edidit Frid. Sylburgius. Francofurdiapud heredes A. Wecheli , 1585; si tratta del nono volume di Aristotelis Opera quae extantaddita nonnusquam , ob argumenti similitudinem , quaedam Theophrasti , Alexandri , Cassii ,Sotionis , Athenaei , Polemonis , Adamantii , Melampodis... Opera et studio FridericiSylburgii... Francofurdi , apud A. Wecheli heredes , J. Aubrium et C. Marnium, 1584-1587.

(16) Si tratta del secondo volume dell’edizione Sylburgiana di cui alla notaprecedente. Il titolo completo è il seguente: Aristotelis Physicae auscultationes lib. VIII  ;

de Caelo IV  ; de Generatione et corruptione II ; Meteorologicum IV  ; de Mundo I  ; De Animalll ; de Sensu et sensibilibus lib. I  ; de Memoria et reminiscentia I  ; de Somno et vigilia I  ; deInsomniis I  ; de Divinatione per somnum I  ; de Juventute , senectute , Vita et morte I  ; deRespiratione I  ; de Longitudine et brevitate vitae I ... Edidit Fridericus Sylburgius.

(17) Cf. MENSE (1993): pp. 687-688.

(18) Aristotelis Opera omnia Graece , ad optimorum exemplarium fidem recensuit ,annotationem criticam , librorum argumenta et novam versionem latinam adjecit Jo.Theophilus Buhle. Biponti: ex typographia societatis , 1791 (secondo e terzo volume: 1792;

quarto: 1793; quinto: Argentorati (Strasburgo): ex typographia societatis Bipontinae,an. VIII (1799-1800)).

(19) Cf. ROSENKRANZ (tr. it.): nota 134, p. 122.

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141C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

sta ed espressioni platoniche si riscontrano dappertutto, mentre non

si può ancora parlare di un particolare influsso di Aristotele» (20).Questo giudizio non ha ancora oggi perduto di valore. Per fare unesempio paradigmatico dello status quaestionis , in un suo noto arti-colo del 1984, Vittorio Hösle sosteneva la convergenza, a livello diordine interno e struttura, tra il Timeo platonico e la Naturphiloso-

 phie hegeliana, indicando tra l’altro entrambe le concezioni comeesempi di una filosofla della natura aprioristica, derivata dal con-

cetto. E per questo aspetto,

da tenere ben distinta dalla«

descrizio-ne fenomenologica e dalla messa in evidenza delle caratteristiche es-senziali delle categorie fondamentali della natura nella fisica ari-stotelica» (21). In particolare, per il significato ascritto al moto deipianeti nel progetto complessivo di una teoria razionale del movi-mento, Hösle scriveva allora che Hegel «si colloca univocamentetra i seguaci di Platone e di una determinata tradizione pitagoriz-zante» (22); e ancora, che egli non viene influenzato “così fortemen-

te” da nessun’altra tradizione. In questo quadro, Hösle si limitava aricordare che la concezione dei corpi celesti come “esseri animati”, ri-presa da Hegel, non era solo platonica, bensì anche aristotelica (23).

(20) Ib. , p. 124.

(21) Cf. HÖSLE (1984): pp. 74-75 e pp. 81-82.

(22) Ib. , p. 86.

(23) Cf. ad es. De Caelo , II 12, 292 b 1-3: «Si deve perciò ritenere che anche

l’azione che compiono gli astri sia suppergiù come quella degli animali e delle pian-te». Per la problematica questione dell’analogia aristotelica tra movimenti eterni eauto-cambiamento diretto dall’animo negli organismi viventi cf. WATERLOW (1988):cap. 5; GILL (1991): nota 44, p. 260. Per una discussione dei luoghi nel De Caelo in cuiAristotele paragona i moti di alcune delle parti del cielo a quelle di animali, cf. GILL

(1991): nota 40, p. 259. Da notare ancora che, nel De orbitis , i corpi celesti «Deorummore per levem aera incedant» (p. 3, 6-7): gli interpreti concordano nel vedere inquesta espressione un riferimento al Fedro , 246e-247 b, dove una schiera armata diDei e Demoni avanza, capofila Zeus, offrendo nel cielo lo spettacolo delle proprieevoluzioni circolari. Tuttavia l’assimilazione degli astri a corpi divini che «si muo-vono eternamente in una solenne danza corale» si ritrova nel De mundo, 2, 391 b 17-19, mentre il riferimento all’“aria leggera” richiama l’etere aristotelico (vedi De Caelo ,

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143C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

posto da Bardili in un suo corso del 1789-90, Pozzo così riassume

gli studi hegeliani di storia della filosofia: «pur a fronte di un co-stante interesse per i presocratici e per il pitagorismo, il riferimentoalla metafisica di Platone resta centrale [...] pertanto la valutazionedella logica e della filosofia di Aristotele resta pregiudicata dallapreferenza accordata a Platone» (27).

Quanto al riconoscimento di eventuali debiti contratti conAristotele, il caso della meccanica celeste si presenta quindi ben di-

verso da quello di altri aspetti della Naturphilosophie hegeliana,

quali la fisica terrestre o la biologia, per non parlare, a livello di si-stema, della transizione della filosofia della natura nella filosofiadello spirito. Per fare qualche esempio, il nesso aristotelico tra prin-cipio del “continuum” e ordine gerarchico della natura, è stato stu-diato alla luce dell’atteggiamento hegeliano rispetto alle teorie evo-luzioniste; così come l’influsso delle posizioni dell’aristotelismo delXVII secolo (“minima naturalia” e “mixtio”) è stato esaminato alla

luce del concetto hegeliano di misura e della sua teoria della“generatio aequivoca” (28). Lo stesso vale per la corrispondenza traconcezione hegeliana della natura come sistema di gradi e ilomor-fismo aristotelico (29), teoria della sensazione nel De anima e statodell’organismo animale nell’Enciclopedia (30),  per la convergenzanell’approccio al problema della vita (31), per la concezione gene-rale della realtà in quanto regolata da un processo teleologico ten-dente alla ragione che pensa se stessa, all’autocoscienza dell’assolu-

to (32).

(27) POZZO (1988): pp. 88-89.

(28) Cf. BONSIEPEN (1989).

(29) Cf. DE VRIES (1988): pp. 44-46.

(30) Cf. FERRARIN (1990): pp. 79-147; DE VRIES (1988): pp. 64-67.

(31) Cf. FRANK (1927); LUGARINI (1992): pp. 99-101.

(32

) Cf. HARTMANN

(1957): pp. 251-252;

DE

VRIES

(1980). Per una rassegna ditutte queste (ed altre ancora) linee interpretative, cf. LONGATO (1989): pp. 124-131.

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144 HEGEL E ARISTOTELE

Nel tentativo di individuare una relazione significativa tra

Hegel ed Aristotele in un campo per il quale finora non è stato po-sto il problema della priorità di un simile influsso, cercheremo in-nanzitutto di trovare dei termini medi che colleghino la prima Na-

turphilosophie hegeliana alla  Metafis ica aristotelica. La lineaargomentativa che seguiremo consisterà nell’ individuare e racco-gliere le fila dell’intreccio che lega l’origine della riflessione diHegel sul mondo fisico in generale, e sui moti e la disposizione del

sistema solare in particolare,

a una prospettiva etico-religiosa,

chesi riflette anche sul suo approccio anti-kantiano (e anti-fichtiano)alla moralità. Aspetti questi che risulteranno pienamente compren-sibili solo alla luce di alcuni concetti aristotelici, evidenziati a po-steriori in passi delle Lezioni sulla storia della filosofia dedicati alla

 Metafisica. Ipotizzeremo infine che nell’uso effettivo, da parte diHegel, della tradizione pitagorico-platonica nella sua prima filoso-fia della natura, vengano introdotti dei correttivi che risentono di

quegli stessi concetti, frutto delle critiche aristoteliche a tale tradi-zione.

4. Terminus a quo e ad quem — Gli scritti che prenderemo in esame sicollocano tutti tra il 1796 e il 1803. Più precisamente, il nostro pun-to di partenza può essere rappresentato dalla questione: «Comedeve essere costituito un mondo per un ente morale? Vorrei dare

ancora una volta ali alla nostra fisica, che lentamente avanza a fati-ca negli esperimenti» (33). Hegel (come è ritenuto dalla maggioran-za degli interpreti (34)) si pone questa domanda nel primo pro-gramma di sistema dell’idealismo tedesco, redatto sul finire del pe-riodo bernese (1796). Si è a lungo discusso se l’autore effettivo deltesto, che ruota intorno al progetto di dare espressione estetica, mi-

(33) HEGEL, Werke 1, p. 234: cf. la traduzione italiana in MASSOLO (1967): p. 249.

(34) Vedi HARRIS (I): pp. 249-257; cf. anche HANSEN (1989).

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145C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

tologica, alle Idee della Ragione (perché solo nel bello si avrebbe

l’affratellamento di vero e bene) non fosse piuttosto Hölderlin oSchelling. Vale comunque la pena di ricordare che negli anni 1792-93 Schelling si era impegnato ad elaborare una mitologia filosofica,che fosse in grado di soddisfare tanto le pretese filosofico-razionaliquanto quelle teologiche, studiando sia la filosofia pratica kantianache i dialoghi platonici, e interessandosi in particolare al mito dellacreazione del mondo nel Timeo. Schelling arriverà perfino a scrive-

re (nel 1794) un vero e proprio commento a questo dialogo (

35

).Il nostro ideale punto di arrivo sarà invece l’articolo sul “Di-ritto naturale”, pubblicato a Jena sul Giornale critico della filosofia nel1802-1803, dove troviamo scritto: «Così, nel sistema della vita eticasi rinserra il fiore, dischiuso, del sistema celeste» (36). Va detto che il

(35) Pubblicato, di recente, anche in traduzione italiana; sul suo significatoper la concezione schellingiana della natura, in quanto la lettura del Timeo avrebbe

offerto una alternativa ‘scientifica’ alla Natura formaliter spectata di Kant, esprimen-do la conformità a leggi di specifici prodotti naturali, cf. F. MOISO, “Lo studio diPlatone agli inizi del pensiero di Schelling”, in SCHELLING (1794): p. 49 s. Per l’in-fluenza di Hölderlin e di Schelling sulla lettura hegeliana del dialoghi platonici cf.VIEILLARD-BARON (1976): pp. 24-26 e 29-30.

(36) KJP, II, 2, 1802, p. 88: «so ist in dem Systeme der Sittlichkeit dieaussereinandergefaltete Blume des himmlischen Systems zusammengeschlagen».Sul significato di tale immagine cf. KIMMERLE (1970): pp. 144-145. E soprattutto vediBOURGEOIS (1986): pp. 515-516, che la interpreta alla luce della filosofia della naturaschellingiana in particolare, e in generale, della visione comune anche ad un Herder,

un Goethe e un Baader, per cui l’etere, come materia spirituale, anima dell’univer-so, è insieme semenza universale, sempre riconducente le cose che vi nascono allasua identità, e principio della loro differenziazione formale. A nostra conoscenza(Buchner e Pöggeler, curatori dell’edizione critica dell’articolo sul “Diritto naturale”in GW IV,  Jenaer Kritische Schriften , non appongono alcuna nota in proposito) non èstata finora rilevata la concordanza tra questa espressione e un passo delle Lezionisulla storia della filosofia su Giordano Bruno, riguardo alla costituzione dell’universoe alla sostanziale congruenza tra intelletto formale e causa finale (intesa come ilMotore Immobile aristotelico (vedi infra , nota 80)): «[Bruno] adunque determinal’unità della vita come intelligenza (nous) universale, attiva, che si manifesta come

forma universale del cosmo,

e comprende in se stessa tutte le forme. Essa nel pro-durre le cose della natura si comporta come l ’intelligenza dell’uomo, e le forma e

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146 HEGEL E ARISTOTELE

motivo degli elementi di un sistema naturale, di per sé dispiegati

nella molteplicità, che solo nella dimensione spirituale ritornanoalla propria unità e totalità interna, venendo quindi posti secondoessa, non si esaurisce certo qui. Nello Hegel maturo, la integrazio-ne della filosofia della natura nell’etica è visibile nella riproposta(criticata e dibattuta dagli interpreti (37)), in sede di Logica soggetti-va, di forme concettuali particolarmente significative per lo studiodella natura, e già trattate, come nel caso del Meccanismo e del

Chimismo,

a livello di Logica oggettiva. Insieme alla Teleologia e algruppo delle modalità soggettive del pensiero (Concetto, Giudizioe Sillogismo), questi elementi confluiscono infatti nell’Idea dellaVita. Un’Idea che raccogliendo e integrando in sé soggettività e og-gettività, si compirà, attraverso l’Idea del Conoscere, in quella delBene, per realizzarsi così nell’Idea assoluta (38).

5. I lineamenti della prima filosofia della natura di Hegel: la Dissertatio— Per quanto riguarda invece il periodo che abbiamo scelto qui di

riduce a sistema allo stesso modo che l’intelligenza umana forma una moltitudinedi concetti. Essa è l’artista interiore, che dall’interno foggia e informa la materia.Dall’interno delle radici del seme essa manda fuori i germogli, da questi i tronchi,da questi i rami, dall’interno dei rami le gemme, le foglie, i fiori ecc. Tutto è dispo-sto, preparato e confezionato interiormente. Così pure quest’intelligenza universa-le richiama anche dall’interno le sue linfe dai frutti e dai fiori ai rami e così via»

(Hegel, SW , Bd. 19,3, p. 228; LSF , III,1, pp. 216-217. Cf. anche Vorlesungen , Bd. 9, Teil4, p. 52, 613-618). Hegel cita dal De la causa , principio et uno (ed. Aquilecchia: pp. 68,

13-69,4) a lui noto anche attraverso la seconda edizione di Jacobi, Ueber die Lehre desSpinoza in Briefen an den Herrn Moses Mendelssohn (Breslau, Löwe, 1789), che avevatradotto alcune parti (tra cui questa) dello scritto bruniano (cf. a questo propositoHegel, Vorlesungen , cit., la nota dei curatori a p. 241). Da ricordare che Hegel mostradi aver ben presenti le Briefe , in una comunicazione a Mehmel, a proposito dellanuova edizione del Gott di Herder, del 26 agosto 1801 (il giorno prima di discuterele Tesi premesse alla Dissertatio: vedi anche infra , nota 47).

(37) Cf. HÖSLE (1987): pp. 239-250.

(38) Cf. VERRA (1992): pp. 14-15.

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148 HEGEL E ARISTOTELE

Dissertatio , dove Hegel presenta per la prima volta i lineamenti di

un approccio speculativo allo studio della natura sotto una costel-lazione molto peculiare, tanto dedicando tre delle dodici Praemissae

Theses solo al rapporto tra morale e virtù, quanto mostrando dipropugnare il valore della matematica della natura dei Pitagorici edi Platone rispetto a una presunta discrepanza tra legge scientifica(la serie aritmetica di Bode per le distanze dei pianeti) e osservabilerealtà fisica (gli intervalli effettivamente esistenti).

Vale dunque la pena di soffermarsi sul rapporto tra realtàmatematica e realtà fisica, che rimane costantemente sullo sfondodei vari contenuti di questo scritto, per la cui interpretazione la let-teratura si è ultimamente dotata di nuovi elementi e strumenti cri-tici (41). Il contesto generale del lavoro è dato dalla polemicarivalutazione dell’atteggiamento scientifico di Keplero contro quel-lo di Newton; in questo quadro, Newton viene accusato sostanzial-mente di aver “confuso” de facto i “puri” rapporti matematici con

quelli fisici (ad esempio attribuendo troppo facilmente valore “vero efisico” di forze a linee geometriche o a punti matematici). La mag-giore ‘purezza’ di Keplero consisterebbe nell’aver ricavato le sueleggi dalla semplice osservazione empirica e nell’averle formulatenella forma “più chiara” e “più semplice”, vale a dire facendo unica-mente uso dei concetti propriamente implicati nella nozione di mo-vimento, spazio e tempo, senza ricorrere ad ipotesi aggiuntive (42). Si

(41) Tanto che è da considerarsi definitivamente superata la prospettiva diDE GANDT (1979): p. 28: «La Dissertazione è difficile da giustificare allorché si co-noscono gli scritti giovanili di Hegel. Perché aver scelto questo soggetto, quandole sue meditazioni a Berna (1793-1796), poi a Francoforte (1797-1800) sembranoessersi esclusivamente appuntate su temi religiosi e politici?».

(42) Per fare un esempio che può meglio chiarire lo spirito della contrap-posizione Keplero-Newton nella Dissertatio: come Newton “prova” l’ellitticitàdelle orbite, vale a dire la prima legge di Keplero? Con l’introduzione della for-za gravitazionale viene dimostrato matematicamente che le orbite sono delle se-

zioni coniche (iperboli, parabole, ellissi con eccentricità nulla, vale a dire cerchi)ma così non si arriva mai al dato effettivamente osservabile. Per ottenere la spe-

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150 HEGEL E ARISTOTELE

Va osservato che Hegel non formulava qui delle critiche per-

sonali, ma faceva propria sia, notoriamente, un’osservazione diLaplace, sia, meno notoriamente, la posizione anti-newtoniana diuno scienziato gesuita francese della prima metà del Settecento,

Padre Castel, come è stato mostrato in recenti lavori sull’argomen-to (44).

È dunque in un contesto molto più sofisticato e strutturato diquello che si è finora creduto, in un contesto formato da una cono-

scenza ampia,

diretta e approfondita degli effettivi problemimetodologici dibattuti dagli scienziati del tempo, e da una fine per-cezione delle relative implicazioni epistemologiche, che viene rita-gliato lo spazio per una ‘filosofia speculativa’ della natura.

Ma qui si situa anche il richiamo di Hegel alla filosofia degliantichi, così annunciato all’inizio della Dissertatio: «infine dimostre-rò anche, con un illustre esempio tratto dalla filosofia antica, cosavalga (quid...valeat) la filosofia nei casi di determinazione delle

quantità per i rapporti (rationibus) matematici» (De orbitis , p. 4, 4-7), con successivo riferimento ai numeri pitagorici-platonici delTimeo di Locri (che Hegel rifiuta di considerare apocrifo, e accettacome fonte autentica di Platone (45)) e del Timeo , per una legge del-le distanze dei pianeti più rispettosa dei fenomeni ad Hegel noti, diquanto per lui non fosse la serie aritmetica fornita dalla legge diBode. E un’altra delle affermazioni-chiave del De orbitis non lasciadubbi sul contesto in cui situare un tale riferimento: «In verità la

misura e il numero della natura non possono (nequeunt (46)) essere

(44) Cf. FERRINI (1994). Vedi anche la nota NASTI, 7, 19-22 in FERRINI (1995): pp.94-99.

(45) Cf. VEILLARD-BARON (1973): pp. 518-519.

(46) Sottolineiamo l’uso di nequeo : misura e numero non possono essere estra-nei alla ragione per come si mostra conformata, all’osservazione, la natura stessa; inlatino, nequeo viene infatti usato in riferimento ad una impossibilità dovuta a circo-

stanze oggettive (Hegel non sembra quindi pensare nell’ottica soggettiva di una benevola azione del Demiurgo: cf. infra, nota 87).

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152 HEGEL E ARISTOTELE

contrapposizione a Platone (49). Per quest’ultimo infatti, com’è noto,

la verità (in quanto dimensione ontologica che coincide con gli entieidetici) non è immediatamente e pienamente riscontrabile nellanatura fenomenica, in cui rimane piuttosto latente e velata (50).

filosofi quali Aristotele e Newton. Hegel cita liberamente dai Principia , Prop.VI, Cor. I( su cui cf. DE GANDT (1979): p. 150, nota 46) dove si intende refutare «un teorema diCartesio,Aristotele ed altri» (per il significato dato a questo esperimento in accredita-ti manuali di fisica che Hegel aveva avuto la possibilità di consultare nella bibliotecadi Tschugg, cf. FERRINI (1993): pp. 748-751). Per quanto riguarda Aristotele, il riferi-mento è evidentemente a Fisica , IV 8, 215a 25-215 b 12. L’ esperimento newtoniano deidue pendoli, identici per lunghezza e resistenza dell’aria, costruiti con coppie di ma-terie diverse (oro, sabbia etc.) ma dello stesso peso, racchiuse in due sfere uguali, èeletto da Hegel a paradigma del modo di procedere puramente riflessivo-intellettua-le della filosofia sperimentale (vale a dire, tale da ignorare completamente ciò chevuole la “philosophia vera”: De orbitis , p. 21, 25-28; da restare “estraneo alla vita dellanatura”: ib. , riga 30 ; in quanto interessato alle cause esterne ed estranee alla stessamateria: ib. , pp. 22,19-23,6. Sulla fortuna e il significato degli esperimenti con il pen-dolo nella meccanica newtoniana, cf. SARLEIJMIN (1993). Questi gli argomenti hegeliani:1) l’esperimento pretende di dimostrare che la pesantezza dei corpi è in ragione della

quantità di materia, ma in realtà non prova affatto la tesi, in quanto, con una similepreparazione ad hoc , non si poteva trovare, sperimentalmente, altro risultato che quellovoluto sin dall’inizio; 2) la filosofia sperimentale presume inoltre (falsamente) di scon-fessare definitivamente in tale modo “oggettivo”, tutti quei filosofi (Aristotele com-preso) «qui unius ejusdemque materiae diversas tantum formas statuunt» (cf. Met. ,VIII 4, 1044a 15-18). A questo proposito è possibile documentare la perfetta continuitàtra il De orbitis e le Lezioni sulla storia della filosofia dedicate alla filosofia della natura diAristotele: «Per quanto riguarda invece l’altro caso, la differenza tra pesante e legge-ro, che va considerata nei corpi stessi, il più pesante si muove più rapidamente delpiù leggero nello stesso spazio; “ma questa differenza si ha soltanto nel pieno, perchéil corpo pesante con la sua stessa forza separa più rapidamente il pieno”. Il rappresen-tarsi un identico movimento del pesante e del leggero, una gravità pura, un pesopuro, una materia pura, è un’astrazione, come se tutte queste cose fossero in sé ugua-li, e la differenza derivasse soltanto dalla resistenza dell’aria, l’accidentale. Questomodo di vedere è esattissimo, e serve ottimamente a combattere un insieme di rap-presentazioni, che imperversano nella nostra fisica» (HEGEL, SW , Bd. 18,2, pp. 355-356; LSF , II, p. 330).

(49) Cf. HEGEL, SW  , Bd. 18,2, p. 217: «Il primo è la coscienza sensibile; questoè il conosciuto, da cui prendiamo le mosse. Che attraverso ciò venga dato il vero, èuna rappresentazione cui Platone è assolutamente contrario» (cf. LSF, II, p. 199).

(50

) Cf. LUGARINI

(1961): pp. 77-81,

che pensa soprattutto alla Repubblica,

libriVI e VII.

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153C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

Il passo sopra ricordato, richiamandosi al ruolo determinante

della Ragione per la costituzione e la conoscenza del finito, siricollega inoltre alle Tesi VI e VII, di tipo logico-speculativo e stori-co-filosofico, premesse al De orbitis: «L’Idea è la sintesi dell’infinitoe del finito, e la filosofia è tutta nelle idee», «La filosofia critica èpriva di Idee ed è una forma imperfetta di Scetticismo» (nel sensoche assegna alla ragione solo un ruolo euristico per la conoscenzauniversale e necessaria dei fenomeni, mentre non dubita del valoreconoscitivo delle categorie dell’intelletto, facendo della matematicae della fisica delle scienze sintetiche a priori, sottratte ad ogni ra-gionevole dubbio).

6. Etica e filosofia della natura: una “ via verso” la Metafisica aristotelica

— Ora, è interessante notare che nell’articolo “Sulla relazione dellafilosofia della natura con la filosofia in generale” del 1802, si ritrovala citazione quasi testuale della Tesi VI, in un contesto esplicitamen-

te etico-religioso, introdotto, tra l’altro, da un richiamo nostalgicoalla gaiezza e purezza dell’intuizione greca della natura, contrap-poste alla “incolta serietà” e alla “torbida sensibilità” della conside-razione moderna di essa (51). Va detto che di questo articolo Hegelrivendicò la paternità, in conversazioni private con Michelet eCousin, paternità smentita poi da Schelling (52). Ma la stessa diatri-

(51

) KJP, I, 3, 1802, p. 21.(52) Può essere interessante ricostruire brevemente questa intricata e curiosa

vicenda: Michelet in un primo tempo aveva attribuito il saggio a Schelling, ma ven-ne convinto del fatto che Hegel ne fosse l ’autore da Hegel stesso, e lo inserì quindinella prima edizione completa (postuma) delle sue opere. Tuttavia, in una lettera aWeiss del 31 ottobre 1838 (che Weiss poi inoltrò a von Henning e che Michelet ripor-tò l’anno seguente nel suo scritto Schelling und Hegel. Oder Beweis der Aechtheit derAbhandlung: Ueber das Verhältniss der Naturphilosophie zur Philosophie diüberhaupt. Als Darlegung der Stellung beider Männer gegen einander, Berlin,

Dümmler, 1839, p. 6), Schelling negava risolutamente ogni contributo di Hegel alla

stesura dell’articolo e perfino alla visione delle bozze. Oggi la critica ritiene decisivoil fatto che nel suo curriculum vitae del 1804 Hegel non facesse menzione del saggio,

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154 HEGEL E ARISTOTELE

 ba sull’attribuzione è segno che i contenuti erano quantomeno con-

divisi, se non pesantemente influenzati, da Hegel. Nella pagina checi interessa, la (nuova) filosofia della natura viene difesa dalle ac-cuse di irreligiosità e amoralità/immoralità, mosse da una prospet-tiva moralisteggiante che concepisce solo empiricamente l’unità traIo e natura, “come naturalismo”, ed interpreta l’idealismo “comeegoismo” (53). In una nota dell’edizione in lingua inglese di questoscritto, H.S. Harris vede qui un riferimento al revival della dottrinaspinoziana dell’unità di Dio e Natura, e dell’“unità della mente contutta la natura” come il bene dell’uomo, nella filosofia dell’Identi-tà (54). E non possiamo non ricordare a questo proposito che nellaTesi VIII Hegel aveva scritto: «la materia del postulato della ragio-ne esibita dalla filosofia critica, distrugge questa stessa, ed è il prin-cipio dello spinozismo».

Ma la corrispondenza tra la Dissertatio e questo testo del 1802va ben più oltre: di contro a chi interpreta la Naturphilosophie sulla

 base di questo tipo di assunzioni, l’articolo di Schelling afferma conforza che essa «diventerà una nuova fonte della intuizione e cono-scenza di Dio», e che «una filosofia che deriva totalmente dallaragion pura e consiste solo di idee (und nur in den Ideen ist: cf. laTesi VI: “et philosophia omnis est in ideis”) deve scaturire da unaenergia più veramente etica». Una simile unità di etica, ragione especulazione è ottenuta attraverso la definizione dell’etica comeprincipio di liberazione dello spirito da tutto ciò che è estraneo, omaterico, come elevazione allo stato di essere determinati soltantoattraverso la ragione pura, senza contaminazioni.

È in questa prospettiva che suggeriamo di leggere il riferi-mento, sempre di Schelling, all’impresa di Hegel nella Dissertatio ,

per cui non si hanno più dubbi sulla veridicità della versione di Schelling (cf. G. DI

GIOVANNI e H.S. HARRIS (1985): pp. 365-366; vedi anche TILLIETTE (1968): p. 157, eGILSON (1986): p. 51 sgg.).

(53) KJP , I, 3, p. 22.

(54) DI GIOVANNI & HARRIS (1985): nota 16, p. 381.

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155C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

che appare nel Bruno , dialogo sul principio divino e naturale delle

cose, pubblicato nel 1802. In una nota al testo, si rimanda alle «pre-cedenti fatiche di un amico», che ha “liberato” le leggi di Kepleroda «difformazioni empiriche e meccaniche» e così «le ha conosciu-te nella loro “purezza”, restituendole al loro autentico senso specu-lativo» (55). Nell’ottica del Bruno , Hegel avrebbe dunque preparatoil terreno per la ulteriore elaborazione schellingiana dello stessotema: le tre leggi di Keplero risultano infatti conformi allo schemadella costruzione esposto nel dialogo, in quanto si rapportano traloro come indifferenza, differenza e totalità, esprimendo perfetta-mente l’intero “organismo della ragione” (56)

Se dunque per Schelling la purificazione dell’animo operatadall’etica, è “la condizione della filosofia”, sembra che per lui la fi-losofia della natura sia in grado di mantenere le sue promesse soloin quanto svolge questo stesso compito di liberazione/purificazio-ne nell’ambito delle leggi fisiche. Alius et idem è invece il giudizio

di Hegel sul proprio lavoro,

nel senso che viene posto il nesso trafisica, matematica e idealismo da un lato, e prospettiva etico-reli-giosa dall’altro, ma lo si coglie dal punto di vista della determina-tezza della sintesi di infinito e finito compiuta dalla nuova Natur-

 philosophie. Nell’articolo su Krug del gennaio 1802 (la Dissertatio fuconsegnata ufficialmente all’Università di Jena nell’ottobre 1801),Hegel controbatte alla sfida, lanciata all’idealismo, di produrre ra-zionalmente la deduzione di una particolare rappresentazione, de-

terminata e finita; nella sua risposta, sostiene l’infondatezza della

(55) SCHELLING, SW , IV, Bruno , ein Gespräch (1802), p. 330 (nota alla p. 270).

(56) Per completezza d’informazione, segnaliamo l’opinione di OESER (1975):p. 143, per cui questo ritorna a Keplero, per Schelling, “come per Hegel”, avrebbesignificato di “un ritorno ad Aristotele”, dato che lo stesso Keplero aveva accolto lacritica aristotelica alla ontologia pitagorica della matematica (cf. Harmonice mundi,Op. V, p. 221), e non aveva difeso una interpretazione puramente matematica delladottrina platonica delle Idee. Cf. anche CASSIRER (1922): p. 369. Su quel tentativo di

Keplero,

giudicato sostanzialmente infruttuoso,

di comprendere“i famosi numeri

pitagorico-platonici, vedi HEGEL, SW , Bd. 18,2 p. 258; LSF, II, p. 237.

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159C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

 bile moto circolare della ragione, che pensando ritorna in se stessa,

ed ha sé come proprio oggetto, sono “i due modi della esposizionedell’assoluto” in Aristotele, una concezione che Hegel definisce conentusiasmo una “grande determinazione” (64).

Ancora, un altro passo delle Lezioni mette in luce che taleconnessione tra ragione e moti celesti si traduce nel sommo bene enella suprema libertà, saldando così la logica e la fisica all’etica;dopo aver citato dalla Metafisica , XII 9, 1075a 5-10 (65), Hegel conclu-

de:«

Così si rapporta il pensiero di se stesso per tutta quanta l’

eter-nità” — come il bene supremo nell’universo [...]. Ma adesso questaidea speculativa è il bene supremo e la massima libertà; e ora è davedere nella natura (come Cielo) e nella ragione pensante» (66). Danotare che Hegel, oltre a ricordare il primo movimento del cielodelle stelle fisse, accenna qui anche al movimento eterno dei piane-ti (67).

Questa stessa unità di logica, fisica ed etica costituisce, a no-

stro parere, il corretto contesto storico-filosofico che permette direndere conto insieme sia della presentazione iniziale dell’oggettodella Dissertatio , dove si afferma che «non c’è altra espressione del-

(64) Hegel, SW , Bd. 18,2, p. 328; invariato in LSF, II, p. 305. Cf. SEIDL (1986).Ricordiamo come Düsing abbia a questo proposito rilevato l’attribuzione di Hegelad Aristotele della propria concezione della soggettività assoluta, basandosi anchesu un passo della Metafisica (XII 7, 1072 b 23) che nella edizione di Erasmo (Basilea,

1531) autorizzava la seguente interpretazione: che «ciò che è più eccellente» nonfosse «il pensato», bensì «la stessa energia del pensare» (la soggettività nell’accezio-ne hegeliana). Al contrario, oggi nell’edizione di Ross si legge che Aristotele fondala «suprema eccellenza» a partire dal «pensato» (cf. DÜSING (1982): pp. 26-27).

(65) Cf.  Met. (tr. Reale), II, pp. 577 e 579,  Met. (tr. Russo), p. 366 con  Met.(Ross/Barnes), p. 1699.

(66) Hegel, SW , Bd. 18,2, p. 335; invariato in LSF, II, p. 313: tr. it. modificata.

(67) Ib., p. 336; LSF, ibidem. Cf. GILL (1991): pp. 264-265, secondo cui il “ benedel cosmo” risiede «sia nel Primo Motore stesso, il cui potere è espresso nella sua

attività eterna,

sia nel sistema funzionante,

di cui egli mantiene ordine e continuitàper mezzo dei movimenti regolari di corpi che agiscono secondo le loro nature».

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165C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

principali finora raccolti: i) il complesso sistema di riferimento cui

riportare la presentazione dei pianeti del sistema solare (Dei,animalia ,  espressione più pura e sublime della ragione etc.) nellaDissertatio ;  ii) Dio come unione di  principium essendi e cognoscendi

nell’articolo su Krug e nelle Lezioni di Hegel sulla Metafisica ; iii) lapresenza della ragione nella natura nella Differenza ; iv) la visibilitàdi Dio come eterno cielo e la sua definizione come ragione che pen-sa se stessa visti come i due modi di espressione dell’assoluto inAristotele; v) il peso fondamentale che Hegel dà alla concezionearistotelica dell’“assolutamente immobile che è principio, concettoe forma di tutto” come attività, motore (80), insieme all’accento po-sto sulla definizione di esso come energeia (81) , che “fa entrare”, inmodo concretamente oggettivo, nella realtà effettuale; vi) il riscon-tro tra la nozione di identità che Hegel attribuisce ad Aristotele equella affermata nel De orbitis per l’intelligibilità del mutamento edegli elementi del sistema solare; vii) la mediazione, sempre richia-

mata in relazione a questi stessi concetti chiave, della seconda Sco-lastica e del pensiero di Giordano Bruno, ricco di riferimenti a con-cetti aristotelici e presente, per nozioni e immagini, sia nel De

orbitis che nell’articolo sul “Diritto Naturale”; viii) lo svilupparsi diun approccio speculativo-razionale alla natura, da Francoforte a

 Jena, all’interno della riflessione sulla storia del cristianesimo e suicostumi (un tratto comune ad Hegel e Schelling), in cui il riferi-

(80

) Cf. Fisica, II 7, 198 b

1-5, dove «ciò che muove senza essere mosso» è «finee causa finale» con il seguente passo delle Lezioni di storia della filosofia su GiordanoBruno: «Ciascuna forma delle cose è il suo interno principio-ragione, la sua causaproducente; però forma e causa non sono diverse, ma la forma stessa è causa, pro-prio attraverso la causa finale - presso Aristotele l ’immoto, il principio, il concettopuro, entelecheia [...]. Il fine è l’attività, però l’attività in sé (in sich) determinata, chenel suo rapporto con l’altro non si relaziona come una semplice causa, ma ritorna insé, contiene sé» (HEGEL, SW , Bd. 19,3, pp. 229-230; cf. anche Vorlesungen, Bd. 9, Teil4, pp. 52-53, 629-632. Corrisponde grosso modo e solo in parte a LSF, III, 1, p. 217).

(81) Cf. Met., IX 8, 1050a 20-25: «In realtà è fine l’opera, e l’atto si identifica con

l’opera e per ciò anche il nome stesso di atto (energeia) deriva da opera (ergon) e tendeverso l’atto perfetto». Vedi supra le note 64 e 79.

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166 HEGEL E ARISTOTELE

mento diretto all’attività della virtù risulta svolgere una funzione

critica tanto nei confronti dell’artificialità e del formalismo dellamorale kantiana, quanto delle leggi della meccanica, “esterne” allamateria, cosicché la saldatura tra la prospettiva etico-religiosa e laNaturphilosophie viene ad operarsi contraendo un debito anche conl’Etica Nicomachea.

Ora, sempre nelle Lezioni , proprio questa concezione centra-le, sul piano logico, rispetto a tutti gli altri elementi, del dio

aristotelico come essenza assoluta che è actus purus ,

 ed è,

in quanto“ciò che muove”, principio del mutamento, insieme sostanza iden-tica con sé ed energia, viene nettamente contrapposta alla visioneplatonica del rapporto, di separazione, tra Idee, numeri e concretarealtà fisica. Da una parte, quella di Aristotele è la sostanza «chenella sua possibilità ha anche la realtà effettuale (Wirklichkeit), lacui essenza (potentia) è l’attività stessa, dove entrambe non sono se-parate» (82). Dall’altra, proprio a tale riguardo, «Aristotele si diffe-

renzia da Platone, e per questo motivo polemizza contro il numero,contro l’idea, contro l’universale, poiché, “se questo” è immoto, vi-sto in sé e per sé, “non viene determinato come attività, efficacia,non è affatto movimento”; esso non è identico con l’attività pura,ma è colto come quiescente. Le idee e i numeri quiescenti di Plato-ne non portano affatto alla realtà effettuale (Die ruhenden Ideen,

Zahlen Plato’s bringen nichts zur Wirklichkeit)» (83).

(82) HEGEL, SW , Bd. 18,2, p. 326; diversa la tr. it. in LSF, II, p. 303. Vedi anchenota 7.

(83) HEGEL, SW , Bd. 18,2, p. 326; testo leggermente variato in LSF, II, p. 303.Che qui Hegel si riferisca direttamente e fedelmente ad Aristotele, ci sembra prova-to dal confronto tra l’espressione tedesca retta da “ bringen nichts zur Wirklichkeit”(che si pone, sul piano stilistico, come lo speculare di quel “tetren macht inWirklichkeit” che invece caratterizza, positivamente per Hegel, il Motore Immobi-le; cf. nota 62), e Met., XIV 3, 1090 b 24-27: «ma, tuttavia, dovremo noi reputare chequeste grandezze siano idee? E quale sarà il loro modo di essere? E quale contributo

esse apporteranno all’esistenza delle cose? In realtà

,esse non danno alcun contribu-to, proprio come non lo danno gli enti matematici». Sulla mancanza di basi filosofi-

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170 HEGEL E ARISTOTELE

tività creatrice dell’anima del mondo, e vede l’autorità dei Pi-

tagorici attestata attraverso i dati empirici raccolti dall’astrono-mia» (89).

Ci pare evidente che tutti coloro i quali nella serie propostanel De orbitis vedono solo una condivisione della tradizione pitago-rico-platonica, senza chiamare, o pensare di chiamare in causa, l’in-terferenza di un influsso aristotelico, possono affidare la loro credi-

 bilità solo alle ipotesi che qualche anno dopo, nelle Lezioni , o Hegel

fosse inconseguente con la posizione della Dissertatio ,

 oppure aves-se totalmente cambiato idea su questo singolo punto, rendendosolo allora, tra l’altro, pienamente coerente la propria personalecondivisione dei concetti chiave della Metafisica. Benché la questio-ne non sia mai stata affrontata in questo modo, c’è da dire che unimportante indizio parlerebbe a favore di un simile mutamento diprospettiva: il fatto che nel par. 224 dell’Enciclopedia di Heidelberg(1817) Hegel ammetta a chiare lettere di non ritenersi più soddi-

sfatto di quel suo tentativo di costruire una serie filosofica al postodella progressione aritmetica rappresentata dalla legge di Titius-Bode.

Si potrebbe pensare che una simile presa di distanza sia statamotivata dal suo prendere atto (90), nel frattempo, della scoperta diCerere (già avvenuta nel gennaio 180l), e in seguito di altri asteroi-di. Messo di fronte a una serie di verifiche empiriche della serieastronomica, Hegel avrebbe ben potuto ritenere confutata la sua

controproposta. Questo almeno era quanto lo invitavano a fare gliscienziati (91). Ma questa non fu l’opinione di Hegel, che certo non

(89) BAUM (1989): p. 140.

(90) Cf. HARRIS (II), p. 96 e HÖSLE (1987), I, nota 85, pp. 95-96.

(91) Le reazioni del mondo scientifico (von Zach, Schleiden) al De orbitis sono ben documentate in NEUSER (1986): pp. 4-5. Cf. anche FERRINI (1991): nota 72, p. 475per il poco lusinghiero giudizio che il Duca di Gotha e Altenburg scrisse su una

copia della Dissertatio di Hegel,

inviandola al suo astronomo di corte,

Baron vonZach, appunto.

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171C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

mostrò di dare valore epistemologico di experimentum crucis a tali

nuovi dati sperimentali. Nella Fenomenologia ad esempio, la scoper-ta di un nuovo pianeta, il quale, « benché individuale, possiede lanatura di un universale», è vista come un colpo di fortuna (92), nondunque come l’espressione della conformità ad una legge di unprodotto naturale specifico; nelle Lezioni sui Pitagorici, a propositodella verifica delle previsioni fornite dalla serie, con l’ individua-zione di Cerere, Vesta, Pallade etc., si parla ugualmente di “Glück ”,

fortuna (la stessa espressione si trova nelle Vorlesungen ,

 Bd. 7,

Teil2, p. 43, 203), e nello stesso par. 224 l’autocritica nei confronti dellaDissertatio è introdotta dalla affermazione che l’astronomia non haancora scoperto alcuna legge effettualmente reale (wirklich) circa ledistanze, anzi, si è dimostrata incapace di scoprire perfino “qualco-sa di razionale”. È chiaro dunque che nell’ottica di Hegel tali “sco-perte” non comportavano di per sé l’elevazione dell’insieme dei nu-meri di Titius-Bode a serie conseguente, e quindi non erano suffi-

cienti ad operarne il passaggio da semplice progressione aritmeticaa legge scientifica (93), venendo così a delegittimare, di diritto, lasua alternativa formulazione simbolica su basi filosofiche. Per Hegelsi passa infatti dal livello dell’osservazione, espressa quantitativa-mente, di una regolarità in natura, al livello della legge, quando siè trovata una forma universale, una formula, in virtù della quale siricavino quelle stesse grandezze o se ne prevedano con successo del-le altre: «È un gran merito, quello d’imparare a conoscere i numeri

(92) HEGEL, GW , Bd. 9, p. 139, 29-33. Sulla casualità della scoperta di Piazzi, cf.FERRINI (1991): nota 71, p. 475.

(93) Scrive Neuser: «Come dobbiamo valutare oggi lo status conoscitivo del-la serie di Titius-Bode? Si dà una moderna teoria astro-fisica che chiarisca in modosoddisfacente le distanze dei pianeti nel sistema solare sulla base di una teoria for-te? La serie di Titius-Bode fino ad oggi non ha esperito alcuna fondazione fisica. Laposizione degli astrofisici nei confronti di essa ondeggia tra un completo rifiuto (H.Alfvén e G. Arrhenius) e l’ipotesi che almeno i primi valori della serie indichino i

membri iniziali che potrebbero riprodurre una legge fisica (C.F. von Weizssäcker)»

(NEUSER (1986): p. 57).

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175C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

to ad evidenziare le carenze formali della serie di Titius-Bode, por-

tando il discorso sul piano della determinazione dei rapporti(“rationes”) filosofici tra numeri: da un tale punto di vista, essa«non è in nessun modo di pertinenza della filosofia», in quanto laprogressione è aritmetica e «ne numerorum quidem ex se ipsisprocreationem i.e., potentias sequatur». Da notare che, a differenzadi quanto farebbe supporre la traduzione italiana (99), Hegel ha evi-tato di scrivere «ex se ipsis generationem». In altre parole, introdu-cendo il tema classico (100) della produzione dei numeri, non hascelto di usare un linguaggio temporale e biologico, come avevafatto Platone per la loro derivazione, in questo criticato da Aristote-le (101).

È inoltre da sottolineare la frequenza con cui compare il ter-mine ratio nei luoghi che stiamo commentando: 5 volte nel senso di“rapporto” in 17 righe, da p. 31,32 a p. 32,7; e 3 volte nel senso di“ragione” in 7 righe, a p. 31, 21-27. Hegel non parla mai quindi di

puri,

semplici numeri,

ma sempre dei loro rapporti. Anche quandointroduce la famosa serie, precisa che Timeo non la riferiva ai pia-neti, ma che riteneva che il Demiurgo avesse conformato l’Univer-so «ad quorum rationem», secondo il loro rapporto (102). Questo è

(99) NEGRI (1984): p. 61: «Ma questa progressione, poiché è aritmetica e nonsegue neppure la generazione dei numeri da se stessi, cioè le potenze, non è affattodi competenza della filosofia».

(100) Cf. ANNAS (1976): pp. 42-55.

(101) Scrive la ANNAS (1976): p. 43: «Platone ebbe la tentazione di usare unlinguaggio temporale ed, in effetti, biologico, nella sua spiegazione del rapporto trai numeri, l’uno e il due indefinito. Aristotele riferisce che in Platone si trova una“generazione” dei numeri, e sebbene talvolta il linguaggio sia vago ( Met. , XIII 6,

1080a 14-16; 9, 1085 b 7), ci sono molti usi espliciti del verbo per “venire all’essere” (I6, 987 b 22-35; XIII 7, 1082 b 30; XIV 1, 1087 b 7; 3, 1091a 4-5). Una volta (I 6, 988a 1 sg.)Aristotele conta su ciò per un motto di spirito sulla parentela dei numeri. In effettimostra che Platone, dal suo linguaggio, è portato a sostenere che la produzione deinumeri sia un processo temporale, e non meramente logico (XIV 4, 1091a 23-28)».

(102

) Aristotele allude a questi stessi numeri del Timeo in De An.,

I 3,

406 b

27.Cf. RODIER (1985), pp. 91-100 per un dettagliato commento (improntato a quello di

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180 HEGEL E ARISTOTELE

ni , non fornisce alcuno strumento, come abbiamo visto dai com-

menti, per comprendere la sostituzione/correzione e le sue impli-cazioni. Tale lettura non rende inoltre conto di una peculiare mo-venza retorica del testo latino, che ben si inquadra invece nella no-stra interpretazione, secondo cui Hegel piuttosto mostra la parzia-lità e l’ insufficienza di quella serie antica come tale, a meno di nonsottoporla, come vedremo ancora, a certe operazioni. Al “ponereliceat”, segue infatti: «Quae series si verior naturae ordo sit, quamilla arithmetica progressio, inter quartum et quintum locum ma-gnum esse spatium, neque ibi planetam desiderari apparet». Vale adire che quando Hegel parla dei numeri (modificati) dei due Timeo

come di «un ordine della natura più vero» di quello offerto dagliastronomi, lo fa con l’apodosi all’indicativo (apparet) e la protasi alcongiuntivo (sit) ; secondo un periodo ipotetico dell’oggettività cheesprime un forte accento di eventualità, e che potremmo introdurrecon un “nel caso che, qualora” (118).

In effetti, Hegel abbandona ogni cautela solo dopo aver consi-derato le radici cubiche di quegli stessi numeri elevati alla quartapotenza, secondo la formula (x2) 2/3, scrivendo: «rationes distantia-rum planetarum esse invenies»: «troverai che esse sono i rapportiper le distanze tra i pianeti» (corsivo mio). In questo modo si ricavauna serie numerica che, pur utilizzando un’unità di misura diversada quella della serie di Titius-Bode, pure effettivamente si appros-sima considerevolmente ai valori delle tabelle astronomiche del-l’epoca (119). Se per Neuser una simile operazione matematica è dinuovo senza fondazione filosofica, così invece la legge Harris,prendendo sul serio l’intenzione hegeliana di dare effettivo valorereale e fisico ai numeri antichi: «Hegel voleva generare da questa se-rie i rapporti di intervallo richiesti attraverso una operazione ‘po-

(118) Questo aspetto retorico, che indica il valore solo ipotetico della seriepitagorico-platonica è stato più volte rilevato dagli interpreti (HÖSLE (1987), I: nota85, pp. 95-96; NEUSER (1986): nota a p. 32, 12, p. 161; FERRINI (1991): p. 467).

(119

) Per tutta la questione rimandiamo alla documentazione e all’analisi of-ferte da NEUSER (1986): pp. 51-52 e p. 54.

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181C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

tenziale’ su di essa» (120). A parte le riserve che abbiamo già espres-

so sull’uso del verbo “generare”, Harris giustamente ricorda a que-sto punto i prerequisiti che Hegel stesso aveva prima enunciato af-finché una serie numerica risultasse di pertinenza della filosofia. Difatto Hegel, elevando alla quarta potenza i numeri dei Timeo (in cuiintroduce un mutamento ulteriore per ottenere il primo valore: 1,4delle tabelle delle distanze dei pianeti dal sole), ottiene una nuovaserie, le cui basi sono tutte potenze (elimina quindi ogni rapportoaritmetico in essa),  e che la precedente “ ha procreato da se stessa” .

L’estrazione poi di radice, essendo il modo inverso di quello poten-ziale, non modifica questo aspetto, secondo cui il numero non ope-ra come un agglomerato di unità che sottoposto a addizione o sot-trazione perderebbe la propria identità, ma è posto come un princi-pio che si dà la propria regola e limite di accrescimento/diminu-zione (mutamento).

Che valore filosofico ha questa mossa? Ed è possibile, per

concludere il nostro discorso, che anche in questa ulteriore modifi-ca che Hegel apporta alla tradizione pitagorico-platonica (l’unicoriferimento esplicito di queste righe) sia presente un influssoaristotelico?

La risposta alla prima domanda ci permette di allargare ilcontesto storico-filosofico ai Naturphilosophen dell’epoca. NelloErster Entwurf del 1799 Schelling aveva fatto ampio uso di una dot-trina del potenziamento (per individuare diversi livelli di produtti-

vità nella natura, e definirne le tappe di transizione verso lo spiri-to) nella costruzione della sua teoria dinamica della materia e dellasua visione della natura come divenire, processo formatore e siste-ma di gradi, attività infinita, in cui meccanismo e finalismo sonocollocati all’interno di una prospettiva sistematica e unitaria (121). E

(120) HARRIS (II): p. 93.

(121) Cf. BLOCH (1975): pp. 294-295. Sulla dottrina delle potenze nei vari scritti

di Schelling, Cf. ESPOSITO(1977): pp. 94-97 e 103-104; per l’Entwurf , in particolare, cf.TILLIETTE (1992): pp. 178-179.

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182 HEGEL E ARISTOTELE

nella Darstellung meines Systems der Philosophie , che precede di po-

chi mesi la Dissertatio ,  le potenze (nel senso della “Steigerung”)sono i modi attraverso cui si esprime la determinatezza della diffe-renza quantitativa di soggettività e oggettività: «le quali, facendoparte della forma dell’essere dell’identità assoluta, e per conse-guenza della forma di ogni essere, non stanno forse insieme inuguale maniera, ma così, che reciprocamente potrebbero essere po-ste come prevalenti» (par. 23). Nel suo approccio complessivo,

Schelling era stato influenzato dalla visione vivente e dinamicadella natura di Baader, che nei Beiträge zur Elementarphysiologie del1796 (122) aveva tra l’altro distinto tra “aritmetica vivente” e “arit-metica morta”. La prima era lo strumento dei ricercatori “dinamici”della natura, intenti alla “costruzione” dei fenomeni, i quali opera-vano attraverso la moltiplicazione e l’elevazione a potenza, la divi-sione e l’estrazione di radice. La seconda consisteva nell’addizionee nella sottrazione, proprie dei fisici meccanicistici che si limitava-

no a “spiegare” i fenomeni naturali. Se questo tipo di riferimento facapire quanto Hegel, utilizzando elevazione a potenza ed estrazio-ne di radice, parlasse nel linguaggio abituale di una linea di studinuova, ma dalle caratteristiche già ben definite e affermate, questosuo dialogare non deve far perdere di vista la specificità dell’uso ditali operazioni, che ci riporta nuovamente alla matematica antica.

Nella Tesi IV premessa al De orbitis , ad esempio, Hegel nonparla di “aritmetica vivente”, bensì di “aritmetica vera”, e quello

che dice, malgrado nessun interprete finora lo abbia rilevato (123),

(122) Cf. BAADER, SW  , III, Gesammelte Schriften zur Naturphilosophie, p. 215. NelleVorlesungen , Bd. 9, Teil 4, pp. 185-186, 456-461, Hegel sottolinea il debito contrattoda Schelling con Eschenmayer riguardo all’uso delle potenze, e come il primo se neservisse alla stregua di “differenze fisse”.

(123) Cf. WASZEK (1987): pp. 255-260, per una bibliografia ragionata dei com-menti alle varie Tesi (le edizioni di Neuser e di De Gandt si limitano ad offrire la solatraduzione del testo latino); rispetto alla Tesi IV, Waszek ricorda l’opinione di Haering,

per cui insieme alla III e alla V,è«

descritta seguire il vivo interesse di Schelling perla filosofia della natura» (pp. 255-256).

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183C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

appare meno un’ipotesi personale votata al fallimento (124) o un

mettersi sulla scia della filosofia della natura schellingiana, se laleggiamo alla luce di quella pagina del Parmenide platonico (143a-144a) conosciuta come “generazione dei numeri’’ (125), nonché dicerte osservazioni aristoteliche sulla natura e sulla produzione ditutti i numeri, in  Met., VIII 3, 1043 b 33-1044a 2 e XIII 8, 1083 b 36-1084a 7: «In Arithmetica vera nec additioni nisi unitatis ad dyadem,

nec subtractioni nisi dyadis a triade, neque triadi ut summae,neque unitati ut differentiae est locus». I punti di contatto con ildialogo platonico, sono, a nostro parere: i) che nell’aritmetica veranon ci sia posto per la triade come somma (126) (vale a dire come ope-

razione tra addendi), bensì, si potrebbe completare, come “un tut-to”, almeno secondo l’argomento del Parmenide 143d,  dove: tria

 gignetai ta panta.ii) Che non ci sia posto per l’unità come differenza. Fatta salva

la mediazione della tradizione dell’aritmetica speculativa che può

rendere conto, tra l’altro, tanto della distinzione tra lo hen delParmenide (che corrisponde al latino unum) e la unitas hegeliana(che corrisponde al greco monas) , quanto del passaggio dall’alteritàindeterminata come heteron alla alterità determinata della Tesi IV(la differentia) (127),  riteniamo che quest’ultima affermazione trovi

(124) Così ROSENKRANZ (tr. it.): p. 175 commenta questa Tesi: «Anche questaproposizione, che avrebbe dovuto presentare la formula più semplice per i diversisistemi di calcolo, conteneva in embrione un’aspirazione fondamentale di Hegel,

che poté essere realizzata così poco come quella sul calcolo delle orbite dei pianeti».(125) Ma cf. ALLEN (1983): pp. 227-228, secondo cui è sbagliato ritenere che la

classificazione dei numeri offerta in questo passo sia un dar conto della loro genera-zione, trattandosi piuttosto della presentazione di una prova di esistenza.

(126) A differenza di quanto si legge nella traduzione italiana (NEGRI (1984): p.89; cf. anche nota 5, p. 94), la seconda parte della Tesi sostiene che non c’è posto,

nell’aritmetica vera, per la triade come (ut) somma, e per l’unità come (ut) differenza.

(127) Ringrazio il Prof. M. Nasti De Vincentis per avermi fatto pervenire laseguente precisazione: «tesi classica dell’aritmetica speculativa di tradizione plato-

nica (pitagoreggiante) è infatti l’inalterabilità dell

’unità. Ad es.

,in una tarda epitomecome il Suntagma di Pachimere (cf. TANNERY (1940): p. 11, 13-16) è ancora possibile

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186 HEGEL E ARISTOTELE

tro non fa che elevare alla quattro terzi un rapporto geometrico (gli

ultimi quattro numeri) che era già esprimibile da potenze di due odi tre (133); e più avanti, delle altre quattro serie che vengono pro-poste (per il rapporto tra le distanze dei satelliti di Giove e nei sa-telliti di Saturno), le uniche di cui scrive i termini sono quella dacui si ricavano i valori dei tempi periodici dei primi quattro satellitidi Saturno, e quella che esprime il rapporto tra le loro distanze, en-trambe della forma 2n. Nel caso dei tempi, Hegel si richiama nuo-

vamente ad alcuni numeri della serie dei due Timeo (1; 2

;

4;

8) rica-vandone i valori (134) dalle radici quadrate di 29, 210, 211, 212; dove iradicandi costituiscono una successione i cui termini sono tutti po-tenze di due (135). Analogamente, troviamo che «la serie dei cubidei quali le radici esprimono il rapporto delle distanze» è 1; 2; 22;

23; (24: 25), 28; (212: 213 ).Ora pensiamo che la ragione per cui Hegel, quando si tratta

di numeri che esprimono misure della natura, rapporti tra gran-

dezze concrete nella realtà fisica, prediliga serie che hanno cometermini (o quadrati dei termini) potenze di 2, possa essere cercatanella lettura aristotelica delle teorie dell’Accademia sulla genera-zione dei numeri, in Met., XIII 8, 1083 b 36-1084a 7. Il terzo modo di

(133) Scrive Hegel in De Orbitis, p. 28, 20-27: «Quum lineam esse mentem seipsam in sua ipsius forma subjectiva producentem transitumque ejus in speciemsui vere objectivam esse quadratum vidissemus, productum contra, quod adnaturam naturatam pertinet, est cubus; spatii enim omni mentis abstractione facta

se ipsum producentis tres sunt dimensiones: corpusque quod fit, est quadratum, corpusautem quod est, cubus» (corsivo mio). La peculiarità dell’elevazione al quadrato eal cubo rispetto a successivi gradi di elevazione a potenza, continuerà ad essereaffermata da Hegel: cf. HEGEL,  Werke, Bd. 8,  Enzyklopädie der philosophischenWissenschaften, I, par. 102, p. 215, Enc. (tr. it.), p. 118; e GW , Bd. 21, Wissenschaft derLogik, I (1832), pp. 201, 34-202, 1; SL, p. 227 (passo aggiunto nella seconda edizione).

(134) Come si ricava facilmente, ma diversamente da quanto appare nellevarie edizioni e traduzioni del De Orbitis, i valori di questi tempi, dati nel testooriginale come il risultato dell’estrazione di radice, sono: 22, 32, 45, 64. Cf. FERRINI

(1996): p. 16.

(135) I risultati esatti dell’operazione sono: 22, 62; 32; 45, 25 e 64.

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187C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

cui viene dato conto (136) tende esattamente a colmare la lacuna delParmenide , vale a dire a derivare tutti gli altri numeri pari che nonsono potenze di due. Scrive la Annas: «Questo suggerisce quantosegue: il due indefinito per proprio conto produce le potenze di due:date queste, l’uno produce i numeri dispari; ed entrambi sono an-che necessari per produrre i rimanenti numeri pari (in quanto, per-ché essi siano ottenuti devono essere disponibili i numeri dispari).Questo spiegherebbe perché Aristotele qualche volta parli come seil due indefinito producesse solo le potenze di due, e qualche voltacome se producesse tutti i numeri pari: i numeri pari sono la pro-vincia del due indefinito, ma  per proprio conto esso può produrresolo i numeri pari di pari volte nel senso ristretto delle potenze didue» (137).

Il fatto che Hegel limiti l’esposizione delle serie razionali allaforma 2n potrebbe quindi essere visto come un aggiustamento nelsenso dell’  “ex se ipsis procreationem” della più generale (e

lacunosa) teoria platonica. Con quel tipo di base, l’elevazione a po-tenza rafforzerebbe il significato di non essere un mutamento ester-no cui è sottoposto il numero, poiché la differenza da sé cui il nu-mero dà origine è (platonicamente)  par excellence il suo proprio de-terminare. Hegel terrà sempre fede a questo aspetto qualitativo delrapporto potenziale (138), che apre alla matematica la via verso ilcorporeo (139), in quanto rappresenta un superamento dell’astrat-

(136) Su cui cf. ROSS (1924), II: p. 447, commento a 1084a 4-7.(137) ANNAS (1976): p. 52.

(138) Cf. HEGEL, GW  , Bd. 21, p. 319, 7-9; SL, p. 359: «Il rapporto potenziale èl’esposizione di quello che il quanto è in sé  (an sich) , ne esprime la determinatezza oqualità per mezzo della quale esso si differenzia da altro». Vedi anche ib. , p. 320, 1-4;

SL, p. 360: «L’esteriorità (Aeusserlichkeit) della determinatezza è la qualità del quan-to; questa esteriorità è quindi posta ora conformemente al concetto del quanto comeil suo proprio determinare, come il suo riferimento a se stesso, la sua qualità». Iltesto è invariato rispetto all’edizione del 1812.

(139

) Nello Hegel della Scienza della logica ,

diversamente da quanto avvenivanella Logica del 1804-05, sarà la terza categoria dell’Essere, la Misura, nascendo dal-

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188 HEGEL E ARISTOTELE

tezza e del formalismo (morta identità) del numero (contrariamen-

te alla Darstellung di Schelling, dove la potenza è l’espressione del-la differenza (meramente) quantitativa del soggettivo e dell ’ogget-tivo che è al fondamento di ogni finito, posta invece la loro origina-ria identità assoluta come l’infinito).

Questa mossa, che fa tutto sommato vincere Platone in ungioco contro se stesso, appare dunque la migliore risposta alla criti-ca aristotelica alla concezione dei numeri come “quiescenti” («dieruhenden... Zahlen Plato’s»), internamente privi del principio delmutamento e quindi incapaci di contribuire alla realtà. Se così fos-se, il contenuto delle Lezioni , che esamina le dottrine pitagoriche eplatoniche in se stesse, non esprimerebbe una valutazione antiteti-ca all’uso dei numeri dei due Timeo nella Dissertatio. Scriverà Hegelnella Scienza della logica: «Il quanto come determinatezza indiffe-rente si muta; ma in quanto questo mutamento è un elevarsi a po-tenza, questo suo essere altro è limitato puramente da sé (cioè dal

quanto) stesso» (140

). Ed in una nota (aggiunta nel 1831) polemizze-rà esplicitamente contro coloro che hanno usato la forma del rap-porto potenziale, come forma fondamentalmente solo quantitativa,

per esprimere determinazioni di pensiero, contrapponendo loroproprio il significato aristotelico di potenza come dunamis: «Il con-cetto nella sua immediatezza fu chiamato la prima potenza, nel suoesser altro o nella differenza, nell’esserci dei suoi momenti, la se-conda, e nel suo ritorno in sé o come totalità, la terza. — Contro a

ciò si scorge subito che la potenza così impiegata è una categoriache appartiene essenzialmente al quanto; — in queste potenze nonsi pensa affatto alla potentia , alla dunamis di Aristotele» (141).

la doppia transizione tra quantità e qualità, a svolgere questo ruolo, procedendo siaad una matematica (sviluppo della determinazione del quantitativo) della natura,

sia mostrando il nesso di questa determinazione della misura con le qualità dellecose naturali: cf. FERRINI (1988): pp. 22-31.

(140) HEGEL, GW  , Bd. 21, p. 318, 16-18; SL , pp. 358-359.

(141) Ib. , p. 321, 18-19; SL , pp. 361-362.

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190 HEGEL E ARISTOTELE

della filosofia (145) e Dissertatio , il richiamo ai Pitagorici nelle note di

Troxler avrebbe il significato di produrre un’istanza speculativa (ra-zionale) nella categoria della Quantità (riflessione finita), non supe-rando tuttavia i limiti della fondamentale astrattezza della deter-minazione numerica (ricordiamo che Hegel usa il verbo “suchen”,

cercare, per definire l’impresa dei Pitagorici). A questo propositovale la pena ricordare che nelle Lezioni troviamo un giudizio ugual-mente ambivalente sulla completezza della tetrattide, e sulle sue

pretese di realtà: da una parte,

 «

la realtà ( da notare che qui Hegelusa il termine “Realität”, non “Wirklichkeit”) in cui le determina-zioni (i primi quattro numeri) sono prese, è soltanto quella esterio-re e superficiale del numero, non è affatto concetto» (146); dall’ altra,«nel Quattro ci sono soltanto quattro unità; — è un grande pensie-ro che <tale realtà> non sia posta come uno» (147).

Si risolverebbero così le difficoltà di Düsing, che dopo averricostruito il contesto del passo attraverso i richiami della Disserta-

tio ,  scrive: «dagli appunti di Troxler però non è completamentechiaro, se tutto ciò si deve prendere per un esempio relativo alle ca-tegorie, per un problema di applicazione della logica o per unaspiegazione a sé stante, a mo’ di excursus, sulla filosofia della natu-ra, specialmente sull’astronomia speculativa» (148).

Se la mia lettura risulterà convincente, allora a conclusione diquesto contributo alla quarta giornata dei lavori del Convegno, si

(145) Le Lezioni furono redatte, com’è noto, da Michelet, prendendo come base il quaderno personale di Hegel, risalente al 1805-1806, successivamente arric-chito di note e fogli intercalati, oltre a tre quaderni di appunti di uditori, dal corsodel 1823-24, a quello del 1829-30: per i problemi filologici qui implicati rimandiamoa VIEILLARD-BARON (1976): pp. 11-12 e pp. 50-53. Per possibili forzature (dovute aintenti polemici) della lettura hegeliana di Aristotele operate dal lavoro editorialedi Michelet, cf. VERRA (1993), pp. 606-607.

(146) HEGEL, SW  , Bd. 18, 2: p. 275; invariato in LSF , I, p. 247.

(147) Ib. , diversamente in LSF.

(148) DÜSING (1988): p. 168.

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191C. FERRINI - Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafisica

potranno ben apporre, avendole mutate ad hoc ,  le seguenti parole

di Giordano Bruno: «Di tre fontane che sono nell’Università: a l’unahanno imposto nome, FONS Platonis, l’altra dicono FONS Pytha-gorae, l’altra chiamano FONS Aristotelis. Da questi tre fonti traen-dosi l’acqua per far la birra e la cervosa [...] conseguentemente nonè persona che con essere dimorata meno che tre e quattro giorni inque’ studii e collegii, non venga ad esser imbibito non solamentedel fonte di Platone, e Pitagora, ma et oltre d’Aristotele» (149).

Ringraziamenti:

La scelta dell’argomento è stata maturata nell’ambito di un proget-to di ricerca del 60% dell’Università di Salerno, intitolato “Logica,meccanica newtoniana, Naturphilosophie”  diretto dal Prof. M. Nastide Vincentis, il cui apporto specialistico è stato segnalato nellenote. Il lavoro di ricerca, e di documentazione bibliografica, è statodi fatto reso possibile dal rinnovo di una borsa di studio dell’Uni-versità di Berna per l’a. a. 1993-94, sotto la direzione del Prof. Dr. A.Graeser, che ringrazio per la cura e l’attenzione con cui ha seguitola rielaborazione finale di tutto il contributo. Il Prof. Dr. M. Baum,

presso ho svolto (a. a. 1994-95) un’attività di ricerca finanziata dallaAlexander von Humboldt-Stiftung, è stato inoltre prodigo di detta-

gliati, spesso utili, suggerimenti: la responsabilità per ogni even-tuale errore o imprecisione è pertanto esclusivamente mia. Deside-ro inoltre riconoscere un debito di gratitudine verso il Prof. M.Mignucci, per le sue molte “thought-provoking” osservazioni. Infi-ne, devo alla cortesia del Prof. G. Movia l’aver potuto rielaborare einserire alcune parti di questa relazione in FERRINI (1996): pp. 69-120.

(149) AQUILECCHIA (1973): p. 48.

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Abbreviazioni e sigle:

BAADER, SW :

F. X. v. Baader, Sämmtliche Werke (a cura di F. Hoffmann, J. Hamberger et al.),Scientia Verlag Aalen (reprint dell’edizione di Leipzig del 1852).

Bonitz:H. BONITZ,  Index Aristotelicus ,  Graz, Akademische Druck-U. Verlagsanstalt,1955 (rist. fotomeccanica della ed. di Berlino del 1870).

De Caelo:

ARISTOTELE,  De Caelo ,  introduzione, testo critico, traduzione e note di O.

Longo, Firenze, Sansoni, 1961.Enc. (tr.it.):HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio , vol. I, tr. it. di B. Croce,

intr. di C. Cesa, Bari, Laterza, 1978.

HEGEL, GW:

Gesammelte Werke (in associazione con la deutschen Forschungsgemeinschaft,a cura della rheinisch-westfälischen Akademie der Wissenschaften), Ham- burg, F. Meiner.SW :

7/29/2019 Movia, Giancarlo - Mignucci, Mario (Ed), Hegel e Aristotele - Atti Del Convegno Di Cagliari, 1995

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205L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

proprio nella sua assolutezza (che come tale non ammette contra-

rio) richiede invece che la si pensi come mediata in sé stessa, richie-de che si distinguano immediatezza e semplicità accogliendo inquest’ultima la mediazione, la riflessione, come «momento positi-vo dell’assoluto». Nel circolo instaurato dal principio finale si deli-nea la natura effettiva del contenuto della scienza, perché, dispie-gandosi nella «moventesi eguaglianza con sé», tale principio per-mette al progredire del pensiero di coincidere con il tornare indie-

tro al fondamento. Colto in questa motilità propria della sostanzaassoluta intesa come soggetto, il divenire viene a coincidere conl’atto perché si fa ciò che esso è “in sé”, cioè diviene ciò che è e restaidentico a se stesso: «giacché il divenire è altrettanto semplice equindi non diverso da quella forma del vero, la quale fa sì che esso,

nel suo resultato, si mostri semplice ; esso è, per meglio dire, l’esserritornato nella semplicità».

La sostanza come soggetto è stata già concepita, per Hegel,

da Aristotele: questa è la tesi di fondo che guida la sua ripresa delpensiero aristotelico, della quale è momento essenziale una fortesottolineatura interpretativa del divenire e dell’atto. Proprio l’unio-ne di sostanza e soggetto è indicata nelle pagine delle Lezioni comeil tratto radicale che segna il passaggio dall’universale platonico alprincipio aristotelico della pura soggettività, menzionato come“principio della vita (Lebendigkeit), principio della soggettività”,

elaborato attorno all’idea di scopo.

Anche l’universale platonico è per la verità l’idea determinata«come il bene, lo scopo, l’universale in generale» (GPh II , p. 152).Ma se Platone ha dunque già pensato il concetto di scopo, e ha po-sto l’idea come concreta, «in sé determinata», egli non ha tuttaviaconcepito ancora la scopo come «il movente (das Bewegende)» (GPh

II , p. 153), tratto che esso ora assume in Aristotele, diventando «ilvero (Wahrhafte) e concreto contro l’astratta idea platonica» (GPh II ,

p. 149). «L’universale non ha ancora, per il fatto di essere universa-le, realtà; l’attività della realizzazione (Verwirklichung) non è ancora

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207L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

distingue infatti: a) una «sostanza sensibile percettiva (sinnliche

empfindbare Substanz)», b) una sostanza in cui «entra l’attività», siapure nella separazione di potenza da atto: l’intelletto (Verstand,

nouı); c) la «sostanza assoluta», l’actus purus. In questa tripartizio-ne l’intelletto, staccandosi dagli oggetti propri della fisica, si pre-senta quale termine medio che articola le tre sostanze come mo-menti di un discorso unitario. Con ciò è posto l’accento sul caratte-re unificante e primario della sostanza su cui è pur vero che insiste

l’incipit del XII libro: «l

oggetto su cui verte la nostra indagine è lasostanza (peri; thı oujsivaı hJ qewriva)» (3). Il ricorso alla sostanza an-nuncia in apertura la soluzione aristotelica per un approccio unita-rio al tutto.

Tuttavia, come è noto, Aristotele distingue in modo diverso itre tipi di sostanza, e li distingue in modo tale da separare subitodopo, apparentemente con un taglio netto, due scienze a propositodella sostanza: la fisica e la teologia. Da una parte abbiamo due tipi

di sostanza sensibile (aistheté) — eterna (aidios) e corruttibile(phtharté) —, dall’altra la sostanza immobile: «le sostanze sono tre.Una è la sostanza sensibile, la quale si distingue in eterna e incorruttibile [...] l’altra sostanza invece è immobile [...] Le prime duespecie di sostanze costituiscono l’oggetto della fisica perché sonosoggette a movimento (meta; kinhvseoı); la terza è invece oggetto diun’altra scienza, dal momento che non c’è nessun principio comu-ne (mhdemiva ajrch; koinhv) ad essa e alle altre due» (1069 a 30 - b 2) (4).

Proprio il contrasto con la ricostruzione hegeliana indirizzal’attenzione a una sorta di implicita esclusione di ogni possibilità dimediazione, attraverso l’intelletto o l’anima, tra i primi due modid’essere della sostanza e il terzo (lasciamo da parte per ora la que-

(3) ARISTOTELE,  Metaphysica (= Met), XII, 1, 1069 a 18 (tr. it. G. Reale, Vita ePensiero, Milano 1993, II, p. 543).

(4) Si confronti tuttavia questo passo con la chiusa del libro , che presenta

una critica a coloro che teorizzano“principi diversi per ciascuna sostanza

”(1075 b 38 e s.) e insiste sull’unicità del principio ultimo.

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210 HEGEL E ARISTOTELE

 bisogno dell’amico: «l’argomento che Dio non è tale da aver biso-

gno di un amico pretende la stessa cosa del paragonare l’uomo aDio. Invece l’uomo virtuoso non ragionerà con questo ragionamen-to; infatti la perfezione di Dio non risiede in questo, bensì nell’esse-re superiore al pensare qualcosa’altro all’infuori di se stesso. Lacausa è che per noi il benessere comporta qualcos’altro oltre noi, in-vece quanto a Dio, egli stesso è il bene di se stesso» (9).

C’è un diventare altro che sembra inseparabile dal pensiero

umano,

per quanto questo (proprio nell’

essere“

in certo modo tuttele cose”) si caratterizzi allo stesso tempo come un diventare se stes-so: «il pensiero umano è un pensiero in movimento di un essere inmovimento» (10). Dio, come un ente estraneo al movimento e cosìal diventare altro, resta da questo punto di vista impenetrabile peril pensiero, che lo configura come caso limite di quell’unità versocui si muove: un’unità che trova nel linguaggio una rappresenta-zione solo metaforica nell’identità con sé o nell’autorelazione. Non

altro indicherebbe quel brusco richiamo al pensiero di pensiero cheAristotele fa a proposito dell’intellezione degli indivisibili, almenose intendiamo il passo in questione come un accenno a una dimen-sione del pensiero di fatto preclusa all’uomo e riservata soltanto aDio. Nell’intellezione degli indivisibili, la conoscenza è dislocataper il pensiero umano nel contrasto con la sintesi, la quale per par-te sua costituisce «qualcosa come un uno» (11). Nel caso in cui citroviamo di fronte a un indivisibile senza contrario (diversamente,

ad esempio, dal punto, conoscibile secondo Aristotele dal suo con-trario), ecco che esso sembra respingere da sé la potenza del pen-siero che muove verso di esso e richiudersi in un’impenetrabile au-tosufficienza: «ma se a qualcosa nulla è contrario, esso conosce se

(9) ARISTOTELE, Ethica Eudemia, VII, 12, 1245 b 15-19 (tr. it. A. Plebe, cit.).

(10) P. AUBENQUE, Le problème de l’ être chez Aristote , PUF, Paris 1972, p. 494.

(11

) ARISTOTELE,

  De Anima (= De An),

III,

6,

430 a 28 (tr. it. a cura di G.Movia, Loffredo, Napoli 1979, 19922).

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212 HEGEL E ARISTOTELE

infatti cambiare volto se commisurato a una tradizione che, come

precisa Aubenque, pone il divino epekeina tes ousias, facendo resi-stenza alla tradizione che è stata definita ontoteologica. È vero in-fatti che da una parte ancor più che lo haploustaton plotiniano il Dioaristotelico si tiene in disparte da ogni rapporto che permetta diderivare da esso e da esso solo il molteplice. Dall’altra però la defi-nizione di esso come “pensiero di pensiero” ne fa qualcosa di cono-scibile per sé in base alla condizione «in cui noi ci troviamo talvol-

ta» ( Met,

XII,

7,

1072 b 25) e traccia le premesse per quel passaggiofondamentale del pensiero moderno che è la prova ontologica.L’identificazione di Dio col pensiero di pensiero (rigettata da Ploti-no che invece situa l’uno al di là dell’essere e del pensiero) poneAristotele in relazione con un filone che getta un qualche ponteanalogico tra Dio e il pensiero umano, e così rende quanto menoassumibile come problema la conoscibilità di Dio (o, detto nellaprospettiva heideggeriana ripresa da Aubenque, la riduzione del-

l’essere all’esser pensato e a un soggetto assoluto al modo della tra-dizione ontoteologica): «l’ontoteologia è all’opposto di una tradi-zione per la quale Dio, principio dell’essere, è per questa stessa ragio-

ne al di là dell’essere, così come, quale principio di ogni pensabili-tà, dev’essere al di là del pensiero» (16).

Per questa difficoltà di collocazione, il pensiero di Aristotelesembra in questo punto mostrare una indecisione, un’incompiutez-za che è apparsa alla tradizione, come ha detto Aubenque, un di-

fetto di sistematicità. Di qui le due strade ricordate da Aubenque,entrambe compatibili con l’ambivalenza di Aristotele, entrambevolte a colmare sistematicamente le sue lacune: Hegel si porrebbein quella tradizione che, disconoscendo le aporie insolute del pen-siero aristotelico, lo “compie” non già teorizzando l’ineffabilità diciò che è primo ma ricucendo all’interno di un logos appropriato lo

(16

) P. AUBENQUE,

 “La question de l

’ontothéologie chez Aristote et Hegel

”,

in La question de Dieu etc., p. 280.

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214 HEGEL E ARISTOTELE

cun dubbio presente già nella tessitura aristotelica, tra Dio e il

mondo delle cose soggette a movimento.

2. Qual è il principio unitario che percorre il pensiero aristotelico?Cosa determina “das Verhältnis der Momente”, il rapporto dei mo-menti che, articolati nelle quattro cause, concorrono alla costituzio-ne dell’idea di sostanza, dell’ontologia (o logica) aristotelica? Hegel

cerca programmaticamente il filo conduttore della teoria della so-stanza e lo ritrova nel principio dell’atto o attività (Tätigkeit). Unprincipio che risponde alla domanda su cosa sia ciò che muove: «equesto è il logos, lo scopo» (GPh II , p. 153). La determinazione fon-damentale (Hauptbestimmung) che sorregge il pensiero di Aristoteleè indicata senza tentennamenti nell’atto — definito come «l’autode-terminarsi, ciò che realizza se stesso» (GPh  II , p. 154) — o piùanaliticamente nelle due Hauptformen della possibilità e della Wir-

klichkeit, cioè dell’entelechia, «che è in sé scopo e realizzazione del-lo scopo». Di queste forme Hegel dice che «compaiono dappertut-to» e che «si devono conoscere per comprendere» Aristotele. Esserappresentano ciò che permette di cogliere in modo unitario nonsolo il rapporto tra eidos e wirkliche Dinge — che in Platone restairrecuperabile a partire dall’universale —, ma anche la coppia dicause materia-forma, e con essa la sostanza.

È importante sottolineare come Hegel abbia in vista con que-

sto tema non tanto una via breve verso l’unità, quanto piuttostoinnanzitutto la comprensione di ciò che permette ad Aristotele diseguire l’articolazione delle sostanze nella loro specificità, di forni-re una giustificazione del mutamento e dell’individualità di controall’astratto universale. Lungi dall’affrettarsi verso la ricomposizio-ne sistematica Hegel valorizza l’interesse aristotelico per la deter-minatezza e la distinzione. L’attenzione è concentrata sull’ente sog-getto a mutamento per rintracciare in esso un’unità che abbia unatenuta più salda che non l’universale astratto. Hegel parte dallo

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216 HEGEL E ARISTOTELE

sta sostanza è tale perché nel diventar altro è se stessa (il movimen-

to, atto della potenza, la caratterizza) e dunque perché divenendosi muove verso ciò da cui ha principio, ossia giunge a ciò che eragià. In questo senso Aristotele dice che quello in cui il divenire sta,

riposa, — la forma — è più  physis della materia: “e la forma è piùnatura che la materia: ciascuna cosa infatti allora si dice che è,

quando sia in atto (ejnteleceiva/) piuttosto che quando sia in poten-za” (18). Un passo che Heidegger ha così commentato: «l’entele-

cheia è più ousia della dynamis,

perché realizza l’

essenza del veni-re alla presenza in sé costante in modo più essenziale della dyna-

mis» (19).C’è dunque innanzitutto una dualità della physis ribadita an-

che quale tratto essenziale del movimento: il non-ancora e il non-più tornano costantemente a sdoppiarlo nella misura in cui esso èl’«atto della potenza (hJ tou§ dunavmei o[ntoı ejntelevceia) in quantotale» (Phys, III, 1, 201 a 10-11). Aristotele attribuisce l’articolazione

duale potenza-atto solo a un certo tipo di enti: «c’è qualcosa che èsolo in atto, e qualcosa che è in potenza e in atto» (Phys, III, 1, 200 b26-27). Nell’ente mosso potenza e atto si mostrano però allo stessotempo come due concetti relativi, non solo nel senso che l’uno ri-manda all’altro, ma insieme nel senso che giungono a ciò che sonodiventando altro (passando per altro). In ciò essi manifestano cosìanche un’unità, attuata in modo diverso: la potenza infatti, in rela-zione all’atto, diventa ciò che è, diventa se stessa. Nel passaggio e

nella relazione si determina una priorità dell’atto, perché esso èl’essere arrivato a sé che in quanto tale conferisce un tratto essen-ziale anche alla potenza: l’atto è così il termine unitario su cui pog-gia la relazione.

(18) ARISTOTELE, Physica (=Phys), II, 1, 193 b 6-8 (tr. it. di A. Russo, Laterza,Roma-Bari 1983).

(19

) M. HEIDEGGER,

 Segnavia,

tr. it. a cura di F. Volpi,

Adelphi,

Milano 1987,

p. 241.

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219L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

che caratterizza l’ente sensibile Hegel vede assente proprio il mo-

mento del ritorno in sé (Rückkehr in sich) che pure ideell costituiscela natura. L’unità è “il morto sostrato”, cioè la materia quale “essen-za universale” che è “indifferente verso gli opposti” e che rappre-senta il “permanente”. Essa è per un verso ciò in cui “accade” il mu-tamento, ossia ciò in cui un contrario resta e l’altro dilegua: essacambia perché in essa cambia la forma, sostituendo lo stato di pri-vazione. In certo modo dunque qui gli elementi di cui consta l ’entemosso sono statici. Il movimento è infatti il dileguare di uno degliopposti nell’altro. Ma esso resta così esteriore, come esteriore nel fi-nito è la forma rispetto alla materia: da una parte infatti il muta-mento è esteriore ai contrari, poiché essi non mutano ma l’uno sicancella nell’altro di modo che il movimento solo “idealmente” è,mentre si perde insieme al contrario che dilegua; d’altra parte ilmutamento è esteriore alla materia, poiché questa può essere en-trambi i contrari, assumere questa o quest’altra forma, ed è dunqueil sostrato indifferente delle differenti forme possibili. Alla forma,

di contro, conviene certo il carattere di atto, ma in quanto essa restadistinta dalla materia.

Ma il mutamento per altro verso è il passaggio dalla potenzaall’atto, e così dall’ente (non-ente in atto) all’ente: un passaggio che,osserva Hegel, contrassegna un’“identità” dell’ente con sé. Succedecosì che la materia, la quale per un verso è “l’essenza universale”,semplice e contenente in unità indifferente le determinazioni possi-

 bili, muta in quanto «il qualcosa diviene in atto una determinatamateria, ciò che la sua materia era anche in potenza» (GPh II , p.157). In questo senso la materia è determinata, diviene quello cheera in potenza, «è la stessa ma in quanto contrapposta», secondo latraduzione-interpretazione di Hegel. Il momento del diventare ciòche era, caratterizza così anche qui, alla luce dell’atto, l’ente mosso.Ma la materia resta altro da questo, resta ciò che non coincide conquesto momento e fa ad esso resistenza.

Si può dire che nella sostanza sensibile Hegel lavora su unatensione tra il nesso materia-forma e quello potenza-atto, attraver-

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222 HEGEL E ARISTOTELE

Su questi scarni riferimenti Hegel elabora una distinzione

che si ispira certamente alla nota articolazione sistematica tra natu-ra e spirito. Questa elaborazione è d’altra parte decisiva, perché co-stituisce la premessa necessaria per l’interpretazione hegeliana del-la successiva, costante presenza sulla scena del nous nelle paginearistoteliche, con la ripetuta comparazione tra la condizione in cuil’intelligenza divina si trova ton hápanta aiôna, per tutta l’eternità, ela condizione in cui l’anthrópinos nous si trova solo en tini chrono, in

qualche momento (9,

1075 a 7-10). Hegel recepisce in quest’

elabora-zione una serie di altri riferimenti che permettono di concepirel’ente in movimento in base alla connessione dei contrari che è con-tenuta nel logos e in quella parte dell’anima che “ha il logos”, cioè ilnous . Il logos e la scienza sono infatti in modo specifico «il negati-vo astratto, ma contenente ciò che deve diventare», del quale parlaHegel a questo punto: e qui risuona la tesi aristotelica per la qualela scienza, secondo quanto affermato in Met IX, 2, è logos, e «il me-

desimo logos manifesta la cosa e la sua privazione» (1046 b 8-9); ov-vero la scienza è “potenza dei contrari” in quanto ne ha il logos.L’anima, «ha il principio del movimento» come gli altri enti fisici,ma nel senso del tutto speciale che conserva la relazione al contra-rio escluso, conserva dunque il movimento nel compimento, pos-siede anticipatamente la relazione a ciò verso cui si muove, e inquesto senso specifico si muove verso se stessa, sicché è caratteriz-zata anche da immobilità. Questa circolarità ha un ruolo essenziale

nelle pagine della Storia della filosofia, perché la riconsiderazionedella nozione di sostanza alla luce del concetto di atto come “ritor-no in sé”, cioè alla luce del concetto di scopo, che è «il concetto chesi ricostituisce nell’altro» (GPh II , p. 178), fornisce a Hegel il puntod’appoggio per scandire una distinzione in cui d’altra parte èadombrato senza dubbio anche il passaggio dalla natura allo spiri-to.

Hegel sembra partire da una variazione che la nozione di so-stanza mobile subisce nello svolgimento del testo aristotelico. Al-

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223L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

l’inizio del 3° capitolo Aristotele precisa infatti che ciò che è mosso

non è né l’uno né l’altro momento fin qui considerato: materia eforma ou gignetai, non divengono. E in quanto tali non sonoconsiderabili come sostanza separata. Solo in un terzo significato,

quello di sinolo, la sostanza può essere detta mossa. I tre “principie cause” diventano ora: motore materia forma. Essi risulteranno in-fine quattro nel 4° capitolo, dove viene recuperata la privazione, eil principio motore, come si è detto, viene spostato “fuori” per le

sostanze naturali,

mentre coincide con la forma nelle cose causate«dalla ragione (ajpo; dianoivaı)» (4, 1070 b 31), cioè là dove, comedice Aristotele nel VII libro, l’eidos è en te psyché , nell’anima (7, 1032

 b 1). Sotto un altro profilo, tuttavia, per la  physis considerata nelsuo intero vale, come si è detto, che il suo principio motore è intrin-seco e viene a coincidere con la forma (l’uomo genera l’uomo), dicontro alla techne, che è sempre principio in altro o, come diceHegel, «ha bisogno ancora della materia», con la quale il nous «non

è ancora identico» (GPh II  ,  p. 158). Se così per un verso nella so-stanza naturale intesa come sinolo il motore è fuori, nel caso delpensiero come principio motore resta fuori la materia.

La sostanza sensibile (il primo tipo di sostanza per Hegel) ab- bandona nel 3° capitolo in modo netto quel baricentro nella mate-ria quale “terzo termine (ti trivton)” (1069 b 8) che aveva nel capito-lo precedente in base alla necessità di un estremo che permanga. Seil qualcosa che muta è indicato in prima battuta come materia per-

ché questa appunto permane come sostrato del mutamento, vienetuttavia precisato più sotto che la materia non è propriamente unqualcosa, non è un tode ti, ma è sostanza solo «in apparenza (tw/

faivnesqai)» (1070 a 10), perché permane soltanto in quanto sussi-stente in altro, e separata è invece solo in quanto potenza, o, comequi è detto, in quanto «non connaturata (mh; sumfuvsei)», ovvero,

come direbbe Hegel, astratta. Sostanza è invece, in una seconda epiù conseguente definizione, la physis, in quanto è una condizioneverso cui si muove la generazione e dunque sussiste come scopo,

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224 HEGEL E ARISTOTELE

permanente nel senso che in esso l’ente raggiunge se stesso. Ma per

alcune cose il tode ti non esiste separato dalla synthetè ousia , precisaulteriormente Aristotele accendendo qui una polemica con le for-me separate di Platone. La forma, proprio in quanto ingenerata,non può essere ciò che muta e permane nel mutamento; o, in altritermini, la forma sussiste solo in quanto è insieme (hama) il divenu-to tale (per esempio la salute è solo insieme all’uomo che si trovaad essere sano). Sostanza allora (eccezion fatta per il nous, la cui

questione è lasciata proprio a questo punto in sospeso) è propria-mente ciò che è da materia e forma, cioè quello che altrove è chia-mato sinolo. Il sinolo, l’intero unitario nel quale solo sussiste per séla forma, è il terzo e più appropriato concetto di sostanza per quan-to riguarda l’ente mosso.

Aristotele fa qui l’esempio della sfera di bronzo che ricorreanche nel VII libro, dove si dice che «ciò che diviene è il sinolo» (8,1033 b 17-18). Nel sinolo la materia, tolta dalla sua esteriorità (che è

anche estraneità alla definizione), viene posta in relazione con ciòche essa diventa, e la forma a sua volta sussiste solo nell’unità coldivenuto e la materia. Materia e forma non esistono separatamen-te: essi sono, commenta Hegel, «l’in sé essente, l’universale cometale in forma contrapposta», e quello che ora costituisce la figurasensibile della sostanza non è né l’una né l’altra, ma «solo il muta-mento». E Hegel più avanti (GPh II , p. 179) ricorda l’esempio dellastatua di Fisica, III, 1, 201 a 29 ss., sottolineando che il movimento

non è l’atto del bronzo in quanto bronzo, ma in quanto non ancorastatua. Solo nell’accezione di sinolo l’atto, che rimaneva in qualchemodo separato dal sostanziale nella precedente considerazionedella sostanza, «fa il suo ingresso (hereinkommt)». I due principidella sostanza sensibile finora considerati rimanevano estraneil’uno all’altro: da un lato la forma e il suo contrario, la privazione;dall’altro cio che è indifferente al mutamento, la materia. Essi ven-gono ora definiti da Hegel come universale passivo e universale at-tivo, ma il mutamento non cade in nessuno di questi due momenti,

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226 HEGEL E ARISTOTELE

parte di Hegel. Egli distingue la seconda sostanza a partire dall’in-

terpretazione della ragione per cui il motore nella sostanza sensibi-le «è ancora del tutto separato dalla materia» (GPh II , p. 158). Nellasostanza sensibile l’unità di sostrato e attività resta in Aristotelenon chiarito per una ragione che sta nelle cose stesse. La sostanzasensibile è bensì caratterizzata dal divenire ciò che è. Questo sensoè implicato, come abbiamo visto, nel concetto di  physis come untutto o in universale: l’«uomo genera l’uomo»; inoltre, tale sensoguida anche la definizione del composto come un intero che artico-la in un’unità indivisibile la distinzione di materia e forma: ilsinolo. Tuttavia nella sostanza sensibile l’unità è anche il negativonei confronti dei due momenti, respinge o esclude da sé i differenti:da una parte la materia ha una sua sussistenza che viene negata edilegua per far posto a una nuova forma; d’altra parte il sinolo sipresenta in forma privativa come un esser altro dalla forma, unavere compimento e atto in altro dalla forma (e dalla definizione).

La sostanza sensibile è caratterizzata negativamente dal to-gliersi: essa soggiace al perire (come il finito in senso hegeliano).Non appena «dileguano (ajpevlqh/) dalla sensazione» ( Met, VII, 15,1040 a 3-4), le sostanze corruttibili sono inconoscibili, mentre l’ani-ma ne “salva” solo il logos . Nel definire le sostanze individuali,perciò, la definizione non può “ignorare” il fatto che in esse «vi èsempre un togliersi (ajnairein)», che limita intrinsecamente la defi-nizione. Nella sostanza sensibile la forma è sempre un altro (un al-tro ente) o è come altro (come essenza, come ciò che diviene,

 gignetai ,  in altro, VII, 8, 1033 b 7). La sostanza sensibile rinvia nelproprio sussistere a un’unità che si conservi nel passare e conserviil passare stesso; a un’altra sostanza in cui sussista e non dilegui ilpassaggio dalla potenza all’atto. Questa sostanza è l’anima o piùprecisamente l’intelletto.

Mentre la determinatezza sensibile della sostanza consistenel fatto che la possibilità ha anche un’esistenza indifferente al mu-tamento (e qui sta l’esteriorità reciproca di materia e forma), percui, se il legno è per un verso il non-ancora cenere, esso ha però

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227L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

anche un’esistenza indipendente da questo, che come tale dispare

nel suo contrario (GPh II , p. 214); viceversa la sostanza che si con-serva come mossa è soltanto l’anima e in particolare l’intelletto, esolo in in una tale sostanza si conserva ciò che diviene. La figurasensibile di questo nuovo carattere della sostanza «è soltanto il mu-tamento» (GPh II , p. 157), il disparire di ciò che è posto in quantosensibile. Ma ora il mutamento si conserva, è un arrivare a sé. L’ar-ticolazione hegeliana delle due sostanze è legata mediante tali con-

nessioni all’

approfondimento del concetto di sostanza mobile,

equesto in linea col filo conduttore (il movimento) del testoaristotelico. Proprio questo approfondimento porta Hegel a passa-re dalla  physis e dal sinolo all’anima e al nous distinguendo duemodi del movimento e della relazione potenza-atto, e di conse-guenza separando un modo inadeguato da un modo adeguato dirispondere al concetto di mobilità.

Il carattere d’essere dell’ente in movimento è dato dalla con-

nessione dei contrari, che di per sé non divengono ma che cometali non hanno a pieno titolo il carattere di sostanza sensibile sog-getta al mutamento. Tuttavia quello che altrove è chiamato sinolo,

e che qui è detto synthetè ousia, quale sostanza sensibile esprime laforma in modo privativo: esso ha la forma di una materia rispetto acui la forma è esteriore, secondo il faticoso gioco di terminihegeliano. È, in altri termini, il divenire forma di qualcosa che restaaltro da questo. E ciò ora significa per Hegel: la figura sensibile del-

la sostanza sensibile in quanto mobile, cioè come sostanza che hain sé il principio del movimento, è soltanto il mutamento, il diven-tar altro, il dileguare. Invece, quello «che contiene ciò che deve di-ventare», quello cioè che raggiunge se stesso e diviene dunque ciòche era — quello che, in termini hegeliani, «in sé è determinato persé» —, è l’anima e in particolare l’intelletto. In esso il diventar altrosi conserva come tale, ovvero non è solo astratta negatività, ma lasostanza stessa come risultato, come quella che diviene tale. L’intel-letto infatti è diventando altro (“in certo modo tutte le cose”, secon-

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229L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

tura e spirito finito in alcuni punti dell’Enciclopedia (22). Questa con-

nessione si sviluppa sotto un duplice aspetto: a) la continuità trasostanza come sinolo, sostanza come natura che si muove verso sésecondo il principio fondante dello scopo, e sostanza come vivente(autoriferita) che porta con sé l’ipotesi necessaria di un nuovo tipodi ousìa, l’intelletto; b) la necessità, comune ai due tipi di sostanza,

del presupposto materiale, cioè dell’esclusione comunque di qual-cosa nel pervenire a sé dell’atto. Ciò determina la necessità di con-cepire in forma privativa la sostanza mossa, così come il concettodi movimento quale atto imperfetto, sicché la ricerca risulta guida-ta verso mete ulteriori dal principio di una compiutezza della so-stanza (che per Hegel investe anche il concetto di movimento).

Da una parte Hegel dà rilievo a una sorta di crescita testualedella determinazione di sostanza sensibile in Aristotele, appog-giandosi al fatto che già nel concetto di natura viene in luce unautoriferimento dell’atto e della forma tale da situare in certo modola sostanza in una determinazione immateriale (áneu hyles). Lo stes-so sinolo, peraltro, che pur scaturisce dalla necessità di ribadire ilradicamento materiale della sostanza, fa del sostanziale come inte-ro unitario qualcosa di irriducibile ai componenti e tale da non co-stituire un elemento: in questo suo distinguersi esso è stato dettoda Aristotele, alla fine del VII libro (17, 1041 b 25), causa. Si trattadello stesso contesto in cui si dice che la natura è sostanza, proprioin quanto non è elemento ma principio, a partire dal quale si deter-mina l’essere della cosa.

Aristotele dà un grande rilievo al carattere unificante delprincipio come telos e non come elemento. Nella prosecuzione delXII libro, con i capitoli 4° e 5° (all’inizio del quale, come si è detto,

anima e corpo vengono posti quali principi unificanti della sostan-za, aventi lo stesso rapporto di atto e potenza) lo Stagirita sviluppaun’argomentazione che ha il compito di spingere il discorso verso

(22

) Cfr. ad esempio G.W.F. HEGEL,

  Enzyklopädie der philosophischenWissenschaften, in Werke, cit., 8, § 83 Zus.

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230 HEGEL E ARISTOTELE

principi che siano «gli stessi per tutte le cose» (1070 a 32-3), e verso

un principio unificante «che tutto muove» (1070 b 35). Ciò che uni-fica non può essere inteso semplicemente come elemento, perchécome tale sarebbe incapace di spiegare la diversità. L’unificazione ècercata perciò dal punto di vista relazionale dell’analogia, cioè dalpunto di vista di un’unità di differenti. In questo punto di vistarientra il concetto di sostanza nel senso di ciò che muove come ter-mine finale e che è in atto un qualcosa di determinato. Come taleessa è il termine in cui si raccoglie un processo, e unifica alla ma-niera in cui è unificante la relazione potenza-atto che ha nell’atto ilsuo termine primo. Sostanza e atto sono principi allo stesso modo,

e proprio questo legame introduce alla «causa prima di tutto». Seall’inizio la materia sembra avere un ruolo di primo piano per ladistinzione delle sostanze — materia corruttibile o incorruttibile daun lato, assenza di materia dall’altro — lo stesso concetto-guida dimovimento comporta progressivamente un ruolo sempre più deci-sivo dell’atto e con esso del fine come termine in cui si raccoglie egiunge al più proprio essere il processo.

Ora, su questa base già in Aristotele assumono una posizionerilevante il vivente e l’anima. L’anima infatti è ousia katà ton logon

( Met, VII, 10, 1035 b 13 e De An, II, 1, 412 b 10-11), «sostanza nelsenso di forma» (tr. Movia), o, secondo la traduzione di Hegel, «so-stanza solo secondo il concetto» (GPh II , p. 201. Hegel aggiunge il“solo”). Essa in certo modo rientra nella seconda definizione di so-stanza, quella che designa l’ousia come forma o come essenza, e chenel capitolo 3° del XII libro è indicata, come si è detto, quale physis.Ma poiché l’anima è «atto di un corpo che ha la vita in potenza»,nel momento in cui essa si rapporta in quanto “sinolo vivente” alleparti del corpo, si rapporta non a tali parti in quanto materia, ma inquanto potenziale organismo vivente (separate dal quale le partimateriali — il dito o l’occhio, secondo gli esempi aristotelici — di-versamente da quanto accade alla scure non sarebbero più le stes-se). L’anima forma un “sinolo vivente” non con gli elementi mate-riali in quanto tali, ma in quanto costituiscono potenzialmente un

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231L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

organismo, in quanto cioè hanno la vita in potenza. La materia del-

l’anima è in certo modo la vita stessa, e così l’anima, nel rapportarsiad altro, si rapporta a se stessa, cioè alla forma come causa dell’uni-tà degli elementi naturali. Cosa che Hegel, commentando il passodel De Anima, spiega così: «la forma, il concetto è qui l’essere stes-so, questa sostanza stessa»; invece, «la scure non ha il principiodella sua forma in se stessa, non si fa tale da se stessa; o la sua for-ma, il suo concetto non è la sua sostanza stessa — essa non è attivamediante se stessa».

Come si è visto, questo non comporta però nella trattazionearistotelica del XII libro una distinzione che separi il destino del vi-vente da quello della sostanza sensibile, eccezion fatta per l’accen-no incidentale al nous. E ciò perché l’anima resta una parte del com-posto vivente, e come tale principio unificante di altro e come altro.Ne viene che essa resta soggetta a movimento almeno nel sensodella generazione e della corruzione, e in generale nel senso chesoggetto a movimento è l’individuo che essa informa. E tuttaviaessa articola dentro sé un’ambivalenza e un passaggio che provoca-no come una necessità la parentesi del capitolo 3° sul nous. Da unaparte infatti l’anima rappresenta in modo insostituibile il concetto disostanza come  physis (principio unificante in quanto via verso sestessa) o come causa formale, cioè come “causa” dell’unità e delladifferenza specifica dell’ente. L’anima infatti è legata con il corpo(esiste metà somatos, De An, I, 1, 403 a 15) non al modo della retta odel cerchio nel bronzo: il suo radicamento sensibile è invece l’orga-nismo come un tutto vitale (come la stessa  physis secondo il suoconcetto). Il radicamento è posto in qualcosa che non è di per séalcuno degli elementi corporei, ma solo il loro stare in un processounitario (questo è un primo senso in cui si può intendere l’espres-sione hegeliana secondo la quale nel secondo tipo di sostanza «lafigura sensibile è solo il mutamento»).

Tuttavia proprio la peculiarità del carattere sensibile del vi-vente chiama in causa la possibilità di un’opera propria (idion

ergon) dell’anima, cioè della esistenza separata dell’anima stessa.

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232 HEGEL E ARISTOTELE

L’unità di anima e corpo implica infatti un’attività dell’anima (un

tipo di anima) in cui il passaggio ad atto non comporti perdita diciò che si era né allontanamento (ekstasis, De An, I, 3, 406 b 13) dallapropria sostanza, non comporti kinesis, ma quiete e stasi (407 a 32-3): una condizione in cui l’anima porti ad atto, eserciti, se stessa.Aristotele apre lo spazio di possibilità concettuale per questa esi-stenza separata quando definisce come “primo” l’atto che è propriodell’anima: «atto poi si dice in due sensi, o come la conoscenza(ejpisthvmh) o come l’esercizio di essa (to; qewrei`n), ed è chiaro chel’anima è atto nel senso in cui lo è la conoscenza. Difatti l’esistenzasia del sonno che della veglia implica quella dell’anima. Ora la ve-glia è analoga all’uso della conoscenza, mentre il sonno al suo pos-sesso (e[cein) e non all’uso (ejnergein), e primo nell’ordine del dive-nire rispetto al medesimo individuo è il possesso della conoscen-za» (De An, II, 1, 412 a 22-27). Si apre in questa definizione la possi-

 bilità che l’anima porti ad atto non altro ma se stessa.Questa implicazione di un’esistenza separata dell’anima, che

comporta senza dubbio un appoggio al De Anima per l’interpreta-zione dell’impianto del XII libro (23), è spiegata da Hegel come un«duplice modo di trattazione» (GPh II , p. 199) dell’anima, che puòessere vista o come «pensiero o concetto materializzato (logoi

enyloi)» (il riferimento è a De An, I, 1, 403 a 25), nel senso dei «modimateriali dello spirituale», o come separata («nella sua libertà», se-condo l’espressione di Hegel che pone dunque in essa l’«esistenzadello spirito»): come  physis o come logos, ovvero, in termini hege-liani, all’interno della natura o dello spirito. Hegel vede dunque inquesta sostanza un tipo di raccordo privilegiato per l’accesso allasostanza immobile: un filo che connette la comprensione dell’entesensibile, della natura, con una realtà posta in Aristotele al di là(parà), ma in certo modo perciò anche, senza ulteriori chiarimenticoncettuali, “accanto” alla physis .

(23

) In proposito cfr. A. FERRARIN,

  Hegel interprete di Aristotele,

ETS,

Pisa1990, p. 40 ss.

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233L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

Come organismo vivente l’anima è infatti quell’organizzazio-

ne unificante degli elementi materiali (quell’“universale”) che esistesempre in altro e che si comporta negativamente verso quest’altro.Non è nel sinolo vivente ed è in lotta con l’individuo sensibile, dalquale si separa per conservarsi nella sua universalità: «nella natura... l’universalità viene a manifestazione solo in questo modo negati-vo, che la soggettività è tolta in essa» (Enz, § 375 Zus). E ciò implicaper Hegel la separabilità dell’anima dal corpo, ossia la morte del-

l’

individuo e la vittoria della specie su di esso. Ma l’

anima è anche«l’universale immaterialità della natura» (Enz, § 389) - cioè la natu-ra come unità, come «via verso se stessa» che non è alcuno deglielementi materiali. Come tale la natura esiste per un verso semprein altro e come altro. Ma nell’anima (razionale) questa relazione asé trova un’esistenza o un’“opera” sua, e può essere riguardatacome il nous passivo, il sonno o il semplice possesso, senza eserci-zio, della conoscenza; quel «nous passivo di Aristotele che, sotto

l’aspetto della possibilità, è tutto» (ibid.). L’anima si porta ad attocome tale, cioè è «l’universale che si espone (darstellt) come univer-sale» (Enz, § 375 Zus), cioè che esiste come pensiero, è inseparabiledalla propria realtà e come tale è immortale.

6. Il percorso hegeliano (che mette in opera il passaggio dalla natu-ra allo spirito) orienta il concetto guida del movimento in una dire-

zione di sviluppo quanto meno sommersa nel testo aristotelico.Aristotele sorvola infatti sull’anima separata e dà un peso rilevanteal movimento eterno delle sostanze incorruttibili sopralunari (24).Attraverso la gerarchia di movimenti e di sostanze ad essi relativi

(24) Cfr. però quanto affermato in GLOY, op. cit., p. 537: “la ... stratificazionedi conoscenza oggettiva, autoconoscenza umana e autoconoscenza divina formal’esatto analogo del sistema ontologico delle sostanze: le sostanze mutevoli

eterorelative,

la sostanza eternamente autoriferita e l’autorelazione trascendenteeterna, che rappresenta in assoluto la sostanzialità”.

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237L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

esso [lo spirito] è ... prima di essa, essa è proceduta da lui, però non

empiricamente, ma in modo tale che lo spirito, che la presuppone asé, è già sempre contenuto in essa» (Enz, § 376 Zus).

Ora, proprio in modo simile a questo muove l’anima. I “vi-venti” e gli “animati” muovono se stessi nel senso peculiare per cuiper esempio muovono dopo essere stati immobili, pur essendo peraltri aspetti mossi da agenti esterni, come per esempio nel caso del-l’alimentazione (cfr. Phys, VIII, 6, 259 b 1 ss.). L’anima resta in essi

causa immobile del movimento,

anche se essi muovono accidental-mente se stessi (qui si cita l’esempio dell’anima che si muove dimovimento locale insieme al corpo, ma con riferimento al De Ani-

ma , possiamo parlare di una passività dell’anima in cui essa dipen-de dal corpo pur restando ad un tempo in relazione a se stessa).Questa mobilità accidentale, peraltro, rende l’anima diversa so-stanzialmente dal primo motore immobile, che deve muovere dimoto continuo, cioè deve sostenere il movimento esclusivamente

da se stesso. Solo ciò che è immobile, cioè del tutto non suscitato daaltro, può muovere in prima istanza: e in proposito, anche nel con-testo di Fisica, VIII, Aristotele cita il nous impassibile e non mesco-lato di Anassagora come una sostanza che muove in questo modo.

Proprio la via cosmologica apre così la strada a un radicalemutamento di prospettiva sul rapporto tra movimento, atto e so-stanza. Cosa che Hegel non manca di enfatizzare, vedendo nelprincipio finale quel movimento (proprio della prova ontologica)

che consiste nel passare dal pensiero all’essere: «il concetto, principium cognoscendi, è anche il movente,  principium essendi; egli[Aristotele] lo enuncia come Dio e ne mostra la relazione alla sin-gola coscienza» (GPh II , p. 162). Quanto poi al fraintendimento delposto del primo cielo, la lettura erasmiana non conduce comunqueHegel a una confusione di primo cielo e primo motore immobile:Hegel chiama il primo cielo l’«eterno visibile» (GPh II , p. 162), cheinsieme con la “ragione pensante” costituisce «i due modi del-l’esposizione dell’assoluto» (GPh II , p. 160), ma lo distingue dal

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238 HEGEL E ARISTOTELE

Sichselbstgleichbleibende, dal principio che «muove e rimane in rela-

zione a sé» (GPh II , p. 161), il quale non è più oggetto di filosofiadella natura, perché ha a che fare con l’essere proprio del pensiero.Anche quando Hegel più avanti (GPh II , p. 167) pone il cielo come«immobile che muove», attribuendo dunque erroneamente al «diovisibile» quanto nel testo aristotelico riguarda invece la sostanzasoprasensibile, considera però caratteristico di questo livello il se-pararsi di movente e mosso e quindi l’entrata in questione di una

causalità efficiente con l’

apparire di un primo ed eterno movimen-to. Peraltro il riconoscimento di una prossimità a proposito del ri-volgimento connesso con il passaggio dalla natura allo spirito nonimpedisce a Hegel, come ricordavamo, di mantenere la consapevo-lezza della propria intromissione interpretativa: «che il pensiero ...sia ... lo diciamo noi».

Già nell’argomentazione aristotelica circa l’immobilità delprimo motore si aprono spunti per articolare il troppo brusco pas-

saggio dal motore immobile al pensiero di pensiero. E qui è diffici-le non ritrovarsi a fare almeno un po’ di strada con Hegel. Il qualesostiene che il muoversi da sé, concetto senza il quale non com-prendiamo neanche gli enti fisici, distingue a partire dall’atto ciòche è determinato come potenza: e ciò significa che mentre si rap-porta alla potenza l’atto si rapporta a se stesso, ovvero è concepibi-le solo come autodeterminarsi. Nel primato dell’atto Hegel ricono-sce la propria filosofia: «il vero essere, degno di questo nome, lo ha

l’entelechia; l’identità è da concepire solo come questa entelechia —è la nostra idea» (GPh II , p. 201). E proprio su questo primato inne-sta la connessione tra il tema del movimento e l’«autodeterminarsidell’idea», che distingue peraltro da una posizione di mero ideali-smo soggettivo: «altra è la cosa», leggiamo infatti a precisazione diquella formula che vale come concetto di autorelazionalità del pen-siero, «in quanto io esisto come singolo soggetto, o l’idea esiste inme come questo singolo individuo; qui c’è finitezza, punto di vistadella passività» (GPh II , p. 206).

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239L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

7. Il punto decisivo è dunque questo: per Hegel l ’atto puro “scevro

di materia” va pensato necessariamente come pensiero di pensiero.Secondo Hegel infatti questa formula esprime il senso fondamenta-le dell’atto che governa anche la concezione dell’ente mosso. Que-st’ultimo non può essere concepito senza l’immobile che muove,nel senso che in esso il permanere dà forma anche al mutare: e ciòsi coglie già nel fatto che nella definizione del movimento è chia-mato in causa il riferimento all’immobilità. L’eternità del movimen-

to suppone sostanze eternamente mosse,

ma queste a loro voltapresuppongono non solo una sostanza eternamente in atto, ma “unprincipio siffatto la cui sostanza sia l’atto” ( Met , XII, 6, 1071 b 20). Aquesto punto — e solo a questo punto — l’atto non è più in relazio-ne ad altro, non pone in opera altro. Ciò porta Aristotele addirittu-ra ad ammettere per un verso una certa plausibilità della tesi (peresempio platonica) della coincidenza tra attività (energeia) eterna emovimento (kinesis) eterno (1071 b 32-33). Ma lo Stagirita rende

evidente per altro verso che chi sostiene questa tesi non può spie-gare in che modo il movimento sia e che cosa sia: non basta infattiaffermare che il principio è “ciò che muove se stesso”, se poi quellache si definisce così, cioè l’anima, è considerata come posteriore almovimento, come mossa.

Occorre invece ripensare il movimento a partire dall’atto, ov-vero pensare l’atto stesso come fondamento della connessione trapotenza e atto che istituisce il movimento. La relazione aristotelica

tra potenza e atto non può essere compresa se non si concepiscel’atto anche in posizione asimmetrica, sicché solo a partire da séesso dischiude la distanza dei due termini. E questo impone unmutamento di prospettiva rispetto alla sostanza sensibile e mossa.Impone di pensare una sostanza in cui l’atto non porti a compi-mento una materia, o, come dice Hegel, non sia «solo attività for-male il cui contenuto giunga da qualche altra parte» (GPh II , p.159). Certo, osserva Hegel, anche qui Aristotele come altrove si li-mita a negare un predicato (il primo motore è “senza materia”), ma

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240 HEGEL E ARISTOTELE

non dice qual è la sua verità; cioè non spiega come nel porre l’atto

quale escludente da sé la relazione ad altro, la negazione trasformaanche il modo in cui l’altro, qui la materia, va pensato (come nelleprove dell’esistenza di Dio che partono dall’essere, e che secondoHegel negano nel punto di arrivo la sussistenza autonoma di ciòche avevano preso come punto d’appoggio iniziale per la prova).La materia, che era il momento dell’essenza immota, è ora momen-to radicalmente subordinato dell’universale, poiché ora «l’essenza

prima assoluta è ciò che rimane sempre uguale a sé in eguale attivi-tà (Wirksamkeit)» (GPh II , p. 160).Hegel sfrutta fino in fondo quello che considera un ribalta-

mento (Umschlag, GPh II , p. 162) necessario, e cioè il punto in cui ciòche è posto a principio della serie delle sostanze determina a partire

da sé la propria posizione di principio che tutto muove. Questo carat-tere relazionale dell’atto determina un tratto essenziale a partire dalquale il movimento è suscitato, e configura l’arché in senso prima-

rio come telos. Un principio “cinetico e poietico” non può essere inultima istanza se non una sostanza la quale già sempre sia. Ma unatale sostanza rimane d’altra parte una “vuota astrazione” (e qui, se-condo Hegel, il punto di essenziale divergenza da Platone) «se nonè presente in essa un principio capace di muovere (dunamevnh ajrch;

metabavllein)» (1071 b 15-16). Qui sembra effettivamente leggibilein Aristotele una partenza “dialettica” dall’assunzione di una poten-za dentro l’atto stesso, ovvero da una posizione di automovimento

che è «di grandissima importanza» (1071 b 37) distinguere nel suocarattere di principio (se sia “natura”, “forza”, “intelletto” o altro), se-condo l’espressione usata in questo contesto da Aristotele. Occorreinfatti pensare un atto che impianti una relazione senza muoversi.

Hegel traduce questa capacità di muovere in un “muoversi(Sichbewegen)” , così come subito dopo traduce energeia con Bewe-

 gung (GPh II , p. 159) (29), mentre poco prima ha spiegato l’atto puro

(29) Cfr. FERRARIN, op. cit., p. 43.

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241L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

con queste parole: «è la sostanza che nella sua possibilità ha anche

la realtà, la cui essenza (potentia) è essa stessa atto, dove l’uno e l’al-tro non sono separati; in essa la possibilità non è differente dallaforma, è questa che produce il suo contenuto, le sue determinazio-ni stesse, se stessa». Una tale interpretazione appare subito avvi-luppata in fraintendimenti decisivi: a) il primo motore immobile èdefinito come unità di potenza e atto; b) l’atto puro è pensato comemovimento che ha come materia la propria essenza. Tuttavia Hegel

intende in questo contesto la potenza come il modo di essere dellarelazione ad altro tale da restare dentro l’atto stesso quale suo tratto“essenziale”. L’atto è, in quanto tale,  possibilità di differenza, ossia ladifferenza è un modo d’essere che va ricondotto all’atto e a quellasostanza che coincide con l’atto. In questo modo non viene persa divista la prospettiva dell’immobilità e dell’indivisibilità dell’atto.L’atto non viene ricondotto al movimento: non l’essenza dell’atto èmovimento, ma l’essenza del movimento è atto, e solo a partire da

questo i termini si possono convertire.Il punto di approdo dell’immobilità dell’atto è il passaggioobbligato per quello che nell’interpretazione di Hegel si presentacome Umschlag. Il motore immobile e senza materia non può esserepensato come distinto da altro. Lo possiamo pensare distinto sol-tanto in base a sé. Così Hegel interpreta la definizione aristotelicache sembra per un verso collocare il primo motore semplicementeaccanto a quelle sostanze la cui essenza è solo potenza rispetto al

qualcosa realizzato. E poiché il primo motore è distinto (altro) solorispetto a se stesso esso resta dunque indivisibile, uguale a se stes-so. Solo in questo senso l’essenza dell’atto è espressa da Hegelcome movimento, intendendo l’essenza del movimento come il di-venire sé. Ciò che Hegel intende fissare «con determinazioni mo-derne» (GPh II , p. 161) è un’immobilità non confondibile conl’immota natura criticata nelle idee platoniche. In questa distinzio-ne all’atto puro viene attribuito un senso speciale del concetto dimovimento, quello proprio del pensiero, che diviene condizione di

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242 HEGEL E ARISTOTELE

possibilità per ogni forma di movimento, sempre implicante un

mantenimento in relazione di potenza e atto (una “salvezza” deldynamei on), e dunque un modo d’essere che è proprio del pensiero.Il concetto di movimento che racchiude in sé ogni possibilità dimovimento è insomma quello per cui l’atto non si indirizza ad altroda sé, non muove verso altro ma verso se stesso. In questo modoprincipio del movimento è un qualcosa che «resta sempre» e «agi-sce sempre allo stesso modo» (1072 a 10), non venendo coinvolto in

un movimento verso altro.Come è concepibile una siffatta ousia ? Hegel la identifica sindall’inizio con lo spirito, poiché proprio «presso lo spirito l’energia(Energie) è la sostanza stessa» (GPh II , p. 159). Quest’identificazioneresta di marca hegeliana. Ma è pur vero che in Aristotele sono chia-mati in causa a questo punto nous e orexis, cioè proprio quei princi-pi che erano stati indicati nel capitolo 5° in contrapposizione alsoma . Qual è una sostanza che muove restando immobile? Essa è il

termine ultimo del desiderio e del pensiero (rispettivamentel’orektón e il noetón), il fine verso cui desiderio e pensiero si muovo-no. Ciò di cui hanno bisogno e a partire da cui riprendono se stessi.Nel confronto con questa insistenza aristotelica sull’intelligibilecome oggetto dell’attività del pensiero va cercato il punto d’innestodello sforzo hegeliano più potente per strappare il termine ultimodella teoria della sostanza alla posizione irrelativa nella quale sem-

 bra collocato dallo Stagirita all’inizio della costruzione decisiva del

capitolo 7°. Aristotele ha certo concepito il pensiero come un ogget-to accanto ad altri, una specie di “stato”: ma è lo sviluppo stessodato ai suoi concetti a toglierlo da un’arida identità. «Se Aristoteleavesse posto a principio la futile identità dell’intelletto o l’esperien-za ... non sarebbe mai giunto a tale idea speculativa (nous e noetón)»(GPh II , p. 164): «il momento più alto», dal quale va ricompreso tutto il

cammino è invece il pensiero di pensiero, ovvero «che il pensiero eil pensato sono uno» (GPh II , pp. 162-3). La differenza tra le due fi-losofie è dovuta alle implicazioni, dirompenti sotto il profilo siste-

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244 HEGEL E ARISTOTELE

discussione, «altrimenti», spiega Hegel, il principio «sarebbe posto

semplicemente mediante l’attività» — ovviamente separata da ciòin cui essa si realizza —; «mentre esso è piuttosto autosufficiente eil nostro desiderio viene svegliato solo da lui» (GPh II , p.161). Nonè tanto dunque che il principio di una produttività del pensierovenga opposto frontalmente a un punto di vista che parte invecedal primato dell’intelligibile più eccellente (30). La via è più lunga:il «principio vero è il pensare», continua Hegel traducendo il rigo

1072 a 30;

«infatti il pensiero è mosso solo dal pensato».In altri termini: l’immobile che muove è il pensato, cioè l’og-getto del pensiero; ma qui ci troviamo di fronte a un movimentodel tutto speciale, causato “solo” dal pensato — l’avverbio è signifi-cativamente aggiunto da Hegel; in un tale movimento (che il prin-cipio sostiene hos eromenon, quale oggetto d’amore (1072 b 3), in talmodo essendo fonte di ogni movimento) (31) il passaggio dalla po-tenza all’atto è configurabile come passaggio dal “possesso” al-

l’esercizio, e così in un certo modo dall’atto all’atto: un tale passag-gio non solo termina nell’atto, ma è radicato sin da principio inesso. È un passaggio in cui l’intelletto rimane presso se stesso nellamisura in cui nel suo termine di attuazione si genera e si conservacome esercizio: l’intelletto è infatti identico con l’intelligibile «in-tuendo e pensando» (1072 b 21), cosicché il suo atto è la noesis (cfr.

 Met, IX, 9, 1051 a 30-31); è cioè una praxis cui inerisce il fine, per cui

(30) Cfr. la tesi di K. DÜSING, Hegel und die Geschichte der Philosophie , Wiss.Buchgesellschaft, Darmstadt 1983, p. 128. Sul tema vedi anche H.-G. GADAMER,

Hegel und die antike Dialektik, in ID., Gesammelte Werke, Mohr (Siebeck), 3, Tübingen1987, pp. 22 ss. Cfr. comunque quanto Gadamer dice in ARISTOTELE , Metafisica LibroXII, Introduzione e commento di H.G. Gadamer , a cura di C. Angelino, Il Melangolo,Genova 1995, pp. 69-70.

(31) Il passo non è tradotto da Hegel, che sembra dunque non dare ad essosufficiente rilievo, inquadrandolo probabilmente nell’ambito del rapporto tra l’as-soluto e la coscienza singola. Sulla tensione tra questo passo e il punto di riferi-

mento razionale per la descrizione del modo di muovere del primo motore cfr. R.BRAGUE, Aristote et la question du monde, PUF, Paris1988, pp. 433 ss.

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245L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

in questo caso ciò che per un verso è movimento risulta per altro

verso immobilità (o risulta, potremmo anche dire, quell’atto perfet-to in base al quale si può pensare l’‘imperfezione’ del movimento),e il pensare è insieme (hama) aver pensato (IX, 6, 1048 b 18 ss.).

Quello che pensiamo come principio intelligibile del sensibiledobbiamo concepirlo come ciò in cui il pensiero è . Quest’itinerario(che per Hegel, come sappiamo, comprende la prova cosmologica— quale passaggio dall’essere al pensiero — e quella ontologica —

quale passaggio,

fondante il precedente,

dal pensiero all’

essere —)costituisce una esplicazione aggiunta, come egli stesso ammette, daHegel. Essa non opera tuttavia come mera inversione di gerarchia.Anche quando parla di pensiero che “produce” il pensato, Hegeltiene presente l’intelletto “poietico” del De Anima e il suo modo diagire. Se il “vero principio” fosse “posto” dall’attività (al modo diun idealismo soggettivo) noi avremmo sottomesso il principio fina-le a quello efficiente compromettendo in radice la possibilità di

comprendere il nucleo più speculativo del pensiero aristotelico. Èl’intelligibile, invece, l’“immobile che muove”. La sequenza dell’ar-gomentazione hegeliana è in questi termini: «l’ousia di questo pen-siero è il pensare; questo pensato è dunque la causa assoluta, essastessa immobile, ma identica con il pensiero che è mosso da esso»(GPh II , p. 161).

«L’oggetto si ribalta in attività, energeia (Energie)» (GPh II , p.162): è questo il punto di svolta indicato da Hegel per spiegare il

passaggio dall’intelligibile più eccellente al pensiero di pensiero, aDio e al «suo rapporto con la coscienza singola». L’intelligibile piùeccellente è il supremo principio che sostiene cielo e natura, ed è ilriferimento divino dell’intelligenza. Ma, appunto, questo divinodell’intelligenza non può essere pensato come quello in cui terminaaltro. Anzi, in quanto altro l’intelletto (umano) è mosso esso stessoda ciò che resta oggetto d’amore (e Hegel descrive così la condizio-ne della finitezza della coscienza). Ma in relazione al principio siimpone un ribaltamento necessario a partire dal fatto che in esso

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246 HEGEL E ARISTOTELE

l’intelligenza diviene ciò che è. E questo è concepibile esclusiva-

mente se l’intelligibile non è soltanto il punto d’arrivo dell’intelli-genza, ma è già eternamente in questa condizione, ossia è l’atto dipensiero, che, in termini hegeliani, mentre muove la coscienza ver-so sé resta identico a sé. Nel ribaltamento risulta delimitata anchela coscienza singola: ciò che è posto a partire dallo stato in cui noisiamo talvolta (1072 b 15 e 25) fonda a partire da sé la condizionedel pensare, in un modo per il quale risulta determinante il concet-

to di fine: come pensato l’

intelligibile è“

prodotto”

dal pensare nonin quanto questo giunga occasionalmente all’atto, ma in quanto ègià sempre quest’atto; o, in altri termini: poiché qui abbiamo comepensato l’immobile, non riconducibile ad altro, esso è identico conl’attività del pensiero.

8. Hegel appoggia la sua interpretazione anche alle argomentazioniche introducono la formula noeseos noesis nel capitolo 9°, là dove il

primo motore è assunto sin dall’inizio come nous, che non può pen-sare qualcosa di superiore a sé, se la sua sostanza è la noesis, madeve essere in atto, altrimenti il più eccellente sarebbe il “pensato(Gedachte, nooumenon)” e non il pensare, che dal valore di quello di-penderebbe, poiché il pensare appartiene anche a chi ha come og-getto la cosa più indegna. Qui troviamo anche l’espressione conclu-siva del «momento fondamentale della filosofia aristotelica», quan-do Aristotele, dando un’implicita soluzione all’atopon del pensiero

di Dio prospettato nei  Magna Moralia, ricorda che «la scienza è lacosa stessa» quando, per le cose che appunto non hanno materia,

pensiero e pensato non sono diversi, ovvero il pensare è una cosasola (mia) col pensato (1075 a 2 ss.).

Inoltre, come è stato notato (32) Hegel sfrutta anche il riferi-mento ai capitoli 4 e 5 di De Anima , III, per introdurre una distin-zione tra intelletto potenziale e intelletto attivo anche in riferimen-

(32) Cfr. K. DÜSING, op. cit., p. 126.

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247L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

to al pensiero di pensiero, e tracciare una definizione per molti ver-

si dirompente, secondo la quale nel pensiero divino vi sono anchedifferenza, repulsione, movimento, e in esso “possibilità e realtàsono identici” (GPh II , p. 164). Nel testo hegeliano, ben calibratonell’ordine gerarchico che istituisce tra potenza e atto, leggiamo: «ilnous è anche dynamis, ma non è la possibilità il più universale — econ ciò il più elevato —, bensì la singolarità e l’attività ... Il nous

come passivo non è altro che l’in-sé, l’idea assoluta in quanto consi-

derata in sé,

il Padre;

ma solo in quanto attivo esso viene posto. Etuttavia questo primo, immobile, quale distinto dall’attività, qualepassivo, è in quanto assoluto l’attività stessa».

In nessuno di questi riferimenti Hegel salta però il passaggioattraverso l’immobilità e attraverso il primato dell’atto come telos

che sostiene il movimento restando identico. Anche in quest’ultimopasso, che accenna all’introduzione di una relazione ‘trinitaria’ oprocessuale dentro il pensiero di pensiero, l’argomento portante è

quello di un ribaltamento necessario nella concezione del principiomotore a partire dall’atto che in esso precede la distinzione tra in-telletto e intelligibile. L’intelletto passivo resta istituito dall’identitàvivente del divino che sostiene anche la diversità legata al movi-mento: tolto in Dio, l’intelletto passivo «è la natura, ma è anche ilnous in sé che nell’anima percepisce e forma rappresentazioni»(GPh II , p. 216). Esso è la natura e lo spirito finito. Immaterialitàdella  physis e autorelazione (immobilità) dell’anima come forma,

specialmente negli atti conoscitivi propriamente umani pur spazio-temporalmente condizionati, sono modi di anticipazione del divi-no i quali risultano tuttavia fondati proprio dal telos in vista di cuisi definiscono. In particolare il pensiero umano, anche se sotto ilprofilo “naturale”, insieme con le altre facoltà, «ha bisogno di mu-tamento», cioè presuppone la materia da cui astrae, tuttavia è d’al-tra parte esso stesso materia a sé, e, in base a questo, come si è vi-sto, passando ad atto “esercita” (energei) quanto già “possiede”

(echei), ossia resta “in quiete” perché non diviene altro ma anzi “sal-

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248 HEGEL E ARISTOTELE

va” il dynamei on. In questo atto il pensiero ha un piacere che corri-

sponde alla compiutezza di ciò che è semplice e niente esclude dasé: si tratta proprio di quella energeia akinesias (33) che Aristotelecontrappone all’atto che è proprio del movimento (cioè a quell’attoche dà un termine e dà termine al movimento stesso). L’energeia

akinesias è eternamente propria di Dio insieme al piacere costante eperfetto: e all’uomo appartiene in quanto “vi è qualcosa di divinoin lui” (EN , X, 7, 1177 b 28) (34) che è differente dalla sua natura in

quanto composta.L’immobilità del primo motore quale Endzweck ,  quale princi-pio finale, resta anche per Hegel un nodo inaggirabile per il pas-saggio al pensiero di pensiero. Il primo motore non può esserecoinvolto nel movimento. Ciò significa: esso non rimanda ad altroma mette tutto in relazione a sé. Non muove dunque solo come ciòa partire da cui è il movimento, ma anche come ciò verso cui esso è.Quel che resterebbe altrimenti non comprensibile in base all’essen-

te, il movimento eterno che coinvolge anche il motore sensibile enon ammette un “prima”; quel che resterebbe altrimenti parados-salmente una kinesis parà ta pragmata (Phys, III, 1, 200 b 32-3), vienein tal modo riportato alla sostanza e sostenuto da essa. Il movimen-to non è né la potenza né l’atto, ma una certa connessione, la rela-zione di questi due modi d’essere, definita da Aristotele come “attoimperfetto” (Phys, III, 2, 201 b 27 ss.). Questo atto ha carattere d’es-sere solo se è relazione a un termine in cui si conserva come tale. Il

principio che sostiene il movimento lo indirizza verso sé: esso nonentra ‘in relazione’ ad altro ma sostiene la relazione; riferisce cioè larelazione all’essere e con ciò a se stessa (la conserva). Così muovein ultima istanza l’intelligibile: muove non entrando nella relazione

(33) ARISTOTELE, Ethica Nicomachea (= EN) , VII, 14, 1154 b 27. Sul tema diuna prassi autotelica che come tale non implica movimento pur essendo attivitàcfr. anche ARISTOTELE, Politica, VII, 1, 1323 b 23 ss. e 3, 1325 b 28 ss.

(34) Hegel traduce hedoné con Genuß .

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249L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

ma riportando questa a sé. L’immobilità ha così una precisa connes-

sione con l’essenza del movimento, che si conserva, in ultima istan-za, solo se si indirizza verso ciò a partire da cui già sempre è.

Il principio finale, così pensato, impone il riferimento a unasostanza d’ordine intelligibile, l’unica in grado di “salvare” il movi-mento: solo una tale sostanza, infatti, muove senza essere soggettaa movimento. Ma una tale sostanza è di per sé fondamentalmentecausa di un muoversi verso sé (il muoversi proprio del nous), e solo

sul fondamento di questo movimento è causa di un muoversi ver-so altro. Il primo tipo di movimento è appunto un diventare ciò chesi è, l’ergon proprio dell’anima, il modo in cui si muove il nous. Inquesto movimento il “possesso” o l’episteme precede l’“esercizio” oil theorein solo «nell’ordine del divenire rispetto al medesimo indi-viduo (th/  ` genevsei ejpi; tou` aujtou)» (De An, II, 1, 412 a 26). Ma dalpunto di vista del logos e dell’ousia ciò che precede è l’identità del-l’intelligenza e dell’intelligibile. Questa è più eccellente della loro

separazione. Riassumendo l’intera argomentazione: il movimentoimplica l’ammissione di un motore immobile; ma questo muovecome l’intelligibile muove l’intelligenza; questo movimento, d’altraparte, come un divenire ciò che si è (che significa un dipendere del-l’andare verso altro dall’andare verso sé) postula un altro che giàsempre è nella condizione in cui il pensiero arriva ad essere,

postula il restare racchiuso del movimento entro l’immobilità,postula dal lato dell’intelligibile l’unità propria del theorein.

In conclusione, prendiamo in esame alla luce di questo per-corso argomentativo l’“errore” più significativo dell’interpretazionehegeliana del capitolo 7° e di tutto il libro. Il passo alterato in mododecisivo è il 1072 b 22-3: «l’intelligenza è, infatti, ciò che è capace dicogliere l’intelligibile e la sostanza, ed è in atto quando li possiede(ejnergei` de; e[cwn). Pertanto, più ancora che quella capacità, è que-sto possesso (w{st jejkeivnou mallon touto) ciò che di divino ha l’intel-ligenza» (tr. Reale). Hegel (sulla base dell’edizione erasmiana, cheaveva: ejkei`no mallon touvtou) traduce in un modo che sembra ‘favo-

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251L. SAMONÀ - Atto puro e pensiero di pensiero nell ’ interpretazione di Hegel

gio dal primo motore immobile al pensiero di pensiero e rende ne-

cessaria questa connotazione del primo e del divino. Ciò non vuoldire che una tale interpretazione chiuda in modo perfetto il cerchiodella costituzione ‘ontoteologica’ della metafisica. Dentro questocerchio resta aperta una tensione che mette in campo nuovi motividi differenza. Da una parte Hegel sembra trascurare l’aspetto ‘aper-to’ e ‘metaforico’ dello hos eromenon, un passo sul quale, come si èdetto, non si sofferma. In realtà si potrebbe invece vedere nellacausalità del primo motore una sorta di metaforicità irriducibile,perché esso resta sempre altro da ciò che si muove verso di lui elascia così ogni ‘possesso’ intrinsecamente povero del termine concui entra in relazione tendendo all’unità e all’identificazione conesso. Da questo punto di vista il pensiero umano resta nella stessacondizione della physis, rientra nonostante tutto in essa (35).

Di contro Hegel vede nel Dio aristotelico quell’indistinta con-nessione tra spirito soggettivo e spirito assoluto che impedisce

un’articolazione della sua differenza dall’esistenza particolare e lofa apparire come “un particolare al suo posto accanto agli altri”,piante, animali, uomini (GPh II , p. 151). Un troppo immediato stareoltre le cose si traduce in un restare accanto ad esse. La posizionedel Dio aristotelico rischia di rimanere unilaterale se lasciata allalettera della sua estraneità alla natura degli enti mossi. La ricchezzache la teoria del pensiero di pensiero racchiude in sé raccoglie inunità tutto il cammino della storia della filosofia. Ma nel testo

aristotelico i due momenti della verità dello spirito che il pensierodi pensiero rappresenta, «l’immediato esser per sé della soggettivi-

(35) Aristotele in GC definisce il fine come poietico solo katà metaphorán(loc. cit.), argomentando con il fatto che il qualcosa si muove quando non sonopresenti la forma e il fine, le hexeis che lo caratterizzano, mentre nel caso in cuiesse sono presenti, il qualcosa già è. Nel fine ultimo delle cose, sempre altro dal-le cose stesse, presenza costante e alterità devono convivere aporeticamente,

perché esso, proprio nel riservare a sé il carattere di movente in senso radicale,

custodisce una differenza irriducibile rispetto ad ogni poietico presente di voltain volta tra le cose.

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252 HEGEL E ARISTOTELE

tà» e l’«universalità», non trovano una connessione testuale ben

sviluppata, e ciò che sta assolutamente per sé è la libera soggettivi-tà del pensiero non riconciliata col sostanziale. Hegel vede perciòparadossalmente nel pensiero di pensiero ancora soltanto la formadello spirito soggettivo che si trae fuori dall’esistenza naturale manon ha ancora l’apertura ‘comunitaria’ propria dello spirito assolu-to, la cui prima manifestazione, nel nuovo Evo, è la religione cri-stiana: «la forma nella sua infinita verità, la soggettività dello spirito,

irruppe per la prima volta soltanto come pensiero libero soggettivo,

che non era ancora concepito come identico con la sostanzialità stes-sa, né questa era concepita dunque ancora come spirito assoluto»(Enz § 552 A). Proprio l’interpretazione hegeliana, che tesse unaconnessione stretta tra primo motore immobile e pensiero di pen-siero, dischiude con questa tessitura lo spazio per una discussionepiù complessa sul significato e sulla tenuta complessiva del proget-to ontoteologico della metafisica.

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(1) Questo è il testo, riveduto e corretto, della relazione tenuta al convegno“Hegel interprete di Aristotele”, che si è svolto a Cagliari dall’11 al 15 aprile 1994.Esso espone conclusioni provvisorie di un lavoro ancora ampiamente in fieri, e ri-prende alcune parti di saggi già apparsi o in via di pubblicazione, ed in particolare:Kant’ s Productive Imagination and its Alleged Antecedents , in The Graduate FacultyPhilosophy Journal, 18:1, 1995, pp. 65-92; Kant’ s Productive Imagination in Its HistoricalContext, in Proceedings of the 8th International Kant Congress, ed. by H. Robinson, vol. II, Part. 1, Marquette University Press, Milwaukee, pp. 119-25;  MathematicalSynthesis , Intuition and Productive Imagination in Kant, in The sovereignty of Costruction.Essays in Memory of David R. Lachterman, ed. by P. Kerszberg and D. Conway,Rodopi, Amsterdam 1996;  Costruction and Mathematical Schematism. Kant on theExhibition of a Concept in Intuition, in Kant-Studien 86/2, 1995, pp. 131-74; Schematismo

e costruzione. Il rapporto tra la matematica e la rappresentazione a priori dei concetti nellasensibilità in Kant, in Rivista di Estetica, Nuova Serie, Ottobre 1996. Rimando a que-

ALFREDO FERRARIN

RIPRODUZIONE DI FORME E ESIBIZIONE DI

CONCETTI. IMMAGINAZIONE E PENSIERODALLA PHANTASIA ARISTOTELICA ALLA

EINBILDUNGSKRAFT  IN KANT E HEGEL (1)

SOMMARIO: 1. Premessa — 2. Luce e visibilità. Aristotele e Kant — 3. L ’uno deimolti e l’uno oltre i molti. Idealizzazione e manifestazione in Hegel — 4.Conclusione.

1. Premessa — Parlerò della diversa funzione mediatrice svolta dal-l’immaginazione tra senso e intelletto in tre figure che ho scelto comemodelli teorici di riferimento: Aristotele, Kant e Hegel. Perché nonvi sembri si tratti tutto sommato di un problema marginale, o alme-no marginale nel rapporto tra Aristotele e Hegel, illustrerò subito

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254 HEGEL E ARISTOTELE

ambito teorico e presupposti metafisici che sottendono alla questio-

ne dell’immaginazione e ne spiegano l’importanza. Qualunque filo-sofia che prenda le mosse da una preliminare scissione tra empiricoe intellettuale non si condanna soltanto a trascurare il ricco mondodella rappresentazione e a non poter rendere conto della mediazio-ne tra intenzione e azione, o tra norma, progetto e realizzazionepoietica. Rimane, soprattutto, con un inspiegabile iato tra dati di sensoe conoscenza discorsivo-verbale, per riempire il quale è ozioso e cir-

colare il consueto rimando all’extraterritorialità di una dimensionepresuntamente psicologica, e quindi in linea di principio sottratta a

verifiche epistemiche o a pretese di validità oggettiva. In particolarela tesi della proposizionalità del sapere, il progetto ambizioso dellariduzione del significato a pratiche linguistiche o a dottrine seman-tiche in grado di certificarne la genesi e la validità, si è sempre accanita— da Wittgenstein al ghost in the machine di Ryle fino alla mente cometeatro di immagini in Rorty — contro la rappresentazione. Questa

tendenza, che giunge a massima chiarezza in certa parte della filoso-fia analitica, non è una novità di questo secolo. A livello di, vorreidire, tentazione di totalizzazione dianoetica, la ritroviamo già in moltefigure centrali della nostra tradizione quali Cartesio, Leibniz, Kant,Hegel, per non dire di Platone ed Aristotele.

Ma in tutti questi autori (lasciando impregiudicato anzituttose e fino a che punto essi condividessero la tesi aristotelica per cuinon si pensa se non in immagini (2), e in secondo luogo se la inter-

sti saggi anche per una discussione della letteratura secondaria su intuizione e co-struzione in Kant, e, ulteriormente, sull’immaginazione. Per una bibliografia su Hegele Aristotele rimando al mio volume (Hegel interprete di Aristotele, ETS, Pisa 1990, pp.233-47), per la cui maggior completezza desidero qui segnalare i seguenti titoli: K.BRINKMANN, Aristoteles’ allgemeine und spezielle Metaphysik, De Gruyter, Berlin 1982;G. MOVIA, Essere Nulla Divenire. Sulle prime categorie della Logica di Hegel, in Rivistadi Filosofia neoscolastica, LXXVIII, 1986, 4, pp. 513-44, e LXXIX, 1987, 1, pp. 3-32; V.VERRA, Hegel e la lettura logico-speculativa della Metafisica di Aristotele , in Rivista diFilosofia neoscolastica, 2-4, LXXXV, 1993, pp. 605-21.

(2) Cfr. De an. G 7, 431 a 16-17; 431 b 2-5; 8, 432 a 7-9; De Mem. 1, 450 a 1-9.

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255A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

pretassero attribuendo ad Aristotele l’intenzione di subordinare il

pensiero all’immaginazione, come nella lettura odierna più corren-te), c’era una chiara consapevolezza di un problema fondamentale.Quello dell’apprensione di un dato in un’immagine da un lato, e dellaraffigurazione o dell’esibizione di un concetto in un medio sensibiledall’altro. Risposte e soluzioni variavano ovviamente a seconda deidiversi presupposti, scopi o anche solo contestualizzazioni. Ma ilproblema di elementi né solo intellettuali né solo empirici, o meglio,

sia empirici che intellettuali,

non veniva accantonato ab initio ,

 magiustificava la duplice funzione dell’immaginazione e della rappre-sentazione: portare la presenza al pensiero e il pensiero all’essere.Ciò è implicito nella stessa etimologia di rap-presentazione (o Vor-stellung): porre innanzi, dare presenza. Formare, e poter riprodurrearbitrariamente, raffigurazioni di cose, di stati di fatto — o di finzio-ni. Quindi, anche, dare significato ed esistenza discreta a quello chealtrimenti sarebbe un continuum indifferenziato. In questo senso, nel

rilevare l’importanza degli elementi intuitivi dell’esperienza, appa-re chiaro che si accorda un certo privilegio alla vista sugli altri sensi.Con ciò non si esclude il contributo degli altri sensi; solo che lo silimita al ruolo di (ri-)produzione di un evento, o di causa occasiona-le. Pensate ai sensi altri dalla vista in Proust: il gusto del té di tiglio edella madeleine, la sensazione dell’irregolarità e della scanalatura delpavé, o, a un livello più complesso, il gesto di sfilarsi gli stivaletti ele intermittenze del cuore che sgorgano improvvise al primo vero

imporsi della morte della nonna, sono percezioni puntuali di un vis-suto che ne richiamano e aprono un altro più pregnante, e fannosorgere un mondo di immagini mnestiche che si pensava dimentica-to, in cui le cose appaiono alla luce improvvisa di un orizzonte disenso nuovo, o inusitato, o apparentemente perduto.

È grazie al problema visivo, ma più in generale iconico, dellaraffigurazione più o meno corretta di un originale — mentale o realeche sia — che la questione dell’immaginazione vede profilarsi, ac-canto a quella che prima ho chiamato la duplice funzione dell’im-

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256 HEGEL E ARISTOTELE

maginazione, il problema della duplice accezione dell’immagine. La

genesi del problema in questi termini si può rilevare anche storica-mente. Se per Platone il problema dell’immagine si poneva al livellodel rapporto tra originale e copia (icona o fantasma), e però con ciòsi pregiudicava già l’immagine facendone un puro sostituto, dotatoquindi di uno status ontologico inferiore, Aristotele sposta il proble-ma sulla doppia natura di Corisco. Se contempliamo un’immaginedi Corisco, ad esempio in un quadro, possiamo considerarla sempli-

cemente come immagine,ovvero come copia

,cioè come immagine diCorisco. La copia sta per Corisco; eppure, anche l’immagine sta per

qualcosa.I problemi teorici allora sono molti: il primo è quello della dif-

ferenza tra immagine e copia, e, conseguentemente, della definizio-ne del rapporto tra immagine ed originale, a proposito del quale inparticolare ci si deve chiedere dove risieda quest’ultimo, posto chenon sia più un’ijdeva  platonica. A differenza del concetto discorsivo,

per l’immagine si pone poi il problema della somiglianza con ciò percui sta, con ciò che rappresenta. A differenza dei concetti, le immagi-ni, se forse hanno una logica interna, non ne hanno una sincategore-matica o relazionale che ne consenta oppure ne preordini il collega-mento, e non contengono negazione. Sono per essenza prospettiche,sono in tutto e per tutto spazialità, anche se si può ulteriormentedistinguere tra spazialità vissuta e proiezione o costruzione geome-trica in una forma pura, vuota ed omogenea. L’immagine è il modo

in cui la cosa è dapprima, o immediatamente, per noi. È il primovero ponte tra discorsivo e sensibile, tra linguaggio ed esperienza,tra predicativo e precategoriale.

Se allora con la svolta aristotelica si imprime un’accelerazioneche la storia del concetto di immaginazione rivela netta edirreversibile sulla via di una “soggettivizzazione” della natura e delproblema dell’immaginazione, ciò non ci deve far dimenticare che ladistinzione va di pari passo con — per non dire che è guadagnata alprezzo di — una duplice scissione, l’eredità più gravosa lasciata da

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257A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

Aristotele alla posterità: la divisione nell’oujsiva tra forma e materia, ein noi tra nou~ e sensazione. E non ci deve far dimenticare neppureche Aristotele non è Leibniz, non è Kant, e soprattutto — poiché diquesto qui si tratta — non è Hegel.

Presenterò tre modelli, più che un decorso storico, dicevo. Conquesto la mia intenzione non è di integrare con nuove acquisizioni oulteriori dati il secondo capitolo del mio libro (che mi permetto quidi presupporre come a voi noto solo perché il professor Movia, che

ringrazio per la sua considerazione,lo ha adottato e discusso nel suocorso). Vorrei piuttosto che questa relazione servisse a presentare un

modesto contributo, per citare qualcuno di più autorevole di me,alla critica di me stesso. Trovo insoddisfacente l’impianto di quelcapitolo, e ritengo necessario rimetterlo in discussione, per via diperplessità di ordine metodologico prima ancora che ermeneutico.Il fatto è che è scritto nel solco di una lettura già tutta hegeliana dellastoria della filosofia. In realtà la tradizione è sì, hegelianamente, un

fiume impetuoso; ma conosce anche anse, secche, dighe che ne ral-lentano il corso, cascate che lo accelerano. Improvvisamente, e, quelche più conta, imprevedibilmente. Questo non equivale a negare chela ragione sia una. Anzi, vuole essere un rilievo che ne sottolinei laricchezza e la multiformità, ma anche un più stretto legame con l’in-dividualità storica.

Spesso alcune nozioni tramandate accanto ad altre, che ven-gono insegnate e assimilate ormai soltanto stancamente come gusci

vuoti di pensieri un tempo vivi, sopravvivono allo stato latente nel-la storia della filosofia. Sono come braci sepolte sotto una cenere checopre uniformemente tanto ciò che finisce per estinguersi, quantociò che semplicemente ristagna; agitate in una massa critica, essetornano a brillare di un nitore e con una forza che quasi mai sonoquelli della loro origine. Così può accadere che alcuni concetti ven-gano appropriati, o, viceversa, formulati, da discipline che ne fannoun vettore di ricerca e lo ripropongono profondamente trasformato,

una volta che lo hanno sfruttato con successo, a contesti e in sedi di

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258 HEGEL E ARISTOTELE

discussione diversi. E ad autori che liberamente ne traggono quanto

vi cercavano, ma assimilandoli all’interno delle coordinate del pro-prio pensiero, in un ambito eterogeneo rispetto a quello in cui eranostati originariamente concepiti. Perché tutto questo vi suoni menogenerico, riguardo a quel che ho detto sui gusci vuoti pensate adesempio alle rivoluzionarie Regulae di Descartes, pur imbevute,  pri-ma facie , di terminologia e ordíto scolastico-aristotelici; per il muta-mento di significato di concetti ripresi da altri ambiti, pensate ad

esempio alla secolarizzazione di concetti teologici nella filosofia del-la storia e della politica; o, viceversa, all’appropriazione da parte dellafilosofia moderna del concetto di funzione elaborato dall’algebra fraCinque e Seicento.

Da tutto questo sarebbe altrettanto inopportuno concludere chei filosofi non fanno che ripetere alcuni principi dati, quanto che leidee sono, al più, opinioni maggiormente fondate di altre. È vero ilcontrario: le idee importanti vivono un’esistenza virtuale, e sono

continuamente ripensate dai grandi filosofi. Esse costituiscono l’au-tentico senso in cui si possa parlare di un’unità della storia della filo-sofia: un nucleo problematico che rimane inesauribile e intatto difronte alle soluzioni via via prospettate. Ma se non per questo si devepensare ad un avvicinamento asintotico alle idee, né ad una cattivainfinità — ché i grandi filosofi sono presso di esse —, tantomenodeve valere una proiezione su un piano temporale di questo suppo-sto avvicinamento. Anzi, quel che si deve porre in discussione è pro-

prio l’idea di evoluzione, l’imperativo inespresso di intendere neces-sariamente i mutamenti concettuali come tappe di un presunto pro-gresso, o di un regresso altrettanto presunto. Improvvise accelera-zioni, o ritorni a pensieri dimenticati, sono soluzioni di continuità,scarti irreversibili, non accidenti o momenti di un cammino sostan-zialmente uniforme. Se gli elementi di cesura rispetto alla tradizionevanno quindi riconosciuti e apprezzati come tali, e se dobbiamo guar-darci dal ritrovare ovunque derivazioni da ceppi dati o prosecuzionidel noto, va anche sottolineato che quel che appare come una ripeti-

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259A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

zione è spesso un travestimento di svolte concettuali in un linguag-

gio tradizionale. Il nuovo si affaccia e si afferma dapprima nei pannidel vecchio.

Il recupero hegeliano della tradizione aristotelica e più in ge-nerale della metafisica classica dopo la rivoluzione della modernità:dopo, cioè, la riduzione del sapere ad un unico ambito, la legalità —del mondo prima, e della ragione poi —, pone in tutta la suapregnanza questo problema del significato immanente alla rivitaliz-

zazione di un pensiero in un ambito radicalmente mutato,

e dellastessa valutazione del confronto tra posizioni antiche e moderne ri-guardo a tematiche almeno apparentemente o formalmente affini. Aquesto proposito, quel che mi sembra di importanza cruciale è chetale confronto debba potersi articolare e valutare nei suoi principianche per chi lo istituisce: se la filosofia non fosse una forma di fon-damentale contatto con qualcosa che non passa, subirebbe il propriotempo senza possibilità di comprenderlo, e il pensiero sarebbe una

semplice funzione del decorso storico. Hegel non potrebbe neppurespiegare perché l’età della filosofia della riflessione al suo culminedeve ristudiare Aristotele e riportarne in auge la metafisica e la “psi-cologia”, mentre è appunto sulla base dell’autocomprensione hege-liana in rapporto al suo tempo e alla tradizione che dobbiamo deter-minare grandezza e limiti del suo discorso.

È bensì vero che non possiamo pretendere di saltare oltre i li-miti della nostra epoca e che non siamo che il nostro tempo appreso

nel pensiero. Siamo determinati dalla tradizione nel modo e nell’am- bito dei problemi che ci occupano e che costituiscono il nucleo piùfondamentale della nostra stessa vita. Tuttavia, la direzione di fugache imprimiamo ai significati con cui sostanziamo i concetti che for-mano la nostra più intima essenza non è prefigurata da idee eredita-te e metabolizzate, ma conserva un carattere eccedente, di insoppri-mibile sovradeterminazione, di imprevedibilità. Per questo anche sce-gliere, per parlare della tradizione di pensiero, metafore di tipo geolo-gico, come sedimentazione di contenuti o stratificazioni di senso,

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260 HEGEL E ARISTOTELE

come in quanti si rifanno a Husserl, o come conglomerati ereditari

— pensate a classicisti alla Murray o Dodds —, rimane riduttivo (3).Il compito dello storico della filosofia è quello di fare i conti con que-sta virtualità discontinua della tradizione, e, con ciò, di sottolinearetanto identità che differenze; soprattutto se le somiglianze sono in-gannevoli e celano elementi di rottura, distacchi, punti di svolta oinversioni di senso rispetto alla tradizione. Il nostro primo sforzo,allora, deve essere quello di resistere a tentazioni “ireniche” e omo-

loganti che pongano una preliminare omogeneità tra epoche e posi-zioni diverse. E, quindi, di contestare il presupposto implicito tantonella storia della filosofia hegeliana quanto nella Seinsvergessenheitheideggeriana: la tesi di una continuità di fondo, sia che questa ven-ga interpretata come il progressivo svelarsi della ragione a se stessa,sia che s’intenda come il progressivo oblio dell’essere e come reifica-zione ed oggettivazione della differenza ontologica.

Per quanto ci riguarda specificamente, occorre chiedersi quanto

possiamo accettare pacificamente quella che Hegel tratta come un’as-similazione della “psicologia” aristotelica senza rilevarne la profon-da metamorfosi di significato, aldilà delle forzature più note qualiad esempio l’interpretazione del nou§ ~. Quelle che sono state denun-ciate come le forzature hegeliane in sede di interpretazione devonoacquistare una luce diversa da quella in fondo banale della galleriadegli errori filologici o della violenza esegetica, ed apparire nellanecessità della loro derivazione da presupposti radicalmente diffe-

(3) Per restare a livello di immagini, mi sembra allora più appropriato adot-tare in questo discorso quella di Jung: «La vita mi ha sempre fatto pensare ad unapianta che vive nel suo rizoma: la sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. Ciòche appare alla superficie della terra dura solo un’estate, e poi si appassisce, appa-rizione effimera. Quando riflettiamo sull’incessante sorgere e decadere della vita edelle civiltà, non possiamo sottrarci ad un’impressione di profonda nullità: ma ionon ho mai capito il senso che qualcosa vive e dura oltre questo eterno fluire. Quel-lo che vediamo è il fiore, che passa: ma il rizoma perdura» (in Memories , Dreams ,

Reflections of C.G. Jung, Random House, NewYork 1961, tr. it. G. RUSSO, Ricordi , so- gni , riflessioni di C.G. Jung, Milano 1978, 19932, p. 28).

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261A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

renti e nella necessità della loro connessione con intenzioni affatto

diverse, o contestualizzazioni di temi aristotelici in ambito specula-tivo, che ne alterano irrimediabilmente il senso.

La storia del concetto di immaginazione, nel suo rapporto conla riproduzione di forme da un lato e con la rappresentazione dal-l’altro, non si potrebbe prestare meglio ad illustrare quanto ho appe-na enunciato sulla genealogia degli aspetti di un problema, su quel-lo che ne forma l’aspetto dapprima superficialmente unitario. Que-

sto,ad un più profondo esame

,si rivela poi spesso come il precipita-to provvisorio di spinte diverse, periferiche o tangenziali rispetto al

tema di fondo, che tuttavia esse finiscono per circoscrivere, motiva-re e anche costituire — come se degli accidenti per sé finissero permodificare una sostanza. Dove quel che permane inesaurito è ap-punto l’idea — nella fattispecie, il problema del rapporto tra elementipassivi e attivi nella conoscenza —, che viene pensata sempre dinuovo. Sulla scorta di un’ipotesi interpretativa avanzata da Kearney,

ci si può allora chiedere se possiamo — e se ha un senso che vadaoltre la mera curiosità antiquaria — includere Hegel in una storiadel problema dell’immaginazione che vede una sua scansione gros-so modo in tre epoche. Secondo Kearney (4) gli antichi reprimereb-

 bero la creatività dell’immaginazione per salvaguardare l’indipen-denza dell’originale; per i moderni è l’originalità umana a creare glioriginali, come si vedrà poi bene nel romanticismo; per i postmoderni,una volta dissolto il concetto di verità, il paradigma per intendere

l’immagine non è più quello teorico di somiglianza, ma quello este-tico della produzione creativa.

Come tutte le periodizzazioni, anche questa merita più criti-che e distinguo che adesione incondizionata. Tuttavia mi serve perindicare la traccia di un problema: come si colloca il pensierohegeliano sull’immaginazione rispetto alle prime due epoche, e in

(4

) R. KEARNEY, The Wake of Imagination: Toward a Postmodern Culture , Minnea-polis, University of Minnesota Press, 1988.

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263A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

vedremo, la comprensione essenziale del fenomeno cambia radical-

mente a partire almeno da Cartesio — se non, come ritengo si possasostenere, dal commento di Proclo agli Elementi di Euclide.

La teoria dell’immaginazione è poi fondamentale per il concettodi sintesi apriori in Kant, e per la stessa genesi di alcune delle istanzefondamentali all’origine della filosofia post-kantiana e dello stessoidealismo. Penso a Maimon, a Beck , nonché al concetto di immagina-zione produttiva in Fichte e nello Schelling del Sistema dell’ idealismotrascendentale. E penso poi a Fede e sapere , in cui Hegel ravvisava nel-l’immaginazione produttiva kantiana lo stesso concetto di ragione nelsuo uso empirico, la vera essenza idealistica della sintesi apriori ol’intellectus archetypus.

Il ruolo mediatore tra intuizione e concetto svolto dall’immagi-nazione in Kant ha ricordato a più di un interprete l’analoga funzionedi raccordo tra senso ed intelletto asserita da Aristotele. Heidegger, inparticolare, scorge una sostanziale continuità metafisica tra l’immagi-

nazione aristotelica e quella kantiana. Penso si debba mettere in que-stione questa lettura, e sottolineare i tratti di novità presenti nellamodernità prima, e ulteriormente in Kant poi, per esaminare infine see quanto Hegel recuperi temi aristotelici in una filosofia dello spiritoche si propone di riportare in auge la psicologia di Aristotele. Nellamia interpretazione l’immaginazione vive e viene definita in strettacorrelazione con i termini enunciati prima — memoria, coscienza deltempo, senso comune ovvero interno. Ma questi termini , anziché pre-

sentarsi come un cielo di stelle fisse , per così dire , costituiscono piuttosto unacostellazione di senso che si può studiare e comprendere solo come una totali-tà in movimento. Questi termini mutano significato così sottilmente e alcontempo così sostanzialmente nel corso della storia, che le apparentisimilarità tra testi filosofici si basano perlopiù su un’omonimia soltan-to superficiale.

 Materialismus. Ausgewählte Schriften, hrsg. v. A. SCHMIDT, Frankfurt a M. 1967, 1985,

Bd. 1, p. 196; cfr. anche A. BAEUMLER, Kants Kritik der Urteilskraft. Ihre Geschichte undSystematik, Erster Band, pp. 142 sgg. e 155-56 n.

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264 HEGEL E ARISTOTELE

In questo senso prendiamo ad esempio Kant, anche perché si

tratta dell’autore il cui pensiero sull’immaginazione dovrebbe potervenir dato per più universalmente noto (ancorché mai come in que-sto caso, a leggere certa Kantforschung , si debba ricordare l’opportu-nità della distinzione hegeliana tra noto e conosciuto). Vorrei mo-strare come la tradizione in cui l’immaginazione kantiana va com-presa sia quella del problema specificamente moderno dell’oggetti-vità della rappresentazione e della riflessione sulle qualità primarie,

piuttosto che quella della metafisica classica.L’immaginazione produttiva kantiana è un concetto parados-sale: mediando tra la spontaneità dell’intelletto e la recettività del-l’intuizione, assume tratti di entrambi. È attiva nell’apprensione delfenomeno, come sintesi spontanea del molteplice, eppure sottostàalle regole dall’intelletto. Non è una potenza creativa o mitologica,come per il romanticismo di lì a pochi anni, né la sua funzione èquella di esprimere le costruzioni del pensiero foggiando una mol-

teplicità di mezzi in cui acquisire un’esistenza esterna, un’esterioritàdello spirito a se stesso. La sua funzione principale è ciò che Kantchiama autoaffezione, Selbstaffektion. L’immaginazione schematizzaconcetti altrimenti vuoti. È il principio dell’esibizione del loro conte-nuto nell’intuizione, in un medio spazio-temporale. Per questo è lacondizione di possibilità perché i concetti discorsivi si riferiscano adoggetti e abbiano una relazione con le intuizioni.

Permettetemi di ripercorrere brevemente cose che suppongo

siano note a tutti, ma che mi servono per circoscrivere con maggiorprecisione il mio discorso sull’immaginazione. Kant inverte i termi-ni tradizionali del problema dell’adaequatio. Non che noi siamo gliartefici degli oggetti che conosciamo. Un fenomeno dato influiscesulla nostra sensibilità, e le sensazioni che nascono da questo incon-tro sono il materiale indispensabile per la conoscenza dell’oggetto.Per venirci incontro nella sensazione, gli oggetti devono conformar-si alle forme in cui intuiamo i fenomeni, lo spazio e il tempo. Devo-no tuttavia conformarsi anche ai concetti puri del nostro intelletto. Il

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265A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

punto di svolta per Kant è questo: se mostriamo che l’intelletto, che

come facoltà delle regole non può influenzare direttamente l’oggetto,influenza le forme della nostra intuizione in cui gli oggetti ci vengonoincontro, abbiamo mostrato che la fondazione trascendentale dellapossibilità della nostra esperienza di oggetti è al contempo la condi-zione necessaria di possibilità perché qualcosa sia un oggetto per noi.L’oggettività delle relazioni tra fenomeni non è opposta alla soggetti-vità del nostro pensiero; piuttosto, viene costituita da questa.

In questa argomentazione l’importanza dell

’immaginazionenon può certo venir sopravvalutata. È grazie all’attività dell’imma-

ginazione che concetti ed intuizioni stanno in relazione gli uni congli altri. È grazie all’attività sintetica dell’immaginazione produttivache posso schematizzare concetti, o ridurli all’intuizione — dove ri-durli significa sia ricondurli che limitarli, con ciò dando loro realtà.Senza questa riduzione rimarrebbero vuoti, regole astratte senza al-cun influsso sulla sensibilità. Se invece io posso particolarizzare i

concetti esibendoli in una intuizione temporale o spazio-temporale,posso dire di aver influito direttamente sulla mia sensibilità; indiret-tamente, sull’oggetto stesso. L’oggetto non viene con ciò costruito ocreato; ma, poiché è mediato necessariamente dalla conformità allasensibilità che gli è necessaria perché sia un oggetto per noi, possia-mo dire che la sua forma è costituita dall’influsso che i concetti del-l’intelletto operano sul nostro spazio, e soprattutto sul nostro tempo.

Per esempio, il puro concetto di sostanza ha senso per noi come

la permanenza di una realtà nel tempo: nell’apprendere qualcosacome sostanza, sintetizzo un molteplice nella forma di un’unità sta-

 bile, e così facendo determino il mio senso interno ad assumere unaforma di permanenza in contrasto con, e punto di riferimento basi-lare per, intendere il mutamento come un attributo di un sostrato.Questa è un’anticipazione di una possibilità in cui l’oggetto mi ap-parirà: un’anticipazione della forma dell’oggetto, che è — e solo inquanto è — identica alla forma della mia sensibilità. Questa non èuna spiegazione psicologica perché ciò che determino è il modo in

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266 HEGEL E ARISTOTELE

cui ogni oggetto possibile influirà su di me: con ciò determino la stes-

sa necessità ed universalità di ogni esperienza di oggetti.Voglio a questo punto sottolineare tre punti che diventeranno

tematici dopo nel confronto con le teorie dell’immaginazione di Ari-stotele e di Hegel. 1. In questa ricostruzione l’immaginazione è sem-pre intesa in riferimento all’unità sintetica originaria dell’appercezio-ne o io-penso: un oggetto non può essere un oggetto per me, non puòesser parte della mia esperienza, a meno che non sia unificato nellamia autocoscienza come momento parziale di un tutto che si fa nelcomprendere se stesso. In altre parole Kant fa valere quindi un’istanzamolto forte che potremmo chiamare la soggettività autocoscientedell’immaginazione (7). 2. L’immaginazione ha per oggetto l’apparen-za, i fenomeni e il senso (non c’è immaginazione che tenga nella dia-lettica trascendentale, così come non c’è affatto identità tra synthesisspeciosa e synthesis intellectualis). 3. È sempre un’attività di sintesi, ven-ga intesa come la sintesi schematica di una determinazione apriori

dello spazio e del tempo, oppure come la sintesi empirica di un molte-plice dato nell’apprensione dei fenomeni nello spazio e nel tempo.Quest’ultima distinzione (spazio e tempo come luogo ovvero

come oggetto di determinazione) è importante non solo perché èall’origine di molti fraintendimenti correnti tra gli interpreti di Kant,e perché ad esempio l’averla trascurata è alla base di alcune delleinconseguenze dell’interpretazione di Heidegger, ma anche perchél’attività dell’immaginazione produttiva ne risulta determinata come

duplice. Possiamo trovarla all’opera nell’anticipazione della formadei fenomeni, così come nell’apprensione empirica degli elementiformali dei fenomeni. L’immaginazione, cioè, determina spazio e tem-po apriori o aposteriori, e questo va di pari passo con la distinzioneulteriore nella schematizzazione di concetti matematici, concettiempirici e concetti trascendentali. (Questa è un’altra distinzione

(7) Qui non posso discutere il problema se l’immaginazione, che viene de-

scritta coma una sintesi spontanea cieca «di cui siamo raramente consapevoli» (KrV A 78, B 103), sia una condizione operativa data oppure sia anch’essa autocosciente.

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267A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

intrascendibile, cioè che rende impossibile parlare dello schematismo

come di un fenomeno interpretabile unitariamente, come tutti gliinterpreti kantiani tendono a fare, sulla base di ambiguità di cui èresponsabile Kant stesso). Ma un’altra delle duplicità essenziali del-l’immaginazione è la distinzione tra schematizzazione o particolariz-zazione di concetti, e formazione (Bildung) dell’immagine relativaad un concetto. Questa funzione viene chiamata da Kant l’uso em-pirico dell’immaginazione produttiva, o, altrove, semplicemente l’im-maginazione riproduttiva. Questa formazione dell’immagine nonè pura e apriori, perché include il rimando ad un oggetto materialeed alla sensazione. Nella prima edizione della Critica, le tre sintesioperate dall’immaginazione nell’apprensione di un fenomeno sonol’unificazione del molteplice in una intuizione, la riproduzione diintuizioni passate, e la connessione presente che riconosce l’identitào affinità tra intuizioni passate e future nell’unità di un concetto. Seil secondo momento — la riproduzione — è virtualmente identicoalla memoria, il terzo — la ricognizione — è già una funzione del-l’intelletto.

Per tirare le fila del discorso svolto fin qui: per Kant nella perce-zione c’è sempre un elemento di attività. La formazione dell’immagi-ne è una sintesi soggetta all’intelletto e alla determinazione aprioridella forma della sensibilità. Ogni immagine è compresa in riferimen-to alle sensibilizzazioni empiriche degli schemi dei concetti puri del-l’intelletto. Con questo Kant ha mosso il passo decisivo: la necessità el’oggettività di un’origine intellettuale viene integrata nel lavoro del-l’immaginazione.

Illustriamo questo punto con l’esempio kantiano del triango-lo. La sua definizione è una regola data dall’intelletto. L’immagina-zione costruisce spontaneamente un’immagine sensibile in un’intui-zione spaziale passibile di esser trattata universalmente. Notate peròche la funzione dell’immaginazione produttiva qui non è limitata allaproduzione di un’immagine. Prima e più importante di questo è ilfatto che ci dà un procedimento metodico (ein methodisches Verfahren)per produrre ogni possibile immagine. Questa ‘ directio ingenii’, come

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268 HEGEL E ARISTOTELE

vorrei chiamare cartesianamente questo procedimento, lo schema

del concetto, è irriducibile a tutte le immagini particolari del trian-golo. Esso è ciò che Kant chiama un monogramma, un modello pro-dotto apriori: ed è questo che fa sì che, di fronte ad un’immagineparticolare di un triangolo, possiamo trascurarne i lati caduchi, e,grazie al disegno che ne abbiamo tracciato sulla lavagna o sulla car-ta, dimostrarne proprietà universali e necessarie.

È fuori discussione che la definizione kantiana di immaginazio-

ne come la«

facoltà di rappresentare un oggetto nell’intuizione anchesenza la sua presenza» (KrV § 24; Antropologia pragmatica § 28) sia una

ripetizione delle analoghe definizioni di Wolff e Baumgarten, e cheKant tragga molte delle caratteristiche dell’immaginazione dai ma-nuali di psicologia del suo tempo che più palesemente si rifacevanoalla tradizione aristotelica. Inoltre, è sorprendente la similarità di que-sta idea del triangolo, come di un determinato di cui trascuriamo laparticolarità, con un passo di Aristotele. Nel De memoria leggiamo che

«non si può pensare senza immagine. Nel pensare si dà lo stesso fe-nomeno che nel tracciare una figura: qui, pur non avendo bisogno diun triangolo di grandezza determinata, tuttavia lo tracciamo di gran-dezza determinata: allo stesso modo chi pensa, anche se non pensauna cosa di quantità determinata se la pone davanti agli occhi comeuna quantità e la pensa facendo astrazione dalla quantità» (1, 449 b24 sgg.).

Da tutto ciò si potrebbe pensare che avessero ragione Heideggere Mörchen a ritenere che Kant non faccia che recuperare la fantasiva 

aristotelica (8). Vediamo allora cosa scrive Aristotele della fantasiva eperché, come ho anticipato prima, si debba pensare che in realtà un

(8) M. HEIDEGGER,  Kant und das Problem der Metaphysik, 1929, 2.e Auflage,Frankfurt a. M. 1951, p. 199 n., e H. MÖRCHEN, Die Einbildungskraft bei Kant, in Jahrbuch

für Philosophie und phänomenologische Forschung, hrsg. v. E. Husserl, Bd. 11,p. 490.

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269A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

mutamento di paradigma e di significato stia dietro alla teoria

kantiana. Vediamo cioè perché questa vada compresa nel contestonient’affatto aristotelico della natura della rappresentazione e delconcetto di forma apriori, ossia di ciò che grazie agli schemi si puòanticipare oggettivamente apriori riguardo alla forma dei fenomeniin un giudizio sintetico.

La prima cosa che si può notare in Aristotele è che la fantasiva 

non si può neppure tradurre pacificamente in modo omogeneo intutte le sue ricorrenze con immaginazione. A volte designa ciò che èsemplicemente manifesto o apparente (come nella locuzione ta;

sumbebhkovta ... kata; th;n fantasivan  , De an. A 1, 402 b 21-5), o ciò cheha a che fare con la manifestatività, come è ancor più evidente seconsideriamo l’equivocità del termine favntasma  , che può designareun’immagine nella memoria seguente ad una sensazione, ma ancheun’apparenza o un evento illusorio, per non dire una immagine al-lucinata o onirica. In altre parole, l’immaginazione aristotelica non

ha un’identità univoca. È associata e al contempo distinta dalla sen-sazione da un lato e dal nou~ dall’altro, definita, analogamente allamemoria e ai sogni, come «mutamento derivante dalla sensazione»,che è a sua volta un movimento, è stranamente condizione dellauJpovlhyi~ (ivi, G 3, 427 b 16) e assolutamente altra rispetto alla dovxa 

(428 b 1). Si può dire che sia ancora più apolide, heimatlos , per para-frasare quanto Heidegger dice riguardo a Kant, dell’immaginazioneproduttiva nella prima edizione della Critica.

Per Aristotele l’immaginazione è un movimento residuale cau-sato da un sensibile in atto, il movimento di illuminare la forma del-la cosa (fantasiva  è connessa etimologicamente con favo~ , luce, ram-menta Aristotele; questo, che può sembrare un punto estrinseco, èinvece secondo me uno dei più significativi per intendere l’accezio-ne aristotelica di fantasiva ) (9). Poiché il favntasma è la traccia lasciata

(9) Riguardo a questo, e per il connesso primato della vista, si può qui ad

esempio ricordare che Quintiliano traduceva fantasiva con visiones, Inst. Or. VI, 2,29.

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270 HEGEL E ARISTOTELE

dall’azione delle cose sui nostri organi e sensi, l’immaginazione è ciò

che resta della sensazione, ed è molto vicina alla memoria e alla con-sapevolezza del tempo trascorso.

Ma, a differenza dei sensibili propri, sempre veri, l’immagina-zione è fallibile perché è un’affezione del senso comune. E neppure ilsenso comune, a sua volta, è una facoltà, quanto piuttosto un nomegenerico per la percezione dei koinav: il tempo, il movimento, il riposo,la figura, numero, grandezza. Notiamo subito alcune cose. Intenderel’immaginazione come un movimento esercitato da altro, anziché unapotenza indipendente, significa che la sua natura è derivata e succes-siva alla sensazione. E qui sta la definizione più comprensiva data daAristotele dell’immaginazione come «ciò mediante cui si produce innoi un’apparenza, un favntasma » (ivi, G 3, 428 a 1-2). Non c’è un’attivi-tà in questo processo. Certo, l’immaginazione non vive della sensa-zione esclusivamente come un parassita vive di un organismo viven-te; Aristotele ammette una spontaneità dell’immaginare. Ma quel che

ha in mente con ciò è una sorta di visualizzazione, come quando so-gniamo o quando ci rendiamo presenti cose assenti (10). Non ha cioèin mente una potenza inventiva o poietica: in altre parole, l’immagina-zione è fondamentalmente riproduttiva. Anche le riproduzioni false ole immagini illusorie sono giudicate in riferimento ad un dato, che è lapietra di paragone della mimesis , l’inizio e la fine della ricerca. Infine, ilfatto che Aristotele non consideri l’immaginazione l’elaborazione sog-gettiva di un evento oggettivo, una facoltà — nel senso che a questa

parola davano i moderni che l’hanno inventata —, ha per conseguen-za un punto di capitale importanza: l’immaginazione è un processoanonimo e privo di sé — Selbstlos , vien da dire —, che non trae il suosignificato dal riferimento ad un io o ad un cogito.

Per inciso si può notare che, giudicando le cose retrospettiva-mente, o meglio lo hysteron con il proteron , ha un senso molto pre-

(10) Ciò è stato ben mostrato da M. SCHOFIELD, Aristotele on Imagination, in

Aristotle on Mind and the Senses, ed. by G.E.R. Lloyd and G.E.L. Owen, Cambridge1978, 99-139: p. 132 n. 19.

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271A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

gnante dal punto di vista aristotelico trattare la fantasiva nell’ambito

della psicologia come indagine sulla fuvsi~ e non come un capitolodella filosofia della soggettività (11): è perché mutano radicalmente iconcetti di spazio, di movimento e l’intendimento della natura ingenerale, e conseguentemente il ruolo della matematica e l’identitàdel sapere, che all’inizio della modernità il quadro di riferimentogenerale in cui si definisce l’immaginazione muta altrettanto radi-calmente — e parallelamente alla polarizzazione soggettivo-ogget-

tivo estranea al mondo classico. Per Aristotele natura significa es-senza, ed è la fonte onnicomprensiva di significato per tutto ciò chenon è prodotto dall’uomo, inclusa quindi l’anima. La psicologiadifatti, con l’unica eccezione delle pagine sul nou~ , è un capitolo del-la fisica. Di conseguenza, il concetto aristotelico di immaginazioneappartiene alla ricerca sui fuvsei o[ nta , e anche l’autoconoscenza è laconoscenza di una natura data a noi non diversamente da come cisono date le cose. Al contrario, se l’immaginazione kantiana è un’at-

tività di sintesi concepita come una funzione essenziale di un io-pen-so, la conoscenza che ne possiamo avere non è la descrizione fenome-nologica di un ente naturale, ma il processo che dal condizionatoconduce alla sua condizione nell’autocoscienza e in quanto è l’autoco-scienza.

(11) Ed è qui, tra l’altro, la più grande forzatura dell’interpretazione di Hegel,aldilà di tutto quel che si può dire sul nou~: Hegel non fraintende il testo greco, peròcontestualizza Aristotele in base ai principi della sua filosofia, e all’interno di suddivi-sioni e categorizzazioni hegeliane, non aristoteliche. Così Hegel sposta la linea didemarcazione, che per Aristotele era tra ciò che è di pertinenza del fisico (e cioè lostudio dei lovgoi e[nuloi, delle forme-nella-materia), e ciò che esulava dalla sua indagi-ne e perteneva alla filosofia prima, il nou~, nella divisione tra logica oggettiva e sog-gettività, tra natura inorganica-spirito finito e pensiero autocosciente. Così della yuchvaristotelica Hegel fa la prima parte della filosofia dello spirito, e può quindi raggrup-pare De anima , Etica nicomachea e Politica nelle sue Lezioni sotto il titolo di Philosophiedes Geistes. Categorizzazione tanto più arbitraria se ricordiamo come etica e politicaper Aristotele avessero a che fare con taŸ pravgmata, non con la fuvsi~; non si trattava

insomma di restituire un ei\do~ dato, ma di indagare l’ajrethv di ciò che può esserealtrimenti.

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272 HEGEL E ARISTOTELE

Anche il ruolo apparentemente simile dell’immaginazione nel

pensiero asserito da Aristotele e Kant ha bisogno di precisazioni. PerAristotele, poiché gli oggetti di memoria sono immaginabili in sé,nel senso che sono presenti alla memoria come figure o immagini, epoiché tutto ciò che può esser ricordato è ridotto ad un favntasma , ifantavsmata sono di per sé basati sull’associazione e riprodotti secon-do la nostra esperienza delle cose corrispondenti. Sicché, contraria-mente ad un’opinione tramandata, il fatto che non possiamo pensa-

re se non in unfavntasma 

non ha alcuna importanza per il pensiero insé, ma solo per la nostra apprensione (uJpovlhyi~ ) e per la memoria. Ilfavntasma è quindi un primo per noi, per la nostra conoscenza, nonper natura, o per il pensiero epistemico o metafisico. Inoltre, a diffe-renza che in Kant, l’immaginazione non ha nessuna funzione essen-ziale da svolgere in matematica. Ciò è chiaro dalla distinzionearistotelica tra oggetti di memoria in senso proprio ed oggetti dimemoria kata; sumbebhkov~ (De mem. 1, 450 a 27). In un altro passo

che non viene commentato quasi mai (An. Post. A 10, 77 a 1), Aristo-tele scrive che disegnare un triangolo ha soltanto una funzione illu-strativa. L’ulteriore conseguenza che ci interessa qui è che per Ari-stotele contempliamo l’e\ ido~ del triangolo alla luce del suo favntasma .Sicché la relazione tra i due non è né diretta né necessaria.

Per Kant, al contrario, esibiamo nella costruzione del triango-lo l’oggetto che abbiamo definito puramente e apriori. Quindi anchel’immagine sensibile più approssimativamente disegnata sulla carta

è garantita teoreticamente dal suo esser prodotta interamente apriorisecondo le regole dell’intelletto. L’immaginazione, che è produttivae arbitraria, è regolata dall’intelletto in un modo che per Aristotelenon poteva darsi perché per lui, come per tutta la geometria greca, iltriangolo è una forma data che dobbiamo esaminare, non qualcosache costruiamo. E qui ha ragione Lachterman (12) quando scrive cheper Aristotele è il nous che deve guardare ai fantavsmata trascuran-

(12) The Ethics of Geometry. A Genealogy of Modernity, NewYork 1989, p. 82.

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273A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

do la loro determinatezza; cioè il favntasma è irrimediabilmente par-

ticolare e soggettivo, mentre la modernità penserebbe all’immagina-zione a partire dal paradigma delle arti produttive, in cui diamo unafigura esterna durevole alle nostre immagini mentali. Vorrei solo ag-giungere, nel contesto di cui stiamo parlando, che la necessità di unprincipio attivo, questa incredibile crux che è il nou~ tw/  ` pavnta poiein  ,

è per Aristotele un’altra versione del problema del rapporto tra ei[ dh 

dati da un lato, e ei[ dh e fantavsmata nel e per il pensiero dall’altro.

Come tale,

questo non è un problema per Kant,

perché per luicambiano tutti i termini di riferimento e gli aspetti del problema.Mentre per Aristotele la relazione tra una forma e il suo apparire anoi nella sensazione serve a spiegare la stabilizzazione di una formadata nella nostra memoria, il problema di Kant — e la svolta nelperiodo critico inizia con la soluzione a ciò — è la questione dellarealtà oggettiva dei nostri concetti. ln altre parole, il problema di Kantè l’inverso di quello di Aristotele. Se per la tradizione post-aristotelica

una delle aporie più dibattute riguarda la formazione e la naturadell’universale per noi, Kant è sicuramente cartesiano e modernonel porsi al contrario il problema della sintesi apriori, della possibi-lità per i nostri concetti universali di riferirsi apriori alle intuizioni edi collegarsi così al mondo. Cartesiano e moderno perché ora è ilcogito, la purezza di un soggetto ormai opposto alla gamma illimi-tata di possibili oggetti esterni, che si pone come norma e criteriodella rappresentabilità e verità degli oggetti. Parallelamente, le for-

me non sono più gli ei[ dh dati delle cose, ma si costituiscono riflessi-vamente e metodicamente come i concetti con cui ordiniamo l’og-gettività. Così i concetti divengono a pieno titolo le condizioni dipossibilità delle immagini.

Posto che l’eredità aristotelica vada quindi relativizzata, si puòdiscutere in sede di ricostruzione storica quali siano gli autori chepiù hanno influito su Kant riguardo all’immaginazione. Personal-mente, ritengo più importante far lavorare comparativamente econtestualmente paradigmi diversi al fine di comprendere meglio

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274 HEGEL E ARISTOTELE

motivazioni e fini di un autore, più che riscontrare ovunque filiazioni,

influssi e debiti inconfessati. Per questo mi sembra più fecondo deli-neare quali sono le posizioni più articolate che ci aiutino a compren-dere dove risieda la novità del pensiero kantiano, indipendentementedal fatto che Kant ne fosse a conoscenza o meno. Ho mostrato altro-ve (13) che tenere presenti due modelli, quello cartesiano e quelloleibniziano, è di importanza cruciale per definire lo scarto operatoda Kant rispetto alla tradizione; e, con ciò, per andare aldilà della

stessa comprensione kantiana della propria posizione nell’ambitodella tradizione di pensiero intorno al problema del rapporto tra im-

maginazione, pensiero e sensibilità. Kant, in una nota nella primaedizione della Critica (A 120 n.), sostiene che fino a lui nessuno èstato in grado di rendere conto comprensivamente della funzionesintetica ed attiva dell’immaginazione all’opera in ogni percezione.Questo è solo un lato della verità, e anzi non è neppure del tuttovero, poiché questo elemento si può trovare già in Leibniz. Quello

che a me sembra più importante è il momento regolativo e metodicoassunto dall’immaginazione nel fare da tramite tra pensiero ed in-tuizione, nel disciplinare con necessità il senso interno e, così, il mo-vimento discensivo ed ascensivo che ha luogo tra pensiero ed intui-zione.

A questo proposito, molto brevemente vorrei ricordare quan-to Cartesio suoni aristotelico quando scrive che il senso comune la-scia sull’immaginazione le tracce che assumono le figure degli og-

getti come l’anello lascia la sua traccia sulla cera. Di derivazionearistotelica sono pure altre delle caratteristiche fondamentali dell’im-maginazione cartesiana, come la connessione tra immaginazione ememoria, e il rapporto con l’intelletto, soprattutto in geometria. Manotare queste cose non deve far passare in secondo piano comeCartesio insinui in un vocabolario scolastico appreso dai gesuiti a La

(13

) In Kant’ s Productive Imagination and Its Alleged Antecedents, in The Gra-duate Faculty Philosophy Journal, 18:1, 1995, pp. 78-86.

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275A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

Flèche la forza dirompente delle sue novità: nel contesto che ci inte-

ressa qui, basta ricordare come la nostra rappresentazione dei corpidella sostanza estesa necessiti dell’intervento dell’immaginazione,che presenta all’intelletto le idee dell’estensione che l’intelletto astraee analizza in nozioni semplici. In particolare, poi, nella geometrial’immaginazione raffigura i concetti puri e li spazializza in figure edimmagini esterne. Tutto questo ha luogo grazie all’intervento delsenso comune, che però non è più, come in Aristotele, riferito ad

una classe di sensibili,

ma è corporeo ed al contempo opera come laconvergenza e la discriminazione dei sensi propri. Per esempio, poi-ché la visione è propriamente in relazione solo con la luce e i colori,è l’anima che paragona le impressioni lasciate attraverso i nervi nelsenso comune e nell’immaginazione e giudica figure, distanza, gran-dezza e collocazione dei corpi (Dioptrique , Discours Sixiesme). Dettodiversamente, l’immaginazione e il senso comune comunicano al-l’anima le impressioni lasciate dai corpi sui nervi e così costituiscono

l’ultimo gradino prima del giudizio analitico ed intellettuale sull’este-riorità.Questa trasformazione dell’immaginazione e del senso comune,

che affonda sicuramente le sue radici nell’interpretazione pocoaristotelica del De anima offerta da Tommaso, per cui il senso comune èl’unità dei sensi propri, in Leibniz è decisamente più accentuata in sen-so idealistico ed antimaterialistico. Senso comune e senso interno di-ventano indistinguibili, e si riferiscono entrambi all’unità appercettiva

della monade. Ma l’immaginazione leibniziana non è ancora assimilabilea quella kantiana. Rispetto a quella cartesiana, l’immaginazione inLeibniz — ed è importante tener presente questo per quanto vedremoriguardo a Hegel — è definita dalla superiore generalità delle sue fun-zioni, e caratterizzata fondamentalmente dall’arbitrarietà nel foggiare imezzi per l’espressione della mente. Idee e segni sono entrambi espres-sioni o rappresentazioni di oggetti.

Ma la funzione poietica dell’immaginazione — crea segni, pa-role, simboli — non la rende autonoma né affine alla necessità logica

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276 HEGEL E ARISTOTELE

dell’intelletto. L’immaginazione è strumentale al ragionamento astrat-

to, e sparisce dalla scena che ha costruito per lasciar posto all’intel-letto. Nell’ars characteristica, i prodotti dell’immaginazione divengo-no indipendenti dal processo della loro produzione: rimangono solopure convenzioni d’ausilio al processo deduttivo.

Tutte queste relazioni sono mutate da Kant. I concetti sono perKant il prodotto puramente discorsivo dell’attività unificatrice del-l’intelletto. E l’immaginazione, a sua volta, è l’azione, la Wirkung

dell’intelletto sulla sensibilità. Piuttosto che creare i mezzi per l

’espres-sione dei concetti, essa modifica la sensibilità, esibendo i concetti in

intuizioni spazio-temporali.Mentre per Leibniz l’immaginazione ha a che fare con l’astra-

zione, per Kant l’immaginazione ha a che fare con figure, o col sensointerno. L’intuizione, poi, è limitata alle forme dello spazio e del tem-po, e perde ogni connotazione intellettuale quale poteva avere nellaintellezione dei simplicia discussa da Leibniz. Per Kant la funzione

simbolica è l’opera dell’immaginazione produttiva nel suo uso empi-rico. Kant separa così la sensibilizzazione schematica da quella ca-ratteristica, ed assegna l’intuizione matematica alla modalitàschematica. Così la matematica non è in primo luogo un calcolo, unacognitio caeca come in Leibniz, ma trae la sua origine dall’intuizioneapriori dello spazio e del tempo. E ciò è possibile solo perché la ne-cessità, anziché essere analitica, è già pensata come intrinseca allecostruzioni nell’intuizione operate dall’immaginazione. Più in gene-

rale, per Kant l’immaginazione è una struttura operativa fondamen-tale dell’esperienza, non solo uno strumento per rappresentare l’esten-sione. È sempre all’opera nella percezione; e, a differenza che neisuoi predecessori moderni, per i quali l’intelletto deve disciplinarecon successo intermittente un’immaginazione che spesso si presentacome recalcitrante, in Kant la guida costante dei concetti puri del-l’intelletto è ciò che permette di considerare l’attività dell’immagina-zione come una determinazione normativa delle intuizioni e dellaforma dei fenomeni.

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277A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

3. L’ uno dei molti e l’ uno oltre i molti. Idealizzazione e manifestazione in

Hegel — Veniamo ora a Hegel. A prima vista sembrerebbe che Hegelignori sia gli sviluppi fichtiani e schellinghiani dell’immaginazioneproduttiva, sia la stessa discussione del rapporto tra concetti, intui-zioni e schemi nel concetto di autodeterminazione e autoaffezionepresente nell’opera di Beck e di Maimon. A prima vista sembrerebbeanche che, dopo le pagine di Fede e sapere sull’immaginazione pro-duttiva in Kant, Hegel non torni quasi più sul ruolo idealistico svol-

to dall’immaginazione nell

’ambito di quello che dovrebbe appuntofondare tale ruolo, cioè nella sua matura filosofia dello spirito sog-

gettivo nell’Enciclopedia. Penso che se forse il primo punto apparepiù plausibile, riguardo al secondo si debba mettere in discussionela superficialità di una interpretazione siffatta dell’evoluzione delpensiero hegeliano.

Ma vediamo un attimo riguardo a Fede e sapere come Hegelcommenti l’immaginazione produttiva kantiana e ne muti impercet-

tibilmente, ma inesorabilmente, il significato. Hegel scrive (14

) chenel porsi il problema dei giudizi sintetici apriori Kant aveva colto lavera identità di essere e pensare, anche se poi l’aveva fraintesa insenso psicologico e formale. Quello che io voglio sottolineare qui èche, forzando il concetto di intuizione pura, anzi, a dire il vero, pun-tando su quanto di ambiguo veniva lasciato in sospeso da Kant stes-so (15), Hegel interpreta l’intuizione come un’unità sintetica, «comel’eterogeneo che nello stesso tempo è apriori, cioè assolutamente iden-

tico» (ibid.). In altre parole, la ragione è la possibilità di questo porre,e come tale è l’identità degli opposti. Così Kant sarebbe costretto adammettere che l’immaginazione produttiva, come il lato sensibile

(14) Glauben und Wissen (1802), in Jenaer Kritische Schriften, hrsg. v. H. Buchneru. O. Pöggeler, in Gesammelte Werke, Hamburg 1968, Bd. 4, p. 327 (tr. it. a cura di R.Bodei, in Primi scritti critici, Milano 1971; 19812, p. 139).

(15) Per una discussione di questo punto mi permetto di rimandare al mio

Costruction and Matemathical Schematism. Kant on the Exhibition of a Concept in Intuition,in Kant-Studien, cit., pp. 137-47.

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278 HEGEL E ARISTOTELE

dell’azione della ragione, spontaneità e attività sintetica assoluta, è

principio della sensibilità, che invece fino ad allora era stata caratte-rizzata come recettività pura. L’immaginazione produttiva sarebbeallora ciò che permette all’unità sintetica originaria dell’appercezionedi sapersi come il vero in sé, come l’identità bilaterale che divienepoi soggetto e oggetto scindendosi in coscienza particolare e mon-do.

Notate che il mutamento sostanziale qui riguarda il concettodi autoaffezione proprio della synthesis speciosa kantiana. Mentre Kantricerca la fondazione del rapporto del pensiero al puro molteplicedell’intuizione, cioè la connessione tra concetti e realtà, Hegel ponein rilievo quella che lui chiamerebbe la verità di questa connessione:cioè il fatto che, poiché nessuna unità intuita è possibile senza unasintesi e non si dà nulla nell’esperienza che sia sottratto alla determi-nazione delle categorie, l’autoaffezione di Kant è in realtà l’autodeter-minazione del pensiero puro nella realtà. La conclusione è che, nei

termini della Fenomenologia, la verità della coscienza è la ragione, lospirito autocosciente. E, nei termini dell’Enciclopedia , il rapporto tradatità sensibile e costituzione soggettiva non è più quello tra dueopposti, ma si mostra come il passaggio da un’eteronomia apparen-te ad un’autodeterminazione dello spirito che si scopre come concet-to o ragione assoluta, dove il sapere di sé si mostra come fondamen-to di possibilità del sapere dell’oggettività.

Detto questo, può risultare strano allora che solo l’anno dopo,

nella Filosofia dello spirito del 1803/04, l’immaginazione abbia un ruolotalmente secondario (16). Se ne potrebbe concludere, come suona lacommunis opinio fra gli interpreti hegeliani, che in Fede e sapere si trat-tasse in fondo solo di un commento a temi kantiani, ma che di suoHegel si sarebbe espresso ben diversamente, ed in particolare nonavrebbe affatto assegnato un ruolo positivo all’immaginazione. Io

(16) Jenaer Systementwürfe, in GesammelteWerke, Bd. 6, hrsg. v. K. Düsing u. H.

Kimmerle, Hamburg 1975, p. 286, tr. it. a cura di G. CANTILLO, Filosofia dello spirito jenese, Bari 1984, p. 23.

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279A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

non sono d’accordo con questa interpretazione. È vero che mutano i

concetti hegeliani di intuizione e di identità, e quindi alcuni tratti es-senziali della stessa immaginazione, dopo Fede e sapere. Ma se andia-mo a leggere la progressione di forme della filosofia dello spiritosoggettivo già nel 1805 e poi nel 1808, notiamo che addirittura l’im-maginazione è identificata con lo stadio mediano delle formeteoretiche dell’intelligenza, quella che nell’Enciclopedia del 1827 e 1830sarà la rappresentazione. In particolare, poi, non muta affatto il sen-

so per cui la filosofia dell’intelligenza trova nella spontaneità del-l’immaginazione la chiave di volta attorno a cui costruire la progres-

sione delle forme soggettive come il passaggio dal trovarsi determi-nati al sapersi come determinanti la realtà nel pensiero.

In questa progressione, l’immaginazione è l’unico momentoche veda raccolti in sé entrambi i lati fondamentali della realizzazio-ne dello spirito. E questi sono l’Ideelsetzung dell’alterità e la manife-stazione di sé. A dispetto di quanto Hegel scrive nell’introduzione

alla filosofia dello spirito dell’Enciclopedia (§ 383 e 384), infatti, nonesiste solo la Sichselbstoffenbarung dello spirito, ma altrettanto e pri-ma di quella la idealizzazione dell’esteriorità, che ne appare la con-dizione preliminare, anche se poi Hegel pare trattarla come un sem-plice mezzo per stabilire la superiore verità dell’essenza dello spiritocome manifestazione. In questo movimento alternato, mi sembra chedel De anima aristotelico Hegel recuperi soprattutto tratti pertinentia quella che per lui è l’idealizzazione dell’esteriorità, più che al mo-

vimento complementare di dare poi all’intelligenza un essere. Pensoper esempio alla discussione del segno, del linguaggio etc., che nonha nulla di essenziale a che fare con Aristotele.

Ho scritto nel mio libro, riguardo a questi problemi, che neiparagrafi della psicologia dell’Enciclopedia l’obiettivo di Hegel è mo-strare la produzione per lo spirito della libertà dal condizionamento:il fine cioè è mostrare come lo stesso spirito, che all’inizio è immersonella naturalità, nell’antropologia, si scopra al termine del processola verità del processo stesso, e come l’attività che inconsapevolmente

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280 HEGEL E ARISTOTELE

vi dà luogo — in un modo non troppo lontano da quel che avviene

per l’immaginazione produttiva inconscia della Wissenschaftslehrefichtiana del 1794. La natura non è altra rispetto alla ragione ma suopresupposto, e tutti gli stadi del rapporto dello spirito con la realtà,le diverse forme del conoscere e dell’agire, vanno concepiti comemomenti di un medesimo processo, l’entelechia dello spirito viven-te: essi stanno gli uni con gli altri nella relazione negativa di progres-siva sussunzione.

Ora,

riguardo a tutto questo Hegel ritrova nel De anima nonsolo molti punti specifici che discute o di cui si appropria. Ben piùimportante è che ritrovi nel De anima l’ispirazione di fondo dell’an-damento di questi paragrafi: la negatività dello spirito, per cui ogniforma finita diventa materia per la forma superiore di considerazio-ne della realtà; la concezione dell’io come potenza formata o e{ xi~ ,che conserva e idealizza nella memoria l’oggettività, garantendo lacontinuità delle esperienze; l’intelletto che tematizza le forme infe-

riori del conoscere, e in ciò conosce se stesso; infine, l’unità di volon-tà e ragione.Per venire ora al problema che ci interessa, il principio aristotelico

per cui ogni forma del conoscere è materia per una forma superiore fasì che nella filosofia dello spirito teoretico l’immaginazione sia conce-pita come un risultato ed altresì come un successivo inizio nel pro-gresso delle forme soggettive, generantisi l’una dall’altra. Inoltre ladescrizione di molti lati della funzione dell’immaginazione — che per

Kant sarebbero empirici, non trascendentali —, dalla ‘sedimentazione’delle immagini nella memoria, che è una potenza formata, alla possi-

 bilità del loro richiamo arbitrario, si possono idealmente ricondurread Aristotele. Analogamente, è grazie alla concezione dello spirito comee{ xi~ che è possibile l’interiorizzazione o Er-innerung hegeliana: cioèsolo perché il mondo vale per lo spirito come negato e tolto nella me-moria, lo spirito può avere una vita ideale in cui ripercorrere i propristadi inferiori come tolti, in cui recuperare, e trasformare, la tradizio-ne appropriandosi della sua natura inorganica — può cioè avere un

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281A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

linguaggio, una storia, un’oggettività per sé, un’autocoscienza stori-

ca.ll principio che Hegel ritrova, e si può discutere quanto a ragio-

ne, in Aristotele, e che fa valere contro Kant, è quello per cui per l’in-telligenza intuizione e concetto non sono più due forme date ab initiocome separate, ma si definiscono come i due poli della datità e dellacostituzione, della recettività apparente e dell’attività, nell’ambito delmovimento immanente del pensiero. Ma proprio questo principiomostra come Hegel si distacchi da Aristotele e concepisca la filosofiadella soggettività come il superamento tanto di Aristotele quanto diKant (e di Fichte). E questo anche se dalle sue parole sembrerebbe chesi limitasse a riportare in vita il De anima.

Questo mi pare palese se consideriamo che il fondamentalecriterio di significato in questi paragrafi è il rapporto tra interno edesterno , e l’esito ne è la compiuta ragione che ha lo spirito sull’este-riorità. Il quadro in cui dobbiamo comprendere queste pagine, in-

somma, non è semplicemente né il rapporto tra concetti ed intuizio-ni, né quello tra sensazione e intelletto attivo, bensì il passaggio dal-la datità alla costituzione, da un tempo e spazio esteriori, in cui dap-prima si trova la cosa, al tempo e spazio dello spirito, assoluta nor-ma della cosa (17).

(17) Spesso, quando Hegel vuole introdurre un concetto importante, esordisce,o sottolinea quanto argomenta, con un gioco di parole. Nell’idealizzazione, “dasSeiende” diventa “das Seinige” (= dello spirito), o “das Ihrige” (= dell’intelligenza):il passivo è reso un proprio. Questo si ritrova tanto nei paragrafi dell ’Enciclopediadel 1827 e 1830 (§§ 451-454; cfr. anche Jenaer Systementwürfe III , in Gesammelte Werke,Bd. 8, hrsg. v. R.P. Horstmann u. Mit. v. J.H. Trede, Hamburg 1971, p. 188: “desMeinen”), quanto nelle Lezioni sulla sensazione in Aristotele (Vorlesungen über dieGeschichte der Philosophie , II , in Werke in 20 Bänden, Red. v. E. Moldenhauer u. K.M.Michel, Frankfurt a. M. 1969-71, Bd. 19, p. 207; cfr. anche l’Enciclopedia del 1817, §370). Qui leggiamo l’idealismo della sensazione com’è esposta da Aristotele descrit-to e interpretato in linguaggio tutto kantiano: «l’attività nella recettività, la sponta-neità che toglie la passività nella sensazione». Così il principio idealistico della sen-sazione in atto, secondo cui senziente e sentito sono uno, diventa il principio ulte-

riore — non certo contenuto in quello — dell’autodeterminazione dello spirito cheha per oggetto la propria passività.

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282 HEGEL E ARISTOTELE

Solo così si capisce, ad esempio, come si possa generare l’univer-

salità per l’intelligenza secondo Hegel. Questo è un problema su cuiHegel può dare adito a numerosi fraintendimenti. Ritengo però che,se avremo la pazienza di seguirlo, avremo anche stabilito un puntofermo per rivolgerci poi di nuovo ai modelli kantiani ed aristotelici.Dal 1805 al 1830 non cambia, nell’ambito della rappresentazione, l’or-dine della serie Er-innerung , Einbildungskraft , Gedächtnis. Questi trestadi — l’interiorizzazione che è al contempo il ricordo; la capacità

di raffigurazione;

la memoria già apparentata al pensiero—

corri-spondono, direi, alla idealizzazione, alla libertà ed autonomia sog-gettiva dei collegamenti, e alla ritenzione della connessione arbitra-ria di segni. Il passaggio è, come dicevo, dal tempo e spazio esterio-ri, in cui si trova dapprima la cosa che consideriarno, al tempo espazio dello spirito, che alla fine si muove liberamente nelle creazio-ni arbitrarie della sua intelligenza — simboli, segni, linguaggio, finoal pensiero libero. Il criterio è quello dell’appropriazione o assunzio-

ne in sé, da parte dell’intelligenza, di contenuti dati. L’oggetto è trova-to nelle «forme universali dell’intuire» che sono spazio e tempo (18).Ma l’intuizione di un esterno, discriminata da un atto di attenzione,cioè assunta come oggetto discreto di considerazione, diventa per ilsoggetto; in tal modo quest’ultimo «si raccoglie dal suo essere ester-no, si riflette in sé e si stacca dall’oggettività, in quanto trasformasoggettivamente l’intuizione in immagine» (19). L’intuizione trasferi-

(18) Philosophische Enzyklopädie für die Oberklasse (1808 ff.), in Werke in 20Bänden, cit., Bd. 4, p. 44, § 136; tr. it. a cura di G. RADETTI,  Propedeutica filosofica,Firenze 1951, 1977, p. 215.

(19) Ibid. § 139. Nelle significative parole della Filosofia dello spirito del 1805/06: l’oggetto «ha ottenuto la forma la determinazione di essere mio». Quando vieneintuìto di nuovo non ha più il significato «dell ’essere, bensì del mio: esso mi è giànoto ovvero io mi ricordo di esso, o anche io ho in esso immediatamente la coscienzadi me». Così aggiungo all’oggetto questo esser-per-me, sicché «ciò che mi sta dinanzi èla sintesi di entrambi, contenuto ed io »; ma in tal modo «non è avvenuta soltanto una

sintesi, bensì è stato tolto l’essere dell’oggetto (...) l’oggetto non è ciò che esso è»(Gesammelte Werke, Bd. 8, cit., p. 188, tr. cit., p. 72).

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283A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

ta nell’io diventa tolta, e da intuizione che era diventa rappresenta-

zione universale.Anzitutto è opportuno ricordare che Hegel distingue l’univer-

salità, tipica dell’idealizzazione o dell’assunzione nell’intelligenza,dalla necessità, che solo il pensiero può offrire. Ma come può Hegelparlare di universalità e farla valere contro le associazioni empiriche,o contro le obiezioni scettiche sulla mera soggettività di taleidealizzazione? Non sembra questa psicologia empirica? Al contra-

rio,qui Hegel abbandona il registro della descrizione fenomenologicaper riflettere sulla condizione di possibilità dell’universalizzazione.

Per spiegare meglio questo punto, penso ci possa tornare utileun confronto incrociato con Aristotele e Kant. Nell’idea che una im-magine, tolta alla sua esteriorità e assunta come rappresentazione per-manente, funga poi da regola generale — o forza attrattiva — per larelazione associativa empirica di immagini (Enc. 1830, § 455 n.), Hegelpare ricalcare la posizione kantiana, e accantonare decisamente il

modello dell’ ejpagwghv aristotelica. Vi ricordate alla fine degli AnaliticiPosteriori quella bella, ancorché vaga, immagine secondo cui l’univer-sale si forma in noi — anzi si acquieta nella nostra anima ( hJremhvsanto~dice Aristotele a B 19, 100 a 6) —, come un esercito in fuga di cui siarresti improvvisamente prima un elemento, poi un altro, etc., finchénon abbiamo restaurato un ordine? In questa immagine, così comenel detto ripreso nell’Etica Nicomachea, a proposito delle disposizioni,per cui una rondine non fa primavera, essenziale è la ripetizione, o la

cumulatività. Addirittura nel De Memoria leggiamo che «la ripetizionegenera la natura» (2, 452 a 30). Hegel, allora, abbandona il modellodell’ejpagwghv aristotelica quando scrive che «l’immagine non diventarappresentazione universale perché l’intuizione viene ripetuta piùspesso» (20), ma per il semplice fatto di venir assunta nell’io. Dettodiversamente, l’io equivale qui alla notte dell’autocoscienza, al pen-

(20

) Philosophische Enzyklopädie für die Oberklasse (1808 ff.), cit, p. 46, 144; tr. it.cit., Propedeutica, pp. 217-18.

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284 HEGEL E ARISTOTELE

siero, tanto che Hegel può dire che la singola intuizione viene sussunta

nell’io come un particolare ad un universale (salvo poi ritrovare anchein Aristotele, del tutto arbitrariamente, la stessa concezione dell’io comeuniversalità). Appunto perché non concepiva l’io come universale con-creto e attivo, Aristotele non poteva poi superare quella che, dal pun-to di vista hegeliano, era la scissione tra ripetizione, rafforzamentodella memoria — l’ejpagwghv come, letteralmente, il “condurre verso”l’universale, o l’uno oltre i molti —, e, dall’altro lato, l’ejpisthvmh e

l’intellezione degli indivisibili discreti del

nou~).Ma questa sussunzione è possibile solo perché Hegel sottoli-

nea la necessità di una condizione già rilevata da Kant, anzi da que-sti posta al centro della deduzione trascendentale della prima edi-zione della Critica. Kant obiettava alla psicologia empirica, ma piùprecisamente a Hume, che pur ne era stato il critico più intelligente,che lo stesso associazionismo tra rappresentazioni, in cui da Locke aHume si tendeva a risolvere la riflessione dell’intelletto come attivi-

tà sbiadita e derivata rispetto alle idee del senso, presupponeva unordine e una legalità che potevano esser garantite solo dal concettointeso come legge. In un flusso di rappresentazioni, infatti, non sareineppure in grado di associare una cosa ad un’altra se non possedessiapriori il principio di una loro identità specifica, e in seconda istanzanumerica. L’io non sarebbe neppure un fascio di rappresentazionima un Gewühl, un caos indeterminato o una pluralità assoluta dirappresentazioni tutte diverse le une dalle altre — anzi, di cui sareb-

 be contraddittorio fin parlarne come di rappresentazioni diverse —,se un concetto non presiedesse al loro collegamento, così come allavoro dell’immaginazione. È nello stesso senso che Hegel può con-cludere che l’immagine viene liberata dalla sua immediatezza e fattavalere di contro ad ogni ulteriore intuizione ed immagine come larappresentazione universale e permanente.

In questo, tuttavia, si celano due ambiguità. In primo luogo, visono due accezioni in cui si può prendere l’immagine. Da un lato, l’im-magine è la rappresentazione universale permanente che funziona da

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285A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

pietra di paragone per confrontare, sussumere, correggere intuizioni

presenti; dall’altro, immagini presenti occasionate da percezioni o fan-tasie puntuali sembrano sovrapporsi all’immagine consolidata comerappresentazione. Allora è problematico intendere quanto la primaimmagine sia un alcunché di fisso e permanente, o quanto invece siacontinuamente sfumata, corretta, ridefinita ad ogni nuovo incontrocon dati non ancora assimilati. Questo, in effetti, sembra un problemapresente a Hegel, che però non ci dà nessun lume ulteriore. Nell’Enci-

clopedia della Propedeutica (§ 145) scrive: «Nel ricordo la rappresenta-zione dell’intuizione passata e l’attuale si identificano immediatamente.Io non ho davanti a me due realtà, l’intuizione e la rappresentazione,ma soltanto poiché l’ho avuta, poiché essa è già la mia, in quanto hodavanti a me la rappresentazione come diversa dall’intuizione, questaè l’immaginazione. In tal modo però intuizione e rappresentazionepossono essere anche del tutto diverse».

Questo passo naturalmente non ci aiuta, perché enuncia, sen-

za commentarlo oltre, un contrasto — due diverse possibilità nellarelazione tra rappresentazione e intuizione —, che lascia perdipiùinspiegato. E che pertanto non possiamo risolvere noi. Esso ci con-sente, tuttavia, di venire alla seconda ambiguità. Si è visto che, tolteal loro spazio e tempo esteriori, interiorizzate, le intuizioni acquista-no idealità: ossia conservazione nella memoria, durata. Se l’immagi-ne viene fatta valere di contro a successive immagini e intuizioni,dobbiamo chiederci se è il pensiero o l’immaginazione a tener fermo

all’immagine originaria. A quanto pare di capire, sembra si tratti dellafunzione dell’immaginazione. Il fatto però è che questa è una do-manda che avrebbe senso porre per Aristotele o per Kant, non perHegel: per lui l’immaginazione è un’attività, e sta verso il pensierocome un suo stadio inferiore, ma pur compreso sotto di esso, allastregua di un suo modo provvisorio o unilaterale (21). In ogni caso, mi

(21

) «Nell’intuire lo spirito è l’immagine» (Filosofia dello spirito 1805/06, inGesammelte Werke, Bd. 8, cit., p. 186, tr. cit., p. 70, corsivo parzialmente mio).

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286 HEGEL E ARISTOTELE

sembra che dovremmo concluderne che abbiamo due funzioni di-

verse dell’immaginazione, che Hegel non distingue esplicitamente:la produzione dell’immagine, e la capacità di variare, sulla base del-la rappresentazione, modi e contorni dei contenuti intuìti. In questomodo la prima immagine, la rappresentazione, funge da norma del-la variazione sulle immagini ulteriori, che diventano, da singolaritàdate, esistenze ideali. Nei termini dell’Enciclopedia del 1817, l’imma-gine tenuta ferma come rappresentazione è la potenza negativa con

cui verrebbe smussato o levigato l’un contro l

’altro il disuguale delleimmagini simili (§ 376).

In questo confronto, Hegel sembra pensare al tempo come fun-zione essenziale dell’immaginazione. Hegel non solo pone l’imma-ginazione tra ricordo-interiorizzazione e memoria, ma pensa insie-me ricordo e immaginazione come termini correlativi. Qui però nonc’entrano né il rapporto kantiano tra schemi e senso interno, nél’autoaffezione del tempo heideggeriana: il tempo ha a che fare sol-

tanto con il rapporto tra un ideale ed una singolarità intuìta. Ma èlegittimo trattare questo rapporto come quello tra un passato ed unpresente? Empiricamente, è certo così che avviene (22); ma in sede di

(22) In questo senso, nello Zusatz al § 454 dell’Enciclopedia di Berlino, Hegeldice che, per conservare vividamente nel ricordo una cosa, devo ripeterne l’intui-zione; nel ripetuto richiamo di un’immagine, questa acquista tale vivacità e attuali-tà che per ricordare non è più necessaria l’intuizione esterna. «In questo modo i

 bambini passano dall’intuizione al ricordo. E più un uomo è cólto, e più vive — intutte le sue intuizioni — non tanto nell’intuizione immediata, quanto in ricordi,sicché vede poco di assolutamente nuovo, il contenuto sostanziale di ciò che è nuo-vo gli è piuttosto qualcosa di già noto». Nel prosieguo, ciò è opposto alla curiositàdi chi corre dietro ad ogni novità. Poiché tra cultura ed anzianità Hegel vede unaconnessione stretta (cfr. ivi, § 396), è quindi nello stesso senso che va letta l’aggiuntaal § 396: l’anziano non ha interessi perché non nutre speranze nel futuro, e perchéritiene di conoscere l’essenziale. Sicché «si rivolge all’universale e al passato» e «viveil sostanziale nel ricordo», ma così facendo «perde la memoria per il singolare el’arbitrario nel presente, ad esempio per i nomi, mentre viceversa tien ben fermi nelsuo spirito i saggi ammaestramenti dell’esperienza e si ritiene in dovere di fare pre-

diche ai più giovani». Qui si tratta della memoria per il significato e l’insegnamentopratico dell’esperienza, non della memoria meccanica come l’esistenza oggettiva

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287A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

analisi teorica una conclusione in tal senso sarebbe viziata da un er-

rore. Se per l’idealizzazione abbiamo ovviarnente bisogno di un priuscronologico, questo non significa che ciò equivalga ad un più gene-rale predominio del passato, immutabile, normativo e prioritario ri-spetto ad ogni esperienza presente (e ad ogni proiezione futura). Fossesolo che altrimenti Hegel avrebbe seri problemi nella connessionetra questi paragrafi e la comprensione dell’esperienza soggettiva dellastoria, della vita individuale e collettiva, dovremmo vincere ogni

imbarazzo e commisurare in Hegel postulati e argomentazione con-creta, per concluderne che qualcosa qui non funziona. In realtà, an-che logicamente non può essere così. Infatti, se, interiorizzata, l’in-tuizione o «immagine fuggevole» (Enc. Berlino, § 453) viene toltadal suo spazio e tempo e inserita nello spazio e tempo dello spirito,nel «quando e dove di essa» (ibid.), che rapporto si instaurerebbe traspazio e tempo esterni e spazio e tempo ideali? L’unico modo possi-

 bile di concepire la soggettività come un “passato” di fronte ad un

multiforme presente, il contenuto sempre nuovo che costituiscel’inesauribilità dell’esperienza soggettiva e storica, è quello di deter-minarla come l’essenza della Logica: un intemporale esser stato, unpassato senza tempo, la dimensione del mondo dello spirito che nonpuò essere sullo stesso piano della temporalità dell’esistenza singo-lare data. Insomma, il rapporto tra immagine in quanto rappresen-tazione e immagine in quanto intuizione presente non può configu-rarsi per Hegel come quello tra un passato e un presente come di-

mensioni dell’esteriorità, ma va inteso come la relazione tra un idea-

del pensiero irriflesso di cui Hegel tratta nel § 464; perciò non è da scorgere uncontrasto tra l’aggiunta appena citata e il seguente passo, anch’esso sulla connessio-ne tra interiorizzazione ed età, tra peso del passato e presente: «Non a caso i giovanihanno miglior memoria dei vecchi, e la loro memoria non viene esercitata solamen-te per fini d’utilità; ma essi hanno buona memoria perché non si comportano ancorain modo riflessivo, e la loro memoria si esercita, intenzionalmente o no, per spiana-re il terreno della loro interiorità, facendone l’essere puro, lo spazio puro, nel quale

la cosa (...) si può mantenere ed esplicare. Un ingegno solido suole essere congiuntocon una buona memoria in gioventù» (tr. it. Croce, ad loc.).

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288 HEGEL E ARISTOTELE

le e una sua variazione intuitiva, tra un universale e la sussunzione di

una singolarità sotto di esso.Con ciò, naturalmente, non è detto ancor nulla di risolutivo

sul vero rapporto tra spazio e tempo esteriori e idealità, o spazio etempo spirituali. Ma è stabilito che si è così attuato il passaggio dallapassività alla libertà della connessione; le intuizioni non sono piùdate, ma vengono collegate arbitrariamente e liberamente dall’intel-ligenza. Dal primato della vista, e comunque dall’imprescindibilitàdei sensi esterni, siamo giunti così alla loro subordinazione all’idealità— alla virtuale liberazione dell’immaginazione da essi. Ma tale libe-razione non va intesa in senso spiritualista; è una liberazione, anco-ra una volta, dalla loro finitezza, ossia dal loro venir considerati soloin quanto finestra su un mondo dapprima trovato: è un’appropriazionedei sensi. Con il passaggio alla libertà delle connessioni e alla produ-zione di segni, i sensi, così come lo spazio e il tempo, sono sensi alservizio dell’idealità e dell’attività dello spirito consapevole di sé.Sono funzionali al nostro rapporto con l’esistenza esteriore che lospirito si dà; ad esempio sono la vista e l’udito nella misura in cuisono in rapporto con il linguaggio. Parallelamente, mutano la lororilevanza e il loro valore di posizione gerarchico. ln quanto è media-ta dall’immaginazione produttiva e fatta segno, l’intuizione sensibi-le è solo in quanto è tolta: ossia, perde connotazioni spaziali per farsiesistenza temporale, suono dileguante, parola (cioè «uno spariredell’esistenza mentre è», quindi «una seconda esistenza, più alta diquella immediata», Enc. 1830, § 459). Così l’immaginazione produt-tiva — a differenza di Leibniz, per cui era ancora una produzionecaratteristica di geroglifici per gli occhi (e il calcolo non si fa senzavisione di segni) —, in Hegel depone ogni priorità della vista persubordinare a sé il senso dell’idealità, l’oralità, e farsi intelligenzamanifesta nel tempo — in un medio esso stesso dileguante.

Ma, prima di arrivare all’immaginazione produttiva, restiamosulla questione dell’immaginazione come idealizzazione. Mi sem-

 bra che, all’interno dell’orizzonte razionale della Psicologia, nell’ana-lisi hegeliana la dimensione del trovare rivesta un interesse del tutto

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289A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

secondario rispetto a quello del porre o (ri)costituire. Tenendo pre-

sente questo, possiamo capire meglio perché le ambiguità che primasegnalavo sono estranee alle preoccupazioni di Hegel. Come primala questione dell’attività dell’immaginazione in rapporto a quella delpensiero, anch’esse sono pertinenti riguardo ad Aristotele o a Kant;ad esempio, una delle due funzioni dell’immaginazione, quella delformare immagini, o venirne impressi in seguito alla sensazione —centrale in Aristotele e comunque essenziale in Kant —, apparente-mente non è neppure riconosciuta da Hegel come tale. A ben vede-re, si tratta di una funzione assegnata specificamente all’Er-innerung,che pone in sé un contenuto come non-essente o tolto (23). Tuttavia,qui rimane oscuro come e perché si passi da un’intuizione ad un’im-magine. In altre parole, manca l’analogo di quello che in Aristoteleera il punto principale, una teoria della traccia o dell’impronta delsigillo sulla cera; manca cioè qualunque discussione sulla genesi delleimmagini prima del rilievo della libertà dell’io, dell’intelligenza che«è il potere sulla massa di immagini e rappresentazioni che le appar-tengono» (Enc. 1830, § 456). E ciò mostra che Hegel pensa l’immagi-nazione — il fulcro e punto mediano dello spirito teoretico, così comeogni altro momento di questo — all’interno dell’esclusivo contrastotra intelligenza immediata e intelligenza presso di sé, e che quel chegli preme mostrare è solo il passaggio dalla prima alla seconda, os-sia l’idealismo della conoscenza.

Analogamente, il problema per cui anche la variazione intui-tiva, la sussunzione, è un’idealizzazione — cioè la rappresentazioneuniversale è confrontata attivamente e continuamente con intuizioni,il mio con l’essente — non trova spazio in Hegel. Hegel non fa cheopporre attività e passività, l’idealizzazione al trovare un esterno comedato. Paradossalmente, quindi, la funzione della variazione eideticain Husserl (o in Sartre), con cui la nostra immaginazione irrealizza un

(23) Cfr. Enc. 1830, e la Filosofia dello spirito 1805/06 (cit., p. 186, tr. cit., p. 70),

dove l’interiorizzazione-ricordo e la trasformazione del dato in immagine è funzio-ne dell’immagine rappresentatrice.

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290 HEGEL E ARISTOTELE

fatto per pensarlo come mero esempio di una pura possibilità di per-

cezione e ci permette di descriverne l’essenza, è una sintesi (perantonomasia attiva nell’accezione idealista), mentre Hegel pensa lavariazione sotto l’egida della passività, della finitezza. La finitezza deltrovare un contenuto, come momento che lo spirito ha in sé prima diconoscere speculativamente.

Tutto questo ci serve a capire alcune cose importanti. Anzitut-to, al contrario che per Kant, per Hegel l’immaginazione è dapprimariproduttiva, e solo poi produttiva. Ma se in ciò Hegel sembra, alme-no formalmente, riprendere Aristotele, va rilevato che nella ripro-duzione si dispiega l’arbitrio e l’indipendenza dell’intelligenza dalleintuizioni esterne presenti, sicché la riproduzione equivale al «venir

 fuori delle immagini dalla propria interiorità dell’io; il quale ormai èla potenza dominatrice di esse» (Enc. 1830, § 455). Ciò si opponetanto alla fantasiva di Aristotele (anche se, certo, non altrettanto allaajnavmnhsi~ ) quanto all’accezione kantiana, cosicché tale libertà nomi-nalmente dovrebbe, ma sostanzialmente non può, corrispondere al-l’associazione empirica che in Kant definiva il momento riproduttivo.Per immaginazione produttiva, poi, Hegel intende una creazione disegni (la Zeichen machende Phantasie), non un influsso schematico dell’in-telletto sull’intuizione dello spazio e del tempo.

Con questo momento produttivo dell’immaginazione varchia-mo il punto critico dell’esposizione hegeliana. Se finora abbiamo as-sistito ad una progressione nell’idealizzazione, ora viceversa l’im-maginazione si fa essere («fa del contenuto interno immagine e in-tuizione», Enc. 1830, § 457 n.). Traspone il proprio contenuto in segniintuitivi, si dà un esser figurato (ein bildliches Dasein); ossia, pone leproprie rappresentazioni universali come identiche al particolare fi-gurato del simbolo, del segno e del linguaggio. Se prima passavamodal particolare esterno all’universale dell’immaginazione, l’immagi-nazione ora presiede anche alla ritrasformazione dell’universale inesistenza particolare. Solo che ora tale particolare diventa l’esternoche l’intelligenza si dà per intuirsi oggettivamente, e con cui acquisi-sce esistenza storica.

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291A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

Se Kant si sforzava, in polemica con l’uso nella scuola leibniziana

— e per salvaguardare l’autonomia del momento schematico dell’im-maginazione, chiave di volta dell’Analitica dei principi — di distin-guere accuratamente usi empirici, ipotiposi schematiche, caratteristi-che o simboliche ed essenza trascendentale dell’immaginazione pro-duttiva, per Hegel non c’è eterogeneità tra tali momenti. Anzi, pro-prio perché l’immaginazione è tanto idealizzazione che estrinsecazione,può poi togliere ogni riferimento ad immagini e diventare memoria,

vincolo inavvertito tra segni soltanto (Enc. 1830,

§ 458 n. e § 459)—

laddove per Aristotele immaginazione e memoria avevano a che faresolo con immagini.

Un’altra cosa che tutto questo ci fa capire è perché non è il lin-guaggio in quanto tale, una struttura dotata di leggi proprie e vitaautonoma esterna alla coscienza che se lo trova opposto come un al-tro, a trasformare l’immediato in universale, come sembrerebbe daquanto Hegel dice sulla Certezza sensibile. L’immediato è già l’uni-

versale perché ogni immediato è in realtà mediato dal suo essere pernoi, quindi dal pensiero — e il linguaggio è appunto il prodotto delpensiero, che solo alla coscienza naturale può apparire dapprima comeun opposto.

In conclusione, solo perché l’io è l’in sé dell’altro, la potenzadel collegamento, l’uno dei molti, e, specificamente in questi para-grafi, la Macht o forza attrattiva delle immagini (Enc. 1830, §§ 454 e455), può essere quello che Hegel chiama la libera negatività del sé:

la potenza di avere un oggetto da cui può astrarre e, distinguendo-sene, riconoscere se stesso come identità e condizione di possibilitàdella tematizzazione di oggetti diversi nella continuità di un saperee di un’esperienza. Con il ricordo, immagine interiorizzata, si com-prende l’intuizione riconoscendola come ciò che già appartiene al-l’intelligenza in quanto rappresentazione permanente: se lo spiritonell’intuire conosceva l’intuìto, ora conosce sé nell’intuìto. E il sensodi tutto questo è la scoperta dell’autocoscienza dello spirito comeverità dell’immaginazione e della rappresentazione. In questa rico-

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292 HEGEL E ARISTOTELE

struzione, per usare l’immagine che Hegel enuncia a proposito di

Aristotele, l’empirico è lo speculativo appunto perché il momentoattivo dell’immaginazione (nel senso, non kantiano, del conferimentodi cittadinanza ideale al sensibile) è già inerente all’assunzione del-l’intuizione nell’io.

L’immaginazione — così come del resto la memoria — non è, co-me in Aristotele, un’affezione del senso comune, un residuo della sen-sazione. È piuttosto — in quanto rappresentazione, pensare ancora

formale,

ed infine e soprattutto (intesa come Phantasie in stretta con-nessione con la memoria semiotica) in quanto schematismo linguisti-co, giusta un’espressione del primo Fichte (24) — l’immediato presup-posto soggettivo del pensiero puro. E, anziché essere autoaffezionecome in Kant, l’effetto dell’intelletto sull’intuizione spazio-temporale,è momento essenziale dell’autodeterminazione e della finitizzazionedel pensiero in noi.

4. Conclusione — Cerchiamo di tirare le fila di questo lungo discorso.Per Hegel c’è un primo in sè — il concetto, l’assoluto, l’autocoscienzadivina — ed un primo per noi: prima di pensare puramente, noi ciformiamo sentimenti, immagini, desideri delle cose, e solo successi-vamente ci eleviamo al loro concetto. Ma se queste forme inferiori ditematizzazione dell’oggettività restassero escluse dal sapere, se nonne venisse tolto e inverato il contenuto nel pensare, avremmo una scis-

sione non dialettica tra empiria e speculazione: antropologia e psico-logia si opporrebbero estrinsecamente al concetto, mentre invece ilvero è dapprima per noi come rappresentazione. Se il compito siste-matico è quello di mostrare ogni forma nella sua verità, nel concetto,ciò significa appunto mostrarla come il momento provvisorio e finitodell’automanifestazione dello spirito.

(24

) Von der Sprachfähigkeit und dem Ursprung der Sprache (1795), in FichtesWerke, hrsg. v. I.H. Fichte, Berlin, De Gruyter 1971, Bd. 8, p. 322.

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293A. FERRARIN - Riproduzione di forme e esibizione di concetti

In questo compito — e nella parallela trasformazione del rap-

porto aristotelico novmo~-fuvsi~  —, Hegel presuppone come acquisitala deduzione trascendentale kantiana. Questo non viene in piena lucenel mio libro: il fatto che, nonostante tutte le critiche hegeliane aiParalogismi e alla circolarità dell’io, per tacere delle altre criticheanche più importanti ma secondarie in questo contesto, le forme delconoscere e del volere vanno comprese e ascritte all’unità sinteticaoriginaria dell’appercezione intesa come autocoscienza assoluta o

ragione infinita. Solo così—

se il criticismo non viene interpretatocome un guanciale per la pigrizia del pensare ma come un necessa-rio punto di svolta, unilaterale ma irreversibile —, si può poi com-prendere come Hegel interpreti il rapporto tra nou~ divino e intellet-to umano come la concretizzazione dell’universale, come l’attiva pre-senza dell’infinito nel finito. Non fosse così, l’empirico sarebbe solol’empirico, non sarebbe mai lo speculativo.

Ma se questo è vero, va anche ricordato che è proprio contro la

distinzione kantiana tra puro ed empirico, assunta e fatta valere preli-minarmente, che il discorso hegeliano si rivolge. Soprattutto nella fi-losofia dello spirito soggettivo. Allora concetto e rappresentazione,sapere puro ed empirico, trascendentale e psicologico non sono ambi-ti difformi, ma l’uno è la concretizzazione dell’altro. È così che Hegelinverte curiosamente il concetto kantiano di Darstellung des Begriffs,esibizione del concetto: spazio e tempo non sono più le forme dellanostra intuizione, ma il Dasein, l’esistenza, del concetto. Sicché non

sono io ad esibire il concetto nell’intuizione, come nella costruzionematematica di cui parlava Kant nella Disciplina della Dottrina delmetodo; ma è il concetto che assume forma finita nell’esistenza fuoridi sé della natura, o nei soggetti empirici finiti del conoscere e dell’agi-re.

Così l’empirico è lo speculativo, e la fenomenicità viene salva-ta come essa stessa l’essere. Per citare un luogo del Vangelo secondoGiovanni, che potrebbe ben figurare come motto dell’intero pensie-ro di Hegel: oJ lovgo~ savrx ejgevneto, il logos si è fatto carne.

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CARMELINOMEAZZA

ARISTOTELE TRA HEGEL E HEIDEGGER:

TRACCE PER UNA RICOSTRUZIONE

1. — In un lungo saggio sul concetto aristotelico di physis Heideg-ger afferma: «la prima discussione tramandataci “pensata e coeren-te” — per il suo modo di domandare — sull’essenza della physis è

del periodo del compimento della filosofia greca» (1

).

(1) M. HEIDEGGER, Von Wesen und Begriff der physis , Aristoteles , Physik B, 1(1939), in Wegmarken , Gesamtausgabe , Bd. 9, V. Klostermann, Frankfurt a.M. 1976,d’ora innanzi HGA; (trad. it. Sull’ essenza e sul concetto della physis , Aristotele , Fisica ,B 1, in Segnavia , a cura di F.-N. von Herrmann. Ed. it. a cura di F. Volpi, AdelphiEdizioni, Milano, p. 196, d’ora innanzi SV).

Si vedano per una ricostruzione complessiva i corsi su PhänomenologischeInterpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung (1921/ 22) , vol. 61 della Gesamtausgabe, hrsg. v. W. u. K. Bröcker, Klostermann, Frankfurt

a. M. 1985, trad. it. di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. In-troduzione alla ricerca fenomenologica , Guida, Napoli 1990, e Ontologie (Hermeneutikder Faktizität) (1923), vol. 63 della Gesamtausgabe, hrsg. v. K. Bröcker-Oltmanns,Klostermann, Frankfurt a.M. 1988, tr. it. di G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica dellaeffettività , Guida, Napoli 1992.

Rinviamo inoltre a M. HEIDEGGER,  Phänomenologische Interpretationen zuAristoteles , a cura di H.-U. Lessing, in «Dilthey-Jahrbuch», 6/1989, pp. 228-69, tr. it.di V. Cammarota e V. Vitiello,  Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele , in«Fenomenologia e teologia», VI, 1990, pp. 496-532.

Per il confronto di Heidegger con Aristotele la letteratura è già amplissima.

Rinviamo alle referenze per noi decisive: F. VOLPI,

  Heidegger e Aristotele ,

Daphne, Padova 1984; Heidegger e la storia del pensiero greco: figure e problemi del cor-

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296 HEGEL E ARISTOTELE

so del semestre estivo 1926 sui «Concetti fondamentali della filosofia antica» , «Itinerari»,pp. 227-268; G. MORETTI,  Tecnica e filosofia della natura. Il pensiero della «Physis» in

 Martin Heidegger ,  in AA.VV.,  Memorie della tecnica , a cura di G. Manzi, Cadmo,

Roma, pp. 53-81; C. SINI, Il naturalismo , in AA.VV., L’ idea di natura , a cura dell’Enci-clopedia Italiana, in «Studium», nn. 4-5, Roma 1987; J. TAMINIAUX,  «Poesis» et«Praxis» dans l’ articulation de l’ ontologie fondamentale in Heidegger et l’ idée de la

 phénoménologie , in Phenomenologica 108 , Dordrecht 1988, pp. 107-125; particolar-mente rilevante la ricostruzione delle influenze di Aristotele in alcune categorie diEssere e Tempo.

Più in particolare in relazione al nostro approccio: cfr. E. CALETTI, Bewegtheitund Rückkehr , Rheinfelden 1987. Vedi tra gli altri contributi di F. CHIEREGHIN: Physise Ethos , La fenomenologia dell’ agire in Heidegger ,  in «Archivio di Filosofia», LVII,1989, n. 1-3, pp. 445-463.

Per quanto riguarda, in Aristotele, le “oscillazioni metaforiche” del concet-to di logos come disvelamento e logos come “notificazione vocale” cfr. A. CAZZULLO,

La verità della parola. Ricerca sui fondamenti filosofici della metafora in Aristotele e neicontemporanei ,  Jaca Book , Milano 1987.

Dello stesso Autore cfr. Il concetto e l’ esperienza. Aristotele , Cassirer , Heideggere Ricoeur ,  Jaca Book , Milano 1988.

(2) M. HEIDEGGER, Sull’ essenza e sul concetto della physis ..., cit. p. 193.

(3) Ivi, p. 196.

Più avanti, proseguendo, attribuisce alla tradizione post-

aristotelica e in particolare alla scolastica un progressivo occulta-mento, «un mancato riconoscimento dello stato di sospensione edi apertura, in cui Platone e Aristotele avevano lasciato i proble-mi centrali» (2).

Si tratta, allora — sostiene Heidegger — di recuperare quel-la sospensione e apertura che consentirebbero, ancora, di sentire ilrisuono del modo originariamente greco di pensare l’essenza del-

la  physis. Alla condizione,

naturalmente,

di liberarla da quellaprofonda rimozione a cui sarebbe stata sottoposta dalla tradizio-ne. Soprattutto nella Fisica aristotelica sarebbe possibile ritrovare— sostiene Heidegger — uno dei testi decisivi del pensiero greco:«La Fisica aristotelica è il libro fondamentale della filosofia occi-dentale, un libro occultato e quindi mai pensato sufficientementea fondo» (3).

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297C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

Heidegger prova a delimitare ciò che si presenta decisivo nel-

la definizione aristotelica di  physis. Qui deve esserci quell’aperturadella domanda che ancora prolungherebbe la tradizione antica. Ladefinizione che Aristotele dà della physis , secondo Heidegger, poneal centro la questione del movimento o della motilità: «L’ente cheproviene dalla physis , o tutto o una parte, è qualcosa di mosso (cioèdi determinato dalla motilità)» (4). Per la prima volta, il movimentonon è una cosa tra le altre, ma, come esser mosso , viene fatto diven-

tare il centro di una domanda che apre verso la comprensione es-senziale del concetto di physis.Heidegger, inoltre, sottolinea, a proposito dell’essenza della

 physis, il fatto che Aristotele, in modo inequivocabile, l’abbia postacome causa originaria. Ma con questa fondamentale avvertenza: cosìcome l’esser mosso o la motilità non deve essere inteso nell’accezio-ne ordinaria di semplice movimento, così la causa originaria nonha nulla a che fare con il concetto della ragione scientifica moderna

per la quale la causa è sempre qualcosa che produce causalmentedegli effetti.Così come essere nel movimento non vuole dire essere neces-

sariamente in movimento così essere causati non vuol dire avere lacausa come esterna a sé.

Aristotele, quindi, secondo Heidegger, ci conduce alla defini-zione essenziale di un ente che è in quanto ha il suo essere comesostegno per il suo esser posto o esser avviato. Appartenere alla

motilità pertanto vuole dire essere disposti nella motilità.Il problema di Heidegger che affronta Aristotele è, in sostan-

za, la questione del che cos’ è l’ ente in quanto ente. La risposta è chel’ente è un ente in quanto è disposto nel suo essere e avviato nelseno del suo essere. L’essenzialità di questo avvio è la motilità che aquesto punto diventa il carattere fondamentale dell’ente. Heideg-ger sollecita a non disperdere tra le convinzioni ereditate dalla cul-

(4) Ivi, p. 197.

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298 HEGEL E ARISTOTELE

tura scientifica moderna la visione essenziale che i Greci possede-

vano del movimento. Egli dice: «dobbiamo imparare a vederecome, per i Greci, il movimento, in quanto modalità dell’essere, hail carattere dell’arrivare a presentarsi» (5).

Heidegger vuole però precisare un punto molto importante,un punto che sembra portarlo in prossimità alla lettura hegelianadi Aristotele. Egli ci avverte che la disposizione che avvia la motili-tà di qualcosa che è mosso non resta al di fuori di ciò che è mosso.

Lo aveva già precisato nel distinguere la semplice causa dalla cau-sa essenziale. Qui però è ancora più preciso perché vuole renderepiù evidente che ciò che muove , ciò che avvia , si dispone nel dispostoe si annida conservandosi nel disposto. Ciò che muove, quindi, eciò che è mosso sono raccolti in questo modo nell’essenza del mo-vimento.

Per spiegare e inoltrarci meglio nella sua interpretazione diAristotele, Heidegger, ci conduce per una strada che, anche nella

sintassi concettuale (lo vedremo), sembra del tutto analoga conquella hegeliana.Dice Heidegger: «(...) ciò che è così determinato dalla physis ,

non solo nella sua motilità resta in esso stesso, ma, dispiegandosisecondo la sua motilità (il suo cambiare), ritorna proprio in essostesso» (6).

Aveva detto Hegel nel capitolo dedicato ad Aristotele nelleLezioni sulla storia della filosofia: «L’immoto che muove è l’idea che

rimane identica a se stessa, e che, mentre muove, rimane in rela-zione a se stessa» (7). Sembra di trovarsi sullo stesso piano.

(5) Ivi, p. 204.

(6) Ivi, p.

(7) G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia , trad. it. E. Codignola e G.Sanna, II, La Nuova Italia, Firenze 1930, 1981, p. 306. È noto come l’edizione italia-na di E. Codignola e G. Sanna abbia come testo di riferimento la seconda edizione

del Michelet (Berlino 1840/44). Le imprecisioni che contiene non sono,

nel nostrocaso, influenti.

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299C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

In Hegel l’idea giunge a se stessa nel suo compimento e il

suo compimento è originariamente il movimento del suo farsi.Il farsi nel movimento è movimento del concetto che si pone

in relazione al fine.Hegel ritiene che la filosofia del suo tempo abbia smarrito

proprio una delle principali acquisizione della filosofia aristoteli-ca e cioè l’idea che la natura proceda nel generare se stessa. E conquesto abbia smarrito l’idea aristotelica che l’organico sia il modo

di essere dell’

ente naturale. La natura della conformazione orga-nica è infatti quella di conservarsi e il conservarsi di qualcosa nelsuo movimento è la riflessione che compie in sé ogni ente natura-le. Tutto ciò perché la forma come scopo è la causa finale in vistadella quale tutto si muove e si conforma. Solo Kant, secondoHegel, ha avuto il merito di introdurre nella filosofia moderna ilconcetto di finalismo anche se in Kant ha soltanto «quella formasoggettiva, che in generale costituisce l’essenza della filosofia

kantiana quasi che la vita fosse determinata in questo dato modosoltanto mercé il nostro ragionare soggettivo; ma tuttavia essocontiene la perfetta verità, che la conformazione organica è quellache si conserva» (8).

Mentre Hegel, però, ritiene l’idea dell’organico come una ri-conquista di fronte al prevalere di una visione meccanicistica,

Per il ruolo di Aristotele nella storia e nella filosofia della storia di Hegel

almeno cfr. W. KERN,  Aristoteles in Hegels Philosophiegeschichte: Eine Antinomie ,  in«Scholastik», XXII, 3, 1957, pp. 321-46; K. DÜSING  Hegel und die Geschichte derPhilosophie , Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1983; Id., Lineamenti diontologia e teologia in Aristotele e Hegel , in «Il Pensiero», XXIII, 1982, pp. 5-32; tra glistudi in Italia cfr. L. SAMONÀ, Dialettica e Metafisica. Prospettiva su Hegel e Aristotele ,L’Epos, Palermo 1988, in partic. pp. 5-50; A. FERRARIN, Hegel interprete di Aristotele ,ETS, Pisa 1990.

Per il rapporto Heidegger-Hegel segnaliamo: V. VITIELLO,  Dialettica edermeneutica: Hegel e Heidegger ,  Guida, Napoli 1979; M. KNAUPP,  Gewissheit undGegenwart: das Selbstbegründungsproblem der Philosophie bei Hegel und Heidegger ,Kassel, Gesamthochsch. Diss. 1983.

(8) Ivi, p. 322.

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300 HEGEL E ARISTOTELE

Heidegger avverte: «Forse ci vorrà ancora molto tempo per ren-

derci conto che l’idea di “organismo” e di “organico” è un concet-to puramente moderno, meccanico-tecnico, per cui anche ciò checresce naturalmente da sé è interpretato come un artefatto che fase stesso» (9). Prima ancora Heidegger aveva affermato : «Eppuresi tenderebbe a cadere nell’opinione che l’ente determinato dalla

 physis sia ciò che si fa da sé» (10). Non è difficile scorgere una pre-sa di distanza radicale dalla lettura hegeliana. Per Heidegger,

dunque,

la  physis è certamente un restare in se stessa nella suamotilità e un dispiegarsi che ritorna in se stessa, tuttavia, questopermanere nel cambiamento non può essere letto come un’auto-produzione.

Nel momento in cui Heidegger procede tentando di mostra-re più da vicino il concetto greco-aristotelico di  physis incrociaseppure su un altro piano un’espressione di Hegel, che apparemolto ricca di indicazioni. Hegel aveva detto, sempre nelle Lezio-

ni: «E così nell’odierna filosofia della natura si adopera anchel’espressione sorgere» (11). Per Hegel non c’è niente di più lontanodal concetto aristotelico di natura,  sorgere per lui è sempre unsvolgersi scevro da pensiero.

Ebbene la traduzione di Heidegger di physis si avvicina pro-prio all’area semantica di sorgere , schiudersi anche se avverte: «nonsiamo in grado di conferire immediatamente a questa parolaquella pienezza e quella determinatezza che qui sarebbero neces-

sarie» (12).Il sorgere come un venire nella presenza dell’entità dell’ente,

come ousia, è per Heidegger il modo più adeguato di concepire lamotilità come essenza originaria dell’ente. L’ousia è physis in quan-

(9) M. HEIDEGGER, Segnavia , cit. p. 209.

(10) Ivi, p. 209.

(11) G.W.F. HEGEL, Lezioni ... , cit. p. 320.

(12) M. HEIDEGGER, Segnavia , p. 214.

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301C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

to essere dell’ente e più in particolare di un ente che fin dall’inizio

ha il carattere dell’ente in movimento.Per chiarire e giungere così più vicino alla natura di questo

concetto Heidegger ritiene che non solo si debba tener conto delpensiero autenticamente greco intorno all’eternità e alla tempora-lità della durata ma, soprattutto, per afferrare appieno l’essenzadell’ousia , occorra passare attraverso la contrapposizione tra svela-tezza e apparenza.

Addirittura dice Heidegger: «Da questo sapere dipende ingenerale la comprensione della concezione aristotelica della physis» (13). Evidentemente l’apparire di ciò che appare introduceper una via che si allontana dalla determinazione essenziale dellasvelatezza, la quale, — Heidegger lo ha già rilevato — è il modocon il quale il termine stesso physis può essere tradotto. Evidente-mente l’apparire introduce come un movimento di diaspora ri-spetto a ciò di cui si dice apparenza. Per una certa tradizione a cui

Aristotele si contrapporrebbe l’apparire è sempre legato all’appa-rire in una forma, nella costituzione di una forma. Ma tutto ciòche appare in una costituzione formale, in quanto tale, appartieneal mutamento e quindi si allontana dall’ente che non muta e nonmuta in quanto ente che perdura come semplice e puro essere.Aristotele si oppone a questa tradizione e vi si oppone perché al-lontana il concetto di forma da quello di semplice apparenza edeleva la forma a determinazione essenziale della  physis. Tuttavia

questa elevazione di rango della forma in cui è impegnato Aristo-tele non è semplice — avverte Heidegger — non è semplice pro-prio perché sono numerosi i fraintendimenti che ne ricoprono ilsenso autentico .

La forma non è semplice apparenza nel senso, ad esempio,

di Antifonte. Così pure occorre chiedersi se possa essere determi-nata a partire da quella distinzione dialettica che si è sempre più

(13) Ivi, p. 225.

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302 HEGEL E ARISTOTELE

imposta nel pensiero occidentale nella determinazione concettuale

di  forma e materia. Con questa distinzione e soprattutto attraversola traduzione operata dai Romani di u{lh e morϕhv in materia e for-ma. Se, in questo caso, si supera il pericolo di ridurre la forma asemplice apparenza (acquisizione di non poco conto) si rischiaperò di sfuggire all’autentica comprensione dell’essenza della for-ma. La traduzione di u{lh in materia indirizza verso la determina-zione della forma come attività che produce; materia infatti indica

una materia per il produrre. Tuttavia — avverte Heidegger —: «Mala morϕhv non significa “produzione”, ma al massimo “configurazio-ne”, e la configurazione è appunto la “forma” che viene data alla“materia” modellandola e plasmandola, cioè formandola» (14). Se-condo Heidegger dobbiamo lasciarci guidare dallo stesso Aristote-le il quale indicherebbe chiaramente che la morϕhv deve essere inte-sa a partire dall’ei\doı. L’ei\doı è ciò che si dà nella vista, cioè si offrenella presenza che si dà a vedere a partire da se medesima.

La  forma è in questo senso l’aspetto dell’ente, l’installarsi diun ente nell’aspetto di una veduta.È il modo attraverso il quale la forma può essere pensata

come essenziale alla  physis ,  come appartenente all’essenza della physis. Poiché era stato già chiarito che l’ousia è essenzialmenecompresa nella motilità, (è un venire nella presenza a partire dallamotilità) evidentemente la forma deve essere essenziale proprioper spiegare la motilità. Innanzi tutto, per Heidegger, occorre ri-

prendere la distinzione tra motilità e movimento; occorre nuova-mente ricordare che la motilità non è semplicemente un movi-mento inteso come uno spostamento di luogo e, in questo senso,

non è il contrario di quiete; è piuttosto l’essenza da cui sia la quie-te che il movimento sono determinati. Heidegger invita insommaa guardare alla motilità come il luogo essenziale nel quale il mo-vimento accade nella quiete o nella quiete può celarsi il movi-

(14) Ivi, p. 229.

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303C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

mento: «La motilità di un movimento consiste allora eminentemen-

te nel fatto che il movimento di ciò che è mosso si riprende nellasua fine, nel suo telos , e in quanto così ripreso nella fine si ha l’aver-si nella fine» (15). Il fine o la fine dunque è ciò a partire da cui sisvela l’essenza dell’ente come appartenente alla motilità. L’ente stanella motilità in quanto si apre a partire dalla sua fine, si manifestanella sua fine. Il fine dunque è il farsi aspetto dell’ente, il manifestar-si originario dell’ente, l’atto o la forma del suo svelarsi.

La forma è dunque il manifestarsi in un aspetto e non a casopoco più avanti Heidegger traduce energheia come stare in opera. Laforma e la fine si richiamano l’un l’altra, nel senso che il fine è ilmanifestarsi nell’aperto di una forma. La sua convinzione è che larimozione originaria del mondo greco si incominciò a compiere nelmomento in cui il concetto di energheia come svelamento divenneactus , agere e la dynamis semplicemente potenza. Del resto i dueconcetti sono intimamente correlati e l’occultamento dell’uno non

può portarsi dietro che l’occultamento dell’altro. Così come la tra-duzione dell’energheia in atto procede nella direzione di trasforma-re la forma in un motore interno dell’ente (come ha detto innanziHeidegger) riducendo la forma ad un’intima azione creativa del-l’entità dell’ente. Un trapasso che sposta il peso dell’essenza del-l’entità dell’ente sull’azione creativa della forma.

È come se la forma divenisse improvvisamente l’ essenza dell’ ente ,non più ciò che compie l’ essenza dell’ ente , la via in cui lo svelamento

dell’ ente giunge nell’ apertura di un aspetto , ma ciò che assume su di sé la generazione originaria dell’ essenzialità dell’ ente. La forma da via incui qualcosa raggiunge il suo compimento diventa la via in cui lacosa si produce. Heidegger avverte che per evitare tutto questooccorre mostrare attenzione a non tradire proprio ciò che nellatraduzione di forma in actus si rischia di far scomparire del tutto edi assorbire nel moto della sua essenzialità, cioè la dynamis.

(15) Ivi, p. 238.

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304 HEGEL E ARISTOTELE

«Dynamis l’abbiamo già tradotta con attitudine, con essere-

adatto-a..., solo che anche così persiste il pericolo che ancora non sipensi in modo abbastanza greco, e preferiamo evitare la fatica dichiarirci che l’attitudine a... è il modo di quel venire fuori nel-l’aspetto che ancora si tiene indietro e in sé, e nel quale si compiel’attitudine» (16).

Quello che è in gioco, evidentemente, su cui Heideggervuole insistere con particolare attenzione, è qualcosa di originario

che ancora in Aristotele non sarebbe stato occultato. Ebbene sevolessimo tradurre in estrema sintesi si potrebbe dire che ciò dicui si tratta riguarda Ciò a cui appartiene l’essenza del puro veni-re alla presenza. È come se chiedessimo, in altri termini, a Chi ap-partenga originariamente l’essenza della motilità. In un puntoHeidegger spiega così questo difficile passaggio: la dynamis el’energheia non si contrappongono per essenza. Egli spiega infattiche l’ energheia «realizza l’essenza del puro venire alla presenza in

modo più originario (....)» (17

) ma anche la dynamis ha come essen-za quello di venire alla presenza; la distinzione che li riguardaevidentemente non coinvolge fino in fondo la natura dell’essenzain quanto tale.

Heidegger raggiunge qui un momento molto ricco di impli-cazioni e si aggira non a caso con molta discrezione e prudenza. Èun punto delicato perché ci si trova di fronte un incrocio teoricoper certi versi paradossale. La forma e la materia hanno la stessa

essenza e ci si trova nella brutta situazione di determinare l’essen-za della  physis a partire dal concorrere di una duplice essenza difronte alla quale non è facile decidere chi, alla fine, sia la più es-senziale. Entrambi infatti sono un movimento di venir alla presen-za , un procedere verso l’ installarsi in un aspetto , e tuttavia l’una, laforma, sembra all’inizio dover essere la più originaria. Si tratta di

(16) Ivi, p. 241.

(17) Ivi, p. 241.

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305C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

capire però — insiste Heidegger — se ciò che è più originario è

insieme più essenziale o comunque in che cosa consista il caratte-re della sua originarietà.

Che la cosa non sia semplice è mostrato dal fatto che se la forma come aspetto è più originaria della dynamis nel suo essere ciòche pone nell’aspetto, l’essenza della dynamis , tuttavia — sottoli-nea Heidegger —, a sua volta, non può prescindere da essere essastessa aspetto.

Se la privazione o la dynamis deve dunque essere,

in se stes-sa, un venire avanti nell’aspetto e, in questo, essere in qualche mo-do, essa stessa, nella forma dell’aspetto la traduzione dei Romani,dice Heidegger , di stevrhsiı con privatio sembra essere inadegua-ta. O per lo meno è inadeguata se si guarda con attenzione a quelcarattere della privazione che secondo Heidegger indica il movi-mento di un negare che in quanto tale afferma. Se la energheia in-dicava esplicitamente il cammino di una via, di uno slargarsi nel-

l’aperto di una presenza la dynamis sembra indicare un sempli-ce prender-via, un assentarsi, un non essere ancora nella presen-za, o un trattenersi al di là della presenza. È quindi un essere via ,non qui , un mancare che non apre, però, il silenzio del nulla di unaassenza radicale; l’assenza di un mancare infatti è un non esserequi che tuttavia in qualche modo avanza essa stessa in una presen-za.

Così allora conclude Heidegger: «In quanto assentarsi, la

privazione non è semplicemente assenza, ma un presentarsi , e pre-cisamente quel presentarsi in cui si presenta l’assentarsi e non giàl’assente» (18).

Più avanti Heidegger rilascia un’affermazione decisiva econclusiva dell’orientamento del saggio, egli dice: «nella priva-zione, infatti, si nasconde l’essenza della physis» (19).

(18) Ivi, p. 251.

(19) Ibidem.

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306 HEGEL E ARISTOTELE

Dopo averci lasciato in una vaga incertezza Heidegger si

avvia, quindi, verso una direzione ben precisa e lascia alle spallel’incrocio che ci aveva posto davanti. Ricordiamo la domandacentrale: è più essenziale l’essenza della forma o l’essenza dellamateria? Heidegger si sforza di mostrare come la via di uno svol-gersi nel venire all’ aperto e la via di un sottrarsi in questo venireall’aperto sono alla fine l’accadimento dell’essenza della physis.

L’essenza della  physis si raccoglie, seppure celandosi, nella

privazione. Se sollecitiamo ancora,

con altre indicazioni che il te-sto suggerisce, quel nascondersi , troviamo che, alla fine, l’essenzadella  physis si nasconde nel gioco dell’assentarsi del venire nella

 presenza. Nascondersi qui sembra indicare il luogo nel quale la physis trova la radice della sua essenza, il luogo da cui il venir allapresenza trae il proprio avvio. Per quanto l’avvio venga sviato e siassenti nel presentarsi e si sottragga ad ogni presa, è nel cuoredella privazione che Heidegger lo trattiene. Se dunque l’essenza

della  physis è la disposizione che avvia la motilità di un mosso ese l’essenza della  physis si nasconde nella privazione dobbiamoconcludere, con Heidegger, che nella privazione sta la disposizioneche avvia la motilità.

Ripetiamo, ora, ancora una volta la domanda centrale: chiavvia la motilità del mosso? La forma come fine è sembrata essereciò che muovendo permane nello svolgimento del mosso: identità

di movente e di mosso. Movimento in cui l’ideale della formamette in atto, attualizza e mette in forma la possibilità della mate-ria. Ma Heidegger aveva messo in guardia dal non lasciarsi fuor-viare nella lettura scolastica per la quale la forma sembra configu-rarsi come un motore interno alla materia, un «motore — avevadetto — che applicato da qualche parte mette in moto qualcosa».E aveva anche spiegato che il telos non va inteso semplicementecome uno scopo e neppure semplicemente come il fine. Tutto ciòinfatti riabilita l’idea di un farsi avanti verso un fine in una misu-

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307C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

ra per la quale è il fine che genera la motilità del movimento ,

come se il fine muovesse se stesso verso se stesso. Heidegger haspiegato che il fine invece va letto come la fine o l’ aspetto in cui lamotilità viene ad esporsi. È quindi come se il fine non fosse altroche il venire avanti di uno svolgersi che trattiene in sé l’avvio del-la motilità. Può trattenerla in sé perché la conformazione è sem-pre una risposta ad un richiamo che non può consegnarsi total-mente nell’aspetto, che si tradisce proprio nell’aspetto. Heidegger

non lo dice ma è evidente che lo sostenga,

perché questo avviopossa consegnarsi in una sottrazione occorre che il Chi della moti-lità non sia identico con la forma; ancora una volta occorre che sedi un Chi della motilità, un Chi come avvio che sosta nell’avviatosi deve parlare, occorre che questo sia l’essenza della physis , e an-cora di più occorre che l’essenza più essenziale della physis appar-tenga alla privazione. Ecco perché la frase di Heidegger secondocui “nella privazione si nasconde l’essenza della physis” non ci

sorprende. Esplicitata ancora più heideggerianamente essa vuoledire nient’altro che l’essenza della physis sta nell’ essere dell’ ente.

2. — Hegel osserva e sottolinea come Aristotele sia stato il primonella storia del pensiero a qualificare l’indagine filosofica come laconoscenza del fine. E soprattuto a concepire il fine come il benedi ciascuna cosa. Le determinazioni che consentono ad Aristotele

di sviluppare questo passaggio sono, secondo Hegel, innanzi tut-to, la potenza e l’atto; in particolare l’atto, in quanto entelechia , è ilfine in sè, telos, fine che realizza se stesso e compie se stesso.

È noto come Hegel incominci a tradurre Aristotele nellapropria grammatica concettuale già a partire dalla traduzione deltermine energheia. La traduzione in Bewegung lo trasla in un movi-mento per cui diviene attività che si autodetermina compiendosinel fine e realizzandosi in esso. Il concetto di Bewegung , in quantoessenzialmente attività, consente ad Hegel di forzare l’energheia

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308 HEGEL E ARISTOTELE

verso il principio di soggettività come negatività che si riferisce a

sé.Abbiamo innanzi già visto come il saggio di Heidegger con-

tenga impliciti ed espliciti contrappunti alla posizione hegeliana.Possiamo ora osservarli ad una distanza ravvicinata. Dice

Hegel:«Tutto ciò che esiste contiene certamente materia, ogni mu-

tamento presuppone un sostrato nel quale si compie; ma poiché

la materia stessa è soltanto una potenza,

non l’

atto,

che spetta allaforma, così dipende dall’attività della forma, che la materia siaveramente» (20). Per Hegel la forma è ciò che essenzialmente sidetermina in relazione al fine, si autodetermina nel movimentoverso il fine. La grandezza che Hegel nelle Lezioni attribuisce adAristotele è proprio l’idea che il fine contenga in sé la determina-zione di porsi ed effettuarsi.

Quando Hegel, pertanto, sottolinea la soggettività come in-

timo principio di individuazione attribuisce ad Aristotele unprincipio concettuale che consente di unificare il movimento con-tenuto nello specificarsi attraverso la forma e il principio di que-sto movimento.

Per Heidegger, invece, lo abbiamo visto, la forma compie unapotenzialità attualizzando una determinazione formale e la formaattuata è il compimento di una materia, l’atto vivente di questa ma-teria; e l’atto ha il suo originario limite non solo nel suo divenire

semplice aspetto, ma, anche, nell’avvio che accade per così direnell’orizzonte della potenza. In questo senso dicevamo che l’atto ècome se restasse nell’ambito di un principio di esecuzione.

Quando Hegel attribuisce ad Aristotele il momento dellanegatività come principio della soggettività dell’idea trasformaquesto momento di esecuzione nella forma di una determinazioneche assume in sé il principio del movimento. La determinazione

(20) G.W.F. HEGEL, Lezioni ..., cit. p. 297.

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309C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

formale assume in sé il principio della propria attuazione e il

principio della propria attuazione comporta l’assunzione del mo-vimento. Non a caso Hegel ricostruisce l’ordine delle sostanze inAristotele sotto la misura di una semplice implicita domanda cheripropone ad ogni passaggio: a chi appartiene essenzialmentel’attività e quindi il movimento?

«Ma l’attività è l’unità della forma e della materia; Aristotelenon ci spiega però più precisamente in qual maniera queste due

sono in quella» (

21

). Dobbiamo però ancora lasciare in sospesoquesta domanda che abbiamo anche incontrato come uno dei cen-tri della lettura heideggeriana.

3. — In qual maniera si chiede Hegel dunque la forma e la materiaappartengono al movimento? Per Hegel la condizione della circola-rità è l’attività; è l’attività in quanto coincidente con il principio di

soggettività della forma. In questo senso la forma è il principio diattività; è forma dell’attività e, in questo senso, è principio di essen-ziale unità. Tutto questo alla condizione che l’attività e la forma sicoappartengano e contengano il principio della loro immanenza,siano totalmente immanenti a se stessi.

Per Hegel dunque la forza speculativa di Aristotele si rag-giunge nel momento in cui, a differenza dell’idealismo di Platone,l’unità dell’identità non è concepita che semplice unità degli oppo-

sti, quindi con un’astrazione che ipostatizza, ma è concepita comeintero, come “essenzialmente negativa” che conserva l’identità nelprocedere di una differenza che mantiene l’universalità nella speci-ficazione delle determinazioni.

La forza speculativa di Aristotele consisterebbe proprio nelfatto che la sostanza conserverebbe l’identità di una differenzaproprio in quanto è, a un tempo, universale e particolare. L’uni-

(21) Ivi, p. 301.

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310 HEGEL E ARISTOTELE

versale, non ciò che è comune, ma ciò che muove se stesso verso

la propria differenza e si riprende in questa differenza in se stesso.Perché questa unità della differenza sia possibile occorre però chel’universale che muove se stesso contenga in se stesso l’avvio delproprio movimento. Potremmo dire la seità di questo movimento.Sia cioè attività. Contenere in se stesso l’avvio per il proprio movi-mento vuole dire essere per mezzo di un’assoluta negatività cioèmovimento che si nega per negare questa negazione, che si nega

per giungere al proprio sé. Il giungere alla propria forma è avviatodalla stessa forma. La forma quindi non ha nulla a che fare con unsemplice venire in un’aspetto non è fine come un venire a porsi nel-la fine di una forma che definisce, è, per Hegel, avviarsi nel proprioavvio, avviarsi verso la posizione del fine. La forma è in questo sen-so originariamente ed essenzialmente telos. Nel suo intimo, anchequando cioè siamo nella sfera più semplice degli enti naturali, laforma muove verso il suo fine. La forma vuole nel suo intimo non

semplicemente il suo fine, non vuole cioè semplicemente pervenireverso il fine, ma vuole porre il suo fine come proprio fine.Occorre capire bene questo passaggio perché si tratta di un

punto in cui sono in gioco molte questioni e molte mosse teorichedeterminanti e fondamentali.

La forma dunque si muove verso il fine, si avvia verso ilfine, ma la pienezza del suo compimento nel momento in cui l’av-vio del movimento le appartiene è il suo proprio avvio, è quello

non solo di conseguire il fine o di raggiungere il fine. Se fosse cosìsaremmo seppure su un piano dislocato nell’ambito di uno svol-gersi della forma verso un venire nell’aspetto. Non si tratta quin-di solo di una forma che si avvia verso un fine o una fine. Perchétra forma e fine non si apra nessuna distanza occorre che la formache procede verso il fine sia contemporaneamente la forma cheproduce il proprio fine, realizza il fine nella misura in cui lo de-termina. Se la forma è ciò che si avvia e ciò che si avvia assoluta-mente, occorre che il fine le appartenga non come ciò che deve

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311C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

compiersi ma, nella sua essenziale originarietà, come ciò che deve

prodursi e crearsi nell’attualità del movimento. Non è un caso checiò che determina l’appropriazione del fine da parte della formasia proprio il sapere. Il livello del sapere misura il grado di com-pimento della determinazione del fine da parte del principio for-male, il momento del compimento della produzione del fine daparte della forma. Fin dal primo livello della sostanza per Hegelche legge Aristotele, pertanto, la forma tende verso la determina-

zione e la produzione del proprio fine,

quindi non a svolgersiverso il fine ma a compiersi nel fine, quindi ad assumere il finecome determinazione della volontà.

Questo è il livello che Hegel attribuisce ad Aristotele cometerzo modo della sostanza, il momento per eccellenza in cui la teo-ria della sostanza troverebbe la sua unità sistematica.

Il momento in cui si mostra quella sostanza che «gli scola-stici hanno giustamente visto come definizione di Dio».

4. — Siamo nel punto più alto della serie in cui, come dice Hegel,sono congiunte «potenza, attività e entelechia, la sostanza assolu-ta, che Aristotele determina in generale come l’in sé e per sé, che èimmobile ma a un tempo muove, e la cui essenza è pura attivitàsenza materia» (22). È il momento decisivo della trasfigurazione diAristotele. La sostanza assoluta diventa pura attività. La doman-

da con cui Hegel misurava la gerarchia delle sostanze trova ora lasua risposta. Apparentemente Hegel approfondisce l’indicazionedi Aristotele di un atto puro, di un atto che nella sua purezza èsgombro della materia e della passività. Hegel però quando ac-centua la forma pura dell’atto continua nella direzione di una reci-proca immanenza di atto e potenza, di soggetto ed oggetto. Conce-pire l’assoluta sostanza come semplice atto puro per Hegel è giu-

(22) Ivi, p. 302.

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312 HEGEL E ARISTOTELE

sto alla condizione di una correzione decisiva, quell’atto puro non

può librarsi sulla materia concependosi senza la passività di que-sta. Per Hegel la purezza dell’atto va compresa non tanto nella suaesclusiva separatezza dalla materia ma nella sua sovranità. Unatto che, in quanto tale, deve essere totalità di forma e materia.L’atto è sovrano perché nel suo movimento è contenuta anche lapassività della materia. Hegel lo esprime magistralmente in que-sto modo: «ma la materia è precisamente nient’altro che quel mo-

mento dell’

essenza immobile» (

23

). È il momento in cui la materiaappartiene totalmente al movimento della forma; potremmo dire:al suo punto di stasi. Il momento in cui la forma attua il propriocontenuto, si esibisce nel contenuto. La forma non esegue il desti-no della materia, piuttosto si manifesta producendosi nel conte-nuto. La materia in questo senso è un momento necessario del suodinamismo. È il punto di quiete del suo dinamismo. Perché que-sto sia possibile Hegel doveva congiungere ciò che in Aristotele è

inesorabilmente separato, la forma e il principio del movimento.Solo se la forma contiene in sé radicalmente il principio del movi-mento il mosso e il movente possono appartenere ad un medesi-mo circolo, l’assoluto può essere quiete solo in quanto è attività,

può rimanere presso di sé nel cambiamento. Il celebre abbagliodella traduzione hegeliana che consente di identificare il Dioaristotelico con il primo cielo eterno e quindi cancellare nell’im-manenza del movimento circolare il punto di appoggio del movi-

mento aristotelico ha in queste mosse la sua condizione teorica. Èil momento in cui Hegel non interpreta ma trasforma e plasma nelsuo sistema uno dei centri dinamici della filosofia aristotelica.

5. — Quando Hegel rimprovera Aristotele di non spiegare ilmodo attraverso cui la forma e la materia appartengano all’unità

(23) Ivi, p. 303.

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313C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

dell’attività non si riferisce semplicemente al primo livello di de-

terminazione della sostanza. Indica contemporaneamente il pro- blema speculativo centrale nell’aristotelismo e il punto in cui siinserisce il suo tentativo di concepirlo nel quadro della sua gram-matica filosofica e speculativa.

Tra l’altro uno dei punti di maggiore insistenza e continuitàdel sistema aristotelico.

Un punto che si può fissare a partire dalla seguente doman-

da: su che cosa poggia il movimento? O Chi attiva il movimento?È noto come per la Fisica aristotelica uno dei compiti piùimportanti consista nella determinazione della natura del movi-mento e del cambiamento che Aristotele ritiene essere il fenome-no fondamentale della natura, sino al punto di sottolineare chechi non lo intende è incapace di intendere la natura stessa.

Secondo Aristotele ogni movimento naturale implica il muo-versi essendo mosso. Il movimento pertanto si compone di due mo-

menti: il muoversi e l’essere mosso. Questa distinzione consente adAristotele di combattere quell’opinione di Platone per la quale è in-vece del tutto ammissibile che qualcosa possa muoversi da sé inquanto è mosso nella sua totalità. Per Aristotele ogni processo natu-rale si trova a cooperare alla realizzazione di un fine, si muove e sisviluppa nell’orizzonte di un fine e il suo movimento compie lapossibilità di raggiungere una forma e una struttura. Tuttavia, equesto è un punto molto importante, se al movimento appartiene

l’attuazione della forma come realizzazione della capacità della so-stanza, la forma realizza la potenza e la compie ma non contiene ilprincipio del movimento. Non a caso Aristotele per garantire l’uni-tà funzionale del suo sistema deve ammettere sin dalle prime opereun vertice al mutamento, il proton kinoun akineton. E quando Aristo-tele introduce questo vertice è pienamente consapevole della suainnovazione e soprattutto della sua necessità:

«Se non accettiamo la mia soluzione, ci troviamo ancorauna volta di fronte al problema di Parmenide. L’essere si genere-

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314 HEGEL E ARISTOTELE

rebbe dal non essere, e noi sappiamo che questo è impossibile.

Esiste dunque un primo mosso, e cioè il primo cielo, e un princi-pio del movimento, eterni entrambi» (24).

Il Proton kinoun ha in Aristotele un doppio registro, si collo-ca, per così dire, nella sintesi dei due estremi di un movimentopossibile, è una sintesi del prima e del poi, è infatti il primo eter-no, fuori del tempo e del mutamento, punto di appoggio del mu-tamento e contemporaneamente telos , ciò che orienta il compi-

mento del mutamento,

fine ultimo a cui tutto l’

universo tende.Se il movimento appartenesse intimamente al principio for-male non sarebbe necessario ammettere accanto a forma e materiaun terzo principio. È solo e unicamente per il fatto che il movi-mento non appartiene all’intimità della forma che Aristotele devecontestare il dinamismo degli opposti e ritiene che per spiegare ilmovimento sia necessaria una sorta di appoggio e punto di avvioe di consistenza del movimento. Questo terzo principio infatti,

non solo consente l’appoggio eterno per l’avvio di un movimentoma conserva il movimento nella consistenza di una tendenza,

orientandolo come un fine; infatti, impedisce che possa svanire. Ècome se, per usare un’immagine, gli estremi del movimento nonaccadessero nella pienezza del circolo ma si collocassero per cosìdire nella sua tangenza.

6. — Se rinnoviamo dunque la domanda del Chi sostenga il movi-mento e se il Chi appartenga o no alla forma o se vi appartenga inche modo vi appartenga ci troviamo di fronte al punto centraledel confronto di Hegel con Aristotele. L’insieme della riletturahegeliana di Aristotele grava sul principio della forma. Hegel ciindirizza subito verso la direzione di un ingente mutamento di

(

24

) Cit. ripresa da I. DÜRING,

 Aristotele ,

Mursia,

Milano,

trad. it. di P. Donini,

p. 243.

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315C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

prospettiva nel momento in cui ci fa osservare che in Aristotele vi

sarebbe una specie superiore di sostanza e questa sostanza sareb- be quella nella quale l’attività contiene già ciò che deve divenire.Non solo. Questa sostanza contiene a tal punto ciò che deve dive-nire da dover essere pensata nella sua assoluta essenza comepura attività. Hegel naturalmente non si azzarda a riferire chequesto sia stato pensato da Aristotele pienamente e alla luce ditutti i suoi risvolti, dice però che la verità verso cui Aristotele è incammino, diciamolo così, è una via nella quale la forma non èsemplice attualità di una potenza ma è essenza assoluta comepura attività. Per sostenere questa rilettura Hegel ricorre ad unsoccorso storico. Contro quella che lui chiama una certa diffiden-za dell’età moderna verso Aristotele Hegel richiama invece laconsapevolezza degli Scolastici. «Invece gli scolastici videro esat-tamente in questo concetto la definizione di Dio, ch’essi designa-rono appunto come actus purus ; e non si dà idealismo più elevato

di questo» (25

).

7. — Commentando il De anima Hegel osserva:«Che la forma attiva sia la vera sostanza, e la materia invece

sia soltanto in potenza, è un concetto veramente speculativo» (26).In particolare Aristotele avrebbe raggiunto un momento

molto alto nel pensiero speculativo laddove giunge a definire

l’anima come essere causa proprio in quanto è fine, cioè universa-lità autodeterminantesi. Questa natura originaria dell’anima si

(25) G.W.F. HEGEL, Lezioni ... , p. 303.

(26) Ivi, p. 347.Cfr. almeno W. KERN,  Die Aristotelesdeutung Hegels. Die Aufhebung des

Aristotelischen «Nous» in Hegels «Geist» , in «Philosophisches Jahrbuch», 78, 1971,pp. 237-259; G. MOVIA, in ARISTOTELE, L’ anima, testo greco a fronte, a cura di G.M.,Rusconi, Milano 1996, pp. 7-48. Sull’identificazione hegeliana del Dio aristotelico

con il primo cielo eterno cfr. E. CORETH,

 Das Dialektische Sein in Hegels Logik ,

 Herder,

Wien 1952, 136-57.

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316 HEGEL E ARISTOTELE

esprimerebbe compiutamente nel suo grado più alto, nel pensiero.

Mentre nel sentire si dipende da un altro e il movimento o l’avvio oil chi possiede l’avvio viene dall’esterno nel pensare, nota Hegel ci-tando (o meglio parafrasando) Aristotele, «ciascuno può pensareda sé, quando vuole e appunto perciò è libero» (27) .

Il concepire questo avviarsi di se stesso nel pensare è dunqueil principale livello speculativo raggiunto da Aristotele. L’esito coe-rente del modo attraverso il quale Aristotele mostrerebbe la naturaessenziale dell’intelletto in potenza. Mentre una cosa determinataha come unica possibilità quella di essere ciò che è secondo la suanatura, il pensare proprio in quanto possibilità deve essere conce-pito come possibilità universale, cioè possibilità di diventare tuttoil pensabile, ed è così che Hegel trapassa il concetto di potenza inquello di attività. In quanto possibilità di essere tutto l’anima è es-senzialmente attività. Non solo Hegel compie questo passaggio,

ma l’intelletto, in quanto essenzialmente attivo, rende la sua passi-

vità un atto della sua stessa attività. Infatti dice Hegel, «Il pensierosi fa intelletto passivo, perché si fa oggetto per esso» (28).La trasfigurazione di Aristotele in questi passaggi non poteva

essere più profonda. Hegel rispetta Aristotele sino al momento incui sottolinea il fatto che l’intelletto non può avere materia. Maquesto lo porta immediatamente dopo ad una divaricazione radi-cale. Il non aver materia per Hegel non può che significare un esse-re nella forma di non essere in sé. Un non essere in sé che diventa

però come il lato interno di un essere che si dà essere facendosi es-sere. Non a caso precisa in questo modo la relazione intimamentedialettica tra universale possibilità dell’intelletto passivo e attivitàdell’intelletto attivo: «l’anima è di per sé l’universale possibilità,senza materia, perché la sua essenza è l’attività» (29). Questo pas-

(27) Ivi, p. 351.

(28) Ivi, p. 358.

(29) Ibidem.

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317C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

saggio consente ad Hegel di unificare i due momenti (la passività e

l’attività dell’intelletto che in Aristotele restano indiscutibilmentedistinti) come lati di un unico movimento. L’intelletto passivo inquesto modo diventa un momento dell’attività dell’intelletto attivo.

Ricordiamo, per comprendere meglio, che per Aristotele lafacoltà intellettiva presenta le caratteristiche principali di non esse-re mischiata ad altro e l’impassibilità. L’impassibilità non indica,naturalmente, l’impossibilità di una qualche forma di mutamento

in relazione a qualcosa di attivo,

ma,

ed è importante,

la possibilitàdi un “patire” senza che, a differenza di quanto può accadere nel-l’ambito strettamente fisico, possa impedire che l’essere del sogget-to non si conservi nel suo essere. In questo modo la facoltà conosci-tiva patisce senza perdere la propria essenza, anzi, addirittura laperfeziona. Così l’intelletto può restare impassibile ricevendo leforme intelligibili. Ciò vuol dire che può restare se stesso pur dive-nendo la forma intelligibile (in questo senso resta anche non mi-

schiato). È in questo modo che l’intelletto, alla fine, è la potenzialitàdi ricevere essenzialmente tutte le forme. Come si vede però è tut-t’altro che l’in sé del per sé dell’attività dell’intelletto attivo. Se i duemomenti possono in qualche modo trovarsi nella forma di una uni-tà della differenza questo è dovuto alla insopprimibile e originarianatura dell’impassibilità dell’intelletto passivo e non dall’esseremomento dell’attività del pensare. Non è difficile scorgere in que-sto momento in cui la trasfigurazione di Aristotele è particolarmen-

te profonda il gioco dialettico della grammatica della logica diHegel.

Nel passaggio delle Lezioni che abbiamo riportato, la possi- bilità e l’essere di questa possibilità giunge a coincidere con il nul-la; è una possibilità ideale di contenere tutto: «un libro secondo lapossibilità può contenere tutto, ma realmente nulla, prima d’esse-re scritto» (30). Solo nel pensare attivo l’intelletto passa quindi dal

(30) Ivi, p. 359.

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318 HEGEL E ARISTOTELE

niente della potenzialità alla verità della realtà. È come se Hegel

trascinasse Aristotele nel movimento che ritroviamo all’esordiodel cominciamento della logica. Un punto che ha il sostegno in unpassaggio che Hegel sottolinea per il quale «la materia per sé èniente» dove l’essere è in quanto movimento dell’attività dellaforma. Non solo occorre dire che la materia è niente senza la for-ma. Per Hegel occorre sviluppare questa affermazione di Aristo-tele sino al suo estremo. La materia è niente non solo nel senso

che non ha ancora forma,

ma è niente in senso radicale,

tantoniente da non poter che essere attraverso il movimento della forma.Hegel — lo abbiamo visto — aveva detto chiaramente, semprenel commento ad Aristotele, che la materia è il punto di quietedel movimento dell’attività della forma. Ma occorre proceder an-cora più avanti. Il niente della materia, il nulla senza la forma del-la materia evidentemente non appartiene alla materia. Questo èun punto delicato e decisivo. Il niente appartiene alla forma come

movimento della negatività interna. Perché la materia accadacome attività della forma, come punto di quiete dell’attualità del-la forma occorre che il niente appartenga originariamente al mo-vimento della forma. Potremmo dire, senza correre troppi rischidi abusi, che si coappartengono dialetticamente così come al-l’esordio della logica essere e niente si appartengono e si compio-no nel divenire.

La definizione che Hegel dà del pensiero, attribuendola ad

Aristotele, è la conseguenza di questo ordine di mosse concettuali:Hegel dice: «Il pensiero è difatti piuttosto il non essere in sé» (31).

Siamo nel livello più compiuto dell’anima. Così come l’ani-ma nella forma deve assumere intimamente il niente dell ’essere,così il pensiero ora è intimamente non essere in sé.

Anzi nel pensare l’inseità come niente, come essere nientedi ciascuna cosa è contemporaneamente attività, essere e nulla

(31) Ivi, p. 357.

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319C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

coincidono pienamente nell’attività. Ecco che in questo modo è

più chiaro quello che dicevamo all’inizio:«Dire che l’anima è questo libro non scritto significa adunque

dire ch’essa è tutto in sé, ma non è questa totalità in se stessa: allostesso modo un libro secondo la possibilità può contenere tutto, marealmente nulla, prima d’essere scritto».

L’intelletto passivo è dunque l’intelletto che è capace di rice-vere tutto e di diventare tutto; ricordiamo che è capace di diventare

tutto perché è essenzialmente niente di tutto,

ma come abbiamo vi-sto il niente dell’essente in sé è immediatamente partecipe dell’es-senza della forma. Ecco perché è facile, per Hegel, il passaggio suc-cessivo dell’identità con quell’intelletto che come forza attiva è ingrado di produrre tutto. Il niente è il punto di comunione tra l’in-telletto passivo e l’intelletto attivo.

8. — Abbiamo sinora fatto scorrere parallelamente la lettura diHeidegger e quella di Hegel. Dobbiamo ora tentare di stringere piùprossimamente possibile la fondamentale divaricazione che li al-lontana l’uno dall’altro.

In Heidegger ciò che avvia il movimento si svolge nel venireavanti nell’aspetto della forma. Ciò che avvia si manifesta nel veni-re avanti nell’aspetto ma si manifesta nella modalità di un’assenza.È come se Heidegger dicesse: la forma è lo slargarsi del venire

avanti ma è una forma che esegue il ciò che avvia. La forma è lamanifestazione di un accadimento che la precede e proprio perquesto non accade mai del tutto. La forma in questo senso sta nel-l’opera della motilità perché è il modo della sua esecuzione. Allafine si può dirlo in questo modo: la forma è l’ente dell’essere e rice-ve dall’esser dell’ente la sua consistenza e la sua custodia.

In questo senso Heidegger ci ha più volte posto nell ’avvisoche in Aristotele la forma non è un actus purus, non è cioè il Chiche conduce, il ciò che avvia.

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320 HEGEL E ARISTOTELE

In Hegel, lo abbiamo visto, l’essere dell’ente è niente senza

l’attualità della forma, nell’atto della forma accade radicalmentel’essere dell’ente. La forma cioè attua se stessa nell’atto del suofarsi e il suo essere accade nel momento del suo farsi, nell’attuali-tà del suo atto. La forma non esegue, non accade per eseguire maè intimamente farsi, o, comunque, intimamente, anche nei livellipiù elementari dell’essere, tende a farsi nel suo fare. Il ciò che av-via dunque appartiene all’attualità dell’atto della forma. In questo

senso Hegel e Heidegger si divaricano radicalmente.Se volessimo, per fini didattici, darci una figurazione diquesta divaricazione potremmo dire: per Heidegger il ciò che av-via l’attualità dell’atto non appartiene alla forma ma appartiene aciò che si avvia nella forma, in Hegel ciò che avvia appartiene al-l’impulso logico intimo della forma.

Tuttavia questa divaricazione non può essere pienamentecompresa almeno in relazione ad Aristotele se non ci facciamo sor-

prendere da una contiguità originaria che stringe insieme Hegel edHeidegger. Che qui dobbiamo però delineare in estrema sintesi.Questa contiguità possiamo ricostruirla anche (ma i luoghi di

questa contiguità sono assai diffusi) a partire da quel gesto quasiammiccante a cui Heidegger si lascia andare in Che cos’ è la Metafisi-ca. Heidegger riporta la seguente affermazione di Hegel contenutanel I libro della Scienza della logica: «Il puro essere e il puro niente è,dunque, lo stesso» (32). Alla fine la commenta, come è noto, in que-

sto modo: «Questa sentenza dello Hegel è giusta». Anche a partireda qui evidentemente, ma non solo, dobbiamo prestare attenzioneal perché il problema del niente stabilisca una familiarità originariatra Hegel e Heidegger. Una familiarità da cui inizialmente è giustofarsi sorprendere dal momento che abbiamo verificato, anche in re-lazione alla rilettura di Aristotele, una radicale divaricazione.

(32

) M. HEIDEGGER,

 Che cos’ è la metafisica

,trad. it. di A. Carlini

,La Nuova Ita-lia, Firenze 1979, p. 30.

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321C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

Ricordiamo però, per maggiore precisione e per continuare a

seguire alcune movenze concettuali, quello che Heidegger precisaintorno all’esperienza del niente: «L’essenza dell’originario nientenientificante è qui: esso porta l’essere esistenziale originariamenteinnanzi all’essente come tale. Solo sul fondamento dell’originariorivelarsi del niente, l’essere esistenziale dell’uomo può dirigersiverso ciò che è, e penetrare in esso» (33). È come se Heidegger di-cesse: l’essere viene nell’aspetto della forma in un avvio che si as-

senta a partire dal nulla che si rivela come assenza di una presenza.Nel saggio Sull’ essenza e sul concetto della Physis, il modo con cuiHeidegger traduce concettualmente privazione rimanda non casual-mente a questa modalità dell’assentarsi. Così contesta, ad esempio— lo abbiamo visto — il senso che stevrhsiı ha assunto nella tradu-zione dei Romani in  privatio: «I Romani tradussero stevrhsiı con

 privatio ; questa è considerata una specie della negatio» (34). Lo sfor-zo di Heidegger è invece quello di mostrare che per la via di questa

traduzione si perde di vista ciò che di autenticamente greco deveessere pensato in stevrhsiı: «Solo che la stevrhsiı non è semplice-mente assenza, ma, come assentarsi, la stevrhsiı è proprio lastevrhsiı del presentarsi. Che cos’è allora la stevrhsiı? Quando noidiciamo, per esempio, che qualcosa “è via”, non vogliamo dire sol-tanto che non è più qui, ma vogliamo dire che manca. Se qualcosamanca, ciò che manca è sì via, ma proprio questo via, cioè il man-care, ci irrita e ci inquieta, e tutto ciò il “mancare” lo può provocare

solo se esso è “presente”, cioè è, ossia costituisce un essere» (35).Non è difficile scorgere che ci troviamo sullo stesso piano di

quel passaggio riportato da Che cos’ è la Metafisica.Anche qui  l’attenzione di Heidegger è tutta protesa a ren-

derci evidente che il nulla è ciò che assentandosi avvia una pre-

(33) Ivi, p. 33.

(34) M. HEIDEGGER, Segnavia , cit., p. 249.

(35) Ivi, p. 251.

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322 HEGEL E ARISTOTELE

senza nell’aspetto di una forma. Ciò che avvia il soggetto sull ’og-

getto, ciò che apre l’uno nell’altro, ciò che apre il logos entro cuidimorano l’aspetto dell’ente e il pensiero che può riguardarlo. Ciòche, in ultima analisi, avvia lo sguardo del soggetto a cui la pre-senza è presente. Rileggiamo infatti l’affermazione di Heidegger:«Solo sul fondamento dell’originario rivelarsi del niente, l’essereesistenziale dell’uomo può dirigersi verso ciò che è, e penetrare inesso» (36).

Il nulla è dunque il ciò che avvia la presenza di un oggetto adun soggetto. A differenza di Hegel e in divaricazione radicale conHegel, Heidegger precisa che il nulla originariamente appartieneall’essenza dell’essere, quando in Hegel possiamo dire anche così:appartiene originariamente e intimamente all’impulso logico del-l’attualità dell’atto. Abbiamo visto che l’essere in sè è niente se nonè preso dall’attualità della forma ed è la forma che contiene o custo-disce il niente nell’attualità del suo atto.

La negazione del niente appartiene all’attualità di un atto chesi apre in una differenza e si raccoglie nell’unità della differenza.Sia in Hegel che in Heidegger, tuttavia, il nulla si trova per cosìdire nello stesso punto di un movimento che pure procede a partireda direzioni che sono divaricate. Il nulla si trova come punto di fles-sione in cui l’essere si riflette in uno sguardo del soggetto. È come seper entrambi il niente garantisse il pensiero dell’essere e il circolodella loro coappartenza.

Da questo punto di vista la comune rilettura di Aristotele èsorprendentemente affine.

8.1 — Questa contiguità tra Hegel e Heidegger è ancora piùevidente se la ripercorriamo a partire dalla natura del circoloermeneutico.

(36) M. HEIDEGGER, Che cos’ è la Metafisica?, cit., p. 33.

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323C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

E in particolare se la seguiamo a partire da quell’inquieto traf-

fico logico che si sviluppa nel momento in cui enunciamo la parou-sia dell’Assoluto nella forma di un pensiero che si pensa o più sem-plicemente nella forma del pensiero dell’essere.

Pensiero dell’essere: ripetiamolo, e affrontiamo subito ladiffrazione che ci viene incontro nel momento in cui incomincia-mo a pensare muovendoci tra gli specchi di quel doppio genitivoentro il quale siamo insediati immediatamente.

Doppio genitivo,

nel senso appunto di un genitivo soggetti-vo e di un genitivo oggettivo. Pensiero dell’essere infatti chiamanello stesso atto il pensiero dell’essere e l’essere del pensiero, op-pure, detto in altro modo, l’essere che giunge a sé nel pensarsi delpensiero e il pensiero che nel pensarsi è pensiero dell’essere che sipensa. Hegel e Heidegger circolano entrambi nel cuore delladiffrazione di questo doppio genitivo e devono incontrarsi, non acaso, in quel punto in cui il nulla si afferma dialetticamente con

l’essere come la metafora portante della flessione dell’essere versola sua riflessione o manifestazione. Non solo, ma se scrutiamo piùa fondo osserviamo che la divaricazione di Hegel-Heidegger ri-guardo la lettura di Aristotele ha in questo movimento la sua inti-ma dinamica teorica.

Per comprendere appieno, almeno nei risvolti più dirom-penti, questa interna tensione occorre però soffermarci sulla tra-ma di questo circolo anche perché dobbiamo ancora mostrare la

relazione che stringe insieme la contiguità del nulla come puntodi flessione e il movimento difratto del circolo ermeneutico.

Il circolo ermeneutico, nel suo fondo, non è altro che la formadel sapere che la temporalizzazione dell’essere deve assumere. Sel’essere si avanza e si avvia nel tempo, è perché nel tempo è comese compisse il movimento della riflessione di se stesso, è come se sidestinasse in un sapere che chiama sempre un sapere del Dasein.

Quello però che dobbiamo comprendere nella sua radicaletensione teorica è che l’essere che accade nel tempo del sapere è

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324 HEGEL E ARISTOTELE

sempre il sapere di Colui che sa. Ed è la pretesa di Colui che sa che

alimenta le vertigini del movimento riflessivo. Pensiamo ad Hegel,e in particolare all’Hegel della Fenomenologia. Qui si svolge unmovimento paradossale in cui la domanda di Chi avanza nel sa-pere si svolge già nell’orizzonte di ciò che viene cercato; dovequindi, il movimento di un’intenzione di sapere procede verso ilpunto da cui deve allontanarsi. Fusione monistica quella hegelia-na che mette in tensione la tradizione spinoziana con quella carte-

siana in un decorso pieno di acrobatiche torsioni del pensierodove l’infinito e il finito si svolgono in una stessa scena e dove lascena è il movimento stesso del loro accadimento. Quando parlia-mo del circolo ermeneutico dobbiamo tenere sempre davanti anoi questo movimento e stare all’altezza delle vertenze logicheche vi si giocano. Dobbiamo innanzi tutto comprendere, e qui stauna originaria contiguità che stringe insieme Hegel e Heidegger,che il circolo ermeneutico è soprattutto il circolo della totalità, to-

talità come infinito, perché nulla deve sottrarsi; potremmo dire:neppur il niente del nulla. Nulla perché la differenza che si apre èla differenza dell’essere, così come il pensiero che sa nel tempo èil pensiero dell’essere.

Stiamo sempre scorrendo nel registro del doppio genitivo ene stiamo subendo le movenze. Ma proviamo ad addentrarci piùa fondo in questa necessaria diffrazione che ci si impone. In que-sto movimento il soggetto è l’accadimento dell’assoluto, l’assoluto

può congiungersi a sé e riconoscersi nel Dasein di un soggetto,deve riflettersi nella riflessione del sé del soggetto, anzi il sogget-to stesso avrà eseguito il suo compito se il suo pensare sarà pen-siero dell’assoluto. Hegel per primo aveva visto quanta vertigineci fosse in questo movimento in cui l’assoluto si guarda e si rico-nosce attraverso lo sguardo del soggetto, vertigine complicata ul-teriormente dal fatto che lo sguardo del soggetto deve, in questomovimento, esaurire ogni estraneità, ogni differenza, sino al pun-to che il sé deve diventare il sé della sostanza. È l’Idea che diventa

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325C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

spirito nel farsi soggetto della sostanza. Il Ci del Dasein compie la

stessa flessione. Il Ci si sporge verso la sua provenienza sino a di-ventare diafano. Ecco, Hegel e Heidegger, divaricati nella letturadi Aristotele, partecipano di una contiguità essenziale e giocanocon comuni movenze nello stesso circolo ermeneutico.

Partecipano di una scena che alla fine è quella della moderni-tà per la quale finito e infinito vorticano nella stessa scena, anzi lascena essenziale è la partecipazione del finito all’infinito e poiché

hanno la contiguità nella essenziale partecipazione a questa mo-venza che sono accomunati dall’ossessione moderna per eccellen-za. Un’ossessione che dopo Spinoza doveva diventare sempre piùcentrale. Cioè l’ossessione del metodo.

Ci troviamo in un punto decisivo e dobbiamo precisare benequesto passaggio. Se il pensiero è pensiero dell’essere come il finitoè finito dell’infinito il metodo deve diventare il percorso di riduzio-ne della sporgenza dello sguardo del soggetto che avanza nella ri-

cerca. In Heidegger il soggetto si allarga nell’aperto di un ascolto,

in Hegel deve aderire al movimento della cosa stessa, potremmodire: ascolto della cosa stessa. Il percorso è obbligato perché il ciò chemuove il movimento della temporalizzazione dell’essere o del far-si soggetto della sostanza, intimamente, non appartiene e nonpuò appartenere, in nessun modo, all’intensità dello sguardo diuna domanda troppo singolare. Anzi in questa prospettiva filoso-

fica più lo sguardo brucia di luce propria (basterebbe ricordare ilrimprovero di Hegel a Fichte) più occlude il movimento del riflet-tersi dell’essere.

Non a caso solo il linguaggio dialettico può raccontare que-sta messinscena di un movimento della cosa che vuole sottrarsialla prensione o alla testimonianza di uno sguardo. La domandadecisiva a cui conduce la stessa domanda del circolo ermeneutico,diciamo pure la domanda della domanda è la seguente: possiamoabolire la testimonianza del Chi nel circolo ermeneutico? La que-

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326 HEGEL E ARISTOTELE

stione non è semplice, anzi, forse è tra le cose più complicate che

possiamo avere sotto mano. Non a caso il problema del metodo, omeglio il metodo della filosofia, diventa centrale nell’idealismotedesco, proseguendo la svolta di Spinoza, dopo che l’essere arri-va sempre più immanentemente a coincidere con la verità. Se es-sere e verità coincidono il metodo della filosofia diventa semprepiù problematico e persino equivoco. Non può essere semplice-mente un mezzo o uno strumento di conoscenza, non può restare

indifferente al suo oggetto (pensiamo ancora al rimprovero diHegel a Spinoza) perché altrimenti la verità resterebbe semplice-mente sul piano di mere rappresentazioni e continuerebbe a so-stare fuori dallo spazio del racconto filosofico. Il metodo deveaderire al suo oggetto fino al punto di diventare la forma logicadel raccontarsi della verità, logica dell’essere e il Chi o Colui cheagita la domanda e attiva il metodo deve seguire il calvario dimorte e resurrezione a cui il metodo viene chiamato dalla dialetti-

ca. Il Metodo e il Chi sono chiamati a estinguersi nel movimentodella cosa stessa e la triangolazione dialettica non è altro che losforzo più grande sia stato compiuto di ridurre e riassorbire lasporgenza di un’eccedenza di questo Chi. Ma perché sia in Hegelche in Heidegger può esserci questa pretesa? E perché questa pre-tesa è comune e proviene dal punto di originaria contiguità che listringe insieme nella stessa tradizione? Perché entrambi propriorispetto ad Aristotele offrono una comune risposta alla questione

del Chi del movimento? E quindi, possiamo dirlo, si intravvede,alla fine, una comune risposta alla questione fondamentale dellaFisica di Aristotele?

In Heidegger e in Hegel Chi è dunque il ciò che avvia il mo-vimento? Alla fine il ciò che avvia il movimento è il niente. Ilniente come identico all’essere, il niente come punto di flessionedell’essere, il niente che flette l’essere verso la differenza, lo aprenella differenza in cui i differenti sono identici nel differire diquesta differenza; e questo è naturalmente possibile perché il

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327C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

niente è, alla fine, sempre dialetticamente identico e non identico

all’essere. Solo il linguaggio dialettico può raccontare la finzionedell’identità del non identico e può provare ad ascoltare questomovimento in cui il ciò che muove coincide con il mosso in cuimovente e mosso sono anch’essi identici nella differenza.

9. — Non è inoltre certo casuale che la contiguità di Hegel e Hei-

degger si prolunghi anche nell’

accezione ampia che il logos vienead assumere rispetto alla stessa ratio aristotelica. Il logos inHeidegger diviene più ampiamente Rede, discorso, e, più in gene-rale linguaggio, mentre in Aristotele circoscrive l’ambito del di-scorso cui inerisce l’esser vero e l’essere falso. Heidegger, quindi,si sposta dall’attenzione alla struttura formale degli enunciati aciò che per mezzo dell’enunciazione degli enunciati si mostra nel-l’apparire. Il logo apofantico pertanto si sottrae alla semplice alter-

nativa tra concordanza e discordanza di un enunciato con l’ogget-to per vertere intorno a ciò che nel parlare o nel discorrere giungealla manifestatività dell’apparire. Se il logo pertanto è un attende-re l’apparire di ciò che appare, un porsi nell’attesa di una esibizio-ne dell’ente che si mostra in lui stesso, la logica non può che esse-re  fenomenologia ;  e, soprattutto, non può non avere una portataontologica. Così in Hegel la logica è ontologica, cioè pensiero chesi dirige verso la propria essenziale costituzione ontologica, pen-

siero dell’essere come dicevamo prima. In entrambi la logica nonpuò, per così dire, essere extrasistematica; deve cessare la funzio-ne di metro misurante di Organon , proprio perché il pensare puòaprirsi verso la propria essenziale manifestatività quanto minoreè la sporgenza della misura che uno sguardo può esercitare. Ilpensiero pensa da sé e pensa da sé perché è pensiero dell’assolu-to; è l’assoluto che si pensa e non può essere sottoposto alla misu-ra di un metodo. Questa misura Hegel la concepiva, sempre,come l’ingombro di un’eccesso di intenzione e di sguardo sui con-

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328 HEGEL E ARISTOTELE

tenuti e sul movimento del pensiero stesso, questo eccesso è per

così dire extrasistematico e secondo lui impedisce che il pensarepensi da se stesso e in se stesso. Quando egli afferma che non sipuò accedere al pensare con un metodo perché il pensare dà a sestesso il proprio metodo, non dice altro che il pensiero deve poterfare a meno di quel Chi in quanto sguardo che muove dall’esterno.Possiamo dire in fondo che il metodo o il suo bisogno è origina-riamente ed essenzialmente la via di questo sguardo.

Così,

in Aristotele,

(abusiamo ancora una volta delle licenzeche in un Convegno è possibile prendersi) la Logica è per così direun’eccedenza extrasistematica per eccellenza.

Su questo però non voglio addentrarmi perché ci portereb- be lontano e voglio invece riprendere perché siamo pronti per far-lo la questione centrale a cui siamo partiti. Chi è il chi del movi-mento? Possiamo trasformarlo in questo modo: chi è il Chi delpensiero?

10. — È la forma, in Hegel, che si attua nel riconoscersi; in Hei-degger è l’essere che avanza nell’aspetto; in entrambi questo im-plica le insidie di un circolo nel quale il soggetto diventa diafanoe il metodo si sottrae disseminando tra l’altro le filosofie del so-spetto sulle orme che il suo movimento inevitabilmente lascia an-che quando ammutolisce e si sottrae (anche il suo sottrarsi getta

sempre un’ombra che fa ingombro).Chi muove il movimento in Aristotele? Detto nei termini

più vicini a questi ultimi passaggi: chi muove il pensiero in Ari-stotele?

È probabile che Aristotele si sottragga alle filosofie che han-no risposto all’abisso della creazione dell’esperienza giudaico-cri-stiana, alla fine, con l’estinzione del metodo.

In Aristotele non è la flessione del nulla e il gioco dialetticodell’essere e il nulla il Chi del movimento. Anzi si può dire che il

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329C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

Chi del movimento proprio in quanto extrasistematico, impedisce

la totalità del sistema e in questo salva l’originaria natura o me-glio la sorgente del metodo. In Aristotele l ’Organon è il corrispetti-vo del motore immobile su cui poggia il Chi del movimento. Cosìcome nel pensare il pensiero pensa raccogliendo una spinta o unappoggio che non gli appartiene intimamente e non appartieneneppure alla cosa che pensa.

Riflettiamo ancora su Chi muove il pensiero. Così come il

Chi del movimento viene da fuori e ha per così dire un punto diappoggio, un eterno punto di appoggio, così l’intelletto attivo vie-ne da fuori e solo esso è attivo. In Hegel il pensiero pensa se stes-so perché originariamente è pensiero che si avvia come forma as-soluta che si attua nel riconoscersi. In Heidegger sembrerebbe diassistere ad un movimento che descrive la provenienza a partireda un invio. Il pensare sembrerebbe dislocato in un invio che sisottrae alla presa di uno sguardo ; tuttavia il ciò che invia , pur sot-

traendosi come tema di un’intenzione, appartiene al mostrarsidell’aspetto dell’essere. Il Chi muove appartiene all’essere cosìcome all’essere radicalmente e totalmente appartiene l’esser del-l’esserci. In Aristotele il Chi muove, diciamolo in questo modo, al-meno per un istante, non appartiene al mosso. Occorre che, perun attimo, dall’eternità si sottragga o sia sottratto al movimento.

Impassibilità segnala anche questo: ciò che a sua volta non su- bisce un invio e che nessuna storia può mutare o trasformare, un’e-

ternità che attiva il tempo ma è impassibile al consumo del tempoed è quindi garanzia dell’eternità stessa del tempo.

Pensiamo solo al fatto, per marcare ancora la distanza Hegel-Aristotele, che l’eterno hegeliano, si consegna a tal punto nel tem-po da giocare nel tempo tutta la sua eternità fino al punto da sot-toporre al consumo tutte le configurazioni che può assumere. Laforma come atto, in Hegel, è infatti a tal punto carne del tempo , daconsegnarsi al consumo e al mutamento del suo svolgimento.Così anche in Heidegger la temporalizzazione del tempo può

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330 HEGEL E ARISTOTELE

riconfigurare ogni epoca e la forma dell’epoca e dell’esserci del-

l’epoca.

11. — Ma rinnoviamo ancora la domanda: chi muove il pensierodell’essere?

Le alternative che vengono incontro sia che il Chi apparten-ga all’attualità dell’atto della forma, sia che il Chi appartenga allo

svolgersi dell’

essere che si temporalizza nel sapere del Dasein,

sono le seguenti: se l’atto del Chi non avesse una differenza di na-tura rispetto al circolo, il circolo si troverebbe a non avere più unpunto di appoggio. In questo senso la diafania del Chi della do-manda (che è sempre — come insiste Levinas— inesorabilmentealtro dal Chi della forma o dal Chi dell’essere) alla fine conduce ilcircolo nel buio del silenzio.

Per provare a chiarire ulteriormente, proviamo a trasforma-

re la domanda precedente, nella seguente: Chi muove il circolo?Chi è il Chi dal cui appoggio si diparte il movimento? Aristotelerinvia sempre ad una misura che concorra ma non si estingua inciò a cui concorre. La stessa misura che Aristotele individuava neltempo. Leggiamo nella traduzione di A. Russo: «L’esistenza deltempo non è possibile senza quella del cangiamento; quando, in-fatti, noi non mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertia-mo di mutar nulla, ci pare che il tempo non sia trascorso affatto».

E ancora: «quando abbiamo determinato il movimento mediantela distinzione del prima e del poi, conosciamo anche il tempo, eallora noi diciamo che il tempo compie il suo percorso, quandoabbiamo percezione del prima e del poi nel movimento». Saltia-mo alcuni notissimi passaggi e giungiamo alla conclusione:

«(...) se non si ammette l’esistenza del numerante, è ancheimpossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure ilnumero ci sarà. Numero, infatti è o ciò che è stato numerato o ilnumerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto

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331C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

l’anima o l’intelletto che è nell’anima hanno la capacità di nume-

rare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella del-l’anima (...)» (37).

Punto di appoggio, dunque, o, meglio, misura senza la qualeil tempo non accadrebbe così come senza la misura dell’appoggiodell’impassibilità non accadrebbe il movimento. Una misura, comel’istante di Levinas, che appartiene al tempo ma, contemporanea-mente, è verticale rispetto al tempo: giunge da una provenienza

che non è il tempo stesso (

38

). Aristotele non sembra darci tregua suquesto punto. Perché la misura sia una misura occorre che proven-ga dall’al di là rispetto a ciò di cui è misura. È inesorabilmenteun’aldi là nell’al di qua, misura che non dilegua nello scorrimento,

che non si consuma nel dileguare, in questo senso impassibile allatemporalità. Nel trapasso della modernità le cui tracce sono già inAgostino, l’anima tende a coincidere con il tempo, così come la to-talità converge nell’infinito e quindi l’istante della misura appartie-

ne esso stesso al dileguare, assume in se stesso la potenza del dile-guare e diventa essenzialmente niente. L’istante è solo niente, aper-tura del niente in seno all’essere della temporalità. Quella sporgen-za della misura che per essere tale deve provenire dall’al di là di ciòdi cui è misura si distende nell’istante e l’istante dilegua come nien-te del tempo. Non è un caso che proprio questo punto facesse resi-stenza alla presa filosofica di Heidegger.

(37) Phys. D 11, 218 b 21-23 ; 219 a 22-25 ; 14, 223 a 21-26.

(38) In un passaggio di Totalità e Infinito Levinas si riferisce in questo modoad Aristotele: «Questa presenza nel pensiero di un’idea il cui Ideatum va al di làdella capacità del pensiero, è attestata non solo dalla teoria dell’intelletto attivo diAristotele ma molto spesso anche da Platone» [E. LEVINAS, Totalità e Infinito , trad. it.A. Dell’Asta, Jaca Book , Milano 1986, p. 47].

Per un’indicazione sulla verticalità dell’istante nel tempo in Levinas: «Pri-ma di essere in relazione con quelli che lo precedono o lo seguono, l’istante na-sconde un atto attraverso cui esso acquisisce per sé l ’esistenza. Ogni istante è un

cominciamento,

una nascita» [E. LEVINAS,

 Dall’ Esistenza all

’ Esistente

 ,trad. di F.Sossi, Marietti, Genova 1986, p. 69].

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332 HEGEL E ARISTOTELE

Ricordiamoci quello che a questo proposito Heidegger osser-va in Essere e tempo:

«Quale sarà dunque la definizione del tempo quale si mani-festa nell’orizzonte dell’uso dell’orologio, uso ambientalmente pre-veggente, prendente tempo e prendente cura del tempo? Esso è ilnumerato manifestantesi nell’osservazione presentante e numeran-te dell’indice mobile, tale che la presentazione si temporalizza inunità estatica col ritenere e con l’aspettarsi orizzontalmente aperti

secondo il prima e il dopo. Ma questa definizione è null’altro chel’interpretazione ontologico-esistenziale della definizione del tem-po dataci da Aristotele» (39). E ancora «La sua interpretazione deltempo si muove invece nell’ambito della comprensione “naturale”dell’essere» (40). È un punto questo in cui la messa in mostra deldissidio non sarà mai sufficiente. Un dissidio talmente radicale chelo stesso Heidegger si ritrova a liquidarlo come la banalità di unatesi ordinaria del tempo. Se proviamo a farne, ancora una volta,

l’anatomia ci ritroveremo nel circolo della stessa questione nellaquale ci stiamo avvolgendo a spirale: la misura del misurante deltempo è come il punto di appoggio del tempo, come il Chi insop-primibile di uno sguardo che vive nel tempo ma proviene dalla dilà del tempo, motore immobile del tempo che in Heidegger diven-ta, nella logica necessaria del circolo, il ci dell’esser-ci. Lo sguardoche prende la misura o che misura in Heidegger e ancora più mar-catamente in Hegel, è sempre eco dell’esporsi e del venire a sé del-

l’essere. Tanto è vero che il movimento del circolo ermeneuticocome abbiamo visto, per uscire dall’ordinario inautentico deve ac-

(39) M. HEIDEGGER, Essere e Tempo , tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1982,p. 598.

Come è noto Heidegger si è soffermato sulla concezione aristotelica deltempo nel corso del semestre estivo 1927 Die Grundprobleme der Phänomenologie(HGA XXIV, § 19a). Si era occupato del rapporto tra tempo e anima in Aristoteleanche nel semestre 1926 su Grundbegriffe der antiken Philosophie.

(40) Ibidem.

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333C. MEAZZA - Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una ricostruzione

ceccare quell’occhio, farlo diventare niente, punto di flessione del

venire nell’aperto dell’essere. Quel Chi deve ridursi a niente perchésolo così la verità accade. Come insiste Levinas (riproponendo inquesto la reazione al nichilismo di Rosenzweig), alla fine, la veritàaccade nel punto in cui la stessa narrazione filosofica deve spe-gnersi; quella misura, infatti, è il Chi su cui il movimento dellastessa narrazione prende il suo appoggio. La scomparsa del testo èla conseguenza della dissoluzione del chi, in fin dei conti della dis-

soluzione del metodo a cui giunge l’

esito estremo delle filosofie po-stspinoziane in cui finito ed infinito si trovano nella convivialità diuna stessa scena che non ha nulla o niente fuori di sé ma che assu-me il niente come messa in scena del proprio movimento.

Ecco perché la distanza di Heidegger e per quelle intimeconnivenze che li accomuna anche di Hegel dalla eccentricità del-la misura sul misurato si prolunga nella distanza dalla consisten-za extrasistematica della logica aristotelica.

Ricordiamo anche l’affermazione di Hegel: «Aristotele si èlimitato ad esporre in modo determinato il pensiero nella sua ap-plicazione finita, sicché la sua logica è una storia naturale delpensiero finito» (41).

E l’ultima sentenza nella quale Hegel osserva: «Come tutta lafilosofia, così anche la sua logica ha bisogno essenzialmente d’esse-re rifusa, per modo che la serie delle sue determinazioni venganorecate in un necessario complesso sistematico, non già un comples-

so sistematico che si limiti a ripartire ordinatamente, non dimenti-chi alcuna parte, ed esponga ogni parte nel suo ordine esatto; maun sistema che ne faccia un tutto vivo ed organico, in cui ogni par-te valga come parte, e soltanto il tutto come tutto abbia verità» (42).

Aristotele dunque sembra disporsi di fronte alla presa dellefilosofie del circolo e del pensiero dell’essere, con una dislocazio-

(41) G.W.F. HEGEL, Lezioni ..., cit., p. 374.

(42) Ivi, p. 387.

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334 HEGEL E ARISTOTELE

ne di eccedenze. La misura del tempo, la misura del chi del movi-

mento in cui il movente e il mosso non fanno circolo, lo spazio delmetodo vivono di una sovrabbondanza di misura che non va peròridotta e progressivamente consumata come in Hegel e Heideggerperché ne è per così dire la sua vita più intima ed essenziale.

La stessa logica di Aristotele è garantita da eccedenze che rin-viano sempre ad un punto che eccede il movimento del suo proce-dere (soprattutto possiamo dire quando si fa sillogismo scientifico)

e rimanda e richiama un punto extrasistemico del movimento stes-so. A un punto in cui l’argomentazione poggia, o appoggia comemotore immobile del suo procedere.

Difficilmente riusciamo ad abbracciare l’enorme distanza cherimane aperta tra Aristotele da un lato e Hegel e Heidegger dall ’al-tro, se rimane in ombra il fatto centrale che l’eccedenza di ciò chemuove rispetto al movimento in Aristotele, si ritrova su un’altrasponda, rispetto alla necessità che dopo Spinoza (in particolare) si

è imposta di fare del niente dell’essere, la metafora portante del-l’identità della differenza di finito e infinito.

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GIANCARLO MOVIA

L’UNO E I MOLTI.

SULLA LOGICA HEGELIANA DELL’ESSERE PER SÉ

SOMMARIO: I. Premessa — II. Indicazioni bibliografiche — 1. Edizioni delle ope-re di Hegel e della Scienza della logica in particolare — 2. Traduzioni com-plete o parziali della Scienza della logica — 3. Altre opere di Hegel — 4.Opere di altri autori — 5. Scritti su Hegel — 6. Altra letteratura critica —III. Il “compimento” della qualità: l’Essere per sé — 1. L’Essere per sécome tale: a) Rappresentazione e concetto dell’Essere per sé. Coscienza eautocoscienza; b) Essere, Essere determinato ed Essere per sé. L ’Essereper sé come Essere determinato; c) L’essere per uno; d) Idealità e ideali-smo: da Spinoza a Kant e Fichte; e) L’Uno; f) La contraddittorietà del-l’Uno — 2. L’Uno e i molti: a) L’Uno in lui stesso; b) L’Uno e il vuoto; c) Laconcezione atomistica della natura. L’atomismo politico; d) I molti uno ela repulsione. Ancora sulla natura contraddittoria dell ’Uno; e) Ancorasull’idealismo leibniziano e l’atomismo — 3. Repulsione e attrazione: a)L’escludere dell’Uno; b) La libertà astratta (il male) e la riconciliazionecon l’altro. La dialettica platonica del Parmenide; c) L’unico Uno dell’attra-zione; d) La relazione di repulsione e attrazione; e) Critica alla costruzio-ne kantiana della materia — IV. La critica di Trendelenburg alla catego-

ria dell’Essere per sé — 1. Attrazione e repulsione e legame con l’intui-zione sensibile — 2. La repulsione e il concetto di negazione — 3. L’attra-

zione e il concetto d’identità — V. Considerazione conclusive

I. Premessa

Occuparsi, in un Convegno dedicato all’interpretazione he-geliana di Aristotele, di un capitolo della Scienza della logica in cuilo Stagirita non viene mai espressamente nominato, potrebbe sem-

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336 HEGEL E ARISTOTELE

 brare, a prima vista, una scelta assai stravagante. Tuttavia, special-

mente alla luce dell’ultima parte di questa relazione, nonostante lasua stringatezza, si potrà constatare che il legame tra Hegel e Ari-stotele (come quello tra Hegel e Platone) riguardo al tema crucialedell’Uno e dei molti non è per nulla estrinseco, sia pure nella limi-tata prospettiva in cui quel tema viene affrontato nel nostro capito-lo. Per il resto, effettivamente, questa relazione si presenta come unulteriore saggio di commento analitico alla Scienza della logica , che

viene così ad aggiungersi a due miei precedenti tentativi (riguar-danti rispettivamente la prima triade e l’Essere determinato) di ve-rificare la portata storico-teoretica dell’influsso della metafisicaclassica sulla logica hegeliana.

II. Indicazioni bibliografiche

1. Edizioni delle opere di Hegel e della Scienza della logica in particolare.

 JA G.W.F. HEGEL,  Sämtliche Werke. Jubiläumsausgabe, a cura di H.Glockner, 20 voll., Stuttgart 1927 sgg. (più volte ristampata); IV-V:Wissenschaft der Logik (abbr.: HEGEL,  JA, I, II... XX).

GW  G.W.F. HEGEL,  Gesammelte Werke, XI: Wissenschaft der Logik, I: Die

objektive Logik (1812-13), a cura di Fr. Hogemann e W. Jaeschke ,

Hamburg 1978; XII: Wissenschaft der Logik, II: Die subjective Logik

(1816), a cura degli stessi, ivi 1981; XXI: Wissenschaft der Logik, I: Die

Lehre vom Sein (1832), a cura degli stessi, ivi 1985 (abbr.: HEGEL, GM,

XI, XII, XXI).

SW  G.W.F. Hegel, Sämtliche Werke , III-IV: Wissenschaft der Logik , a curadi G. Lasson, Leipzig 1923 (abbr.: HEGEL, SW , III, IV).

W  G.W.F. HEGEL,Werke , V-VI: Wissenschaft der Logik , a cura di E. Mol-denhauer e K.M. Michel, Frankfurt a.M. 19902 (abbr.: HEGEL, WdL ,

I, II).

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337G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

2. Traduzioni complete o parziali della Scienza della logica.

Sdl G.W.F. HEGEL, Scienza della logica , trad. di A. Moni, rev. e Nota di C.Cesa, introd. di L. Lugarini, 2 voll., Roma-Bari 19812 (abbr.: MONI).

G.W.F. HEGEL, Science de la logique , trad. di St. Jankélévitch, 2 voll.,Paris 1947-49.

G.W.F. HEGEL, Science de la logique , I, 1: L’ être (1812) , 2: La doctrine de

l’ essence ; II: La logique subjective ou Doctrine du concept , trad., present.

e note a cura di P.-J. Labarrière e G. Jarczyk , Paris 1972, 1976, 1981(abbr.: LABARRIÈRE-JARCZYK).

G.W.F. HEGEL, La théorie de la mesure, trad. e commento a cura di A.Doz, Paris 1970 (abbr.: DOZ, La théorie).

3. Altre opere di Hegel.

Enc. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio , trad., pref. e note

di B. Croce, introd. di C. Cesa, glossario e indice dei nomi a curadi N. Merker, Roma-Bari 1989 (1ª ed., 1907).

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio con le Aggiunte , I: La

Scienza della logica, a cura di V. Verra, Torino 1981.

Encyclopédie des sciences philosophiques , I: La Science de la logique, acura di B. Bourgeois, Paris 19792.

Fen. Fenomenologia dello spirito, trad. di E. De Negri, 2 voll., Firenze

19692

.LMJ Logica e metafisica di Jena (1804/05), a cura di F. Chiereghin, Trento

1982.

Lez. filos. Lezioni sulla filosofia della religione , a cura di E. Oberti e G. Borruso,

3 voll., Roma-Bari 1983 (1ª ed., 2 voll., Bologna 1973-74).

Lez. st. Lezioni sulla storia della filosofia , trad. di E. Codignola e G. Sanna, 3voll., Firenze 1964 (1ª ed. 1930-45).

Prop. Propedeutica filosofica ,  trad., introd. e note di G. Radetti, Firenze1977.

rel.

 filos.

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338 HEGEL E ARISTOTELE

VGPh Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, rist. della 2ª ed. di K.L.

Michelet, a cura di G.J.P.J. Bolland, Leiden 1908 (abbr.: BOLLAND).

4. Opere di altri autori.

ARISTOTELE: Metafisica , saggio introdutt., testo greco con trad. e commentario

a cura di G. Reale, ed. maggiore rinnovata, 3 voll., Milano 1993.

ARISTOTELE: L’ Anima ,  trad., introd. e commento di G. Movia, Napoli 1979;

19922.

ARISTOTELE: L’Anima , introd., trad., note e apparati di G. Movia, testo greco a

fronte, Milano 1996 (abbr.: MOVIA , in ARIST., L’ Anima2).

PLATONE: Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano 1991 (traduzioni di G. Rea-

le, M.L. Gatti, C. Mazzarelli, M. Migliori, M.T. Liminta, R. Radice).

S. THOMAE AQUINATIS: Quaestiones disputatae , I: De Veritate , a cura di R. Spiaz-

zi, Torino-Roma 1964.

5. Scritti su Hegel.

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del finito , in E.B., Studi aristotelici , pp. 353-61.

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Hegel esordisce affermando che l’Essere per sé è la terza e ul-tima categoria della determinatezza o qualità, dopo l’Essere (com-prensivo anche del Nulla e del Divenire) e l’Essere determinato (1);

«nell’essere per sé l’essere qualitativo è compiuto» (2); in lui la qua-lità trova la sua sintesi o, ancor meglio, raggiunge il «suo culmi-ne» (3) e, appunto, il suo compimento e perfezione (4). L’esserequalitativo si compie nell’Essere per sé giacché quest’ultimo, comenegazione dell’alterità, è l’immediato ritorno in sé (5), «è l’essere in-finito» (6), o, piuttosto, è la prima forma (7) in cui si presenta l’infini-

(1

) Cfr. VANNI ROVIGHI, La Scienza , p. 106.(2) Sdl , p. 161. Cfr. Enc. , § 96 agg.: «l’essere per sé è la qualità compiuta e

contiene, come tale, in sé l’essere e l’essere determinato come suoi momenti ide-ali (ideell)» trad. Verra, p. 279).

(3) Sdl , p. 162.

(4) LAKEBRINK, I, p. 137; VANNI ROVIGHI, La Scienza, p. 106.

(5) ELEY, p. 114.

(6) Sdl, p. 161. Cfr. LANDUCCI, La contraddizione, p. 29 n. 8: «l’esser-per-sé èriservato al livello dov’è presente l’infinità».

(7) LAKEBRINK, I, p. 133.

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344 HEGEL E ARISTOTELE

tà affermativa, il vero infinito (8); «è l’infinità ricaduta nel semplice

essere» (9), l’infinito qualitativo (10).Come già sappiamo, se l’Essere iniziale è l’essere assoluta-

mente indeterminato (11), l’Essere puro identico al Nulla, l’Esseredeterminato è il superamento (ma solo immediato) dell’Essereiniziale (12). L’Essere determinato, che dice sempre relazione ad al-tro (13), è la prima (immediata) negazione (‘A non è B’) (14), la nega-zione semplice (negazione come mera determinazione) (15), ossia

l’unità semplice dell

’essere e della negazione (

‘A è A e non B

’) (

16

).«Appunto perciò» l’Essere e il Nulla, nell’Essere determinato,

«sono in sé ancora disuguali l’uno all’altro, e la loro unità non è an-cora posta» (17); nell’Essere determinato, l’unità di Essere e Nullaè contenuta implicitamente, ma non è posta esplicitamente (18).«L’essere determinato è... la sfera della differenza, del dualismo, il

(8) RADEMAKER, p. 59.

(9) Sdl, p. 163. Cfr. LAKEBRINK, I, p. 134.

(10) Cfr. Sdl, p. 102, e DOZ, La logique, p. 69.

(11) Sdl, p. 161.

(12) VANNI ROVIGHI, La Scienza, p. 106.

(13) Ibid.

(14) Sdl, p. 161. Cfr. p. 103: «l’essere determinato è il semplice esser unodell’essere e del nulla. A causa di questa semplicità, ha la forma di un immedia-to. La sua mediazione, il divenire, si trova dietro di lui. Essa si è superata, e per-ciò l’essere determinato appare quale un primo da cui s’inizi».

(15) LANDUCCI, La contraddizione, p. 29.

(16) Sdl, pp. 161 e 103 s.; cfr. MOVIA, Finito, p. 120 n. 32.

(17) Sdl , pp. 161 e 103: «l’essere determinato è il semplice esser uno dell’es-sere e del nulla»; 103 s.: «l’essere determinato è in generale, conformemente al suodivenire, un essere con un non essere, cosicché questo non essere è accolto in sem-plice unità con l’essere».

(18) Ivi, p. 109: «la negazione sta immediatamente di contro alla realtà»; il

negativo«

nella realtà come tale rimane ancora nascosto»;

nella qualità, «

in quantoessente, è la differenza, - la differenza di realtà e negazione».

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345G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

campo della finitezza» (19), della contraddizione di essere e non

essere (20). La determinatezza del Dasein non è quindi assoluta, marelativa (21); una qualità è determinata ed è quindi se stessa solo inquanto si distingue da un’altra; ad es., il rosso è quello che è solo inquanto non è il giallo; la sua ‘determinatezza relativa’ non è che la«relazione a un essere determinato altro da lui» (22).

Al contrario, «nell’essere per sé la differenza fra l’essere e ladeterminatezza o negazione è posta e pareggiata», ovvero la diffe-renza è posta, ma insieme risolta nell’identità (23). Nella categoriadell’Essere determinato c’è ancora la differenza di essere e negazio-ne (24); anzi, nell’Essere determinato la negazione è ciò che assicural’essere nella sua positività (25). Ma, al termine della categoria dellafinitezza (26), la negazione, ovvero l’alterità, è passata nell’infinità,

nella «negazione della negazione posta», ossia nell’affermativo (27),nell’infinito, appunto, in cui la relazione ad altro è dominata dallarelazione a sé (28). A questo proposito va osservato che, diversa-

mente da p. 110, la nozione di ‘negazione della negazione’ ha quiun significato categoriale, non trascendentale; mediante questa no-zione l’Essere per sé si trova specificamente definito (29). In ogni

(19) Ivi, p. 161.

(20) Ivi, p. 128. Cfr. LAKEBRINK, I, p. 123; LÉONARD, pp. 71 s.

(21) Sdl, p. 161. WAHL,  Commentaires, p. 99, ci ricorda che il vero ‘per sé’

(assoluto) non ci si presenterà che alla fine della Scienza della logica! Vedi ancheLÉONARD, p. 82.

(22) Sdl, p. 164. Cfr. LAKEBRINK, I, p. 137.

(23) Sdl, p. 161. Cfr. HARRIS, Hegel’ s Logic, p. 228.

(24) Sdl, p. 161.

(25) Cfr. LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 125 n. 1.

(26) Sdl, pp. 137 s.

(27) Ivi, p. 138.

(28) Ivi, pp. 161 s. Cfr. LANDUCCI,  La contraddizione, pp. 28 ss., che rinviaanche a Fen., I, pp. 207 s.

(29) LANDUCCI, La contraddizione, p. 81.

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346 HEGEL E ARISTOTELE

caso, la negazione della negazione, l’infinità, l’Essere per sé è «rela-

zione semplice a sé» (30), e dunque, nell’Essere per sé, la negaziones’identifica con l’essere (31); l‘Essere per sé è «esser-determinato(Bestimmtsein) assoluto» (32). Ciò significa che l’Essere per sé è l’es-sere che ritorna in sé a partire dalla negazione di quella negazioneche è la determinatezza; nell’Essere per sé, la determinatezza è di-venuta infinita o rapportata a sé (33). L’Essere per sé come infinito,

come l’«altro dell’altro» (34), come negazione della negazione, non

ha dunque l’altro

,inteso come principio determinante

,al di fuoridi sé (come il ‘rosso’ ha il ‘giallo’ fuori di sé!), ma in lui stesso. In tal

modo, è «esser-determinato assoluto», che, per così dire, non ha bi-sogno di aspettare un altro a lui esterno per poter essere il suo sédeterminato (35).

1. L’ Essere per sé come tale

a) Rappresentazione e concetto dell’ Essere per sé. Coscienza e autoco-

scienza — Se la filosofia ha il compito peculiare di trasformare lerappresentazioni in pensieri o concetti (36), tale compito deve

(30) Sdl, p. 162. Cfr. ivi, p. 154: «l’infinità è ritorno in sé, relazione a se stes-so»; Enc., § 96: «l’essere per sé» è «relazione a se stesso» (trad. Verra, p. 279).

(31) Sdl, pp. 154: «l’infinità è ritorno in sé, relazione a se stesso, essere»;

163: «l’essere per sé è l’infinità ricaduta nel semplice essere»; Enc., § 95: «l’essere

è ristabilito, ma come negazione della negazione, ed è l’essere per sé» (trad.Verra, p. 277); § 96 agg.: «l’essere per sé, come essere, è relazione semplice a sé»

(trad. Verra, p. 279). Cfr. anche TAYLOR, Hegel, p. 245: Hegel ci avvisa che ci tro-viamo ancora al livello dell’essere, non a quello dell’essenza!

(32) Sdl , p. 162.

(33) BIARD, I, p. 94. Cfr. Hegel, GW , XI, p. 83, e trad. LABARRIÈRE-JARCZYK, I,1, pp. 121 s.

(34) Sdl, p. 114; Enc., § 95.

(35) LAKEBRINK, I, p. 137.

(36) Enc., § 5.

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347G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

adempiersi anche nel caso dell’Essere per sé. Con una movenza che

ricorda l’analisi aristotelica dei  phainòmena (che includono anche ilegòmena) (37), Hegel si richiama all’uso dell’espressione ‘essere persé’ nel linguaggio ordinario (wir sagen , dass ecc.). Essa indica la se-gregazione e la chiusura, l’essere soltanto con sé, l’aver rotto le rela-zioni col prossimo (38). Trasformare questa rappresentazione inconcetto significa portare allo scoperto la dialettica dell’Essere persé. Se la ‘rottura’ o la lacerazione corrisponde alla negazione delle

relazioni all’altro in generale

,inteso come il negativo di noi stes-si, la negazione del negativo, sia esso il Qualcosa o il mondo nel

suo complesso, fa emergere l’infinitamente affermativo del propriosé (39). L’alterità viene superata nel ‘risucchio’, per così dire, di que-sta negazione; l’altro è per l’Essere per sé «soltanto come un supe-rato, come un suo momento» (40). L’altro, dunque, non sta più ac-canto e al di fuori del limite e della limitazione, come avveniva nelQualcosa; l’Essere per sé, come rimozione dell’altro, è «infinito ri-

torno in sé» (41

).

(37) Cfr. OWEN, Tithenai, pp. 83 ss., e MOVIA, in ARISTOTELE, L’ Anima, pp. 92ss.

(38) Sdl, p. 162. Cfr. LAKEBRINK, I, p. 133, ed anche DOZ, La logique, p. 69;

RADEMAKER, p. 59; inoltre NEDEL, Die Fürsichsein-Kategorie, p. 259.

(39) Sdl, p. 162. Cfr. LAKEBRINK, I, pp. 133 ss.

(40) Sdl, p. 162. Cfr. LAKEBRINK, I, pp. 134 s., ed anche SCHMIDT,  Hegels

Wissenschaft, p. 95.(41) Sdl, p. 162. Cfr. LAKEBRINK, I, pp. 134 s., ed anche BIARD, I, p. 98;

LANDUCCI, La contraddizione, p. 81; VANNI ROVIGHI, La Scienza, pp. 106 s.; TAYLOR,

Hegel, p. 244; MASSOLO,  Logica, p. 31; VERRA, Letture, pp. 153 s.: «l’essere per sécome tale indica... l’infinito ritorno dell’essere in se stesso [cfr. Sdl, p. 162] dallasfera dell’essere determinato come sfera della differenza, del dualismo, dellafinitezza [ivi, p. 161], o, ancora, il superamento dell’alterità caratterizzante lasfera dell’essere determinato [ivi, p. 162]. Come dice anche il linguaggio comu-ne, qualcosa è per sé in quanto ha superato l’alterità, la relazione e comunità conaltro e l’altro è per lui soltanto come un suo momento [ibid.]. Se dunque, nel suo

primo momento,

l’essere per sé è

,a sua volta

,come essere determinato

,in quan-to la natura negativa dell’infinità vi è posta in modo immediato [ivi, p. 163], tale

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348 HEGEL E ARISTOTELE

Un primo esempio che Hegel adduce dell’Essere per sé è la

coscienza (42). La coscienza, infatti, contiene in sé, ossia implicita-mente (43), l‘Essere per sé, in quanto si rappresenta l’oggetto, lo hain lei come qualcosa di ‘ideale’ (Ideelles) , pur rimanendo, al tempostesso, presso di sé (44). La coscienza è, dunque, caratterizzatadall’intenzionalità, dal fatto che è diretta verso l’oggetto, l’alterità,

e, insieme, dall’interiorità o ipseità, dal ritorno in sé in quanto sog-getto (45). Nell’ aver coscienza, il soggetto s’identifica intenzional-

mente con l’oggetto

;Aristotele direbbe:

«non è la pietra che si trovanell’anima, ma la sua forma» (46)! Il soggetto assimila a sé l’oggetto,

lo riduce ad una sua rappresentazione, nel senso che la coscienza èun’attività immanente (47). Pertanto l’ Essere per sé è il rapporto ne-gativo contro l’altro, è la negazione dell’alterità, e, al tempo stesso,

la riflessione in sé mediante questa relazione (48). Il conoscere è un fieri aliud in quantum aliud ; anche qui, Aristotele direbbe: «l’anima è

modo di essere determinato dell’essere per sé è però sempre un momento inter-no dell’essere per sé, e, così, quel rapporto che nella sfera precedente, quelladell’essere determinato, si configurava come alterità, si è qui ripiegato nell’unitàinfinita dell’essere per sé e si configura come essere für Eines [ibid.]».

(42) Pace WAHL,  Commentaires, p. 109, non si può negare che, almeno inquesto punto, ci sia una certa analogia tra l ’Essere per sé hegeliano e la nozionesartriana del ‘per-sé’.

(43) JOHNSON, The Critique, p. 28.

(44) Sdl, p. 162 (e pp. 160 s.: sull’ ‘idealismo’).

(45) WAHL, Commentaires, pp. 97 e 99 (riferimento alla dottrina dell ’inten-zionalità nel pensiero medievale e in Husserl).

(46) De An., III 8, 431 B 29. Cfr. MOVIA, in ARISTOTELE, L’ Anima, pp. 188 e 392n. 2.

(47) VANNI ROVIGHI, La Scienza, p. 107. Cfr. anche HEGEL, LMJ , p. 137; Enc.,§ 399 agg., e CHIEREGHIN, L’ eredità, pp. 241, 259 ss.

(48) Sdl, p. 162. Cfr. anche LAKEBRINK, I, pp. 135 s.: la «relazione del negati-vo a se stesso» (Enc., § 96; trad. Verra, p. 279) significa che l’Essere per sé si rivol-

ge polemicamente (Sdl,

p. 162) contro l’ ‘altro

’,per ottenere il suo

‘esser riflessoin sé’. Vedi anche LÉONARD, p. 83.

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349G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

in certo modo tutti gli esseri» (49); il  fieri aliud si compie però nel

soggetto cosciente, pur lasciando l’altro nella sua alterità (50). Inogni caso, la coscienza ‘apparente’, nel senso della Fenomenologia

dello spirito (51), è il dualismo di soggetto e oggetto, di sapere ed es-sere (52).

Se nella coscienza l’Essere per sé è contenuto implicitamente,

nell’autocoscienza l’Essere per sé è compiuto e posto esplicitamen-te; in lei, il lato della relazione all’altro è rimosso (53). La vera co-

scienza è autocoscienza,

ossia coscienza che ha riconosciuto sé nel-l’oggetto (54); si potrebbe dire, schematicamente, che, mentre la co-scienza segna il prevalere dell’oggetto, l’autocoscienza realizza laprevalenza del soggetto (55). L’autocoscienza è così l’esempio piùvicino (nächste) , più immediato, ma anche il più perfetto, della pre-senza dell’infinità (56); lì il finito o l’altro viene trasceso e si realizza

(49) De An., III 8, 431 B 20. Cfr. MOVIA, in ARISTOTELE, L’ Anima, pp. 188 e 392

n. 2; VANNI ROVIGHI,  La Scienza, p. 107; inoltre HEGEL,  Lez. st. filos., II, p. 361;FERRARIN, Hegel, pp. 132 ss.

(50) Sdl, pp. 162 s. Cfr. VANNI ROVIGHI, La Scienza, p. 107.

(51) Fen., I, pp. 81 ss. Cfr. anche Enc., § 413.

(52) Sdl, p. 163. Cfr. VANNI ROVIGHI, La scienza, p. 107.

(53) Sdl, p. 163. Cfr. HARTMANN, La filosofia, p. 429.

(54) Enc., § 423. Cfr. VANNI ROVIGHI, p. 107.

(55) Fen., II, p. 3. Cfr. LANDUCCI, Hegel, p. 26 e n. 40.

(56) Cfr. Sdl, p. 163, e HARTMANN, La filosofia, p. 429; JOHNSON, The Critique,p. 29. Vedi anche Enc., § 96 agg.: «l’esempio di essere per sé più alla nostra por-tata lo abbiamo nell’Io. Noi ci sappiamo essenti in modo determinato anzituttocome esseri distinti da un altro essere essente in modo determinato e in relazio-ne ad esso. Ma poi, noi conosciamo anche questa latitudine dell’essere determi-nato come appuntitasi quasi a forma semplice dell ’essere per sé. Quando dicia-mo: Io, questa è l’espressione della relazione a sé, infinita e insieme negativa. Sipuò dire che l’uomo si distingue dall’animale, e quindi dalla natura in generale,

proprio perché concepisce sé come Io; il che significa, al tempo stesso, che lecose naturali non portano al libero essere per sé, ma, in quanto limitate all’essere

determinato,

sono sempre soltanto essere per altro»

(trad. Verra,

p. 280). Cfr.inoltre MURE, A Study , pp. 52 s.

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350 HEGEL E ARISTOTELE

il ritorno in sé (57). Come nel caso della coscienza, Hegel non pre-

tende — come, invece, crede Trendelenburg (58) — che, col ricorsoall’Essere per sé, il fenomeno dell’autocoscienza venga concettual-mente e logicamente esaurito. Si tratta sempre e solo di esempi diriflessione in sé; l’esperienza dell’autocoscienza troverà il suo fon-damento solo nelle determinazioni logiche dell’autorelazionalitàproposte nella logica dell’essenza e del concetto (59). Se, dunque,

l’infinità dell’autocoscienza è astratta rispetto alla ragione e allo

spirito,

è invece concreta rispetto all’Essere per sé e alla sua naturaqualitativa e immediata (60). L’infinità si dimostra affermativamente

nell’autocoscienza e nell’Io; nella sfera semplicemente ontologicadella qualità non siamo ancora a questo punto (61).

 b) Essere , Essere determinato ed Essere per sé. L’ Essere per sé come Essere

determinato — L’Essere per sé è, anzitutto, «l’infinità ricaduta nel

semplice essere» (62

). L’infinità, come negazione della negazione,

(57) JOHNSON, The Critique, p. 29. Si leggano anche le belle osservazioni, teo-reticamente impegnate, di MOSCHETTI, L’ unità, I, p. 171, che avvicina l’autocoscien-za alla ‘categoria’ dell’unità (l’Uno, come subito vedremo, è la prima figura logica,

dell’Essere per sé hegeliano!), intermedia, secondo Moschetti, fra la ‘metacatego-ria’ dell’Essere e le ‘postcategorie’: «il più decisivo contributo alla chiarificazionedel nostro concetto di unità ci è dato dall’esperienza interna: dall’interiorità dellavita autocosciente. E invero, nel mondo invisibile di sensazioni, di affetti, di idee,

di ricordi, che costituisce l’in me di ciascuno di noi, si rivela un centro sussistente,

che permane indiviso, semplice, identico a se stesso quanto è attivo e fecondo nel-la molteplicità delle più ricche operazioni... L’Io è quindi la tipica e più alta realiz-zazione della nostra categoria: unità per sé ; sostanza intrisecamente attiva: unità-unificante».

(58) TRENDELENBURG, Log. Unt., I, p. 60 (trad. Morselli, p. 36).

(59) SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 135.

(60) Sdl, p. 163.

(61) HARTMANN, La filosofia, p. 429.

(

62

) Sdl,

p. 163. Cfr. anche ivi,

pp. 154 e 185 s.;

inoltre Enc.,

§ 96 agg.:«

l’es-sere per sé, come essere, è relazione semplice a sé» (trad. Verra, p. 279).

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351G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

dà luogo, come alla sua forma iniziale, all’affermativo o all’imme-

diatezza dell’Essere. Come identità con sé o relazione a se stesso,

l’infinito è dapprima l’Essere o l’immediato (63). È questa la ragioneper cui si chiama non già il ‘per sé’ (assoluto) ma l’‘essere per sé’. Inrealtà l’infinito qualitativo è confinato nella sfera dell’essere, ben-ché sia altrettanto vero che, a differenza dell’Essere puro dell’inizio,

in lui resta sempre presente il movimento di negazione della nega-zione (64).

Inoltre l’Essere per sé

,in quanto negazione (o determinazio-ne esplicita), ricade nella categoria dell’Essere determinato, ma, in

quanto negazione della negazione e determinatezza infinita (oautodeterminazione), ha l’Essere determinato solo come suo mo-mento (65). Perciò, come l’Essere-per-sé esprime quello che è statol’essere-in-sé, così l’‘essere-per-uno’ (come subito vedremo) ripren-de, al livello di una determinatezza più piena, quello che, nell’Esse-re determinato, è stato l’essere-per-altro (66).

Mentre, dunque, nella relazione del Qualcosa con l’Altro (ades., del rosso col giallo!), il Qualcosa è determinato dal suo Altro,

ovvero la natura positiva dell’Altro è essenziale alla sua determina-zione, nel caso dell’Essere per sé tutto quello che importa è che ci

(63) Enc., § 96: «l’essere per sé, come relazione a se stesso, è immediatezza»

(trad. Verra, p. 279). Cfr. LAKEBRINK, I, p. 134.

(64) LÉONARD, p. 82. Cfr. anche MURE, A Study, p. 52; MASSOLO, Logica, p. 31(la ‘ricaduta’ nell’immediatezza non è una ‘ripetizione’ di quello che è già stato);HARRIs, An Interpretation, p. 119 (contro TAYLOR, Hegel, p. 245): l’immediatezza del-l’Essere per sé è mediata!).

(65) Sdl, p. 163. Cfr. anche ivi, pp. 154 e 186; inoltre, Enc., § 96 agg.: «l’essereper sé, ... come essere determinato, è in modo determinato; questa determinatezzaperò non è più la determinatezza finita del qualcosa nella sua distinzione dall ’al-tro, ma è la determinatezza infinita che contiene dentro di sé la distinzione comesuperata» (trad. Verra, pp. 279 s.). Vedi anche WAHL, Commentaires, p. 99; HARRIS,

An Interpretation, p. 115.

(66

) Sdl,

p. 163. Cfr. LABARRIÈRE

-JARCZYK,

I,

1, p. 126 n. 6;

VERRA,

 Letture,

pp.153 s.

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352 HEGEL E ARISTOTELE

sia qualcos’altro che non sia l’Essere per sé, mediante cui l’Essere

per sé possa determinarsi. L’‘altro’ dell’Essere per sé è insomma lasua interna differenziazione, costitutiva di quello che esso è. Per-tanto, l’Essere per sé gode di una accresciuta indipendenza rispettoal Qualcosa, in conseguenza della maggiore individualità e centra-lità del Sé (67). Il fatto, poi, che l’Essere per sé, nella sua autodeter-minazione, abbia superato ogni alterità qualitativa, fa comprende-re come ormai ci stiamo incamminando verso la dialettica della

quantità (

68

).

c) L’ essere per uno — L’essere per uno — spiega Hegel — è il mo-mento finito, ‘ideale’, non autonomo dell’Essere per sé inteso comel’infinito, la vera realtà o il ‘concreto’ (69). Nell’Essere per sé c’è ben-sì una relazione, ma, a differenza dell’Essere determinato, non unarelazione a qualcosa che sia, in senso vero e proprio, l’‘altro’ dal-

l’Essere per sé (70

). In altre parole: nella dialettica dell’Essere deter-minato, la negazione non è ancora unificata dal suo raddoppia-mento, ma rimane in qualche modo suddivisa (71) tra l’interno el’esterno dell’esserci, opponendosi un Qualcosa a un altro Qualco-sa. Adesso, invece, l’alterità è integrata nell’Essere per sé, e l’Altrosi esprime nel momento dell’essere per uno, ossia in una determi-nazione che lo ordina pienamente all’Essere per sé (72).

(67) Cfr. Sdl, pp. 163 s. e MCTAGGART, A Commentary, pp. 35 ss.; HARRIS, AnInterpretation, p. 115; LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 127 n. 10.

(68) LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 127 n. 10. Cfr. anche BIARD, I, pp. 98 s. (sul-l’interiorizzazione dell’alterità e la determinazione come autodeterminazione).

(69) Sdl, p. 164. Cfr. VANNI ROVIGHI, La Scienza, pp. 109 s.; BIARD, I, pp. 99 s.

(70) Sdl, p. 164. Cfr. MCTAGGART, A Commentary, p. 36; RADEMAKER, p. 60;

LAKEBRINK, I, p. 137.

(71) HEGEL, GW , XI, p. 87: verteilt.

(72) LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 127 n. 11; BIARD, I, p. 99.

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353G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

Tuttavia, aggiunge Hegel, se non c’è più il Qualcosa, neppure

siamo ancora autorizzati a parlare dell’Uno; c’è l’essere per uno, manon c’è ancora l’Uno. Potremmo designare con X la realtà che è sta-ta chiamata in precedenza Qualcosa, che ora abbiamo chiamato Es-sere per sé, ma che sta per manifestarsi come Uno , e con non-X l’essereper uno. Allora, se l’Essere per sé non è ancora divenuto Uno, X(per cui non-X è) è esso stesso momento, è essere per uno; non c’èche un solo essere-per-altro (non più un Qualcosa e un Altro, che èesso stesso Qualcosa) e una sola ‘idealità’, quella di X e non-X, del-l’Essere per sé e dell’essere per uno (73). «Così l’essere per uno e l’es-sere per sé non costituiscono vere e proprie determinatezze unacontro l’altra» (74); è il pensiero rappresentativo che fa ricadere idue momenti dell’Essere per sé nei momenti dell’Essere determina-to, conferendo loro la forma di essenti (75). Ora, Hegel dimostral’unità di Essere per sé ed essere per uno nella ‘idealità’, prendendoper ipotesi (76) proprio l’opposizione di Essere per sé ed essere per

uno; quest’opposizione viene superata dall’analisi stessa di ciò cheessi implicano (77). In realtà, come l’Essere per sé, nel superamentodell’altro, si riferisce a se stesso, ed è dunque (si potrebbe dire: peridentità) ‘per uno’, così l’‘ideale’, l’essere per uno è (per identità)l’Uno stesso (78).

Come esempi paradigmatici di idealità e infinità, e quindidell’identità di Essere per sé ed essere per uno, Hegel cita l’Io, lo

(73) Sdl, p. 164. Cfr. MCTAGGART, A Commentary, p. 36.(74) Sdl, p. 164.

(75) BIARD, I, pp. 102 s.

(76) Sdl, p. 164: «in quanto la differenza venga ammessa ecc.».

(77) LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 132 n. 41.

(78) Sdl, p. 164. Cfr. BIARD, I, p. 103; HARRIS, An Interpretation, pp. 111 e 115(ed anche VERRA, Letture, p. 154, su Sdl , p. 164: «in quanto das Ideelle è necessaria-mente  für-Eines e tuttavia non per un altro, essendo essere per sé, l’Eines, per il

quale esso è,

è soltanto esso stesso»

). Nell’ultima frase di p. 164 l

’identità diven-ta però soltanto ‘inseparabilità’.

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354 HEGEL E ARISTOTELE

spirito e Dio (79). ‘Ideale’, infatti, non è solo il momento di un reale,

di un concreto, ma ideale, anzi la vera ‘idealità’ è la stessa infinità,

il concreto come unità dei suoi momenti, e in particolare il soggettoautocosciente. Le determinazioni ‘superate’ da ciò di cui sono de-terminazioni sono ideali perché possono essere pensate come distin-te da ciò di cui sono determinazioni, mentre il reale (l’Essere per sé)è il soggetto inseparabile dalle sue determinazioni (l’essere peruno) (80). L’Essere per sé conserva in lui l’alterità che gli è essenzia-

le;

l’unità verso cui ci incamminiamo è quella di una

‘totalità

’(

81

).Dio stesso non sarebbe che un Qualcosa tra altri Qualcosa, se am-mettesse un’esteriorità radicale in rapporto a lui (82).

Hegel, dunque, può concludere che «l’esser per sé e l’esserper uno non sono... significati diversi dell’idealità, ma sono mo-menti essenziali, inseparabili di essa» (83).

d) Idealità e idealismo: da Spinoza a Kant e Fichte — Nella nota succes-siva, Hegel (come fa spesso) chiarisce il senso teorico dell’espres-sione ‘essere per uno’, richiamandosi all’uso della locuzione tede-sca was für ein (‘che specie di...?’) (84). Quest’espressione stabilisceuna relazione non già fra due cose, ma fra due stati della stessacosa, colti nell’identità originaria dell’Essere per sé. Il merito di talelocuzione è di esprimere la determinatezza non in un rapporto conqualcosa di esterno, ma come una determinatezza riflessa in sé. C’è

(79) Sdl , p. 164

(80) VANNI ROVIGHI, La Scienza , p. 110.

(81) Sdl, p. 169.

(82) LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 133 n. 44. Cfr. anche TAYLOR, Hegel, pp. 244 s.

(83) Sdl, p. 164. Cfr. BIARD, I, pp. 101 s.

(84) HEGEL, GW , XXI, p. 147; trad. in VANNI ROVIGHI, La Scienza, p. 200 n. 18, e

VERRA,

  Letture,

p. 153 n. 11. Cfr. anche Sdl,

p. 10 (su linguaggio e logica) eRADEMAKER, p. 60.

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355G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

dunque un’identità tra ‘ciò che una cosa è’ e ‘ciò per cui è’, e questa

identità coincide con la stessa idealità (85).A quest’ultimo proposito Hegel spiega, ancora una volta, che

l’idealità caratterizza innanzitutto il superamento delle determina-zioni finite. In quanto però queste vengano assunte come distinteda quello in cui sono superate, quest’ultimo può «esser preso comeil reale». In questo modo, ideale e reale sarebbero due determina-zioni contrapposte e indipendenti (86). Bisogna ritenere, invece, che

la vera idealità (coincidente con la realtà effettiva: Wirklichkeit) haentrambe le determinazioni (il reale e l’ideale) solo come suoi ‘mo-menti’ (sono entrambi ‘essere per uno’); la vera e unica idealità è in-distintamente realtà (87). Hegel ritorna agli esempi di prima (l’Io, lospirito e Dio), per mostrare ancora che l’identità di reale e ideale si

(85) Sdl, p. 165. Cfr. LABARRIÈRE-JARCZYK, I, p. 128 n. 16, ed anche BIARD, I, p.

100.(86) Sdl , p. 165. Cfr. Enc., § 96 agg.: «inoltre l’essere per sé in generale va ora

colto come idealità, mentre l’essere determinato è stato dapprima definito realtà[vedi § 91;  Sdl, p. 106]. Realtà e idealità vengono spesso considerate come unacoppia di determinazioni tra loro contrapposte e dotate di uguale indipendenzareciproca, e si dice quindi che, oltre alla realtà, ci sarebbe anche un’idealità» (trad.Verra, p. 280).

(87) Sdl, p. 165. Cfr. Enc., § 96 agg.: «l’idealità non è qualcosa che ci sia an-che al di fuori e accanto alla realtà, bensì il concetto dell’idealità consiste espressa-mente nell’essere la verità della realtà, e cioè la realtà, posta [esplicitamente] come

ciò che essa è in sé [= implicitamente], mostra di essere idealità. Non si può quindipensare di aver tributato il doveroso riconoscimento all’idealità, quando ci si limi-ta ad ammettere che non tutto è finito con la realtà, ma al di fuori di essa si deveancora riconoscere un’idealità. Una tale idealità, accanto, oppure anche al di sopradella realtà, sarebbe in effetti soltanto un nome vuoto. L’idealità ha invece un con-tenuto soltanto in quanto è l’idealità di qualcosa; questo qualcosa poi non è soltan-to un questo o un quello indeterminato [cfr. Fen., I, pp. 81 ss.], bensì l’essere deter-minato come realtà, il quale essere, tenuto fisso per sé, non ha alcuna verità»

(trad. Verra, p. 280). Vedi anche LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 129 nn. 19 (l’‘ideale’

esprime ciò che la realtà è nelle sue strutture ideali) e 21 (l’Idea, nel suo significato

concreto e oggettivo,

è la verità di ciò che è reale);

BIARD,

I,

p. 101 (l’idealità cometotalità).

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356 HEGEL E ARISTOTELE

attua pienamente solo nel soggetto autocosciente (88). Esso è l’idea-

le’ in quanto «relazione infinita puramente a sé», e non ad altro (89);l’alterità non è nell’Essere per sé che come superantesi, ed è perquesto motivo che l’Essere per sé si rapporta infinitamente a sé (90).Tutto ciò si verifica in modo paradigmatico in Dio, nel quale c‘èidentità perfetta tra Essere per sé ed essere per uno, o, come siesprime la filosofia classica, tra natura e attributi (o attività) (91).Quando invece, aggiunge Hegel, si assume il punto di vista della

coscienza (

92

),

ossia della scissione tra l’idealità e la rappresentazio-ne da un lato e l’oggetto conosciuto inteso come un esterno ‘essere

determinato’ dall’altro, allora si ricade nella contrapposizione intel-lettualistica di ideale come alcunché di meramente immaginario o‘concettuale’ e di reale come ‘duro fatto’ od oggetto non concettua-lizzato (93).

A questo punto Hegel, richiamandosi alla nota di pp. 159 ss.,ricorda il «principio dell’idealismo», che consiste nell’affermare che

il finito è ideale, non è un vero essere, e, quindi, ‘svanisce’ nell’infi-nito. Si tratta, ora, di determinare in quale misura l’idealismo troviattuazione nelle diverse filosofie, se cioè nell’Essere per sé e nell’in-finito sia già posto il momento dell’essere per uno, cosicché l’Essereper sé, nell’altro, si rapporti a sé, oppure se il finito sussista indi-pendentemente dall’Essere per sé (94).

A tale scopo Hegel ripercorre brevemente alcune tappe de-cisive della storia della filosofia. Egli conferma, innanzitutto, il

(88) Sdl, p. 165. Cfr. VANNI ROVIGHI, La Scienza , p. 110.

(89) Sdl, p. 165.

(90) BIARD, I, p. 100.

(91) TOMMASO  D’AQUINO,  De verit., q. I, a. 11. Cfr. BUSA,  Dio, coll. 481 ss.;VANNI ROVIGHI, Introduzione a Tommaso, p. 65.

(92) Cfr. già Sdl, pp. 162 s.

(93) Ivi, p. 165. Cfr. MURE, A Study, p. 53; MARCONI, Hegel’ s Definition, p. 97.

(94) Sdl , p. 165. Cfr. anche BIARD, I, pp. 101 s.

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357G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

proprio giudizio severo sugli Eleati e Spinoza. Come sappiamo,

per Hegel l’Essere di Parmenide è l’essere indeterminato, senzarelazione ad altro e senza distinzioni in sé; solo l’Essere o l’Asso-luto è relazione a sé, e a ciò non può conseguire che il panteismoe l’acosmismo (95). Del pari, la sostanza spinoziana è affermazioneassolta; per Spinoza solo il finito è determinatezza, e questa è ne-gazione (96). Tanto l’Essere degli Eleati quanto la sostanza diSpinoza sono la negazione astratta della determinatezza, giacchétale negazione non comporta l’idealità della determinatezza stes-sa, il suo essere ricompresa come un ‘momento’ dell’assoluto (97).In particolare, la sostanza e l’essere infinito di Spinoza, proprioperché unità immobile, non è ancora Essere per sé, soggetto e spiri-to: non è ancora pensiero e autocoscienza (98).

A Malebranche, invece, Hegel riconosce un idealismo piùesplicito e concreto. Per quest’autore, in Dio l’essenza e l’esistenzadelle cose sono ideali, sono pensieri di Dio, inteso come ‘idealità’,

sapere e autocoscienza assoluta, benché esse siano ideali già pernoi, per il nostro pensiero e la nostra coscienza (99). Al contrario, gliattributi e i modi della sostanza spinoziana sono distinzioni opera-

(95) Sdl, pp. 71 ss., 84 s., 89 (l’apparenza e l’opinione). Cfr. LANDUCCI,  Lacontraddizione, p. 31. Ma vedi MOVIA, Essere, pp. 536 ss.

(96) Sdl, pp. 166, 108 e 275.

(97) Ivi, p. 166.

(98) Ibid. Cfr. LANDUCCI,  La contraddizione, pp. 31 s. e VANNI ROVIGHI,  La

Scienza, p. 110 (vedi inoltre Fen., I, p. 13: «tutto dipende dall’intendere e dal-l’esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come sogget-to»; WAHL, Commentaires, p. 101; ma anche MOVIA, Essere, pp. 542 s.). A maggiorragione, nessuna delle cose finite, essendo «del tutto determinate nel loro esseree nel loro agire dalla sostanza divina», può «rappresentare un centro di attività,

un soggetto, dotato di un benché minimo margine di iniziativa» (FAGGIOTTO,  Il problema, I, p. 151).

(99) Sdl, p. 166. Citazione dei passi di MALEBRANCHE, in HEGEL, GW , XXI, p.421. Vedi anche Lez. st. filos., III, 2, pp. 144 ss., 223;  JA , XIX, p. 413: perMalebranche,  «in Gott sind die Dinge intellektuell, geistig»; inoltre VANNI

ROVIGHI, La Scienza

,p. 107

;WAHL

, Commentaires

 ,p. 101

;GIACON

, La causalità

 , pp.224 ss. (l’ontologismo moderato di Malebranche).

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358 HEGEL E ARISTOTELE

te da un intelletto esterno (100). Quello che in Malebranche fa difet-

to, secondo Hegel, è la compiuta determinazione dei contenuti dipensiero, per di più mescolati con le rappresentazioni religiose,

nonché lo sviluppo logico dell’infinità, che dovrebbe costituire ilfondamento di quei contenuti (101).

A differenza di quello di Malebranche, che, per l’ appunto, aiconcetti mescola contenuti assunti immediatamente dalla rappre-sentazione,  «l’idealismo leibniziano sta più dentro i confini delconcetto astratto» (102). «Il soggetto leibniziano della rappresenta-zione, la monade, è essenzialmente qualcosa di ideale. Il rappre-sentare è un essere per sé, in cui le determinatezze non sono limiti,e così non sono un esserci, ma soltanto momenti» (103). La rappre-sentazione (Vorstellung) (che, evidentemente, va intesa qui non giànell’accezione hegeliana, come una determinazione della coscienzacontrapposta al concetto, ma nel contesto del discorso leibniziano)connota essenzialmente la monade, nel senso che questa, chiusa in

se stessa nella sua piena autosufficienza, non implica alcunaalterità reale, ma sviluppa, a partire da sé, il mondo nel quale sitrova. In questo modo la rappresentazione (che non dipende affattodal conoscere, giacché caratterizza tanto l’uomo, monade cosciente,

quanto la cosa, monade inconscia) sembra, a prima vista, apparen-tata alla «pienezza ideale» (104) che l’Essere per sé riveste per Hegel.

(100) Sdl, pp. 166 e 108. Cfr. MOVIA, Essere , pp. 542 s. e Finito, pp. 127 ss.;FAGGIOTTO, Il problema, I, p. 145: «la considerazione dei due attributi [pensiero edestensione] è introdotta... non... per deduzione dal concetto di sostanza, ma persussunzione dall’esperienza»; la stessa cosa vale anche per i modi (cfr. ivi, pp. 148s.).

(101) Sdl, p. 166.

(102) Ibid.

(103) Ibid. Cfr. anche Lez. st. filos., III, 2, pp. 191 s., e MORETTO, Hegel, pp. 312s. (possibilità, per Leibniz, di una molteplicità, anche infinita, compresa nell’unità;

il concetto di funzione). Citazione dei testi di Leibniz cui Hegel si riferisce nellepp. 166 ss., in HEGEL, GW , XXI, pp. 421 s.

(104) LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 130 n. 24.

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359G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

In realtà, Hegel mostra che questa ‘idealità’ è esteriore alla monade

stessa (105). Infatti, il superamento dell’alterità non è il movimentoproprio della monade, ma risulta da un intervento esterno, dall’ar-monia prestabilita da Dio (106). L’alterità e la molteplicità dellemonadi sono presupposte (mediante il concetto di creazione) econservate come tali, e la monade è sottratta ad ogni rapporto colmolteplice unicamente per l’intervento esterno di Dio (107).

Altrettanto imperfetto, per Hegel, è l’idealismo kantiano e fi-chtiano. Il soggetto, in Kant e Fichte, non è realmente libero dall’og-gettività esterna del mondo, perché il mondo, sotto forma di ‘cosain sé’, lo è troppo (libero di una libertà che è alterità radicale) (108).L’Io è certo posto, in questi autori, come ‘ideale’, nella misura in cuila cosa in sé è soltanto per lui, e in quanto l’Io, in ciò, si rapportainfinitamente a se stesso. Ma l’idealismo trascendentale lascia sus-sistere la cosa in sé nella sua esteriorità e alterità radicale in rappor-to al soggetto. Anche in questo caso, il lato dell’essere per uno nonsi realizza mediante un proprio processo, e l’idealità del soggetto èmeramente postulata o rimane un puro dover essere, un ‘ideale’

irraggiungibile (109).

(105) Cfr. Sdl, pp. 166 s. e LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 130 n. 24.

(106) «Monade delle monadi» lo chiama Hegel (Sdl, p. 167;  Lez. st. filos.,III, 2, p. 196), ma, a rigore, Dio è monade come substantia primitiva, opposto allamonade come substantia derivativa. Documentazione in HEGEL, GW , XXI, p. 421.

(107) Sdl, pp. 167 s. Cfr. anche ivi, pp. 175 s.; Enc., § 194; Lez. st. filos., III, 2,

pp. 191 ss., 201 ss.; inoltre BIARD, I, p. 102. Vedi anche CASSIRER, Storia, III, p. 426;

HARTMANN, La filosofia , p. 429; MURE, A Study, p. 55; FLEISCHMANN, La logica , pp. 68s.; JOHNSON, The Critique, p. 29; FAGGIOTTO, Il problema , II, pp. 35 ss.: sul concettodi monade e l’armonia prestabilita; GUYER, Hegel , PPR, 1979-80, pp. 75 ss.: secon-do Hegel, l’armonia prestabilita non sana la contraddizione tra l’indipendenza emolteplicità reale delle monadi e la loro natura rappresentativa della totalitàdell’universo (natura rappresentativa fondata sul principio della ‘inerenza delpredicato nel soggetto’); GIACON, La causalità, p. 329: sul pregiudizio fenomenisti-co delle percezioni e idee come oggetto terminale dell’atto conoscitivo.

(108) Sdl, p. 168. Cfr. LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 131 n. 34 (e p. 21 n. 76).

(109

) BIARD, I, p. 102. Citazioni di Kant e Fichte, riguardo al dover essere eal progresso infinito, in HEGEL, GW , XXI, p. 422.

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360 HEGEL E ARISTOTELE

e) L’ Uno — Hegel mostra che l’Essere per sé, come essente per sé, è

l’Uno (110). Infatti, «l’essere per sé è l’unità semplice di se stesso edel suo momento, l’essere per uno» (111). Si tratta, però, di un’unitàe semplicità divenuta , un’unità prodottasi dallo sviluppo preceden-te. L’unità qualitativa, ora posta, non è tale che in rapporto all’op-posizione iniziale delle sue differenze, dei suoi due momenti: l’Es-sere per sé e l’essere per uno, la relazione a sé e l’alterità (112). Aquesto punto, «non si ha che una sola determinazione, la relazio-ne a sé del superare» (113); come si legge nella prima edizione: «ilsuperamento dell’alterità e la relazione a se stesso sono la stessacosa» (114); qui, non si tratta più della determinatezza qualitativa,ma del superamento di ogni determinatezza (115). I momenti del-l’Essere per sé, ovvero la relazione a sé e l’essere per uno (ossia l’al-terità) «sono caduti insieme nell’indistinzione» (116), il che era ne-cessario perché si potesse passare alla quantità (117). Tale indistin-zione «è immediatezza o essere, ma una immediatezza che si fondasul negare, il quale è posto come sua (= dell’Essere per sé) determi-nazione» (118). L’Essere per sé si è affermato come relazione a sestesso, cioè come essere. In quanto tale è immediatezza. Tuttavia,

nell’Essere per sé, rimane sempre presente il momento di autode-

(110) RADEMAKER, p. 60.

(111) Sdl, p. 168. Cfr. Enc., § 96: «l’essere per sé, come relazione a se stesso,

ecc.» (trad. Verra, p. 279).

(112) LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 133 n. 46; BIARD, I, p. 104.

(113) Sdl, p. 168.(114) HEGEL, GW , XI, p. 91; trad. LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 133. Cfr. anche

Enc., § 96: la «relazione del negativo a se stesso» (trad. Verra, p. 279).

(115) BIARD, I, p. 104; NIKOLAUS, Begriff , p. 60: un siffatto ‘superamento’ nonci riporta alla situazione del puro Essere dell’inizio (vedi anche sopra n. 64).

(116) Sdl, p. 168. Cfr. Enc., § 96: l’Uno è «ciò che in se stesso è privo di di-stinzioni» (trad. Verra, p. 279).

(117) Sdl, p. 186. Cfr. WAHL, Commentaires, p. 103.

(118

) Sdl,

p. 168. Cfr. anche ivi,

p. 169 e Enc.,

§ 96:«

l’essere per sé è imme-diatezza» (trad. Verra, p. 279).

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361G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

terminazione, di negazione della negazione, benché tale movimen-

to si superi nell’immediatezza del medesimo Essere per sé (119).«L’essere per sé è così un essente per sé» (120); in altre parole, inquanto relazione del negativo a se stesso, l’Essere per sé non è sol-tanto immediatezza in generale, ma, più specificamente, un essen-te per sé. Si ha qui un passaggio analogo a quello dell’Essere deter-minato nell’essente determinato o nel Qualcosa, ovvero un proces-so di individuazione che ha luogo mediante l’unità negativa con sé,

la negazione della negazione (121). Mentre, però, l’immediatezzadell’essente per sé porta ancora le tracce della sua genesi — il mo-vimento infinito dell’Essere per sé —, nell’uno questo «significatointerno» (innere Bedeutung) (122) svanisce; l’Uno non conserva che ilmomento dell’assoluta autolimitazione dell’essente per sé. L’essen-te per sé non è ormai che l’Uno puro, nella sua puntualità e indivi-dualità assoluta e indifferenziata (123). Si potrebbe avvicinare (124)questa concezione hegeliana dell’Uno all’Uno trascendentale dellafilosofia classica, la cui essenza consiste nell’essere indivisum in se (enell’essere ‘misura prima’) (125).

(119) LÉONARD, p. 82. Cfr. anche NIKOLAUS, Begriff , p. 60.

(120) Sdl , p. 168.

(121) LÉONARD, p. 82. Cfr. anche NIKOLAUS, Begriff , p. 60.

(122) Sdl, p. 168.

(123) Ibid. Cfr. Enc., § 96: «l’essere per sé..., come relazione del negativo a sestesso, è un essente per sé, è l’uno» (trad. Verra, p. 279), e Léonard, p. 83. Vedianche LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 134 n. 50; BIARD, I, pp. 95 e 105; LAKEBRINK, I, p.135; SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 118; NIKOLAUS, Begriff , pp. 59 s.; MASSOLO, Logi-ca, pp. 31 s. e 35; VERRA, Letture , p. 154; WAHL, Commentaires , p. 122 (riferimento aParmenide, Fichte e all’unità indifferenziata di Schelling). Sull’unità fichtianacome esclusione della molteplicità (assolutezza) e su quella hegeliana come inclu-sione della molteplicità (totalità) cfr. i lavori di KAREN GLOY richiamati da VERRA,

Letture, p. 147 n. 1 (vedi anche ivi, p. 161).

(124) Con VANNI ROVIGHI, La Scienza , pp. 108 e 110. Vedi anche LÉONARD, p. 83.

(125) PLATONE, Resp., VI, 504 A 4 ss., 507 A 7 ss.; Pol., 284 A 1 ss.; ARISTOTELE,

 Metaph. X 1,

1052 B 1 ss. Cfr. REALE,

 Per una nuova interpretazione ,

pp. 336 ss.,

343 s.,

409 ss., 449 ss.

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362 HEGEL E ARISTOTELE

f) La contraddittorietà dell’ Uno — Lo sviluppo successivo dell’Uno

mostrerà, poi, la contraddizione speculativa, di identità e opposi-zione, che caratterizza questa categoria (126). In realtà, i momenticostitutivi dell’Uno come essere per sé, ovvero da una parte la ne-gazione, l’alterità, la differenza, la determinazione, e dall’altra par-te la doppia negazione, la relazione a sé, l’autodeterminazione, siseparano l’uno dall’altro, e cadono l’uno fuori dell’altro, spezzandocosì l’infinita mediazione dell’Essere per sé, e ciò a motivo dell’es-

sere e dell’immediatezza che connotano l

’essente per sé. Ma

,altempo stesso, quei due momenti sono anche inseparabili, e, anzi,

sono la stessa cosa; l’Uno esterno all’Uno è identico a questo (127).

2. L’ Uno e i molti — A questo punto, si potrebbe dire (128) che Hegelpassa dall’Uno trascendentale all’uno categoriale, e precisamenteall’uno che introduce alla categoria della quantità (129). Hegel ricor-

da che all’Uno si è arrivati attraverso i momenti dell’Essere per sé edell’essere per uno; ora questi momenti sono diventati degli essen-ti. L’Essere per sé, che era il momento della compiutezza in sé, di-venta un essente, diventa l’Uno che si contrappone all’altro, che èesclusivamente uno, mentre l’essere per uno diventa un altro es-sente, un altro Uno (130).

In questo processo, l’infinita autodeterminazione dell’Essereper sé è certamente conservata, ma, a motivo dell’immediatezza

(126) Sdl , p. 169.

(127) Ibid. Cfr. LÉONARD, pp. 83 s., 86 s. Vedi anche LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p.133 n. 47, 134 n. 50: BIARD, I, pp. 104 s.; TAYLOR, Hegel , p. 246; MASSOLO, Logica, p. 31.

(128) Daccapo, con VANNI ROVIGHI, La Scienza , pp. 107 s., 110.

(129) Sull’uno nel senso della quantità, che indica qualcosa di indivisibilenella quantità, cioe avente una determinata quantità, cfr. ARISTOTELE,  Metaph. , X2, 1053 B 24 ss., 1054 A 13 ss.; 1, 1052 B 15 s., e BERTI, Il problema, p. 192; L’ uno, p.168.

(130) Sdl , p. 169. Cfr. VANNI ROVIGHI, La Scienza, pp. 110 s.

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363G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

dell’Uno, ricade nella ‘realtà’ e nell’esteriorità (131). Nell’infinita au-

todeterminazione dell’Essere per sé, nella sua ‘idealità’ come totali-tà, si trovano uniti due momenti: la relazione ad altro (determina-zione) e la relazione a sé (autodeterminazione, o ritorno a sé delladeterminazione). Nell’esclusione da sé, dall’Uno, di un altro uno,

questi due aspetti non sono più i due momenti ideali di un unicomovimento di autodeterminazione, ma ricadono nell’immediatez-za, sono posti come essenti. La negazione, la determinazione,

l’alterità non è più interna all

’Uno

,non è più

‘in sé

’,ma soltanto

‘inlui’: gli è diventata esteriore (132).

a) L’ Uno in lui stesso — L’Uno considerato in lui stesso, prima (percosì dire) della relazione con l’altro uno, semplicemente è (133). Nonè un essere determinato, ossia una determinatezza come relazio-ne ad altro, e neppure una disposizione, ovvero una determinatez-

za come rapporto con qualcosa di esterno, giacché l’Uno ha nega-to o superato tutte le categorie della qualità e dell’Essere determi-nato (134). Non c’è nulla al di fuori dell’Uno che da lui resti escluso oa lui sia opposto (135). L’Uno, quindi, non è più passibile di alcun‘divenire altro’, non può esser soggetto al processo infinito di alte-

(131) Cfr. VERRA,  Letture, pp. 154 s.: «l’ulteriore sviluppo della nozione diEins... segna il completo capovolgimento del rapporto tra idealità e realtà (Realität)

o, più precisamente, il fatto che l’idealità dell’essere per sé come totalità si rovesciaanzitutto nella realtà e, appunto, nella forma più astratta e fissa di realtà che èl’Eins [Sdl, p. 163]».

(132) Sdl, pp. 169 s. (e 116). Cfr. anche Enc., §§ 96: «l’uno... escludente da sél’altro» (trad. Verra, p. 279) e 97, e LÉONARD, p. 86. Vedi inoltre LABARRIÈRE-JARCZYK,

I, 1, p. 133 n. 44; MASSOLO, Logica , pp. 33, 35 s.; HARRIS, An Interpretation, p. 116.

(133) Sdl , p. 170.

(134) Ibid., e pp. 122 (sulla ‘disposizione’). Cfr. LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p.135 n. 54; HARRIS, An Interpretation, p. 116; VERRA, Letture, p. 155.

(135) Sdl , p. 170 e HARRIS, An Interpretation, p. 116.

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364 HEGEL E ARISTOTELE

razione; è immutabile e inalterabile, conserva sempre la sua identi-

tà, è solo se stesso (136).Derivato dal processo di superamento dell’alterità qualitati-

va, l’Uno, daccapo, viene definito da Hegel come ‘indeterminato’.Tale indeterminatezza non ci riconduce tuttavia al puro Essere del-l’inizio. L’indeterminatezza di cui qui si parla è il prodotto del mo-vimento di superamento e di riflessione dentro di sé della determi-natezza (137).

Nell’Uno

,come semplice immediatezza

,è svanita la media-zione dell’Essere determinato e dell’idealità, e quindi ogni diversità

e varietà (138); analogamente all’Essere puro l’Uno esclude da séogni molteplicità e diversità (139). L’unità della relazione a sé e dellarelazione all’altro è diventata semplice relazione a sé; nell’Uno nonc’è nulla, non c’è la relazione ad altro; l’Uno non ha nulla in sé (140).Piu precisamente: nell’Uno bisogna distinguere tra l’astratta rela-zione a sé, tra il vuoto in cui ogni differenza è svanita, e il suo con-

creto esser dentro di sé. L’Uno così si rapporta a se stesso come alvuoto. Non c’è più l’opposizione di un Qualcosa a un altro Qualco-sa, ma il vuoto è ‘posto’ dall’Uno (come ‘esser in sé’), è una sua qua-lità o un suo momento (141).

(136) Sdl, p. 170. Cfr. FLEISCHMANN, La logica, p. 68; VANNI ROVIGHI, La Scien-za, p. 111; DOZ, La logique, p. 70; RADEMAKER, p. 60; VERRA, Letture, p. 155.

(137) Sdl, p. 170. Cfr. BIARD, I, pp. 105 s.; inoltre VERRA, Letture , p. 155: «l’in-determinatezza dell’Eins è... relazione a sé, negazione che si riferisce a sé avendoin sé la distinzione, tendenza ad andare da sé verso altro; ma tale tendenza inverteimmediatamente la propria direzione poiché nell’Eins non c’è ‘altro’ verso cui an-dare [Sdl, p. 170]».

(138) Sdl, p. 170. Cfr. VERRA, Letture, p. 155.

(139) VANNI ROVIGHI, La Scienza , p. 111.

(140) Sdl , p. 170. Cfr. JOHNSON, The Critique , p. 29.

(141) Sdl, p. 170. Cfr. HARRIS, An Interpretation, p. 116; LABARRIÈRE-JARCZYK, I,1, p. 135 n. 56; BIARD, I, p. 106; inoltre MASSOLO,  Logica , p. 36; MCTAGGART,  A

Commentary,

p. 38;

VERRA,

 Letture,

p. 155: nell’uno

«non c

’è

‘nulla

’;ma si tratta quidi un nulla che, a differenza di quello correlativo all’essere, è un nulla che è posto,

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365G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

 b) L’ Uno e il vuoto — La dialettica dell’Uno e del vuoto costituisce

un processo di differenziazione e di esteriorizzazione a sé dell’uni-tà iniziale, mediante il quale l’Essere per sé si pone come un es-serci (142). Sviluppandosi, però, nella forma della ‘totalità riflessa’,

caratteristica del presente momento logico, questo processo non ciriconduce alla dialettica dell’Essere determinato. Hegel afferma, in-fatti, che «l’Uno e il vuoto hanno per loro comune, semplice terre-no la negativa relazione a sé» (143). In altre parole, essi si situanonell’elemento della negatività, che si è esplicitato come negazionedella negazione. Sennonché questa negatività si presenta dapprimanella determinazione dell’essere, cosicché ciascuno dei suoi mo-menti si cristallizza nella forma di un essente (144). Come, dunque,

l’Essere si oppone al Nulla, così l’Uno si oppone al vuoto; mentre,

però, l’Essere iniziale s’identifica col suo opposto nel Divenire, quiil nulla (il vuoto) resta fuori dell’essere (l’Uno) (145).

che è risultato di una complessa mediazione; tale nulla è il vuoto, e, come tale,

costituisce la qualità dell’Eins nella sua immediatezza [Sdl, p. 170]». Vedi ancheEnc., § 98 n.: «il vuoto... è la repulsione stessa» (trad. Verra, p. 282) e LÉONARD,

p. 91: per Hegel, «il vuoto non è altro che la repulsione stessa dell’Uno, cioè la suarelazione negativa a sé, la sua autodifferenziazione. Esso è dunque l’energia nega-tiva che si trova nell’Uno e mediante cui lo respinge da sé».

(142) Sdl, p. 171. Cfr. BIARD, I, p. 106.

(143) Sdl, p. 171. Cfr. BIARD, I, p. 107.

(144) Sdl , p. 171. Cfr. BIARD, I, p. 107.

(145) Sdl, p. 171. Cfr. VANNI ROVIGHI, La Scienza, p. 111; inoltre MASSOLO, Logi-ca, p. 36; FINDLAY, Hegel, p. 173 (per i Pitagorici, il vuoto separa gli uno materiali;ma sulle ragioni della collocazione hegeliana della problematica dell ’Uno e deimolti nell’ambito dell’atomismo e non del pitagorismo cfr. HEGEL,  JA, XVII, pp.260, 296; Lez. st. filos., I, pp. 235 s., 263; Enc., § 104 agg. 3, e VERRA, Letture, p. 156);VERRA, Letture, p. 155: «in quanto il nulla è qui il vuoto come relazione astratta a sestesso [Sdl, p. 170], da un lato il vuoto è posto come diverso ed esterno rispetto alcarattere affermativo dell’Eins, ma dall’altro, tra Eins e vuoto c’è una relazione ne-gativa reciproca che si svolge su un terreno comune. In tal modo i momenticostitutivi dell’essere per sé escono dalla loro unità e si pongono come esternil’uno all’altro, il primo come essere determinato in senso affermativo (das Eins), il

secondo come essere determinato in senso negativo (il vuoto) [Sdl, p. 171]. La co-mune matrice di tale contrapposizione è poi quello che ne consente il superamen-

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366 HEGEL E ARISTOTELE

c) La concezione atomistica della natura. L’ atomismo politico — La cate-

goria dell’Uno, nella forma dell’esserci che ha acquistato nello svi-luppo logico, corrisponde alla filosofia atomistica di Leucippo eDemocrito, secondo i quali l’essenza delle cose sono l’atomo e ilvuoto: «to àtomon oppure ta àtoma kai to kenòn» (146). Il principio ato-mistico ha una maggiore determinatezza rispetto all’Essere astrattodi Parmenide e anche al Divenire di Eraclito (147) . Esso costituisceun avanzamento nell’elevazione e purificazione del pensiero (in

quanto l’infinita molteplicità del reale viene ricondotta alla sempli-ce opposizione degli atomi e del vuoto) e nell’autodeterminazione

del pensiero stesso (giacché il pensiero coglie le categorie dell’Unoe del vuoto come proprie specificazioni) (148).

Tuttavia, secondo Hegel, l’atomismo fisico può prestare ilfianco a due obiezioni. In primo luogo, la coppia atomo-vuoto può

to e consente pure di vedere come la nozione di Vieles non sopravvenga né si con-trapponga affatto dall’esterno a quella di Eins, ma ne scaturisca dialetticamentedall’interno».

(146) Sdl , p.171. Vedi DEMOCRITO , DK 68 B 9, B 125, A 1, A 49; LEUCIPPO, DK67 A 15, A 32, e HEGEL, Enc., § 98 n.: «la filosofia atomistica costituisce questo pun-to di vista, dove l’assoluto [= il fondamento assoluto di tutto; cfr. NIKOLAUS, Begriff ,p. 61] si determina come essere per sé, come ‘uno’ e come molti ‘uno’», e agg. 1: «lafilosofia atomistica costituisce un momento essenziale nello sviluppo storico del-l’idea, e il principio di questa filosofia in generale è l ’essere per sé nella figura delmolteplice» (trad. Verra, pp. 282 s.); Lez. st. filos., I, pp. 332: l’atomo e il vuoto, perLeucippo e Democrito, «costituiscono l’assoluto, ciò che è in sé e per sé» (cfr. an-che HEGEL,  JA, XVII, p. 383); 331: Leucippo come iniziatore del sistema atomistico.Cfr. VANNI ROVIGHI,  La Scienza , pp. 107 s.; BIARD, I, p. 107; LAKEBRINK, I, p. 138;DÜSING,  Hegel, p. 53. Ma vedi anche JOHNSON,  The Critique, pp. 30 s.: i principidell’atomismo non sono l’atomo e il vuoto, ma piuttosto gli atomi e il vuoto, ossianon già l’Uno, ma i molti uno. Un cenno sulla posizione hegeliana di fronte allaproposta atomistica, dalla Dissertatio del 1801, alla logica jenese (cfr. LMJ , pp. 12ss.) e alla Scienza della logica, in MORETTO, Hegel , p. 101 n. ss.

(147) Sdl, p. 171. Cfr. anche HEGEL,  JA, XVII, p. 383, e Lez. st. filos., I, p. 333;

VASA, La deduzione, p. 678; inoltre VERRA, Letture, pp. 156 s.

(148) Sdl, p. 171. Cfr. anche Enc., § 98 agg. 1: «l’atomo... è una nozione di

pensiero (Gedanke)» (trad. Verra,

p. 283); Lez. st. filos.

,I,

pp. 334 s.;

inoltre BIARD,

I, p. 107; VERRA, Letture, pp. 155 s.

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367G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

restare nell’orbita della rappresentazione, ed è questo che ha fatto

la fortuna dell’atomismo. Il pensiero atomistico rimane al di quadella coppia puramente speculativa Uno/vuoto, nella misura incui si rappresenta la relazione tra atomo e vuoto in modo oggetti-vante e spazializzante: «qui gli atomi e lì accanto il vuoto» (149). Insecondo luogo, la costituzione del reale a partire dall’atomo e dalvuoto può avere l’aspetto di una ‘composizione’ estrinseca. Non co-gliendo nell’Essere per sé che l’Uno fisso su di sé, che si pone come

escludente l’alterità

,la rappresentazione non può concepire la de-terminazione dell’Uno che sotto la forma di una relazione estrinse-

ca (150).L’atomismo, specialmente quello antico, ha però dato, secon-

do Hegel, alla storia del pensiero un apporto speculativo essenzia-le. Esso consiste nel fatto di aver posto il vuoto non già come qual-cosa di estrinseco e di contrapposto agli atomi, ma come la fonte, ilprincipio (arché) e il fondamento (Grund) del movimento (151). Par-

lare qui di fondamento, e non solo di presupposto o condizione delmovimento significa che, mentre per la rappresentazione il vuoto eil movimento sono delle entità date, esteriori l’una all’altra, cosic-ché il movimento è una determinazione delle cose (le cose semplice-

(149) Sdl, p. 171. Cfr. anche Enc., § 98 n.: «il vuoto che viene assunto comel’altro principio rispetto all’atomo, è la repulsione stessa rappresentata come ilnulla essente tra gli atomi» (trad. Verra, p. 282); Lez. st. filos., I, pp. 336 s.; inoltreBIARD, I, p. 108.

(150) Sdl, pp. 171 s. Cfr. anche Enc., § 98 n.: «in quanto l’uno è fissato comeuno, certamente il suo con-venire con altri dev ’essere considerato come qualcosadi completamente estrinseco» (trad. Verra, p. 282); Lez. st. filos., I, 336 s.; inoltreBIARD, I, p. 108.

(151) Sdl, p. 172. Vedi DEMOCRITO , DK 68 A 58, A 43; LEUCIPPO , DK 67 A 16, A7, A 1, A 14, e HEGEL, Lez. st. filos. , I, p. 336; VERRA, Letture, p. 156. Tuttavia, secon-do Aristotele ( Metaph. , I 4, 985 B 4 ss.), il vuoto (e l’atomo), per Leucippo eDemocrito (cfr. LEUCIPPO , DK 67 A 6), era la causa materiale, e non finale o efficien-te, delle cose. Cfr. anche JOHNSON, The Critique, p. 30 (sulla sopravvalutazione, da

parte di Hegel,

degli Atomisti);

BERTI,

  La critica di Aristotele,

p. 145 (sullaconfutazione metafisica compiuta da Aristotele della teoria atomistica del vuoto).

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368 HEGEL E ARISTOTELE

mente si muovono nel vuoto), per il pensiero speculativo il vuoto,

coincidente col negativo, è il fondamento del divenire (152). Il vuotonon va abbassato al rango di un nulla immediato o essente situatotra gli atomi, ma è la relazione negativa dell’Uno a se stesso, ossia,

per così dire, l’energia negativa che si trova nell’Uno e che lo re-spinge da sé, originando così un altro Uno (153).

Hegel denuncia, poi, l’arbitrarietà ed esteriorità degli ulterio-ri caratteri attribuiti dagli antichi agli atomi: figura, posizione e di-

rezione del movimento (

154

). Implicitamente egli critica la tendenza aspiegare i mutamenti della natura mediante semplici spostamenti dicorpuscoli in se stessi immobili, tendenza proveniente dall’incapaci-tà di concepire una vera e propria trasformazione sostanziale (155).Hegel, anzi, si pronuncia contro la tendenza ‘non concettuale’ dellafisica moderna a suddividere gli enti naturali in molecole (156). Per

(152) Sdl, p. 172. Cfr. anche Fen., I, p. 29.

(153) Sdl, p. 172. Cfr. anche HEGEL, GW , XII, p. 93; Enc., § 98 n. (vedi sopra n.149); inoltre VERRA, Letture, p. 156; LÉONARD, p. 91 (vedi sopra n. 141); LAKEBRINK, I,p. 139; HARTMANN, La filosofia, p. 429 («il principio del negativo, dal quale risultal’affermativo»); DOZ ,  La logique, p. 70 (la negatività repulsiva dell ’Uno);FLEISCHMANN, La logica, p. 68 («l’uno produce da se stesso il molteplice, proprio perpoter restare uno»); TAYLOR, Hegel, p. 246. Il concetto di vuoto come principio delmovimento è speculativamente significativo, ma ancora troppo semplice. Comesubito si vedrà, Hegel, per descrivere il rapporto genetico, processuale tra l’Uno ei molti, il ‘frantumarsi’ o articolarsi dell’Uno nei molti, ricorre alle nozioni piùcomplesse di repulsione e attrazione. Cfr. VERRA, Letture, p. 149.

(154) Sdl, p. 172. Cfr. Lez. st. filos., I, pp. 339 s.; inoltre VERRA, Letture, p. 156:per Hegel,  «vanno considerate come arbitrarie ed estrinseche altre posizionidell’atomismo antico come quelle volte a spiegare il movimento e la natura deicorpi con la figura, la posizione e la direzione degli atomi, ossia con determinazio-ni che si trovano in diretta contrapposizione alla determinazione fondamentaledell’atomo», l’uno (cfr. Sdl, p. 172).

(155) Cfr. Enc., § 282 agg. e GRÉGOIRE, Etudes, p. 84 n. 2; LAKEBRINK, I, p. 139;

GIACON, Le grandi tesi, p. 39.

(156) Sdl, pp. 172 s. Cfr. anche Enc., § 98 n.: «la concezione atomistica mo-

derna — e la fisica conserva ancor sempre questo principio — ha rinunciato agliatomi in quanto si attiene alle piccole particelle, alle molecole; in tal modo si è av-

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369G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

di più, egli respinge l’atomismo politico e l’origine contrattualistica

dello Stato teorizzati da Hobbes e Rousseau, che prendono «perpunto di partenza il singolo volere degli individui» (157). Per Hegello Stato, come fine ultimo e universale concreto, s’impone moral-mente al volere umano (158).

d) I molti uno e la repulsione. Ancora sulla natura contraddittoria del-

l’ Uno — Ci si presenta ora il momento della repulsione

,cioè delprodursi della molteplicità a partire dall’Uno. Il rapporto negativo

a sé dell’Uno si esplicita come rapporto escludente; è il momentopiù propriamente negativo della dialettica dell’Uno: il momentodella scissione e della differenziazione (159).

Ciascuno dei momenti dell’Essere per sé (l’Uno e il vuoto) haper sua determinazione la negazione: «l’uno è la negazione nelladeterminazione dell’essere, il vuoto la negazione nella determina-

zione del non essere» (160

). Come totalità o unità negativa, l’Uno èesso stesso ciò che è l’altro (il vuoto), è l’‘idealità’ dell’altro; nell’al-tro, si riferisce soltanto a sé. Tuttavia, in quanto l’Uno è essente per

vicinata al quadro della rappresentazione sensibile, ma ha abbandonato la deter-minazione di pensiero» (trad. Verra, p. 282). Ma vedi LAKEBRINK, I, p. 139, sullamatematizzazione della fisica moderna, e inoltre K.F. BLOCH,  Die Atomistik beiHegel und die Atomtheorie der Physik, Kastellaun 1979, cit. da VERRA, Letture, p. 157n. 17.

(157) Sdl, p. 173. Cfr. anche Enc., § 98 n.: «la concezione atomistica nei tempipiù recenti è divenuta ancor più importante in campo politico che in quello dellafisica. Secondo tale concezione, la volontà dei singoli come tali è il principio delloStato; il fattore di attrazione e la particolarità dei bisogni, delle inclinazioni, el’universale, lo Stato, è il rapporto esterno del contratto» (trad. VERRA, p. 283).

(158) Enc., § 535; Lin. filos. dir., §§ 75 e 258 n. Cfr. GRÉGOIRE, Etudes, pp. 280 s.;inoltre LAKEBRINK, I, p. 140; LÉONARD, p. 91; BOURGEOIS, in HEGEL, Enc., I, p. 362 n. 9;

RADEMAKER, p. 61; HARTMANN, La filosofia , p. 429; FLEISCHMANN, La logica, pp. 69 s.

(159) BIARD, I, pp. 108 s.

(160) Sdl, p. 173.

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370 HEGEL E ARISTOTELE

sé ed è immediato, la sua relazione negativa a sé è relazione a un

essente, a un esserci, a un ‘altro’. Sennonché quest’altro è lui stesso,

è un Essere per sé, un uno. Infatti, la relazione dell’Uno a sé come aun altro è una relazione a se stesso. L’altro dall’Uno non può essereun altro Qualcosa che si distingua dal primo per una determinazio-ne qualitativa. In realtà, l’altro, che è altrettanto essenzialmente re-lazione a se stesso, «non è la negazione indeterminata, come vuoto,

ma è ugualmente un uno». Dunque «l’uno è... un divenire molti

uno»

(

161

).Hegel spiega che il prodursi dei molti uno, o del molteplice(un’espressione che non deve ancora far pensare al numeroquantitativo, ma piuttosto alla molteplicità indeterminata, a ta pollà

degli antichi) (162), non è, propriamente, un ‘divenire’. Infatti, men-tre il Divenire è il passaggio dell’Essere nel suo contrario (il Nulla),invece nella repulsione da sé dell’Uno, l’Uno, ponendo i molti, di-viene soltanto Uno; come rapporto infinito a sé, l’Uno non diviene

che se stesso, e quindi non diviene affatto (163

).Hegel però distingue una prima repulsione, la repulsione se-condo il concetto (‘in sé’ o intrinseca), ovvero l’autorepulsione del-l’Uno che genera o pone i molti, i quali sono essi stessi degli uno,

dalla seconda repulsione, la repulsione secondo la rappresentazio-ne della riflessione esterna (164). La relazione negativa a sé dell’Uno,

(161) Ibid. Vedi anche Enc., § 97 e agg.; inoltre BIARD, I, pp. 109 s.; NIKOLAUS,

Begriff , pp. 60 s.; LÉONARD, p. 85, ed anche LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 138 n. 77;MCTAGGART,  A Commentary , pp. 38 s.; MASSOLO, Logica , p. 37; VERRA,  Letture, p.158: dalla «dialettica tra l’Eins e il vuoto... risulta come la repulsione dell’Eins dase stesso non sia altro che l’esplicitazione di quello che è l’Eins in sé [Sdl, p.175]».

(162) LÉONARD, pp. 85. Cfr., ad es., ARISTOTELE,  Metaph., V 6, 1017 A 3 ss.; X6, 1056 B 3 ss. e BERTI, L’ uno, pp. 165 s., 171 s.

(163) Sdl, pp. 173 s. Cfr. Enc., § 97; inoltre LÉONARD, p. 86 n. 4; LABARRIÈRE- JARCZYK, I, 1, p. 138 n. 77; BIARD, I, pp. 109 s.; MCTAGGART, A Commentary , p. 39;

MASSOLO, Logica, p. 37; VERRA, Letture, p. 159.

(164) Sdl, p. 174.

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371G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

ossia la sua repulsione (prima), è la posizione di un altro lui stesso,

di un altro uno, il quale ne pone a sua volta un altro, e così via (165).Invece la seconda (estrinseca) repulsione, la repulsione reciproca, siha tra i molti uno in quanto essenti immediati o entità date. Si trat-ta degli uno presupposti gli uni agli altri, assolutamente chiusi inse stessi, senza che in essi si affermi in alcun modo la relazione adaltro (166).

(165

) LÉONARD, p. 85.(166) Sdl, p. 174. Cfr. LÉONARD, p. 87; BIARD, I, p. 110; MASSOLO, Logica, p. 38

(la negazione «entificata in sé»). Si legga l’intero § 97 dell’Enciclopedia (trad.Verra, p. 281), con le spiegazioni di LÉONARD, pp. 84 ss.: l’Essere per sé, come «re-lazione del negativo a sé» [relazione a sé = immediatezza; relazione del negativoa sé = immediatezza dell’Uno esclusivo o escludente l’altro], «è una relazione ne-gativa» a sé [= separazione, autoesclusione; cfr. anche Sdl, p. 948], «e quindi di-stinzione dell’uno da se stesso [= autodifferenziazione negativa dell’Uno], la re-pulsione [immagine ricavata dalla fisica del tempo!] dell ’uno [l’Uno immediatosi rapporta negativamente a sé respingendosi da sé (cfr. Sdl, p. 174), uscendo

fuori di sé, (ibid.)], ossia il porre [non il divenire di!] molti uno [vedi, nel testo, ilpasso che precede il rinvio alla n. 165]. Secondo l’immediatezza dell’essente persé [= dell’uno] questi molti sono essenti, e la repulsione degli uno essenti diven-ta in tal modo la loro repulsione reciproca come entità date o esclusione recipro-ca [= discontinuità assoluta]». Si legga anche l’aggiunta al medesimo § 97 (trad.Verra, p. 281): «quando si parla dell’uno, viene usualmente da pensare anzituttoai molti, e sorge allora la questione di dove vengano. A livello di rappresenta-zione tale questione non trova risposta, perché la rappresentazione considera imolti come immediatamente presenti, e l’uno unicamente come uno tra i molti;ma secondo il concetto invece l’uno costituisce il presupposto dei molti e la no-zione dell’uno implica il suo porsi come molteplice. In altri termini , l’uno essen-

te per sé, come tale, non è qualcosa di irrelato come l’essere, ma è relazione, pro-prio come lo è l’essere determinato; ma l’uno non si riferisce come qualcosa a unaltro, bensì come unità del qualcosa e dell’altro, è relazione a se stesso, e, preci-samente, questa relazione è relazione negativa. L’uno si mostra così come ciò cheè assolutamente incompatibile con se stesso, come ciò che respinge sé da se stes-so, ponendosi precisamente come il molteplice [cfr. BIARD, I, p. 110: l’Uno nonpassa nella molteplicità, ma è in se stesso molteplice]. Possiamo chiamare questaparte del processo dell’essere per sé con l’espressione figurata di repulsione... Delresto non si deve intendere il processo di repulsione come se l’unità fosse ciò cherespinge e il molteplice ciò che viene respinto; piuttosto l’unità, come prima ab-

 biamo osservato,

consiste proprio soltanto nell’escludere sé da se stessa

,e nelporsi come molteplice».

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372 HEGEL E ARISTOTELE

Resta, però, da vedere in che modo la prima repulsione si de-

termini a repulsione seconda (167). Ora, noi sappiamo anzitutto cheil ‘porre’ (Setzen) e l’‘esser posto’ (Gesetzsein) sono propriamente ca-tegorie dell’Essenza, e non dell’Essere. Se, dunque, i molti uno por-tassero esplicitamente la traccia della loro posizione da parte del-l’Uno, apparterrebbero alla sfera dell’Essenza. Hegel, dunque, af-ferma che, nella misura in cui gli uno sono essenti, «il divenir mol-ti, o il prodursi dei molti, svanisce immediatamente come venir po-

sto»,

ovvero questo esser-posto svanisce nella sua stessa posizionee, per così dire, si cancella nell’immediatezza della presupposizio-ne (168). Così i molti uno sono posti, «mediante la repulsione dell’unoda se stesso», e tuttavia, in quanto sono essenti immediati, «so-no posti come non posti», ovvero sono presupposti gli uni agli altri,senz’alcuna relazione ad altro e senz’alcuna differenza tra loro (169).In questo modo la molteplicità degli uno, in quanto ciascuno èpura relazione a sé, non è un’alterità, ma completa esteriorità reci-

proca; al limite che, al tempo stesso, congiungeva e separava ilQualcosa e l’Altro, cosicché ciascuno aveva in sé un essere-per-al-tro, si sostituisce qui il vuoto, una relazione tra i molti «che non èuna relazione» (170). L’unilateralità di questo momento della repul-sione si manifesta qui nella maniera più esplicita (171).

Infine Hegel mostra la natura speculativamente contradditto-ria dell’infinità e dell’Uno, nel prodursi dei molti. L’autorepulsionedell’Uno, o la posizione dei molti, e l’‘esplicazione’ o il dispiegarsi,

al livello dell’immediatezza e dell’esteriorità, di ciò che l’Uno è in

(167) Sdl, p. 174.

(168) Ibid. e LÉONARD, p. 87 n. 8.

(169) Ibid. e LÉONARD, p. 87. Cfr. anche WAH L,  Commentaires, p. 110;

MASSOLO, Logica , pp. 38 ss.; NIKOLAUS, Begriff , p. 61.

(170) Sdl, pp. 174 s. Cfr. anche B IARD, I, pp. 110 s.; MCTAGGART,  ACommentary, p. 39.

(171) BIARD, I, p. 111.

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373G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

sé  (172). Nella sua esteriorizzazione sotto forma di molti, l’Uno su-

pera quest’alterità e non si rapporta che a sé, e tuttavia lascia fuoridi sé i molti come un non-essere esterno. Pertanto il prodursi dellamolteplicità da parte dell’Uno definisce quest’ultimo come unaprocessualità in se stessa ‘contraddittoria’,  ‘neutrale’, per così dire,

rispetto ai suoi due lati: l’Uno si costituisce come uguale o identico ase stesso nella sua esteriorizzazione o autodifferenziazione. In questafase i molti non si sono ancora posti nella determinazione dell’Uno,

cioè come quella totalità infinita che l’Uno è per sé (173).

e) Ancora sull’ idealismo leibniziano e l’ atomismo — Nella nota seguen-te Hegel denuncia ancora una volta, in rapporto alla trattazionespeculativa del problema dell’Uno e del molteplice, le insufficienzedella filosofia di Leibniz e del pensiero atomistico (174).

A Leibniz Hegel rivolge due obiezioni. In primo luogoLeibniz si è attenuto unicamente al momento della repulsione odella posizione dei molti uno nella loro indifferenza reciproca. Cia-scuna monade è uguale a sé e chiusa in se stessa, ‘ideale’ in quantosottratta a ogni rapporto con l’altro: «la monade è per sé l’interomondo compiuto; nessuna ha bisogno delle altre» (175). Ora, inquanto la varietà ( Mannigfaltigkeit) non è in essa ideale se non nelsenso che è puramente interna (innen), questa idealità non apparecome il suo proprio processo e, viceversa, l’uguaglianza a sé della

(172) Sdl, p. 175. Cfr. LÉONARD, p. 86; VERRA, Letture, p. 159.

(173) Sdl, p. 175. Cfr. BIARD, I, p. 109 e n. 31; 111; inoltre MASSOLO, Logica ,p. 41; VERRA, Letture, p. 160: «la molteplicità degli Eins è l’infinità come prodursidella contraddizione, una contraddizione che sarà superata nella terza ed ultimasezione [Sdl, pp. 176 ss.], mostrando come in repulsione ed attrazione si deter-mini ulteriormente la dialettica di Eins  und Vieles in modo da superarne gliaspetti qualitativi e portare alla unità indifferente, quantitativa».

(174) Sdl, pp. 175 s. Cfr. BIARD, I, p. 111.

(

175

) Sdl,

pp. 175 s. Cfr. LEIBNIZ,

  Monad.,

§§ 7-9;

FAGGIOTTO,

 Il problema,

II,

pp. 32 s., e sopra n. 107.

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374 HEGEL E ARISTOTELE

monade non è il prodotto del processo di superamento dell ’alteri-

tà (176). In secondo luogo, Leibniz si trova nell’impossibilità di darconto della molteplicità e di spiegare perché la posizione di unamonade implica la posizione di una molteplicità di altre. CosìLeibniz ammette come un fatto la molteplicità già data, ma noncomprende che essa, per essere intelligibile e fondata, presupponela posizione dell’Uno (o della monade), in quanto la molteplicità èconseguenza dell’infinito respingersi dell’Uno da se stesso. In altre

parole,

Leibniz non coglie la molteplicità che come pura esteriorità,

senza comprendere quest’ultima come il risultato di un processo diesteriorizzazione dell’Uno, processo che è altrettanto il suo rappor-to infinito a se stesso (177).

Per quanto riguarda l’atomismo, Hegel è disposto a riconosce-re che il principio dell’Uno o dell’atomo è del tutto ideale (ideell) ,

appartiene interamente al pensiero, e che la filosofia di Leucipponon è affatto empiristica, ma è ‘idealismo’ in senso superiore, non

in quello soggettivo, ossia nel senso che, per Leucippo, la vera es-senza delle cose è il pensiero (178). Cionondimeno Hegel affermache «l’atomistica non ha il concetto dell’idealità» (179), ossia non co-glie l’Essere per sé nella sua verità ultima, cioè la sua idealità vera epropria. Quello che, anche in questo caso, manca è il carattere pro-cessuale dell’Essere per sé, ovvero il fatto che esso si pone comeidentità dei suoi momenti costitutivi, l’essere per sé e l’essere perlui. Tuttavia l’atomismo — ed è qui che si ha un progresso specula-

tivo rispetto a Leibniz — «oltrepassa la molteplicità puramente in-differente» (180); esso s’innalza all’idea di un rapporto reciproco dei

(176) Sdl, pp. 175 s. Cfr. BIARD, I, pp. 111 s.

(177) Sdl , p. 176. Cfr. BIARD, I, p. 112; inoltre LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, pp.140 s. nn. 87-88.

(178) Cfr. HEGEL,  JA, XVII, pp. 385 s.;  Lez. st. filos., I, pp. 334 s.; inoltreVERRA, Letture, p. 157.

(179) Sdl, p. 176.

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375G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

molti (benché in maniera incoerente rispetto alla dottrina, cioè col

ricorso a qualcosa di esteriore, come il caso o il clinamen) (181), ossiaall’idea di una determinazione della molteplicità come processoproprio dell’unità, rapporto che, in Leibniz, è posto soltanto in unariflessione esterna: quella della Monade delle monadi (Dio) o quel-la del filosofo (182).

La critica a Leibniz e all’atomismo mostra, dunque, l’unilate-ralità del momento della repulsione e la necessità di coglierne ora il

processo nella sua reciprocità dialettica con l’attrazione (

183

).

3. Repulsione e attrazione

a) L’ escludere dell’ Uno — Nella terza ed ultima sezione dell’Essereper sé Hegel mostra come la dialettica dell’Uno e dei molti superigli aspetti qualitativi mediante le nozioni (più complesse del con-

cetto di vuoto come principio di movimento) di repulsione e attra-zione (184), un rapporto che, in fisica, è attribuito alle forze, che,

come sappiamo, risale addirittura a Empedocle (che lo introducesotto forma di Amore e Discordia), ma che qui ha il senso pura-mente logico di ‘esclusione’ e ‘inclusione’ (185).

Trattando anzitutto del momento di esclusione interno allarepulsione (186), Hegel rileva che l’Uno respinge da sé i molti uno

(180) Ibid.

(181) Cfr. Enc., § 98 n.; Lez. st. filos., II, p. 461, e WAHL, Commentaires, p. 111;

VERRA, Letture, pp. 157 s.

(182) Sdl, p. 176. Cfr. BIARD, I, p. 112; inoltre LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 141nn. 92, 93, 96; VERRA, Letture , pp. 157 ss. e n. 23.

(183) Cfr. BIARD, I, p. 112.

(184) VERRA, Letture, pp. 149 s., 160.

(185) FLEISCHMANN, La logica, pp. 68 s. e n. 1.

(186) VERRA, Letture, p. 160.

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376 HEGEL E ARISTOTELE

da lui non generati, non posti. C’è una mutua e immediata repul-

sione dei molti uno. L’essere per sé dei molti uno si mostra come laloro autoconservazione, attraverso la mediazione della loro repul-sione reciproca (187).

In questa struttura processuale, in cui ciascuno dei molti unosi comporta, riguardo agli altri, come escludente, ossia non si con-serva che respingendo gli altri e, quindi, entrando con essi in unarelazione negativa, di modo che essi non si pongono che nella ne-gazione del rapporto con l’altro, riemerge innanzitutto la figuradialettica dell’Essere determinato (188).

Infatti, l’Uno non è per sé che nella misura in cui pone i molticome un momento di alterità, il cui superamento costituisce il suorapporto infinito a sé: essi, così, rappresentano per lui il momentodell’essere per uno. Ma, così facendo, lui stesso appare, in rapportoai termini che esso pone, come un altro essente determinato: inquanto si rapporta ai molti che esclude da sé, è un essere-per-altro.

I molti acquistano così la consistenza dell’essere determinato

,la de-terminatezza; il momento dell’alterità non è soltanto ‘ideale’, non è

solo contenuto nell’essere per sé dell’Uno, ma, per così dire, ridi-venta reale. Per il fatto che la repulsione è reciproca o relazionale,

ciascun termine non è più solo un momento del rapporto a sé del-l’altro; i molti «respingono questa loro idealità e sono»; i momentidell’essere per sé e dell’essere per uno, «che nell’idealità sono asso-lutamente uniti», ridiventano ‘separati’, divengono i molti uno (189).

Si produce così una scissione dell’unità che definiva l’Essere per sénella sua idealità, ossia una posizione nell’esteriorità dei momenticostitutivi di quest’ultima (190).

(187) Sdl, pp. 176 s. Cfr. RADEMAKER, p. 61, ed anche LÉONARD, p. 87 n. 8 (inquanto sono ancora essenti, l’esser-posti dei molti uno si cancella nell’immediate-za della presupposizione) .

(188) Sdl, pp. 176 s. Cfr. BIARD, I, pp. 113 s.

(189) Sdl, p. 177. Cfr. BIARD, I, p. 114.

(190) BIARD, I, p. 114.

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377G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

Sennonché questa risorgenza dell’Essere determinato e del-

l’alterità qualitativa è subito da Hegel ricompresa nel significatoconferitole dall’elemento in cui si sviluppa la dialettica dell’Essereper sé: quello del superamento di ogni determinazione qualitati-va (191). Infatti i molti uno si superano reciprocamente, cosicché cia-scuno è un semplice essere-per-altro, ma, nello stesso tempo, siconservano come tali che non siano per altro. Una siffatta contrad-dizione è all’origine della loro dissoluzione (192).

In effetti, in primo luogo, i molti uno, nel loro essere in sé,

sembrano diversi, sembrano essere solo relazione a sé e non rela-zione ad altro, ma in realtà sono identici: «tutti sono uno» (193). Co-me il Qualcosa e l’Altro erano tutt’e due degli Altri puri e semplici,assolutamente indiscernibili e dunque interamente identici, cosìqui i molti, dal momento che ciascuno è uno dei molti allo stessotitolo degli altri, sono la stessa cosa (194). In secondo luogo, i moltiuno sono identici nel loro porsi, nel loro negarsi reciproco, nellaloro ‘idealità’, ossia nel loro contenere in sé gli altri come ‘ideali’,come momenti (195). Ne deriva che gli uno non sono che «un’unicaunità affermativa» (196).

C’è, però, una seconda via proposta da Hegel alla speculazio-ne. Questa via non è più quella di un confronto esteriore degli unotra loro, di una nostra riflessione esterna su di essi, ma quella diuna considerazione oggettiva («occorre vedere [sehen] ecc.») di ciòche la repulsione è in se stessa (197).

(191) Ibid.(192) Sdl, p. 177 (e 176).

(193) Ivi, p. 177.

(194) Enc., § 98: «i molti... sono l’uno quello che è l’altro; ciascuno è uno, oanche uno dei molti; perciò sono la stessa cosa» (trad. Verra, p. 282). Cfr.LÉONARD, p. 88.

(195) Sdl, pp. 177 s.

(196) Ivi, p. 178.

(197

) Ibid. Cfr. Enc.,

§ 98:«

la repulsione considerata in se stessa,

come rap-porto negativo dei molti uno l’uno rispetto all’altro, è altrettanto essenzialmente

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378 HEGEL E ARISTOTELE

Ora, considerata in se stessa, la repulsione, in quanto esclu-

sione reciproca degli uno, è il rapporto negativo dei molti uno gliuni contro gli altri. Questo rapporto è certamente negativo, e tutta-via è un rapporto, e pertanto la repulsione, in quanto rapporto ne-gativo dei molti uno gli uni contro gli altri, è altrettanto essenzial-mente la loro relazione gli uni agli altri. Si tratta di vedere qualerelazione l’Uno, nel suo stesso atto di respingere, intrattenga con imolti uno che egli respinge. Ora, i termini a cui l’Uno si riferisce

nel suo respingere sono essi stessi degli uno. Dunque,

in essi l’Unosi riferisce a se stesso. La repulsione è perciò altrettanto essenzial-

mente attrazione. O, ancora, la repulsione è altrettanto non-repul-sione, e l’esclusione è inclusione o continuità assoluta. Di conse-guenza l’Uno esclusivo, nel quale culminava l’Essere per sé, e dun-que l’Essere per sé con lui, si supera; non sparisce senz’altro, ma di-venta un momento ‘ideale’ del continuo, dell’unità continua che èposta nell’unico Uno dell’attrazione. Infatti l’attrazione, come rap-

porto positivo d’identità degli uno esclusivi, non è altro che questoporsi in un unico Uno dei molti uno (198).

 b) La libertà astratta (il male) e la riconciliazione con l’ altro. La dialettica

 platonica del Parmenide — Nella nota Hegel in primo luogo applicaal mondo spirituale la concezione atomistica (ma anche il pensierodi Kant e Fichte), e la condanna in nome della riconciliazione (Ver-

la loro relazione reciproca» (trad. VERRA, p. 282; inoltre LÉONARD, p. 88. Vedi ancheFen., I, p. 75: «ma non solo secondo questo lato per cui concetto e oggetto, la misu-ra e ciò che si deve esaminare, si trovano nella coscienza stessa, diviene superfluauna nostra aggiunta, ma noi veniamo anche dispensati dalla fatica della compara-zione dei due elementi e del vero e proprio esame; cosicché, mentre la coscienzaesamina se stessa, anche per questo lato a noi resta soltanto il puro stare a vedere(das reine Zusehen)», e CHIEREGHIN,  Dialettica, p. 255, col richiamo a quello cheCézanne diceva di Monet: «Monet, ce n’est qu’un oeil, mais quel oeil!».

(198

) Enc.,

§ 98 e Sdl,

p. 178. Cfr. LÉONARD,

pp. 88 s.;

inoltre LABARRIÈRE

- JARCZYK, I, 1, p. 144 n. 105; BIARD, I, p. 115; MCTAGGART, A Commentary, p. 40.

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379G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

söhnung) con l’altro. ‘Atomismo’ vuol dire indipendenza dell’indi-

viduo, libertà individuale astratta e, in ultima analisi,  ‘male’ (das

Böse) (199). Se l’individuo si oppone alla società, o, più in generale, aquella totalità che è la sua essenza, nega se stesso, si distrugge (200).

Hegel ricorda poi l’«antica proposizione» che l’Uno è molte-plice e il molteplice Uno (201), una proposizione che compendia laposizione assunta dai pluralisti Empedocle, Anassagora e Demo-crito contro il monismo della scuola eleatica (‘il tutto è uno’) (202), e

che è stata ripresa con ben maggiore intensità speculativa nelParmenide di Platone. Hegel si richiama però a un’osservazione fat-ta in precedenza (203), notando che la verità dell’Uno e dei molti, seviene espressa in proposizioni, appare in una forma inadeguata.Tale verità va invece espressa soltanto come un divenire, come unprocesso, “repulsione e attrazione” per l’appunto, e non come l’esse-re «come esso è posto in una proposizione, quale quieta unità» (204),ossia quale copula che esprime solo l’identità del soggetto e del

(199) Si ricordi, in Anassimandro, l’‘ingiustizia’ cosmica della scissione deicontrari, a cui corrisponde, in campo giuridico, lo smodato possesso. Cfr. TODE-SCAN, Considerazioni, pp. 420 ss., 423.

(200) Sdl, p. 179. Cfr. VANNI ROVIGHI, pp. 111 s .; inoltre RADEMAKER, pp. 61 s. en. 84. Rademaker osserva che alla posizione esposta e criticata in Sdl, p. 179, si op-pone Sdl, p. 178: «il negativo rapportarsi reciproco degli uno è così nient’altro cheun fondersi con se stesso. Questa identità, in cui trapassa il loro respingersi, è ilsuperamento della loro diversità ed esteriorità, che essi invece, come esclusivi,dovrebbero affermare l’uno contro l’altro». Egli cita anche Prop., p. 236: «il rappor-to morale con l’Altro in generale, si fonda sull’originaria identità della naturaumana». Vedi inoltre WAHL, Commentaires, pp. 114 s.; MASSOLO, Logica, pp. 41 s.;LAKEBRINK, I, p. 135 (coi rimandi a Fen., II, pp. 184 ss.; Enc., § 512; Lez. filos. rel., III,p. 150: «la finitezza, nel suo essere-per-sé contro Dio, è il male (das Böse)»; vedi JA ,XVI, pp. 301, 346).

(201) Sdl, p. 179.

(202) Cfr. JOHNSON, The Critique, p. 29, con il richiamo alla critica antieleaticadel Sofista e del Parmenide.

(203) Sdl, p. 80.

(204) Ivi, p. 179. Cfr. VERRA, Letture, p. 150 n. 6.

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380 HEGEL E ARISTOTELE

predicato e prescinde dalla loro differenza (205). Hegel riconosce la

grandezza della trattazione platonica del problema del rapportotra Uno e molti nel Parmenide ,  là dove viene evidenziato come laquestione concerne quello che accade all’Uno quando necessaria-mente si rovescia nel molteplice o viceversa (206). Tuttavia, comesappiamo (207), Hegel non nasconde le sue riserve specialmente ri-guardo allo sviluppo dialettico della seconda ipotesi del Parmenide ‘ 

se l’Uno è’, in quanto processo di osservazione o riflessione ester-

na,

che presuppone come distinte le due nozioni di‘Uno

’e di

‘è’

estabilisce tra loro un confronto (208). Secondo Platone (209), la propo-sizione ‘l’Uno è’ contiene la molteplicità per il fatto che il verbo ‘è’ èdifferente dall’Uno (210). Ora, per Hegel, la dialettica platonica nonè «del tutto pura» (211) non tanto perché la proposizione ‘l’Uno è’

non sembra necessaria, bensì arbitraria (212), ma piuttosto perché lamolteplicità non viene dedotta dall’Uno stesso, ma dall’analisigrammaticale della proposizione. Il legame (213) tra l’Uno e il molte-

plice non sarebbe, dunque, essenziale, ma semplicemente linguisti-co (214).

(205) Sdl, p. 80.

(206) Lez. st. filos., II, pp. 213 s.; Enc., § 81 agg. 1 (trad. Verra, p. 251). Cfr.VERRA, Letture, p. 149, ed anche WAHL, Commentaires, p.115.

(207) MOVIA, Essere , p. 518.

(208) Sdl, pp. 179 e 92; Lez. st. filos., II, pp. 214 s. Cfr. VERRA, Letture, p. 149 e

n. 5.(209) Parm., 142 B-C.

(210) Cfr. MIGLIORI, Dialettica, p. 225: «il passaggio del verbo ‘essere’ dallafunzione di copula [prima ipotesi: ‘se l’Uno è Uno’] a quella di predicato verbalecomporta l’uscita dall’unicità dell’Uno-Uno e l’affermazione dell’Uno-Ente».

(211) Lez. st. filos., II, p. 215.

(212) Così, invece, crede GADAMER, La dialettica, p. 11.

(213) Lez. st. filos., II, p. 215.

(

214

) VIEILLARD

-BARON,

 Platon,

pp. 318 s. (e 314). Vedi,

dello stesso, Le Mêmeet l’Autre , pp. 133 s.

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381G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

Qualcosa di simile, avverte Hegel, si verifica anche nella pro-

posizione ‘il molteplice è uno’ di cui qui ci si occupa. È, infatti, lariflessione esterna che mostra che ciascuno dei molti (ognuno ester-no all’altro) è uno, che gli uno esclusivi s’identificano (215). Parados-salmente, la repulsione è ciò che pone gli uno come identici (216).Ora, l’attrazione non è altro che la presa di coscienza di questo fat-to, senza che (come si vedrà), a motivo di questo fatto, si debba tra-scurare la differenza tra gli uno (217).

c) L’ unico Uno dell’ attrazione — Se il momento di esclusione, internoalla repulsione, costituisce la realtà degli uno, all’inverso l’attrazio-ne, quale concentrazione e raccolta dei molti uno in un unico Uno,

ne rappresenta l’idealità (218). L’Uno (o, meglio, l’unità), che è il ri-sultato dell’attrazione in quanto posizione dell’indistinzione deimolti uno, non è più l’Uno immediato ed esclusivo da cui siamo

partiti, ma è l’Uno mediato, «l’Uno posto come Uno», che ha trasfi-gurato la realtà in idealità, l’Uno in cui si idealizza la realtà finitadei molti uno (219).

Come la repulsione è un  escludere dell’Uno che si riferiscesempre ad altri uno, e quindi una relazione dell’Uno a se stesso, e,

in questo senso, è essa stessa attrazione, la include come suo mo-mento costitutivo, altrettanto l’attrazione è il porre la distinzione

(215) Sdl , p. 179.

(216) LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 144 n. 111. Cfr. anche LÉONARD, p. 88.

(217) Sdl , pp. 179 s. Cfr. LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 144 n. 111; WAHL ,

Commentaires, p. 115.

(218) Sdl, p.180. Cfr. VERRA, Letture, p. 160; inoltre MCTAGGART, A Commen-tary, p. 40; LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 144 nn. 111 e 113; BIARD, I, p. 96; LÉONARD,

p. 89.

(219) Sdl, pp. 180 s. Cfr. LÉONARD, pp. 89 s.; inoltre HARTMANN, La filosofia , p.

430;

LABARRIÈRE

-JARCZYK,

I,

1,

pp. 145 n. 114;

146 nn. 119-21;

BIARD,

I,

pp. 117 s.;

MASSOLO, Logica, p. 43.

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382 HEGEL E ARISTOTELE

degli uno di cui essa è l’unità,  «l’idealità realizzata». L’attrazione

non ‘inghiotte’ gli uno che attrae in un solo punto, che sarebbe lamorte stessa dell’attrazione, l’estinguersi della sua tendenza in una«quiete inerte». In altri termini, l’attrazione non nega, «non superaastrattamente» gli uno che attrae, ma in tanto li può attrarre «inquanto contiene nella sua determinazione» interna «la negazionedi se stessa», la repulsione come suo momento costitutivo (220).

d) La relazione di repulsione e attrazione — Come il rapporto tra Unoe molteplice, così anche quello tra repulsione e attrazione non si la-scia ridurre all’interpretazione patrocinata dall’intelletto, secondola quale si tratta di termini tra loro indipendenti e rispetto ai qualiil rapporto «sopravviene estrinsecamente» (221). In particolare, larepulsione non è soltanto il vuoto; benché sia negativa, essa è es-senzialmente relazione. Il collegamento per cui gli uno si oppongo-no tra loro non è altro che l’attrazione, che si trova quindi nella re-pulsione stessa (222). Se, dunque, ciascuna di queste due determina-zioni presuppone dapprima solo se stessa, non si riferisce che a sé,

tale presupporsi di entrambe le determinazioni implica, poi, che«ciascuna contiene in sé l’altra come suo momento», ed è in ciò checonsiste la loro unità o identità speculativa (223).

L’unico Uno dell’attrazione si dimostra così come il culminedell’Essere per sé e della qualità (224). Questo nuovo Uno afferma,

(220) Sdl, pp. 181 s. Cfr. VERRA, Letture , pp. 160 s.; inoltre LABARRIÈRE-JARCZYK,

I, pp. 145 n. 116; 146 nn. 119-21.

(221) Sdl, pp. 181 s. Cfr. VERRA, Letture, pp. 148 s.; inoltre MASSOLO, Logica ,p. 42.

(222) Sdl, p. 182, e Enc., § 98. Cfr. VERRA,  Letture, p. 159 n. 23; inoltreMASSOLO,  Logica, p. 42; MCTAGGART, A Commentary, p. 41: se A è se stesso solo acondizione di non essere B, allora l’esistenza di B è essenziale ad A e la relazione ètanto positiva quanto negativa.

(223) Sdl, pp. 182 ss. Cfr. BIARD, I, p. 120; SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 136.

(224) Sdl, p. 184. Cfr. LAKEBRINK, I, p. 137.

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383G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

nei riguardi del molteplice, la sua infinità concreta; esso, a differen-

za dell’Uno iniziale e immediato, è la negazione della negazioneposta come tale, cioè, per l’appunto, come infinità concreta e me-diata. L’Uno, che si è negato nei molti uno, nega questa negazione esi pone così come infinita relazione a sé, come assoluta automedia-zione, in cui si idealizza la realtà finita dei molti uno (225). In altritermini, l’Uno, come Essere per sé compiuto, è la mediazione percui, negandosi, ovvero superando l’altro, i molti, si riferisce a sestesso e si congiunge con sé in una nuova immediatezza semplice:la quantità (226).

Il passaggio dalla qualità alla quantità si effettua precisamen-te perché il presupporsi reciproco di repulsione ed attrazione (227)ha consumato ogni residuo di alterità qualitativa tra i momentidell’Essere per sé, tra l’Uno e il molteplice, e «ha innalzato il qua-litativo a vera unità, cioè ad unità non più immediata, ma postacome concordante con sé» (228). Il quantitativo, dunque, può emer-

gere solo perché la qualità o la determinatezza in generale si con-clude con l’Uno. Dal punto di vista ontologico la qualità precedecosì la quantità, benché nella natura, che si presenterà successiva-mente, avvenga il contrario (229).

L’unità, che si è appena descritta, è essere affermativo o im-mediatezza mediata (a differenza dell’Essere iniziale), è essere de-

(225) Sdl, pp. 184 s. Cfr. LÉONARD, pp. 89 s.

(226

) Sdl, p. 185.(227) Ivi, p. 184.

(228) Ivi, p. 185. Cfr. VERRA, Letture, p. 161.

(229) Cfr. MOVIA, Essere, p. 519 n. 39. Vedi anche Enc., § 254 n.: «la natura...comincia non col qualitativo, ma col quantitativo, perché la sua determinazionenon è, come l’essere logico, il primo astratto e l’immediato, ma è già essenzial-mente il mediato in sé, l’essere che è esteriormente ed è altro» (trad. Croce, p.230) e LAKEBRINK, I, pp. 137 s.; inoltre MCTAGGART,  A Commentary, p. 41 (perHegel, la quantità costituisce un avanzamento rispetto alle forme più semplici e

rudimentali di qualità,

ma è una categoria inadeguata rispetto alle determina-zioni qualitative più complesse); WAHL, Commentaires, pp. 96 s.

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384 HEGEL E ARISTOTELE

terminato assoluto (a differenza dell’Essere determinato tematizza-

to nel secondo capitolo), ed è essere per sé (230); come Hegel si espri-me nell’Enciclopedia, «la determinatezza qualitativa... ha raggiuntonell’Uno il suo essere determinato in sé e per sé» (231). La determi-natezza qualitativa ha nell’Uno il suo essere determinato , perchél’Uno è la relazione del negativo a se stesso. Essa ha nell’Uno il suoessere determinato in sé e per sé  , giacché l’Uno è la relazione del ne-gativo a se stesso , vale a dire non più la vuota astrazione dell’essere-

in-sé della determinatezza qualitativa,

e neppure la relatività finitadel suo essere-per-altro, ma è la vera infinità della sua identità consé (essere-in-sé) come relazione negativa (essere-per-altro, essere-per-uno) a se stesso (essere-per-sé) (232). Ora, nell’attrazione, «l’Unoesclusivo o l’essere per sé si supera» (233). In tal modo la determina-tezza qualitativa, ovvero la qualità, «è... passata nella determina-tezza come superata» (234), cioè non nella pura indeterminazione,

ma nella determinazione che non determina più l’essere qualitati-

vo, cioè nel «limite che non è un limite» (235

), ovvero nella determi-natezza indifferente all’essere qualitativo e alla quale l’essere qua-litativo è indifferente (236).

Questa determinatezza superata e quest’essere che è indiffe-rente rispetto alla sua determinatezza, è l’essere che si continuanella sua uguaglianza a sé attraverso la determinatezza e nono-stante questa: è l’essere come quantità (237). Ad es., un campo resta

(230) Sdl, pp. 185 s.(231) Enc., § 98 (trad. Verra, p. 282).

(232) LÉONARD, p. 90.

(233) Enc., § 98 (trad. Verra, p. 282).

(234) Ibid.

(235) Sdl, p. 186.

(236) Ibid. e p. 195.

(237

) Enc.,

§ 98 e agg. 2; Sdl

,p. 186. Cfr. L

ÉONARD,p. 90

;inoltre L

AKEBRINK,I,

p. 137.

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385G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

un campo indipendentemente dalle sue determinazioni quantitati-

ve. Le sue variazioni di grandezza sono bensì determinazioni, madeterminazioni indifferenti ed estrinseche all’essere del campo. Laquantità limita il campo, ma non come campo; per l’appunto: è unlimite che non è un limite (238).

e) Critica alla costruzione kantiana della materia — Nella nota succes-siva Hegel critica la rappresentazione, proposta dalla fisica moder-na, dell’attrazione e della repulsione come forze separate e indi-pendenti, che si applicano dall’esterno ad un “terzo” (als in einem

Dritten) , la materia, costituendola come tale (239); non si può non ri-cordare qui l ‘espressione platonica trìton ti , usata ad esempio nelFilebo per designare il genere del ‘misto’ come unità di limite e illi-mitato (240). Ora, è merito di Kant, con la sua cosiddetta costruzionedinamica della materia, di aver rivendicato l’unità necessaria di re-

pulsione e attrazione, nonostante che tale riconoscimento non eli-mini, in Kant, la loro reciproca esteriorità e autosussistenza; lamanchevolezza principale della dottrina kantiana al riguardo è,

anzi, che tali forze vengono postulate come date e non vengono de-dotte (241). O, per meglio dire, la deduzione kantiana delle forze hail consueto significato di ‘legittimazione’ dell’uso di un concetto, enon ancora il senso hegeliano di ‘esposizione’ di ciò che è contenu-to in un concetto (242). Per Hegel, le due forze «sono soltanto mo-

(238) Sdl, p. 196. Cfr. Enc., §§ 92 agg., 98 agg. 2; inoltre LÉONARD, p. 90 n. 8.

(239) Sdl, p. 186. Cfr. WAHL, Commentaires, p. 119; RADEMAKER, p. 62; BIARD,

I, p. 97.

(240) PLATONE, Phil., 23 C 12-D 1. Cfr. WAHL, Commentaires, p. 119.

(241) Sdl, pp. 187 ss., 190; Enc., § 98 e agg. 1 (e le note di VERRA, pp. 283 s.),§ 262 n.; inoltre VERRA, Letture, p. 158; BIARD, I, pp. 127 s. Vedi i passi dei Primi

 principi metafisici della scienza della natura di Kant citati in HEGEL, GW , XXI, p. 422.

(

242

) LABARRIÈRE

-JARCZYK,

I,

1,

pp. 153 s. nn. 154-57. Labarrière-Jarczyk (I,

1,

pp. 154 n. 156, 160 n. 190) rilevano anche che Kant ‘deduce’ bensì l’attrazione e la

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386 HEGEL E ARISTOTELE

menti, che passano l’uno nell’altro», e questo, secondo Hegel, è in-

consapevolmente ammesso dallo stesso Kant (243); «la materia ri-sulta da quelle forze soltanto come da momenti concettuali, maessa è il presupposto per la loro apparizione» (244).

IV. La critica di Trendelenburg alla categoria dell’Essere per sé

1. Attrazione e repulsione e legame con l’ intuizione sensibile — Anchenel caso della categoria dell’Essere per sé la critica di Trendelen-

 burg intende colpire tanto il concetto hegeliano di negazione quan-to quello d’identità (245). Per il primo aspetto egli si occupa dellanozione di ‘repulsione’, cominciando peraltro col rilevare, da unpunto di vista generale, che l’attrazione e la repulsione non costitui-scono delle determinazioni logiche, ma delle «specie del movimen-

to nelle quali si è ancora soltanto espressa l’opposizione della dire-zione»; è impossibile intendere queste due nozioni «senza il movi-mento spaziale universale» (246). Ritorna qui la ben nota obiezionedi Trendelenburg alla logica hegeliana che pretende di essere privadi presupposti, mentre invece, per generare il processo dialettico,

repulsione a partire dal concetto di materia (impenetrabilità) derivato dall ’espe-rienza (cfr. Sdl, pp. 188, 192), ma non deduce, come crede Hegel (ivi, p. 187), lamateria a partire dalle due forze in questione. Cfr. anche B IARD, I, pp. 125 e 130:Kant presuppone una materia già data, precostituita, e semplicemente messa inmovimento dalle due forze (cfr. Sdl, p. 192; Enc., § 98 n.); Hegel teorizza invecel’unità dialettica di materia e movimento.

(243) Sdl, pp. 190, 192. Cfr. LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 159 n. 187; BIARD, I,p. 129: nello stesso discorso ‘intellettualistico’ kantiano si manifesta l’identitàdialettica delle due forze.

(244) Enc., § 262 n.; trad. Croce, p. 241.

(245) Cfr. MOVIA, Finito, pp. 646 ss.

(

246

) TRENDELENBURG,

 Log. Unt.,

I,

pp. 41 s. (cfr. trad. Verra,

p. 63 n. 10;

trad.Morselli, p. 11; SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, pp. 87 e 95).

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387G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

deve desumere surrettiziamente la rappresentazione del movimen-

to, ricavata dall’intuizione sensibile (247).Bisogna però ricordare (248) che la repulsione, per Hegel,

esprime solo il fatto che l’Uno si respinge da sé, esclude da sé l’altroe, quindi, implica la molteplicità, mentre l’attrazione esprime il fat-to che l’Uno, nella sua repulsione dell’altro uno, si riferisce solo a sestesso. Con i concetti di repulsione e attrazione Hegel non intendealtro che questo stato di cose logico. Non si tratta di proprietà o di

principi dell’essere materiale. Certamente

,come abbiamo visto

,

queste determinazioni possono servire alla comprensione concet-tuale di contenuti reali, come quello della materia spazio-tempora-le (249). Tuttavia, in quanto determinazioni logiche, non traggonoda lì la loro vera origine. La loro connessione con i contenuti dellarealtà viene da Hegel espressa in questi termini: «un’esistenzacome la materia sensibile non è certo un oggetto della logica, nonpiù che lo spazio e le determinazioni spaziali. Ma anche le forze at-

trattiva e repulsiva, in quanto si considerano come forze della ma-teria sensibile, hanno per fondamento le determinazioni pure del-l’Uno e dei molti qui considerate e quelle loro relazioni reciprocheche (essendo questi i nomi più alla mano) ho chiamato repulsione eattrazione» (250). La logica hegeliana, insomma, non considera la‘materia’ se non nella misura in cui in essa si esprimono le «deter-minazioni pure dell’Uno e del molteplice», e non in rapporto a ciòche in essa ha la caratteristica dell’immediatezza sensibile (251). An-

che in questo caso si potrebbe dire che, se le due forze fisiche costi-tuiscono il presupposto genetico o conoscitivo di quelle determina-

(247) TRENDELENBURG, Log. Unt., I, pp. 42 (cfr. trad. Morselli, p. 12; inoltreBERTI, La critica, p. 354; MOVIA, Essere, pp. 520 s.).

(248) Con SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 88.

(249) Cfr. Enc., § 262.

(250) Sdl, p. 187. Cfr. SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 88.

(251) LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 152 n. 151.

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388 HEGEL E ARISTOTELE

zioni logiche, esse, peraltro, trovano in queste ultime il loro pre-

supposto validativo e veritativo (252).

2. La repulsione e il concetto di negazione — Per ciò che riguarda piùspecificamente il concetto hegeliano di repulsione e il ruolo in essoesercitato dalla negazione, Trendelenburg affronta innanzitutto ilproblema della plausibilità della deduzione della ‘repulsione’, ossiadell’autodifferenziazione dell’Uno in molti uno. Il punto di parten-

za è il concetto dell’Essere per sé. Esso significa ‘autorelazione’, cheè il necessario risultato concettuale della dialettica del Qualcosa edell’Altro. L’Essere per sé è relazione a se stesso (253); non è più rela-zione ad altro, ma ha ormai assunto l’altro come suo momento.Quello che, per Trendelenburg (254), non si riesce a comprendere ècome “la relazione del negativo a sé” divenga una “relazione nega-tiva” a sé (255). Nella dialettica del Qualcosa e dell’Altro, mediantela negazione della negazione (256), è stata guadagnata la ‘posizione’

dell’Essere per sé; «non si vede come ora all’improvviso la relazionedel negativo a sé, dimenticando questo suo significato, si volga con-tro se stessa e diventi una relazione negativa che ‘frantuma’ (257) den-tro di sé il tutto (das Ganze) appena prodotto» (258). L’Essere si riferi-sce a se stesso e con ciò forma l’unità di un tutto. Com’è che comparela relazione negativa, la «distinzione dell’Uno da se stesso»? (259).

(

252

) Cfr. MOVIA,

 Essere,

p. 521 n. 66,

e HÖSLE,

 Hegel,

p. 27.(253) Enc., § 96.

(254) TRENDELENBURG,  Log. Unt., I, p. 49 (cfr. trad. Verra, p. 64; trad.Morselli, p. 21; SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 96).

(255) Cfr. Enc., § 97.

(256) Ivi, § 95.

(257) Sdl, p. 180: l’autoframmentazione o l’autofrantumarsi dell’Uno.

(258) TRENDELENBURG,  Log. Unt., I, p. 49 (cfr. trad. Verra, p. 64; trad.Morselli, p. 21; SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 96).

(259) Ibid. Vedi Enc., § 97.

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389G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

In secondo luogo, Trendelenburg ribadisce che, mentre la ne-

gazione è un concetto logico, la repulsione è un concetto ricavatodall’intuizione. Da un punto di vista logico è chiaro cosa sia la ne-gazione, ed anche la negazione della negazione, ovvero la ‘relazio-ne negativa a se stesso’ (260). Invece, «che l’‘Uno si nega in se stesso’

è del tutto incomprensibile, se non s’interpola (sich... unterschiebt)

l’intuizione che dice: ‘l’Uno respinge sé da sé’» (261). Certo, tra nega-zione logica (od opposizione tra contraddittori) (262) e repulsione

sussiste«

una vaga analogia»,

ma l’una non può

«essere scambiata

»

con l’altra senza far intervenire l’intuizione sensibile (263).Trendelenburg aggiunge ancora che il modo in cui Hegel

comprende concettualmente la repulsione contiene un presuppostoteorico che, a questo livello della logica, è privo di qualunque giu-stificazione: «nel concetto ‘l’Uno respinge sé da se stesso’ è conte-nuta non una semplice rappresentazione tratta dalla meccanica,

come potrebbe sembrare, ma già la difficile nozione di una libera

attività che opera in virtù di se stessa, di una sostanza che agiscepuramente da sé e su stessa». L’argomentazione hegeliana si basa,

dunque, su un concetto che non deriva né dalla negazione logicané dal fatto della repulsione ottenuto tramite l’intuizione, ma cheavrebbe bisogno di una trattazione più ampia. «Concetti di taleportata — conclude Trendelenburg — sono forse ottenibili così fa-cilmente?» (264).

(260) TRENDELENBURG,  Log. Unt., I, pp. 49 s. (cfr. trad. Verra, p. 64; trad.Morselli, p. 22; SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 96).

(261) TRENDELENBURG,  Log. Unt., I, p. 49 (cfr. trad. Verra, p. 64; trad.Morselli, p. 22; SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 96).

(262) TRENDELENBURG,  Log. Unt., I, p. 43 (cfr. trad. Verra, p. 59; trad.Morselli, p. 13).

(263) TRENDELENBURG, Log. Unt., I, pp. 49 s. (cfr. trad. Verra, pp. 64 s.; trad.Morselli, p. 22; SCHMIDT, Hegels Wissenschaft , p. 96) .

(264

) TRENDELENBURG,

  Log. Unt.,

I,

p. 50 (cfr. trad. Verra,

p. 65;

trad.Morselli, pp. 22 s.; SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 96).

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390 HEGEL E ARISTOTELE

Ora, riguardo alla critica di Trendelenburg, che ritiene illegit-

timo il passaggio dall’autorelazione all’autodifferenziazione del-l’Uno, bisogna osservare (265) che, nel concetto di relazione a sé, c’èanche un momento negativo. ‘Ciò che si riferisce a sé’ deve anzitut-to esser contrapposto a sé, altrimenti quell’espressione non avrebbesenso. Ma se si contrappone a sé, non può contrapporsi a sé checome un tutto. Non si tratta di due parti che si integrano a vicenda,

che si riferiscono l’una all’altra, e neppure di un Qualcosa che si

rapporta ad un Altro,

ma della relazione a sé del tutto come un tut-to. Nella contrapposizione, dunque, la negazione interessa ugual-mente il tutto. Ciò che si riferisce a sé si nega, «respinge sé da sestesso» (266). Quella che Hegel chiama ‘repulsione’ non è altro che ilmomento negativo dell’autorelazione dell’Essere per sé. Trendelen-

 burg, invece, pensa il negativo come qualcosa che è già dato e chesolo successivamente si riferisce a sé (267).

Diciamo meglio (268): l’unità dell’Essere per sé è, secondo

Hegel, il ‘luogo logico’ della determinazione, interamente astratta,dell’  ‘unità’ o dell’  ‘Uno’ (269). Nella relazione a sé il riferimento al-l’Altro, e quindi il mutamento, è superato. Pertanto, ciò che si rife-risce a sé non si può più intendere come il precedente Qualcosa,

non ha più un Altro al di fuori di sé: è ‘per sé’. Ma, per quanto ven-ga pensato come ‘privo di distinzioni’ e ‘immediato’, per l’appuntocome ‘Uno’ astratto (270), tuttavia nel ‘per sé’, da cui ciò che si riferi-sce a sé è determinato, c’è la negazione. È la negazione che conduce

il pensiero a concepire la pluralità degli uno indifferenziati. Non si

(265) Cfr. SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 117.

(266) Sdl, p. 174.

(267) SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 118.

(268) Ancora con Schmidt.

(269) SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 118.

(270) Sdl, p. 168; Enc., § 96.

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391G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

può pensare o, meglio, pensare a fondo l’Uno senza pensare insie-

me la pluralità degli uno (271).Il rifiuto, poi, di Trendelenburg di ammettere la negazione

all’interno dell’autorelazione diventa comprensibile solo se lo siconnette alla sua tesi generale della dipendenza dei concetti dall’in-tuizione sensibile (272). In questo modo la repulsione viene intesacome un evento che si verifica tra cose reali. Indubbiamente i ter-mini ‘repulsione’ o ‘autoframmentazione’ sono legati alla sensibilità

e,

quindi,

la loro scelta da parte di Hegel può non essere stata mol-to felice. Tuttavia egli ha sottolineato con grande chiarezza che, inquesto contesto, non si tratta di ‘cose’, del loro frammentarsi e simi-li, ma delle “pure determinazioni” considerate per sé, che, in primaistanza, non hanno nulla da spartire con l’intuizione sensibile (273).Hegel, anzi, mette esplicitamente in guardia contro un’interpreta-zione pesantemente realistica di tali nozioni, rilevando il caratterefigurato e simbolico del termine repulsione (274).

(271) SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 118.

(272) Ibid. Come sappiamo, la filosofia classica non ha mai negato che glistessi concetti metafisici siano permeati da esperienze fisiche! Cfr. GIACON, Le gran-di tesi, pp. 129 ss. (sull’origine e il valore delle idee).

(273) Sdl , p. 187 (cfr. anche ivi, p. 174: «la repulsione secondo il concetto»).

(274) Enc., § 97 n. (vedi sopra n. 166). Cfr. SCHMIDT, Hegels Wissenschaft , pp.118 s.; inoltre HARRIS,  Hegel’ s Logic , p. 237: risposta all’obiezione, d’ispirazionetrendelenburghiana, di Rosenkranz (vedi però in SAMONÀ, Dialettica, un cenno sul-la critica di Rosenkranz all’«empiria astratta» di Trendelenburg); MCTAGGART, ACommentary, p. 41; MURE, A Study, p. 56 n. 3; LABARRIÈRE-JARCZYK, I, 1, p. 152 n. 151;

VANNI ROVIGHI, La Scienza, pp. 111 e 113 (per Hegel, diversamente da Kant, bisognapartire dalla logica per determinare a quali condizioni la materia possa esistere);RADEMAKER, p. 61; LAKEBRINK, I, p. 136 (l’atto negatore del negativo, in quanto si di-rige verso se stesso, mette capo alla distinzione dell’Uno da se stesso, ossia allaposizione dei molti uno); BIARD, I, p. 124 (i diversi livelli del discorso hegeliano:

forza attrattiva/forza repulsiva,

coppia speculativa attrazione/repulsione,

livellologico delle pure determinazioni Uno/molteplice); JOHNSON, The Critique, p. 33.

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392 HEGEL E ARISTOTELE

3. L’ attrazione e il concetto d’ identità — Nell’affrontare la tematica he-

geliana dell’attrazione e della sua unità con la repulsione, Trende-lenburg (275) ricorda che, per Hegel, l’attrazione è il movimento concui la repulsione, determinata come negazione, viene ad identifi-carsi: «la repulsione è... altrettanto essenzialmente attrazione» (276).Ma proprio questo punto, secondo Trendelenburg, non è per nullaconvincente. Perché mai la repulsione deve includere in sé l’attra-zione?

Infatti,

in primo luogo — sostiene Trendelenburg—,

anche sei molti uno sono identici in rapporto alla loro origine, ossia all’uni-co Uno dalla cui autodistinzione tutti derivano (277), tale identitàsecondo un determinato aspetto non autorizza a parlare di un’iden-tità in senso assoluto (278).

Inoltre, pur se ciascuno dei molti uno esercita la medesimaattività, ossia la negazione reciproca (279), non per questo è legitti-mo affermare la loro concordanza e identità. Anche in questo caso

si tratta unicamente di un’identità sotto un aspetto particolare. Perdi più, non si comprende per quale motivo, in base a quest’identi-tà, si possa parlare di attrazione (280).

Infine, l’identità degli uno, che risulta dal fatto che «i terminia cui l’Uno si riferisce nel suo respingere, sono degli uno» (281), èl’identità in un termine di paragone. Gli uno che si escludono sonouguali in quanto sono tutti uno. Ma quest’identità non è un «fon-

(275) TRENDELENBURG, Log. Unt., I, pp. 61 s., 302 ss.

(276) Enc., § 98. Cfr. SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 125.

(277) Enc., § 97-98.

(278) TRENDELENBURG, Log. Unt., I, 302 s. Cfr. SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p.125.

(279) Sdl, p. 177.

(280) TRENDELENBURG, Log. Unt., I, p. 303. Cfr. SCHMIDT, Hegels Wissenschaft,p. 125.

(281) Enc., § 98; trad. Verra, p. 282.

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393G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

dersi con se stesso» (282), non è un’‘attrazione’. Si ritrova qui, con-

clude Trendelenburg, la medesima dimostrazione dell’identità delQualcosa e dell’Altro (283).

Bisogna rispondere (284) che l’interpretazione di Trendelenburgdell’attrazione hegeliana è una conseguenza pressoché inevitabiledella reificazione che egli opera della molteplicità degli uno (285).Sennonché le determinazioni della Scienza della logica non esprimo-no rapporti tra cose già date; il concetto dei ‘molti uno’ non va inte-

so come una moltitudine di‘cose

’. I concetti di

‘Uno

’e di

‘molti uno

devono esser considerati come determinazioni logiche e comemembri di una connessione logica. Di qui la loro mutua implica-zione o, per esprimere la cosa in maniera più dinamica, il ‘passarel’una nell’altra’ di entrambe le determinazioni (286).

Si è già visto sopra che il concetto di Uno, per Hegel, non sipuò pensare senza quello della pluralità degli uno, senza la «di-stinzione dell’Uno da se stesso» (287), e dunque senza la ‘repulsione’

degli uno. Il concetto di Uno postula quello dei molti uno e lo rac-chiude già in sé. Tuttavia con questo la dialettica dell’Uno e deimolti non è giunta ancora alla fine. Infatti la distinzione dell ’Unoda sé, come relazione negativa, è ugualmente relazione, cioè con-nessione e unità in questa distinzione (288). La relazione, come unitànella mutua distinzione degli uno, è l ’attrazione; senza quest’ul-

(282

) Sdl, p. 178.(283) TRENDELENBURG,  Log. Unt., I, pp. 303 s. Cfr. SCHMIDT,  Hegels Wissen-

schaft , pp. 125 s.

(284) Sempre con SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, I, pp. 135 s.

(285) Cfr. TRENDELENBURG, Log. Unt., I, pp. 61: «la comparazione sospesa so-pra le cose» (vedi trad. Morselli, p. 37); 304 s.: l’esempio delle formiche che esco-no dal nido!

(286) SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, pp. 135 s.

(287) Enc., § 97; trad. Verra, p. 281.

(288) Ivi, § 98.

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394 HEGEL E ARISTOTELE

tima il concetto di molteplicità non trova un’adeguata spiegazio-

ne (289).

V. Considerazioni conclusive

1) L’Essere per sé è la prima forma, la forma immediata, in

cui,

per Hegel,

si presenta il vero infinito. Come negazione dellanegazione ha, dunque, l’altro in lui stesso. Quali ‘esempi’ dell’Esse-re per sé Hegel adduce la coscienza e l’autocoscienza; la prima, inquanto, nel rappresentarsi l’oggetto, essa rimane presso di sé; la se-conda, in quanto essa esplicitamente riconosce sé nell’oggetto.L’eredità aristotelica presente in questi spunti hegeliani si palesaspecialmente nella nozione della coscienza come attività immanen-te.

2) Come infinità ricaduta nel semplice essere, l’Essere per séha il suo altro (l’essere per uno) come una sua integrazione o diffe-renziazione interna; il superamento dell’alterità qualitativa condu-ce ormai verso la dialettica della quantità.

3) L’Essere per sé è l’unità di se stesso e del suo momento,

l’essere per uno. Anzi, tanto l’essere per sé quanto l’essere per uno,

come momenti di un’unica idealità e infinità coincidente con la re-altà effettiva, sono entrambi ‘essere per uno’. Esempi paradigmaticid’idealità e infinità, e quindi dell’idealità di essere per sé ed essereper uno, sono, per Hegel, daccapo, l’Io, lo spirito e Dio; l’identità direale e ideale si attua pienamente solo nella struttura autoriflessivadello spirito. In un senso analogo, la metafisica classica ha sempreaffermato l’identità, in Dio, di natura e attributi (o ‘nomi’) e attività.

(289) Sdl , p. 184. Cfr. SCHMIDT, Hegels Wissenschaft, p. 136.

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395G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

4) Hegel mostra che il ‘principio dell’idealismo’, ossia dell’‘idealità del finito’ e dell’immanenza dell’essere per uno nell’Essereper sé non si trova ancora in Parmenide e in Spinoza, giacché l’es-sere eleatico e la sostanza spinoziana, come unità immobili, sono lanegazione astratta e non compiuta della determinatezza e quindinon si elevano ancora al piano della soggettività spirituale. Piùconcreto ed esplicito, benché mescolato a contenuti assunti dallerappresentazioni religiose, è invece l’idealismo di Malebranche,

con la sua concezione delle cose create come pensieri di Dio. Teori-camente più rigoroso è, per Hegel, l’idealismo di Leibniz, sebbenel’idealità della monade, come soggetto della rappresentazione, ri-manga esteriore, dipendendo dall’intervento divino. Infine l’ideali-smo di Kant e Fichte è meramente esigenziale e postulatorio, giac-ché lascia sussistere la cosa in sé nella sua alterità radicale.

5) L’Essere per sé, come unità semplice di se stesso e del suo

momento, l’essere per uno, è l’essente per sé, e quest’ultimo, assun-to nell’indistinzione dei suoi momenti, è l’uno; l’Uno — affermaHegel — è ciò che in se stesso è privo di distinzioni, un’indistinzio-ne necessaria perché poi si possa passare alla categoria della quan-tità. Si può avvicinare questa concezione hegeliana dell’Uno al-l’Uno trascendentale della metafisica classica, tanto nella versioneplatonica quanto in quella aristotelica, ossia all’Uno la cui essenzaconsiste nell’indivisibilità (290).

6) In un movimento logico che segna il passaggio, si potrebbedire, dall’Uno trascendentale a quello categoriale, ossia all’Uno cheintroduce ormai direttamente alla categoria della quantità, Hegelfa vedere che, a motivo dell’immediatezza dell’Uno essente, i suoi

(290) PLATONE, Resp., VI, 507 A 7 ss.; ARISTOTELE,  Metaph., V 6, 1016 B 3 ss.; X

1,

1052 B 15 ss. Cfr. REALE,

 Per una nuova interpretazione,

pp. 336 ss.,

452;

BERTI,

L’ uno, p. 166, e Il problema, p. 192.

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396 HEGEL E ARISTOTELE

due momenti, che, nonostante l’indistinzione dell’Uno, purtuttavia

gli sono costitutivi (la relazione a sé e l’alterità), a loro volta ricado-no nell’immediatezza, sono posti come essenti. L’idealità si rovesciacosì nella realtà, e all’Uno si contrappone un altro Uno.

7) Anzitutto, però, l’Uno considerato in se stesso, come sem-plice immediatezza, esclude da sé ogni diversità e molteplicità;

l’unica sua qualità o momento è il ‘vuoto’. Lo stesso vuoto, poi, si

cristallizza nella forma di un essente e si oppone all’Uno

,resta fuo-ri dell’Uno, pur situandosi entrambi (l’Uno e il vuoto) nell’elemen-

to della negatività che ne consentirà il superamento. Hegel riportale categorie dell’Uno e del vuoto all’atomismo antico, cui non esitaad attribuire un’affermazione speculativamente assai rilevante: checioè il vuoto non è qualcosa di estrinseco agli atomi, ma il fonda-mento del loro movimento. Il vuoto degli atomi diventa così un’an-ticipazione del concetto hegeliano di negatività, che è all’origine

dell’autoframmentarsi dell’Uno.

8) E in effetti, la relazione del negativo a sé, propria dell’Esse-re per sé e dell’Uno, si esplicita come relazione negativa o rapportoescludente; l’autorepulsione dell’Uno genera i molti uno; lungi dal-l’essere, come crederà Trendelenburg, semplicemente un concettoricavato dall’intuizione sensibile, la repulsione è un termine figura-to che designa il momento negativo dell’autorelazione dell’Essere

per sé. È, infatti, la stessa nozione dell’Uno — sostiene Hegel —che implica il suo porsi come molteplice, e lo è a motivo della nega-tività a lui già da sempre immanente, nonostante l’immediatezza el’indistinzione con cui dapprima Hegel lo aveva caratterizzato. Diqui si comprende la critica che Hegel rivolge a Leibniz: di aver am-messo la molteplicità delle monadi come già data e, per l’appunto,

di non averla concepita come una conseguenza necessaria dell’infi-nito respingersi dell’Uno da se stesso, un’idea a cui invece, secondoHegel, si è avvicinato l’atomismo antico.

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397G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

9) La repulsione, però, pur essendo un rapporto negativo dei

molti uno, è tuttavia sempre un rapporto, ed anzi un rapporto po-sitivo d’identità degli uno esclusivi. Da qui il loro porsi in un unicoUno, la loro attrazione. Quest’attrazione, però, non va intesa, comefarà Trendelenburg, come un’identità tra molte ‘cose’, ma comequel processo dialettico per cui la mutua distinzione degli uno è, altempo stesso, la loro unità.

È a questo punto che Hegel fa riferimento alla dialettica pla-

tonica del Parmenide. Nelle Lezioni sulla storia della filosofia egli rico-nosce a Platone il grande merito, specialmente nello sviluppo dellaseconda ipotesi del dialogo, di aver formulato la vera ed esatta dia-lettica dell’Uno e dei molti, secondo la quale l’Uno è insieme tantoUno quanto molteplice, e viceversa. Nel nostro capitolo, tuttavia,

ma anche nelle Lezioni , egli rimprovera Platone per aver dedotto ilmolteplice dall’Uno con una riflessione esterna, basata sulla meradistinzione linguistica tra l’‘è’ e l’‘Uno’ (291).

Ora, noi sappiamo che, per Platone (292

), ogni ente, intelligibi-le e sensibile, costituendosi come una sorta di ‘misto’ o di ‘sintesi’,ha per fondamenti ultimativi i due principi, originari e coeterni,dell’Uno e della diade indefinita, i quali si implicano reciprocamen-te. Il primo principio (gerarchicamente superiore, in virtù delparadigma metafisico henologico che Platone adotta: una cosa è, inquanto è una) è causa formale di determinazione, il secondo è causa‘materiale’ di molteplicità e gradazione degli enti. Secondo Platone,

però, l’Uno in sé e per sé, come principio indivisibile e assoluta-mente semplice, non è il molteplice, e, viceversa, la diade, comeprincipio di pluralità, non è l’Uno. Ciascun principio, al fine dellacostituzione degli enti, esige l’altro in maniera strutturale; non c’èunità che non sia unità di una molteplicità, e, viceversa, nessuna

(291) Lez. st. filos., II, pp. 212 ss.; Sdl, p. 179.

(292

) REALE,

 L’‘ henologia

’ ,pp. 113 ss.

; Per una nuova interpretazione

,pp. 214ss., 336 ss., 449 ss.; in ARISTOTELE,  Metafisica, I, pp. 218 ss., 303 ss.

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398 HEGEL E ARISTOTELE

molteplicità (che non sia puramente caotica e indeterminata) è

pensabile senza la partecipazione all’unità. Tuttavia, ciascun prin-cipio non è l’altro, ma è l’opposto polare (o, diciamo, contrario) del-l’altro. È, anche, assai importante ricordare tanto la polisemia (dav-vero protoaristotelica!) dei termini ‘uno’ e ‘molti’ che risulta dalParmenide (293), quanto i modi analogici, e non identici, in cui ladiade indefinita si esplica nei diversi gradi della realtà (294), sebbe-ne l’unità e la stabilità di significato di quei termini non siano date,

come per Aristotele, dal riferimento alla sostanza individuale, mavengano ultimamente garantite dai primi principi come sostanzeassolute e universali e come primi ‘concetti’ metafisici (295). Se tuttoquesto è vero, la tesi hegeliana che l’Uno, a motivo della negativitàche gli è immanente, è in se stesso molteplice, e che, viceversa, ilmolteplice è in se stesso uno, non è applicabile ai primi principi diPlatone.

D’altra parte, a Hegel basta trovare nel Parmenide l’afferma-

zione che, dicendo ‘l’Uno è’, io dico già i molti, per poter attribuirea Platone la tesi che in ogni determinazione è contenuta la contra-ria, che ciascuna di esse, anzi,  ‘trapassa’ nel suo contrario e che laverità è soltanto nella loro unità (296). In tal modo, per Hegel, Plato-ne si muoverebbe già nella direzione della dottrina dell’opposizio-ne immanente o costitutiva e della contraddizione dialettica (297).

Hegel, in tutto il capitolo dedicato all’Essere per sé, non no-mina mai, invece, Aristotele. Sul tema dell’Uno e dei molti in Ari-

stotele e in Hegel, limitatamente alla problematica del nostro capi-

(293) Cfr. MIGLIORI, Dialettica, pp. 226 n. 1, 304 s., 452 ecc.

(294) Cfr. REALE, Per una nuova interpretazione, pp. 628

(295) Cfr. MOVIA, Apparenze , p. 184 e n. 31.

(296) Lez. st. filos., II, p. 213 ss. Cfr. anche BEIERWALTES, Pensare l’ Uno, pp. 198s.; ISNARDI PARENTE, Noterelle, pp. 159 ss.

(297) Critica di quest’interpretazione hegeliana di Platone, per quanto ri-

guarda non solo il Parmenide,

ma anche il Sofista,

in BERTI,

 Contraddizione,

pp. 96 ss.Cfr. anche LANDUCCI, La contraddizione, p. 76, e MOVIA, Apparenze, p. 421.

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399G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

tolo, si potrebbero tuttavia fare almeno tre osservazioni. In primo

luogo, Hegel condivide il paradigma metafisico ontologico (prima-to dell’essere sull’uno: una cosa è una,  in quanto è) proposto dalloStagirita in alternativa a quello henologico di Platone, e, poi, svi-luppatosi con gli Arabi e con la scolastica medievale sino all’etàmoderna (mentre, in Grecia, è rimasto predominante il paradigmahenologico) (298). Per Hegel, come sappiamo, la prima categoriadella logica, fondamento e base di tutte le categorie successive (299),non è l’Uno (che è già una nozione più complessa e concreta), mal’Essere, benché si tratti dell’Essere assolutamente indeterminato enon certo dell’ente in quanto ente, ossia dell’ente polivoco di Ari-stotele.

In secondo luogo, a motivo delle convertibilità (ovvero coe-stensività e, insieme, connessione intensionale) dell’essere e del-l’uno, Aristotele, come può affermare l’immediata e originaria mol-teplicità dell’essere, che si divide anzitutto nell’essere per sé e nel-

l’essere per accidente, la stessa cosa può affermare dell’uno, essopure originariamente e immediatamente molteplice, una moltepli-cità, peraltro, che non esclude, ma anzi esige l’unità, ossia, e nelcaso dell’essere e in quello dell’uno, la relazione ad un termine uni-co: la sostanza (300). L’immediata, intrinseca, originaria molteplicitàdell’Uno è affermata anche da Hegel, con la differenza essenziale,

rispetto ad Aristotele, che, per lui, la molteplicità dell’Uno non dàluogo ad una pluralità di significati: secondo Hegel, i termini a cui

l’Uno si riferisce nella sua autoframmentazione sono essi stessi, peridentità, degli uno, cosicché, in essi, l’Uno si riferisce soltanto a sestesso. Certamente, per Hegel, l’identità degli uno (attrazione) è in-separabile dalla loro distinzione (repulsione), ma il presupporsi re-

(298) REALE, L’‘ henologia’ , pp. 113 ss.; in ARISTOTELE, La Metafisica, I, pp. 303ss.

(299) Cfr. MOVIA, Essere, p. 524.

(300) BERTI, L’ uno, pp. 173 s., 158, 168.

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400 HEGEL E ARISTOTELE

ciproco di questi due momenti non comporta una molteplicità di

significati dell’uno aventi un comune termine di riferimento, mapiuttosto, come sappiamo, la posizione di quell’unico Uno dell’at-trazione il quale, superando i molti, si congiunge con sé in unanuova immediatezza: la quantità.

In terzo luogo, non sarà inopportuno richiamare brevementeil punto di vista hegeliano sul cruciale tema dell’‘istante’ (to nyn) inAristotele, che ha un notevole rilievo anche per la problematica del

nostro capitolo (

301

). Hegel riferisce che lo Stagirita concepiscel’istante (allo stesso modo del punto e del limite in generale) (302)tanto come uno quanto come molti. Infatti, al tempo stesso, esso èsia l’unione sia la separazione del prima e del poi. Come si esprimeAristotele, nell’istante la divisione e l’unificazione (o continuità)sono la stessa cosa, ma la loro ‘essenza’ (to éinai) è diversa. Come inaltri casi (303), anche qui la dottrina aristotelica dell’identità reale edella differenza logica di due determinazioni opposte è sufficiente

a Hegel per attribuire ad Aristotele (come aveva fatto per Platone)il superamento del principio intellettualistico d’identità e per ritro-vare anche nello Stagirita la contraddizione dialettica: «identità enon identità sono per lui una sola e medesima cosa» (304).

(301) Cfr. ARISTOTELE, Phys., IV 13, 222 A 10 ss. e HEGEL, Lez. st. filos., II, pp.334 s. Nel corso del Convegno ha attirato la mia attenzione su questi passi l’ami-

co Prof. Renato Milan, che qui ringrazio. Sul problema vedi anche OWEN,Tithenai, pp. 83 ss.; WIELAND,  La fisica, pp. 408 ss.; RUGGIU,  Tempo, pp. 238 ss.;SAMONÀ, Dialettica , pp. 101 ss., 145 ss.; STEVENS, De l’ analogie , p. 167 (convergenzadi Aristotele e Hegel nella nozione di alterità essenziale del limite).

(302) Sulla concezione hegeliana del limite cfr. MOVIA, Finito, pp. 342 ss.

(303) Cfr., ad es., Lez. st. filos., II, pp. 326 s. (sull’attività e la passività nelmovimento), 331 (sull’unità e diversità della materia), 354 s. (sulla sensazione eil sensibile; vedi MOVIA , in ARIST., L’Anima2, p. 30), ecc.

(304) Lez. st. filos., II , p. 335. Critica dell ’interpretazione dialettica

dell’exàiphnes platonico e del nyn aristotelico in B

ERTI, Struttura

,pp. 317 s. e Con-traddizione, p. 203.

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401G. MOVIA - L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ essere per sé 

10) Allo stesso modo, dunque, che la repulsione include l’at-trazione, ovvero la relazione dell’Uno a se stesso, come suo mo-mento costitutivo, altrettanto l’attrazione, per non estinguersi inuna quiete inerte, è essa stessa repulsione, in quanto non può nonporre la distinzione degli uno di cui essa è l’unità. Mediante il pre-supporsi reciproco di repulsione e attrazione (che, secondo Hegel,lo stesso Kant, nella sua costruzione dinamica della materia, ha,

sia pure inconsapevolmente, ammesso), mediante la loro unità e

identità speculativa, l’unico Uno dell’attrazione, come Essere persé compiuto e concluso, nel superare e ‘idealizzare’ i molti, si rife-risce a se stesso in una nuova immediatezza semplice, la quantità:ovvero l’unità indifferente, quantitativa.

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APPENDICE

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(*) Docente di Filosofia nei Licei.

(**) Professore associato di Storia della lingua greca nell’Università di Ge-nova; Perito Traduttore presso il Tribunale di Bologna.

G.W.F. HEGEL

«CHI PENSA ASTRATTO?»

traduzione e commento di

FRANCA MASTROMATTEO (*) e LEONARDO PAGANELLI (**)

1. INTRODUZIONE

«Astrazioni, queste sono solo astrazioni!». Quante volte ci

siamo sentiti ripetere questa frase? Esiste nel grosso pubblico (chia-miamolo «opinione pubblica», «maggioranza dei benpensanti», osimili) una profonda diffidenza, anzi un forte disprezzo nei riguar-di del pensiero astratto. Questa diffidenza e questo disprezzo siesprimono nella critica nei confronti della filosofia (in particolare,

della metafisica) e — più in generale — di qualsiasi scienza chenon sia applicata. Tale atteggiamento è certo caratteristico dell’èracontemporanea, così infatuata per tutto ciò che è «tecnico» o «pra-

tico». Però è sorprendente notare che un simile habitus mentale nonè affatto un prodotto dei mass media contemporanei, ma era già fre-quente ai tempi di Hegel: a tal punto, che Hegel stesso sentì il biso-gno di satireggiare questo atteggiamento, stigmatizzando quel cheegli definiva — nella sua terminologia — la «cattiva» astrazione.

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406 HEGEL E ARISTOTELE

Hegel scrisse questo articolo a trentasei anni, quando era re-

dattore di un piccolo giornale locale: la «Bamberger Zeitung» (apri-le-luglio 1807). Contemporaneamente, egli portava a compimentola Fenomenologia dello Spirito , data alle stampe a Jena, poco dopo lacelebre battaglia vinta da Napoleone. Questo breve saggio fu poiripubblicato nel 1835, nell’Opera omnia hegeliana (1); ma solo nel1969, A. Bennhold-Thomsen e G. Schüler ne hanno dato alle stam-pe un’edizione critica, basata sul manoscritto autografo custoditonella Biblioteca Nazionale di Berlino (2). Per un singolare destino,

questo breve scritto è stato spesso sottovalutato dagli interpreti diHegel: esso piacque a Rosenkranz, a Bloch e a Löwith (3), ma fuconsiderato non più di un «Feuilleton» da H. Glockner (4). In Italia,

esso è stato tradotto da Togliatti (5), ma nessuno dei commentatoriitaliani lo ha incluso, né nelle bibliografie, né nelle antologiehegeliane. È forse giunto il momento per una rilettura critica.

2.TESTO

Pensare? Astratto? — Sauve qui peut! Si salvi chi può! — Giàsento gridare da una spia venduta al nemico, che va spifferandoche in questo articolo si parlerà di metafisica. Giacché «metafisica»,

come «astratto» e addirittura «pensiero», è la parola da cui ciascu-

(1) G.W.F. HEGEL, Werke , edd. D.F. FÖRSTER-D.L. BOUMANN, XVII, Berlin 1835,

pp. 400-405; cfr. ID.,  Sämtliche Werke (Jubiläumsausgabe) ,  ed. H. GLOCKNER, XX,

Stuttgart 1930, pp. 445-450.

(2) G.W.F. HEGEL, Wer denkt abstract? , ed. G. SCHÜLER, «Hegel-Studien», V(1969), pp. 161-164; A. BENNHOLD-THOMSEN,  Hegels Aufsatz: Wer denkt abstract? ,

ibid., pp. 165-199 (su questa editio critica è basata la nostra traduzione).

(3) K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel , trad.it., Milano 1974, pp. 371-372; E. BLOCH,

Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel ,  trad.it., Bologna 1975, pp. 27-28; K. LÖWITH,

Hegel e il Cristianesimo , trad.it., Roma-Bari 1976, pp. 101-102.

(4) GLOCKNER, op. cit., XX, p. XIX.

(5) G.W.F. HEGEL, Chi pensa in astratto? , trad.it. di P. TOGLIATTI, «Rinascita», XIV1-2 (1957), pp. 34-35 (senza note né commento); un commento storico-politico-lette-

rario a Wer denkt abstract? è contenuto in R. RACINARO, Sul concetto hegeliano di «astrat-to»: la riconciliazione alla Kotzebue , «Critica marxista», X (5) (1972), pp. 78-107.

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407G.W.F. HEGEL - Chi pensa astratto?

no si tiene lontano, più o meno come da un soggetto affetto da pe-

ste (6).Ma non abbiamo intenzioni tanto cattive, da voler qui spie-

gare che cosa sia il pensiero o che cosa sia l’astratto. Al bel mondo,

niente riesce intollerabile quanto le spiegazioni. Io stesso sono ab- bastanza atterrito quando qualcuno comincia a spiegare, perché —in caso di bisogno — capisco tutto da me (7). Comunque, lo spiega-re qui che cosa sia il pensiero e che cosa sia l’astratto ci è sembratocompletamente superfluo: il bel mondo, nella misura in cui cono-sce che cosa sia l’astratto, proprio perciò ne sta lontano. Nessunopuò desiderare — così come nessuno può odiare — ciò che non co-nosce (8).

E non abbiamo nemmeno l’intenzione di riconciliare il belmondo col pensiero o con l’astratto mediante uno stratagemma, equasi di contrabbandare il pensiero e l’astratto sotto l’apparenza diuna conversazione frivola: così da introdurre il pensiero e l’astratto

in società surrettiziamente e senza destare alcun sospetto, e da far-lo accogliere o — come dicono gli Svevi — da «infiltrarlo» (herein-

(6) Il saggio si apre con un attacco vivace, ironico e polemico. Dai tempi diHegel ad oggi, le cose non sono cambiate: l’atteggiamento collettivo nei confrontidella «metafisica», del «pensiero», dell’«astratto», è negativo, quasi che si trattassedi attività devianti, patologiche.

(7) Hegel polemizza contro un vizio tipico dell’opinione pubblica moderna,

cioè contro il disprezzo nei confronti della metafisica e delle astrazioni , ma anche

del pensiero stesso e delle spiegazioni. Quello che Hegel chiama ironicamente«bel mondo» (il pubblico dei media dei suoi tempi, cioè la buona società che legge-va i giornali e assisteva alle conferenze) prova una istintiva repulsione per le spie-gazioni, in quanto ritiene di sapere già abbastanza e di dover solo approfondirequello che già sa. Un simile pubblico non accetta spiegazioni, perché crede di po-ter «capire tutto da sé», anzi di aver già «capito tutto».

(8) Con questa massima lapidaria, di derivazione platonica, Hegel vuol diredue cose: il «bel mondo» crede di odiare l ’astratto, perché crede di conoscerlo; inrealtà non lo conosce, e perciò non è in grado né di desiderarlo, né di odiarlo. Iltono generale di polemica contro l’ignorante — che non si sente attratto da ciò che

non conosce,

e perciò è nel contempo «ignaro» e «ignavo» — è chiaramentedesunto dai dialoghi di Platone (cfr. Symp. 200 a-e, 204 a).

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408 HEGEL E ARISTOTELE

 gezäunselt werden) in società senza che questa stessa se ne accorga:

in modo che ora l’autore di questo stratagemma sveli l’ospite sino-ra sconosciuto, ossia l’astratto, che la società intera avrebbe sinoratrattato e riconosciuto — sotto un altro titolo — come un individuo

 ben noto. Simili scene di riconoscimento, mediante le quali il belmondo dovrebbe essere istruito contro la sua volontà, hanno in séun imperdonabile difetto: esse mirano a produrre confusione, e nelcontempo il loro regista mira a procurarsi un po’ di notorietà: sic-ché quella confusione e questa vanità ne annullano l’effetto, inquanto inducono a respingere un’istruzione pagata a così caroprezzo (9).

Comunque, la realizzazione di un simile progetto è già anda-ta a monte: giacché, per la sua attuazione, è necessario che la paro-la-chiave dello stratagemma non sia rivelata. Ma questa è già statasvelata dal titolo dell’articolo. Se questo articolo fosse stato scrittocon quell’intenzione nascosta, quelle parole non avrebbero dovuto

essere nominate sin dall’inizio: ma — come il ministro della com-media — per tutto il tempo della rappresentazione avrebbero do-vuto rimanere con la finanziera abbottonata, e solo all’ultima scenaavrebbero dovuto sbottonarla, e lasciar risplendere la stella al meri-to della saggezza (10). Qui, la sbottonatura di una finanziera metafi-sica non sarebbe stata così gustosa come la sbottonatura di una fi-

(9) Anche la satira delle «conversazioni frivole», attraverso le quali «il bel

mondo dovrebbe venire istruito surrettiziamente», appare estremamente attuale:ma Hegel non avrebbe potuto immaginare che due secoli dopo di lui , tanti pro-grammi radiotelevisivi sarebbero stati dedicati all’intento di «istruire contro vo-lontà», cioè di trasmettere contenuti più o meno culturali, sotto specie di «conver-sazioni frivole». In verità, Hegel osserva che si tratta comunque di operazionifraudolente, che non portano lode, ma biasimo all’autore della frode.

(10) Hegel fa riferimento a una commedia, al termine della quale un mini-stro si sbottona la finanziera e mostra una stella al merito, simbolo della sua sag-gezza, ma anche del suo potere politico ed economico. Secondo A. BENNHOLDT-THOMSEN,  op. cit., pp. 166-167, n. 5, si tratta della commedia Die Deutschen

Kleinstädter («I provinciali») di A. VON KOTZEBUE,

autore citato da Hegel in questostesso articolo. Alla stessa commedia allude E.T.A. HOFFMANN, Gli elisir del diavolo ,

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409G.W.F. HEGEL - Chi pensa astratto?

nanziera ministeriale, dato che quel che sarebbe apparso alla luce

del giorno, non sarebbe stato altro che un paio di parole, e dato che— per l’appunto — la parte più divertente dello scherzo sarebbestata necessariamente riposta nel fatto che esso dimostrava che lasocietà era già in possesso dell’oggetto stesso. Così, alla fin fine, lasocietà avrebbe guadagnato soltanto una parola, mentre invece lastella al merito del ministro significava qualcosa di reale: una borsapiena d’oro.

Il fatto che ogni persona presente sappia che cosa sia il pen-siero, che cosa sia l’astratto, è scontato in partenza nella buona so-cietà: e in questa ci troviamo. Pertanto, la sola questione è: chi è chepensa astratto? La nostra intenzione — come dianzi ricordato —non è di riconciliare la buona società con quest’oggetto, di indurlaad occuparsi di un argomento difficile, di insinuare nella sua co-scienza che sia cosa sconsiderata trascurare ciò che è degno — perrango e condizione — di un essere dotato della ragione. Piuttosto,

è nostra intenzione riconciliare il bel mondo con sé stesso, in quan-to esso non si dà coscienza di questa trascuratezza, ma del resto ha— perlomeno nel suo intimo — un cosciente rispetto del pensieroastratto, come di qualcosa di sublime. E pertanto se ne guarda, nonperché gli sembri una cosa troppo umile, ma perché gli sembra unacosa troppo sublime; non perché gli sembri una cosa troppo ordi-naria, ma perché gli sembra una cosa troppo distinta; o viceversa,

perché il pensiero astratto gli sembra una Espèce («singolarità»),

un’originalità, qualcosa con cui non ci si può mettere in mostra nel-la società comune, come con una nuova toeletta, o piuttosto qual-cosa con cui ci si può far scacciare dalla società o far ridere dietro,

come con un vestito miserabile, o anche con un vestito costoso che

trad.it., Torino 1979, p. 134. È evidente un’intenzione satirica nei riguardi della bu-rocrazia (lo strip-tease del ministro ha un chiaro significato comico-caricaturale).Hegel ha scelto di non seguire questo metodo: cioè di non svelare il segreto del

suo articolo solo al termine del saggio. Prosegue la polemica contro la «buona so-cietà», che crede di possedere la conoscenza e disprezza l’astrazione filosofica.

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410 HEGEL E ARISTOTELE

— pur contenendo antiche pietre preziose e un costoso ricamo —

abbia preso l’aspetto di una vecchia cineseria (11).Il solo problema è: chi pensa astratto? L’uomo ignorante, non

l’uomo colto (12). Per questo la buona società non pensa astratto:perché ciò è troppo futile, perché ciò è troppo umile (umile non peril ceto sociale); e non per una vuota forma di esaltazione, che di-sprezza ciò che non può fare, bensì per l’intrinseca bassezza dellacosa.

Il pregiudizio e l’allarme nei confronti del pensiero astrattosono così gravi, che gli individui dal naso fino cominceranno a su-

 bodorare qui una sorta di satira o di ironia; ma proprio perché essisono lettori abituali del «Corriere del Mattino» (Morgenblatt) , sannoche c’è un premio in palio per la satira, e che pertanto io farei me-glio a concorrere per cercare di guadagnarmelo, piuttosto che met-tere in piazza qui, senz’altro, i fatti miei.

(11

Qui Hegel corregge il tiro. Egli non sta accusando la «buona società» di«trascurare il pensiero astratto»: se così fosse, questo scritto avrebbe il carattere diuna esortazione morale rivolta al «bel mondo», che crede di sapere che cos’è la«filosofia astratta», e perciò la trascura. Ma Hegel non ha questa intenzionemoralistica. Egli si rende conto che il pubblico del suo tempo trascura la «filosofiaastratta» perché non serve a «mettersi in mostra in società». In una collettivitàinfatuata per l’immagine, per il look , il pensiero è moneta fuori corso, perché nonrende più appariscenti, ma ridicoli. Dai tempi di Hegel ad oggi, il filosofo è imma-ginato dai benpensanti vestito da «miserabile» come Socrate e Diogene, oppurevestito di «cineserie» come un maître à penser settecentesco: insomma, come unsoggetto impresentabile in società. L’autore lascia intendere che l’atteggiamento di

disinteresse del «bel mondo» nei confronti della «filosofia astratta» nasce in parteanche da un complesso di inferiorità.

(12) Con questo aforisma, Hegel scopre le carte. L’astrazione (s’intende, la«cattiva» astrazione) non è prerogativa del dotto, ma dell’ignorante. In effetti, l’in-tero saggio è una demistificazione della «cattiva» astrazione, vista come opinionetipica degli ignoranti, che sono poi la maggioranza (hoi pollói) ,  come affermavaPlatone. Quanto al pubblico dei media ,  l’autore osserva beffardamente che esso,

nella sua ignoranza, crede di non «pensare astratto», ma in realtà quanto più èignorante, tanto più pensa astrattamente, cioè per categorie fasulle, per clichés , perstereotipi. La tesi dimostrata da Hegel è paradossale, esattamente come certe

asserzioni dei dialoghi platonici,

e il paradosso è duplice. La gente ignorante ha inodio l’«astrazione filosofica»; eppure fa continuamente uso di «cattive» astrazioni.

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411G.W.F. HEGEL - Chi pensa astratto?

Mi è sufficiente portare solo degli esempi alla mia asserzione,

e poi tutti ammetteranno che essa è dimostrata. Dunque, un omici-da viene condotto al patibolo. Per il popolo ordinario, egli non ènient’altro che un omicida. Forse, le gentildonne notano che egli èun uomo aitante, bello, interessante. Il popolo ordinario trova mo-struosa questa osservazione: «Come?! Bello, un omicida? Come sipuò essere così malpensanti, da chiamare bello un omicida? Certo,

voi non siete molto meglio di lui!» «Tale è la depravazione dei co-stumi che regna fra la gente altolocata», soggiunge magari il sacer-dote, che conosce i cuori e l’intimo delle cose.

Un conoscitore dell’antropologia studia il modo in cui si èsvolta la formazione di questo criminale, e nella sua storia privata,

trova: una cattiva educazione; un cattivo rapporto fra il padre e lamadre in famiglia; per un piccolo precedente di questo individuo,

una severità addirittura mostruosa, che lo ha riempito di amarezzanei riguardi dell’ordinamento giuridico; un primo fallo di reazione,

che lo ha spinto contro questo ordinamento, e ha fatto sì che eglipotesse sostentarsi solo per mezzo del crimine (13). — Certo, c’ègente che quando sentirà ciò, dirà: «Costui vuole giustificare que-sto omicida!» Ebbene, io mi ricordo di aver udito, nella mia gio-ventù, un borgomastro che si lamentava che gli scrittori della cartastampata vanno troppo in là, e cercano di affossare il Cristianesimoe la legalità: ce n’era uno che aveva scritto un’apologia del suicidio:terribile, davvero terribile! Alla domanda successiva, saltò fuoriche si riferiva ai Dolori del giovane Werther (14).

(13) Secondo Hegel, di fronte all’esempio vivente dell’«omicida» vi sonodue atteggiamenti possibili. Da un lato, per la «cattiva» astrazione, l’«omicida» èsempre e solo un criminale, e se ne sta là, trafitto da uno spillo e convenientemen-te etichettato dal benpensante, che si rifiuta di esaminarne l’esistenza in modo«critico», ma lo giudica in modo dogmatico. D’altro canto — osserva Hegel,precorrendo la criminologia positivista — l’«omicida» è innanzitutto un essere ra-gionevole, che ha agito razionalmente, anche se la sequenza delle sue azioni lo hacondotto fuori dall’ordinamento razionale del diritto.

(14

Con questa boutade ,  Hegel vuol difendersi dall’obiezione volgare, se-condo cui chi spiega il movente di un delitto lo giustifica. Ma l’autore non mira a

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412 HEGEL E ARISTOTELE

Questo significa pensare astratto: nell’omicida non vedere

nient’altro che questo concetto astratto, ossia che egli è un omicida,

e a causa di quest’unica qualità cancellare in lui tutta la rimanenteessenza umana. In tutt’altro modo agì il mondo fine e sentimentaledi Lipsia. Esso coprì e coronò di ghirlande di fiori la ruota della tor-tura e il criminale che vi era legato. Ma questa è appunto l’astrazio-ne opposta. I Cristiani possono venerare una «croce fatta di rose»(Rosenkreuzerey) o meglio una «rosa fatta di croci» (Kreuzroserey) ,

possono incoronare la croce di rose. La croce è un patibolo e unaruota di tortura che è stata da tempo glorificata. Essa ha perduto ilsuo significato originario, quello di essere lo strumento di unapena infamante, e al contrario offre la rappresentazione del più su-

 blime dolore e della più profonda umiliazione, nonché della piùgaudiosa letizia e grazia divina. Invece la croce di Lipsia, inghir-landata di violette e di rosolacci, è una forma di riconciliazione su-perficiale alla maniera «kotzebuesca» (kotzebuische) , una specie di

contaminazione disordinata di sentimentalismo e cattiveria (15

).

questo. Egli rifiuta di considerare — dogmaticamente — un «omicida» come«nient’altro che questo concetto astratto». Egli non scusa il delitto, ma critica ildogmatismo in nome di una visione più alta, come Goethe non difende il suicidiodi Werther, ma lo studia con interesse «critico».

(15) Sconfinando in campo teologico, Hegel osserva che la croce ha da tem-po cessato di essere un simbolo del patibolo, per divenire il segno della misericor-dia di Dio. L’autore prende le mosse da questa osservazione per parlare delle «cro-ci fatte di rose» e dei fiori con cui i benpensanti di Lipsia coronarono il patibolodel criminale, senza per questo tralasciare di giustiziarlo. Qui l’espressione «rosafatta di croci» contiene un’esplicita allusione alla mistica dei Rosacroce, una settarinascimentale fondata da T.B. von Hohenheim, detto Paracelso (1493-1541), cheinfluenzò ampiamente Martin Lutero, Goethe, lo stesso Hegel e i suoi esegeti Ro-senkranz e Lasson (cfr. K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche ,  trad.it., Torino 1949, pp.40-44; H. KÜNG, Incarnazione di Dio , trad. it., Brescia 1972, p. 76; S. NATOLI, Erme-neutica e genealogia , Milano 1981, p. 23: «Il simbolo della rosa e della croce è quantomai illuminante per una interpretazione della filosofia di Hegel come filosofia del-la conciliazione»). D’altra parte, Hegel non può non considerare un’espressione di

farisaismo il gesto dei benpensanti di Lipsia,

che coprirono il patibolo del condan-nato di ghirlande di fiori, dimostrando così un «sentimentalismo» congiunto alla

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413G.W.F. HEGEL - Chi pensa astratto?

In tutt’altro modo, io sentii una volta una donna ordinaria,

una vecchia, una ricoverata in un ospizio, distruggere l’astrazionedell’omicida e farla rivivere per grazia. La testa decapitata del-l’omicida era rimasta sul patibolo, e splendeva il sole; la vecchiadisse: «Quant’è bello il sole della grazia di Dio (Gottes Gnadensonne)

che illumina la testa di Binder!» — «Tu non sei degno che il solet’illumini!», diciamo a un disgraziato con cui siamo in collera.Quella donna vide che la testa dell’omicida era illuminata dal sole,

e dunque ne era pur sempre degna. Essa lo esaltò dalla pena delpatibolo alla grazia del sole di Dio (Sonnengnade Gottes): non operòla riconciliazione offrendo le sue violette e la sua vanità sentimen-tale, ma vide l’omicida redento per grazia nella luce del sole (16).

«Vecchia, le sue uova sono marce!», dice la massaia alla mo-glie del droghiere. «Che cosa?», risponde questa. «Marce le mieuova? Marcia sarà lei! Proprio lei dice questo delle mie uova? Lei?Suo padre non è stato divorato dai pidocchi sullo stradone? Sua

madre non è andata coi Francesi? E sua nonna non è morta all’ospi-zio? — Costei si è fatta una sciarpa con una camicia intera! Si sa bene da chi ha ricevuto quella sciarpa e la relativa cuffietta! Se nonci fossero gli ufficiali, costei non sarebbe così tirata a lucido, e secerte gentildonne pensassero un po’ di più ai fatti loro, qualchedu-na sarebbe in galera! — Almeno costei pensasse a rattopparsi i bu-chi delle calze!» — In breve, la droghiera le fa il pelo e il contrope-

«cattiveria», paragonabile a quello di certi drammi del sopracitato von Kotzebue(cfr. RACINARO, op. cit.).

(16) Al farisaismo dei borghesi di Lipsia, Hegel contrappone l’atteggiamen-to di un’anziana donna del popolo, che rifiuta di considerare — dogmaticamente— l’«omicida» come «nient’altro che questo concetto astratto», e vede nella luce disole che illumina il patibolo un segno dell’infinita «grazia» (Gnade) di Dio. Questavecchietta contrappone al dogmatismo forcaiolo dei benpensanti una morale euna religione più profonde, più misericordiose, che del moralismo segnano il«superamento» alla maniera hegeliana. Caratteristico è l’uso — da parte di Hegel— di un vocabolo di origine teologica: Versöhnung , che significa letteralmente «ri-

conciliazione», «rappacificazione» e quindi «sintesi» (di Padre e Figlio, di Dio eduomo, di soggetto e oggetto, di tesi e antitesi: cfr. KÜNG, op. cit., pp. 152 ss.).

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414 HEGEL E ARISTOTELE

lo: pensa astratto, e la sussume (subsumieren) in base alla sciarpa,

alla cuffietta, alla camicia e così via, sino alle dita e alle altre partidel corpo, in base al padre e a tutta quanta la sua schiatta, solo peril crimine di aver trovato marce le uova; tutto, in lei, prende il colo-re di queste uova marce, mentre gli ufficiali di cui ha parlato ladroghiera (ammesso che ci abbiano a che fare, ma c’è da dubitarne)avrebbero preferito scorgere in lei ben altre cose (17).

E per passare dalla massaia al servitore, un servo non si trovamai così male, come presso un padrone di umili origini e di pochimezzi; e si trova tanto meglio, quanto più distinto è il padrone. An-che qui, l’uomo ordinario pensa più astratto: fa il superbo di fronteal servo e lo tratta solo come un servo: si attiene esclusivamente aquesto predicato (18). Il servo si trova benissimo presso i Francesi.Se l’uomo distinto è familiare col servo, il Francese gli è addiritturaamico. Quando sono soli, il servo ha l’ultima parola: si veda Jacques

et son maître («Giacomo il fatalista e il suo padrone») di Diderot: il

padrone non fa niente, se non fiutare tabacco e guardare l’orologio,e per il resto lascia far tutto al servo. L’uomo distinto sa che il servo

(17) Questo vivace bozzetto ci rappresenta dal vero che cosa Hegel intendaper «pensare astratto». La droghiera, che odia la massaia, la classifica appioppan-dole l’etichetta di pezzente, donna di facili costumi e poco di buono. Eppure que-sta massaia non è priva di virtù umane: Hegel sottolinea, ironicamente, che l’uni-ca sua colpa agli occhi della droghiera è quella di «aver trovato marce le uova».Nella mente dell’autore, il pensiero dogmatico sta al cospetto della filosofia comel’acredine di una donnetta di fronte a un vero «conoscitore dell’antropologia». La

critica di Hegel al dogmatismo filosofico risente ancora dell’influsso kantiano.(18) Nello scorcio di questo breve saggio, Hegel arieggia quella «dialettica

servo-padrone» che costituisce uno dei capisaldi più rivoluzionari della Fenomeno-logia dello Spirito (cfr. RACINARO, op. cit.). Egli osserva che «il padrone di umili originie di pochi mezzi» pensa astratto, in quanto tratta il servitore solo come un «predica-to», cioè lo etichetta e «a causa di quest’unica qualità cancella in lui tutta la rimanen-te essenza umana». Al contrario — nota Hegel con una punta di ironia nei riguardidi Diderot — tra i Francesi il servitore è trattato meglio che tra i Tedeschi, perchénon è visto come un servo, ma come un uomo (cfr. SENECA, Ep. 47,1). Tipicamentehegeliana è l’idea che il padrone non sia tale solo per un rapporto di forza: fa capoli-

no in queste righe il convincimento — altrove espresso nella Fenomenologia — che laservitù, per essere un’istituzione «reale», dev’essere «razionale».

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415G.W.F. HEGEL - Chi pensa astratto?

non è solo un servo, ma sa anche le novità in città, conosce le ra-

gazze, ha buone idee in testa; egli lo interroga su ciò, e il servodeve dire ciò che sa sull’argomento su cui il principale lo ha inter-rogato. Presso un padrone francese, il servo non deve fare soloquesto, ma anche porre sul tappeto gli argomenti, avere una suaconvinzione e sostenerla; e quando il padrone desidera qualcosa,

non comanda a bacchetta, ma deve prima dimostrare al servo lasua convinzione, e dargli una buona prova che la sua convinzioneha la prevalenza.

Nell’esercito si presenta la stessa differenza: in quello prus-siano, è lecito bastonare il soldato: costui è dunque una Canaille

(«canaglia»), poiché Canaille si definisce colui che ha il diritto passi-vo di essere bastonato. Quindi, il soldato semplice è per l’ufficialel’abstractum di un soggetto bastonabile, col quale deve obbligatoria-mente avere a che fare un signore in uniforme e Port d’ épée («portodi spada»): ed è come dar l’anima al diavolo (19)!

3. CONCLUSIONE

Commentando Wer denkt abstract? ,  Rosenkranz scriveva:«Con questo articolo Hegel voleva divertire una certa società e,

considerato lo scopo, il modo di procedere è piuttosto efficace» (20).Ma ridurre il presente articolo a un divertissement significa sottova-lutare la profondità dei concetti espressi da Hegel. Come hanno

 ben visto Löwith, Bloch e Adorno, l’idea dominante del presente

saggio è che «pensa in modo meramente astratto, nel senso negati-

(19) L’articolo si chiude con la leggerezza di una commedia di maschere. Ènoto che i Prussiani usavano bastonare i soldati e i civili (questa barbara consuetu-dine suscitava lo sdegno dei patrioti italiani del Risorgimento: cfr. l ’Inno diGaribaldi di L. MERCANTINI, v. 15: «Bastone tedesco l’Italia non doma»). Hegel, intono anti-autoritario, osserva che l’ufficiale prussiano è un vero campione del«pensiero astratto», in quanto considera i suoi soldati esclusivamente come «sog-getti bastonabili». Alla larga, alla larga — conclude l’autore — da codesti«pensatori astratti», che ragionano col bastone!

(20) ROSENKRANZ, op. cit., p. 371.

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416 HEGEL E ARISTOTELE

vo, proprio chi si immagina di pensare concretamente» (21). «In

Hegel al contrario l’astratto è ciò che vi è di più povero, l’in sé nonancora sviluppato; l’immediato diviene concreto solo in quantoviene mediato» (22). In effetti, «nell’uso linguistico abituale il termi-ne ‘concreto’ indica ciò che è immediato, che non è ancora passatoattraverso il concetto, mentre ‘astratto’ significa concettuale» (23);nel linguaggio hegeliano invece «‘astratto’ ha sempre il significatodi isolato. Hegel chiama sempre astratti dei momenti singoli nellamisura in cui compaiono senza prendere in considerazione il tuttodi cui fanno parte [...]. Concreto è per lui il tutto» (24).

Quindi, chi pensa «astratto»? Chi segue i pregiudizi, gli slo-

 gan , le mode correnti. La «cattiva» astrazione non è un difetto tipi-co dei filosofi, dei pensatori, ma — al contrario — del pubblico deimedia , che ragiona per luoghi comuni e non ama le meditazioni e lespiegazioni. «Cattiva» astrazione — per Hegel — è il moralismo daquattro soldi, il farisaismo dei benpensanti di Lipsia, che prima

crocifiggono e poi spargono lacrime e fiori sulla loro vittima.Polemizzando contro la «cattiva» astrazione, Hegel implicitamentefa l’apologia della filosofia in generale e della sua filosofia in parti-colare: quella stessa che proprio in quell’anno 1807 trovava il suocoronamento nella pubblicazione della Fenomenologia dello Spirito.

«Ci sono dunque» — secondo Löwith — «due maniere diver-se di astrarre: il positivo saper-prescindere da tutte le determina-zioni immediatamente date apriori , per mettere in rilievo le pure

determinazioni del pensiero, e, in secondo luogo, il prescindere ne-gativo da tutte le altre determinazioni […]. Il pensiero filosoficodeve evitare l’astrarre astratto per seguire l’astrarre concreto» (25).

(21) LÖWITH, Hegel e il Cristianesimo , cit., p. 101.

(22) BLOCH, op. cit., p. 26.

(23) T.W. ADORNO, Terminologia filosofica , II, trad.it., Torino 1975, p. 348.

(24) Ibid.

(25) LÖWITH, Hegel e il Cristianesimo , cit., pp. 101-102.

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Aubenque, P.: 106, 192, 208, 210, 212, 213,234.

Auletta, G.: 295.

Baader, F.X. von: 145, 182, 199.

Bacchin, G.R.: 104.

Baeumler, A.: 263.

Bardili, Chr.G.: 143.

Barnes, J.: 31, 46, 159, 200.

Barsotti, I.: 98.

Baum, M.: 142, 160-62, 170, 178, 191, 192.

Baumgarten, A.G.: 85, 262, 268.

Bayle, P.: 23, 83.

Beck , J.S.: 263, 277.

Beierwaltes, W.: 341, 398.

Bennhold-Thomsen, A.: 406, 408.

Bernoulli, D.: 85.

Berti, E.: 31, 57, 103, 105, 112, 113, 211,338, 341, 342, 362, 367, 370, 387,395, 398-400.

Bianca, D.O.: 75.

Adorno, T.W.: 415.

Agostino, s.: 262, 331.

Alberto Magno, s.: 262.

Alessandro di Afrodisia: 34.

Alfvén, H.: 171.

Allen, R.E.: 183.

Ammonio, pseudo-: 34.

Anassagora: 118, 121, 237, 379.

Anassimandro: 379.

Andronico di Rodi: 33, 35.

Annas, J.: 53, 167, 175, 176, 185, 187, 189,192.

Antifonte: 301.

Aquilecchia, G.: 191, 192.

Archimede: 72.

Aristone di Ceo: 33.

Aristotele: passim.

Aristotele, pseudo-: 60, 62.

Arrhenius, G.: 171.

Arnaud, E.: 338.

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420 HEGEL E ARISTOTELE

Bianco, B.: 339.

Biard, J.: 338, 346, 347, 352-56, 359-62,364-67, 369-76, 378, 381, 382, 385,386, 391.

Biasutti, F.: 52.

Bignami, L.: 52.

Bloch, E.: 181, 192, 406, 415, 416.

Bloch, K.F.: 369.

Bode, J.E.: 148, 150, 170, 171, 174, 175,178, 180.

Bodei, R.: 97, 106, 157, 277.

Boezio, S.: 184.

Bolland, G.J.P.J.: 29, 338.

Bonet, N.: 137.

Bonitz, H.: 33, 137, 199.

Bonsiepen, W.: 52, 54, 143, 147, 192.

Borruso, G.: 337.

Bostok , D.: 54.

Boumann,

D.L.: 406.

Bourgeois, B.: 145, 193, 337, 369.

Bradwardine, T.: 85.

Brague, R.: 211, 244.

Brinkmann, K.: 255.

Bröcker, K.: 295.

Bröcker, W.: 295.

Bruno, G.: 145, 146, 151, 165, 191, 192.

Bucher, T.G.: 174, 193.

Buchner, H.: 52, 145, 200, 277.

Buhle, J.G.: 140.

Busa, R.: 342, 356.

Cabanis, P.J.G.: 262.

Calabi, L.: 339.

Caletti, E.: 296.

Calogero, G.: 36.

Cammarota, V.: 295.

Cantillo, G.: 104, 278.

Cantor, G.: 59, 60, 72, 73, 98, 100, 101.

Carlini, A.: 320.

Casaubon, I.: 139.

Cassandre, F.: 136.

Cassirer, E.: 155, 193, 338, 359.

Castel, L.-D.: 150.

Cavalieri, B.: 10, 81, 96, 99.

Cazzullo, A.: 296.

Cesa, C.: 52, 199, 201, 337.

Cézanne, P.: 378.

Charlton, W.: 54.

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421Indice dei nomi

Cherniss, H.: 158.

Chiereghin, F.: 51, 52, 105-08, 193, 221,296, 337, 338, 348, 378.

Chiodi, P.: 332.

Cicerone, M.T.: 23, 156.

Codignola, E.: 29, 103, 200, 234, 298, 337.

Condillac, E.B.: 262.

Coreth, E.: 234, 315.

Cousin, V.: 153.

Croce, B.: 52, 129, 199, 337, 383, 386.

Cugusi, P.: 17.

D’Alfonso, M.: 201.

D’Arienzo, L.: 17, 21.

De Carolis, M.: 295.

De Flaviis, G.: 117.

De Gandt, F.: 148, 152, 162, 169, 177, 178,182, 193.

De Koninck , T.: 209, 211.

De Negri, E.: 104, 337.

De Vries, W.A.: 143, 193.

Dell’Asta, A.: 331.

Dedekind, J.W.R.: 72, 73, 98, 100, 101.

Democrito: 118, 120, 366, 367, 379.

Descartes, R.: 76, 147, 152, 254, 258, 262,

263, 268, 273-275, 324.

Di Giovanni, G.: 154, 193.

Di Tommaso, G.V.: 339.

Diderot, D.: 414.

Diogene Laerzio: 32.

Diogene di Sinope: 410.

Dijksterhuis, E.J.: 138.

Dodds, E.R.: 260.

Donini, P.: 314.

Dottori, R.: 339

Doz, A.: 337, 338, 344, 347, 364, 368.

Dubarle, D.: 193.

Düring, I.: 123, 125, 314.

Düsing, K.: 135, 159, 164, 189, 190, 193,244, 246, 278, 299, 339, 366.

Duns Scoto, G.: 137.

Eley, L.: 339, 343.

Empedocle: 120, 375, 379.

Eraclito: 366.

Erasmo da Rotterdam: 138, 139, 159, 234,237, 249.

Erdmann, J.E.: 339.

Eschenmayer, A.C.A.: 182.

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422 HEGEL E ARISTOTELE

Esposito, J.L.: 181, 201.

Euclide: 58, 63, 68, 70, 263.

Euler, L.: 85, 90, 96.

Faggiotto, P.: 342, 357-359, 373.

Feder, J.C.H.: 139.

Ferrarin, A.: 13, 15, 44, 106, 117, 135, 143,194, 232, 234, 240, 253, 299, 339,349.

Ferrini, C.: 12, 135, 147, 150-52, 160, 170,171, 177, 180, 186, 188, 191, 194.

Feuerbach, L.: 262.

Fichte, I.H.: 292.

Fichte, J.G.: 12, 15, 144, 147, 157, 161, 263,277, 280, 281, 292, 325, 354, 359,361, 378, 395.

Filopono, Giovanni: 34.

Findlay, J.N.: 168, 169, 179, 194, 339, 365.

Fleischhacker, L.E.: 54.

Fleischmann, E.J.: 339, 359, 364, 368, 369,375.

Förster, D.F.: 406.

Fowler, D.H.: 53.

Frajese, A.: 58, 73.

Frank , E.: 143.

Frege, G.: 46.

Freud, S.: 114.

Frigo, G.F.: 52.

Furley, D.J.: 201.

Gadamer, H.G.: 113, 244, 339, 380.

Galilei, G.: 10, 85, 99, 172.

Garniron, P.: 29, 200.

Gatti, M.L.: 338, 341.

Gebhardt, C.: 90.

Gentile, G.: 52.

Gentile, M.: 109.

Gentili, C.: 343.

Gerhardt, C.J.: 75.

Gesù Cristo: 161.

Giacon, C.: 342, 357, 359, 368, 391.

Giamblico: 184.

Gill, M.L.: 141, 159, 194.

Gilson, B.: 154, 194.

Giovanni Apostolo: 293.

Glockner, H.: 29, 200, 336, 406.

Gloy, K.: 203, 208, 221, 233, 236, 361.

Goethe, J.W.: 117, 145, 162, 412.

Graeser, A.: 191.

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423Indice dei nomi

Granello, G.: 52.

Grégoire, Fr.: 339, 368, 369.

Guthrie, W.K.C.: 123.

Guyer, P.: 359.

Haering, Th. 182.

Hamberger, J.: 199.

Hansen, F.-P.: 144, 195.

Harris, E.E.: 339, 351-53, 363, 364.

Harris, H.S.: 142, 144, 147, 154, 162, 163,170, 178, 181, 193, 195.

Harris, W.T.: 339, 345, 391.

Hartmann, N.: 143, 195, 339, 349, 350,359, 368, 369, 381.

Heath, T.: 53, 64.

Hegel, G.W.F.: passim.

Heiberg, I.L.: 58.

Heidegger, M.: 8, 14, 15, 23, 114, 123, 124,

131, 135, 212, 216, 260, 263, 266,268, 269, 286, 295-334.

Hélvetius, C.-A.: 262.

Hemsterhus, T.: 184.

Henning, L. von: 153.

Henrich, D.: 138, 195.

Herder, J.G.: 145, 146, 160.

Hermann, F.-N. von: 295.

Herschel, F.W.: 174.

Hintikka, J.: 53.

Hobbes, Th.: 262, 369.

Hölderlin, F.: 145.

Hösle, V.: 54, 141, 146, 170, 195, 339, 388.

Hötschl, C.: 195.

Hoffmann, E.T.A.: 408.

Hoffmann, F.: 199.

Hoffmeister, J.: 83, 203.

Hogemann, F.: 52, 336.

Hohenheim, T.B. von ( Paracelso): 412.

Horstmann, R.P.: 281.

Hume, D.: 262, 284.

Husserl, E.: 260, 268, 289, 348.

Hussey, E.: 54.

Isnardi Parente, M.: 339, 398.

 Jacobi, F.H.: 146.

 Jaeger, W.: 112, 221.

 Jaeschke, W.: 29, 52, 200, 336.

 Janicaud, D.: 136, 195.

 Jankélévitch, St.: 337.

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424 HEGEL E ARISTOTELE

 Jarczyk , G.: 185, 337, 345, 346, 351-55,

358-64, 370, 374, 378, 381, 382,385-87, 391.

 Johnsohn, P.O.: 339, 348-50, 359, 364, 366,367, 379, 391.

 Jung, J.H.: 260.

Kant, I.: 10-12, 14, 15, 52, 76-82, 84-87,

89, 96, 97, 100, 117, 129-31, 144,145, 147, 157, 160-62, 166, 167,253-93, 299, 354, 359, 378, 385,386, 391, 395, 401, 414.

Kassel, R.: 33.

Kearney, R.: 261.

Kenny, A.: 162, 195.

Keplero, G.: 148, 149, 155, 172.

Kern, W.: 135, 139, 195, 299, 315.

Kierkegaard, S.: 114.

Kimmerle, H.: 136, 145, 196, 278.

Klaucke, A.: 54.

Knaupp,

M.: 299.

Kotzebue, A. von: 408.

Kowalewski, G.: 90.

Krämer, H.: 342.

Krug, W.T.: 155-57, 165.

Küng, H.: 412, 413.

Kuhlmann, H.: 196.

Labarrière, P.-J.: vedi Jarczyck , G.

Lachterman, D.R.: 272.

Lagrange, J.L.: 10, 90, 96, 98.

Lakebrink , B.: 339, 343-48, 351, 352, 361,366, 368, 369, 379, 382-84, 391.

Landucci, S.: 339, 343-45, 347, 349, 357,398.

Laplace, P.-S. de: 150.

Lasson, G.: 336, 412.

Leibniz, G.W.: 11, 75, 76, 78, 85, 116, 131,254, 257, 262, 274-76, 288, 291,358, 373-75, 395, 396.

Léonard, A.: 339, 345, 348, 351, 361-63,365, 368-73, 376-78, 381, 383-85.

Lessing, H.-U.: 295.

Leucippo: 366, 367, 374.

Leutwein, C.P.F.: 138.

Levinas, E.: 15, 16, 330, 331, 333.

Liminta, M. T.: 338.

Locke,

J.: 262,

284.

Löffler, J.J.: 136.

Löwith, K.: 406, 412, 415, 416.

Lohr, C.H.: 137, 201.

Lombardi, F.: 24.

Lombardo-Radice, G.: 52.

Longato, F.: 143, 196.

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425Indice dei nomi

Longo, O.: 199.

Lucás, H.Ch.: 52.

Luciano di Samosata: 184.

Lugarini, L.: 52, 143, 152, 196, 337, 340.

Lukacs, Gy.: 209.

Lutero, M.: 412.

MacIntyre, A.: 23.

Maccioni, L.: 58.

Maimon, S.: 263, 277.

Malebranche, N.: 357, 358, 395.

Marcialis, M.T.: 17, 23.

Marconi, D.: 340, 356.

Marcuse, H.: 132.

Martelli, C.: 61.

Marx, K.: 114.

Marx, W.: 135, 196.

Massolo,A.: 144

,196

,340

,347

,351

,361-65, 370-73, 379, 381, 382.

Mastromatteo, F.: 17, 405.

Mazzarelli, C.: 338.

Mc Taggart, J.M.E.: 340, 352, 353, 370,372, 378, 381-83, 391.

Meazza, C.: 15, 16, 295.

Mehmel, G.E.A.: 146.

Melchiorre, V.: 343.

Menegoni, F.: 52.

Mense, A.: 140, 184, 196.

Mercantini, L.: 415.

Merker, N.: 52, 337.

Messeri, M.: 117.

Michel, K.M.: 52, 200, 203, 281, 336.

Michelet, K.L.: 29, 136, 151, 153, 190, 200,234, 298, 338.

Migliori, M.: 338, 342, 380, 398.

Mignucci, M.: 9, 22, 29, 46, 52, 53, 191.

Milan, R.: 7, 104, 400.

Mirri, E.: 201.

Mistretta, P.: 17.

Mörchen, H.: 268.

Moiso, F.: 145, 201.

Moldenhauer, E.: 52, 200, 203, 281, 336.

Monet, C.: 378.

Moni, A.: 104, 201, 337.

Montucla, J.E.: 149, 196.

Moraux, P.: 33.

Moretti, G.: 296.

Moretto, A.: 9, 10, 51, 52, 54, 65, 78, 81,85, 87, 91, 96, 99, 340, 358, 366.

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426 HEGEL E ARISTOTELE

Morrow, G.R.: 169.

Morselli, M.: 341, 350, 386-89, 393.

Moschetti, A.M.: 342, 350.

Movia, G.: 17, 54, 176, 191, 197, 210, 211,230, 254, 257, 315, 335, 338-40.

Mueller, I.: 53.

Muratori, L.A.: 262.

Mure, G.R.G.: 340, 348, 351, 356, 359, 391.

Murray, G.G.A.: 260.

Napoleone I Bonaparte: 406.

Napolitano Valditara, L.: 53.

Nasti De Vincentis, M.: 150, 179, 183, 191,194.

Natoli, S.: 412.

Nedel, A.J.: 340, 347.

Negri, A.: 114, 175, 183, 197.

Neuser, W.: 54, 170-72, 174, 177, 179, 180,182, 184, 197.

Newton, I.: 147-50, 152, 163, 172.

Nicola di Oresme: 85.

Nicolin, F.: 136, 197.

Nicomaco di Gerasa: 184.

Nietzsche, F.: 114.

Nikolaus, W.: 340, 360, 361, 366, 370, 372.

Nohl, H.: 161, 162, 200.

Oberti, E.: 337.

Oeser, E.: 155, 197.

Owen, G.E.L.: 342, 347, 400.

Owens, J.: 156, 197.

Pachimere, G.: 183, 184.

Paganelli, L.: 17, 405.

Palmer, L.M.: 169, 197.

Paolo, s.: 158.

Parmenide: 118, 120, 313, 357, 361, 366,

395.

Patzig, G.: 47.

Piazzi, G.: 171.

Pitagora: 12, 136, 137, 141-44, 148, 150,155, 160, 161, 167-73, 177-79, 181,183, 184, 188-91, 365.

Platone: 7, 8, 10-12, 16, 37, 60, 62, 96, 97,

99, 105, 113, 121-24, 130-32, 136,137, 139, 141-45, 148, 150, 152,155, 166-70, 172, 175-77, 179, 181,183-85, 187-89, 191, 192, 205, 206,213-15, 221, 224, 236, 239-41, 254,256, 309, 313, 331, 336, 338, 361,378-80, 385, 395, 397-400, 407,410.

Plebe, A.: 209, 210.

Plinio il Giovane: 160.

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427Indice dei nomi

Plotino: 211, 212, 262.

Plouquet, G.: 139.

Plutarco di Cheronea: 184.

Pöggeler, O.: 52, 145, 277.

Pomponazzi, P.: 137.

Porcheddu, R.: 11, 111.

Porfirio: 33.

Pozzo, R.: 138, 139, 142, 143, 197.

Prantl, C.: 36.

Proclo: 8, 169, 262, 263.

Proust, M.: 255.

Quintiliano: 269.

Racinaro, R.: 406, 413, 414.

Rademaker, H.: 340, 344, 347, 352, 354,360, 364, 369, 376, 379, 385, 391.

Radetti, G.: 282, 337.

Radice, R.: 338.

Rameil, U.: 52.

Reale, G.: 104, 106, 121, 158, 159, 200,201, 207, 249, 338, 341, 342, 361,395, 397-99.

Reinhold, K.L.: 189.

Reitz, J.F.: 184.

Richerz, G.H.: 262.

Riedel, M.: 23.

Ritter, C.: 37.

Rodier, G.: 175, 176, 197.

Romano, F.: 342.

Rorty, R.: 254.

Rosenkranz, K.: 97, 106, 139, 140, 160,183, 197, 391, 406, 412, 415.

Rosenzweig, F.: 333.

Ross, W.D.: 61, 123, 137, 158, 159, 176,184, 187, 197, 200.

Rousseau, J.-J.: 369.

Rudolph, E.: 236.

Ruggiu, L.: 55, 342, 400.

Russo, A.: 55, 64, 115, 122, 159, 200, 216,330.

Russo, G.: 260.

Ryle, G.: 254.

Salvucci, P.: 340.

Samonà, L.: 12, 13, 114, 203, 299, 340, 391,400.

Sanna, G.: 29, 103, 200, 234, 298, 337.

Sarleijmin, A.: 152, 198.

Sartre, J.-P.: 289, 348.

7/29/2019 Movia, Giancarlo - Mignucci, Mario (Ed), Hegel e Aristotele - Atti Del Convegno Di Cagliari, 1995

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428 HEGEL E ARISTOTELE

Schelling, F.W.J.: 12, 139, 142, 145, 153-

55, 157, 165, 181-83, 188, 200, 201,263, 277, 361.

Schelling, K.F.A: 201.

Schiller, F.: 160.

Schleiermacher, F.D.E.: 157.

Schleiden, M.J.: 170.

Schmidt, A.: 263.

Schmidt, J.: 340, 347, 350, 361, 382, 386-94.

Schofield, M.: 270.

Schopenhauer, A.: 114.

Schüler, G.: 406.

Schwegler, A.: 138.

Scott, A.: 142, 158, 198.

Seebeck , T.J.: 201.

Seidl, H.: 159, 198.

Seneca, L.A.: 414.

Serret, J.-A.: 90.

Sesto Empirico: 139.

Severino, E.: 342.

Shaftesbury, A.A.C. di: 160.

Simplicio: 87, 158.

Sini, C.: 296.

Skemp, J.B.: 158, 198.

Socrate: 7, 410.

Sorabji, R.: 53, 54.

Sossi, F.: 331.

Spiazzi, R.: 338.

Spinelli, A.: 61.

Spinoza, B.: 10, 11, 23, 76, 81, 91-93, 96,97, 99, 117, 151, 154, 162, 204, 262,

324-26, 334, 354, 357, 395.

Spondano, G.: 139.

Stamatis, E.S.: 58.

Steiger, K.F. von: 147.

Stelli, G.: 339.

Stenzel, J.: 112.

Stevens, A.: 340, 400.

Sylburg, F.: 139, 140.

Taminiaux, J.: 296.

Tannery, P.: 183, 198.

Taylor, Ch.: 341, 346, 347, 351, 354, 362,368.

Tennemann, W.G.: 23.

Tennulio, S.: 184.

Teone di Smirne: 184.

Tilliette, X.: 154, 181, 198.

Timpanaro Cardini, M.: 60.

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429Indice dei nomi

Titius, J.: 170, 171, 174, 175, 178, 180.

Todescan, F.: 343, 379.

Togliatti, P.: 406.

Tommaso d’Aquino, s.: 61, 137, 262, 275,356.

Toth, I.: 54, 91.

Trede, J.H.: 281.

Trendelenburg, F.A.: 341, 350, 386-93,396, 397.

Troxler, I.P.V.: 189, 190.

Ulrich, J.A.H.: 139.

Vaccaro, N.: 201.

Valveri, A.: 17.

Vanini, G.C.: 23.

Vanni Rovighi, S.: 341, 343, 344, 347-49,352, 354, 356, 357, 361, 362, 364-66, 379, 391.

Vardy, P.: 54.

Vasa, A.: 341, 366.

Verra, V.: 107, 135, 146, 151, 190, 198, 254,337, 339, 341-43, 346-51, 353-55,360, 361, 363-71, 373-75, 377-89,392, 393.

Vico, G.: 262.

Vieillard-Baron, J.-L.: 145, 150, 169, 178,

190, 198, 199, 341, 380.

Viganò, F.: 201.

Vitiello, V.: 295, 299.

Volpi, F.: 216, 295.

Wahl, J.: 341, 345, 348, 351, 357, 360, 361,

372, 375, 379-81, 383, 385.

Waschkies, H.J.: 53, 66, 68.

Waszek , N.: 160, 174, 182, 199.

Waterlow, S.: 141, 199.

Weiss, C.S.: 153.

Weizssäcker, C.F. von: 171.

White, M.J.: 54.

Wieland, W.: 211, 343, 400.

Wittgenstein, L.: 254.

Wolff , Ch.: 85, 262, 268.

Wolff , M.: 54, 221.

Zach, Baron von: 170.

Zeller, E.: 176.

Zenone di Elea: 10, 63, 71, 82, 83, 87, 100.

Zizi, P.: 10, 103.

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NOTIZIE SUI RELATORI

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MARIO MIGNUCCI (Milano, 1937): è professore ordinario di Storia della filosofiaantica nell’Università di Padova e nel King’s College di Londra. Scrittiprincipali: La teoria aristotelica della scienza, Sansoni, Firenze 1965; Il si-

 gnificato della logica stoica, Pàtron, Bologna 19672; Aristotele , Gli Analitici

 primi, trad., introd. e commento, Loffredo, Napoli 1968; Aristotele , Gli

Analitici secondi, trad. e note, Azzoguidi, Bologna 1970; L’ argomentazio-

ne dimostrativa in Aristotele. Commento agli Analitici secondi, I, Antenore,Padova 1975; Temporalità e verità nella filosofia greca, in AA.VV., Sapienza

antica. Studi in onore di Domenico Pesce, Angeli, Milano 1985; Boezio e il

 problema dei futuri contingenti , «Medioevo», 1987;  Plato’ s “ Third Man” 

Arguments in the Parmenides , «Arch. Gesch. Philos.», 1990;  The Stoic

Themata, in AA.VV., Dialektiker und Stoiker, Steiner, Stuttgart 1993; Am-monius on Future Contingent Propositions, in AA.VV., Rationality in Greek

Thought, Clarendon Press, Oxford 1996; Verité et pensée dans le De anima,

in AA.VV., Corps et âme. Sur le De anima d’ Aristote, Vrin, Paris 1996.

ANTONIO MORETTO (Asolo, 1943): è professore associato di Filosofia della scien-za nell’Università di Verona. Scritti principali: Hegel e la «matematica del-

l’ infinito», Pubblicazioni di Verifiche, Trento 1984; Questioni di filosofia

della matematica nella “ Scienza della logica” di Hegel, ivi 1988; Hegel’ s Au-

seinandersetzung mit Cavalieri und ihre Bedeutung für seine Philosophie der Mathematik, in AA.VV.,  Konzepte des mathematisch Unendlichen im 19.

 Jahrhundert, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1990; Hegel on Greek

 Mathematics and Modern Calculus, in AA.VV.,  Hegel and Newtonianism,

Kluwer, Dordrecht 1993.

PAOLO ZIZI (Sassari, 1949): è docente di Filosofia nel Liceo Scientifico “G.Spano” di Sassari. Scritti principali: La grecità heideggeriana come unità di

sapere. Saggio di filosofia teoretica, Poddighe, Sassari 1980; Ontologia della

libertà (tra Kierkegaard - Heidegger - Fabro), Unidata, Sassari 1987.

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434 HEGEL E ARISTOTELE

RAIMONDO PORCHEDDU (Ittiri, 1944): è docente di Filosofia e Pedagogia nell’Isti-

tuto Magistrale “Margherita di Castelvì” di Sassari e professore a con-tratto di Storia della filosofia antica nell’Università sassarese. Scrittiprincipali: La concezione platonica della storia tra decadenza e rinnovamen-

to, Stampacolor, Sassari 1986; Il tragico nell’ educazione e nella politica. Idee

 per una terza via, ivi 1990;  Mito e ragione nella dottrina platonica

dell’ anamnesi (Meno 80 d-81 e), «Sandalion», 1982.

CINZIA FERRINI (Livorno, 1956): è dottore di ricerca in Filosofia nell’Università“La Sapienza” di Roma. Scritti principali: Guida al De orbitis planeta-rum di Hegel ed alle sue edizioni e traduzioni, Haupt, Bern 1995 (in coll.con M. Nasti De Vincentis);  Scienze empiriche e filosofie della natura nel

 primo idealismo tedesco, Guerini e Ass., Milano 1996; Logica e filosofia del-

la natura nella Dottrina dell’essere hegeliana, «Riv. Stor. Filos.», 1991/92.

LEONARDO SAMONÀ (Palermo, 1950): è professore associato di Storia della filo-sofia nell’Università di Palermo. Scritti principali: Dialettica e metafisi-

ca. Prospettiva su Hegel e Aristotele, L’Epos, Palermo 1988;  Heidegger.

Dialettica e svolta, ivi 1990; Dalla rappresentazione al concetto. Religione e filosofia nelle lezioni berlinesi di Hegel, «Teoria», 1987; Filosofia e fede di

 fronte a Dio, «Filos. Teol.», 1993.

ALFREDO FERRARIN (Thiene, 1960): si è perfezionato in Filosofia presso laScuola Normale Superiore di Pisa. Scritti principali: Hegel interprete di

Aristotele, ETS, Pisa 1990; Husserl on the Ego and its Eidos (CartesianMeditations, IV), « J. Hist. Philos.», 1994; Kant’ s Productive Imagination

and its Alleged Antecedents, «Grad. Fac. Philos. J.», 1995.

CARMELINO MEAZZA (Sassari, 1961): dottore in Filosofia. Scritti principali: L’ oc-

chio e il testimone: dalla logica alla fenomenologia in Hegel , ETS, Pisa1992; Il Testimone del Circolo. Note sulla filosofia di Levinas, Angeli, Mi-lano 1996.

GIANCARLO MOVIA (Tolmino, 1937): è professore ordinario di Storia della filo-sofia antica nell’Università di Cagliari. Scritti principali: Anima e intel-

letto. Ricerche sulla psicologia peripatetica da Teofrasto a Cratippo ,

Antenore, Padova 1968;  Alessandro di Afrodisia tra naturalismo e

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435Notizie sui relatori

misticismo, ivi 1970; Due studi sul De anima di Aristotele, ivi 1974; Ari-

stotele , L’ Anima, trad., introd. e commento, Loffredo, Napoli 1979,19922; Essere Nulla Divenire. Sulle prime categorie della Logica di Hegel,

«RFNS», 1986/87; Apparenze , essere e verità. Commentario storico-filoso-

 fico al Sofista di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1991, 19942;  Finito e

infinito e l’ idealismo della filosofia. La logica hegeliana dell ’ Essere determi-

nato, «RFNS», 1994;  Scetticismo antico e antinomica kantiana. La logica

hegeliana della quantità, «RFNS», 1995;  Aristotele , L’ Anima, introd.,trad., note e apparati. Testo greco a fronte, Rusconi, Milano 1996.

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INDICE

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INDICE

PRESENTAZIONE.........................................................................................................................................

INDIRIZZI DI SALUTO

LUISA D’ARIENZO ...........................................................................................................................................

MARIA TERESA MARCIALIS ......................................................................................................................

RELAZIONI

MARIO MIGNUCCI, L’ interpretazione hegeliana della logica di Aristotele .......

ANTONIO MORETTO, Sul problema della considerazione matematica dell’ in-

 finito e del continuo in Aristotele e Hegel .............................................................

PAOLO ZIZI, Il concetto metafisico di “ intero”  in Aristotele e in Hegel ............

RAIMONDO PORCHEDDU, L’ idea aristotelica di natura nell’ interpretazione di

Hegel .....................................................................................................................................................

CINZIA FERRINI, Tra etica e filosofia della natura: il significato della Metafi-sica aristotelica per il problema delle grandezze del sistema solare

nel primo Hegel ...........................................................................................................................

LEONARDO SAMONÀ,  Atto puro e pensiero di pensiero nell’ interpretazione

di Hegel ..............................................................................................................................................

ALFREDO FERRARIN, Riproduzione di forme e esibizione di concetti. Immagi-

nazione e pensiero dalla phantasia aristotelica alla Einbildungs-kraft in Kant e Hegel ..............................................................................................................

Pag. 7

Pag. 21

» 23

Pag. 29

» 51

» 103

» 111

» 135

» 203

» 253

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440 HEGEL E ARISTOTELE

CARMELINO MEAZZA, Aristotele tra Hegel e Heidegger: tracce per una rico-

struzione ............................................................................................................................................

GIANCARLO MOVIA, L’ Uno e i molti. Sulla logica hegeliana dell’ Essere per

sé ..............................................................................................................................................................

APPENDICE

G.W.F. HEGEL, Chi pensa astratto?, traduzione e commento di FrancaMastromatteo e Leonardo Paganelli ..................................................................

INDICE DEI NOMI ....................................................................................................................................

NOTIZIE SUI RELATORI ......................................................................................................................

Pag. 295

» 335

Pag. 403

» 417

» 431

7/29/2019 Movia, Giancarlo - Mignucci, Mario (Ed), Hegel e Aristotele - Atti Del Convegno Di Cagliari, 1995

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441 Indice